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Movimento politico italiano fondato nel 1919 da B. Mussolini, giunto
al potere nel 1922 e rimasto al governo dell’Italia fino al 1943.
Per estensione il termine indica movimenti e regimi sorti in Europa
e in altri continenti, dopo la Prima guerra mondiale.
1. Le origini del f. in Italia
Le origini del f. si innestano nel processo di crisi e di
trasformazione della società e dello Stato, iniziato in
Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento con l’avvio
dell’industrializzazione, accompagnato da fenomeni di mobilitazione
sociale, che coinvolsero il proletariato e i ceti medi e diedero un
forte impulso alla politicizzazione delle masse. Alcuni motivi
culturali che contribuirono alla formazione del f. sono presenti,
alla vigilia della Prima guerra mondiale, in movimenti radicali di
destra e di sinistra (il nazionalismo, il sindacalismo
rivoluzionario, il futurismo). Le condizioni per la nascita e il
successo del f. furono però poste dalla guerra e dalle sue
conseguenze economiche, sociali, culturali e morali, che
accelerarono violentemente la trasformazione della società e
la crisi dello Stato liberale, suscitando nuove forze che non si
riconoscevano nella democrazia parlamentare. L’esperienza della
guerra, l’esasperazione nazionalistica per la ‘vittoria mutilata’,
il mito della rivoluzione bolscevica portarono alla radicalizzazione
della lotta politica, che esplose con episodi di vera e propria
guerra civile. Nonostante i propositi di rinnovamento, la classe
dirigente liberale fu incapace di far fronte all’irruzione di nuove
masse nella politica, alla gravissima crisi economica e alle
tensioni sociali durante il cosiddetto biennio rosso (1919-20),
quando si verificò un’ondata di conflitti di classe senza
precedenti nella storia del paese. La rapida successione di governi
deboli (1919-22) diffuse la sfiducia verso lo Stato liberale anche
fra i ceti borghesi che fino ad allora lo avevano sostenuto,
rendendoli disponibili a soluzioni autoritarie. Contro lo Stato
liberale scesero in campo anche nuovi movimenti politici che si
richiamavano all’interventismo e al mito dell’esperienza di guerra,
come il sindacalismo nazionale, il partito futurista, l’arditismo,
il fiumanesimo.
Il f. nacque nell’ambito di questi movimenti ma in principio non fu
il più numeroso e neppure il più influente. Il termine
‘fascio’ derivava dai Fasci di azione rivoluzionaria (1914), mentre
l’espressione ‘movimento fascista’ apparve nel 1915 su Il Popolo
d’Italia per definire un’associazione di tipo nuovo,
l’‘antipartito’, formato da ‘spiriti liberi’ che rifiutavano i
vincoli dottrinari e organizzativi di un partito. Il f. si
proclamava pragmatico e antidogmatico, anticlericale e repubblicano;
proponeva riforme istituzionali, economiche e sociali molto
radicali. I fascisti disprezzavano il Parlamento, esaltavano
l’attivismo delle minoranze, praticavano la violenza e la ‘politica
della piazza’ per sostenere le rivendicazioni territoriali
dell’Italia e combattere il bolscevismo. Nel primo congresso
nazionale (Firenze, 1919), gli iscritti erano poche centinaia. Dopo
la sconfitta elettorale del 1919 il f. iniziò un cambiamento
di rotta (congresso nazionale di Milano, 1920) per riproporsi, con
una conversione a destra, come organizzazione politica della
‘borghesia produttiva’ e dei ceti medi che non si riconoscevano nei
partiti tradizionali e nello Stato liberale, e come baluardo contro
il ‘pericolo bolscevico’ (tale svolta portò tuttavia alla
rottura con i futuristi, con gli arditi e con G. D’Annunzio). Il f.
fu artefice di una violenta offensiva antiproletaria condotta da
squadre armate organizzate militarmente (squadrismo) che nel giro di
pochi mesi distrussero gran parte delle organizzazioni proletarie
nelle province della Valle Padana, dove leghe ‘rosse’ erano giunte a
esercitare un controllo quasi totale sulla vita politica ed
economica.
La crescita del movimento, dopo il 1920, fu rapida: si trattava di
un aggregato di vari ‘f. provinciali’ concentrati soprattutto nelle
zone rurali della Valle Padana e in Toscana, mentre la presenza
fascista era scarsa nelle zone industriali e quasi inesistente nelle
regioni meridionali, salvo la Puglia. La borghesia agraria diede un
sostanzioso contributo allo sviluppo del f., mentre quella
industriale fu più esitante a sostenerlo. La classe operaia
rimase in gran parte refrattaria alla propaganda fascista, che
invece riuscì ad attrarre un consistente seguito fra i
lavoratori della terra che aspiravano alla proprietà e
volevano sottrarsi al controllo delle leghe rosse. Sociologicamente
il f. fu soprattutto una manifestazione della mobilitazione dei ceti
medi, sia tradizionali sia emergenti che, avendo dato un contributo
decisivo alla guerra, si consideravano i legittimi rappresentanti
della ‘nuova Italia’ cui spettava assumere la guida del paese. Ai
ceti medi apparteneva la grande maggioranza dei dirigenti dei Fasci
e dei capi dello squadrismo, come pure gran parte dei militanti.
2. Il Partito nazionale fascista
Forte della sua rapida affermazione, il f. partecipò alle
elezioni del 1921 nei Blocchi nazionali, patrocinati da G. Giolitti,
conquistando 35 seggi. Il vecchio statista pensava di porre fine
allo squadrismo ‘parlamentarizzando’ il f. ma, dopo il successo
elettorale, Mussolini recuperò libertà di azione,
mentre continuarono le violenze degli squadristi contro socialisti,
comunisti, repubblicani, popolari ed esponenti parlamentari. Il
governo Bonomi (1921-22) tentò di porre fine alla violenza
politica favorendo un ‘patto di pacificazione’ fra fascisti,
socialisti e dirigenti della CGDL. Attraverso l’accettazione del
patto, che aveva incontrato l’opposizione di molti esponenti dello
squadrismo, Mussolini voleva anche far valere la sua autorità
di capo sui ‘f. provinciali’, per porre un limite alle violenze
squadriste che, sconfitto il socialismo, rischiavano di isolare il
fascismo. Nel congresso di Roma (1921) Mussolini riuscì a far
accettare definitivamente il suo ruolo di ‘duce’ e la trasformazione
del movimento in Partito nazionale fascista (PNF). Dallo squadrismo,
il PNF derivò l’organizzazione e l’ideologia, assumendo
definitivamente il carattere di ‘partito milizia’. La cultura
politica degli squadristi rifiutava il razionalismo e assumeva, come
forma superiore di coscienza politica, la fede nei miti di una
religione laica fondata sul culto integralista della patria, sul
senso comunitario del cameratismo, sull’etica del combattimento e
sul principio della gerarchia. Il f. rivendicava una
diversità privilegiata dagli altri partiti, ponendosi al di
sopra delle leggi in nome della pretesa superiorità della sua
etica politica: chi si opponeva al f. era considerato un ‘nemico
della nazione’, contro il quale era lecita qualsiasi forma di
violenza.
Nel 1922, con oltre 200.000 iscritti, un esercito privato,
associazioni femminili e giovanili, sindacati con circa mezzo
milione di aderenti, il PNF era la più forte organizzazione
del paese. Esso esercitava un dominio incontrastato in gran parte
dell’Italia settentrionale e centrale, operando come un vero e
proprio ‘antistato’.
3. La marcia su Roma
Nella primavera del 1922, mentre la guida del paese era affidata al
debole governo di L. Facta, il f. riprese l’offensiva militare per
estendere il suo predominio su altre zone del paese e
moltiplicò gli attacchi contro le sinistre e il Partito
popolare, sfidando apertamente lo Stato liberale con mobilitazioni
di piazza e occupazioni di città. L’idea di una ‘marcia su
Roma’ maturò dopo il fallimento dello ‘sciopero legalitario’,
proclamato dall’Alleanza del lavoro per protestare contro il f. e
contro la debolezza manifestata dal governo nei suoi confronti. Il
PNF reagì con una violenta rappresaglia, distruggendo quel
che rimaneva delle organizzazioni operaie. Sottovalutando il
fenomeno, la classe dirigente, il mondo economico, le istituzioni
tradizionali ritennero necessario, per risolvere il problema del f.,
coinvolgere il PNF nelle responsabilità di governo,
inserendolo in una coalizione presieduta da un esponente della
vecchia classe dirigente.
Alla vigilia della marcia su Roma il duce proclamò che il f.
rispettava la monarchia e l’esercito, riconosceva il valore della
religione cattolica, intendeva attuare una politica liberista
favorevole al capitale privato e restaurare l’ordine e la disciplina
nel paese. Contemporaneamente il PNF si esibì in nuove
manifestazioni di forza, come l’occupazione di Bolzano e di Trento
(1-3 ottobre). Combinando la pratica terroristica con il compromesso
politico, il PNF mise in atto con successo una nuova tattica di
conquista del potere: la marcia su Roma (28 ottobre) dei fascisti
armati agli ordini di un quadrunvirato composto da I. Balbo, E. De
Bono, C.M. De Vecchi, M. Bianchi, fu un’arma di pressione e di
ricatto sul governo e sul re per indurli a cedere alle sue pretese.
Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare il decreto di stato
d’assedio, già promulgato da L. Facta, e il 31 ottobre
chiamò al potere Mussolini, con il proposito di incanalare le
forze fasciste nella legalità. Al governo parteciparono con i
fascisti esponenti liberali, popolari, democratici e nazionalisti.
Per la prima volta nella storia delle democrazie liberali europee,
il governo era affidato al capo di un partito armato che aveva una
modesta rappresentanza parlamentare, ripudiava i valori della
democrazia liberale, esaltava la militarizzazione della politica e
proclamava la sua volontà rivoluzionaria di trasformare lo
Stato in senso autoritario.
4. Il f. al potere
Il consolidamento del f. al potere avvenne attraverso diverse fasi.
Fino all’uccisione di G. Matteotti (10 giugno 1924), Mussolini
attuò una politica di coalizione con gli altri partiti,
assimilando le forze affini come l’Associazione nazionalista
(assorbita dal PNF nel 1923), servendosi dei mezzi legali di
repressione contro i partiti antifascisti e contenendo la violenza
squadrista. Nello stesso tempo, decise di togliere al PNF qualsiasi
autonomia per sottoporlo alle sue direttive. Nel 1922 istituì
l’organo supremo del partito, il Gran Consiglio del F. , di cui egli
stesso era presidente, esautorando di fatto gli organi dirigenti
nominati dal congresso del 1921. Con l’istituzione della Milizia
volontaria per la sicurezza nazionale (1923), legalizzò la
milizia fascista, ponendola sotto il suo diretto comando. Queste
misure non bastarono però a disciplinare il partito,
né a frenare l’anarchico illegalismo dei capi squadristi (i
ras) che continuavano a spadroneggiare nelle province.
Mussolini, al contrario degli ‘integralisti’ che volevano continuare
la ‘rivoluzione fascista’, mirava a consolidare il suo potere
attraverso il compromesso con la Chiesa e con il mondo economico. Le
elezioni politiche del 1924, avvenute in un clima di intimidazioni e
di violenze, assicurando una larga maggioranza al governo,
sembrarono far prevalere la politica mussoliniana, ma l’assassinio
di Matteotti e la conseguente secessione parlamentare della
maggioranza dei deputati antifascisti (Aventino), diedero un grave
colpo alla politica di coalizione e fecero vacillare il governo.
Furono allora i fascisti intransigenti che alla fine del 1924,
mentre il fronte dei fiancheggiatori cominciava a cedere, imposero
al duce la via della dittatura. Con il discorso di Mussolini alla
Camera (3 gennaio 1925), il f. entrò in una nuova fase di
consolidamento al potere, mentre una raffica di misure repressive
del governo e nuove violenze squadriste si abbatterono su partiti,
giornali, uomini politici e intellettuali antifascisti.
4.1 Lo Stato fascistaNel 1925 iniziò la trasformazione del f.
in regime a partito unico, con un complesso di leggi (elaborate in
gran parte da A. Rocco fra il 1925 e il 1929) nelle quali fu
affermata la supremazia del potere esecutivo e la subordinazione dei
ministri e del Parlamento all’autorità del capo del governo,
nominato dal re e responsabile solo verso di lui per l’indirizzo
politico del governo. Anche l’ordinamento dell’amministrazione
locale fu trasformato secondo il principio autoritario (l. 237/1926)
che pose a capo del Comune il podestà, rigidamente
subordinato al prefetto i cui poteri furono notevolmente accresciuti
(l. 660/1926). La libertà di organizzazione fu abolita (l.
2029/1925) e alla fine del 1926 i partiti, tranne il PNF, furono
messi praticamente fuori legge. La stampa venne fascistizzata, i
giornali di opposizione furono soppressi o cambiarono
proprietà. Nessuna forma di critica al governo, allo Stato e
ai loro rappresentanti era consentita (l. 2008/1926); fu
reintrodotta la pena di morte per i reati contro ‘la sicurezza dello
Stato’ e fu istituito un Tribunale speciale per giudicare i delitti
contro lo Stato e il regime.
Nel 1928 (l. 1019/1928) fu introdotto il collegio unico nazionale e
si attribuì al Gran Consiglio il compito di scegliere i
candidati alla Camera. Il Gran Consiglio assunse competenze di
rilievo in materia costituzionale e il compito di intervenire nella
successione al trono. Mussolini riuscì a porre fine
all’anarchia dei ras e a bloccare le ambizioni degli integralisti
come R. Farinacci, nominato nel 1925 (e liquidato nel 1926)
segretario del PNF, che con il nuovo statuto (1926) fu
definitivamente sottoposto agli ordini del duce e privo di una
propria volontà politica. Durante la segreteria di A. Turati
(1926-30), di G. Giuriati (1930-31) e soprattutto di A. Starace
(1931-39), il partito ampliò la sfera del suo controllo e
delle sue prerogative assumendo una posizione privilegiata nel
regime e nell’organizzazione delle masse.
Con la trasformazione del regime anche il sindacalismo fu
subordinato al controllo dello Stato. La l. 563/1926 vietò lo
sciopero e la serrata, e istituì la Magistratura del lavoro
per la soluzione delle vertenze fra lavoratori e datori di lavoro.
La Confederazione dei sindacati fascisti (1922), potente
organizzazione sotto la guida di E. Rossoni, subì nel 1928
uno svuotamento del proprio potere a vantaggio dei datori di lavoro,
e ciò fu solo in parte compensato dalla politica sociale e
assistenziale del regime (contratti collettivi, provvedimenti per
fronteggiare la disoccupazione, assicurazioni sociali,
organizzazione del tempo libero attraverso l’Opera nazionale
dopolavoro). Furono creati un ministero delle Corporazioni (1926) e
un Consiglio nazionale delle corporazioni (1930), ma le corporazioni
furono istituite solo nel 1934 e non realizzarono affatto la
collaborazione paritaria fra lavoratori e datori di lavoro, come era
negli intenti, e tanto meno diedero vita a una ‘nuova economia’.
In campo economico il f. adottò una politica protezionista,
ampliando in misura crescente, soprattutto dopo la crisi economica
del 1929, il controllo pubblico sulla finanza e sull’industria, con
iniziative come la costituzione dell’Istituto mobiliare italiano
(1931) e dell’Istituto per la ricostruzione industriale (1933), che
potenziarono l’interventismo statale nell’economia. La costituzione
del nuovo regime fu coronata, nel 1929, dalla conciliazione con la
Chiesa e dalle elezioni plebiscitarie.
Negli anni 1930, con la sempre maggiore personalizzazione del potere
da parte di Mussolini, il regime assunse sempre più il
carattere di una dittatura personale fondata sul mito del duce, sul
partito unico e su una complessa rete organizzativa per
l’inquadramento e la mobilitazione delle masse. Il mito di
Mussolini, personalità carismatica con straordinarie doti di
demagogo, fu il fattore principale del consenso che la maggioranza
degli Italiani manifestò verso il regime, soprattutto negli
anni fra il 1929 e il 1936. Il f. utilizzò inoltre
un’efficace macchina propagandistica per la valorizzazione
spettacolare dei successi del regime, come la ‘battaglia del grano’
e la bonifica dell’Agro Pontino. Per il consolidamento del regime e
l’ampliamento del consenso fu decisiva anche l’adesione di molti
intellettuali influenti, come il filosofo G. Gentile e lo storico G.
Volpe, che videro nel f. il realizzatore della ‘rivoluzione
nazionale’ e l’artefice di una ‘nuova civiltà’. La cultura
politica fascista affermò la risoluzione totale del privato
nel pubblico, con la subordinazione dei valori attinenti alla vita
dell’individuo al mito dello Stato come valore assoluto. Il f.
impose quindi l’indottrinamento alle masse e alle nuove generazioni,
inquadrate fin dall’infanzia nell’Opera Nazionale Balilla (1926).
Pur valorizzando il cattolicesimo come strumento di consenso, il f.
si considerò una religione laica della nazione e dello Stato,
reclamando dai cittadini una dedizione totale.
Fra il 1936 e il 1939, forte del successo della conquista
dell’Etiopia (1935-36) e della fondazione dell’impero (9 maggio
1936), che segnò il momento culminante del consenso degli
Italiani al regime, il f. accelerò il processo totalitario.
Momenti importanti di questa nuova fase furono l’istituzione del
ministero della Cultura popolare (1937); la creazione della
Gioventù italiana del littorio (1937), che unificava le
organizzazioni giovanili del regime affidando al PNF il monopolio
dell’educazione delle nuove generazioni; l’adozione, sull’esempio
nazista, di una legislazione razzista e antisemita (1938);
l’abolizione della Camera dei deputati, che fu sostituita con la
Camera dei fasci e delle corporazioni (1939); la svalutazione della
monarchia con l’istituzione della carica di primo maresciallo
dell’impero (1938), conferita tanto a Mussolini quanto al re.
Contemporaneamente, il regime riprendeva i temi populistici con
nuovi provvedimenti di politica sociale a favore dei lavoratori,
accompagnata dall’orchestrazione di una campagna antiborghese e da
nuove iniziative per la riforma del costume (abolizione del ‘lei’).
4.2 La politica esteraFino al 1935 la politica estera fascista aveva
mirato a conquistare maggiore prestigio e influenza in campo
internazionale con mezzi pacifici, cercando di far valere il peso
determinante dell’Italia nella politica europea, partecipando
all’attività della Società delle Nazioni e procedendo
d’intesa, in modo alterno, con la Francia e con l’Inghilterra.
L’avvento del nazismo in Germania (1933) non incontrò subito
le simpatie di Mussolini, allarmato dal nuovo revanscismo germanico.
Quando si verificò il tentativo di colpo di Stato nazista in
Austria (1934), Mussolini reagì inviando truppe al Brennero.
Tuttavia dopo la guerra d’Etiopia, cui si opposero Francia e
Inghilterra, Mussolini si avvicinò sempre di più alla
Germania (Asse Roma-Berlino, 1936), abbandonando la Società
delle Nazioni (1937) e partecipando alla guerra civile spagnola a
fianco di F. Franco (1936-39). Nel 1938 Mussolini approvò
l’annessione dell’Austria al Reich tedesco, e l’alleanza con la
Germania fu firmata il 22 maggio 1939. Nell’aprile l’Italia aveva
invaso l’Albania. Nonostante le esitazioni del periodo della ‘non
belligeranza’ dopo lo scoppio del conflitto europeo (1°
settembre 1939), Mussolini trascinò il paese in guerra il 10
giugno 1940.
5. La fine del regime
Le disfatte militari subite dall’Italia e l’invasione della Sicilia
da parte degli Alleati (10 luglio 1943) segnarono la fine del regime
fascista, già in piena crisi per la totale perdita di
consenso da parte della grande massa degli Italiani e la decisione
della monarchia, delle forze economiche e della Chiesa di cercare
un’uscita dalla guerra liquidando Mussolini e il fascismo. Una
disordinata successione di segretari alla guida del PNF negli anni
della guerra (E. Muti, A. Serena, A. Vidussoni, C. Scorza)
contribuì ad aggravare la decadenza del fascismo che
crollò dopo il 25 luglio 1943, quando il duce, sconfessato
dalla maggioranza dei gerarchi del Gran Consiglio, fu destituito dal
re e arrestato.
La Repubblica Sociale Italiana (Salò 13 sett. 1943-25 apr.
1945), creata dai Tedeschi dopo la liberazione di Mussolini, fu un
estremo tentativo di ridare vita al f. riconducendolo alle sue
origini repubblicane. Qui si imposero i gruppi più
intransigenti e più violenti del f., in parte emarginati
negli anni del regime, e furono sviluppate le tematiche antiborghesi
e socialisteggianti per dare al f. repubblicano un carattere
rivoluzionario anticapitalista, ma esaltando anche gli aspetti
irrazionali della militanza fascista, come il misticismo
nazionalistico, la sfida alla morte, l’etica del sacrificio, il
senso dell’onore, lo spirito guerriero, il culto della violenza.
Subordinato ai Tedeschi, che lo utilizzarono soprattutto nella
repressione antipartigiana, il f. repubblicano fu travolto dalla
vittoria degli Alleati e delle forze di Resistenza il 25 aprile
1945. Dopo la fine della guerra, l’esperienza del f. di Salò
fu, in larga parte, la matrice e il modello dei movimenti
neofascisti ricostituiti in Italia.
6. Il f. in Europa
Forze politiche analoghe al f. italiano, cui spesso si ispirarono,
sorsero fin dagli anni 1920 in quasi tutti gli Stati europei, e
negli anni 1930 si delineò un movimento fascista
internazionale che intrise della propria ideologia e del proprio
costume anche regimi tradizionali. Il f. internazionale si
presentò come reazione anticomunista e antirivoluzionaria, e
si giovò della crisi di credibilità delle democrazie.
Anche a causa della recessione dei primi anni 1930, l’espansione del
f. in Europa avvenne con la presa del potere del partito
nazionalsocialista in Germania (1933), che approfondì la
crisi dell’equilibrio seguito alla Prima guerra mondiale,
alimentando le pulsioni destabilizzatrici presenti in molti paesi.
In Austria – dove erano presenti fin dal dopoguerra le Heimwehren
(«milizie patrie»), ispirate al f. italiano e da questo
sostenute – la semifascistizzazione del paese fu avviata dalla
cancelleria di E. Dollfuss con il varo della Costituzione
corporativa del 1934, cui contribuì fortemente anche
l’apporto del cattolicesimo. La carta del f. fu dunque giocata in
chiave conservatrice ed ebbe funzione di opposizione alle mire
espansionistiche della Germania, finché il rafforzarsi del
partito nazionalsocialista austriaco e l’alleanza
politico-diplomatica tra Italia e Germania posero le basi
dell’Anschluss (1938), che segnò l’ormai acquisita egemonia
politica del nazionalsocialismo.
Per qualche verso analoga fu l’evoluzione degli Stati baltici: dal
1926 la Lituania e dal 1934 l’Estonia e la Lettonia sperimentarono
governi nazionalisti che guardavano con simpatia al f. italiano.
In Portogallo, il regime autoritario, illiberale e corporativo di A.
Salazar non venne edificato con il supporto di movimenti di massa,
ma si innestò sul regime militare inaugurato nel 1926 dal
colpo di Stato del generale Ó. de Fragoso.
Altro passo decisivo all’espansione del f. in Europa fu la guerra di
Spagna (1936-39), dove già la dittatura di M. Primo de Rivera
(1923-30) aveva introdotto suggestioni del f. italiano e una larga
sfiducia nella democrazia parlamentare. Si formarono movimenti
politici di ispirazione fascista e nazionalsindacalista dalla cui
unione nacque la Falange. Fu Franco a guidare la ricomposizione
della destra politica e a iniziare la defascistizzazione del regime,
che seguitò a mantenere tratti fortemente autoritari.
La seconda metà degli anni 1930 segnò il declino di
movimenti quali la British Union of Fascists in Gran Bretagna e il
movimento rexista in Belgio.
In Francia il governo di Vichy, alcune delle cui motivazioni
risalivano alla tradizione conservatrice nazionale, nacque dal
compromesso tra un’indipendenza formale e la sostanziale adesione
alla politica degli occupanti.
In Romania la tradizione fascista era legata alla figura di C.Z.
Codreanu e alla Guardia di ferro, partito milizia in cui
convergevano motivazioni politiche e religiose e una netta tendenza
antisemita. Durante la dittatura di I. Antonescu, il partito di
Codreanu (dopo il suo assassinio, guidato da H. Sima) assunse in un
primo tempo responsabilità di governo e tentò nel 1941
un colpo di Stato che fallì.
In altri paesi l’espansionismo tedesco favorì o impose
l’ascesa al potere di partiti di ispirazione fascista: l’Ungheria,
dove le Croci frecciate di F. Szálasi assunsero il potere nel
1944; la Norvegia, durante il governo di V. Quisling; l’Olanda di
A.A. Mussert. Infine, si fondarono su rivendicazioni etniche e
regionaliste alcuni governi collaborazionisti cui non furono
estranei indirizzi politici propri del f. e del nazionalsocialismo,
quali la Slovacchia di J. Tiso e la Croazia di A. Pavelić e degli
ustaša.
*
Enciclopedia del Novecento (1977)
di Renzo De Felice
Fascismo
sommario: 1. Origini del fascismo italiano. 2. Il regime fascista
italiano. 3. La Repubblica Sociale Italiana. 4. Il fenomeno
fascista. 5. Bibliografia.
1. Origini del fascismo italiano
La prima guerra mondiale determinò trasformazioni e crisi
decisive in tutta l'Europa, che assunsero dimensioni e significati
diversi a seconda dei paesi, ma che ebbero somiglianze e caratteri
comuni e che investirono tutti i campi, quello economico come quello
etico, quello sociale come quello politico. Le origini del fascismo
sono connesse in modo inscindibile con le trasformazioni e le crisi
che si verificarono in Italia. In sede storica, se si perde il punto
di riferimento della prima guerra mondiale si perde anche la
possibilità di comprendere veramente il fascismo e di
cogliere le ragioni, il significato della sua affermazione. Con
ciò non si vuol dire che nell'Italia prebellica, nel suo
sviluppo economico-sociale, nella pratica politica, in certi
atteggiamenti psicologici e culturali e persino in certe
manifestazioni pratiche (già nel 1908, in occasione delle
agitazioni nel parmense, e nel 1914, in occasione della ‛settimana
rossa', si ebbero casi di proteste per l'eassenteismo, dello Stato e
persino di ‛autodifesa' contro le violenze proletarie) non si
possano scorgere ‛anticipazioni' del fascismo; si vuole però
sottolineare che a queste ‛anticipazioni' non è assolutamente
possibile dare quel valore di ‟semi fascisti destinati a germogliare
nel dopoguerra" che qualcuno ha loro dato. Senza la guerra, infatti,
nulla autorizza ad affermare che essi sarebbero germogliati e, anzi,
molti elementi inducono a ritenere il contrario. Quanto poi alla
guerra, più che mettere l'accento sul modo con cui fu
realizzato l'intervento italiano o sulla psicosi bellica da essa
determinata (che rispetto alle origini del fascismo furono
componenti, in definitiva, secondarie), bisogna insistere
soprattutto sulle sue conseguenze - interne e internazionali - a
tutti i livelli, quali esse si manifestarono nell'immediato
dopoguerra, determinando, accelerando o esasperando una serie di
trasformazioni e di motivi di crisi, in un paese come l'Italia che,
se, per un verso, aveva dato prova - proprio con la guerra - della
vitalità del suo organismo politico-nazionale, per un altro
verso aveva mostrato quanto tale organismo fosse rispondente ai
valori etici, alle aspirazioni e agli interessi di una sola parte
della società nazionale (quella che si può definire di
estrazione risorgimentale), ma non corrispondesse a quelli di tutta
un'altra parte di essa (quella non solo quantitativamente più
importante, ma, ciò che più conta, che era stata
mobilitata socialmente e politicamente dalla guerra) che lo
considerava, sia pure con diverse motivazioni e prospettive non di
rado tra loro antitetiche, arcaico, ingiusto e - almeno sotto il
profilo della partecipazione al potere - antidemocratico.
Per comprendere la natura del fascismo e il motivo della sua
affermazione è necessario cercare di stabilire i vari aspetti
della crisi italiana del dopoguerra e soprattutto in che misura essi
influirono nel determinare quella situazione grazie alla quale in
meno di quattro anni il fascismo pervenne al potere.
Sul piano economico il dopoguerra fu caratterizzato da una grave
crisi determinata soprattutto dalla dura prova che l'economia
italiana aveva dovuto affrontare durante la guerra, dalle
trasformazioni (non di rado patologiche) che essa aveva subito in
quegli stessi anni e dalle difficoltà - in parte comuni anche
agli altri paesi - alle quali doveva ora far fronte: ridotta
produzione agricola, che aveva ripercussioni immediate e assai
pesanti sulla bilancia commerciale e che, quando la tendenza si
capovolse, si trasformò in una crisi di sovraproduzione che
portò ad una crisi dei prezzi agricoli e, per riflesso, anche
di quelli industriali; forti immobilizzi in industrie (e sempre
maggior fusione tra interessi industriali e bancari) i cui impianti
erano spesso invecchiati e la cui riconversione esigeva grandi
capitali; capacità produttiva superiore alla domanda interna
e difficilmente orientabile verso l'estero; perdurare di un sistema
di vincoli e regolamentazioni statali che rendeva la gestione
economica macchinosa e poco produttiva; basso rendimento della mano
d'opera; vastissima disoccupazione. Da qui un periodo di gravi
difficoltà economiche che ebbe rovinose conseguenze
specialmente per alcuni grandi complessi industriali e per alcune
grandi banche e a cui, soprattutto, corrispose un periodo di
eccezionale mobilitazione primaria che si tradusse in un enorme
rafforzamento dell'organizzazione di classe contadina e proletaria e
in un altrettanto enorme sviluppo della lotta di classe, che si
manifestò - specie nel 1919-1920 - con un gran numero di
agitazioni (anche violente), scioperi, occupazioni di terre e di
fabbriche, ecc. e si concretizzò in un forte aumento dei
salari reali (specie operai) che dall'indice 100 del 1913 salirono
nel 1921 a 127 (limite non più raggiunto sino al 1949). E
ciò mentre gli stipendi crescevano molto più
lentamente e i redditi fissi subivano una flessione assai grave.
Sul piano sociale questa eccezionale mobilitazione pri- maria fu
caratterizzata da una fortissima politicizzazione e domanda di
partecipazione e di direzione politica a tutti i livelli della vita
del paese da parte dei settori della popolazione fino allora quasi
marginali o del tutto esclusi, delle quali beneficiarono (grazie
anche alla introduzione al posto del sistema elettorale uninominale
di quello proporzionale, che riduceva il peso dei notabili
tradizionali e favoriva i partiti di massa) soprattutto i partiti
fuori del sistema politico tradizionale, che si presentavano
rispetto ad esso o completamente eversivi (socialisti e comunisti) o
duramente critici e rinnovatori (popolari) ed erano espressione di
valori e tradizioni che nulla avevano in comune con quelli di
estrazione risorgimentale ai quali si rifaceva la classe dirigente.
Un fatto altrettanto importante e che spesso viene invece
dimenticato o frainteso (quando lo si riduce a mera manifestazione
di settori ‛discendenti' in crisi di proletarizzazione e di
‛spostati') fu poi costituito dal contemporaneo verificarsi di un
analogo fenomeno di mobilitazione secondaria. Anche alla sua radice
era una forte domanda di partecipazione e di direzione politica,
solo che a manifestarla non erano le masse popolari sino allora
marginali o del tutto escluse, ma settori non trascurabili
già integrati della media e soprattutto della piccola
borghesia (specialmente di recente formazione e in fase emergente)
che si sentivano minacciati (e al tempo stesso respinti) dalla
crescita dei ceti ad essi inferiori e, ancor più, che erano
insoddisfatti sia per lo scarsissimo peso politico che veniva loro
lasciato dalla classe politica tradizionale e dai suoi meccanismi di
allargamento quasi esclusivamente per cooptazione, sia per
l'incapacità che questa aveva dimostrato durante la guerra e
ancor più dimostrava ora a tutelare il loro status materiale
e morale di fronte all'ascesa delle masse popolari, sia per la
sempre più evidente tendenza della classe politica e delle
forze tradizionali che essa rappresentava a scaricare su di loro
buona parte del prezzo che erano costrette a pagare alle masse
popolari. In questa situazione, la caratteristica più
immediata della crisi sociale del dopoguerra fu un moltiplicarsi e
un accentuarsi delle sfasature tra lo Stato e le sue istituzioni da
un lato e la sensibilità popolare e l'opinione pubblica da un
altro lato e un estendersi di esse anche ai rapporti tra lo Stato e
le sue istituzioni, specialmente quelle più periferiche e di
recente creazione.
Sul piano morale e culturale, la crisi del dopoguerra è bene
indicata, per un verso, dalla sempre più diffusa reazione al
positivismo e, per un altro verso, dalla fortuna che incontrarono le
tendenze scettico-relativistiche, irrazionalistiche, attivistiche,
elitistiche, ecc. Due fenomeni sono però anche più
importanti e significativi: la forte ideologizzazione delle masse e,
quindi, della lotta sociale e politica, sino ad arrivare a forme di
vera e propria mitizzazione delle soluzioni prospettate (tipiche
quella della Rivoluzione bolscevica e, su tutt'altra sponda, quella
della Nazione) e l'entrata in crisi dei modelli culturali
tradizionali e, quindi, della loro autorità. Da qui una
diffusa contestazione non solo dei valori tradizionali, ma anche e
soprattutto dell'assetto sociale che essi rappresentavano, che - sia
pure in forme diverse e contrastanti - accomunava la protesta
‛bolscevica' a quella di vasti settori della media e soprattutto
piccola borghesia. E per questi ultimi è da notare il loro
progressivo radicalizzarsi via via che fallivano o si mostravano
intrinsecamente inadeguati i tentativi di dar vita a nuove soluzioni
alternative ma non eversive rispetto al sistema (quale quella
combattentistica e, in definitiva, quella popolare).
Contemporaneamente aumentavano la sfiducia e lo scetticismo
nell'efficacia e nella funzionalità della democrazia
parlamentare, sotto il profilo sia della sua capacità di far
fronte alle necessità politiche di un esecutivo efficiente
sia di realizzare un effettivo rinnovamento sociale, e con essi la
propensione verso soluzioni di tipo autoritario (i cui modelli
ideologici e psicologici non erano rintracciati solo a ‛destra', ma,
spesso, nel pensiero e nell'azione più squisitamente
democratici del rivoluzionarismo giacobino).
Sul piano politico, infine, la sintesi di tutte queste crisi,
aggiungendosi e operando da moltiplicatore di quella già da
tempo latente che si usava riassumere nella scissione tra ‛paese
reale' e ‛paese legale', acquistò dimensioni via via
più drammatiche e che si possono ricondurre attorno a tre
poli: 1) a livello parlamentare, un ‛anarchico regime d'assemblea'
incapace di esercitare il potere e di esprimere sia effettive
maggioranze sia opposizioni coeretiti al sistema e capaci di
costituire un'alternativa; 2) a livello governativo, una serie di
ministeri senza prestigio e senza capacità di effettiva
iniziativa legislativa e, al tempo stesso, di far rispettare ed
eseguire dai loro stessi organi periferici le proprie disposizioni e
di dar loro la certezza di non essere lasciati scoperti o
addirittura puniti per averle eseguite; 3) a livello del sistema,
una instabilità cronica, forse più soggettiva che
oggettiva, dato che in effetti le forze dichiaratamente antisistema
erano messe fuori giuoco dalla diversità degli interessi che
rappresentavano e dalla loro stessa ‛incapacità di trovare
una conciliazione di essi che non fosse quella di un massimalismo
tanto minaccioso ed esaltante nella forma quanto vuoto e autoritario
nella sostanza (il che spiega perché, quando entrò in
crisi, lo scoraggiamento e le tendenze centrifughe furono cosi
forti) e dato che il sistema in realtà - nonostante la sua
indubbia crisi - era ancora sufficientemente robusto, poteva fare
affidamento su alcune istituzioni più tradizionali e omogenee
(come le forze armate e la magistratura) e potenzialmente aveva la
possibilità di autorinnovarsi attraverso la propria
democratizzazione e un allargamento della partecipazione ai settori
più moderati delle masse sino allora marginali o escluse
è insufficientemente integrate.
In questo contesto soltanto è possibile comprendere veramente
le origini del fascismo e la sua affermazione. Sorti a Milano il 23
marzo 1919 su una base (e un gruppo dirigente) che si riconnetteva
sostanzialmente ad alcune prospettive minoritarie del sovversivismo
irregolare prebellico, quali erano maturate tra la crisi determinata
dal fallimento della ‛settimana rossa' e la sua proiezione
nell'‛interventismo rivoluzionario', i Fasci di Combattimento
rimasero sino alla fine del 1920 e ai primi del 1921 un fenomeno
quantitativamente e politicamente irrilevante, partecipe di tutta
una serie di caratteri ambigui e contraddittori, di ‛destra' e di
‛sinistra', non diverso in ultima analisi da altri espressi in quel
medesimo tempo dal malessere e dal confuso rivoluzionarismo della ex
sinistra interventista e di certo ex combattentismo (con la
differenza, rispetto a questi, di avere a capo un politico abile e
spregiudicato come Mussolini). A cavallo del 1920-1921 il fascismo
prese però improvvisamente quota quantitativamente e
politicamente e, pur dovendo fare i conti con la gravissima crisi
interna determinata dal ‛patto di pacificazione', in due anni
pervenne al potere. Sino allora il fascismo era stato un fenomeno
non solo irrilevante, ma squisitamente urbano. In contrasto con
questa sua fisionomia, il decollo lo ebbe nelle grandi zone
agricole, nella pianura padana, in Toscana e in Puglia. Il successo
nei centri urbani non immediatamente determinati economicamente e
socialmente dal contado agricolo venne successivamente, così
come l'espansione (del resto limitata) fuori dalle regioni suddette.
Per comprendere questa dinamica bisogna considerare vari fattori, in
parte concomitanti, in parte determinatisi in successione di tempo.
Innanzitutto il clima politico-sociale del momento. Storici e
sociologi sono oggi pressoché concordi nell'affermare che
alla fine del 1920 la tensione e la mobilitazione delle masse
popolari e con esse la combattività e la capacità
egemonica dei ‛bolscevichi' cominciavano a scemare, sicché -
aggiungono i secondi - lo scatenarsi del fascismo avrebbe in pratica
interrotto un processo di integrazione analogo a quello che si ebbe
in altri paesi. In questa prospettiva la reazione fascista, oltre
che ‛inutile' e ‛dannosa', sarebbe stata in pratica nulla più
che una sorta di ‛vendetta' contro coloro che per due anni avevano
fatto vivere la borghesia italiana nell'incubo della rivoluzione,
l'avevano vilipesa e ferita moralmente e materialmente. Che nello
squadrismo ci sia stato anche questo stato d'animo è fuori
dubbio; è però difficile affermare che esso ne sia
stata la molla. Alla fine del 1920 il declino del ‛bolscevismo' era
assai meno percepibile di quanto non lo sia oggi per noi. Il
fallimento dell'occupazione delle fabbriche, a parte la paura
suscitata, non faceva pensare che la prova di forza non potesse
essere ritentata. Quanto alla demobilitazione delle masse, essa era
appena agli inizi e fenomeni come quello degli Arditi del popolo
facevano sì che quasi non fosse avvertita. Il nodo decisivo
della questione è per noi un altro. La molla del fascismo, a
livello della lotta di classe, non fu tanto la paura di una
rivoluzione ‛bolscevica', quanto il fatto che la classe lavoratrice,
le sue organizzazioni sindacali ed economiche, i suoi partiti erano
pur sempre in grado di sconvolgere quelle che, a torto o a ragione,
erano considerate le regole economiche del mercato e di imporre
limitazioni del diritto di proprietà e della libertà
di contratto ritenute non solo illegittime ma insostenibili.
Né il discorso può essere limitato a livello della
lotta di classe pura e semplice. Se lo squadrismo poté
operare ed estendersi ciò non fu dovuto infatti solo
all'essersi fatto difensore degli interessi economici lesi dal
movimento dei lavoratori e, specie nelle zone agricole, di essersi
messo addirittura al soldo di tali interessi. Oltre agli interessi
materiali, per due anni erano stati lesi anche molti interessi e
valori morali, che invano si era sperato fossero tutelati dallo
Stato. Il primo entroterra (il secondo e più vasto sarebbe
derivato dalla sempre più diffusa stanchezza e dal desiderio
di ‛ordine' e di ‛pace' interni) al fascismo venne da coloro che -
mettendo in primo piano questi interessi e valori - videro in esso
una forza sostitutiva di quella dello Stato ‛assente' e in grado di
porre fine a questo tipo di violenze. Senza questo consenso, in
parte pieno in parte critico (le botte fasciste ‛mal date' ma ‛ben
ricevute'), il fascismo sarebbe rimasto squadrismo, non avrebbe
raccolto tante simpatie, connivenze, aiuti, avrebbe fatto meno
proseliti, in una parola, non sarebbe diventato un fatto politico,
sostanzialmente capace di non perdere la propria autonomia, di non
ridursi a mera guardia bianca di determinati interessi materiali,
che, in quanto tali, erano sentiti meno vivamente dai non diretti
interessati e non di rado non erano indenni da critiche anche a
livello borghese.
Un altro fattore da considerare è la particolare violenza che
la lotta di classe aveva avuto nelle zone agricole nelle quali il
fascismo si affermò rispetto a quella che si era svolta nei
centri operai. Per un verso, resa più dura dai danni maggiori
che produceva e dalle minori riserve dei proprietari, da certe sue
forme iugulatorie e dalle difficoltà dell'agricoltura, essa
toccava, coinvolgeva una parte molto maggiore della popolazione che
non nei centri industriali, specie laddove il ferreo sistema delle
leghe era riuscito a monopolizzare o a condizionare gran parte delle
attività direttamente o indirettamente collegate con
l'agricoltura, e una sua attenuazione avrebbe significato poco se
non si fosse accompagnata ad una eliminazione di alcune delle
conquiste non immediatamente economiche ottenute dai lavoratori e ad
un allentamento del sistema leghistico. Per un altro verso, essa,
dati i suoi caratteri particolari, aveva coinvolto le varie
componenti della società agraria in misure e forme diverse,
che possono essere così riassunte: mentre i proprietari, i
datori di lavoro avevano subito pressoché tutti un danno
comune, tra i lavoratori i benefici (specie dove le leghe erano
più forti) erano stati invece diversi a seconda delle
categorie e ciò, almeno potenzialmente, costituiva un
elemento di forza per gli uni e di debolezza per gli altri, in
quanto, all'occasione, poteva sprigionare (come sprigionò
sotto i colpi dello squadrismo) una serie di tendenze centrifughe.
Questa diversità spiega perché il fascismo
decollò in campagna e non in città, perché ebbe
l'unanime appoggio e il sostegno economico degli agrari e della
borghesia legata all'agricoltura, mentre il mondo industriale (non
solo più moderno e politicamente più lungimirante di
quello agrario, ma meno profondamente ferito dallo scontro di classe
del ‛biennio rosso', economicamente e giuridicamente più in
grado di riprendere l'espansione e con molte minori
possibilità di puntare alla divisione del fronte di classe)
fu verso di esso assai più cauto, sicché i casi di
collegamento organico furono relativamente scarsi, limitati assai
spesso alle industrie (soprattutto minori) in gravi
difficoltà economiche, e, ciò che più conta, la
dirigenza industriale sino alla ‛marcia su Roma' non puntò
mai sulla carta di un governo fascista e anche dopo non ne
sposò completamente la politica.
L'ultimo importante fattore da considerare è quello della
composizione dei Fasci, quale venne a delinearsi con il 1920-1921.
Ingrossando le fila, il fascismo si aperse indubbiamente un po' a
tutti i ceti sociali, non escluso un certo numero di operai e, ancor
più, di lavoratori dei campi (anche se proporzionalmente
questi erano in minoranza e se, in parte, erano reclutati nelle zone
dove lo squadrismo aveva vinto e dove i passaggi al fascismo un po'
erano sinceri, un po' strumentali); il suo nerbo, sia
quantitativamente sia in particolare per quel che concerneva i
quadri e gli elementi più attivi politicamente e
militarmente, si caratterizzò però subito chiaramente
in senso piccolo borghese, dando a tutto il movimento e al
successivo partito il carattere di un fenomeno che aveva degli
aspetti di classe (il che spiega la sua scarsa penetrazione nelle
regioni più tradizionali, nelle quali la piccola borghesia
non era di tipo moderno e, quindi, era più integrata). Un
carattere, questo, che il PNF avrebbe conservato a lungo (almeno
sino all'epurazione turatiana della seconda metà degli anni
venti) e che gli diede la possibilità, per un verso, di
costituire il più importante punto di riferimento e di
attrazione per quei settori della piccola borghesia che - come si
è detto - aspiravano ad una propria maggior partecipazione e
direzione della vita sociale e politica nazionale, non riconoscevano
più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in
specie né la capacità né la legittimità
di governare e, sia pur confusamente, contestavano anche l'assetto
sociale che essa rappresentava e, per un altro verso, di salvare la
propria autonomia politica rispetto alle altre forze politiche con
le quali venne a contatto, anche quando, sgombrato il campo dal
‛bolscevismo', queste avrebbero voluto cooptarlo nel sistema e
stemperarlo progressivamente in esso sino a ridurlo ad una sua
componente, non diversa sostanzialmente da tante altre.
Oltre che per la sua caratterizzazione sociale, il fascismo non si
esaurì nello squadrismo anche per l'abilità e il
tempismo politici di Mussolini. Nell'estate del 1922, dopo il
fallimento dello ‛sciopero legalitario', a livello sociale il
fascismo aveva vinto. A livello parlamentare la sua forza era
però irrilevante e molti sintomi lasciavano prevedere che il
suo consenso politico più che ad allargarsi avrebbe teso a
restringersi, dato che - nel clima sempre più accentuato di
generale demobilitazione e di stanchezza che caratterizzava il
momento - l'irrequietezza e le violenze della sua base rischiavano
di farne agli occhi della borghesia il vero perturbatore della pace
sociale e, quindi, di favorire una collaborazione di tipo
tradizionale tra i partiti liberaldemocratici, il partito popolare e
le forze riformiste, ormai in procinto di staccarsi dai
massimalisti. E ciò proprio nel momento in cui il fascismo
aveva il problema di dare concreta soddisfazione alle masse che
erano affluite nelle sue file, per evitare che, deluse, si
allontanassero da esso, ma era ancora guardato dalla maggioranza
della classe dirigente tradizionale come un elemento importante del
quadro politico e sociale, contro il quale non era possibile
governare. Un elemento che, volenti o nolenti, era opportuno
integrare nel sistema, per rinsanguare questo e, al tempo stesso,
costituzionalizzare quello, privandolo così della sua carica
antisistema. Integrare nel sistema, si badi bene, non cedergli il
potere e neppure dargli un peso troppo rilevante nel governo. Questa
nel 1922 fu la logica e la prospettiva di tutte le operazioni
politiche che in quei mesi vennero imbastite: un governo Giolitti o
Salandra o Orlando o Facta o persino Nitti con la partecipazione dei
fascisti, non un governo Mussolini. E questa fu anche la prospettiva
lungo la quale si mossero le grandi forze economiche.
L'abilità di Mussolini fu duplice: capire che ‛in quel
momento' egli poteva ancora: 1) giocare sulla componente eversiva e
sull'entusiasmo per i successi sin lì conseguiti dal fascismo
per una ‛dimostrazione di forza' che, se fosse veramente arrivata
agli estremi, si sarebbe certamente conclusa in un clamoroso
insuccesso, ma che, se mantenuta nei limiti di una minaccia, avrebbe
fatto precipitare la situazione a suo vantaggio; 2) mettere le varie
componenti della classe politica le une contro le altre e far leva
sulle non ancora completamente sopite paure di una ripresa della
guerra civile dalla quale sarebbero potute uscire rivitalizzate le
sinistre e indebolito il sistema. Da qui la ‛marcia su Roma', un
bluff sul piano militare, un successo sul piano politico,
poiché persino di fronte ad essa larga parte della classe
dirigente e in primo luogo il sovrano (che, dopo l'esperienza
fiumana, doveva temere più di ogni altra cosa di mettere a
repentaglio l'unità dell'esercito) continuarono a non capire
la vera natura del fascismo e ad illudersi che, una volta arrivato
al potere - sia pure in prima persona - esso si sarebbe alla fine
costituzionalizzato.
Oggi questa incomprensione e questa illusione possono apparire
assurde. Obiettivamente, bisogna però constatare che allora
pochissimi si sottrassero a questo duplice atteggiamento (e non solo
a livello della classe dirigente tradizionale) e domandarsi, quindi,
quale fu il vero fondamento di esso. Se - come riconobbe Togliatti
nel 1935 nelle sue Lezioni sul fascismo (p. 20) - ‟è un grave
errore il credere che il fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla
marcia su Roma, con un piano prestabilito, fissato in precedenza, di
regime di dittatura, quale questo regime si è poi
organizzato", è logico domandarsi se i destini del fascismo e
dell'Italia più che il 28 ottobre 1922 non furono decisi
successivamente, nello scontro tra la componente potenzialmente
costituzionalizzabile del fascismo e quella più legata ad una
prospettiva eversivo-piccolo borghese. È evidente, infatti,
che in questo caso l'atteggiamento della classe dirigente del 1922,
se non diventa scusabile, appare però più
comprensibile.
2. Il regime fascista italiano
Il ventennio fascista fu un fatto unitario e rispose ad una logica
precisa. In esso si debbono però distinguere almeno quattro
fasi successive che è necessario individuare nei loro aspetti
caratteristici se si vuole, appunto, coglierne la logica complessiva
e non ridursi ad una interpretazione che - identificando
praticamente la conclusione con la premessa - finisce per rendere
impossibile la comprensione dei suoi nessi con la realtà
italiana e delle sue particolarità rispetto agli altri
fascismi. Queste quattro fasi corrispondono ai periodi 1922-1925,
1925-1929, 1929-1936 e 1936-1943.
La prima fase, dalla ‛marcia su Roma' al discorso di Mussolini del 3
gennaio 1925, vide la stabilizzazione del potere fascista e fu
caratterizzata dal costituirsi di un determinato tipo di rapporti
tra il fascismo e la classe dirigente e le istituzioni tradizionali:
lo stesso che, sostanzialmente, diede al successivo regime i suoi
caratteri peculiari, anche se, allora come poi, nessuna delle
componenti del regime li considerò definitivi.
L'andata al potere di Mussolini nell'ottobre 1922 fu il frutto di un
compromesso tra fascismo e classe dirigente tradizionale: da qui,
tra l'altro, il carattere di coalizione che sino al 1925 ebbe il
governo Mussolini e, soprattutto, la cura gelosa che la seconda
(attraverso la corona) mise nell'impedire al fascismo di mettere le
mani sulle istituzioni più solide e che essa considerava
necessarie a controbilanciare il potere politico che il fascismo si
era assicurato (soprattutto le forze armate). Questo compromesso fu
ribadito e rafforzato ai primi del 1925, quando gran parte della
classe dirigente tradizionale preferì (dopo la crisi
determinata dal delitto Matteotti) continuare a sostenere Mussolini
pur di evitare il pericolo di un ‛salto nel buio' e di una prova di
forza da essa ritenuta troppo rischiosa e tale da provocare una
serie di imprevedibili reazioni a catena. Per la classe dirigente
tradizionale, via via sempre più identificabile con i
cosiddetti ‛fiancheggiatori', sia esterni sia interni, del fascismo,
questo praticamente avrebbe dovuto innovare ben poco nel sistema:
doveva soprattutto rafforzarlo e ridinamizzarlo, non sovvertirlo.
Per i più la soluzione ideale sarebbe stata quella che il
fascismo - in cambio di un allargamento della base del sistema e
dell'inserimento della sua élite a livello dirigente -
attuasse un rafforzamento dell'esecutivo e un depotenziamento delle
forme di democrazia realizzate negli ultimi anni (in altri termini
una specie di attuazione ammodernata del sonniniano ‟ritorno allo
Statuto"). Questa prospettiva era però inaccettabile per il
fascismo, almeno per la gran parte del vecchio fascismo (quello che
era affluito nei Fasci prima dell'andata al potere), che non solo
aspirava ad una partecipazione più ampia, ma si poneva,
rispetto alla classe dirigente tradizionale e soprattutto a quella
politica, in posizione alternativa e anche socialmente contestava
molti aspetti del sistema di cui, a modo suo, avrebbe voluto una
democratizzazione a proprio vantaggio. Da qui, per tutta questa
prima fase, una sorda contrapposizione tra ‛intransigenti' (che
volevano la ‛seconda ondata') e ‛fiancheggiatori' (che volevano la
‛normalizzazione'), che creò molte difficoltà a
Mussolini, rese difficile la realizzazione dei suoi propositi di un
progressivo svuotamento dei vecchi centri di potere e dei partiti
tradizionali borghesi e del partito popolare (e, possibilmente, del
socialismo riformista) e di un parallelo travaso di essi nel partito
fascista, gli alienò la fiducia e le simpatie di buona parte
della classe dirigente tradizionale, ma finì per salvarlo
politicamente, dato che in occasione della crisi Matteotti il
vecchio intransigentismo fu la sola forza reale che gli rimase
fedele e - rendendo così difficile e pericoloso per le forze
liberal-democratiche assumerne la successione - indusse gran parte
della classe dirigente tradizionale a preferire di continuare sulla
strada del compromesso realizzato due anni prima. Tra il ‛salto nel
buio', che in una misura o in un'altra avrebbe inevitabilmente
compromesso le loro posizioni morali, politiche ed economiche, e
Mussolini, i ‛fiancheggiatori' - preoccupati soprattutto di
salvaguardare queste loro posizioni e, quindi, le strutture portanti
del sistema tradizionale del quale erano espressione e che ormai non
erano più in grado di difendere da soli contro l'attacco che
veniva loro mosso dagli altri settori della società italiana
- scelsero Mussolini, cercando di ripetere su un altro piano
l'operazione che era loro fallita tra la ‛marcia su Roma' e il
delitto Matteotti: allora avevano cercato di rivitalizzarsi con un
fascismo che invano avevano sperato di costituzionalizzare e di
assorbire nel sistema; ora cercarono almeno di salvare le strutture
essenziali di questo sistema, sperando di fagocitare in esso
Mussolini e una parte del fascismo, in cambio della rinuncia alla
gestione immediatamente politica del potere.
Da qui prese le mosse la seconda fase, che andò dal discorso
di Mussolini del 3 gennaio alla Conciliazione e al ‛plebiscito' del
1929, durante la quale il regime fascista venne progressivamente
prendendo corpo a tutti i livelli. Momenti essenziali della
costruzione del regime furono lo scioglimento di tutti i partiti e
organizzazioni non fascisti, le ‛leggi eccezionali', la
‛costituzionalizzazione' del Gran Consiglio del Fascismo,
l'introduzione del sistema elettorale a collegio unico nazionale e a
lista unica, i provvedimenti in materia sindacale e, infine, la
conclusione dei Trattati del Laterano con la S. Sede. Altrettanto
essenziali furono però anche la liquidazione politica del
partito fascista, lo ‛sbloccamento' della Confederazione nazionale
dei sindacati fascisti e la politica di ‛quota novanta'. Solo se si
tiene conto di tutti questi elementi è infatti possibile
capire veramente il carattere che in questi anni assunse il regime,
la parte che in esso ebbero le sue varie componenti e la funzione di
Mussolini.
Se si guarda ai caratteri più evidenti di questo nuovo
assetto e alla conclusione dell'esperienza fascista nel 1943, si
potrebbe concludere che se nella forma il fascismo
fascistizzò i ‛fiancheggiatori', nella sostanza questi
riuscirono a derivoluzionarizzare il fascismo, a renderlo in buona
parte un loro strumento e a farlo rientrare in larga misura
nell'alveo della tradizione conservatrice. Nel ‛regime fascista' che
andò progressivamente prendendo forma la sostanza fu
così il ‛regime', che in effetti rimase - anche nelle
ipocrisie e nei formalismi pseudocostituzionali - il vecchio regime
tradizionale, sia pure in camicia nera e con tutta una serie di
trasformazioni in senso autoritario (ma di un autoritarismo ancora
sostanzialmente ‛classico', nel quale gli innesti demagogico-sociali
più tipicamente moderni non sarebbero stati per il momento
sufficienti a caratterizzarlo come un vero totalitarismo); mentre il
fascismo non fu in buona parte che la forma, una forma oppressiva,
avvilente, spesso pesante anche per i ‛fiancheggiatori', ma che solo
tardi e sempre in misura relativamente modesta sarebbe riuscito ad
incidere sulla sostanza. Sicché in pratica chi dal rinnovato
e rafforzato compromesso (che avrebbe raggiunto la sua massima
estensione con la Conciliazione e nella fase successiva) finì
per trarre i maggiori vantaggi furono i ‛fiancheggiatori', la
vecchia classe dirigente e i ceti sociali che la esprimevano
(entrati in massa nel partito fascista), mentre per il fascismo
l'operazione si ridusse in gran parte alla gestione per la sua
élite dell'equilibrio di una serie di interessi conservatori
(quelli contro i quali all'inizio si era appuntata la rivolta
piccolo-borghese del fascismo rivoluzionario). Una gestione, certo,
dorata sotto tutti i punti di vista, ma estremamente precaria, sia
per la spinta che veniva dal basso, dai ceti sociali esclusi dalla
gestione del potere e condannati a pagare le spese della
conservazione del vecchio sistema, sia per la difficoltà -
subito chiara a tutti - di dare al fascismo una ragione e una
sostanza di sopravvivenza al di là della vita fisica di
Mussolini (l'unico uomo politico espresso dal fascismo in grado di
giustificare e di gestire il compromesso e di assicurare, col suo
prestigio personale, l'accettazione di esso da parte delle masse),
sia - infine - per la instabilità dell'equilibrio stesso
affidato alla gestione del fascismo. In una società in
transizione, quale - nonostante i ritardi e gli ostacoli frapposti
dalle vecchie strutture e dai vecchi interessi - era pur sempre
l'Italia, questo equilibrio non poteva non diventare via via sempre
più difficile e non rivelare in sé contraddizioni e
scontri di interessi sempre più difficili a sanarsi col
sistema del compromesso o, addirittura, del mero rinvio; specie se
fosse venuto meno il superficiale cemento che teneva insieme tutto
il laborioso ma vieppiù debole edificio del ‛regime
fascista': il mito-abitudine del capo e la fiducia (alla quale
contribuiva largamente l'ancora viva tradizione patriottica
risorgimentale) nella capacità del ‛duce' a conseguire la
‛grandezza' dell'Italia. Sicché tutto l'equilibrio era
destinato a rompersi alla prima crisi di questa ‛grandezza' e a
liberare tutte le forze centrifughe più o meno latenti,
sopite o compresse. E ciò sarebbe avvenuto, appunto, il 25
luglio 1943, quando, di fronte alla sconfitta militare, il ‛regime
fascista' crollò d'un colpo e con esso il fascismo e se
qualcosa sopravvisse furono, da un lato, con la Repubblica Sociale
Italiana, il vecchio fascismo rivoluzionario e intransigente che si
illuse di poter tornare alla ribalta riallacciandosi al programma
sociale del 1919 e che cercò di vendicarsi dei suoi nemici
‛fiancheggiatori' e, da un altro lato, buona parte del vecchio
regime che, toltasi la camicia nera, cercò, e in parte
riuscì, a scaricare le proprie pesanti responsabilità
sul fascismo, presentandosi nelle vesti di una delle sue numerose
vittime.
Una visione così superficiale e fattuale sarebbe però
parziale. Alcuni elementi della realtà del regime già
nella seconda fase e soprattutto il loro accentuarsi durante la
terza (dal ‛plebiscito' del 1929 alla conclusione della vicenda
etiopica nell'estate 1936) dimostrano infatti che, nonostante tutto,
il compromesso e gli equilibri su di esso stabilitisi andarono
(specie con gli anni trenta) via via incrinandosi e squilibrandosi a
favore del fascismo. Sino ad autorizzare una duplice ipotesi: 1)
che, senza il fatto esterno e determinante della seconda guerra
mondiale, il regime fascista non sarebbe crollato; 2) che la sua
evoluzione sarebbe stata in senso populistico e che ciò
avrebbe portato ad un lento esautoramento della vecchia classe
dirigente a vantaggio della nuova élite fascista e ad un
assetto sociale caratterizzato dalla prevalenza - pur nel quadro di
un'economia privatistica - dell'iniziativa dello Stato su quella dei
privati e, quindi, al formarsi di una nuova classe dirigente sempre
meno simile alla precedente, anche se assai diversa da quella che il
fascismo avrebbe voluto creare.
La liquidazione politica del PNF e la sua trasformazione (con la
seconda metà degli anni venti) da un partito nel senso
proprio del termine in una grande organizzazione di inquadramento,
controllo e guida (direttamente o attraverso le altre organizzazioni
‛di categoria' da esso dipendenti) delle masse fu dettata a
Mussolini dalla necessità di farla finita con il vecchio
fascismo e con la sua cronica irrequietezza e di dare soddisfazione
ai ‛fiancheggiatori' e a tutti coloro che volevano da lui
soprattutto ordine e disciplina. Egli era mosso però anche da
un'altra logica, quella di avere a propria disposizione uno
strumento che gli permettesse di permeare dello Stato (a cui il PNF
fu rigidamente sottoposto e trasformato in un canale di trasmissione
a senso unico della sua politica e della sua concezione) tutta la
società, di organizzare il consenso e di formare le nuove
generazioni, sottraendole ad ogni altra influenza (in primo luogo
quella della Chiesa). Contrariamente ai regimi
conservatori-autoritari (che hanno sempre teso a demobilitare le
masse e ad escluderle dalla partecipazione attiva alla vita
politica, offrendo loro dei valori e un modello sociale già
sperimentati nel passato e ai quali viene attribuita la
capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di
qualche recente parentesi rivoluzionaria), per il fascismo (come per
tutti i sistemi politici di massa moderni) il consenso e la
partecipazione al regime non dovevano infatti essere passivi. Le
masse dovevano sentirsi integrate nel regime e mobilitate, sia
perché in ‛rapporto diretto' col capo (tale perché
capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro
aspirazioni e, quindi, dotato di una carica di tipo chiaramente
carismatico) sia perché psicologicamente partecipi di un
processo ‛rivoluzionario', da cui traevano il soddisfacimento di
alcuni bisogni concreti e di alcune aspirazioni morali e soprattutto
la ‛fede' in un futuro migliore della comunità nazionale.
Solo così esse potevano infatti sentirsi parte di una
‛comunità morale', con propri ideali, propri modelli di
comportamento, proprie gerarchie e il regime poteva diventare un
‛potere legittimo', che non aveva più bisogno per affermare
la propria autorità di far ricorso alla coercizione e che, ad
ogni modo, in caso di necessità era legittimato a ricorrervi,
poiché chi incorreva nei suoi rigori si era posto fuori della
comunità morale. In questa prospettiva l'aspetto di massa
della politica fascista (specie in riferimento alle nuove
generazioni per le quali il fascismo era, per così dire,
sempre più la ‛normalità', dato che esse non
conoscevano altri sistemi politici) e i suoi strumenti (scuola,
organizzazioni ‛di categoria', assistenziali e per il ‛tempo
libero', propaganda, partito) diventavano il fulcro del sistema
fascista, la premessa perché esso potesse in prospettiva
svincolarsi dalle pastoie del compromesso con la classe dirigente
tradizionale e, intanto, potesse rendere il suo potere politico
sempre più autonomo e via via prevalente rispetto a quello
economico, sempre saldamente in mano ai ‛fiancheggiatori'. E
soprattutto - dato che a livello del consenso di massa nella prima
metà degli anni trenta il fascismo conseguì
indubbiamente dei grossi successi, grazie sia a come
fronteggiò la ‛grande crisi' sia alla conclusione vittoriosa
della guerra d'Etiopia - perché potesse affrontare quella
che, sui tempi medi, sarebbe stata la sua prova più difficile
e decisiva: la successione di Mussolini, superata la quale sul piano
interno non vi sarebbero stati per esso più ostacoli per
molto tempo.
Alla luce di quanto ora detto bisogna, a nostro avviso, vedere tutte
le più importanti iniziative politiche fasciste del periodo
1929-1936 ed ancor più quelle degli anni successivi. A ben
vedere, tutte, infatti, si ricollegano ai problemi dei quali abbiamo
parlato, anche quando, apparentemente, sembrano tra loro in
contraddizione.
Per il periodo 1929-1936 (ma anche per il successivo, dato che la
crisi del 1938 non fu connessa solo all'adozione da parte del
fascismo della politica razziale, ma anche e ancor prima al
riprendere quota della Gioventù d'Azione Cattolica), è
chiaro che la crisi del 1931 con la S. Sede per l'Azione Cattolica
fu determinata dalla necessità per il fascismo di non farsi
sfuggire il monopolio della formazione della gioventù e, in
via subordinata, di ridimensionare in qualche misura le conseguenze
politiche della Conciliazione, ora che questa, per un verso, aveva
per esso perso di importanza (dato che gran parte dei cattolici
erano stati ormai stabilmente integrati nel regime) e, per un altro
verso, sembrava a Mussolini meno importante, dopo che gli
avvenimenti spagnoli sfociati nella caduta della monarchia lo
avevano convinto che in realtà l'appoggio della Chiesa non
costituiva di per sé un fattore decisivo del consenso e che
non si poteva fare in ogni modo affidamento sicuro su di essa. Allo
stesso modo, la politica di ‛ruralizzazione' avviata nel 1929
(inizialmente con ambizioni e propositi che, al limite, si
potrebbero definire non molto lontani dall'avvio di un nuovo modello
di sviluppo economico) appare chiaramente ispirata da due
preoccupazioni: quella di stimolare il consenso del mondo contadino
e della piccola borghesia e quella di frenare il potere economico
della grande industria. Né, pur tenendo in tutto il debito
conto le necessità oggettive del difficilissimo momento
economico e le numerose contropartite contemporaneamente date agli
interessi del padronato, ci pare sia possibile non vedere nella
sempre più esplicita politica di intervento statale
nell'economia, avviata con la prima metà degli anni trenta,
un'altra manifestazione di questa seconda preoccupazione. Per non
dire, infine, della guerra d'Etiopia, il cui nesso con la politica
del consenso è così evidente che non sarebbe il caso
di insistervi se ciò non fosse indispensabile per chiarire la
problematica di fondo della realtà fascista del terzo e del
quarto periodo.
La chiave di questa problematica è costituita dal carattere e
dai limiti del consenso di cui godette il fascismo. Anche se non
mancarono ‛zone d'ombra' e incrinature (che si andarono estendendo
con la seconda metà degli anni trenta, in connessione con la
politica sempre più pronazista attuata dal fascismo e con la
progressiva totalitarizzazione del regime), il consenso fu sin quasi
alla vigilia della catastrofe militare del 1942 assai vasto a tutti
i livelli, anche a quello operaio e, ancor più, contadino,
specie tra i giovani. Né la cosa può meravigliare se
si considera l'atmosfera nella quale viveva il paese e il lento (ma
non per questo inoperante sul piano del consenso) sviluppo sociale
della società italiana in quegli anni; sviluppo sociale che
si traduceva a sua volta nella formazione di una nuova classe
politica e burocratica composta in buona parte da elementi di
origine proletaria e piccolo borghese, la cui promozione sociale era
avvenuta grazie al loro inserimento nelle organizzazioni del regime,
in una maggiore integrazione nazionale e socializzazione delle masse
e in una diffusa convinzione che i progressi conseguiti fossero da
attribuirsi direttamente al fascismo. Detto questo, vanno
però messi in luce anche altri tre aspetti caratteristici di
questo consenso. Primo, che esso toccò il suo apice alla
metà degli anni trenta, mentre nel periodo successivo in
alcuni ambienti subì una flessione, in altri sfumò
spesso in una sorta di rassegnata indifferenza e un po' in tutti non
riuscì più a crescere ulteriormente. Secondo, che
sempre più nettamente la sua molla, il suo elemento
caratterizzante e catalizzatore divennero la figura e l'opera del
‛duce' (al cui prestigio molto giovavano tra le masse la sua origine
popolare e il suo modo di fare sicuro, energico e soprattutto
così diverso da quello dei ‛signori'), mentre persero di
prestigio e di credibilità sia il regime sia il fascismo,
sempre più spesso visti come qualche cosa di diverso, in
negativo, da Mussolini. Terzo, che, dati la natura del regime, i
rapporti di forza e gli equilibri tra le sue componenti e la
situazione internazionale (resa sempre più dinamica e
instabile dall'affermazione del nazionalsocialismo in Germania), era
praticamente impossibile per il fascismo operare un rilancio e un
ulteriore allargamento di esso sul terreno della politica interna.
Da qui per Mussolini e per il fascismo la duplice necessità
(che caratterizzò il terzo periodo e ancor più il
quarto) di rendere progressivamente più totalitario il
regime, in maniera da forzare al massimo il meccanismo del consenso
(anche a costo di dover ricorrere alla coercizione verso quei
settori della società che avrebbero risposto negativamente al
giro di vite totalitario) e da bruciare i tempi del processo di
fascistizzazione delle masse, e di ricorrere a questo scopo alla
molla della politica estera, facendo di essa il fulcro di tutto e
giocando su di essa il consenso morale e culturale dei ceti piccolo
e medio borghesi e quello economico e sociale delle masse popolari.
Solo così, infatti, il fascismo avrebbe potuto sopravvivere e
vincere la sua partita con la classe dirigente tradizionale: se
fosse potuto giungere al traguardo per lui decisivo del ‛dopo
Mussolini' con un consenso così vasto e con un ‛proprio'
carisma tali da compensare la scomparsa del capo carismatico, le
possibilità della classe dirigente tradizionale di riuscire a
riassumere nelle proprie mani il potere politico sarebbero state
minime.
Ridurre la guerra d'Etiopia alla sola logica della politica del
consenso è certamente eccessivo e unilaterale. Essa rispose
infatti altrettanto certamente anche ad altre motivazioni e in
specie alla particolare concezione che Mussolini si era fatta dei
rapporti internazionali, del ruolo che in essi doveva avere l'Italia
e dei mezzi con i quali esercitarlo. Ciò non toglie per altro
che il nesso tra la politica del consenso e la guerra d'Etiopia sia
chiarissimo. E lo stesso si può dire per la successiva
politica estera fascista, anche se tra i due momenti - quello
etiopico e quello successivo - vi fu una netta differenza, sia sotto
il proffio della resa sia sotto quello della sostanza. La resa, sul
piano del consenso, della guerra d'Etiopia fu per il fascismo
eccezionalmente positiva: essa riuscì infatti ad attivizzare
tutto il paese, facendo leva su una serie di motivazioni assai vasta
e tale da coinvolgere tutte le sue componenti sociali. Minore e via
via decrescente fu invece quella delle successive iniziative
internazionali fasciste. Sia per i rischi sempre maggiori che vi
venivano scorti, sia per la maggior difficoltà di dare loro
una prospettiva economico-sociale, sia perché - nonostante la
crisi dei rapporti con l'Inghilterra e. la Francia provocata dalla
guerra d'Etiopia - le diffidenze e le ostilità verso la
Germania e il nazismo erano troppo vive perché la politica
estera fascista divenisse veramente popolare. Quanto poi alla
sostanza, anch'essa fu molto diversa. Nel 1935-1936 il dinamismo
della politica italiana era stato - grazie alla congiuntura
internazionale particolarmente favorevole alla strategia
mussoliniana del ‛peso determinante' - un fatto reale. Negli anni
successivi, venuta meno questa congiuntura, esso fu tale quasi solo
in apparenza. E, ciò che più conta, i margini di
manovra della politica estera fascista si ridussero sempre
più. Sicché Mussolini si venne a trovare sempre
più legato alla Germania, anche se ciò non
corrispondeva né ai suoi veri desideri né ai suoi
interessi, sia di politica estera sia di politica interna, dato che
- come si è detto - a questo secondo livello i sempre
più stretti legami con Hitler e il pericolo di un conflitto
intereuropeo indebolivano piuttosto che accrescere il consenso
popolare verso il regime; mentre al primo la presenza sempre
più decisiva della Germania nazionalsocialista sulla scena
europea dava inevitabilmente alla politica internazionale una carica
ideologica che sino allora non aveva avuto (o che non aveva avuto un
peso decisivo) e a cui la politica estera fascista non poteva
sottrarsi, dato che (tralasciamo altri motivi secondari) il fascismo
doveva - come si è pure detto - ricorrere per sopravvivere
alla totalitarizzazione del proprio potere e ciò comportava
necessariamente una sempre maggiore ideologizzazione del fascismo
stesso che, a sua volta, lo portava ad identificarsi vieppiù
con il nazismo e a perdere quindi la propria posizione speciale tra
i due blocchi contrapposti. Quanto abbiamo detto spiega le
incertezze di Mussolini nel 1939-1940, quando Hitler diede inizio
alla seconda guerra mondiale, la ‛non belligeranza' e, alla fine, la
decisione dell'intervento (e, se si vuole, anche la formula della
‛guerra parallela' che egli cercò di realizzare in un primo
tempo), solo quando sembrò che la Germania avesse ormai
praticamente vinto e sorse in lui il timore di venire escluso dalla
risistemazione politico-territoriale postbellica, di perdere quindi
qualsiasi ruolo e credibilità internazionali e di rimanere
esposto al risentimento di Hitler per il mancato rispetto
dell'alleanza senza nessuna possibilità di poterne
fronteggiare la potenza politica e militare.
E ancora più in generale, quanto abbiamo detto a proposito
del terzo e soprattutto del quarto periodo del fascismo, ci pare
dimostri che (come per tutti i moderni sistemi totalitari di destra
e di sinistra) l'elemento determinante delle scelte di fondo del
fascismo non scaturiva tanto dal rapporto fra economia e politica e
tanto meno dalla preminenza della prima sulla seconda (come nei
sistemi democratici) ma - come giustamente ha messo in rilievo F.
Neumann - dalla pura politica o, almeno, dalla preminenza delle
ragioni di questa su quelle dell'economia. E, egualmente, che la
molla della politica estera del fascismo (apparentemente l'elemento
caratterizzante della politica fascista via via che gli anni
passavano) non era determinata tanto dalla logica dell'espansionismo
quanto da quella della sua sopravvivenza come realtà
politica.
3. La Repubblica Sociale Italiana
Sotto il profilo storico-politico è difficile porre la R.S.I.
in un netto rapporto tanto di continuità quanto di frattura
rispetto al precedente fascismo. E ciò specie se si tengono
presenti, oltre alle sue vicende particolari, due circostanze che
indubbiamente ne condizionarono in modo decisivo l'esistenza e il
suo stesso significato: quella di essere nata e vissuta sino alla
fine in una sostanziale mancanza di autonomia rispetto ai Tedeschi
(che la considerarono un loro strumento volto ad alleggerire le loro
forze armate da alcuni oneri in Italia e, come tale, in effetti
qualche cosa di contingente), da cui la pressoché totale
irrilevanza pratica e la mancanza di effettivo valore rispetto al
suo futuro - anche nel caso di una vittoria tedesca della guerra -
di tutte le sue iniziative non immediatamente militari (e
cioè antipartigiane); e quella che le derivava dalla
particolarissima posizione che in essa aveva Mussolini. Se si pensa
al ruolo decisivo che il ‛duce' aveva avuto nel fascismo sino al 25
luglio 1943 e a quello assai ridotto che ebbe (e in buona parte
volontariamente) nella R.S.I., è impossibile non convenire
infatti che se al fascismo repubblicano, per un verso, mancò
quasi completamente il capo, politico e carismatico, che era stato
così determinante per il fascismo del ventennio, per un altro
verso, la presenza, in buona parte nominale, alla sua testa di
Mussolini finì per costituire per esso un elemento di
ambiguità e in definitiva di ulteriore mancanza di chiarezza
e di prospettiva politiche. Infatti tale presenza rendeva ancora
più difficile un vero bilancio del passato e un chiaro
confronto tra le varie posizioni in presenza e, al tempo stesso,
condizionava tuttora l'evoluzione del fascismo con una serie di
iniziative che assai spesso trovavano la loro origine profonda
più nel dramma psicologico personale di Mussolini che in una
coerente e fredda scelta politica.
Premesso ciò, è forse più utile cercare di
individuare cosa del fascismo repubblicano si possa riportare al
denominatore della continuità e cosa invece costituisca un
elemento sostanzialmente nuovo rispetto al fascismo del ventennio.
Un elemento di continuità fu certamente costituito da un
certo tipo di nazionalismo, cbe in molti fascisti repubblicani -
soprattutto più giovani - ebbe però un carattere
particolare, poiché, in genere, assunse caratteri elementari
e coloriture romantico-cavalleresche (il richiamo all'onore
nazionale, alla fedeltà ai patti, al cameratismo con i
compagni d'arme tedeschi, alla coerenza per la coerenza, ecc.) e si
nutriva di una serie di motivazioni tipiche del nazionalismo
italiano e soprattutto di quello fascista, quale era venuto
prendendo corpo con la guerra d'Etiopia e successivamente ad essa:
da qui la sua carica essenzialmente antinglese, alla quale quasi
sempre si univa un'altrettanto forte carica antiamericana e assai di
rado, invece, antirussa.
Per capire queste ultime due varianti bisogna rifarsi ad altri
elementi di continuità e in particolare a tre, due molto vivi
e uno secondario ma non sottovalutabile. Il primo è quello
dell'antidemocrazia, tipico del fascismo in tutte le sue
manifestazioni e in tutti i suoi periodi, sicché è
inutile dilungarci su di esso. Il secondo (quello secondario)
è quello che potremmo chiamare il mito dei ‛popoli giovani',
per il quale ‛vecchi' erano l'Inghilterra e per estensione anche gli
Stati Uniti, mentre ‛giovane' era la Russia. Il terzo - e più
importante - infine è quello costituito dal vecchio
rivoluzionarismo tipicamente piccolo borghese del primo fascismo.
All'origine tanto antiproletario quanto anticapitalistico, questo
rivoluzionarismo si era visto negli anni del regime, da un lato
esaltato sul piano ideologico attraverso la presentazione del
corporativismo come terza via tra capitalismo e comunismo e
interpretato sul piano pratico dal fascismo-governo attraverso la
sua politica di intervento nell'economia, ma, da un altro lato,
sacrificato politicamente da Mussolini ai ‛fiancheggiatori' e assai
spesso addirittura estromesso o emarginato. Il 25 luglio era stato
pertanto per esso un dramma ma anche una vittoria morale, nel senso
che lo aveva confermato nella sua convinzione che i veri nemici del
fascismo, quelli che avevano prima ingannato e strumentalizzato e
poi tradito Mussolini, erano i fiancheggiatori: la monarchia, i capi
militari, la vecchia classe dirigente, i capitalisti; mentre le
masse popolari avevano mostrato nel complesso una maggiore tendenza
ad integrarsi nella nazione e nel fascismo. Da qui il loro ritorno
alla ribalta politica con la R.S.I., il loro riallacciarsi al
programma fascista del 1919, la loro volontà di vendetta sui
‛fiancheggiatori' di tutte le specie. Da qui, ancora, per tornare al
discorso sul nazionalismo, il loro guardare, in genere, all'URSS in
maniera diversa che alle due grandi potenze anglosassoni; sia
perché socialmente più vicina al ‛fascismo
rivoluzionario' delle ‛demoplutocrazie', sia perché, al
fondo, considerata una sorta di loro futura vendicatrice postuma su
di esse, nata per di più dallo stesso travaglio ‛rinnovatore'
da cui era nato il fascismo e in contrapposizione alla soluzione
parlamentaristica liberal-democratica. Un travaglio al quale, oltre
tutto, lo stesso Mussolini mostrava di volersi ricollegare e nel
nome del quale la R.S.I. raccoglieva anche adesioni di ex sovversivi
e di ex antifascisti che, in quel momento, assumevano un carattere
tutto particolare.
Questi, a nostro avviso, i quattro elementi più significativi
di continuità, ma, al tempo stesso, di una continuità
che, specie nei più giovani, si presentava con alcuni innesti
di novità non insignificanti, almeno sotto il profilo
ideologico-politico.
Lo stesso discorso ci pare si debba fare per quegli elementi che,
rispetto alla tradizione italiana del ventennio, rappresentano
invece una novità, frutto della frattura determinata dalla
sconfitta militare del regime e dalla consapevolezza che, anche
nella eventualità sempre meno credibile di una vittoria
tedesca, il fascismo così come era stato concepito e
idealizzato nel ventennio era comunque sconfitto. A parte ogni altra
considerazione, perché aveva irrimediabilmente perduto il
rapporto col paese e - se mai l'aveva avuto - ogni forma di carisma.
Anche in questi elementi vi è una radice preesistente; gli
innesti nuovi sono però tali da dare loro un significato di
frattura che, a nostro avviso, è quello che, in prosieguo di
tempo, distinguerà il neofascismo post seconda guerra
mondiale dal fascismo storico. Tra essi è, per esempio,
l'acquisto di una dimensione europea del fascismo, non più
intesa nei termini del ‛fascismo universale' degli anni trenta e
neppure nei termini egemonici che essa aveva assunto nel nazismo, ma
in quelli di una effettiva unità dei ‛credenti' e dei
‛combattenti' per la sopravvivenza dell'Europa e della sua
civiltà contro le forze ‛non europee' e ‛antieuropee'.
Soffermarsi su questi elementi è però, in questa sede,
inutile. Ciò che importa è chiarire da cosa essi
presero le mosse, quale cioè fu il fatto nuovo che li
determinò.
G. L. Mosse e T. Kunnas, i due più acuti studiosi dell'intima
sostanza dell'ideologia fascista e - soprattutto il primo - delle
sue radici sociali e culturali, hanno bene messo in luce i rapporti
esistenti tra questa ideologia e la crisi, morale, culturale e
esistenziale dell'Europa tra le due guerre mondiali. In particolare
essi hanno posto l'accento sull'anelito a ricostruire '‛uomo totale'
e sulle componenti di fondo della mentalità fascista nella
sua aspirazione a superare l'‛anonimato del presente', a contrastare
la crisi della civiltà europea e a recuperare
nell'autocoscienza nazionale il senso della comunità. Nei
vari fascismi storici e in alcuni intellettuali fascisti isolati
questo anelito e queste componenti si sono presentate in forme e
misure diverse, prefigurando futuri diversi. In essi il futuro era
però un dato di fatto che - pure in una visione di ottimismo
vitalistico o tragico, a seconda dei casi - era prospettato come una
realtà contrapposta a quella rappresentata dalla crisi della
civiltà europea. Gli sbocchi potevano essere diversi: il
millennio ciclico del nazionalsocialismo, l'intima capacità
dei popoli giovani di trovare in se stessi e nella propria peculiare
tradizione la forza morale di un rinascimento nel fascismo. Un
futuro però c'era e con esso, quindi, qualche cosa per cui
valesse la pena di lottare. Con la sconfitta militare e politica del
fascismo questo stato d'animo, questa mentalità mutarono
profondamente, sino a trasformarsi nel loro contrario, nella
convinzione che la civiltà europea fosse ormai
inevitabilmente condannata alla degenerazione. Da qui un pessimismo
tragico senza il quale non si capisce veramente l'intima
realtà della R.S.I. e le sue suggestioni (ed elaborazioni
culturali più significative) successive sul neofascismo. Un
pessimismo tragico i cui sbocchi furono o una sorta di imperante
‛senso della morte', individuale e collettivo, o, come si è
detto, una sorta di odio-amore verso lo Stato sovietico, visto, per
un verso, come vendicatore del fascismo e, per un altro verso, come
ultimo, anche se inidoneo, freno momentaneo alla degenerazione della
civiltà europea.
4. Il fenomeno fascista
Sino agli inizi degli anni trenta pochi furono coloro che videro nel
fascismo un fenomeno potenzialmente non solo italiano. Se si
prescinde dai marxisti e specialmente dalla III Internazionale, che
videro nel fascismo l'ultima forma reazionaria di potere del
capitalismo senescente, i più lo spiegarono sulla base della
specifica realtà italiana: la debolezza della tradizione e
delle istituzioni liberal-democratiche, le deficienze della classe
politica, i caratteri particolarmente aspri del dopoguerra in Italia
sotto il profilo politico-sociale; né mancarono coloro che si
appellarono al ‛temperamento' degli Italiani, intrisi di forti ma
incostanti passioni e bisognosi, data la loro scarsa coscienza
politico-sociale, di un governo forte. Al massimo qualcuno
accennò alla possibilità che l'esempio italiano
potesse esercitare una certa suggestione in alcuni paesi dell'Europa
orientale, privi di una salda tradizione liberale e di un efficiente
sistema parlamentare e poco sviluppati economicamente e socialmente.
Di un ‛fenomeno' fascista si cominciò a parlare sempre
più diffusamente nella prima metà degli anni trenta.
Dopo che il nazionalsocialismo si fu affermato in Germania,
movimenti e partiti fascisti o parafascisti sorsero in moltissimi
paesi e anche a livello culturale vi fu chi cominciò a
considerare il fascismo come un modello politico-sociale che tendeva
a superare le contraddizioni e le disfunzioni dei regimi
capitalistici (rese più evidenti dalla ‛grande crisi') senza
cadere nel comunismo.
La guerra civile spagnola, il ‛patto d'acciaio' e la seconda guerra
mondiale completarono l'opera. Dissoltesi le illusioni di coloro
che, come si è detto, avevano guardato al fascismo come a una
sorta di ‛terza via', la tendenza sempre più accentuata fu
quella a generalizzare, a mettere l'accento sugli elementi comuni ai
vari fascismi - spesso con toni di tipo demonologico -, a insistere
soprattutto su quelli nazionalistico, coercitivo-terroristico
(risolvendo in esso il problema del consenso) e di reazione di
classe, e a sottovalutare e a ignorare le differenze. Per un
quindicennio il fascismo fu così essenzialmente un problema
etico-politico, attorno al quale, per di più, fu combattuta
la guerra più distruttiva dell'età moderna. Ciò
spiega bene perché, conclusosi il secondo conflitto mondiale
e scomparsi con esso tutti i regimi fascisti o parafascisti (salvo
quello spagnolo, che, per altro, nel nuovo clima internazionale
attenuò rapidamente molti dei suoi caratteri più
tipicamente fascisti per trasformarsi in un regime sempre più
di tipo conservatore-autoritario), il discorso sul fascismo in un
primo tempo sia rimasto largamente condizionato da tutta una serie
di valutazioni-interpretazioni politico-ideologiche contrastanti,
che, praticamente, erano le stesse nel nome delle quali era stato
combattuto, e in un secondo tempo abbia registrato un processo di
differenziazione estremamente netto. Da un lato il fascismo è
diventato una categoria onnicomprensiva, sempre più priva di
effettivo riferimento ai fascismi storici, che a livello politico di
massa è servita a definire e a squalificare a priori
qualsiasi avversario politico; da un altro lato, a livello
scientifico, il fenomeno fascista è stato studiato in una
serie di prospettive nuove, sempre meno condizionate sia dalle
interpretazioni ‛classiche' sia dalle altre fiorite nell'immediato
dopoguerra, che hanno in genere portato ad una valorizzazione delle
peculiarità nazionali dei singoli fascismi e ad una revisione
in senso riduttivo di molti degli elementi che in un primo tempo
erano sembrati comuni a tutti i fascismi.
Nelle interpretazioni ‛classiche' è facile riscontrare
l'influenza determinante di come negli anni tra le due guerre
mondiali il fascismo fu visto a livello tanto culturale quanto
politico da liberali, radicali e comunisti e di come queste forze si
posero di fronte al problema del postfascismo.
Per la cultura liberale (soprattutto europea, si pensi a Croce,
Meinecke, Ritter, G. Mann, Kohn) il fascismo sarebbe stato una sorta
di ‛malattia morale', uno smarrì- mento delle coscienze che
colpì tutta l'Europa e tutte le classi sociali (anche se il
suo impatto fu maggiore in alcuni paesi e a livello dei ceti medi) e
che aveva radici lontane: nella mobilitazione delle masse provocata
dalla Rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale, nelle
illusioni e nelle aspirazioni alla felicità, al guadagno,
alla potenza da esse suscitate, nella dissoluzione dei tradizionali
vincoli sociali, nel disprezzo della ragione e nell'esaltazione
della vita e della forza praticata da tutto un settore della
filosofia e della cultura contemporanee. Ricollegandosi a queste
radici più o meno remote, la crisi e il travaglio causati
dalla guerra 1914-1918 e dal dopoguerra avrebbero provocato il
fascismo. Per la cultura radicale (Vermeil, Viereck, Mack Smith,
ecc.) il fascismo, invece, sarebbe stato la logica e inevitabile
conseguenza di una serie di tare caratteristiche dello sviluppo
storico di alcuni paesi. Tare connesse soprattutto al ritardo, alla
fragilità e alla esasperazione con i quali in questi paesi si
sarebbero realizzati lo sviluppo economico, l'unificazione e
l'indipendenza nazionali: la borghesia di questi paesi non sarebbe
riuscita a svilupparsi altro che in forme patologiche e avrebbe
perciò dovuto ricorrere sempre ad alleanze conservatrici e a
forme di potere politico illiberali e antidemocratiche per affermare
il proprio predominio, con la conseguenza di escludere qualsiasi
effettiva partecipazione morale e materiale delle masse popolari al
processo di unificazione nazionale e al governo del paese;
sicché il fascismo non sarebbe stato che il logico e
necessario portato di questa politica reazionaria e antipopolare e,
quindi, tra esso e la tradizione autoritaria e imperialista dei
paesi nei quali si è affermato esisterebbe una ben precisa
continuità. Per larga parte dei marxisti e per i comunisti,
infine, il fascismo sarebbe stato un prodotto della società
capitalistica, la concreta manifestazione a livello di massa della
reazione antiproletaria alla quale il capitalismo era costretto a
ricorrere nel vano tentativo di salvarsi. Va per altro anche detto
che, nell'ambito di questa interpretazione, il discorso è
stato articolato (a seconda dei momenti e dei gruppi) in forme
diverse, spesso assai meno schematiche (si pensi a Trotzki, a
Löwenthal, a Togliatti), tanto è vero che esso è
stato più o meno largamente recepito anche dalla storiografia
non marxista.
A queste interpretazioni principali si deve aggiungere, per
l'importanza che ha avuto negli Stati Uniti e soprattutto nella
Germania occidentale, quella che ha voluto vedere nel fascismo
(così come nel comunismo, specialmente nella fase stalinista)
una manifestazione di un fenomeno assai più vasto e
strettamente connesso all'atomizzazione e alla individualizzazione
della società contemporanea determinate dalla disgregazione
sociale causata dalla prima guerra mondiale e dall'affermarsi di una
nuova società caratterizzata dal ruolo decisivo che in essa
hanno per un verso le masse e per un altro verso la moderna
tecnologia: il ‛totalitarismo', inteso come una nuova forma di
potere, volta a ricostruire, appunto, il tessuto sociale, creando,
con l'aiuto di una ideologia elementare e del terrore, un nuovo
senso della comunità e nuove forme di organizzazione della
vita economica e sociale più adatte ad una società di
massa e ai suoi bisogni morali e materiali.
A queste interpretazioni (e a quelle minori, ad esse per un verso o
per un altro tutte ricollegabili) nell'ultimo trentennio se ne sono
venute affiancando e contrapponendo altre, elaborate soprattutto
nell'ambito delle scienze sociali, che - assolutamente minoritarie
all'inizio - hanno acquistato via via sempre più credito
(specie nella cultura anglosassone) e tendono oggi a porre il
discorso sul fascismo su un terreno sempre più diverso da
quello tradizionale o, almeno, ad integrarlo con tutto una serie di
suggestioni e di ipotesi di ricerca nuove. All'origine di esse sono
spesso opere e ipotesi interpretative elaborate negli anni
trenta-quaranta (si pensi agli studi di Reich, Fromm, Mannheim,
ovvero a quelli sulla ‛personalità autoritaria'), sia in sede
scientifica sia ad opera dei servizi psicologici e di propaganda
delle forze armate statunitensi negli anni della guerra. In genere,
queste interpretazioni si rifanno però soprattutto alle
più recenti teorie psicosociali, sociologiche e
socioeconomiche. Da qui la duplicità del loro apporto al
discorso sul fascismo: positivo, laddove esse contribuiscono a
mettere in luce l'inscindibile rapporto che lega il fascismo al
formarsi di società di massa e, quindi, il tipo particolare
di motivazioni che determinarono l'atteggiamento e l'evoluzione del
comportamento delle varie componenti del corpo sociale rispetto ai
movimenti e ai regimi di tipo fascista; negativo, laddove, invece,
esse pretendono di offrire delle interpretazioni onnicomprensive del
fascismo e di costruire dei ‛emodelli' di esso più o meno
disancorati dalla concreta realtà del momento storico e dei
singoli paesi. Tipico in questo senso è il caso di quei
sociologi e politologi che (riprendendo tutti più o meno
esplicitamente la teoria di Rostow sugli stadi dello sviluppo
economico) hanno calato il discorso particolare sul fascismo in
quello più ampio sulla ‛modernizzazione', col risultato di
sganciare quasi completamente i fascismi storici dal loro specifico
contesto geografico; culturale e storico e di costruire un modello
fascista in cui rientrerebbero esperienze e regimi diversissimi, tra
cui molti di quelli dei paesi in via di sviluppo dell'America Latina
e del Terzo Mondo.
Per importante che sia il contributo che le scienze sociali hanno
dato al discorso sul fenomeno fascista con tutta una serie di
suggestioni e di spunti sia a livello d'interpretazione generale sia
di definizione di singoli aspetti di esso, l'apporto maggi9re al
discorso sul fascismo è però venuto in questi anni
essenzialmente dal sistematico lavoro di ricerca e di
approfondimento storico della realtà dei singoli fascismi
fatto soprattutto in Germania Occidentale; negli Stati Uniti e in
Italia. Grazie a questi studi (in genere tanto più importanti
quanto più ampia è diventata la possibilità di
accedere alle fonti e minori si sono fatte le preoccupazioni di
origine immediatamente politica degli storici e, dunque, si è
accresciuta la loro capacità di estendere l'orizzonte delle
ricerche a campi sino a pochi anni or sono ritenuti estranei alla
tematica del fascismo) il discorso sul fenomeno fascista tende oggi
a definirsi in termini piuttosto univoci e parzialmente diversi da
quelli nei quali era stato impostato nel ventennio precedente il
nostro. Da un lato, essi hanno confermato la validità di un
discorso storico che continui a considerare il fascismo come un
fenomeno complessivamente unitario, sia perché definibile
entro confini cronologicamente (il periodo tra le due guerre
mondiali) e geograficamente (l'Europa) precisi, sia perché
strettamente connesso a determinate condizioni e trasformazioni
socioeconomiche, ad una particolare temperie culturale delle
élites e soprattutto delle masse e ad una certa concezione (e
all'oggettiva possibilità di attuarla) dei rapporti di forza
all'interno delle nazioni e tra gli Stati. Da un altro lato, essi
hanno però sempre più chiaramente messo in luce due
fatti nuovi e che contrastano in genere con quanto affermato in
passato. Primo: che - al di là di quanto or ora detto - nei
singoli fascismi le peculiarità nazionali e in primo luogo il
grado di nazionalizzazione delle masse (fondamentali sono a questo
proposito gli studi di G. L. Mosse, non solo per quello che dicono
sulla Germania e sul nazionalsocialismo, ma per le
possibilità che offrono di comprendere le differenze di fondo
che sotto questo profilo vi erano tra Germania e Italia e, quindi,
tra nazionalsocialismo e fascismo) furono a tutti i livelli
decisivi, tali da rendere improponibile, sia per i partiti e i
movimenti sia per i regimi, un discorso di tipo assolutamente
unitario. Secondo: che le radici storiche del fascismo non possono
essere ricercate solo nella tradizione politica e culturale della
destra, ma, al contrario, vanno ritrovate assai spesso in quella di
un certo radicalismo di sinistra nato con la Rivoluzione francese;
il che marca ulteriormente (e a monte) le profonde differenze che
fanno dei regimi fascisti di massa una realtà assai diversa
dai regimi autoritari e conservatori tradizionali e del fascismo un
‛nuovo stile politico' che - come ha dimostrato compiutamente G. L.
Mosse per il nazionalsocialismo, ma il discorso vale anche per il
fascismo italiano, sempre che si tengano presenti le differenze tra
i due regimi - se si serviva di una tradizione precedente, si poneva
però obiettivi completamente nuovi: trasformare le folle in
masse organizzandole in un movimento politico con caratteri di
religione laica.
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*
Enciclopedia delle scienze sociali (1994)
di Roberto Vivarelli e Edda Saccomani
FASCISMO
Storia
di Roberto Vivarelli
Sommario: 1. Definizione. 2. Storia: a) origini (1919-1922); b)
primo periodo di governo (1922-1925); c) trasformazione in regime
(1925-1929); d) esperienza corporativa (1929-1935); e) svolta della
guerra di Etiopia (1935-1939); f) la guerra (1939-1943); g) epilogo
(1943-1945). 3. Il fascismo fuori d'Italia: a) Germania; b)
Portogallo e Spagna; c) Francia; d) Inghilterra; e) Belgio; f)
Romania; g) Ungheria. 4. Le interpretazioni. 5. Questioni aperte: a)
il ruolo della Grande guerra; b) la tradizione conservatrice e il
nazionalismo; c) il Duce; d) le origini culturali e la dottrina del
fascismo; e) l'antifascismo. □ Bibliografia.
1. Definizione
A differenza di altri ismi contemporanei (ad esempio, liberalismo,
socialismo, comunismo) il termine fascismo deriva da un sostantivo,
'fascio', il quale di per sé non possiede nessuna
connotazione qualitativa. 'Fascio' significa infatti un insieme di
elementi quali che siano e solo assai relativamente affini tra loro.
Nel linguaggio politico il termine ricorre con frequenza già
nel corso del XIX secolo per indicare una qualsivoglia coalizione di
forze. Ne deriva che nella vita pubblica il termine 'fascio' assume
un significato puramente strumentale e l'azione che esso è
chiamato a svolgere acquista un contenuto solo rispetto al fine
particolare che il 'fascio', via via, si propone di perseguire.
Nella storia d'Italia precedente la prima guerra mondiale l'esempio
più noto è quello dei Fasci siciliani (1892-1894).
Rispetto a questi caratteri generali la concreta esperienza storica
che chiamiamo fascismo, e che occupa il quadro europeo tra le due
guerre mondiali, non fa eccezione.
I Fasci di combattimento, cioè il movimento politico fondato
a Milano da Benito Mussolini il 23 marzo 1919 e che rimarrà
in vita sino all'aprile 1945, cioè sino all'uccisione di
Mussolini stesso, è un movimento di reazione nel senso
letterale del termine. Esso nasce, sulla spinta di un patriottismo
esasperato dai pregiudizi di un diffuso nazionalismo, non per
affermare ma per negare, cioè per opporsi con la forza a
quella che si riteneva una svalutazione della vittoria e una
mortificazione delle vaghe ma intense speranze che la guerra aveva
sollevato. Anche in un secondo momento, quando l'azione fascista
sarà soprattutto azione antisindacale, non perciò
verranno meno le motivazioni iniziali, in quanto i fascisti
continueranno a identificare nei loro avversari i nemici della
nazione. In questo senso l'elemento più caratteristico del
fascismo è uno stato d'animo, comune a tutti coloro, per
altri aspetti ben diversi tra loro, che aderi scono ai Fasci; stato
d'animo che ha la sua matrice nella guerra, senza la cui esperienza
non sarebbe spiegabile. Se, tuttavia, oltre queste relativamente
chiare finalità negative, si ricerchi nell'azione fascista
quali concreti obiettivi politici essa si proponesse di raggiungere,
subito emergeranno gravi ostacoli dovuti alle contraddizioni e alle
ambiguità che caratterizzano i programmi fascisti. Ed
è proprio il carattere ambiguo del movimento fascista, il suo
prestarsi a fungere da centro di aggregazione di forze disparate e a
divenire il contenitore di programmi diversi, i quali mutano nel
tempo a seconda dei cangianti obiettivi politici che il suo
fondatore via via si pone, a fare di questo movimento soprattutto lo
strumento di azione di Mussolini. Attraverso il quale prima egli
assume nella vita pubblica italiana un ruolo di primo piano, poi
conquista il potere, e successivamente attua un vero e proprio
regime politico, di cui non esisteva in precedenza nessun progetto
definito ma che del fascismo dichiarerà di essere
l'attuazione.
Giustamente, perciò, è stato suggerito (v. De Felice,
1975) che nell'insieme del fenomeno fascista vadano distinte due
componenti: il movimento e il regime. Ma il rapporto tra queste due
componenti pone dei problemi. Di per sé il regime fascista ha
una rilevanza storica ben maggiore che non il semplice movimento,
sicché, in prospettiva, nel fascismo si riconosce soprattutto
quel sistema di potere, che Mussolini costruisce col suo governo a
partire dall'ottobre 1922; e tuttavia, nel suo corso storico, il
regime è stato strettamente dipendente dal movimento
fascista, che ne ha consentito la nascita e condizionato l'immagine.
D'altra parte, anche se il movimento fascista in quanto tale ha
avuto una sua particolare storia e sembra quindi mantenere una sua
autonomia, indipendentemente dal regime, si tratta di una autonomia
più apparente che reale in quanto, al pari del regime, anche
il movimento fascista è stato in gran parte frutto della
volontà del suo fondatore, che nel fascismo occupa dunque una
posizione chiave. In realtà nell'insieme del fenomeno
fascista il Duce, il movimento, il regime, rappresentano i tre
elementi costitutivi, che si sovrappongono e si intrecciano secondo
combinazioni le quali variano nel tempo. E, come in un
caleidoscopio, proprio queste diverse combinazioni rendono
l'immagine del fascismo così varia e sfuggente.Questo
cangiante aspetto del fenomeno fascista, che è riconoscibile
solo a chi abbia la pazienza di ripercorrerne la storia, è un
indice della sua complessità, ed è anche ciò
che talvolta induce chi lo osservi troppo sommariamente a errate
valutazioni.
2. Storia
Nel ripercorrere la storia del fascismo sul terreno suo proprio, che
è quello italiano, converrà suddividerla in sette
periodi.
a) Origini (1919-1922)
Per comprendere che cosa significasse la fondazione dei Fasci di
combattimento (23 marzo 1919), cioè del primo nucleo del
movimento, occorre porla in relazione sia con la biografia di Benito
Mussolini, sia con il contesto della storia d'Italia in quel
particolare momento. Dopo la rottura traumatica, nell'ottobre del
1914, sul tema della guerra, con il Partito Socialista, di cui come
direttore dell'"Avanti!" era l'effettivo leader, Mussolini aveva
continuato a occupare un certo spazio nella vita pubblica italiana
con il suo nuovo quotidiano, "Il Popolo d'Italia", che aveva
iniziato le pubblicazioni nel novembre 1914, e che rimarrà
suo personale strumento sino al luglio 1943. Dalle colonne di questo
giornale egli aveva prima svolto una energica campagna a favore
dell'intervento dell'Italia in guerra, raccogliendo intorno a
sé le diverse voci di coloro che, pur militando nelle file
della sinistra, non si riconoscevano nel neutralismo. Poi, tra il
maggio 1915 e il novembre 1918, il quotidiano di Mussolini aveva
sostenuto lo sforzo del paese in guerra, esortando i governi al
massimo rigore per mantenere unito il fronte interno, gradualmente
accostandosi, specialmente a partire dalla fine del 1917, alle
posizioni di un vario nazionalismo. Un indizio di questa metamorfosi
era stato, nell'agosto del 1918, il mutamento del sottotitolo del
giornale da "quotidiano socialista" a "quotidiano dei combattenti e
dei produttori". Ma il terreno sul quale le posizioni assunte da
Mussolini nell'ultimo anno di guerra emergevano con maggiore
chiarezza fu quello della politica estera e della dibattuta
questione dei nostri confini orientali, dove contro le aspirazioni,
peraltro ugualmente eccessive, della nascente Iugoslavia, Mussolini
verrà gradualmente a schierarsi a favore del più
estremo programma di espansione (patto di Londra più Fiume),
quello stesso che, pochi mesi dopo la fine della guerra,
porterà al disastro diplomatico dell'Italia alla Conferenza
di pace di Parigi, e al drammatico precipitare della questione
adriatica. Proprio queste posizioni venivano da Mussolini
riconfermate con sempre maggiore enfasi nella prima metà del
1919. Non sorprende perciò che alla loro nascita i Fasci si
presentassero come una delle molte iniziative del tempo per esaltare
le più estreme aspirazioni nazionali, nate nel crogiolo della
guerra, e per opporsi anche con la violenza alla montante offensiva
dei socialisti, che sempre più suggestionati dagli sviluppi
della Rivoluzione russa dichiaravano di volerne seguire l'esempio,
assumendo posizioni apertamente eversive e antipatriottiche. Pochi
mesi dopo, quando D'Annunzio occuperà Fiume alla testa di
reparti militari italiani, i Fasci si schiereranno al fianco di
D'Annunzio, di cui Mussolini esalterà la figura e l'opera.
Le cose muteranno nel corso del 1920 quando, in conseguenza delle
elezioni politiche del novembre 1919 (che segneranno per Mussolini
una cocente sconfitta), la politica interna riprenderà il
sopravvento. Per la sua variegata composizione e il prevalere di
forze politiche nuove o rinnovate (popolari e socialisti) tra loro
inconciliabili, la nuova Camera era incapace di garantire la
stabilità di un qualsiasi governo. Intanto, tra la fine del
1919 e per tutto il corso del 1920, il paese, sia nelle industrie
che nelle campagne, era scosso da agitazioni sociali, senza
precedenti per numero e per intensità, le quali,
accompagnandosi alla sempre più minacciosa offensiva dei
socialisti, turbavano profondamente l'ordine, producevano negli
animi dei cittadini e nella pubblica opinione grande impressione, e
sembravano talora mettere in pericolo la stessa stabilità
delle istituzioni. Il definitivo superamento della questione
adriatica si ebbe nel novembre del 1920 con la firma del trattato di
Rapallo. Poche settimane più tardi le forze militari italiane
costringevano D'Annunzio ad abbandonare Fiume. Ma, a eccezione di
alcuni dissidenti che rimarranno fedeli alla causa dannunziana, in
questi mesi Mussolini e i Fasci si erano già assestati su
nuove posizioni. Si veniva preparando quella nuova stagione del
movimento fascista che fu lo squadrismo, e che imprimerà ai
Fasci quel carattere nuovo che rimarrà come una delle loro
note più originali.Lo squadrismo fascista nasce come reazione
antisindacale e soprattutto antisocialista. Reazione armata, che si
organizza appunto in squadre, seguendo gli schemi di un elementare
ordinamento militare e mettendo a frutto le esperienze della guerra.
Le squadre nascono dapprima là dove le lotte sociali hanno
assunto maggiore asprezza. Di esse si era avuto un precedente, sin
dall'estate, nella Venezia Giulia, ma si era trattato di una
situazione particolare, legata ai conflitti di nazionalità
tra Italiani e Slavi e alla questione di Fiume.
Nel resto d'Italia una accelerazione allo squadrismo viene semmai
dalle elezioni amministrative dell'autunno 1920, nelle quali molte
amministrazioni locali sono conquistate dai socialisti all'insegna
di un programma antinazionale e fortemente provocatorio.
Il primo episodio squadristico di rilevanza nazionale sarà
costituito appunto dai fatti di Bologna del novembre 1920, dove le
squadre fasciste si scontrano con la manifestazione socialista,
indetta per l'insediamento del nuovo consiglio comunale. Il cruento
conflitto che ne seguì, con numerose vittime, portò
allo scioglimento del consiglio comunale stesso, segnando quindi una
vittoria fascista. Dopo di allora il modello squadristico si
diffonderà in tutte le regioni dell'Italia settentrionale e
centrale, e in molte zone dell'Italia meridionale. Alla guida delle
squadre fasciste si formerà una struttura gerarchica, in
genere su base provinciale, all'interno della quale emergeranno
uomini nuovi, capaci di esercitare un forte potere locale e
perciò ben presto denominati ras. Così a Bologna Dino
Grandi, a Ferrara Italo Balbo, a Cremona Roberto Farinacci, a Pavia
Cesare Forni, a Firenze Dino Perrone Compagni, a Bari Giuseppe
Caradonna, ecc. Anche se la nascita delle squadre fu spesso il
frutto di iniziative locali, Mussolini seppe abilmente coordinare
l'insieme del movimento inquadrandolo in una struttura nazionale, e
farsene il capo, anzi, come ben presto si disse, il 'Duce'.
Tra la fine del 1920 e la prima metà del 1921 lo sviluppo del
nuovo movimento fascista fu impetuoso, e i Fasci diventarono in
breve una delle più consistenti forze politiche del paese. In
essi, e specialmente nelle prime formazioni squadriste, erano
certamente confluiti uomini ai margini della delinquenza,
avventurieri, o comunque persone specialmente votate alla violenza.
Di questa componente i Fasci manterranno a lungo il segno; e
tuttavia essa diverrà ben presto secondaria. Con il loro
crescere, le file del movimento fascista acquistavano una
composizione assai varia: molti gli ex combattenti, molti gli
studenti, ma si può dire che complessivamente nessuna
categoria sociale vi rimaneva estranea, anche se la prevalenza era
di ceti medi.
L'obiettivo che i Fasci ben presto si prefissero fu quello di una
sistematica occupazione del territorio, spazzando via le forze
avversarie, organizzazioni sindacali e amministrazioni locali,
attraverso incursioni (le cosiddette spedizioni punitive) che
muovevano per lo più da un centro urbano e miravano alla
devastazione di sedi e alla intimidazione di uomini. Il successo di
questi metodi violenti non sarebbe stato possibile senza talora il
concorso, spesso la connivenza, quantomeno la tolleranza dei
pubblici poteri. Una quasi naturale intesa si ebbe, intanto, tra
Fasci e forze militari; anche forze di polizia e carabinieri
mostrarono spesso simpatia per le azioni dei fascisti rivolte
proprio contro coloro che dalla fine della guerra si erano
presentati come i nemici dell'ordine; la stessa magistratura, in
più di una occasione, dimostrerà verso i fascisti
grande indulgenza. Tutto ciò era in gran parte il frutto di
uno spontaneo consenso, che accompagnò il sorgere della
reazione fascista per più di una ragione. Ma si trattò
anche di un problema politico, cioè dell'atteggiamento del
governo. Nei primi mesi del 1921, cioè nello stesso momento
in cui maturava l'offensiva squadrista, sperando di riuscire in tal
modo a risolvere la paralisi parlamentare, il presidente del
Consiglio Giolitti decise di sciogliere la Camera e indire nuove
elezioni. Per evitare il frazionamento delle forze costituzionali,
il governo promosse liste di coalizione (i cosiddetti blocchi) nelle
quali furono accolti anche i candidati fascisti. Pertanto i Fasci
venivano a essere considerati alleati del governo.
Alle elezioni del maggio 1921 furono eletti 35 deputati fascisti,
tra cui Mussolini. Da quel momento il suo problema fu quello di
gestire la nuova forza politica fascista, emersa in modo inaspettato
e assai squilibrata tra Camera e paese, quali obiettivi generali
porle, quale immagine dare del fascismo stesso. Un tentativo,
nell'estate, di limitare la violenza squadrista attraverso un patto
di pacificazione che avrebbe dovuto normalizzare la situazione,
fallì clamorosamente portando anzi ad una momentanea rottura
tra Mussolini e una parte del movimento fascista.
La crisi fu superata al Congresso di Roma (novembre 1921), nel quale
il movimento si trasformava in Partito Fascista; questo incorporava
al suo interno le squadre armate, dando il primo esempio, nel quadro
di istituzioni rappresentative, di un partito politico che
ufficialmente faceva della violenza un metodo di lotta. Mussolini
era riconfermato il Duce del fascismo. La questione di che cosa il
nuovo partito si proponesse di fare era più che mai aperta.
Il fatto stesso che si consentisse ad un partito politico di avere
una sua forza armata significava che il paese era senza governo. In
effetti le elezioni del 1921 non avevano affatto risolto quella
paralisi parlamentare che privava ogni governo in carica della
necessaria autorità. In questa situazione la violenza
fascista, che dall'autunno del 1921 era ripresa su ancor più
larga scala, procedeva ormai incontrastata. Se un anno prima i
nemici dell'ordine erano potuti apparire i socialisti, sicché
la reazione fascista era sembrata restauratrice, ora la situazione
si era rovesciata. La legalità veniva sistematicamente
infranta dall'azione delle squadre fasciste, che non incontrava
più alcuna resistenza. Così, nel corso del 1922,
impotenza parlamentare e violenza squadrista venivano a svolgere
ruoli complementari per consegnare il governo nelle mani di
Mussolini. Da un lato, infatti, non trovando più sulla sua
strada alcun serio ostacolo, era naturale che l'offensiva fascista
si ponesse obiettivi sempre più ambiziosi, sino alla
conquista del potere. Dall'altro lato, una classe politica ormai
allo sbando sempre più si veniva convincendo che, per
riportare il paese alla normalità e ristabilire l'ordine,
l'unico modo fosse quello di dare ai fascisti stessi
responsabilità di governo. In questo clima matura, alla fine
di ottobre, la cosiddetta marcia su Roma, cioè la ripetizione
in scala maggiore del modello di spedizione squadrista, contro la
stessa capitale del regno. Essa fece precipitare una crisi politica
già in atto, per uscire dalla quale il re decise di affidare
allo stesso Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo.
b) Primo periodo di governo (1922-1925)
Mussolini formò un gabinetto al quale oltre a tre fascisti
(Aldo Oviglio, Alberto De Stefani, Giovanni Giuriati), a un
nazionalista (Luigi Federzoni) e a un indipendente (Giovanni
Gentile), partecipavano sia alcuni tra i più alti gradi
militari (Armando Diaz, Paolo Thaon de Revel), sia i rappresentanti
di quelle stesse forze politiche che avevano composto i governi
precedenti. Indi si presentò ai due rami del parlamento per
ottenere la fiducia e i pieni poteri in materia finanziaria e
amministrativa, e l'una e gli altri gli furono concessi con ampia
maggioranza, nonostante le sprezzanti parole pronunciate alla Camera
("Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di
manipoli"). Da un punto di vista formale, perciò, non vi fu
violazione della legalità istituzionale. Tuttavia è
dubbio che dopo il 28 ottobre 1922 si possa ancora parlare per lo
Stato italiano di regime liberale. Intanto, la violenza che aveva
accompagnato la conquista del potere da parte di Mussolini non
cessò affatto, come mostrarono già i sanguinosi fatti
di Torino del dicembre e una miriade di episodi successivi.
All'inizio del 1923, inoltre, Mussolini varò due
provvedimenti che trasformavano di fatto la natura dello Stato. Il
primo fu la costituzione del Gran Consiglio del Fascismo. Questo
nuovo organo riuniva insieme uomini detentori di cariche pubbliche e
uomini detentori di cariche all'interno del Partito Fascista,
trasformando quest'ultimo da associazione privata in pubblica
istituzione. Il secondo provvedimento costituì all'interno
dello Stato una nuova forza armata, la Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale (MVSN), nella quale confluivano le squadre
fasciste. In tal modo, dopo la conquista del governo, Mussolini si
apprestava alla conquista fascista dello Stato, presentando se
stesso e il suo movimento non come rappresentanti di una parte
politica, ma della nazione tutta. La facilità con cui
Mussolini conseguì questi risultati senza incontrare alcun
serio ostacolo richiede qualche spiegazione.Non si trattò
soltanto di forza, bensì anche di un vasto e assai diffuso
consenso.
Le ragioni di questo consenso furono assai varie. Posto che nessuno
dei contemporanei era allora in grado di sapere che cosa il fascismo
fosse e dove avrebbe condotto il paese, queste ragioni furono in
parte negative, in parte positive. Le prime consistevano soprattutto
nel disgusto per le forze politiche presenti sulla scena
parlamentare le quali, sia al governo sia all'opposizione, si erano
mostrate assolutamente incapaci di gestire la cosa pubblica o di
suggerire credibili vie alternative. La necessità di un
radicale ricambio della classe politica era perciò fortemente
sentita e assai paventata l'ipotesi di un qualsiasi ritorno al
precedente malgoverno. Le seconde ragioni consistevano soprattutto
nelle simpatie che il movimento di Mussolini era riuscito a
guadagnarsi tra molti strati di cittadini, e specialmente tra i ceti
medi, non tanto per la difesa da esso assunta di interessi materiali
offesi, quanto e soprattutto presentandosi come il legittimo erede
della tradizione nazionale. Ciò era stato in gran parte
facilitato dal fatto che ambedue i maggiori partiti politici
italiani, il socialista e il popolare, sia per scelta sia per i modi
della propria storia, erano forze estranee, se non ostili,
all'eredità risorgimentale. Inoltre, poiché l'insieme
della tradizione nazionale era apparso riassunto nella guerra, e
poiché la stessa esperienza fascista era maturata sul terreno
della difesa della guerra, di quella tradizione il fascismo poteva
facilmente presentarsi come il legittimo erede. Questa apparenza
nascondeva il fatto che, dall'interventismo in avanti, i sostenitori
della guerra, e cioè l'insieme di quelle forze che sembravano
rappresentare la tradizione nazionale, lungi dall'essere uniti tra
loro si erano sempre più divisi intorno alla questione dei
fini della guerra, distinguendosi in nazionalisti e democratici. E
in realtà il fascismo non rappresentava affatto l'insieme di
quelle forze politiche che la guerra aveva voluto e sostenuto; di
esse, esso rappresentava soltanto la parte nazionalista, e
cioè solo quella parte che ben poco aveva a che fare con i
principî ispiratori del Risorgimento.
La pretesa del fascismo di ergersi a erede della tradizione
nazionale era pertanto priva di fondamento e costituiva una vera
appropriazione indebita, cioè un inganno. Tuttavia, ben
difficilmente questo inganno sarebbe stato possibile se già
in precedenza, e specialmente a partire dal 1887, non si fosse
consumata nello spirito pubblico del paese una vera e propria
metamorfosi, secondo la quale i valori della tradizione
risorgimentale si erano venuti gradualmente a scolorire, il
patriottismo trasformandosi in nazionalismo. Non sorprende
perciò che nel febbraio del 1923 il movimento nazionalista
venisse ufficialmente assorbito nelle file del Partito Fascista.
Oltre quelle iniziative con le quali egli aveva mirato a consolidare
il suo potere, venendo con ciò a conferire al fascismo stesso
una più precisa definizione, Mussolini seppe imprimere
all'opera del suo governo un ritmo nuovo. Assunto direttamente il
controllo, con il dicastero degli Interni, dell'ordine pubblico, il
governo Mussolini si distinse sul piano interno soprattutto per aver
proseguito, con il ministro De Stefani, l'opera di restaurazione
finanziaria dei precedenti gabinetti, risanando il bilancio, e per
aver attuato, con il ministro Gentile, una significativa riforma
della scuola. Sul piano internazionale l'esordio di Mussolini, che
deteneva anche il dicastero degli Esteri, fu meno convincente,
dimostrando già nell'estate del 1923, in occasione di un
incidente con la Grecia, la sua propensione all'avventurismo
(occupazione di Corfù). Malgrado gli indubbi successi e una
consistente misura di consenso, Mussolini avvertiva il pericolo
della sua debolezza parlamentare. Perciò, attraverso la
cosiddetta legge Acerbo, egli si propose di correggere il meccanismo
elettorale eliminando la frantumazione della rappresentanza prodotta
dalla proporzionale e introducendo un forte premio di maggioranza,
tale da assicurare la stabilità del governo.
Le resistenze della Camera all'approvazione di questa legge furono
vinte sia con l'intimidazione, sia grazie all'intervento della Curia
volto a superare l'opposizione del Partito Popolare con il forzato
allontanamento del suo segretario, don Luigi Sturzo. Le nuove
elezioni si tennero nell'aprile 1924. Anche se la campagna
elettorale fu condotta in un clima di violenza e gli arbitri
commessi furono innumerevoli, la misura del successo fascista (64,9%
dei voti), raggiunto per lo più con una lista di forze
coalizzate dove la vecchia classe politica si mescolava con le nuove
leve fasciste (il cosiddetto listone), dimostrò quanto quella
violenza fosse in gran parte gratuita. Ma essa era parte costitutiva
e del carattere di Mussolini e del suo movimento. Pochi giorni dopo
l'apertura della nuova Camera (24 maggio), il deputato socialista
Giacomo Matteotti, uomo di grande coraggio fisico e integrità
morale, che aveva denunciato le violenze elettorali dei fascisti e
promesso di produrre ancor più ampia documentazione, fu
rapito da una squadra fascista e ucciso. Il rapimento avvenne il 10
giugno, il corpo martoriato fu ritrovato soltanto il 16 agosto; ma
fu subito chiaro che si trattava di un crimine e di che parte
fossero gli autori. L'emozione nel paese fu fortissima,
sicché per alcune settimane parve che il governo Mussolini
potesse essere rovesciato. Ma l'insipienza dimostrata, ancora una
volta, dalle opposizioni e il sostegno che continuarono a dargli le
forze istituzionali, Corona, Senato, Camera dei deputati,
consentirono a Mussolini di superare anche questo momento di crisi,
certamente il più grave da quando aveva assunto il potere e
sino al luglio 1943. A sostegno di Mussolini si rinnovò nel
paese la mobilitazione delle squadre fasciste, riprendendo e
gradualmente accentuando il clima di violenza e di intimidazione
contro tutti gli oppositori. Ogni incertezza venne poi
definitivamente superata con il discorso parlamentare di Mussolini,
il 3 gennaio 1925, in cui egli si assumeva ogni
responsabilità politica e morale di quanto avvenuto, sfidando
gli oppositori, se ne erano capaci, a porlo in stato di accusa.
c) Trasformazione in regime (1925-1929)
Con il 3 gennaio 1925 inizia la vera e propria dittatura fascista.
Essa si verrà attuando prima sul piano dei fatti, con una
drastica riduzione dei poteri del Parlamento, con l'impedire ogni
libertà di stampa, col costringere al silenzio ogni voce di
opposizione, con ciò mettendo fine alla stessa vita politica.
Ma di lì a poco la dittatura acquistò una veste
legale, attraverso una serie di leggi che da un lato ponevano fine a
quelle libertà, di parola, di stampa, di associazione,
sancite dallo Statuto albertino, che pur rimaneva formalmente in
vigore, sicché i cittadini venivano riportati allo stato di
sudditi; e che, dall'altro lato, accrescevano smisuratamente il
potere di Mussolini. Questo processo di trasformazione dello Stato
si protrasse nel tempo e subì, almeno sino alla guerra, una
serie di correzioni, ma le basi del nuovo regime vennero solidamente
poste tra il 1925 e il 1926. Le sue tappe fondamentali furono: la
legge 24 dicembre 1925, sulle attribuzioni e prerogative del capo
del governo, con la quale non solo si sottraeva il potere esecutivo
al controllo parlamentare, ma istituendo la nuova figura del capo
del governo si concentravano nelle sue mani pressoché tutti i
poteri, limitando anche l'iniziativa legislativa del Parlamento e
perciò rimettendo di fatto nelle sue mani anche la
facoltà di fare le leggi; la legge sulla stampa, del 31
dicembre 1925, che introduceva su tutto quanto si pubblicasse un
pesante controllo politico; nel corso del 1926, le leggi che
ponevano fine alle elezioni per la formazione delle amministrazioni
locali e istituivano a capo dei comuni la figura del podestà
di nomina governativa. Il ciclo si chiuse, in un certo senso, con la
legge 25 novembre 1926 per la difesa dello Stato. Essa non solo
rendeva illegale ogni manifestazione di dissenso, ma consentiva di
privare della libertà personale in base al semplice sospetto,
istituiva nuove pene detentive quali il confino di polizia, e
sottraeva il giudizio dei reati politici alla magistratura ordinaria
affidandolo sia alle autorità di polizia, sia al nuovo
Tribunale speciale, il quale poteva anche applicare la pena di
morte.
Perciò, a partire dalla fine del 1926, lo Stato fascista
sarà anche formalmente uno Stato di polizia. La dittatura
troverà il suo completamento nella legge elettorale del 17
maggio 1928, la quale introduceva la lista unica, sostituendo con
ciò alla libera scelta elettorale il sistema
plebiscitario.Nel corso di quei due fatidici anni (1925 e 1926),
l'unica lotta politica di cui in Italia si possa parlare fu
combattuta all'interno del fascismo stesso. Si trattò di uno
scontro molto significativo, che ebbe come contendenti da una parte
Roberto Farinacci, il quale dal febbraio 1925 era il segretario
nazionale del Partito Fascista, dall'altra alcuni personaggi di un
fascismo per così dire revisionista (Giuseppe Bottai, Camillo
Pellizzi, Ermanno Amicucci); e mentre alle spalle del primo stavano
alcuni tra i più irriducibili ras squadristi, alle spalle dei
secondi stava lo stesso Mussolini. La posta in gioco era il ruolo
del Partito Fascista nella gestione del potere, e cioè la
parte che il movimento fascista stesso era chiamato a svolgere
all'interno del nuovo regime. Sommariamente i termini della partita
si misuravano all'interno di ciascuna provincia nel confronto tra il
potere del segretario federale fascista, espressione del partito, e
i poteri del prefetto, espressione dell'amministrazione statale. Ma
le implicazioni generali erano più vaste, giungendo, ad
esempio, ad investire la questione del rapporto tra milizia fascista
ed esercito regio. In un certo senso, ed è un punto della
massima importanza, il contrasto riguardava il rapporto stesso tra
il movimento fascista e Mussolini. Questi sin dal 1923 (c'è
una sua circolare ai prefetti, del 13 giugno) aveva chiaramente
mostrato la sua preferenza, nella gestione del potere da poco
conquistato, a servirsi piuttosto dei tradizionali organi dello
Stato che non dei meno affidabili capi fascisti. Tra il 1924 e il
1925, tuttavia, la situazione era cambiata, perché
l'intervento del rinato squadrismo aveva avuto una parte
considerevole nel permettere a Mussolini di superare indenne la
crisi Matteotti. La nomina alla segreteria del Partito di Farinacci,
uno dei più estremisti tra i capi fascisti e sostenitore di
una sorta di 'rivoluzione permanente', era il riconoscimento di
questo debito.
Per oltre un anno il terreno della contesa fu la libertà di
iniziativa delle squadre fasciste, che continuarono a imperversare,
e poiché dal giugno 1924 Mussolini aveva lasciato il
dicastero degli Interni, l'interlocutore diretto di Farinacci fu il
nuovo ministro Federzoni. Questi, anche se poco dopo fu messo da
parte, ebbe di fatto partita vinta. Ma il vincitore vero fu
Mussolini. Nel novembre 1926, una volta che con le nuove leggi il
suo potere personale si era rinsaldato, egli riprendeva nelle sue
mani le redini di quel dicastero degli Interni, che era una
posizione chiave per la gestione di un potere largamente basato
sulla repressione. Frattanto, il 30 aprile 1926, Farinacci veniva
rimosso dalla segreteria del partito e al suo posto veniva nominato
un ben più docile personaggio, Augusto Turati. Da allora in
poi il ruolo del Partito e di tutte le organizzazioni fasciste, che
si estenderanno in una rete capillare il cui fine era quello di
coinvolgere il maggior numero possibile di persone, sarà
sempre più limitato al compito di mediatore del consenso,
attraverso opere di assistenza, iniziative culturali e sportive,
attività ricreative, gestione della propaganda, e tutte
quelle manifestazioni coreografiche nelle quali si incarnava
l'immagine del fascismo. All'insegna del motto "credere, obbedire,
combattere", il movimento fascista perdeva così ogni
originario attivismo per assumere come propria virtù
cardinale quella di una sottomessa disciplina. L'iniziativa politica
restava intera nelle mani di Mussolini e il potere di imporre le
regole della dittatura nelle mani della polizia di Stato.
In tal modo Mussolini riuscì abilmente a costruire il suo
regime con una nuova e assai radicale operazione di trasformismo.
Rimanendo il re capo dello Stato, rimanendo le strutture della
pubblica amministrazione formalmente invariate, Mussolini
poté facilmente far credere che la cosiddetta rivoluzione
fascista si fosse limitata a correggere, nei rapporti tra potere
legislativo e potere esecutivo, quelle storture che avevano impedito
allo Stato risorgimentale di essere un vero Stato nazionale. E nel
quadro di questo regime, ben oltre i limiti angusti dell'originario
movimento, il termine fascista si dilatava sino a includere tutti
coloro disposti a riconoscere quale bene supremo l'interesse
nazionale, cioè di fatto quanto Mussolini stesso indicava
come tale. Lungo questa strada, che mirava a raccogliere sotto le
ali del fascismo ogni qualsivoglia componente significativa di una
storia nazionale che prendeva le mosse dall'Impero romano,
Mussolini, allargando quanto più possibile la sfera del
consenso, si propose il riavvicinamento alla Chiesa, cioè il
superamento anche formale della questione romana e la sistemazione
dei rapporti tra Curia e Stato italiano. Fu la cosiddetta
riconciliazione, sancita dagli accordi sottoscritti l'11 febbraio
1929. Anche l'Italia cattolica veniva in tal modo fascistizzata.
Dopo questa svolta poté tanto più sembrare che i due
termini 'italiano' e 'fascista' fossero sinonimi.Nasceva su queste
basi lo Stato 'totalitario' che, a differenza di quanto avveniva o
avverrà altrove, ebbe in Italia un carattere particolare. La
sua istanza fondamentale era che la vita privata venisse quanto
più possibile assorbita in quella pubblica, e che la vita
pubblica si svolgesse interamente nell'ambito dello Stato fascista.
In realtà la vita privata mantenne un suo margine di
autonomia e anche quella pubblica un suo margine di indipendenza, se
non di libertà, almeno in alcuni settori, come quello della
stampa. Se, infatti, i quotidiani erano rigidamente controllati, su
libri e periodici la censura fascista non fu priva di indulgenza.
Dove lo Stato fascista condusse con successo una sistematica
occupazione di tutti gli spazi fu nel tessuto della società
civile. Istituzioni culturali e ricreative, organizzazioni
professionali, settori chiave dell'apparato produttivo del paese,
enti sanitari e assistenziali, in aggiunta naturalmente a tutti
quegli organismi, come la scuola in tutti i suoi gradi, che
direttamente o indirettamente già erano o verranno a cadere
sotto il controllo pubblico, tutto doveva gravitare nell'orbita del
fascismo. Ciò significava che sia sul piano dell'occupazione
sia su quello del prestigio e dell'ascesa sociale, nessuno era in
grado di farsi strada senza un atto di sottomissione al fascismo.
Una sottomissione per lo più soltanto formale, che non
implicava necessariamente una partecipazione attiva alla vita del
regime e un'adesione sincera al suo credo; ma una sottomissione che
quanto meno sembrava onerosa in termini di impegno personale, tanto
più era esigente in termini di ossequio formale. Malgrado la
formula del giuramento fascista recitasse che ogni iscritto al
Partito si impegnava a servire la causa della rivoluzione fascista
con tutte le sue forze e se necessario col suo sangue, nello Stato
totalitario mussoliniano il prototipo del fascista non fu affatto
l''uomo nuovo', il milite fedele all'idea e agli ordini del Duce: il
prototipo del fascista fu in realtà il conformista.
d) Esperienza corporativa (1929-1935)
La riprova del successo raggiunto, il quale mostrava l'effettivo
consolidamento del regime fascista all'interno non del solo Stato ma
anche della società italiana, fu data dai risultati delle
elezioni che si tennero, secondo la nuova legge, il 24 marzo 1929:
vi parteciparono l'89,63% degli aventi diritto al voto, e i
'sì' furono 8.506.574 (94,4%), contro 136.198 'no' (1,6%). Il
plebiscito voluto da Mussolini aveva dato gli attesi frutti. E
tuttavia le condizioni di vita degli Italiani erano tutt'altro che
rosee. Oltre all'antica piaga della disoccupazione, per la quale il
fascismo non aveva saputo offrire alcun rimedio nuovo, la politica
economica fortemente deflazionistica imposta da Mussolini e
riassunta nella formula della cosiddetta 'quota novanta'
(cioè il valore di cambio della sterlina non doveva superare
le novanta lire), aveva effettivamente stabilizzato la nostra moneta
e perciò rafforzato il nostro credito sui mercati finanziari
internazionali; ma, al tempo stesso, aveva reso più difficili
le nostre esportazioni, scoraggiato gli investimenti e prodotto una
diminuzione di salari e stipendi alla quale non aveva corrisposto
una eguale diminuzione dei prezzi. D'altra parte, modi per far
sentire voci di protesta non esistevano più. Sciolte le
antiche organizzazioni sindacali, i nuovi sindacati fascisti erano
divenuti organi dello Stato e perciò, impegnati ad evitare
vistosi conflitti, disponevano di mezzi assai limitati per premere
sulla parte padronale. Rimosso il concetto di lotta di classe,
impedito lo sciopero, ogni contrasto doveva riuscire a comporsi
senza turbare l'armonia sociale e la produzione nazionale. I termini
di questa nuova visione collaborazionistica erano stati sanciti
dalla legge 3 aprile 1926, per la disciplina giuridica dei rapporti
collettivi di lavoro, le cui vertenze venivano rimesse a una
speciale magistratura del lavoro.
Ciò corrispondeva alla nuova idea di 'corporazione',
cioè di un organismo che raccogliesse unitariamente tutti
coloro che operavano in un determinato settore produttivo, non
importa con quale grado e con quale funzione. Nel luglio 1926 era
stato creato il Ministero delle Corporazioni e al suo fianco il
Consiglio Nazionale delle Corporazioni, anche se in realtà le
corporazioni stesse non esistevano ancora. Il 21 aprile 1927 le
nuove regole e i principî a cui queste erano improntate
venivano enunciati ufficialmente nella Carta del lavoro. Si trattava
di un insieme di provvedimenti i quali, a parole, costituivano, come
scrisse lo storico fascista Gioacchino Volpe, "l'opera più
originale della rivoluzione fascista". "Si partiva - così
continua Volpe - dal concetto che la nazione italiana è
un'unità morale politica economica che si realizza nello
Stato; che i cittadini sono necessariamente solidali nella nazione;
che il lavoro non è un diritto ma un dovere e come tale viene
tutelato dallo Stato; che la produzione nazionale è unitaria
e unitari i suoi obiettivi, cioè lo sviluppo della potenza
nazionale [...]; che le forze produttive nazionali, organizzate nei
sindacati, se non si vuole che, operando fuori dello Stato, siano
contro lo Stato, debbono essere dentro lo Stato [...]. Individuo e
Stato, finora disgiunti o non bene e organicamente congiunti, sono
da collegare meglio e quasi compenetrare l'uno nell'altro, per il
tramite del sindacato e dei corpi sindacali, organi di diritto
pubblico, operanti nell'ambito e sotto il controllo dello Stato" (v.
Volpe, 1943², pp. 139-140). Era, come ben si vede, una
concezione dello Stato opposta a quella liberale.
Ma, al tempo stesso, rimaneva del tutto impreciso in che modo,
all'interno delle corporazioni, all'armonia sociale imposta dal
potere si potesse accompagnare un'armonia effettiva, distribuendo
equamente tra le parti oneri e profitti. La prova comunque fu
rimandata nel tempo, perché per alcuni anni i pur già
enunciati principî corporativi e i pur già creati
organi rimasero in letargo. A risvegliarli provvide la grande crisi
del 1929 che, sconvolgendo l'intero sistema economico del mondo
occidentale, provocò anche in Italia effetti funesti. Per
porvi in qualche modo rimedio, si rese necessario l'intervento dello
Stato. In esso Mussolini vide l'occasione per rilanciare la formula
dello Stato corporativo, la quale consentiva ora di presentare sulla
scena internazionale il fascismo come il portatore di una dottrina
che, tra lo statalismo radicale del comunismo russo e la eccessiva
permissività privatistica del capitalismo occidentale, era in
grado di indicare all'economia moderna una terza via. Tuttavia si
trattava assai più di parole che di fatti.
Lo Stato corporativo si assunse effettivamente l'onere della
gestione diretta di molti settori disastrati e di pagarne le forti
perdite; ma nella coesistenza di pubblico e di privato, che
rinnovava l'esperienza già fatta negli anni di guerra
dell'economia associata, i ruoli rimanevano assai squilibrati, sia
nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori dipendenti, sia
rispetto al potere di avanzare e imporre scelte di indirizzo
generale, cioè di attuare una vera programmazione economica.
Di fatto, proprio in questi anni, si stabiliva quella prassi,
destinata ad una larga e assai prolungata fortuna, riassunta nella
formula "socializzazione delle perdite, privatizzazione dei
profitti". Semmai, l'indicazione che la politica economica fascista
seppe effettivamente far valere nel sistema produttivo italiano, fu
quella dell'autarchia: si riprendeva così uno dei motivi
classici del nazionalismo, e cioè il mito della indipendenza
economica. Del resto, su questa strada si era già posta la
politica agricola del fascismo che, a partire dal 1925, con la
battaglia del grano, si era proposta di raggiungere
l'autosufficienza nazionale nella produzione di questo fondamentale
cereale. I risultati raggiunti furono positivi, ma in buona parte
illusori. Le assai accresciute rese (nel 1933 il grano prodotto fu
quasi sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale) nascondevano il
fatto che solo in parte queste erano il frutto di accresciuta
produttività del suolo o della messa a coltura di nuove
terre, rese fertili dalle bonifiche (come la giustamente nota
bonifica dell'Agro Pontino).
Per lo più si trattava invece di un fenomeno indotto da
artificiosi incentivi, per cui si continuava o si estendeva la
coltura granicola su terreni inadatti e che sarebbe stato
economicamente assai più vantaggioso destinare a diverso uso.
Ma illusioni ancor maggiori la politica autarchica era destinata a
produrre sul piano industriale, in un paese come l'Italia del tutto
povero di materie prime.Con queste scelte, avendo il fascismo
imboccato una strada del tutto incapace di condurre a un aumento
effettivo della produttività del paese, era poco probabile
che esso riuscisse ad alleviare i rigori della perdurante questione
sociale e a trovare una risposta adeguata alla crescente
disoccupazione (1.158.418 disoccupati, nel gennaio 1934, secondo le
fonti ufficiali notoriamente assai inferiori al vero: v.
Salvatorelli e Mira, 1956, p. 538). E ciò nonostante il
regime si impegnò in una insistente campagna di propaganda
per favorire l'aumento delle nascite, ponendo tra i propri fini
quello dell'incremento demografico del paese. I problemi di fondo
rimanevano perciò privi di soluzione e lo Stato corporativo
si mostrava per quello che effettivamente era: una pura formula di
propaganda. È difficile dire in che misura la delusione
destinata a seguire questo grossolano inganno avrebbe potuto
incidere sulla stabilità del regime, offuscandone l'immagine.
Il tempo della resa dei conti non era ancora giunto. Altre frecce
aveva ancora al suo arco la politica di Mussolini per stimolare le
emozioni degli Italiani e distogliere la loro attenzione dalla dura
realtà delle cose.
e) Svolta della guerra di Etiopia (1935-1939)
Nel luglio del 1932 Mussolini aveva ripreso nelle proprie mani la
direzione del dicastero degli Esteri, alla cui guida dal settembre
del 1929 aveva lasciato che facesse la sua prova uno dei più
noti e intelligenti capi fascisti, Dino Grandi. Questo cambio della
guardia coincideva con l'aprirsi in Europa di un periodo di gravi
sconvolgimenti, alla cui origine era la crisi della Repubblica di
Weimar e l'avvento al potere in Germania di Adolf Hitler (30 gennaio
1933). Sino a questa data, malgrado non fossero mancate provocazioni
verbali, qualche atto sconsiderato (come Corfù), e
manifestazioni propagandistiche attraverso le quali Mussolini aveva
denunciato la perdurante insoddisfazione dell'Italia per la
'vittoria mutilata' e perciò la sua insoddisfazione per
l'ordine europeo e l'assetto mediterraneo raggiunti dopo la fine
della guerra, la politica estera fascista era rimasta
sostanzialmente legata a quella degli alleati europei di guerra
(Francia e Inghilterra) e aveva dato la sua collaborazione alla
Società delle Nazioni. I fini di questa politica avrebbero
dovuto essere quelli di garantire la sicurezza europea attraverso il
rispetto dei trattati, la stipulazione di nuovi accordi suggeriti
dalle circostanze, e la limitazione degli armamenti.
Tuttavia al leale perseguimento di questa linea politica ostavano
sia il carattere di Mussolini e i suoi pregiudizi, sia le esigenze
di una macchina propagandistica la quale, per garantire il consenso,
doveva costantemente trovare pretesti per eccitare gli animi. Da un
lato, perciò, Mussolini non poteva né concepire
né desiderare una pace stabile. Egli condivideva pienamente
quei presupposti nazionalistici i quali, accogliendo suggestioni
darwiniane, ritenevano legge imprescindibile della vita dei popoli
una sorta di lotta permanente, ciascuno di essi mirando alla propria
espansione. Questa rozza concezione della vita internazionale, che
assumeva l'imperialismo e la guerra come propri cardini, si
coniugava spontaneamente con il naturale cinismo di Mussolini,
predisponendolo a ogni forma di intrigo e ogni tipo di avventura,
dai quali egli credesse di potersi ripromettere un qualche immediato
guadagno. Dall'altro lato, il successo della propaganda fascista
essendo in gran parte legato all'immagine di un'Italia nuova che,
grazie all'azione e alla sapienza del Duce, aveva raggiunto sulla
scena internazionale una posizione di prestigio e ottenuto di essere
riconosciuta alla pari tra le grandi potenze, occorreva
periodicamente rinnovare quelle occasioni di prova, nelle quali
questo artifizio potesse riproporsi. In questo contesto l'assopita
ma non mai deposta speranza di una nuova impresa africana era
destinata a ridestarsi.
Ironia della sorte, l'occasione per una ripresa di iniziativa in
Africa fu data a Mussolini dalla situazione di pericolo creatasi in
Europa dopo l'avvento al potere di Hitler. Mussolini riteneva
infatti, non infondatamente, che Francia e Inghilterra avessero ora
più che mai bisogno di un'Italia amica e che non avrebbero
perciò ostacolato un'impresa coloniale italiana verso l'unica
regione africana ancora libera dalla dominazione europea, l'Etiopia.
D'altra parte, adiacenti a questa regione l'Italia aveva già
due colonie, la Somalia e l'Eritrea, che rendevano plausibili i
progetti di un'ulteriore espansione.
Dopo una laboriosa fase di preparazione, sia militare che
diplomatica, durante la quale Mussolini ritenne di avere ottenuto un
consenso esplicito almeno dalla Francia (colloqui romani col
ministro degli Esteri francese Pierre Laval, gennaio 1935), ai primi
di ottobre di quello stesso anno l'Italia fascista iniziava una
guerra di aggressione contro il vecchio Impero etiopico, nonostante
esso fosse uno Stato membro della Società delle Nazioni. Come
era prevedibile, data la disparità di forze, la campagna
militare si risolse abbastanza rapidamente a favore delle truppe
italiane che, dopo pochi mesi di operazioni, il 5 maggio occupavano
la capitale Addis Abeba. Mussolini poté così
annunciare al popolo italiano, in un commosso discorso, che l'Italia
fascista aveva ridato vita a un Impero romano e Vittorio Emanuele
III assumeva da allora il titolo di re e imperatore. Il tripudio
nazionale fu grande. Ben pochi tra gli Italiani si resero allora
conto che, con la guerra di Etiopia, il fascismo aveva voltato
pagina. Da allora esso si avviava sulla strada di un'alleanza con la
Germania nazista, verso una nuova guerra europea.
Quella svolta non fu intenzionale. Ancora un anno avanti, alla
Conferenza di Stresa (aprile 1935), di fronte al pericolo del riarmo
tedesco, Mussolini aveva confermato di voler rimanere al fianco di
Francia e Inghilterra; ma, contrariamente alle sue aspettative, alla
notizia dell'aggressione italiana all'Etiopia, le reazioni nei due
paesi formalmente amici furono di dura condanna. Da Ginevra, la
Società delle Nazioni impose contro l'Italia sanzioni
economiche, e l'Inghilterra decise di spostare nel Mediterraneo una
parte della sua Home fleet. Erano segni inequivocabili di
ostilità.
Tutto ciò giovò enormemente alla propaganda fascista,
suscitando un'ondata largamente spontanea di indignazione
patriottica, che rafforzò il fronte interno ed ebbe una
plateale manifestazione nella pubblica offerta dell'oro, soprattutto
le fedi nuziali, alla patria. Inoltre, mentre sino ad allora
Mussolini aveva ostentato l'amicizia dell'Italia per l'Inghilterra,
da questo momento prenderà piede una violenta campagna
propagandistica anti-inglese, destinata a durare ininterrotta sino
alla guerra. E mentre sino a questa data la politica estera fascista
non aveva fatto eccessivo spazio all'ideologia, se non per uso
interno, da ora in avanti le cose cambiano. Divisi tra loro i
tradizionali garanti della sicurezza europea, la Germania nazista
subito ne approfitta per dare corso ai suoi propositi aggressivi e
nel marzo 1936 occupa militarmente la Renania senza colpo ferire. Le
democrazie occidentali accettano il fatto compiuto senza reagire.
Quel primo fortunato esempio farà scuola.
Pochi mesi più tardi le divisioni ideologiche dell'Europa
troveranno nuovo terreno di scontro nella guerra civile che si
scatena in Spagna a partire dal luglio 1936. Quel conflitto si
protrarrà per tre anni e in esso, sia l'Italia di Mussolini,
sia la Germania di Hitler si schiereranno al fianco del generale
Franco, partecipando militarmente alla sua campagna. In quello
stesso triennio la Germania porterà avanti con pieno successo
i suoi primi progetti espansionistici, mostrando chiaramente al
mondo di che tempra fosse la dittatura nazista.
Malgrado alcune effettive affinità e una generica simpatia
che Hitler aveva sempre provato per il Duce, il fascismo italiano e
lo stesso Mussolini inizialmente non avevano seguito con alcun
favore la crescita del movimento nazista e la sua vittoria. Neppure
più tardi, del resto, mancarono in ambienti fascisti sospetti
nei confronti del regime hitleriano e riserve verso una politica di
avvicinamento alla Germania, la quale si ebbe soprattutto per
volontà di Mussolini. Le tappe di questo avvicinamento furono
l'intesa italo-tedesca dell'ottobre 1936 (il cosiddetto 'asse
Roma-Berlino'), la visita di Hitler in Italia nel maggio 1938 e,
atto finale, l'inaspettata stipulazione di una formale alleanza
politica e militare, il cosiddetto 'patto d'acciaio', il 22 maggio
1939. A quella data la volontà di Mussolini di seguire le
orme di Hitler si era già rivelata, con la decisione di
introdurre anche in Italia una politica razzista e una legislazione
antiebraica. Le cosiddette leggi per la difesa della razza furono
promulgate a partire dal settembre 1938, precedute e accompagnate da
una velenosa campagna di stampa. Si trattava di misure del tutto
inattese, sia perché in Italia, per ragioni storiche e anche
per il modesto numero di cittadini ebrei, una questione ebraica non
esisteva; sia perché, sino ad allora, il fascismo non aveva
mai fatte proprie posizioni razzistiche, e non erano pochi gli ebrei
che militavano nelle file fasciste. Malgrado nessun dissenso di
rilievo si sia neppure allora manifestato, il nuovo corso impresso
al fascismo aveva certamente alienato a Mussolini molte simpatie,
sicché è da ritenere che la sua popolarità nel
paese fosse in declino. Ma, ancora una volta, tutto dipendeva dalla
capacità di Mussolini di presentare al suo pubblico uno di
quei successi, poco importa se reali od effimeri, capaci di
mantenere lucente l'immagine del regime.
f) La guerra (1939-1943)
L'aggressione della Germania alla Polonia, il 1° settembre 1939,
e il successivo allargarsi di quel conflitto che chiamiamo seconda
guerra mondiale, non determinarono un automatico intervento
dell'Italia. Al contrario, malgrado l'alleanza da poco contratta,
per molti mesi fu possibile credere che Mussolini preferisse
mantenere una posizione neutrale. Tale scelta, del resto, avrebbe
corrisposto non solo all'ormai predominante sentimento pubblico, ma
a una prova di saggezza: esposta su molti fronti, data la propria
posizione geografica e la dislocazione delle proprie colonie,
logorata dalle guerre tanto di recente combattute, assai povera di
materie prime, l'Italia tra il 1939 e il 1940 aveva una preparazione
militare del tutto inadeguata all'impegno richiesto dal conflitto in
corso. Naturalmente, la neutralità era contraria al carattere
stesso di Mussolini. Inoltre, un regime la cui immagine aveva fatto
tanto largo posto alle virtù militari, nel quale uno dei fini
primari dell'educazione era stato quello di fare di ogni giovane un
potenziale soldato, difficilmente poteva sottrarsi ad entrare in
campo. La decisione di intervenire fu affrettata dal rapido
susseguirsi delle vittorie tedesche e dall'improvviso tracollo della
Francia. Di fronte alla possibilità che l'Italia fascista non
avesse titolo per assidersi al 'banchetto del vincitore' e quindi si
ritrovasse a mani vuote, il 10 giugno 1940 Mussolini rompeva gli
indugi e presentava a Francia e Inghilterra la dichiarazione di
guerra.
Si iniziava così un'avventura, nella quale l'Italia si poneva
ormai a rimorchio della iniziativa tedesca e Mussolini vedeva il suo
ruolo di Duce sempre più relegato in secondo piano, all'ombra
del Führer germanico. Troppa, infatti, tra le due potenze
alleate, era la disparità nella quantità e nella
qualità dei mezzi bellici, nelle risorse produttive, e anche
nella perizia dei comandanti. Si aggiunga che, alleandosi alla
Germania di Hitler, Mussolini aveva accettato di condividere fini di
guerra che né gli erano noti, né corrispondevano agli
affermati interessi della stessa Italia fascista. In realtà,
di tappa in tappa e attraverso imprese azzardate e clamorosi
insuccessi, sul duro terreno del confronto militare l'Italia
fascista mostrò subito tutte le proprie debolezze e quanto in
quel regime le parole poco corrispondessero ai fatti.
Ciò malgrado, finché la poderosa macchina da guerra
tedesca riuscì a macinare successi, anche le falle italiane
vennero tamponate. Quando, con il progressivo allargarsi del
conflitto, neanche le forze tedesche furono più sufficienti
per assicurare la vittoria, l'Italia fu la prima a cedere. A partire
dai primi mesi del 1943 le sconfitte, in Russia, in Africa, si
succedettero con ritmi crescenti, mentre le città italiane
erano sempre più esposte ai bombardamenti alleati. Perduto in
Africa l'ultimo lembo di terra, nel luglio 1943 gli Alleati
sbarcavano in Sicilia. Pochi giorni dopo, il 25 luglio, in una
drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo e di concerto con
il re, Mussolini veniva deposto e successivamente messo agli
arresti. Al suo posto, come capo del governo, subentrava il
maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Nelle piazze delle
città italiane, quelle stesse che sino a poco tempo prima
avevano accolto folle di cittadini plaudenti ad ascoltare la parola
del Duce, quella notizia veniva ora accolta con giubilo e la gente
si scagliava contro ogni visibile segno del fascismo. Era la fine
del regime fascista.
g) Epilogo (1943-1945)
La storia del fascismo, tuttavia, ebbe un più drammatico
epilogo. Dall'ottobre 1922 al luglio 1943, essa si identifica con la
storia d'Italia e, più precisamente, con la storia del Regno
d'Italia, nato nel 1861. Si potrà dire che il fascismo non ne
era un erede legittimo, si potrà credere che l'eredità
risorgimentale più autentica continuasse a vivere tra alcuni
pochi uomini che, esuli all'estero o stranieri in patria (e per lo
più in prigione), contro il fascismo avevano preso aperta
posizione. Ma, sul piano dei fatti, a livello istituzionale, tra
prima e dopo l'ottobre 1922 non c'è soluzione di
continuità, come mostra la permanenza a capo dello Stato
dello stesso sovrano. Anche le più rilevanti decisioni che
avevano legato il destino dell'Italia a quello della Germania, e le
leggi più infami che ne erano conseguite (come quelle
razziali), avevano sempre ricevuto il debito assenso del re. A
partire dal 25 luglio 1943 questo sodalizio viene sciolto e l'Italia
ufficiale pretende di poter continuare la sua strada libera
dall'ingombro fascista. Non era una cosa semplice, sia perché
troppe erano le comuni responsabilità e le passate
complicità, sia perché rimaneva sempre in vita
l'alleanza con la Germania, anche se ormai priva del sostegno
ideologico.
La decisione del re e del maresciallo Badoglio di rompere
unilateralmente questa alleanza e passare all'altra sponda,
annunciata agli Italiani l'8 settembre 1943, creava una situazione
drammatica e del tutto nuova, nella quale accanto alla guerra sui
fronti si apriva una guerra civile. Il teatro di questa guerra
civile fu quella parte del territorio nazionale che rimaneva ancora
in mano all'esercito tedesco e che solo gradualmente (dal settembre
1943 all'aprile 1945) verrà occupata dagli eserciti alleati.
In questa parte del paese, che sino al giugno 1944 comprese la
stessa Roma e dall'estate di quello stesso anno si ridusse ai soli
territori posti a nord della cosiddetta linea gotica, fu rimesso in
piedi un governo (la Repubblica Sociale Italiana, più nota
come Repubblica di Salò), retto ancora da Mussolini, che i
Tedeschi erano riusciti a liberare. Fu ricostituito anche un Partito
Fascista che assumeva il titolo di 'repubblicano'. Contro questo
nuovo governo e contro i Tedeschi che lo sostenevano, si
organizzò in questi territori una resistenza armata, che solo
in parte si ricollegava a una precedente e mai del tutto estinta
opposizione al fascismo, e che alimentò appunto la guerra
civile. Volgendo la guerra al suo termine con la completa disfatta
della Germania, anche questo rinato movimento fascista fu estinto.
Alla fine dell'aprile 1945 Mussolini e i principali capi fascisti
furono catturati e fucilati. I loro corpi furono portati a Milano ed
esposti a piazzale Loreto al pubblico ludibrio.
Si è talvolta detto che in quest'ultima esperienza fascista
si sarebbero ritrovati fermenti di un genuino fascismo originario,
che più tardi il regime avrebbe in buona parte tradito. Ma
è ipotesi poco convincente, sia per l'ambiguità di
questi pretesi caratteri originari, sia perché i termini del
tutto eccezionali della situazione che si crea in Italia dopo l'8
settembre 1943 non consentono di trarre da questa estrema esperienza
elementi qualificanti atti a comporre una specifica tipologia
fascista.
3. Il fascismo fuori d'Italia
Un fenomeno tanto direttamente legato a circostanze particolari,
tanto strettamente dipendente dall'immaginazione e dall'iniziativa
di un uomo, e che traeva gran parte della sua forza dal riuscire a
presentarsi come l'interprete della tradizione nazionale, non
sembrava potersi facilmente trapiantare su terreni diversi da quello
italiano dove era nato. Tuttavia, il fascismo possedette anche
caratteri in grado di suggerire forme di imitazione, sia come
movimento che come regime. Come movimento esso fornì il
modello di un partito armato, uno dei cui compiti essenziali era
quello di opporsi al bolscevismo nel nome dei valori nazionali, il
cui apparato seguiva nuovi esempi di coreografia politica, capaci di
esercitare una grande suggestione. Come regime, sul piano politico
esso aveva rivalutato il cesarismo e con esso la figura del capo
carismatico, guida dell'intero popolo, in opposizione ai
tradizionali sistemi rappresentativi; sul piano economico, con la
formula dello Stato corporativo, esso aveva preteso di risolvere le
contraddizioni del capitalismo senza cadere negli estremi del
collettivismo. Perciò la lezione fascista poté fare la
sua strada anche fuori d'Italia. Si giunse addirittura, ma si
trattò di una velleitaria operazione propagandistica, a
tentare la formazione di una Internazionale fascista, che tenne un
congresso a Montreux nel 1934. Esaminando le particolari esperienze
di un fascismo fuori d'Italia, si dovrà comunque distinguere
fra quelle situazioni in cui, senza l'intervento esterno, si ebbero
regimi dittatoriali, e le altre situazioni in cui le tracce di
fascismo si trovano soltanto sotto forma di movimento.
a) Germania
Il caso della Germania è quello che più comunemente, e
per ragioni evidenti, viene considerato nel quadro di una tipologia
fascista. Che molti dei caratteri, per lo più esteriori, del
movimento nazionalsocialista derivino dall'esempio del fascismo
italiano o comunque lo ripetano, è considerazione del tutto
ovvia. Ugualmente è pacifico che Adolf Hitler abbia subito il
fascino di Mussolini e ne abbia, almeno in parte, seguito le orme,
sia nelle forme esteriori impresse al movimento e al regime nazista,
sia nello stile di governo. Tuttavia è da ritenersi
pienamente accettabile il giudizio (v. De Felice, 1975) volto a
sottolineare come, ben oltre le apparenti analogie, esistessero tra
fascismo italiano e nazismo tedesco diversità talmente
profonde, di metodo e di sostanza, da rendere ogni equiparazione
improponibile. Del resto, le radicali differenze nel modo come, in
Italia e in Germania, si era raggiunta l'unificazione nazionale, e
il fatto che a quelle tanto diverse tradizioni sia il fascismo che
il nazismo insistentemente si richiamassero, sono ragioni
sufficienti per mettere in guardia contro affrettate
generalizzazioni.
b) Portogallo e Spagna
La tesi di un 'fascismo mediterraneo' (Charles F. Delzell), che
includerebbe accanto all'Italia i due Stati della penisola iberica,
non è convincente. Sia il Portogallo che la Spagna, intanto,
nel periodo di vita del fascismo, continuano a vivere ai margini
dell'Europa, ritardando sul piano sociale la trasformazione da
società rurali a società industriali e, sul piano
politico, l'adozione di istituzioni liberaldemocratiche (la Spagna
rimase anche del tutto estranea alla prima guerra mondiale). Nel
caso del Portogallo, la dittatura militare che prese il potere nel
maggio 1926 nulla aveva a che vedere con il fascismo di Mussolini.
Anche le successive esperienze che nel 1932 consentirono ad Antonio
de Oliveira Salazar di diventare capo del governo, in una posizione
in qualche modo analoga a quella di Mussolini (il capo dello Stato
rimaneva il presidente della Repubblica, generale Antonio Oscar de
Fragoso Carmona), si svolgeranno in un contesto particolare, il
quale rende assai dubbia la proprietà del termine 'fascista'
per la dittatura fondata da Salazar. Infatti, anche se sono presenti
alcune analogie, per lo più comuni a ogni dittatura, il
partito di Salazar (União Nacional, fondata nel luglio 1930)
ben poco aveva a che vedere con il movimento fascista, e la sua
stessa idea di Stato corporativo derivava assai più
dall'esperienza del pensiero sociale cattolico che non dall'esempio
del regime di Mussolini.
Anche l'esperienza della Spagna rimane assai più in linea con
i modelli tradizionali delle dittature militari che con la nuova
esperienza fascista. Prima della guerra civile, di un vero e proprio
movimento fascista spagnolo non si può parlare. La Falange,
fondata nell'ottobre 1933 da José Antonio Primo de Rivera (il
figlio del generale Miguel Primo de Rivera, che dal 1923 al 1930 era
stato il capo di una dittatura militare), del fascismo riprendeva
solo alcuni generici spunti programmatici. Soprattutto, la Falange
non riuscì a ottenere consenso sufficiente da permetterle di
avere un ruolo effettivo nella guerra civile, quando questa
incominciò nel luglio 1936; e ciò non soltanto per
l'uccisione dello stesso Primo de Rivera, il 20 novembre 1936, ma
per la debolezza del movimento. Dopo di allora la Falange fu di
fatto assorbita dai militari, che se ne servirono specialmente in
funzione propagandistica, cioè per accreditare una
corrispondenza tra il loro operato e l'esperienza fascista. Di
fatto, anche rispetto alla dittatura del generale Franco, che
seguì la fine della guerra civile (aprile 1939), il ruolo
della Falange rimase marginale. E di per sé, malgrado alcuni
tratti esteriori come il fatto che Franco si sia voluto presentare
come duce, il Caudillo, la dittatura franchista rimase un'esperienza
profondamente legata alle tradizioni della Spagna e influenzata
dalla Chiesa cattolica, sicché essa rappresenta un caso di
fascismo molto sui generis.
c) Francia
Il caso della Francia è assai interessante e anche
particolarmente controverso. Nel fascismo francese, infatti, accanto
a quelli italiano e tedesco, si è voluto vedere l'esempio di
un fascismo classico (Ernst Nolte, Zeev Sternhell), nel quale, anzi,
si ritroverebbero le più lontane e autentiche origini
dell'intero fenomeno. La tesi è suggestiva, ma confonde cose
diverse. Sommariamente i fatti sono i seguenti. Un regime fascista
in Francia non è mai esistito, perché l'esperienza di
Vichy, per il fatto stesso di essere conseguente alla sconfitta
militare e all'occupazione tedesca, non può in senso proprio
definirsi tale. Tuttavia, dopo il giugno 1940 e all'ombra del
governo di Vichy, emergono fenomeni particolari che siamo soliti
ritenere tipici del fascismo: così l'antisemitismo e le
persecuzioni contro gli Ebrei, che precedettero ogni iniziativa
germanica e ne furono indipendenti. Ugualmente è un fatto che
nel periodo tra le due guerre, e con particolare intensità
dopo il 1934, la Francia conobbe un certo numero di movimenti
politici i quali, sia per l'esplicito richiamo al fascismo degli
uomini che li guidarono, sia per le forme di organizzazione e di
azione che assunsero, e anche per gli obiettivi politici che si
posero, possono ritenersi movimenti fascisti. Tali a esempio, la
Croix de Feu, del colonnello conte Casimir de la Rocque; i
Francistes, di Marcel Bucard; la Solidarité Française,
di François Coty; e, soprattutto, il Parti Populaire
Français, di Jacques Doriot; il Comité Secret d'Action
Révolutionnaire (CSAR o Cagoulard), di Eugène Delonde;
e il gruppo di neosocialisti di Marcel Déat, il quale
fonderà nel 1941 il Rassemblement National Populaire.
È ancora un fatto che lungo tutto il corso del XIX secolo, e
più specialmente dopo il 1870, la Francia conosce una
tradizione politica di forte resistenza ai portati del 1789 e,
più tardi, di violenta opposizione alla Terza Repubblica.
All'interno di questa opposizione, già tra la fine del secolo
e la guerra, maturano sia un acceso antisemitismo, sia forme di
radicalismo eversivo, che assumono per lo più veste
nazionalista. Il caso più noto è quello dell'Action
Française, fondata da Charles Maurras nel 1899.L'insieme di
queste forme di resistenza, e cioè di reazione, costituiscono
un fenomeno di grande importanza, il quale investe tutta la
tradizione politica europea. Tuttavia, definire questo fenomeno come
una forma di fascismo significa dilatare il termine fascista al
punto da smarrirne ogni specificità. Così facendo si
finisce per ignorare la storia effettiva del fascismo, il suo luogo
di nascita, il ruolo determinante che su di esso ebbe l'esperienza
della guerra, e il fatto che, con l'eccezione della parte comunque
marginale che vi possa aver avuto Georges Sorel, nessuna influenza
diretta vi ebbe l'esperienza politica della Francia. Perciò
sembra ragionevole riconoscere quali forme di un fascismo francese
solo quei movimenti e quegli uomini che all'esperienza fascista
effettivamente si richiamarono e che da essa trassero suggestioni
documentabili; senza peraltro dimenticare che in Francia era
già ben presente, e da lunga data, un vasto retroterra di
radicata tradizione antiliberale, del tutto distinta dal fascismo.
d) Inghilterra
L'esperienza fascista in Inghilterra è legata ad una persona,
sir Oswald Mosley. Già laburista e membro del governo, Mosley
aveva ritenuto insufficienti sia sul piano dei fatti che delle idee
le misure prese per fronteggiare la crescente disoccupazione,
perciò nel 1931 aveva lasciato il Partito Laburista per dare
vita ad un nuovo gruppo, il New Party. Dopo un viaggio in Italia nel
1932, Mosley ritenne che il regime di Mussolini offrisse la risposta
migliore alle questioni sociali più urgenti. Perciò,
al suo ritorno, egli fondò la British Union of Fascists
(BUF), un movimento che adottava gli emblemi e le uniformi dei
Fasci. Il successo fu scarso, e le simpatie che Mosley aveva
raccolto tanto più declinarono quando, dopo il 1934, egli
parve accostarsi al regime di Hitler. Nel 1936 una legge (Public
order act) vietava l'uso politico delle uniformi e consentiva alla
polizia di impedire cortei e manifestazioni di piazza, ponendo di
fatto fine alle pubbliche dimostrazioni del BUF. Nel 1940, dopo
l'inizio della guerra, Mosley fu internato, ma a quella data nulla
più rimaneva del suo movimento.
e) Belgio
In Belgio la presenza di due gruppi etnici, rispettivamente di
lingua francese e di lingua fiamminga, produceva risentimenti
nazionalistici e tensioni, che vennero accentuandosi a partire dalla
guerra. L'ostilità dei Fiamminghi nei confronti del gruppo
rivale culturalmente egemone, i Valloni, portò alla
formazione di alcuni gruppi politici, dai quali emerse nel 1921
Joris Van Severen, che assunse per un certo tempo la leadership dei
nazionalisti fiamminghi. Suggestionato dagli esempi sia di Maurras
che di Mussolini, nel 1929 Van Severen fondò una milizia di
tipo fascista, e nel 1931 dette vita al Verbond van Dietsche
Nationaal-Solidaristen (VERDINASO), che si proponeva l'unione
politica con l'Olanda nel quadro di un governo di tipo fascista. Ma
su questo stesso terreno Van Severen trovò presto dei
concorrenti, che lo superarono per estremismo. Nell'ottobre 1933 il
deputato Staf de Clecq fondava infatti la Vlaamsch Nationaal Verbond
(VNV), un gruppo che si proponeva un'organizzazione di tipo
fascista, ma che guardava più all'esempio tedesco che a
quello italiano. I due movimenti procedettero paralleli e raccolsero
un certo seguito. Ma mentre Van Severen venne prendendo le distanze
dal regime di Hitler e dal suo antisemitismo, la VNV rimase
filonazista sino e durante la guerra.Anche le regioni di lingua
francese produssero in Belgio un movimento che presenta analogie con
quelli fascisti. Esso si raccolse sotto la guida di un leader,
Léon Degrelle, ugualmente sensibile agli esempi del
nazionalismo francese e del fascismo italiano. Profondamente
cattolico, nel 1931 Degrelle fondò un movimento che si
richiamava a Christus Rex e si chiamò perciò rexismo.
Nel 1936 egli pubblicò un programma assai critico sia nei
confronti dei regimi parlamentari che del sistema capitalistico.
Forte di consensi nel mondo cattolico, il movimento di Degrelle
conobbe un certo successo alle elezioni del 1936, ma declinò
rapidamente negli anni seguenti, anche per le crescenti simpatie
manifestate da Degrelle nei confronti della Germania hitleriana.
Alla vigilia della guerra il rexismo era virtualmente finito.
f) Romania
Il movimento rumeno che si suole considerare fascista fu la
creazione di un singolare personaggio, Corneliu Zelia Codreanu, in
cui si mescolavano passioni politiche e fanatismo religioso. La base
del movimento, che si articolò successivamente in altre forme
di organizzazione, fu la Guardia di ferro, un gruppo nato nel 1920
tra gli studenti e che divenne ben presto una formazione armata,
dedita al terrorismo e all'assassinio politico. Nel 1927 Codreanu
fondava la Confraternita della Croce, che avrebbe dovuto essere una
sorta di corpo mistico della Guardia di ferro, e contemporaneamente
la Legione dell'Arcangelo Michele. Nessuno di questi gruppi aveva un
vero programma politico, se non il forte antisemitismo e l'odio per
i regimi rappresentativi. Negli anni trenta la Guardia di ferro
venne affermandosi come una delle più importanti forze
politiche della Romania, ma i rapporti con il governo di re Carol
non furono mai buoni. Nel 1933 la Guardia di ferro fu dichiarata
fuori legge e sciolta; come risposta, tre studenti uccisero il primo
ministro Ion G. Duca. Più tardi il movimento si riprese, ma
accentuandosi il carattere dittatoriale della monarchia, lo stesso
Codreanu decideva nel 1938 di sciogliere la Guardia di ferro.
Ciò non bastò a evitare il suo arresto, insieme a
molti dei suoi seguaci, la sua condanna in un pubblico processo e
infine, con il pretesto di un tentativo di fuga, la sua uccisione.
La morte del suo fondatore non significò la fine della
Guardia di ferro, che continuò clandestinamente a seminare
violenze. Dopo lo scoppio della guerra e specialmente dopo
l'abbandono della scena politica da parte di re Carol (settembre
1940) e l'arrivo al suo posto del generale Ion Antonescu, che della
Guardia di ferro era sempre stato un ammiratore, questa riapparve al
fianco dei tedeschi. Tuttavia neppure Antonescu poté
convivere con questo movimento, che dopo avere occupato importanti
posizioni di governo voleva avere completa mano libera per sfogare
il proprio fanatismo. Gli arbitri della partita erano ormai i
tedeschi. Certo del loro appoggio, nel febbraio 1941 Antonescu
sconfiggeva sul campo la Guardia di ferro e ne scioglieva tutte le
organizzazioni.
g) Ungheria
Alla fine della guerra la situazione ungherese era assai
particolare. Dissoltosi l'Impero asburgico, di cui essa era stata
parte, l'Ungheria conobbe nel giro di un anno un breve esperimento
di governo democratico (Mihály Károlyi), seguito da un
ancor più breve esperimento bolscevico (Béla Kun),
condotto con metodi terroristici. Al tempo stesso, l'Ungheria era
pesantemente penalizzata al tavolo della pace, dove il suo
territorio e la sua popolazione venivano drasticamente ridotti
soprattutto a vantaggio di Romania e Cecoslovacchia. Queste
traumatiche esperienze produssero i seguenti risultati: un profondo
risentimento nazionalista e il desiderio di riacquistare comunque i
territori perduti; sfiducia e sospetto per le potenze vincitrici,
soprattutto per la Francia, e per i regimi politici di cui offrivano
esempio; un radicale anticomunismo e una conseguente intolleranza
verso ogni programma politico che apparisse di sinistra; inoltre,
poiché Kun e gli altri capi comunisti erano ebrei, un assai
accentuato antisemitismo. In questo contesto furono poste le basi di
un vasto movimento di reazione, che spesso si richiamò agli
esempi del fascismo italiano, come più tardi del nazismo
tedesco, ma che fu sempre caratterizzato da una grande
frammentazione e che non riuscì mai a diventare forza di
governo.
Inizialmente la base della reazione fu l'esercito, al cui interno
sin dal 1919 si costituirono gruppi e unità speciali, che
dettero vita a un vero e proprio terrore bianco. A partire dal 1920,
quando con la sua nomina a reggente l'ammiraglio Miklós
Horthy divenne capo dello Stato e di fatto il gerente di una forma
di dittatura militare, il rappresentante di queste forze fu il
capitano Gjula Gömbös, che sostenuto dai militari divenne
prima ministro della Difesa e poi capo del governo. In tale veste
egli introdusse alcune note esteriori di un regime fascista. Dopo la
sua morte (1936), all'interno di questo variegato movimento
guadagnò terreno il gruppo delle cosiddette Croci frecciate,
guidato da Ferenc Szálasi. Il programma delle Croci
frecciate, oltre a ripetere i tradizionali motivi propri a tutti gli
altri gruppi, faceva anche posto ad alcune rivendicazioni sociali,
mutuate dall'esempio del corporativismo fascista. Lo sviluppo di
questo movimento, che raccoglieva consensi anche in ambienti operai,
allarmò il governo. Nel 1938 Szálasi fu arrestato e
dopo un sommario processo condannato. Tuttavia, nelle elezioni del
1939 le Croci frecciate ottennero un notevole successo. Il movimento
continuò a vivere anche dopo lo scoppio della guerra, che
anzi favorì la liberazione di Szálasi (settembre
1940). Verso la fine della guerra e dopo che i tedeschi avevano
occupato l'Ungheria ponendo fine al regime di Horthy, Szálasi
e le sue Croci frecciate conobbero un effimero successo occupando
posizioni di governo.Altri movimenti di tipo fascista sorsero in
vari paesi europei: così la Heimwehr in Austria, il movimento
Lapua in Finlandia, il Nasjonal Samling in Norvegia. Essi furono
legati a circostanze locali e non presentarono note di particolare
originalità.
4. Le interpretazioni
Di per sé le interpretazioni del fascismo sono ipotesi per
riportare l'insieme del fenomeno, in tutti i suoi aspetti, a un
comun denominatore, tale da consentirne una lettura unitaria.
D'altra parte, è facile riconoscere che le diverse forme di
fascismo nacquero sul particolare terreno dei contesti nazionali e
da situazioni assai diverse. Trascurare queste specificità
significherebbe cadere in superficiali generalizzazioni. Ma non si
deve neppure indulgere nell'eccesso opposto. "Non accettare la tesi
di un unico fascismo - ha scritto Renzo De Felice (v., 1993³,
p. 21) - non può voler dire negare l'esistenza di un minimo
comun denominatore tra alcuni fascismi negli anni tra le due guerre.
Il vero problema è quello di non restringere o di non
dilatare troppo questo minimo comun denominatore".
Le prime interpretazioni sorsero, come è naturale, sulla base
dell'esperienza italiana. Furono i contemporanei che, di fronte
all'emergere del fenomeno e poi ai suoi sviluppi, cercarono di darne
una chiave di lettura. La maggiore difficoltà stava nel fatto
che la novità stessa del fascismo e la sua mancanza di
precisi riferimenti dottrinari rendevano ogni giudizio e ogni
previsione aleatori. Ciò nonostante, sin dal 1923 uno di
questi primi interpreti, Luigi Salvatorelli (Nazionalfascismo,
Torino, Gobetti), colse con grande intelligenza uno dei tratti
più tipici e permanenti del fascismo, e cioè il suo
stretto rapporto col nazionalismo. Dopo di allora le interpretazioni
italiane del fascismo si sono per lo più orientate in tre
direzioni: quella del fascismo come 'rivelazione', quella del
fascismo come 'parentesi', quella del fascismo come 'reazione di
classe'. La prima di queste tesi (Piero Gobetti, Giustino Fortunato)
sottolinea lo stretto rapporto tra il fenomeno fascista e alcune
particolari deficienze già presenti nel precedente corso
della storia d'Italia; la seconda tesi (Benedetto Croce) considera
invece il fenomeno come dovuto a contingenze particolari e
irripetibili, perciò la sua natura estranea alla tradizione
nazionale; la terza tesi (Antonio Gramsci) vede nel fascismo uno
strumento della lotta di classe della borghesia capitalistica.
Queste tre interpretazioni, avanzate poco dopo che il fascismo aveva
conquistato il potere, furono in più modi riprese dopo la sua
caduta. Oggi, dopo alcuni decenni di rinnovati studi, nessuno
sosterrebbe più la tesi della parentesi. Anche la tesi della
reazione di classe, malgrado essa abbia improntato un largo numero
di studi ispirati da particolari ideologie politiche, non sembra
trovar più molto credito. La tesi del fascismo come
rivelazione, invece, in quanto invito a considerare le interne
ragioni di debolezza dello Stato liberale italiano e ad approfondire
il rapporto tra storia d'Italia e fascismo, appare come
l'indicazione più feconda.
Per avere proposte interpretative riguardanti l'insieme del fenomeno
fascista, bisognerà attendere l'avvento del nazismo in
Germania. Dopo di allora furono avanzate numerose tesi il cui fine
era quello di indicare quanto vi fosse di comune tra l'esperienza
italiana, quella tedesca e altre esperienze di tipo fascista che
venivano via via maturando. Il terreno preferito di queste
interpretazioni fu quello sociologico, nel cui ambito il fascismo fu
visto soprattutto in rapporto allo sviluppo della società di
massa e come reazione dei ceti medi all'emergere di un quarto stato
(ad esempio Talcott Parsons, Erich Fromm, ecc.). Il limite maggiore
di queste tesi, come del resto di altre più recenti ma sempre
in questa chiave, è quello di elaborare teorie sulla base di
una troppo scarsa e troppo superficiale conoscenza dei fatti.
Ciò è specialmente vero per quello che riguarda
l'esperienza italiana di cui spesso, anche per deficienze
linguistiche, molti di questi studiosi sanno ben poco.
Dopo la fine della guerra le tesi interpretative generali che sono
state proposte e che, per il loro valore, meritano di essere
segnalate, si riducono a tre. La prima è quella del fascismo
come forma particolare di un fenomeno più vasto, il
totalitarismo (Hannah Arendt). La seconda tesi è quella che
vede nel fascismo un fenomeno transpolitico, cioè il frutto
di una crisi della coscienza europea che è in primo luogo
crisi morale e religiosa (Ernst Nolte, Augusto Del Noce). La terza
tesi indica nel fascismo la traduzione letterale di una dottrina
politica reazionaria, che si sarebbe sviluppata soprattutto in
Francia tra il 1870 e il 1914 (Zeev Sternhell). Ciascuna di queste
interpretazioni offre interessanti spunti di riflessione. In
particolare, la prima tesi coglie alcuni caratteri generali del
nostro tempo e alcune significative analogie tra regimi politici,
quello comunista e quello fascista, apparentemente antitetici,
consentendo con ciò di spostare l'attenzione sul più
generale sfondo della storia europea. Anche la seconda tesi presenta
elementi di grande suggestione e rimanda a questioni che riguardano
la natura del contesto entro il quale il fenomeno fascista si
colloca. Tuttavia questi tipi di lettura del fascismo rischiano di
introdurre schemi i quali sarebbero di per sé applicabili
anche là dove il fascismo ha lasciato ben scarsi segni. Il
rischio, insomma, è quello di non tenere sufficiente conto
del concreto andamento dei fatti e delle condizioni particolari che
hanno consentito al fascismo di emergere, cioè di non tenere
sufficiente conto della sua effettiva storia. Questo limite è
particolarmente evidente nella terza tesi, la quale stabilisce
rapporti del tutto plausibili sul piano logico, ma che non trovano
poi riscontro sul piano storico.
Complessivamente, la lezione che da questo insieme di studi si
può trarre è che il fascismo ha rappresentato una
particolare forma di reazione a quelle trasformazioni, morali,
politiche e sociali, che hanno investito l'Europa e che sono il
portato di una profonda rivoluzione, per la quale il termine
più appropriato sembra quello di 'liberale'. Il fine generale
di questa reazione è stato quello di ostacolare queste
trasformazioni o quantomeno, quando esse si dimostravano
inevitabili, reciderne le radici che affondavano pur sempre in una
cultura illuministica. Ma questa reazione, indipendentemente da ogni
precedente proposito, fu resa possibile solo dalle particolari
condizioni successive alla guerra, dalla quale perciò
strettamente dipende. Al tempo stesso, uno dei più
significativi caratteri di questa reazione è stato quello di
sapersi sottrarre al vaglio dello spirito critico, sfruttando con un
uso accorto delle grandi parole l'emotività dei singoli e
delle masse. In tal modo il fascismo è riuscito a imporsi con
una sapiente opera di propaganda, dando di sé una
rappresentazione immaginaria. Le ragioni di questo successo
rimangono ancora in gran parte da chiarire.
5. Questioni aperte
Vi sono nella storia del fascismo alcune questioni generali, che
meritano particolare attenzione per la loro rilevanza e per le
discussioni che hanno sollevato.
a) Il ruolo della Grande guerra
A lungo la crisi italiana e poi europea, che ha aperto la strada al
fascismo, è stata vista come la conseguenza diretta della
guerra. Tuttavia più di recente si è sottolineato il
fatto che, negli anni successivi al 1918, sia in Italia che in
Germania arrivano al pettine nodi di problemi le cui radici
affondano più indietro nel tempo. Una più piena
comprensione delle circostanze nelle quali le istituzioni liberali
fecero fallimento e maturò il fascismo, richiede
perciò che si risalga ben oltre la guerra, alla quale non si
possono attribuire effetti che hanno cause ben più antiche.
Questa nuova prospettiva non dovrà d'altra parte mettere in
ombra due importanti aspetti della storia del fascismo, che
rimangono incontrovertibili. Il primo riguarda il già
ricordato stato d'animo dei fascisti, il quale dipende interamente
dalle esperienze della guerra. Il secondo aspetto riguarda lo
sconvolgimento che la guerra ha prodotto nella tradizione
conservatrice. Sino al 1918 i conservatori potevano ancora riferirsi
a una qualche forma di legittimismo, ritrovando nella tradizione la
fonte dell'autorità e del potere. Dopo il 1918, cioè
dopo la guerra, tale riferimento non è più possibile.
Ne deriva che ogni programma conservatore dovrà da ora in poi
assumere un carattere radicale. In conclusione, anche se la sola
guerra non basta a spiegare come nacque il fascismo, rimane del
tutto valida la tesi secondo la quale senza la guerra il fenomeno
fascista non è comprensibile.
b) La tradizione conservatrice e il nazionalismo
La questione del rapporto tra il fascismo e la tradizione
conservatrice è controversa, anche perché, facendo
credito alla pretesa del fascismo di essere stato una rivoluzione e
di aver fondato uno Stato popolare, e alla luce di alcuni tratti
della biografia mussoliniana, taluni ancora ritengono plausibile
l'ipotesi di una concordanza tra il fascismo e la sinistra.
L'equivoco sembra aver soprattutto due cause. La prima, il non tener
conto del fatto che uno dei tratti più tipici del fascismo
è quello di usare le parole come strumenti atti a suscitare
emozioni, senza nessun riferimento al loro significato logico.
Pertanto nessun credito può essere attribuito, senza un
riscontro obiettivo, alle diverse immagini che il fascismo ha saputo
dare di sé e che rimangono un puro artifizio retorico. Un
esame disincantato del sistema fascista mostra chiaramente come al
suo interno i tradizionali ceti detentori di prestigio sociale e di
potere economico abbiano trovato ampia protezione. Del resto, la
stessa propaganda fascista ha sempre insistito sulla
continuità tra i nuovi regimi e le precedenti tradizioni
nazionali. La seconda causa consiste nel mancato riconoscimento del
fatto che, come già ricordato, con la fine della guerra e la
sconfitta di quei regimi che ancora rappresentavano forme di ancien
régime, la tradizione conservatrice viene privata della sua
stessa base, e quindi condannata a estinguersi o a trasformarsi. La
strada della trasformazione era già stata tracciata dal
nazionalismo. Proprio attraverso il nazionalismo, in Italia come in
Germania, la tradizione conservatrice era confluita nel fascismo.
Ciò spiega anche il vasto consenso e l'appoggio politico di
cui il fascismo godette da parte delle forze conservatrici.
c) Il Duce
Una delle più significative differenze tra il fascismo e
altri movimenti politici del nostro tempo è che in esso la
figura del capo (in Italia il Duce, in Germania il Führer) ha
un ruolo determinante. Si tratta di un movimento che nasce per
volontà di un uomo e che dalle scelte di quest'uomo, dai suoi
pregiudizi e spesso anche dai suoi umori, vede dettato il corso
della sua storia. Naturalmente ciò non significa che, per
l'attuazione dei suoi propositi, il Duce non dovesse fare i conti
con le circostanze ambientali e con la presenza in esse di altre
forze, né che, nella costruzione dei suoi progetti immaginari
o reali, egli non si servisse del lavoro altrui, cioè di
materiali già presenti sulla scena politica come su quella
culturale. Ma pur riconosciuti questi limiti anche nella
libertà d'azione di Mussolini, e accettata la possibile
dipendenza dei motivi ispiratori della sua azione da fonti esterne,
rimane il fatto che non vi è discordanza possibile tra il
contenuto effettivo del fascismo e la volontà del Duce. Non
è quindi un caso che la più articolata e documentata
storia del fascismo italiano sia la biografia di Mussolini scritta
da Renzo De Felice.Questa identificazione del fascismo con la figura
di un uomo pone naturalmente molti problemi. Sarà opportuno
segnalarne almeno due. Il primo è che, come già
ricordato, in Italia tra Mussolini e il movimento fascista vi
è un rapporto di subordinazione, mai di piena
identificazione. Il Duce del fascismo è in realtà il
Duce di un'Italia fascista che pretende di essere l'Italia tout
court. In essa il Partito Fascista, malgrado il suo carattere di
massa, è solo una parte. Al tempo stesso, Mussolini è
anche capo del Partito Fascista, e questo deve via via aggiornarsi
per corrispondere alle esigenze di una politica che Mussolini
elabora e impone autonomamente. Mussolini appare quindi l'elemento
di raccordo tra il fascismo-movimento e il fascismo-regime, ma i
rapporti tra gli elementi di questa triade non sono semplici.
Il secondo problema riguarda il carattere stesso della politica
mussoliniana. In essa alcuni studiosi ritengono si possano ritrovare
le linee di un disegno, che deriverebbe da un nucleo di idee
originarie. Pertanto in Mussolini sarebbero presenti i tratti di una
chiara personalità intellettuale e morale, e la sua azione,
pur tenendo conto delle circostanze, corrisponderebbe a uno sviluppo
coerente del suo pensiero. Altri studiosi, invece, pur non negando
affatto che Mussolini avesse un qualche bagaglio culturale e che
fosse capace di servirsene per costruire un suo discorso politico e
dare sostegno alla sua azione, non ritengono fondata la tesi di un
rapporto coerente in Mussolini tra pensiero e azione, per le
seguenti ragioni. In primo luogo, perché la qualità
del suo pensiero, la sua sostanziale rozzezza, fanno dubitare che
Mussolini avesse sufficiente senso critico per una lettura della
realtà capace di superare i più volgari pregiudizi. In
secondo luogo, perché l'uomo stesso ha sempre affermato di
anteporre i fatti alle idee; di quest'ultime ha sempre fatto un uso
consapevolmente strumentale, non preoccupandosi mai, come mostrano
abbondantemente i suoi scritti, di cadere in palesi contraddizioni,
anzi giovandosi di queste contraddizioni, in quanto esse gli
consentivano di coltivare un accorto trasformismo e ottenere
consenso in direzioni diverse. Della coerenza, insomma, Mussolini si
fece sempre beffe. In terzo luogo, la biografia di Mussolini mostra
consistentemente l'assenza nell'uomo di quel senso morale, che da un
lato è capacità di credere, di avere cioè
convinzioni profonde risalenti pur sempre a un sistema di valori;
dall'altro, è disposizione a testimoniare coi fatti la
serietà delle proprie convinzioni.
d) Le origini culturali e la dottrina del fascismo
È un fatto che, dopo aver conquistato il potere, il fascismo
presentò una propria 'dottrina', nella cui elaborazione ebbe
gran parte il filosofo Giovanni Gentile. Ugualmente è un
fatto che, a sostegno della sua azione e nella complessa operazione
volta ad ottenere un sempre più vasto consenso, il fascismo
si servì di un'ideologia, cioè di un complesso di
espressioni verbali atte a giustificare i fatti. A sua volta questa
ideologia riprendeva per la più parte motivi e formule
già presenti nella cultura politica prima della guerra. Sulla
base di questi dati si sono talora tratte due conseguenze. La prima,
che accanto e oltre il sistema di potere fascista sia identificabile
una cultura fascista, cioè una dottrina corrispondente ai
termini di quel sistema di potere, il quale ne sarebbe stata la
coerente applicazione. A sostegno di questa tesi si sono spesso
richiamati i nomi di quei molti intellettuali, alcuni di gran
rilievo, che effettivamente aderirono al fascismo. La seconda
conseguenza, che essendo i tratti di una cosiddetta dottrina
fascista già evidenti ben prima della nascita del movimento
fascista, esista tra quella dottrina e quel movimento una dipendenza
diretta. Il movimento fascista avrebbe perciò avuto un suo
ben definito sostegno ideologico e la sua storia segnerebbe un
coerente sviluppo dalle idee ai fatti.
Queste due tesi non convincono per le seguenti ragioni. Esse,
intanto, non tengono conto della storia del fascismo, dei suoi modi
e dei suoi tempi, e non tengono conto che tra quel retroterra
culturale e il fascismo c'è la guerra. La presenza di quel
retroterra culturale è certamente un dato importante e
consente di spiegare, almeno in parte, la facilità con la
quale il fascismo ha guadagnato consenso e come esso sia riuscito a
darsi post factum una genealogia nobilitante. Ma ciò non
significa che essa sia legittima e che possa perciò parlarsi
di origini culturali del fascismo, una ipotesi che lo studio dei
fatti non conferma. Inoltre, la cosiddetta dottrina del fascismo, di
cui esistono più versioni, è un guazzabuglio, una
sorta di magazzino dei valori nazionali, dove a seconda delle
circostanze e delle necessità si sono riposte le più
diverse esperienze, senza alcuna pretesa di conciliarle tra loro,
cioè di comporle in un quadro razionale, né di
conciliarle coi fatti, cioè con l'azione politica del
fascismo. Il contenuto di questo magazzino è di grande
interesse, perché da esso trasse le sue armi quel formidabile
strumento di potere che fu la propaganda fascista. Ma esso va visto
per quello che fu e per la funzione effettiva che svolse nel sistema
di potere del fascismo, nel quale la cultura non ebbe il compito di
elaborare un modello ideale che servisse da guida all'azione,
bensì quello di manipolare l'opinione pubblica in vista del
consenso: la cultura fu uno strumento di propaganda. Infine, la
constatazione dell'adesione al fascismo di molti intellettuali
è un fatto del tutto irrilevante rispetto alla questione
dell'identità e del carattere di una cultura fascista. Il
rapporto tra la cultura e il fascismo riguarda, infatti, il
contributo di pensiero, quale si concretizza in particolari opere,
che gli intellettuali hanno potuto dare più o meno
intenzionalmente al regime di Mussolini. Su questo piano il bilancio
è scarso. Tutt'altra questione quella del rapporto tra il
fascismo e le singole persone degli intellettuali, che riguarda non
più il pensiero ma il comportamento, cioè non le opere
ma l'etica e la biografia.
e) L'antifascismo
Di fronte all'emergere del fascismo e alla sua violenza è ben
naturale che vi sia stata, sin dalle origini, una opposizione, la
quale fu anzitutto costituita da coloro stessi che di quella
violenza erano le vittime. Accanto alla storia del fascismo esiste
dunque una storia dell'antifascismo. Questa opposizione, tuttavia,
fu repressa abbastanza facilmente. A partire dal 1925 essa si
ridusse per lo più o a forme di lotta clandestina, che
l'efficienza dell'apparato poliziesco rese sempre più
sporadiche finendo i più degli oppositori attivi al carcere o
al confino; oppure alla emigrazione, sicché la storia
dell'antifascismo è in gran parte una storia di fuorusciti.
Pochi personaggi, e per lo più figure di elevata posizione
sociale o di alta statura intellettuale, primo tra i quali Benedetto
Croce, poterono rimanere in Italia e qui continuare in qualche modo
la loro opera, evitando il carcere, pur essendo notoriamente
antifascisti. Di fatto perciò, durante il corso del regime,
il fascismo riuscì a ridurre l'antifascismo su posizioni del
tutto marginali e per lo più esterne all'Italia. Le cose
cambiano con la guerra e soprattutto con il 25 luglio 1943, quando
l'opposizione al fascismo trova, nell'esasperazione degli Italiani
di fronte alla disfatta militare e nei nuovi sentimenti
antitedeschi, un nuovo terreno di lotta. Gli esiti di questa lotta
sono noti. Le questioni controverse sono due.
La prima è quella del rapporto tra la resistenza al fascismo,
a partire dall'estate 1943, e il precedente antifascismo degli anni
in cui il regime di Mussolini sembrava saldamente affermato. Una
certa continuità tra vecchio e nuovo antifascismo è
facilmente riscontrabile sia sul piano per così dire
istituzionale, cioè delle organizzazioni politiche, dove i
partiti che compongono i CLN (Comitati di Liberazione Nazionale)
sono i partiti tradizionali (con l'eccezione del nuovo Partito
d'Azione); sia sul piano per così dire degli ideali,
cioè delle tradizioni politiche a cui il nuovo antifascismo
si richiama. Tuttavia, gli uomini del nuovo antifascismo, e tanto
più coloro che partecipano alla lotta armata, sono in gran
parte uomini nuovi, appartengono a una generazione che si è
formata sotto il fascismo, di esso hanno spesso subito le
tentazioni, e solo di fronte alla sconfitta militare gli hanno
definitivamente voltato le spalle. Perciò, indipendentemente
dalla onestà intellettuale e morale dei singoli, questo
antifascismo si nutre di esperienze politiche ben diverse da quelle
dell'antifascismo precedente.Il secondo problema consiste nel vedere
contro quale forma di fascismo il nuovo antifascismo si è
effettivamente indirizzato, e perciò che cosa ha significato
la vittoria del 1945. La difficoltà nasce dal fatto che con
il 25 luglio 1943 il regime fascista era stato messo fuori scena, e
il fascismo che si era riproposto dopo l'8 settembre, e contro il
quale la Resistenza ha lottato e vinto, corrispondeva assai poco al
sistema di potere che aveva governato l'Italia per oltre vent'anni.
La sconfitta di quest'ultimo fascismo è cosa certa, quella
del fascismo che si era eretto in regime è un po' meno
chiara. Se anche, con il referendum del 1946, uno dei pilastri di
quel regime, la monarchia, fu effettivamente abbattuto, si ha poi
l'impressione che una parte consistente di quelle strutture, e della
mentalità che ne consentiva il funzionamento, sia rimasta
sostanzialmente integra, malgrado la vittoria dell'antifascismo, ben
oltre il 1945.
(V. anche Autoritarismo; Comunismo; Corporativismo/Corporatismo;
Corporazione; Demagogia; Dittatura; Nazionalismo;
Nazionalsocialismo; Regimi politici; Socialismo; Totalitarismo).
Bibliografia
(Esiste un'opera assai ricca e articolata, che segnala contributi
pubblicati sino al 1984 - ma in realtà con aggiornamenti sino
al 1990 - e alla quale si rimanda: Bibliografia orientativa del
fascismo, diretta da Renzo De Felice, Roma 1991. Qui di seguito
indichiamo solo alcune opere essenziali o non comprese nel volume
succitato).
Aquarone, A., L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965.
Arendt, H., The origins of totalitarianism, New York 1951 (tr. it.:
Le origini del totalitarismo, Milano 1967).
Carsten, F. L., The rise of fascism, London 1967 (tr. it.: La genesi
del fascismo, Milano 1970).
Colarizi, S., L'opinione degli Italiani sotto il regime 1929-1943,
Roma-Bari 1991.
De Felice, R., Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino 1965.
De Felice, R., Mussolini il fascista, vol. I, La conquista del
potere 1921-1925, Torino 1966; vol. II, L'organizzazione dello Stato
fascista 1925-1929, Torino 1968.
De Felice, R., Mussolini il duce, vol. I, Gli anni del consenso
1929-1936, Torino 1974; vol. II, Lo Stato totalitario 1936-1940,
Torino 1981.
De Felice, R., Intervista sul fascismo (a cura di M.A. Ledeen),
Roma-Bari 1975.
De Felice, R., Mussolini l'alleato 1940-1945, vol. I, L'Italia in
guerra 1940-1943, 2 tomi, Torino 1990.
De Felice, R., Le interpretazioni del fascismo, Roma-Bari
1993³.
Del Noce, A., Per una definizione storica del fascismo, in AA.VV.,
Il problema storico del fascismo, Firenze 1970, pp. 11-46.
Delzell, C.F. (a cura di), Mediterranean fascism 1919-1945, New
York-Evanston-London 1970.
Gentile, E., Storia del Partito Fascista 1919-1922: movimento e
milizia, Roma-Bari 1989.
Lyttelton, A., The seizure of power: fascism in Italy 1919-1929,
London-New York 1973 (tr. it.: La conquista del potere. Il fascismo
dal 1919 al 1929, Roma-Bari 1974).
Nolte, E., Der Faschismus in seiner Epoche: die Action
française, der italianische Faschismus, der
Nationalsozialismus, München 1963 (tr. it.: I tre volti del
fascismo, Milano 1971).
Salvatorelli, L., Mira, G., Storia d'Italia nel periodo fascista,
Torino 1956.
Salvemini, G., Scritti sul fascismo, voll. I e III (a cura di R.
Vivarelli), Milano 1961 e 1974; vol. II (a cura di N. Valeri e A.
Merola), Milano 1966.
Sternhell, Z., La droite révolutionnaire 1885-1914: les
origines françaises du fascisme, Paris 1978.
Sternhell, Z., Sznajder, M., Asheri, M., Naissance de
l'idéologie fasciste, Paris 1989 (tr. it.: Nascita
dell'ideologia fascista, Milano 1993).
Tasca, A., La naissance du fascisme. L'Italie de 1918 à 1922,
Paris 1938 (tr. it.: Nascita e avvento del fascismo. L'Italia dal
1918 al 1922, Firenze 1950).
Vivarelli, R., Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini
del fascismo, Bologna 1981.
Vivarelli, R., Interpretations of the origins of fascism, in
"Journal of modern history", 1991, LXIII, pp. 29-43.
Vivarelli, R., Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla
Grande guerra alla marcia su Roma, voll. I e II, Bologna 1991.
Volpe, G., Storia del movimento fascista, Milano 1943².
Volpe, G., Scritti sul fascismo 1919-1938, 2 voll., Roma 1976.
Woolf, S. (a cura di), European fascism, London 1968 (tr. it.: Il
fascismo in Europa, Bari 1968).
Zunino, P.G., L'ideologia del fascismo: miti, credenze e valori
nella stabilizzazione del regime, Bologna 1985.
Le interpretazioni del fascismo nelle scienze sociali
di Edda Saccomani
Sommario: 1. Usi e significati del termine. 2. Le teorie sul
fascismo. 3. Il fascismo come fenomeno specificamente italiano. 4.
Il fascismo come fenomeno sovranazionale: a) l'impostazione
marxistica; b) la teoria della società di massa e del
totalitarismo; c) il fascismo come 'rivolta' piccolo borghese:
l'analisi sociopsicologica; d) le teorie della modernizzazione; e)
il fascismo e la 'guerra civile europea'. 5. Considerazioni
conclusive. ☐ Bibliografia.
1. Usi e significati del termine
Il termine 'fascismo' ha assunto fin dalla sua comparsa nella
pubblicistica politica dei contemporanei significati diversi,
riconducibili da un lato alla dinamica di sviluppo interno del
fascismo italiano - con la distinzione tra fascismo-movimento e
fascismo-regime -, dall'altro al suo processo di
internazionalizzazione. Usato per indicare dapprima il movimento dei
Fasci di combattimento fondato da Mussolini nel 1919, e quindi il
regime da lui instaurato in Italia a partire dal 1925, esso venne
successivamente impiegato sia al singolare sia al plurale per
designare una gamma più o meno ampia di movimenti o regimi
che si riconobbero, o che vennero riconosciuti dai loro avversari,
come manifestazioni di un fenomeno sostanzialmente unitario.
In via preliminare si possono distinguere tre significati principali
del termine: il primo fa riferimento al fascismo italiano nella sua
individualità storica; il secondo è legato alla
dimensione internazionale che il fascismo acquistò
allorché il nazionalsocialismo si affermò in Germania
con caratteristiche ideologiche, modalità organizzative e
finalità politiche tali da indurre i contemporanei a
stabilire una sostanziale affinità tra il fascismo italiano e
quello che venne chiamato il fascismo tedesco; il terzo, infine,
estende l'uso del termine a tutti quei movimenti o regimi che
condividono con quello che viene chiamato il 'fascismo classico' un
certo nucleo di caratteristiche ideologiche e/o di modalità
organizzative e/o di finalità politiche.
In quest'ultima accezione il termine 'fascismo' ha acquistato una
indeterminatezza tale da renderne assai problematica l'utilizzazione
a fini scientifici. È andata pertanto sempre più
affermandosi la tendenza a limitarne l'uso al solo fascismo storico,
la cui vicenda si svolse in Europa nel periodo compreso tra le due
guerre mondiali e le cui manifestazioni più significative
furono rappresentate dal fascismo italiano e dal nazionalsocialismo
tedesco. D'altra parte, va ricordato che tutti e tre gli usi sopra
menzionati sono stati 'legittimati' dal fondatore del fascismo
italiano, il quale, con motivazioni e in tempi diversi, ha parlato
del fascismo sia nei termini di un prodotto squisitamente nazionale
e in quanto tale 'non esportabile', sia nei termini di un movimento
avente il suo asse privilegiato nell'alleanza tra Roma e Berlino,
sia infine nei termini di una tendenza 'universale'. Non vi è
dunque da stupirsi che questa ambiguità o plurivalenza di
significati si sia trasmessa alla letteratura sull'argomento.
2. Le teorie sul fascismo
I vari tentativi di spiegazione del fenomeno fascista si sono
tradotti in una molteplicità di schemi interpretativi, alcuni
dei quali hanno assunto col tempo una loro coerenza interna in
relazione alla cumulazione del materiale empirico e alla
precisazione dei quadri teorici di riferimento. A questi schemi
interpretativi, più o meno elaborati, più o meno
empiricamente verificati o verificabili, si fa solitamente
riferimento quando si parla di 'teorie' sul fascismo.
Diversi criteri sono stati suggeriti per classificare le teorie sul
fascismo - quello politico-ideologico, quello disciplinare, quello
cronologico, quello sistematico - ed essi possono essere variamente
combinati dando origine a tipologie più o meno complesse.
Utilizzando una distinzione usata da E. Nolte in Theorien über
den Faschismus (1967), le teorie sul fascismo vengono qui suddivise
in due grandi categorie: singolarizzanti e generalizzanti.
Semplificando si può dire che rientrano nella prima categoria
quelle teorie che, considerando il fascismo come il prodotto di
specifiche e irripetibili circostanze storiche, ritengono il termine
applicabile correttamente al movimento politico affermatosi in
Italia negli anni immediatamente seguenti la prima guerra mondiale e
al tipo di regime da esso instaurato dopo la presa del potere, e
soltanto impropriamente ad altri movimenti o regimi a esso
variamente assimilati. Alla seconda categoria vanno ascritte quelle
teorie che considerano il fascismo come un fenomeno sovranazionale,
che mostra, pur nell'articolazione e differenziazione delle sue
diverse manifestazioni, tratti distintivi tali da giustificare il
ricorso a un concetto generale.
3. Il fascismo come fenomeno specificamente italiano
Le prime ipotesi di spiegazione del fascismo come prodotto delle
caratteristiche particolari della storia italiana si ebbero negli
anni venti, in concomitanza con l'affermazione del movimento
fascista, l'ascesa al potere di Mussolini e la rapida trasformazione
dello Stato liberale in uno Stato dai connotati totalitari. Le cause
immediate della vittoria del fascismo vennero individuate nella
forte instabilità sociale, politica ed economica del primo
dopoguerra, ma nel tentativo di spiegare la vulnerabilità
delle istituzioni liberali e il loro crollo alcuni studiosi si
interrogarono sul passato della storia nazionale, nella convinzione
che le radici di quella debolezza fossero da ricondurre alla
modalità di formazione dello Stato unitario. Da questa
riflessione nacque la tesi del fascismo come "rivelazione", avanzata
da esponenti dell'antifascismo come G. Fortunato (che usò per
primo quell'espressione), P. Gobetti, G. Salvemini, G. A. Borgese,
C. Rosselli, G. Dorso, i quali videro nei vizi tradizionali della
storia italiana - vale a dire l'arretratezza economica, la mancanza
di un'autentica rivoluzione liberale, l'incapacità delle
classi dirigenti unita all'arroganza di una piccola borghesia
ammalata di retorica, la pratica del trasformismo che aveva impedito
l'evoluzione in senso moderno del sistema politico - il terreno di
coltura del fascismo, che si poneva così in una linea di
continuità rispetto al sistema liberale. Una interpretazione,
questa della "rivelazione", che venne nettamente respinta da B.
Croce, il quale nella sua Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1928)
contrappose il regime liberale al fascismo, indicando nel primo il
mondo della libertà e nel secondo il mondo
dell'antilibertà e giungendo a considerare infine l'intero
periodo fascista come una 'parentesi' tra la fase storica precedente
e quella della riconquistata libertà. L'accentuazione del
carattere tipicamente italiano e il peso eccessivo dato alla
continuità impedirono ai sostenitori della tesi della
rivelazione da una parte di cogliere gli elementi di novità
del fascismo, sia nelle tecniche di gestione del potere politico,
sia nelle modalità di organizzazione del corpo sociale,
dall'altra di vedere in esso la manifestazione di una crisi di
più ampia portata che avrebbe investito di lì a poco
l'Europa con esiti disastrosi.
Fu la comparsa in vari paesi europei di movimenti apertamente
richiamantisi al fascismo italiano e, soprattutto, la travolgente
vittoria del nazionalsocialismo in Germania a mettere in discussione
questo tipo di interpretazione e a spostare il livello dell'analisi
da quello nazionale a quello sovranazionale. La consapevolezza di
questa nuova dimensione del problema trovò espressione negli
studi che al fascismo italiano dedicarono, nella fase di
consolidamento del regime e di espansione del fascismo
internazionale, autori come I. Silone e A. Tasca, i quali, in
polemica con una tendenza a facili generalizzazioni, videro nella
ricostruzione storica delle singole esperienze nazionali e nella
loro comparazione il solo metodo - notava Tasca in Nascita e avvento
del fascismo (1938) - per arrivare a "indicare un certo numero di
caratteri comuni suscettibili di essere incorporati in una
definizione generale del fascismo". Nell'insieme, però, la
lettura del fascismo in chiave tipicamente italiana cedette il passo
ad altri schemi interpretativi, che si imposero a partire dagli anni
trenta e fornirono il quadro di riferimento teorico e concettuale
alla maggior parte delle ricerche anche nel secondo dopoguerra.Il
dibattito sulla utilità/legittimità di un concetto
generale di fascismo si riaccese verso la metà degli anni
sessanta in un clima caratterizzato dall'attenuarsi delle
contrapposizioni ideologiche e più favorevole a un riesame
critico dell'intera questione. Un impulso importante venne dalla
ricerca di G. Mosse su The crisis of German ideology (1964), che
rivalutando il peso di fattori profondamente radicati nella storia
tedesca per spiegare aspetti non marginali del regime nazista, in
primo luogo quello del consenso, ripropose di fatto il problema
delle analogie e delle differenze tra nazionalsocialismo e fascismo
italiano.
Tra i più autorevoli sostenitori della unicità e
irriducibilità delle due esperienze, e della
impossibilità di diluirne la specificità nell'ambito
di un generale concetto di fascismo, possiamo citare K. D. Bracher,
il quale, assumendo nella sua ormai classica ricerca sulla dittatura
tedesca il "radicale antisemitismo biologico" a idea centrale del
nazionalsocialismo (Die deutsche Diktatur, 1969), sottolineò
il carattere abnorme del dominio nazista rispetto a ogni altra
manifestazione di moderno autoritarismo, respinse ogni spiegazione
deterministica "per l'affermazione dei movimenti autoritari di massa
e per la capitolazione della libertà individuale di fronte
allo Stato" e sostenne la piena responsabilità del popolo
tedesco nell'ascesa di Hitler al potere. Su analoghe posizioni di
diffidenza verso l'uso di concetti generali nella ricerca storica e
di sfiducia verso modelli teorici elaborati dalle scienze sociali si
colloca la corrente storiografica che fa capo a R. De Felice, la cui
intensa attività di ricerca sul fascismo-movimento e sul
fascismo-regime approda a risultati simili a quelli di Bracher,
almeno per quanto riguarda la radicale diversità tra fascismo
italiano e nazionalsocialismo e il rifiuto di una teoria generale in
nome della specificità delle singole esperienze nazionali.
Punto qualificante dell'interpretazione defeliciana è il modo
in cui viene affrontato il rapporto continuità/rottura del
fascismo rispetto al regime liberale, che discende da una duplice
scelta insieme teorica e metodologica: la prima consiste nel peso
dato alla dimensione politico-ideologica, soggettiva, progettuale,
come elemento cruciale per l'individuazione della specificità
del fascismo italiano; la seconda nel rilievo dato alla distinzione
tra fascismo-movimento e fascismo-regime.
È infatti da un'analisi del primo fascismo in termini di
radicalismo rivoluzionario, contrapposto al tradizionalismo
reazionario di destra e razzista del nazionalsocialismo, che De
Felice costruisce la sua tesi del fascismo-movimento come fenomeno
di rottura rispetto al passato. Esso sarebbe stato l'espressione
dell'aspirazione del ceto medio emergente a un ruolo politico
autonomo nei confronti sia della vecchia classe dirigente sia del
proletariato. In questo senso il fascismo-movimento avrebbe
costituito una proposta di modernizzazione della società
italiana contro il vecchio assetto sociale, avente una sua specifica
carica rivoluzionaria. Diverso il discorso sul fascismo-regime.
Questo avrebbe perso nella fase di stabilizzazione del potere, resa
possibile dal compromesso fra l'ala moderata del movimento e le
vecchie classi dirigenti, la spinta innovatrice del movimento delle
origini, ma non al punto da diventare lo strumento puro e semplice
della reazione. Il regime fascista, infatti, anche grazie al
consenso di cui beneficiò fino alla vigilia dell'entrata in
guerra, avviò un processo di ricambio delle élites
dirigenti e di rinnovamento delle strutture economiche e sociali,
interrotto dalla caduta del regime come conseguenza delle vicende
belliche.
4. Il fascismo come fenomeno sovranazionale
L'idea che il fascismo italiano fosse da considerare come
l'anticipazione di un fenomeno più generale, avente le sue
radici in un complesso di fattori che andavano oltre la
specificità delle singole realtà nazionali, si
affermò in concomitanza con la vittoria del
nazionalsocialismo in Germania e la diffusione in quasi tutti i
maggiori paesi europei di movimenti fascisti o parafascisti. A
partire dagli anni trenta vennero a delinearsi alcuni schemi
esplicativi generali che, suggerendo ipotesi di lavoro e direzioni
di indagine, hanno contribuito in maniera determinante a orientare
la ricerca degli storici e degli scienziati sociali. Ci soffermeremo
su questi, tralasciandone altri che, pur rappresentando un capitolo
importante della storia delle idee del nostro secolo, si collocano
sul terreno filosofico, sfuggendo a ogni possibilità di
verifica empirica.
a) L'impostazione marxistica
Per quegli autori che hanno come paradigma di riferimento il
marxismo e la sua concezione del mutamento storico, il fascismo
nasce sul terreno delle contraddizioni della società
capitalistica nello stadio dell'imperialismo; perciò per
spiegare l'origine, la natura e la funzione dei movimenti e dei
regimi fascisti è necessario partire dall'analisi di tali
contraddizioni e delle modificazioni che esse introducono nella
dinamica dei rapporti di classe. Esistono diverse versioni di questa
concezione: da un lato la versione comunista 'ortodossa', imposta
centralisticamente dalla Terza Internazionale a tutti i partiti
comunisti, dall'altro i contributi venuti dalle componenti comuniste
'eterodosse' e socialdemocratiche del marxismo europeo e infine le
ricerche storiche e sociologiche ispirate alla metodologia marxista.
Nella prima versione, in un certo senso codificata nel Rapporto di
Georgij Dimitrov al VII Congresso dell'Internazionale comunista
(1935), il fascismo veniva definito come "la dittatura terroristica
aperta degli elementi più reazionari, più
sciovinistici e più imperialistici del capitale finanziario"
e posto in relazione con la crisi finale del capitalismo entrato
nello stadio dell'imperialismo.
Assumendo quale caratteristica propria di questo stadio la crescente
contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di
produzione, che si manifestava da una parte in una serie di
trasformazioni interne al modo di produzione capitalistico -
concentrazione industriale e formazione dei monopoli, predominio del
capitale finanziario, modificazione del ruolo dello Stato - e
dall'altra nell'aggravarsi delle crisi economiche per effetto della
concorrenza internazionale e della lotta di classe, il fascismo
veniva interpretato come il tentativo estremo da parte della
borghesia di ricostituire i propri margini di profitto
intensificando lo sfruttamento delle classi subalterne attraverso
una dittatura aperta, cioè non più mediata dalle
istituzioni della democrazia parlamentare. Da qui il giudizio sulla
natura puramente strumentale dei regimi fascisti, emanazione diretta
degli interessi del grande capitale, e sulla loro funzione
controrivoluzionaria, in quanto forma di dominazione diretta ad
annientare con la repressione violenta le forze della rivoluzione
sociale e al tempo stesso ad arrestare il corso dello sviluppo
storico. Il determinismo economicistico unito alle esigenze
immediate della lotta politica impedì alla Terza
Internazionale di cogliere le peculiarità delle dittature
fasciste rispetto ad altre forme storiche di dittatura, nonostante
che al suo stesso interno dirigenti politici come Palmiro Togliatti
avessero elaborato importanti spunti critici volti a individuare la
specificità del fascismo come fenomeno reazionario nella sua
capacità di costruire un partito di massa a base
prevalentemente piccolo borghese, diretto non solo contro il
movimento operaio ma anche contro le forme tradizionali del potere
borghese. Ipotesi diverse da quelle contenute nelle tesi ufficiali
della Terza Internazionale venivano suggerite in quegli stessi anni
da autorevoli esponenti del movimento operaio. L. Trockij, in una
serie di scritti che risalgono al 1930-1933, aveva sottolineato il
ruolo centrale di sostegno dato alla borghesia dagli strati
sottoproletari e dai ceti medi e la natura contraddittoria di
un'alleanza tra partners ineguali.
Riflettendo in chiave storico-comparativa sulle condizioni che
avevano portato ad altre forme di dittatura, A. Thalheimer e, nei
Quaderni del carcere, A. Gramsci parlarono del fascismo il primo in
termini di "bonapartismo" e il secondo di "cesarismo". Per entrambi
il fascismo nasceva da una situazione di equilibrio delle principali
forze antagonistiche - la borghesia e il proletariato - e
rappresentava una soluzione caratterizzata dalla cessione temporanea
del potere esecutivo a una terza forza che veniva in tal modo a
godere di un'autonomia relativa nella sfera politica rispetto alle
stesse classi dominanti.
Più radicale la critica del socialdemocratico austriaco O.
Bauer alla concezione del rapporto meramente strumentale tra
borghesia capitalistica e fascismo. Egli sostenne infatti che
quest'ultimo era giunto al potere sulla base di un movimento reale e
autonomo dei ceti medi e degli strati emarginati e declassati,
rivolgendosi nella sua fase iniziale contro la stessa grande
borghesia che pure ne aveva favorito l'ascesa pensando di servirsene
in funzione antioperaia. Soltanto in seguito il permanere di
rapporti capitalistici avrebbe consentito alla borghesia di
riprendere il controllo sui regimi fascisti e ristabilire la propria
egemonia.
Il marxismo, con la sua concezione del mutamento storico, ha
alimentato un filone imponente di studi sul fascismo. Tra i molti
contributi volti a sottolineare il primato del fattore economico
nella spiegazione del fascismo si possono citare i lavori di D.
Guerin, Fascisme et grand capital (1936), e di F. Neumann, Behemoth.
The structure and practice of national socialism (1942), secondo i
quali il fascismo nasce sul terreno delle contraddizioni interne
alla borghesia nella fase di transizione dal capitalismo
concorrenziale a quello monopolistico. Esso si afferma perciò
nei paesi in cui le forme di governo democratiche non sono in grado
di assicurare il passaggio dall'una all'altra forma di dominio del
capitale.
b) La teoria della società di massa e del totalitarismo
La teoria della società di massa ha fornito il quadro di
riferimento diretto o indiretto di una serie di analisi tendenti a
individuare nella struttura stessa della moderna società
industriale le condizioni per l'insorgere dei movimenti fascisti e,
più in generale, totalitari.
Il primo tentativo sistematico di spiegare il sorgere delle forme
moderne di dittatura e la loro specificità facendo ricorso
non già alla dinamica dei rapporti tra le classi bensì
alla dinamica dei rapporti tra masse ed élites, in un
contesto caratterizzato dalla crisi della società liberale
borghese e dal progressivo affermarsi della democrazia di massa, si
deve a K. Mannheim, il quale in Mensch und Gesellschaft im Zeitalter
des Umbaus (1935) considerò il fascismo, che veniva
così a perdere la sua specificità storica, come una
delle risposte alla generale instabilità della società
industriale in quanto società di massa. Risposta resa
possibile da una parte dall'irrompere sulla scena politica di masse
deresponsabilizzate ed eterodirette, dall'altra da un mutamento dei
criteri di formazione delle élites atto a favorire le
ambizioni dittatoriali di gruppi sufficientemente determinati, che
in tempi di crisi potevano sfruttare e manipolare
l'irrazionalità e l'emotività delle masse a fini di
potere.La disgregazione del sistema di classe assume un ruolo
centrale nelle analisi di E. Lederer e H. Arendt. In State of the
masses (1940) Lederer definisce il fascismo in termini di
totalitarismo.
Lo Stato totalitario è lo Stato delle masse e ha quale
presupposto la distruzione della società fondata su
raggruppamenti autonomi sulla base di interessi e suscettibili di
argomentazioni razionali e la sostituzione di quei raggruppamenti
con masse indifferenziate, irrazionali e perciò
"totalitarie", capaci di agire soltanto in quanto integrate da
leaders in grado di interpretarne le emozioni e i sentimenti e di
dirigerle. Ma è soprattutto l'opera di H. Arendt, The origins
of totalitarianism (1951), che fornisce il testo classico di questa
interpretazione, sia per la ricchezza della sua trattazione sia per
il dibattito suscitato dall'assimilazione dello stalinismo al
nazismo e dalla sussunzione dei due regimi all'interno della
categoria del totalitarismo, per altro già esplicitamente
operata da esponenti del marxismo europeo come V. Serge, K. Kautsky,
R. Hilferding e lo stesso Trockij.
Anche per la Arendt il crollo del sistema di classe e il conseguente
crollo del sistema dei partiti costituiscono il terreno sul quale
crescono e si sviluppano i movimenti totalitari, siano essi fascisti
o comunisti. È infatti da una massa disgregata e atomizzata,
priva di quel principio di autoidentificazione costituito dal legame
di classe, che i movimenti totalitari traggono la loro base,
utilizzando una propaganda che fa perno sul desiderio di evasione da
un mondo apparentemente dominato dal caso e dall'arbitrio. E su
masse amorfe, formate da individui atomizzati e isolati, possono
mantenersi e svilupparsi i regimi totalitari, i quali tendono quindi
a riprodurre artificialmente le condizioni della propria
sopravvivenza.
Caratteristica di tali regimi è di essere sistemi di
dominazione totale che, abolendo ogni distinzione tra società
e Stato, controllano gli individui nella sfera pubblica e privata,
organizzandoli - e non importa se in nome della razza o della classe
- in vista di un fine che non è in primo luogo il potere, ma
la creazione di un nuovo tipo di uomo, ridotto a oggetto passivo, a
strumento inanimato. L'insistenza sulla natura irrazionale, 'non
politica', fine a se stessa del totalitarismo portò la Arendt
a limitare l'uso del concetto ai soli nazionalsocialismo e
stalinismo e a porre il fascismo italiano, diretto invece a
"impadronirsi del potere per insediare la sua élite come
incontrastata dominatrice del paese", nelle forme tradizionali di
dittatura.Il carattere unico e sui generis delle dittature
totalitarie venne altresì sostenuto da K. Friedrich e Z.
Brzezinski nel saggio assai controverso, perché considerato
espressione diretta del clima ideologico della guerra fredda,
Totalitarian dictatorship and autocracy (1956). Ma il tipo di
approccio utilizzato portò gli autori a estendere l'ambito di
applicazione del concetto non solo al nazismo e allo stalinismo, ma
anche al fascismo italiano e ai regimi comunisti cinese e
dell'Europa orientale.
Ponendosi in una prospettiva di morfologia dei sistemi politici,
Friedrich e Brzezinski individuano un insieme di elementi
interconnessi e rafforzantisi reciprocamente - la cosiddetta
sindrome totalitaria - la cui presenza consente di definire un
sistema politico come totalitario. Essi sono: una ideologia
ufficiale onnipervasiva, alla quale tutti sono supposti aderire,
almeno passivamente; un partito unico di massa gerarchicamente
organizzato, guidato nel caso tipico da un solo uomo; un sistema di
controllo poliziesco attuato con mezzi terroristici; il monopolio
quasi completo dei mezzi di comunicazione di massa; il monopolio
degli armamenti; infine il controllo e la direzione centralizzata
dell'economia. Il fatto che questi elementi si ritrovino sia nelle
dittature fasciste sia in quelle comuniste consente di affermare: a)
che esse sono 'sufficientemente', anche se non 'completamente',
simili per poter essere collocate in un'unica classe; b) che questa
classe si contrappone non soltanto ai sistemi costituzionali, ma
anche alle forme precedenti di autocrazia. Quanto alle cause e alle
finalità dei regimi totalitari, ritenendo che non fossero
possibili spiegazioni esaurienti e globali, Friedrich e Brzezinski
si limitarono a indicare nella democrazia di massa e nella
possibilità di disporre di moderne tecnologie le condizioni
su cui tali regimi possono sorgere e svilupparsi.
c) Il fascismo come 'rivolta' piccolo borghese: l'analisi
socio-psicologica
La diffusione dei movimenti fascisti in Europa e l'affermazione del
nazismo in Germania, sulla base di un movimento di massa
incomparabilmente più ampio del fascismo italiano, ebbero
l'effetto di mostrare l'inadeguatezza di schemi interpretativi
variamente legati a una concezione razionalistico-positivista dello
sviluppo storico. Tanto la teoria liberale quanto quella marxista si
trovarono impreparate a cogliere la natura di un movimento capace di
raccogliere dietro di sé ampi strati sociali facendo appello
a elementi irrazionali - quali il nazionalismo, la comunità
del suolo e del sangue, la razza, l'antisemitismo - e di mobilitarli
mediante una complessa simbologia che suscitava processi di
identificazione collettiva rispondenti a bisogni largamente diffusi.
In particolare, esse non furono in grado di spiegare e valutare
adeguatamente l'apporto determinante che la piccola borghesia -
considerata dalla prima uno dei pilastri dell'ordinamento
democratico e la garanzia di uno sviluppo graduale e progressivo,
dalla seconda una classe residuale, destinata a scomparire nel
generale processo di polarizzazione e incapace di esercitare un
ruolo politico autonomo dalla borghesia e dal proletariato - diede
al successo dei movimenti fascisti fornendo loro i quadri e la base
di massa nella fase di ascesa e un consenso attivo nella fase di
regime.
Un contributo molto importante alla comprensione del complesso
rapporto tra piccola borghesia e fascismo venne invece dalla
sociologia e dalla psicologia sociale. Il fascismo fu interpretato
dall'analisi sociologica come risposta dei vecchi e nuovi ceti medi,
visti come un soggetto autonomo portatore di interessi in conflitto
con quelli della grande borghesia e del proletariato, alla minaccia
di declassamento. Successivamente la tesi - formulata tra gli altri
da T. Geiger - venne ripresa da M. Lipset in Political man (1960) e
sviluppata nella ben nota teoria del fascismo come "estremismo di
centro". Secondo Lipset, la difficoltà incontrata da politici
e studiosi nel comprendere il rapporto tra piccola borghesia e
fascismo deriva dal fatto che l'estremismo è stato sempre
considerato come una manifestazione tipica dei movimenti posti agli
estremi dello schieramento politico: segnatamente della destra e
della sinistra. Ogni raggruppamento sociale, invece, elabora
ideologie suscettibili di essere radicalizzate. Così, come il
liberalismo era stato l'ideologia rivoluzionaria delle classi medie
in ascesa, il fascismo rappresenta l'ideologia reazionaria delle
classi medie in declino, che si propongono di ristabilire la perduta
sicurezza economica e sociale impadronendosi con la violenza
dell'apparato dello Stato.
La natura del rapporto tra piccola borghesia e fascismo
costituì l'oggetto privilegiato d'indagine anche per la
psicologia sociale, che lo sviluppò lungo due direzioni: da
una parte approfondendo le caratteristiche dell'ideologia fascista -
in particolare nella sua versione più radicale, quella
tedesca - in rapporto ai bisogni psicologici di tale classe;
dall'altra sottolineando l'importanza della personalità come
momento fondamentale di mediazione tra situazione di classe e azione
di classe e, di conseguenza, di quelle istituzioni - in primo luogo
la famiglia - che, in quanto luogo di formazione e riproduzione di
strutture psichiche congruenti con l'ideologia delle classi
dominanti, sono state decisive nel favorire l'accettazione degli
Stati autoritari.
Esemplare di questo approccio il saggio di H. Lasswell, The
psychology of Hitlerism (1933), nel quale il successo del nazismo
viene attribuito allo stato di impoverimento psicologico in cui era
andata precipitando la piccola borghesia, schiacciata dal peso
crescente della grande borghesia e del proletariato industriale e
scossa nei suoi valori e nelle sue certezze tradizionali dalla
sconfitta bellica e dalla crisi economica. Di qui un profondo senso
di insicurezza emotiva che poteva esser superato solo trovando nuovi
oggetti di devozione, al posto di quelli che avevano ormai perduto
di significato, e nuovi oggetti di aggressione sui quali scaricare
il risentimento derivante dalla diminuita autoconsiderazione. Il
nazionalismo e l'antisemitismo, elementi centrali dell'ideologia
nazista, fornirono la risposta a questi bisogni emotivi,
indirizzando l'odio del piccolo borghese verso nemici fittizi come
gli Ebrei e creando nuove certezze mediante il culto del
nazionalismo. Per Lasswell, tuttavia, l'attivismo delle classi medie
in Germania come in Italia era stato indirizzato verso un solo
obiettivo: creare un'alternativa al socialismo.
A conclusioni analoghe giunsero, partendo da un'analisi delle
condizioni più generali che stanno alla base degli stati
psicologici individuali e di gruppo, W. Reich ed E. Fromm, entrambi
allievi di Freud, i quali tentarono una sintesi tra psicanalisi e
marxismo utilizzando la nozione di struttura psichica, o struttura
caratteriale, per spiegare le incongruenze tra situazione di classe
e comportamento politico. Perché l'ideologia fascista aveva
esercitato sulla piccola borghesia un richiamo tale da vanificare
ogni argomentazione in termini razionali sulle finalità e sui
veri obiettivi dei movimenti fascisti? Come spiegare un
comportamento collettivo così irrazionale - se rapportato ai
reali interessi di classe della piccola borghesia - senza cadere
nell'irrazionalismo? "La ricerca della psicologia di massa
marxistica - rispondeva Reich in Massenpsycologie des Faschismus
(1934) - comincia proprio là dove fallisce il suo compito la
spiegazione socioeconomica immediata".
Secondo Reich una teoria del fascismo va articolata su due livelli:
il primo, più generale, inteso a fornire ipotesi esplicative
circa la disposizione degli individui e dei gruppi sociali a
sottostare a rapporti sociali autoritari e di dominio di una classe
sull'altra; il secondo inteso a individuare la specificità
del fascismo in quanto fenomeno storicamente determinato. Quanto
alle cause di ordine generale, Reich ritiene che sia la repressione
sessuale a favorire - mediante la creazione e la riproduzione di
strutture caratteriali deboli, insicure, soggette a sensi di colpa,
incapaci di ribellione e senso critico - l'insorgere dei fenomeni
fascisti. Per quanto riguarda le condizioni specifiche, esse vanno
ricercate nella paura che la grande borghesia, in fase di declino,
prova dinanzi al bolscevismo. Il fascismo, però, non avrebbe
potuto prendere il potere per annientare il movimento operaio senza
il sostegno attivo della piccola borghesia, predisposta da
un'educazione familiare particolarmente autoritaria e sessuofobica
ad accogliere la mistica fascista, con i suoi concetti di onore
personale, di stirpe, di razza, di popolo.
In questo filone problematico si collocarono anche le ricerche
condotte sotto la direzione di Max Horkheimer all'Institut für
Sozialforschung di Francoforte, culminate negli Studien über
Autorität und Familie (1936). In esse un particolare
significato acquistava un saggio di E. Fromm, che aveva per oggetto
un tema da lui successivamente ripreso e sviluppato in Escape from
freedom (1941). Secondo Fromm le radici lontane del fascismo vanno
ricercate nella natura contraddittoria del "processo di
individuazione" che sta alla base del mondo moderno. Questo
processo, liberando l'individuo dai legami primari e rompendone
l'originaria identità con il mondo circostante, è
aperto a esiti diversi: esso può infatti svolgersi in modo
tale da promuovere la piena realizzazione della personalità e
l'affermazione dell'io come forza autonoma, responsabile e
autodeterminantesi; oppure può provocare solitudine,
isolamento e desiderio di fuga dalla libertà e dalla
responsabilità di operare scelte senza il sostegno emotivo
fornito nelle società tradizionali dal senso di appartenenza
a una comunità più ampia. La storia del capitalismo
appare segnata da questa drammatica contraddizione: nella sua fase
di ascesa, quella concorrenziale, i fattori favorevoli al
rafforzamento della personalità sono stati prevalenti; in
quella monopolistica, al contrario, si è affermata la
tendenza opposta, attivando meccanismi di fuga come la sottomissione
a un'autorità esterna - nel caso del fascismo - o il
conformismo ossessivo caratteristico dei regimi democratici. Le
radici psicologiche del fascismo vanno dunque ricercate nella paura
della libertà, nel bisogno emotivo di rinunciare alla propria
indipendenza e di identificarsi con qualcuno o qualcosa - il capo,
la nazione, la razza - che agisca come sostituto dei legami perduti:
bisogno particolarmente sentito dalla piccola borghesia, investita
più di ogni altra classe dalla crisi generale del primo
dopoguerra.
d) Le teorie della modernizzazione
Assai più recente - gli studi più significativi
risalgono agli anni sessanta - è l'approccio tendente a
spiegare il fascismo all'interno dello schema teorico della
modernizzazione. In questo quadro il fascismo si configura come una
delle vie alla modernizzazione e i regimi fascisti come una delle
forme politico-istituzionali attraverso le quali si è attuata
storicamente la transizione dalle società premoderne alle
società moderne. Ciò che caratterizza questo tipo di
impostazione rispetto alle precedenti è, dunque, l'aver
ricondotto il fascismo non già ai problemi, alle
contraddizioni, ai conflitti propri della società
industriale, ma a quelli posti dalla fase di transizione. La
produzione di questo filone è ormai vastissima. Indicheremo
alcuni contributi che sono rappresentativi di approcci diversi allo
studio dei processi di modernizzazione.
Il primo è quello di A. F. K. Organski, il quale in The
stages of political development (1960) individua quattro stadi
fondamentali dello sviluppo politico sulla base delle funzioni che
lo Stato è chiamato di volta in volta a svolgere in rapporto
agli stadi dello sviluppo economico, assunto come fattore dinamico
della modernizzazione. Il fascismo - secondo Organski - è una
delle forme di regime proprie dello stadio dell'industrializzazione,
alternativa a quella democratico-borghese e a quella staliniana.
Esso si caratterizza essenzialmente per la soluzione che dà
ai conflitti tipici di questa fase dello sviluppo economico, vale a
dire al conflitto tra l'élite agraria tradizionale e la nuova
élite industriale da una parte, e dall'altra al conflitto tra
élites e masse mobilitate dal processo di
industrializzazione. Tale soluzione è quella del compromesso
tra le prime (da qui il termine sincratico per indicare regimi
omologabili al fascismo storico) in funzione della smobilitazione
delle seconde e appare legata a una configurazione dei rapporti di
forza favorevole all'élite tradizionale e a un elevato
livello dello scontro sociale tra classi dominanti e classi
subalterne.
Una delle implicazioni più controverse della teoria di
Organski della corrispondenza tra stadi dello sviluppo economico e
stadi dello sviluppo politico è che essa porta a escludere il
nazismo - in quanto sorto in un contesto altamente industrializzato
- dal novero dei regimi fascisti o sincratici, e a porlo nello
stadio dello Stato assistenziale, in quello stadio cioè in
cui lo Stato ha come funzione principale quella di integrare le
masse assicurando loro un tenore di vita più elevato e una
maggiore partecipazione alla vita politica. La soluzione nazista -
alternativa a quella della democrazia di massa e a quella dei regimi
comunisti post-staliniani - si configura quindi come una
modalità dello Stato assistenziale, caratterizzata
dall'attuazione di una politica di protezione sociale per via
autoritaria e da una partecipazione politica ottenuta mediante il
ricorso a miti e simboli irrazionali. Simili conclusioni mostrano le
reali difficoltà che la teoria degli stadi della
modernizzazione, col postulare una corrispondenza necessaria tra
livelli di sviluppo economico e forme di organizzazione politica,
incontra nell'affrontare contemporaneamente il fascismo e il
nazismo, per non parlare dei movimenti fascisti nel resto d'Europa.
A queste difficoltà si sottrae l'approccio
storico-comparativo, il quale prospetta l'esistenza di alternative
diverse alla modernizzazione, compatibili con una pluralità
di soluzioni politiche. Lo studio di B. Moore, Social origins of
dictatorship and democracy (1966), costituisce un esempio utile a
illustrare i vantaggi e i limiti di questa impostazione. Moore
individua tre vie diverse alla modernizzazione: quella democratica,
quella fascista e quella comunista. L'origine di questa
differenziazione va ricercata nelle caratteristiche strutturali
delle società agrarie proprie di ciascun paese prima
dell'industrializzazione, nelle modalità di trasformazione
dei rapporti sociali nelle campagne, nei rapporti tra le classi
rurali - aristocrazia terriera e contadini - e nelle loro relazioni
di alleanza o di conflitto con lo Stato centrale e con la nascente
borghesia. In questo quadro la via fascista, esemplificata dai casi
giapponese e tedesco e solo marginalmente da quello italiano, si
presenta come modernizzazione 'dall'alto', frutto di un compromesso
tra l'aristocrazia terriera, una borghesia ancora relativamente
debole e uno Stato di tipo autoritario, realizzato al fine di
industrializzare il paese senza intaccare le strutture sociali
tradizionali. L'importanza e anche l'originalità del
contributo di Moore stanno nell'aver indicato nella sopravvivenza di
residui feudali monarchico-autoritari il terreno sul quale possono
attecchire i fenomeni fascisti. Ma nell'insieme esso mostra una
debolezza sostanziale, comune a molte analisi in chiave di dinamica
dei processi di modernizzazione, nel non cogliere la
specificità del fascismo rispetto ad altre forme di regimi
autoritari, conservatori o reazionari. Inoltre, accentuando il peso
della componente tradizionale nel complesso dei fattori che
conducono all'affermazione dei movimenti e dei regimi fascisti,
corre il rischio di sottovalutare la portata dello scontro tra
capitale e lavoro, il ruolo dei ceti medi, la crisi del sistema
politico liberale e delle sue istituzioni rappresentative, fenomeni,
tutti, legati al contesto di società che presentano le
caratteristiche di una moderna società industriale.
Di tale debolezza è consapevole G. Germani, il quale, in vari
studi tra cui Autoritarismo, fascismo e classi sociali (1975), ha
compiuto un'importante opera di chiarimento teorico e suggerito
ipotesi di lavoro di grande interesse. Egli si preoccupa, infatti,
di distinguere l'autoritarismo moderno da quello tradizionale e di
mettere a fuoco diversi livelli di analisi dei fenomeni autoritari,
in termini di tempi storici e di contesti socioculturali, combinando
lo schema teorico della modernizzazione con quello della
mobilitazione sociale. Germani individua le fonti più
generali dell'autoritarismo moderno nella contraddizione tra
processo di secolarizzazione crescente e necessità di
mantenere nuclei minimi di natura prescrittiva, indispensabili
all'integrazione del sistema sociale. Tale contraddizione può
dare origine a crisi la cui soluzione dipende da una serie di
condizioni che vanno individuate nello specifico contesto
storico-sociale in cui si manifestano, in particolare nelle
caratteristiche del conflitto di classe. Utilizzando i contributi di
differenti schemi di analisi del fascismo e inserendoli nel quadro
di una teoria del mutamento sociale che vede come elemento dinamico
i processi di mobilitazione, Germani intende proporre una
definizione del fascismo stesso sufficientemente analitica da render
conto della sua specificità. L'essenza del fascismo consiste
nel fornire ai conflitti di classe che minacciano l'esistenza di un
determinato assetto sociale, in periodi caratterizzati da profondi
mutamenti, una soluzione fondata sul processo di smobilitazione
delle classi subalterne. Tale soluzione è stata resa
possibile dalla contromobilitazione delle classi medie, che
costituirono la base di massa del movimento, e dall'alleanza di
queste con le élites dominanti. Determinanti nella sua
definizione sono la funzione storica e gli obiettivi del fascismo, e
non la forma di governo, la quale può variare a seconda delle
condizioni interne e internazionali, da quella totalitaria propria
dei fascismi italiano e tedesco a quella autoritaria del fascismo
spagnolo e dei fascismi militari in America Latina.
e) Il fascismo e la 'guerra civile europea'
Non si può non accennare da ultimo - sia per la sua
originalità sia per il clamore che attorno a essa si è
fatto - all'interpretazione del fascismo come fenomeno generato nel
clima di 'guerra civile' creatosi in Europa dopo la presa del potere
dei bolscevichi in Russia. Nel corso degli anni ottanta, in Germania
e in Francia soprattutto, si è sviluppato un ampio e acceso
dibattito tra storici, filosofi e politologi innescato dalla
cosiddetta corrente revisionistica sulla 'unicità' o meno dei
crimini nazisti. Ciò che caratterizza questa corrente, la
quale ha in E. Nolte il suo più autorevole esponente,
è l'insistenza sulla necessità di considerare nel
contesto più generale della storia europea la politica di
sterminio messa in atto dai regimi totalitari. In un libro del 1987,
Der europäische Burgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und
Bolschevismus, che sviluppa il tema già espresso in
precedenti lavori circa l'antibolscevismo come elemento distintivo
del nazionalsocialismo, Nolte ha enunciato due tesi principali. La
prima è che "lo sterminio di classe dei bolscevichi"
costituì "il prius logico e fattuale dello 'sterminio di
razza' dei nazionalsocialisti" e che, più in generale, la
genesi e lo sviluppo del fascismo internazionale non possono essere
compresi se non come risposta al bolscevismo internazionale nel
quadro di quella che è stata la "guerra civile europea"
combattuta tra il 1917 e il 1945 da nemici irriducibili, che
condividevano una concezione salvifica e una comune propensione
all'uso indiscriminato della violenza fisica e spirituale. La
seconda tesi è che l'analisi dei movimenti e degli Stati
totalitari mostra come l'ideologia, intesa quale espressione di
"emozioni di fondo", più che di interessi materiali, è
ciò che qualifica l'agire politico e sta alla base del
comportamento dei "grandi gruppi di uomini" che hanno combattuto la
guerra civile europea nell'epoca degli opposti totalitarismi.
5. Considerazioni conclusive
La varietà e la contraddittorietà delle
interpretazioni che sono state elaborate nel corso degli anni,
unitamente all'eccezionale produzione storiografica che ha messo a
disposizione degli studiosi una gran mole di materiale empirico,
hanno suggerito a partire dagli anni settanta - Nolte sotto questo
aspetto va decisamente controtendenza - l'abbandono di modelli
interpretativi globali e l'individuazione di nuove strategie di
ricerca, in grado di dare risposta ai molti interrogativi che
restano tuttora aperti. Il primo, e fondamentale, riguarda la
definizione stessa del concetto di fascismo. È significativo
che ancor oggi, a quasi cinquant'anni dalla caduta dei regimi
fascisti e nonostante la mole sterminata di studi e di ricerche che
hanno visto impegnate più generazioni di studiosi nelle
diverse discipline, non esista accordo su ciò che debba
intendersi per fascismo. Questa difficoltà ha indotto alcuni
studiosi, come ad esempio G. Allardyce, a negare l'utilità di
un concetto generale di fascismo e a sostenere polemicamente la
necessità di espungerlo dal lessico storico-politico. Ma,
eliminato il termine, resta pur sempre il "bisogno imprescindibile",
già espresso dallo stesso Nolte in Der Faschismus in seiner
Epoche (1963), di disporre di "un concetto per quei sistemi politici
(e le rispettive tendenze) i quali si differenziano dal tipo
democratico-parlamentare non meno che dal comunistico, e che
tuttavia non sono mere dittature militari ovvero regimi
conservatori".
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