www.treccani.it
Nacque a Venezia il 10 nov. 1827 da Lorenzo e da Elena Correnti.
Fu battezzato Paolo, ma assai presto il giovane F. volle farsi
chiamare Paulo. Come tale firmò molte delle sue opere e
pretese che nessuno lo apostrofasse con il suo nome di battesimo. Ma
ancora nel 1864 il frontespizio di un suo scritto letterario
relativamente importante portava nella intestazione Paolo.
Il padre, negoziante ("vendeva pignatte in Barbaria de la Tole",
dice un biografo), e la madre, di famiglia più agiata,
dovettero ben presto scontrarsi con il carattere turbolento e
precocemente autonomo del figlio. A poco più di dieci anni,
il F. fu espulso "da tutti i ginnasi del Regno Lombardo Veneto" per
insubordinazione.
Fu quindi fatto passare nell'Istituto di educazione militare
marittima di tale Bambonovich, che - come ricorda lo stesso F. in
certe sue memorie dettate alla seconda moglie (e conservate in Roma,
Arch. centrale dello Stato, Carte P. Fambri, b. 1) - era "una specie
di ergastolo dei ragazzi discoli". Qui non rimase molto, facendo in
tempo però a ricevere rigide punizioni a pane e acqua (prima
per 15 giorni e poi per un mese) per via della sua attiva
partecipazione a brighe e risse varie. A parte la sua non certo
esemplare condotta, che costrinse i genitori a ritirarlo persino da
quell'istituto, questa primissima esperienza giovanile fu decisiva
per il F.: qui egli imparò a "tirar di spada". La fama di
spadaccino accompagnò il F. per tutta la vita. Assai
coraggioso, tirava di sciabola con la sinistra e di fioretto con la
destra. Molto presto, però, in un duello fu ferito alla
sinistra in modo tale da pregiudicarne l'uso.
La sua educazione letteraria e la sua passione per le scienze esatte
furono costruite più tardi, sotto la guida di istitutori
privati (tra cui N. Tommaseo per il greco e B. Cocconi, parente del
F., per la matematica). Il costo gravava sullo zio Correnti,
piuttosto che sulle non eccellenti finanze paterne. Moderata la sua
vivacità, il F. dimostrò così nell'adolescenza
una notevole intelligenza unita ad una eccezionale precocità
e versatilità. Studiò e lesse molto. A 17 anni, con
altri giovani (V. Salmini, F. Gabelli e P. Zanichelli) organizzava
"uno di quei giornali manoscritti fra studenti, fondati a sfogo di
retorica, con un'ispirazione cinica, antisentimentale ... di scherno
della ragione e della moralità" (ibid.). L'ostentato
anticonformismo del F. nei confronti del rigido regime asburgico lo
spinse così naturalmente nell'ambito dell'opposizione
liberale, più per vie letterarie e ideali che politiche.
Esemplare la propensione del F. a parteggiare per gli itacisti, con
N. Tommaseo, contro L. Carrer e gli etacisti, nel dibattito fra
grecisti veneziani di quegli anni.
Il 1848 trovò comunque il F. dalla parte della Repubblica e
di D. Manin.
In quei giorni concitati si fece una fama personale, svellendo il 17
marzo con la forza delle mani un'inferriata di quel carcere
veneziano di ponte della Paglia che custodiva il Tommaseo. Ma
soprattutto si mise in luce per l'entusiasmo e i risultati con cui
affrontò l'impegno militare. Dagli studenti del liceo "S.
Caterina" fu eletto capitano della legione.
All'inazione nel capoluogo preferì partire - come semplice
militare - per il confine orientale, raggiungendo Palmanova, dove si
distinse. Dopo la caduta di Palmanova, tornò a Venezia, ove
fu nel corpo dei veliti, con la centuria di A. Mengaldo; quindi
luogotenente e poi tenente (24 ott. '48) di artiglieria nella
legione "Bandiera e Moro".
Nel quinquennio successivo alla Repubblica il F., come altri, ebbe a
soffrire della repressione austriaca sia per i soliti motivi di
ordine pubblico (rischiò 3 anni di bagno penale per una
rissa) sia per motivi politici (aveva sfidato un libellista
filogovernativo). Sfiorò anche il carcere per aver
distrattamente perso del materiale mazziniano. Ma in questo come
negli altri casi la conoscenza di alcune delle migliori famiglie
veneziane lo salvò dai rigori della prigionia, come
l'agiatezza dello zio Correnti dal peso delle multe pecuniarie. Con
ritardo e con fatica, inoltre, nel 1852 si laureava in matematica
alla facoltà d'ingegneria dell'università di Padova.
Il sincero amore per le scienze esatte gli fu però frustrato
dall'intolleranza politica del regime asburgico, che gli
annullò la nomina prima a professore di matematica a Trento,
poi ad ingegnere di reparto della Società per le strade
ferrate dell'Italia centrale. Fu in questi anni che il F.,
scontratosi personalmente e duramente con il regime, sviluppò
la sua coscienza liberale.
Nel frattempo aveva conosciuto Rosina de Toth (sorella di un
accusato al processo di Mantova) che poi sposerà e che
dovette influire moltissimo sul F., aiutandolo nella redazione delle
sue opere con l'esempio di una vita produttiva e ordinata. Grazie
alla cultura non comune e alla vastità degli interessi,
poté distinguersi scrivendo una memoria sulla teorica di J.
M. Wronski ed altri appunti sulla teoria generale delle equazioni.
Comunque, in una lettera a N. Tommaseo, parla del periodo sino al
1852 come quello degli "stravizi". In questo periodo il F. scrisse
in collaborazione con V. Salmini le sue prime opere teatrali.
Alcune, rappresentate, furono notate per lo spirito critico e
irriverente degli autori, e segnatamente del Fambri. Se anche furono
combattute dalla censura austriaca e da organi di stampa come La
Civiltà cattolica, a molti, fra cui lo stesso Tommaseo. le
commedie non piacquero per il loro tono ancora aulico e retorico e
per i soggetti formali e accademici.
Sicuramente più incisiva fu la sua azione pubblicistica. Essa
si esplicò primariamente nella direzione di due periodici: La
Rivista veneta (dal 20 apr. 1856) e L'Età presente. La prima
ebbe collaboratori di rilievo, come C. Boito, A. Gabelli, N.
Tommaseo. La redazione era costituita da coetanei del F., come lui
provenienti da famiglie borghesi, ma quasi tutti con
difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Il carattere
della rivista, per lo più dedicata ai temi liberali, era
trasparente. Per L'Età presente il proprietario A. Dell'Acqua
Giusti era stato in grado di pagare la pesante somma cauzionale
(circa 15.000 lire) che il governo aveva deciso per i periodici con
"cronaca politica". L'intervento del giornale negli affari correnti,
veneziani e italiani, fu quindi esplicito, grazie anche ad una fitta
rete di corrispondenze tra cui si notavano quelle dal Piemonte.
Sebbene ambedue di non lunga vita, le due riviste settimanali del F.
furono un segnale e uno strumento non trascurabile di un
allargamento dell'orizzonte, talora provinciale, dell'opinione
pubblica veneta. Il carattere liberale e progressista delle idee del
F. della fine di questi anni Cinquanta, è bene esemplificato
in una frase lasciata in uno dei suoi innumerevoli notes del
periodo, con cui annotava che "il socialismo è una grande
difficoltà pratica ma non è un'impossibilità
teorica".
Nel 1858 fu sottoposto ad un duro processo per alto tradimento da
cui si salvò "per potenti intromissioni diplomatiche", come
ammise poi egli stesso. Dalla tribuna degli accusati rispose
però in modo beffardo ed esplicito agli accusatori,
incrementando la sua fama di oppositore liberale. Appena a piede
libero, prese la via dell'emigrazione politica, recandosi in
Piemonte.
A 32 anni, la guerra per l'indipendenza del 1859 e la passione delle
armi lo attrassero. Volontario, gli fu riconosciuto solo il grado di
luogotenente e andò in fanteria. Ben presto nell'esercito
dell'Italia centrale, fu a Bologna al gabinetto del governatore L.
Cipriani.
Ancor più che come soldato o come ingegnere (redasse studi
tecnico-militari sulla difesa delle nuove province), il F. si fece
notare di nuovo come giornalista. Fondò Le Romagne (24
agosto-14 sett. 1859), dalla cui tribuna incitò i liberali
all'unione ed alla guerra contro l'Austria. Nel programma affermava
"Noi scriviamo per il vero popolo e lo facciamo nel modo più
popolare possibile". Si pronunciò poi per un sistema
elettorale allargato. Soprattutto si espresse a favore di una leva,
ampia se non generale, contro l'Austria. Nell'editoriale di commiato
queste erano per lui le necessità del momento: "Armi e
denaro. Soldati e dimostrazioni armate. L'unificazione dell'Italia
nell'esercito. Disciplinare le forze nazionali con la vita militare
... tutti e sempre nel campo degli eserciti e nelle durezze della
vita militare". L'esercito diveniva ora per lui un'occasione,
l'occasione per la liberazione del Veneto, per il crogiolo delle
forze liberali moderate, per la conferma della loro egemonia sulle
classi popolari e subalterne.
L'Unità d'Italia lo trovò inserito organicamente
nell'esercito unitario. Si era trasferito dall'Emilia prima ad
Alessandria e poi a Torino; da sottotenente che era, svolse la sua
carriera sino a capitano, passò nell'arma "dotta" del genio,
era tenuto in grande considerazione da F. L. Menabrea, comandante
del corpo e uomo di corte. Nell'esercito, dal 1861 al 1864, il F. fu
assai attivo.
Non era più uno dei tanti emigrati politici veneti, ma un
apprezzato ufficiale e pubblicista. Fu relatore della
sottocommissione per la difesa dello Stato, incaricata di censire e
pianificare le fortificazioni marittime (avendo per questo motivo
occasione di conoscere il Mezzogiorno, da Palermo a Napoli);
collaborò a giornali politici e militari; scrisse In caserma
e fuori. Bozzetti militari (Milano 1866); preparò quella sua
commedia comica Il caporale di settimana (Milano 1867; poi Lipsia
1879, e Roma 1893) "che fece smascellare dalle risa la popolazione
della penisola per non pochi anni".
A mano a mano che la conoscenza dell'organizzazione militare si
faceva in lui più profonda, si sentiva in grado di esprimere
liberamente le sue opinioni, spesso eterodosse. Così accadde
con la "Questione dell'organico della fanteria". Il ministro della
Guerra A. Della Rovere non apprezzò le idee del F. e
provò ad allontanarlo da Torino. Il F. lo prevenì
dimettendosi dall'esercito, con un gesto immediato e deciso, simile
a quello che - qualche tempo prima - a Palermo, gli aveva fatto
rischiare gli arresti di rigore per insubordinazione. Il fatto
è che, prescindendo dai motivi occasionali del diverbio con
il ministro e dal suo irruento carattere, il F. rimaneva pur sempre
un colto, un volontario e un veneto. Si trovava quindi nella
posizione migliore per avvertire tutte le chiusure e le grettezze
del mondo militare piemontese del tempo. Quelle stesse chiusure che,
sia pure senza mai arrivare alla satira di denuncia, per via del suo
attaccamento liberale ai concetti di patria e di esercito, egli mise
alla berlina nelle sue commedie e nei suoi bozzetti.
Uscito dall'esercito, diresse con R. Bonghi La Stampa di Torino,
avendo così occasione di dare voce alle critiche della
"consorteria" verso le spropositate reazioni torinesi alla decisione
di trasferire la capitale a Firenze. Se la sua popolarità a
Torino, in quel giorni del settembre del '64, certo cadde molto, ne
guadagnò la sua fama sul territorio nazionale, dove fu
conosciuta la sua prosa vivace e la sua critica sprezzante. Di
fronte alle reazioni della Sinistra anche a quell'evento, il F.
smorzò molte delle sue spinte progressiste e si
orientò politicamente - allora insieme con Bonghi - verso la
Destra. Una simile impronta lo portò poi a Napoli, alla
direzione de La Patria, quando ebbe modo di scontrarsi con G.
Nicotera, G. Asproni e A. Miceli (allora redattore de L'Italia del
popolo).
Al giornalismo il F. affiancò sempre un'attività
(più redditizia) tesa ad incrementare i propri averi,
sfruttando la sua professione di ingegnere e le conoscenze del mondo
della politica e degli affari che l'attività pubblicistica
gli permetteva. Ebbe così rapporti, in quegli anni, con una
Società anglo-italiana di costruzioni, si propose - con L.
Abate - per la costruzione del grande acquedotto di Napoli, a
Firenze si inserì nel giro di affari sorti intorno al
progetto Poggi dei boulevards.
Alle avvisaglie di guerra, nel 1866, il F. chiese di tornare a
combattere per la sua Venezia, come volontario in servizio senza
stipendio. Gli fu riconosciuto il grado e con N. Marselli, M.
Massari e altri ebbe incarichi di studio e di un certo rilievo.
Il dopo 1866 segna una svolta decisiva nella sua vita. Si era
già fatto notare per la versatilità e per
l'anticonformismo del suo impegno. Era stato spadaccino, ingegnere,
militare, letterato e giornalista sempre con spirito originale e
carattere particolarissimo, ma volta a volta in ambiti locali o a
livelli settoriali. Con il 1866, presentandosi al collegio
elettorale di Venezia II e riscuotendo una personale affermazione,
il F. si proiettò sullo scenario politico nazionale, ponendo
le basi per divenire, negli anni Settanta, uno dei personaggi
più rappresentativi - anche se non per questo fra i
più potenti - della Destra.
Il successo politico e l'operosità intellettuale del F.
iniziarono così a dispiegarsi sempre più chiaramente.
Una fitta serie di pubblicazioni andò allora succedendosi.
Tra esse, quantitativamente e per l'inclinazione personale
dell'autore, prevalsero quelle militari; ma, seppur discontinui,
numerosi furono i suoi studi di ingegneria, matematica ed idraulica.
Negli anni Sessanta e poi, alla fine della sua lunga vita pubblica,
negli anni Novanta si fece molto conoscere per il vigore con cui
propugnò le virtù cavalleresche della spada e del
duello, nonché per l'importanza attribuita alla ginnastica
("bellica", secondo la sua definizione). Più che da tutto
questo, però, il largo pubblico fu influenzato dal F.
conferenziere e cultore di varia umanità: un'attività
che egli curò assai, tenendosi informato - anche se non
sempre approfonditamente - sui temi latamente filosofici e culturali
all'ordine del giorno della opinione borghese del tempo.
Quasi impossibile è, al momento, stendere una sua
bibliografia completa. Sebbene i suoi volumi veramente notevoli non
siano stati molti, egli fu autore di non meno di un centinaio di
interventi o articoli (spesso riproposti in estratto come fascicoli)
sulle più note riviste del tempo. Difficilissimo un
censimento dei suoi interventi sui giornali, fra cui La
Perseveranza, Il Fanfulla e L'Opinione.
Entrò alla Camera nel 1866 nella X legislatura, quindi
già con un certo prestigio personale (fu subito nominato
membro della commissione generale per il Bilancio e questore della
Camera). Fu assiduo alle sedute, sollecitando gli interessi locali
veneziani e intervenendo ripetutamente e con competenza nelle
discussioni militari. In queste non mancò di affiancare,
criticamente, il governo di L. Menabrea. Fra i suoi discorsi fecero
rumore quelli con i quali appoggiò vigorosamente
l'introduzione della tassa sul macinato (in realtà più
con foga oratoria che con argomenti politici) e in cui sostenne che
era giunto il momento di "mandare la camicia rossa al Bargello" e di
impegnarsi nella costruzione dello Stato e del compimento
dell'Unità nazionale (e qui più con comprensibili
riferimenti autobiografici che con valutazioni politiche generali).
Purtroppo per il F. il 1868-69 fu segnato dal suo coinvolgimento
nello scandalo della Regia cointeressata dei tabacchi, uno dei punti
più bassi raggiunti dalla politica liberale post-unitaria e
dei casi più evidenti della collusione tra politica e
affarismo dei centri finanziari del paese. Sostenendo di voler
accrescere le sue entrate, dissanguate dopo il 1866, lo Stato
affidava la privativa dei tabacchi ad una società. A favore
del progetto si schierarono la Destra governativa (tra cui il F., da
tempo intimo di Menabrea) e il terzo partito di A. Mordini, contro
la Permanente piemontese, G. Lanza e Q. Sella, U. Rattazzi e la
Sinistra. Le accuse contro la società di D. Balduino e P.
Bastogi furono sferzanti e il Gazzettino rosa di F. Cavallotti e A.
Bizzoni scrisse che i finanzieri avevano comprato, mercé la
vendita di azioni della società, il voto dei deputati. Tra
questi furono fatti i nomi di V. S. Breda (che però fu poi
accantonato), R. Brenno, G. Civinini e del F.; fu avanzata
così una proposta di inchiesta, ma uno dei principali
testimoni, il deputato maggiore C. Lobbia, fu ucciso in circostanze
assai poco chiare. Sanzionare con l'inchiesta le condanne già
pronunciate dalla stampa avrebbe significato mettere in stato di
accusa il governo e la stessa classe politica. I tre, e soprattutto
il F., esibirono documenti comprovanti che la loro partecipazione
alla società era avvenuta in date successive all'approvazione
parlamentare della convenzione. La relazione finale della
commissione d'inchiesta smorzò quindi tutti i toni. Ma sul F.
pesò l'onta di una pubblica "riprovazione" del suo
comportamento.
L'ombra della "riprovazione" accompagnò d'ora in avanti il
F., evidenziando la sua spregiudicatezza (ma anche la sua scarsa
accortezza) per gli affari. Furono momenti assai difficili per lui;
non presenziò ai lavori parlamentari, non fece interventi
politici, non scrisse né editò quasi nulla (eccetto un
volume sulla giurisprudenza del duello in buona parte rielaborazione
di scritti passati). Preparò soltanto il volume che gli
assicurò una grande notorietà, Questioni di guerra e
finanza: volontari e regolari (Firenze 1870), anche questo
però rielaborazione di interventi già editi (tra
l'altro sulla Nuova Antologia). Ilvolume sosteneva vigorosamente la
tesi della riforma dell'esercito, proponendo di mettere da parte la
vecchia distinzione appunto tra volontari e regolari con la
generalizzazione del principio della leva.
Presa Roma e indette nuove elezioni, il F. rientrò alla
Camera (1870-74), sedendo naturalmente a destra (si sentiva
"condannato a morte dalla democrazia rossa"). In quella sede profuse
la massima parte delle sue energie affiancando - criticamente - le
proposte riformatrici del ministro della Guerra C. Ricotti. Nelle
discussioni militari poté fare sfoggio delle sue competenze
pratiche (che risalivano al 1848, al 1859 e al 1866) e teoriche
(recentemente affinate con il suo volume). Fu questo probabilmente,
dopo il 1869, il momento della sua maggiore notorietà
politica. Con C. Conte e D. Farini fu detto uno degli "anabattisti"
della riforma Ricotti. Fu relatore nel progetto di legge sugli
stipendi militari, scrivendo una dotta e lunghissima relazione (che
fece sorridere taluni, proprio per le sue dimensioni). Dal banco
della Camera sostenne interessi locali veneziani in collaborazione
con Breda e intervenne anche nelle discussioni sulla Pubblica
Istruzione.
Forse fidando troppo sulla sua notorietà, sui rapporti
stretti con V. S. Breda (nel 1873 era già ingegnere per la
Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche) e su
certi riconoscimenti locali (fu membro dell'Ateneo veneto dal 15
genn. 1874), non preparò a dovere la sua campagna elettorale
e nelle elezioni per la XII legislatura fu sconfitto al
ballottaggio. L'assenza dalla Camera fu comunque breve. Nel novembre
1876, dopo la rivoluzione parlamentare, vi tornò per
svolgervi un'opera di accanita opposizione dei governi della
Sinistra, specie sulle questioni militari, dove il F. si sentiva
più preparato.
A fianco di Ricotti e Farini, combatté il ministro della
Guerra L. Mezzacapo ripetutamente, accusandolo tra l'altro, non
sempre a ragione, di voler tornare alle "primitive idee" di La
Marmora, con un esercito pre-Ricotti e anche pre-1860. Intanto, in
alcuni suoi scritti politico-geografico-militari, andava
sottolineando l'italianità dell'Istria (oltre che del
Trentino e della Venezia Giulia), in parte rientrando nel filone
irredentista risorto in quegli anni, in parte sostenendo la
necessità per l'Italia di non inimicarsi più di tanto
l'Austria. In epoche successive questo è valso al F. la palma
di antesignano della Triplice Alleanza. Ma questi suoi scritti e la
loro contraddittorietà, che ha permesso tali interessate
interpretazioni, sono da mettersi in relazione con una critica al
comportamento diplomatico italiano al convegno di Berlino del 1878,
piuttosto che allo smacco di Tunisi del 1881 e al trattato del 1882.
Si ripresentò al vaglio degli elettori anche nel 1880, ma la
Sinistra gli oppose nel collegio un candidato forte e noto come A.
Baccarini, di fronte al quale il F. cadde nel ballottaggio.
L'opinione pubblica percepì il suo fallimento come uno dei
segnali della progressiva scomparsa politica della vecchia Destra.
È in realtà difficile identificare il F. con un'anima
precisa della Destra storica, tanto piena di contraddizione era
stata la sua vita pubblica e privata. Per nascita ed esperienze fu
antipiemontese e antipermanente, ma i suoi interessi lo spinsero
sempre verso l'esercito, baluardo sabaudo e piemontese. Da patriota
e combattente che era, si fece conservatore e fu personalmente
attaccato e bollato dalla Sinistra (con la Regia e per il macinato),
da N. Bixio e da F. Crispi. Combatté l'Austria,
politicamente, giornalisticamente e militarmente, ma finì per
proporre di non urtarla e, al massimo, di "inorientarla" (con
più di 30 anni di ritardo su C. Balbo). Fu conservatore e
liberista, ma attaccò L. Luzzati e criticò lo stesso
A. Smith, in una sua memoria, sostenendo che l'intervento statale,
per di più in Italia, era ineliminabile. Finanziariamente si
era legato a V. S. Breda per la Società veneta, ma quando,
più tardi, questi concepì il disegno della Terni, il
F. non volle seguirlo: rimase così con un consistente numero
di azioni della Veneta che poi, precipitate di valore, furono
svendute nel 1886-87. Nelle riforme militari appoggiò
Ricotti, ma se ne distolse quando questi - per fare economie e per
marcare le sue distanze da La Marmora - propose di ridimensionare i
bersaglieri. Combatté insomma molte battaglie, ma non seppe
allearsi definitivamente con nessuno. Nella stessa sua Venezia, dove
pure era tanto noto, non riuscì a crearsi uno stabile gruppo
di alleanze. Gli rimase così solo l'aura di libero pensatore
e rigido conservatore.
Quando, qualche mese più tardi, gli morì la moglie,
stimolo prezioso e collaboratrice indispensabile, cui il F. era
indescrivibilmente attaccato, tutti pensarono che egli, peraltro
economicamente non più in buone acque, fosse ormai finito. La
Presse di Parigi, segnalando La Venezia-Giulia: studi
politico-militari (Venezia 1885), indicava il F. come "l'uomo che
è, o meglio che era" più rappresentativo della Destra
storica. Spiritualmente, però, il F. si dimostrò
tutt'altro che finito. Scontò periodi difficili (dal 1880 al
1885, quando infine si risposò con Rita Levi; dal 1893 al
1895, quando fu molto malato), ma mantenne e anzi aumentò la
sua attività di pubblicista. Essa divenne per il F. sempre
più importante dal momento che rappresentò un cespite
di entrate ormai non più secondario, visto che le sue finanze
e il suo giro di affari si facevano sempre più ristretti.
Qualche anno più tardi, scrivendo a C. Conte, si sentiva
ormai "un invalido della politica, della scienza e della spada" e
scherzava, ma non troppo, sulla sua "posizione di proletario sebbene
pochissimo socialista". Cercò a lungo e ripetutamente, presso
gli esponenti della Destra, contattando prima L. G. Pelloux e poi A.
di Rudinì, di farsi nominare senatore e di farsi concedere
l'onorificenza (e l'appannaggio) della Croce di Savoia. Ma ormai la
politica italiana e il F. erano su binari divergenti. Per dar libero
sfogo al suo pensiero, lucido ma non più sempre provocatore
ed acuto, non rimaneva quindi al F. che l'attività
pubblicistica. Scrisse, quantitativamente, più nel
quinquennio successivo al 1880 che in tutta la sua vita precedente.
Stese commemorazioni, articoli d'occasione, monografie idrauliche e
matematiche. Pubblicò (Milano 1888), ritoccandolo, Pietro
Aretino, un dramma che aveva nel cassetto da un trentennio e che gli
procurò una rinnovata ma effimera fama di drammaturgo. Si
interessò ad aspetti vari della storia locale veneta.
Il principale punto di forza del F. di quest'ultimo periodo fu la
rivalutazione del duello e della ginnastica. Nel clima ideologico e
politico crispino, predisposto al culto della forza e dell'azione,
pubblicò prima le Novelle cavalleresche (Torino 1888) e poi
La ginnastica bellica (Roma 1895), che fu molto apprezzata. In
quest'ultima, non sempre d'accordo con A. Mosso, che vedeva la
ginnastica sotto l'aspetto fisico e sotto quello della
militarizzazione delle masse, il F. sottolineava il ruolo
dell'educazione fisica anche della classe dirigente. La sua
attenzione, ancora davvero "da Destra storica", era rivolta alle
vecchie élites più che alle manifestazioni nuove
dell'ingresso delle masse nella vita politica e sociale italiana.
Un altro aspetto interessante dell'ultimo F. fu, come si è
detto, la sua attività di conferenziere e di maître
à penser dell'Italia umbertina. Con la sua prosa vivace e la
sua oratoria intrigante, piacque alle platee borghesi
intrattenendole volta a volta su Il carattere (1879), su Dei nessi
tra l'idealità e la moralità: discorso (Venezia 1879),
su Il dovere a volo di uccello (1882), su Se sia vero che la fisica
abbia ucciso la metafisica (1883), sul Volgarizzamento delle scienze
(1886), su I criteri del Bene (1890), su Il positivismo nella
scienza e nella vita e sulla Fisica sociale (1892), su Logica e
onore e su L'economia politica (1895).
Tornò anche alla critica e alla letteratura (con Critiche
parallele; l'amore di tre bambini, Padova 1884) ma senza grande
fortuna. Non trovò mai un editore per le sue progettate
"Memorie" o per le sue "Opere militari" (pensate in cinque volumi!).
Negli ultimi anni di vita tentò ancora qualche affare
finanziario (si interessò, tentando di appropriarsene per
sé e per una società con cui fu in contatto, del
progetto per un ponte di ferro tra Venezia e la terraferma). Ma
senza grandi risultati. Morì quasi dimenticato a Venezia il 4
apr. 1897.
Nei necrologi che al F. furono dedicati, riviste e uomini politici
della Destra italiana celebrarono di fatto se stessi ed una
tradizione politica, militare e culturale che andava finendo,
piuttosto che il defunto.