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La dottrina sociale indica il complesso di principi, insegnamenti
e direttive della Chiesa cattolica intesi a risolvere, secondo lo
spirito del Vangelo, i problemi socio-politico-economici.
Storia
La dottrina sociale spesso viene ricollegata nella sua genesi
all'enciclica Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII. Se
è vero che il grande nucleo della dottrina sociale è composto da
famose encicliche e dai discorsi sociali dei Pontefici quali Quadragesimo
Anno (1931) di Papa Pio XI, Mater et Magistra (1961)
di Papa Giovanni XXIII, Populorum progressio (1967) di
Papa Paolo VI, Centesimus annus (1991) di Papa Giovanni
Paolo II, Caritas in veritate (2009) di Papa Benedetto XVI
e alcuni discorsi di Papa Pio XII, essa comunque è insita nello
stesso messaggio cristiano ("sia fatta la tua volontà come in
cielo così in terra") e trova compiuta e completa enunciazione
nella terza parte del Catechismo della Chiesa cattolica.
Questi documenti pontifici sono il frutto non solo del Magistero
della Chiesa, ma anche del dibattito e degli studi di sacerdoti e
laici cattolici.
Il Magistero sociale della Chiesa non è cosa recente, ma è stata
una preoccupazione costante fin dall'epoca dei Padri della Chiesa
e poi del Medioevo (si pensi per esempio alla proibizione
dell'usura, alla creazione dei Monti frumentari e di pietà, ed al
pauperismo), o anche alla dottrina agostiniana del De civitate Dei
e a parte del pensiero di San Tommaso d'Aquino. Inoltre il
Magistero sociale non prende in considerazione tanto e solo i
problemi economici, ma più in generale i problemi della società
nel suo complesso considerata, di cui quelli economici sono
soltanto una parte. Sono documenti sociali, in quanto riguardanti
la società, anche encicliche come la Immortale Dei di
Leone XIII o la Spe salvi di Benedetto XVI.
I punti principali della dottrina sociale cristiana riguardano:
* l'Uomo, perché egli è creatura di Dio, dotata di dignità
spirituale e soprannaturale, centro dell'ordine economico,
sociale, politico, insieme alla sua famiglia. Perciò l'uomo ha
diritto alla vita religiosa, al lavoro, alla famiglia, all'uso dei
beni materiali, alla proprietà, al giusto salario, alla libertà,
alla partecipazione alla vita dello Stato, all'istruzione, alla
collaborazione nella produzione della ricchezza.
* il lavoro, che va visto, come richiama Giovanni Paolo II, "nel quadro più ampio di un disegno divino" utile ai "singoli alla realizzazione dello scopo fondamentale della loro vita", mentre"l’impegno dell’occupazione di tutte le forze disponibili è un dovere centrale dell'azione degli uomini di governo, politici, dirigenti sindacali ed imprenditori" e le "le autorità responsabili" sono preposte "perché mettano mano ai provvedimenti necessari a garantire ai lavoratori la giusta retribuzione e la stabilità"
* lo Stato, perché esso deve essere una società
organizzata, dove è garantita la convivenza civile, le giuste
libertà individuali e sociali e la giustizia, nel perseguimento
del bene comune, dell'intera comunità e non di un gruppo a
detrimento delle legittime esigenze degli altri, e rispettando la
libertà religiosa di tutti i culti ed i diritti della Chiesa
Cattolica
Di queste esigenze sociali cristiane si sono fatti portatori in
tutto il mondo numerosi cattolici, fra i quali San Giovanni Bosco,
San Giuseppe Benedetto Cottolengo, Federico Ozanam, Léon Harmel ed
altri.
Nella prima grande enciclica sociale, la Rerum Novarum,
trattando del salario si afferma che il principio ispiratore di
tutta la questione sociale è l'inalienabile dignità della persona
umana. L'uomo deve essere riconosciuto tale anche quando è
retribuito. Deve avere, quindi, una quantità di salario che gli
permetta il giusto sostentamento per sé e per la sua famiglia.
Dopo quarant'anni nell'enciclica Quadragesimo Anno, Papa
Pio XI precisò: «la libera concorrenza cioè si è da se stessa
distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia
economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia
del predominio; e tutta l'economia è così divenuta orribilmente
dura, inesorabile, crudele». Di qui la necessità che lo Stato
intervenga in misura maggiore che non ai tempi di Papa Leone XIII,
pur nel rispetto del principio della necessità dell'iniziativa
privata.
Papa Pio XII aggiunse a questi concetti alcuni elementi nuovi.
Nello sconvolgimento del secondo conflitto mondiale la difesa
della persona umana aveva mostrato parecchi lati deboli,
dimostrandosi profondamente incerta. Allora il Papa, parlando del
salario, riflette su questo senso di insicurezza nella quale si
trova la persona e chiede che nel salario sia compresa anche la
sicurezza. Il salario, cioè, deve permettere l'acquisto di
determinati beni che concretizzano la sicurezza: deve, cioè,
essere un salario di proprietà. Secondo Pio XII la proprietà
privata in rapporto alla famiglia ne è come lo spazio vitale e
garanzia di libertà.
L'enciclica Mater et Magistra di Papa Giovanni XXIII ha
esteso l'insegnamento della Chiesa ai problemi nuovi del mondo
moderno.
Concezione cattolica dello Stato
Per la Dottrina sociale della Chiesa cattolica, lasciati ai
cittadini la responsabilità ed il compito di determinare, a
seconda delle mutevoli esigenze, l'organizzazione politica,
tecnica ed istituzionale dello Stato. Questo deve rispondere,
sempre e comunque, ad alcuni requisiti:
* Favorire la convivenza civile
* Garantire la giustizia
* Perseguire il bene comune, dell'intera comunità e
non di un gruppo a detrimento delle legittime esigenze degli altri
* Garantire ed assicurare le giuste libertà
individuali e sociali
* Rispettare la libertà religiosa.
Encicliche sociali ed altri documenti
15 maggio 1891: Leone XIII, Rerum Novarum
(respinge il socialismo per la lotta di classe certamente non
cristiana; sostiene giuste rivendicazioni proletarie; proprietà
privata per la libertà della persona e della famiglia, con piccola
dimensione sociale; sussidarietà dell'intervento statale; diritto
all'associazione sindacale; salario che assicuri giusto
sostentamento)
15 maggio 1931: Pio XI, Quadragesimo Anno
(respinge il comunismo come prassi e dottrina contraria alla
visione cristiana; non condanna il socialismo democratico come
economia di programmazione sfumata; proprietà privata con maggiore
dimensione sociale e sussidarietà statale; è molto apprezzato ed
al tempo stesso criticato il corporativismo fascista; si propugna
un salario familiare)
19 marzo 1937: Pio XI, Divini Redemptoris
(errori del comunismo ateo: nega Dio, l'anima immortale, la vita
futura; inoltre: odio, lotta di classe, diritto di proprietà e
famiglia a discrezione dello Stato)
1º giugno 1941: Pio XII, Discorso di Pentecoste
(tutti gli uomini devono poter usare i beni della terra)
21 marzo 1947: Pio XII, Fulgens radiatur,
lettera enciclica in occasione della ricorrenza del XIV secolo del
transito di S. Benedetto da Norcia (preghiera e lavoro come
fondamento di una vita civile)
15 maggio 1961: Giovanni XXIII, Mater et
Magistra (si sviluppa l'assicurazione sociale; la proprietà
privata è in funzione sociale; la socializzazione deve rispettare
le responsabilità dei singoli e dei corpi intermedi per il vero
bene comune)
11 aprile 1963: Giovanni XXIII, Pacem in Terris
(diritti dell'uomo e della donna; proprietà privata con intrinseca
funzione sociale; sussidarietà dei pubblici poteri; collaborazione
politica)
7 dicembre 1965: Paolo VI, Concilio Vaticano II
(costituzione pastorale Gaudium et Spes)
26 marzo 1967: Paolo VI, Populorum Progressio
(crescono squilibri e messianismi; proprietà privata non diritto
assoluto; sussidarietà della pianificazione; tentazione
materialista-atea)
14 maggio 1971: Paolo VI, Octogesima Adveniens,
lettera apostolica (distingue diversi socialismi; aspirazione a
società economicamente più giusta; azione politica rivoluzionaria
discutibile; ideologia materialistica inammissibile)
27 gennaio-13 febbraio 1979: Giovanni Paolo II,
Conferenza di Puebla (la Chiesa evangelizza; la Chiesa al servizio
dell'uomo, di ogni uomo)
1º-12 luglio 1980: Giovanni Paolo II, Viaggio
in Brasile (collaborazione fraterna; spirito delle beatitudini
evangeliche; per togliere le ingiustizie si necessita l'impegno
dei cristiani)
19 marzo 1981: Giovanni Paolo II, Discorso a
Terni (lotta per la giustizia, non lotta contro l'uomo)
14 settembre 1981: Giovanni Paolo II, Laborem
Exercens (sul significato del lavoro umano)
1987: Giovanni Paolo II, Sollicitudo Rei
Socialis, nel ventesimo anniversario della Populorum Progressio
1991: Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, nel
centenario della Rerum Novarum
2009: Benedetto XVI, Caritas in veritate
***
Enciclopedia Europea Garzanti vol. 4
Milano 1977
Marie Dominique Chenu
Dottrina sociale della Chiesa
Espressione designante, in senso lato o più spesso con riferimento particolare all'insegnamento pontificio dell'ultimo secolo, la posizione della chiesa in materia politico-sociale. È chiaro che, nella sua enunciazione primitiva e nella sua storia, il vangelo implica non solo una perfezione personale nella comunione con Dio e nell'amore del prossimo, ma anche, in questo amore, un'incidenza sulla vita collettiva di tutti i raggruppamenti umani, compresi quelli politici, al di là dei rapporti interpersonali. Il «regno di Dio» ha una dimensione sociale. Ma accade pure che questa legge universale si concretizzi in enunciazioni e comportamenti legati a circostanze in cui essa deve soddisfare esigenze e regole particolari.
L'espressione «dottrina sociale» assume allora un significato specifico, condizionato dai tempi e dai luoghi, con un preciso riferimento alla storia. Certo, l'insegnamento generale del vangelo è sempre valido, ma in questi casi è vincolato a — e si esprime in — un complesso di proposizioni e principi relativizzato dai contesti e dalle circostanze in cui s'incarna. È quel che avviene nell'ultimo terzo del sec. XIX, quando la chiesa prende coscienza delle istanze della civiltà industriale che andava trasformando radicalmente non solo le strutture della società, ma la natura dei rapporti tra gli uomini e, quindi, gli uomini stessi tanto nella loro moralità quanto nel loro essere cristiani.
Questa trasformazione, queste «realtà nuove» trovano espressione nella solenne enciclica di Leone XIII Rerum novarum (1891). Il fatto che tale presa di coscienza abbia luogo cinquantanni dopo l'appassionata e dura presa di coscienza di Karl Marx nel Manifesto del partito comunista, del 1848, è indubbiamente molto significativo. Ma occorre anche riconoscere oggettivamente, e non per illegittimo spirito apologetico, che l'intervento di Leone XIII costituisce nella storia dell'occidente un avvenimento della massima importanza: rappresenta la suprema garanzia spirituale delle aspirazioni e delle rivolte degli oppressi. Lo dimostra il fatto che esso turbò l'opinione pubblica in generale e fu accettato molto lentamente, non senza opposizione sia da parte della chiesa stessa sia da parte del mondo. In questa occasione prese corpo, anche se l'espressione non era usata esplicitamente, la cosiddetta «dottrina sociale» della chiesa. E tale è ormai il suo significato specifico.
L'enciclica non vuole essere un'esposizione generale della situazione e dei problemi posti dal progresso né tanto meno delle proposte di soluzioni. Come lo stesso titolo suggerisce, è una protesta contro l'indigenza degli uomini soggetti alle nuove condizioni di lavoro; questi nuovi poveri non solo si trovano in una situazione economica miserabile, ma sono disumanizzati dalle strutture stesse della produzione e della distribuzione dei beni. Le soluzioni e i rimedi proposti, per quanto suggestivi, rimangono tuttavia effimeri, vaghi, ambigui, segnati da presupposti che occultano la luce evangelica: paternalismo, confessionalismo, confusione tra spirituale e temporale, larvata teocrazia — lacune e oscurità che l'evoluzione successiva porrà in luce. Di tali lacune e oscurità si analizzeranno qui le cause, che contribuiranno a contaminare la «dottrina sociale», più ancora nel metodo che nel contenuto.
La grande opera dottrinale e apostolica di Leone XIII prosegue nel corso di tutto il sec. XX con importanti documenti papali, la cui continuità è intenzionalmente sottolineata dai vari testi via via pubblicati.
Quarant'anni dopo Leone XIII, Pio XI pubblica l'enciclica intitolata Quadragesimo anno (1931). Questa volta i problemi sono enunciati nel loro insieme; si riconoscono i progressi della civiltà industriale senza rancore; si propongono i rimedi senza nostalgia di un passato irripetibile; si dichiara fine specifico del bene comune la «giustizia sociale» (secondo l'espressione dell'epoca), che va ben al di là della beneficenza. Ma in questo modo si elabora un corpo dottrinale sulla proprietà, sul sindacalismo, sul ruolo dello stato, di cui non si percepiscono né si enunciano il carattere congiunturale e l'ideologia implicita; si arriva a un «codice sociale» come modello di società.
Categorica, per una inadeguata valutazione dell'importante fenomeno della socializzazione, è l'opposizione al socialismo, non solo nelle sue tesi economico-politiche, ma nelle sue aspirazioni: un'opposizione sommaria e paralizzante che pone la chiesa dalla parte dell'ordine costituito e, grazie a questa collusione, favorisce un clericalismo larvato in un clima dottrinale e culturale che non rispetta l'autonomia delle realtà terrestri. Non senza alcune incoerenze che rendono difficili le iniziative locali, Pio XI intuisce tuttavia il ruolo dei laici nella gestione apostolica e comunitaria della chiesa, e sostiene i nuovi movimenti della cosiddetta Azione cattolica, che saranno i soggetti portanti della dottrina sociale, suscitando l'opposizione delle masse cristiane conservatrici.
Pio XII segue la stessa linea, anche se blocca le nuove istanze, in un regime autoritario poco propizio alle innovazioni economiche e sociali: si ricordi per es. il suo inopportuno intervento nella controversia sull'organizzazione delle aziende in Germania (1951), contro la partecipazione operaia alla gestione. L'ossessione del socialismo marxista rende ambigui i rapporti con i regimi autoritari, fascismo e nazismo.
Giovanni XXIII sblocca una situazione che, dottrinalmente e apostolicamente, chiude la chiesa in un vicolo cieco. Ravvisando nella «socializzazione» il grande fenomeno che trasforma gli individui e i gruppi (introduzione all'enciclica Mater et magistra, 1961), Giovanni XXIIIvi scorge, secondo l'espressione evangelica da lui rimessa in circolazione, un «segno dei tempi», vale a dire, nel movimento stesso della storia, un'apertura, un appello alla parola di Dio in Cristo Uomo-Dio.
La sua famosa enciclica Pacem in terris (1963) analizza lucidamente questi «segni dei tempi» e, in un testo memorabile, distingue tra ideologie e movimenti storici (n. 159), liberando il vangelo dalle ideologie che ne velavano le enunciazioni.
Come è noto, il concilio Vaticano il segue la stessa linea, soprattutto con la costituzione Gaudium et spes. Lo prova il fatto che i redattori del testo ne eliminarono intenzionalmente, per la sua ambiguità, l'espressione «dottrina sociale»; e anche se essa venne surrettiziamente reintrodotta dopo la votazione, ciò non modifica la decisione iniziale. Discernere i «segni dei tempi» ricorrendo al necessario metodo induttivo, nelle situazioni concrete e nell'attività effettiva: è questo e non già un'ubbidiente applicazione ai principi astratti di una dottrina prestabilita, il modo con cui i cristiani dovrebbero attuare le loro decisioni.
Paolo vi insisterà spesso su questa espressione «segni dei tempi» e su questo nuovo atteggiamento. E ne allargherà i confini prendendo coscienza dell'emancipazione del Terzo Mondo; l'enciclica Populorum progressio (1967), anche se conserva qualche residuo dell'antica concezione, si apre alla universalizzazione dei problemi e contribuisce con ciò a superare l'occidentalismo della dottrina sociale.
Octogesimo anno è il titolo della lettera diretta da Paolo VI al cardinal Roy (ottant'anni dopo la Rerum novarum): ancora una volta un appello alla continuità, ma qui la rottura con il metodo dottrinale e pastorale inaugurato da Leone XIII è evidente. «Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto, non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell'insegnamento [non si dice più "dottrina"] sociale della chiesa, qual è stato elaborato nel corso della storia e particolarmente in questa era industriale, a partire dalla data storica del messaggio di Leone XIII sulla condizione degli operai, di cui abbiamo l'onore e la gioia di celebrare oggi l'anniversario. Spetta alle comunità cristiane individuare (con l'assistenza dello Spirito Santo, in comunione con i vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà) le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi» (n. 44).
Il monolitismo della «dottrina sociale» risulta ormai incrinato. In parecchi paragrafi della Octogesimo anno si definisce la strategia degli impegni del cristiano nel mondo, dove egli è autonomo nelle sue opzioni sociali e politiche, compreso il giudizio, favorevole e insieme critico, sulle correnti socialiste (n. 31). Tra le ideologie e le utopie, il discernimento è l'operazione della libertà della fede. Questo documento rappresenta il frutto maturo della dinamica e del profetismo del concilio.
La «dottrina sociale», nel senso storico e specifico della parola, era un residuo della potestas indirecta, per cui la chiesa lasciava che la propria testimonianza evangelica fosse strumentalizzata da un potere, se non politico, per lo meno culturale, in competizione con le aspirazioni e le opzioni della società civile. In realtà, ciò equivaleva a dare un carattere ideologico all'impatto della chiesa. Si è parlato di rivoluzione copernicana: il polo regolatore della chiesa ritrova la dimensione concreta e storica del Popolo di Dio, senza incrinarne la gerarchia societaria.
Questo rinnovamento della chiesa nella sua natura evangelica ha spostato il campo della sua incarnazione nell'umanità, più ancora nel metodo che nel contenuto; si tratta, nel significato globale definito all'inizio, dell'eesplicarsi dell'amore fraterno a dimensione politica.
Si riportano integralmente le due Encicliche sulla dottrina
sociale della Chiesa che Gramsci ha potuto leggere.]
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Rerum Novarum (traduzione: delle cose nuove, delle novità) è il
titolo dell'enciclica sociale promulgata il 15 maggio 1891 da papa
Leone XIII con la quale per la prima volta la Chiesa cattolica
prese posizione in ordine alle questioni sociali e fondò la
moderna dottrina sociale cristiana.
La dottrina sociale della Chiesa, via media tra capitalismo e
socialismo
Il movimento cattolico era diviso in varie correnti
sull'atteggiamento da tenere nei confronti del capitalismo
avanzante: c'era chi voleva un avvicinamento al movimento
socialista, per tentare di mediare sull'ateismo professato dai
marxisti. Altri auspicavano una sostanziale benedizione del
progresso, del commercio, e del "laissez faire". Una corrente
molto importante era inoltre rappresentata dai corporativisti, che
volevano un ritorno alle istituzioni economiche medievali, allo
scopo di ricomporre la tensione sociale.
L'originalità dell'enciclica risiede nella sua mediazione: il
Papa, ponendosi esattamente a metà strada fra le parti, ammonisce
la classe operaia di non dar sfogo alla propria rabbia attraverso
le idee di rivoluzione, di invidia ed odio verso i più ricchi, e
chiede ai padroni di mitigare gli atteggiamenti verso i dipendenti
e di abbandonare lo schiavismo cui erano sottoposti gli operai. Il
Papa, inoltre, auspica che fra le parti sociali possa nascere
armonia e accordo nella questione sociale. Ammette per la difesa
dei diritti dei lavoratori le associazioni «sia di soli operai sia
miste di operai e padroni»[1]. Invita anzi gli operai cristiani a
formare proprie società piuttosto che aderire ad
un'«organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene
pubblico» [2].
L'enciclica esprime una condanna nei confronti del socialismo,
della teoria della lotta di classe, della massoneria, preferendo
che la questione sociale venga risolta dall'azione combinata di
Chiesa, Stato, impiegati e datori di lavoro.
La tutela dei ceti più deboli
«[...] se con il lavoro eccessivo o non conveniente al sesso e
all'età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi
si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità
delle leggi»
(Rerum Novarum, 29)
«Nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo
speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé
stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che
mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo
nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel
numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza
rivolgere le cure e le provvidenze sue»
(Rerum Novarum, 29)
Avendo a cuore la tutela dei diritti delle donne e dei fanciulli,
che spesso erano i lavoratori più sfruttati, l'enciclica propone
anche di riservare alle donne mansioni a loro consone, anche dal
punto di vista morale e del loro ruolo nell'educazione della prole
spesso numerosa.
«Un lavoro proporzionato all'uomo alto e robusto, non è
ragionevole che s'imponga a una donna o a un fanciullo. [...]
Certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura
per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l'onestà
del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l'educazione
dei figli e il benessere della casa.»
(Rerum Novarum, 33)
La preparazione, gli sviluppi e il contesto
L'enciclica fu resa possibile dagli scritti dei precursori del
personalismo economico: i padri gesuiti Luigi Taparelli D'Azeglio
e Matteo Liberatore. Il secondo fu uno degli estensori del
documento insieme al domenicano cardinale Zigliara.
Le idee della Rerum Novarum furono riprese, integrate e aggiornate
nel corso del Novecento dalla Quadragesimo Anno di papa Pio XI,
dalla Mater et Magistra di papa Giovanni XXIII, dalla Populorum
Progressio di papa Paolo VI e dalla Centesimus Annus di papa
Giovanni Paolo II.
L'enciclica è un testo importantissimo del 1800, che insieme al
Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e al Saggio
sulla libertà di Mill può fornire un quadro completo delle
posizioni sociali risalenti alla nascita della borghesia.
Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa è un libro
curato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace per
raccogliere e sistematizzare il magistero cattolico sulla dottrina
sociale.
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Novità rispetto alla Rerum Novarum
Papa Pio XI promulga la sua enciclica 40 anni dopo la Rerum
Novarum. Durante questo intervallo di tempo erano apparsi altri
documenti pontifici trattanti, sebbene non exprofesso, temi
similari a quelli della Rerum Novarum come, ad esempio, "Singulari
Quadam" (1912) di Papa Pio X (indirizzata all'episcopato tedesco e
riguardante problemi della organizzazione e sindacalizzazione dei
lavoratori cattolici), e il Maximam Gravissimamque (1924) (di Pio
XI) (indirizzata alla chiesa francese e proponente un modello di
stesura degli Statuti di associazioni di lavoratori cattolici)[1]
Nella prima parte della Quadragesimo Anno Pio XI applaude e
riassume il pensiero della Rerum Novarum e, in coerenza con esso,
afferma il diritto e il dovere della Chiesa cattolica di avanzare
autoritativamente la sua dottrina sociale come hanno fatto, tra
gli altri, il suo predecessore della “Rerum Novarum”, del cui
intervento si vedono già i frutti vantaggiosi per tutta la
società; quindi, afferma che con questa enciclica si intende
contribuire alla formazione e alla giusta evoluzione della
coscienza sociale della nuova epoca; infine che da quando i
lavoratori si sono associati e sindacalizzati le loro condizioni
di vita sono migliorate, ma purtroppo non dovunque e non in
maniera sufficiente. (n. 16-40).
Proprietà privata
Se la Chiesa ha autorità riguardo al tema del rapporto tra lavoro
e capitale perché sono in campo gravi elementi di etica, e propone
norme che tuttavia non riguardano il piano della soluzione
tecnica, ebbene proprio da tale naturale etica discende la
“naturalità” della proprietà privata perché essa favorisce il
legittimo libero sviluppo, umano e spirituale, della persona.
Tuttavia il diritto, e il fatto, alla privata proprietà deve
essere orientato al bene comune: per questo lo Stato deve
moderarlo con leggi e, in certi casi estremi, può ricorrere anche
alla socializzazione di determinati beni necessari alla
collettività. Anche in questo caso estremo, tuttavia, deve essere
rispettato il principio di sussidiarietà perché lo Stato non deve
sostituirsi ai cittadini là dove essi sono in grado di fare da
soli. (n. 114-116)
Capitale e lavoro
Riguardo a questo tema, la Quadragesimo anno afferma che, oltre la
necessità che queste relazioni tra capitale e lavoro siano
regolate per leggi, che a loro volta devono essere conformi alla
morale naturale, bene ripetuta e incarnata dal Vangelo, e per
questo loda tutti gli sforzi passati per mitigare e far scomparire
i contrasti, essa esorta a continuare su questa strada. Ma è detto
chiaramente che la pace sociale è possibile soltanto quando i
lavoratori saranno trattati con un “salario giusto”. Tre elementi,
secondo l'enciclica, concorrono a determinare il “salario giusto”:
che esso corrisponda ai bisogni personali del lavoratore e ne
rispetti la dignità, che esso permetta al lavoratore di mantenere
la famiglia, e che, nello stesso tempo, sia conforme alle
condizioni dello stato attuale dell'economia. Il rispetto di
questi principi è frutto della, e a sua volta la amplifica,
solidarietà necessaria al bene comune. (n. 63-75).
Ordine sociale
Mentre il papa spinge per una maggiore solidarietà e
collaborazione tra lavoratori e datori di lavoro, dipinge un
quadro assai severo circa il capitalismo lasciato senza regole
morali e legali, specialmente quello espresso dalle società di
capitali anonime che riescono ad imporsi agli stessi stati. Da qui
provengono danni per i “deboli” e per le stesse imprese di minore
consistenza che non riescono ad accedere al credito e destinate a
soccombere di fronte alle grandi. L'ordine sociale, in questi
casi, esige che il capitalismo sia governato da leggi giuste per
evitare che prevalgano gli interessi individuali su quelli della
collettività.
Contemporaneamente viene respinta la lotta di classe come normale
e necessario criterio di sviluppo e come via per la eliminazione
di altre classi. (109).
In nome dell'ordine sociale e della necessaria solidarietà, la
Quadragesimo Anno rifiuta lo sciopero, o lo sconsiglia
severamente: quando le due parti non trovano l'accordo, intervenga
l'arbitro stabilito dalla legge (il “giudice” dice il testo
dell'enciclica) Ciò è detto al numero 95.[2]
Comunismo e socialismo
Viene decisamente respinto il comunismo, prima che per ragioni di
politica sociale ed economica, per motivi religiosi e di etica
naturale: il giudizio del comunismo sulla religione viene definito
“empio” oltre che falso (n 113); mentre si nota come un giudizio
sospeso, sebbene se ne rilevino gli errori religioso-sociali (n,
128), circa i diversi Socialismi in generale che sembrano ormai
orientati a distinguersi dal comunismo (n. 111, 113). Nel
comunismo, al di fuori dell'ansia e aspirazione dei popoli alla
giustizia sociale, vien visto una specie di male assoluto. Viene
ribadita la condanna della lotta di classe (n. 114) in generale
propugnata anche dai socialismi, come strumento per arrivare alla
soluzione dei problemi sociali o come via per il progresso
sociale, perché dannosa per la società e contraria al Vangelo. I
contrasti sociali vanno risolti alla luce dell'etica, che si basa
anche sulla religione, e della solidarietà: queste sono il nodo
dove la Chiesa si incontra e collabora anche con la civiltà
industriale. (n. 127-148)
INTRODUZIONE
1. Quarant'anni sono passati dalla pubblicazione della magistrale
enciclica Rerum novarum di Leone XIII, Nostro Predecessore di v.
m., e tutto il mondo cattolico, mosso da un impeto di calda
riconoscenza, ha preso a celebrarne la commemorazione con uno
splendore degno del memorabile documento.
2. Vero è che a quell'insigne testimonianza di sollecitudine
pastorale il Nostro Predecessore aveva già in certo modo spianata
la via con altre encicliche, come quella sui fondamenti della
società umana, la famiglia cioè e il venerando Sacramento del
matrimonio (enc. Arcanum del 10 febbraio 1880); sull'origine del
potere civile (enciclica Diuturnum del 29 giugno 1881);
sull'ordine delle sue relazioni con la Chiesa (enc. Immortale Dei
del 1° novembre 1885); sui principali doveri del cittadino
cristiano (enc. Sapientiae Christianae del 10 gennaio 1890);
contro gli errori del socialismo (enc. Quod apostolici muneris del
28 dicembre 1878) e la prava dottrina intorno all'umana libertà
(enc. Libertas del 20 giugno 1888) e altre di ugual genere, dove
Leone XIII aveva già espresso ampiamente il suo pensiero. Ma
l'enciclica Rerum novarum, rispetto alle altre, ebbe questo di
proprio, che allora appunto quando ciò era sommamente opportuno e
anzi necessario, diede a tutto il genere umano norme sicurissime,
per la debita soluzione degli ardui problemi della società umana,
che vanno sotto il nome di questione sociale. L'occasione della «
Rerum Novarum »
3. E veramente, verso la fine del secolo XIX, il nuovo sistema
economico da poco introdotto e i nuovi incrementi dell'industria
erano giunti a far sì che la società in quasi tutte le nazioni
apparisse sempre più recisamente divisa in due classi: l'una,
esigua di numero, che godeva di quasi tutte le comodità in sì
grande abbondanza apportate dalle invenzioni moderne; l'altra,
composta da una immensa moltitudine di operai i quali, oppressi da
rovinosa penuria, indarno s'affannavano per uscire dalle loro
strettezze.
4. A tale condizione di cose non trovavano certo difficoltà ad
adattarsi coloro che, ben forniti di ricchezze, la ritenevano
effetto necessario delle leggi economiche e perciò volevano
affidata soltanto alla carità la cura di sovvenire agli indigenti,
come se alla carità toccasse l'obbligo di stendere un velo sulla
violazione manifesta della giustizia, sebbene tollerata non solo,
ma talvolta sancita dai legislatori. Ma di tale condizione invece
erano più che mai insofferenti gli operai oppressi dalla ingiusta
sorte e perciò ricusavano di restare più a lungo sotto quel giogo
troppo pesante. Alcuni perciò, abbandonandosi all'impeto di
malvagi consigli, miravano a una totale rivoluzione della società,
mentre altri, trattenuti da una solida educazione cristiana a non
trascorrere in così insani propositi, persistevano tuttavia nel
credere che molte cose in questa materia fossero da riformare
interamente e al più presto.
5. Né altrimenti pensavano quei molti cattolici, e sacerdoti e
laici, i quali, mossi da un sentimento di una carità certamente
ammirabile, si sentivano già da lungo tempo sospinti a lenire
l'immeritata indigenza dei proletari, né riuscivano in alcun modo
a persuadersi come un così forte e ingiusto divario nella
distribuzione dei beni temporali potesse davvero corrispondere ai
disegni del sapientissimo Creatore.
6. In tale disordine lacrimevole della società essi cercavano
bensì con sincerità un pronto rimedio e una salda difesa contro i
pericoli peggiori: ma per la fiacchezza della mente umana anche
nei migliori, vedendosi respinti da una parte quasi perniciosi
novatori, dall'altra intralciati dagli stessi compagni di opere
buone, ma seguaci di altre idee, esitando tra le varie opinioni,
non sapevano dove rivolgersi.
7. In così grande urto e dissenso di animi, mentre dall'una parte
e dall'altra si dibatteva, e non sempre pacificamente, la
controversia, gli occhi di tutti, come in tante altre occasioni,
si volgevano alla Cattedra di Pietro, deposito sacro di ogni
verità, da cui si diffondono le parole di salute in tutto il
mondo; e accorrendo, con insolita frequenza, ai piedi del Vicario
di Cristo in terra, sì gli studiosi di cose sociali, come i datori
di lavoro e gli stessi operai, andavano supplicando unanimi perché
fosse loro finalmente additata una via sicura.
8. Tutto ciò il prudentissimo Pontefice ponderò a lungo tra sé al
cospetto di Dio, richiese consiglio ai più esperti, vagliò
attentamente gli argomenti che si portavano da una parte e
dall'altra, e in ultimo, ascoltando la voce della coscienza
dell'ufficio Apostolico (enc. Rerum novarum del 15 maggio 1891),
per non sembrare, tacendo, di mancare al proprio dovere (cfr.
Rerum novarum n. 13), deliberò in virtù del divino magistero, a
lui affidato, di rivolgere la parola a tutta la Chiesa, anzi a
tutta l'umana società
9. Risonò dunque, il 15 maggio 1897, quella tanto desiderata
voce, la quale, non atterrita dalle difficoltà dell'argomento, né
affievolita dalla vecchiaia, ma anzi rafforzata da ridestato
vigore, ammaestrò l'umana famiglia a tentare nuove vie in materia
di dottrina sociale. Punti fondamentali della « Rerum Novarum »
10. Voi conoscete, venerabili Fratelli e diletti Figli, anzi
avete familiare la mirabile dottrina onde l'enciclica Rerum
novarum resterà gloriosa nei ricordi dei secoli. In essa l'ottimo
Pastore, lamentando che una sì grande parte degli uomini, si
trovano ingiustamente in uno stato misero e calamitoso, con animo
invitto prende a tutelare egli stesso in persona la causa degli
operai che le circostanze hanno consegnati soli e indifesi alla
inumanità dei padroni e alla sfrenata cupidigia della concorrenza
(enc. Rerum novarum, n. 2), senza chiedere aiuto alcuno né al
liberalismo né al socialismo, dei quali l'uno si era mostrato
affatto incapace di dare soluzione legittima alla questione
sociale, l'altro proponeva un rimedio che, di gran lunga peggiore
del male, avrebbe gettato in maggiori pericoli la società umana.
11. Il Pontefice dunque, nel pieno esercizio del suo diritto e
quale buon custode della Religione e dispensatore di quanto con
essa in stretto vincolo si connette, trattandosi di un problema
del quale nessuna soluzione plausibile si potrebbe dare, senza
richiamarsi alla Religione e alla Chiesa (cfr. enc. Rerum novarum,
n. 13), partendo unicamente dagli immutabili principi attinti dal
tesoro della retta ragione e della divina Rivelazione, con tutta
sicurezza e come avente autorità (Mt 7,29), indicò e proclamò i
diritti e i doveri dai quali conviene che vicendevolmente si
sentano vincolati e ricchi e proletari, e capitalisti e prestatori
d'opera (enc. Rerum novarum, n. 12), come pure le parti rispettive
della Chiesa, dei poteri pubblici e anche di coloro che più vi si
trovano interessati.
12. Né quella voce apostolica risonò invano; che anzi l'udirono
con stupore e l'accolsero con il più grande fervore non solo i
figli obbedienti della Chiesa, ma anche un buon numero di uomini
lontani dalla verità e dall'unità della fede e quasi tutti coloro
che d'allora in poi s'occuparono della questione sociale ed
economica, sia come studiosi privati, sia come pubblici
legislatori.
13. Ma più di tutti accolsero con giubilo quell'enciclica gli
operai cristiani, i quali si sentirono patrocinati e difesi dalla
più alta Autorità della terra, e tutti quei generosi, i quali già
da lungo tempo sollecitati di recare sollievo alla condizione
degli operai, sino allora non avevano trovato quasi altro che la
noncuranza degli uni e persino gli odiosi sospetti, per non dire
l'aperta ostilità di molti altri. Meritatamente dunque tutti
costoro d'allora in poi tennero sempre in tanto onore
quell'enciclica che è venuto in uso di commemorarla ogni anno nei
vari paesi con varie manifestazioni di gratitudine.
14. Tuttavia la dottrina di Leone XIII, così nobile, così
profonda e così inaudita al mondo, non poteva non produrre anche
in alcuni cattolici una certa impressione di sgomento, anzi di
molestia e per taluni anche di scandalo. Essa infatti affrontava
coraggiosamente gli idoli del liberalismo e li rovesciava, non
teneva in nessun conto pregiudizi inveterati, preveniva i tempi
oltre ogni aspettazione; ond'è che i troppo tenaci dell'antico
disdegnavano questa nuova filosofia sociale, i pusillanimi
paventavano di ascendere a tanta altezza; taluno anche vi fu, che
pure ammirando questa luce, la riputava come un ideale chimerico
di perfezione più desiderabile che attuabile. Scopo della presente
enciclica
15. Per queste ragioni, venerabili Fratelli e diletti Figli,
mentre con tanto ardore da tutto il mondo, e specialmente dagli
operai cattolici, che d'ogni parte convengono in quest'alma Città,
si va solennemente celebrando la commemorazione del quarantesimo
anniversario della enciclica Rerum novarum, stimiamo opportuno di
servirCi di questa ricorrenza, per ricordare i grandi beni che da
quella enciclica ridondarono alla Chiesa, anzi a tutta l'umana
società; per rivendicare la dottrina di tanto Maestro sulla
questione sociale ed economica, contro alcuni dubbi sorti in tempi
recenti e per svolgerla con maggior ampiezza in questo o in quel
punto; e infine, dopo una accurata disamina dell'economia moderna
e del socialismo, per scoprire la radice del presente disagio
sociale, e insieme additare la sola via di una salutare
restaurazione, cioè la cristiana riforma dei costumi. Queste cose,
che ci proponiamo di trattare, costituiranno i tre punti,
nell'esposizione dei quali si svolgerà tutta intera la presente
enciclica. I - Frutti dell'enciclica « RERUM NOVARUM »
16. E anzitutto, per cominciare di là donde avevamo appunto in
animo di esordire, seguendo l'avvertimento di sant'Ambrogio che
diceva non esservi nessun dovere maggiore del ringraziare (S.
Ambrogio, De excessu fratris sui Satyri, lib. I, 44), non possiamo
trattenerci dal rendere amplissime grazie a Dio onnipotente per
gli insigni benefici dell'enciclica Leoniana, provenuti alla
Chiesa e all'umana società. I quali benefici se volessimo anche di
volo accennare, dovremmo richiamare alla memoria quasi tutta la
storia dell'ultimo quarantennio per quanto riguarda la questione
sociale. Ma li possiamo tutti ridurre a tre capi principali,
secondo le tre classi di aiuti che il Nostro Antecessore
desiderava per il compimento della sua grande opera restauratrice.
1 - L'opera della Chiesa
17. In primo luogo lo stesso Leone XIII aveva splendidamente
dichiarato che cosa si dovesse aspettare dalla Chiesa: Difatti la
Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre o
certo a rendere assai meno aspro il conflitto; essa procura con
gli insegnamenti suoi, non pur di illuminare la mente, ma
d'informare la vita e i costumi di ognuno; essa con un gran numero
di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del
proletario (enc. Rerum novarum, n. 13). a) nella dottrina
18. Ora la Chiesa non lasciò stagnare nell'inerzia queste preziose
fonti, ma a esse attinse copiosamente per il bene comune della
pace desiderata. Lo stesso Leone infatti e i suoi Successori non
desistettero mai dal proclamare e inculcare ripetutamente, ora a
voce, ora con gli scritti, la dottrina stessa dell'enciclica Rerum
novarum sulle materie sociali ed economiche, e adattarla
opportunamente secondo le esigenze delle circostanze dei tempi,
mostrando sempre carità di padri e costanza di pastori nella
difesa massima dei poveri e dei deboli. Lo stesso fecero tanti
Vescovi, spiegando la medesima dottrina con assiduità e saggezza,
chiarendola con i loro commenti, e applicandola alle condizioni
dei paesi diversi, giusta la mente e le istruzioni della Santa
Sede.
19. Non fa quindi meraviglia che sotto il magistero e la guida
della Chiesa molti uomini dotti, ecclesiastici e laici,
prendessero a trattare con ardore la scienza sociale ed economica
secondo le esigenze dei nostri tempi, mossi particolarmente
dall'intento di opporre con più efficacia la dottrina immutata e
immutabile, della Chiesa alle nuove necessità.
20. Così, additata e rischiarata la via dall'enciclica Leoniana,
ne sorse una vera sociologia cattolica, che viene ogni giorno
alacremente coltivata e arricchita da quelle scelte persone che
abbiamo chiamato ausiliari della Chiesa. E questi non la lasciano
già confinata all'ombra di eruditi convegni, ma la espongono alla
pubblica luce, come ne danno splendida prova le scuole istituite e
frequentate con molta utilità nelle Università cattoliche, nelle
Accademie, nei Seminari; e i congressi o « settimane » sociali,
tenuti con una certa frequenza e fecondi di lieti frutti; e
l'istituzione di circoli di studi e infine la larga e industriosa
diffusione di scritti sani e opportuni.
21. Né va ristretto a questi limiti il bene derivato dal
documento Leoniano; perché gli insegnamenti della enciclica Rerum
novarum a poco a poco fecero breccia anche in persone che, stando
fuori della cattolica unità, non riconoscono il potere della
Chiesa; sicché i principi cattolici della sociologia penetrarono a
poco a poco nel patrimonio di tutta la società. E non raramente
avviene che le eterne verità, tanto altamente proclamate dal
Nostro Predecessore di f. m., non solamente siano riferite e
sostenute in giornali e libri anche cattolici, ma altresì nelle
Camere legislative e nelle aule dei Tribunali.
22. Che più? Dopo l'immane guerra, quando i governanti delle
nazioni principali, al fine di reintegrare una vera e stabile pace
con un totale riassetto delle condizioni sociali, ebbero sancito
fra le altre norme allora stabilite quelle che dovevano regolare
secondo equità e giustizia il lavoro degli operai, tra quelle
norme non ne ammisero forse molte, così concordanti coi principi e
i moniti Leoniani, da sembrare di proposito dedotte da quelli? E
veramente l'enciclica Rerum novarum resta un monumento memorando a
cui si possono applicare con diritto le parole di Isaia: Alzerà un
vessillo alle nazioni (Is 11, 12). b) nella pratica applicazione
23. Frattanto, mentre le prescrizioni Leoniane, previe le
investigazioni scientifiche, avevano larga diffusione nelle menti,
si venne pure alla loro applicazione pratica. E anzitutto con
un'operosa benevolenza si rivolsero tutte le cure alla elevazione
di quella classe di uomini, che, per i moderni progressi
dell'industria cresciuti immensamente, non occupava ancora nella
società umana un posto o grado conveniente, e perciò giaceva quasi
trascurata e disprezzata; la classe operaia, diciamo, alla cui
cultura, seguendo l'esempio dell'Episcopato, lavorarono assai
alacremente con gran profitto delle anime, sacerdoti dell'uno e
dell'altro clero, quantunque già sopraffatti da altre cure
pastorali. E questa costante fatica, intrapresa per informare a
spirito cristiano gli operai, proponendo loro con chiarezza i
diritti e i doveri della propria classe, giovò pure in gran
maniera a renderli più consapevoli della loro vera dignità e abili
a progredire per vie legittime e feconde nel campo sociale ed
economico, e a divenire altresì guide degli altri.
24. Quindi un più sicuro rifornimento di più copiosi mezzi di
vita; giacché non solo si moltiplicarono mirabilmente le opere di
beneficenza e di carità secondo le esortazioni del Pontefice, ma
si vennero pure istituendo dappertutto associazioni nuove e sempre
più numerose nelle quali, col consiglio della Chiesa e per lo più
sotto la guida di sacerdoti, si danno e ricevono mutua assistenza
e aiuto operai, artieri, contadini, salariati di ogni specie. 2 -
L'opera dello Stato
25. Quanto al potere civile, Leone XIII, superando arditamente i
limiti segnati dal liberalismo, insegna coraggiosamente che esso
non è puramente un guardiano dell'ordine e del diritto, ma deve
adoperarsi in modo che con tutto il complesso delle leggi e delle
politiche istituzioni ordinando e amministrando lo Stato, ne
risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità (enc. Rerum
novarum, n. 26). E' bensì vero che si deve lasciare la loro giusta
libertà di azione alle famiglie e agli individui, ma questo senza
danno del pubblico bene e senza offesa di persona. Spetta poi ai
reggitori dello Stato difendere la comunità e le parti di essa, ma
nella protezione dei diritti stessi dei privati si deve tener
conto principalmente dei deboli e dei poveri. Perché, come dice il
Nostro Antecessore, il ceto dei ricchi, forte per sé stesso,
abbisogna meno della pubblica difesa: le misere plebi invece, che
mancano di sostegno proprio, hanno somma necessità di trovarlo nel
patrocinio dello Stato. E però agli operai, che sono nel numero
dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le
cure e la provvidenza sua (enciclica Rerum novarum, n. 29).
26. Non neghiamo che alcuni reggitori di popoli, anche prima
dell'enciclica di Leone XIII, provvidero ad alcune necessità più
urgenti degli operai e repressero le ingiustizie più atroci a loro
fatte. Ma è certo che allora finalmente, quando risonò dalla
Cattedra di Pietro la parola pontificia per tutto il mondo, i
reggitori dei popoli, fatti più consci del proprio dovere,
rivolsero i pensieri e l'attenzione loro a promuovere una più
intensa politica sociale.
27. In verità l'enciclica Rerum novarum, mentre vacillavano le
massime del liberalismo, che da lungo tempo intralciavano l'opera
efficace dei governanti, mosse i popoli stessi a promuovere con
più sincerità e più impegno la politica sociale, e indusse i
migliori tra i cattolici a prestare in questo il loro utile
concorso ai reggitori dello Stato sicché spesso si dimostrarono
nelle Camere legislative sostenitori illustri di questa nuova
politica; anzi le stesse leggi sociali moderne furono non di rado
proposte ai voti dei rappresentanti della nazione e la loro
esecuzione fu richiesta e caldeggiata da ministri della Chiesa,
imbevuti degli insegnamenti Leoniani.
28. Da tale continua ed indefessa fatica sorse un nuovo ramo
della disciplina giuridica del tutto ignorato nei tempi passati,
il quale difende con forza i sacri diritti dei lavoratori che loro
provengono dalla dignità di uomini e di cristiani; giacché queste
leggi si propongono la protezione degli interessi dei lavoratori,
massime delle donne e dei fanciulli: l'anima, la sanità, le forze,
la famiglia, la casa, le officine, la paga, gli infortuni del
lavoro; in una parola tutto ciò che tocca la vita e la famiglia
dei lavoratori. Che se tali statuti non si accordano dappertutto e
in ogni cosa con le norme di Leone XIII, non si può tuttavia
negare che in molti punti vi si sente una eco dell'enciclica Rerum
novarum, alla quale pertanto è da attribuirsi in parte assai
notevole la migliorata condizione dei lavoratori. 3 - L'opera
delle parti interessate
29. Insegnava per ultimo il sapientissimo Pontefice come i
padroni e gli operai medesimi possono recarvi un gran contributo,
con istituzioni cioè ordinate a porgere opportuni soccorsi ai
bisognosi e ad avvicinare e unire le due classi tra loro (enc.
Rerum novarum, n. 36). Ma il primo posto tra tali istituzioni egli
voleva attribuito alle corporazioni che abbracciano o i soli
operai o gli operai e i padroni insieme. E nell'illustrarle e
raccomandarle insiste a lungo, dichiarandone con mirabile
sapienza, la natura, la causa, l'opportunità, i diritti, i doveri,
le leggi.
30. Quegli insegnamenti furono pubblicati in un tempo veramente
opportuno; quando in parecchie nazioni i pubblici poteri,
totalmente asserviti al liberalismo, poco favorivano, anzi
avversavano apertamente le menzionate associazioni di operai: e
mentre riconoscevano consimili associazioni di altre classi e le
proteggevano, con ingiustizia esosa negavano il diritto naturale
di associarsi proprio a quelli che più ne avevano bisogno per
difendersi dallo sfruttamento dei potenti. Né mancava tra gli
stessi cattolici chi mettesse in sospetto i tentativi di formare
siffatte organizzazioni, quasi sapessero di un certo spirito
socialistico o sovversivo. a) associazioni dei lavoratori
31. Sono dunque sommamente raccomandabili le norme date
autorevolmente da Leone XIII, perché valsero a infrangere le
opposizioni e dissipare i sospetti. E d'importanza anche maggiore
riuscirono per aver esse esortato i lavoratori cristiani a
stringere fra di loro simili organizzazioni, secondo la varietà
dei mestieri insegnandone loro il modo, e molti di essi
validamente rassodarono nella via del dovere, mentre erano
fortemente adescati dalle associazioni dei socialisti, le quali,
con incredibile impudenza, si spacciavano per uniche tutrici e
vindici degli umili e degli oppressi.
32. Ma assai opportunamente l'enciclica Rerum novarum dichiarava
che, nel fondare tali associazioni, queste si dovevano ordinare e
governare in modo da somministrare i mezzi più adatti e spediti al
conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno
degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di
benessere fisico, economico, morale; ed è evidente che bisogna
avere di mira, come. scopo principale il perfezionamento religioso
e morale, e che a questo perfezionamento vuolsi indirizzare tutta
la disciplina sociale (enc. Rerum novarum, n. 42). Poiché, posto
il fondamento nella religione, è aperta la strada a regolare le
mutue attinenze dei soci per la tranquillità della loro convivenza
e per il loro benessere economico (enc. Rerum novarum, n. 43).
33. Ad istituire simili sodalizi, si consacrarono dappertutto
con lodevole ardore sacerdoti e laici in gran numero, bramosi di
attuare davvero integralmente il disegno di Leone XIII. E così
queste associazioni formarono dei lavoratori schiettamente
cristiani, i quali sapevano ben congiungere insieme la diligente
pratica del loro mestiere coi salutari precetti della religione, e
difendere con efficacia e fermezza i propri interessi e diritti
temporali, mantenendo il debito ossequio alla giustizia e il
sincero intento di cooperare con le altre classi della società al
rinnovamento cristiano di tutta la vita sociale.
34. Questi consigli poi e questi moniti di Leone XIII, furono
messi in atto dove in un modo dove in un altro, secondo le varie
circostanze nei vari luoghi. Così in alcuni paesi una stessa
associazione si propose di raggiungere tutti quanti gli scopi
assegnati dal Pontefice; in altre, così richiedendo e consigliando
le condizioni locali, si venne a una certa divisione di lavoro e
furono istituite distinte associazioni, di cui le une si
assumessero la difesa dei diritti e dei legittimi vantaggi dei
soci nei contratti di lavoro, altre si occupassero del vicendevole
aiuto da prestarsi nelle cose economiche, altre finalmente si
dedicassero tutte alla cura dei doveri morali e religiosi e di
altri obblighi simili.
35. Questo secondo metodo fu adoperato principalmente là dove i
cattolici non potevano formare sindacati cattolici, perché
impediti o dalle leggi del paese o da altre tali istituzioni
economiche, o da quel lacrimevole dissidio delle intelligenze e
dei cuori, tanto largamente disseminato nella società moderna, e
dalla stringente necessità di resistere con fronte unico alle
schiere irrompenti dei partiti sovversivi. In tali circostanze
pare che i cattolici siano quasi costretti ad iscriversi a
sindacati neutri, i quali tuttavia professino sempre la giustizia
e l'equità e lascino ai loro soci cattolici la piena libertà di
provvedere alla propria coscienza e di obbedire alle leggi della
Chiesa. Spetta però ai Vescovi, dove secondo le circostanze
credano necessarie tali associazioni e le vedano non pericolose
per la religione, acconsentire che gli operai cattolici vi
aderiscano, avendo sempre l'occhio ai principi e alle garanzie,
che il Nostro Predecessore Pio X, di s. m., raccomandava (Pio X,
enc. Singulari quadam, del 24 sett. 1912): delle quali garanzie la
prima e principale sia questa, che insieme con quei sindacati,
sempre vi siano altri sodalizi, i quali si adoperino con diligenza
a educare profondamente i loro soci nella parte religiosa e
morale, affinché questi possano di poi compenetrare le
associazioni sindacali di quel buono spirito, con cui si devono
reggere in tutta la loro condotta; e cosi avverrà che tali
sodalizi rechino ottimi frutti, anche oltre la cerchia dei loro
soci.
36. All'enciclica Leoniana dunque si deve attribuire se queste
associazioni di lavoratori fiorirono dappertutto in tal modo, che
ormai, sebbene purtroppo ancora inferiori di numero alle
corporazioni dei socialisti e dei comunisti, raccolgono una
grandissima moltitudine di operai e possono vigorosamente
rivendicare i diritti e le aspirazioni legittime dei lavoratori
cristiani, tanto nell'interno della propria nazione, quanto in
convegni più estesi, e con ciò promuovere i salutari principi
cristiani intorno alla società. b) associazioni fra altre classi
37. Oltre ciò, le verità tanto saggiamente discusse e
validamente propugnate da Leone XIII, circa il diritto naturale di
associazioni, si cominciarono ad applicare con facilità anche ad
altre associazioni e non solo a quelle degli operai; onde alla
stessa enciclica Leoniana si deve in non poca parte il tanto
rifiorire di simili utilissime associazioni; anche tra agricoltori
e altre classi felicemente si unisce al vantaggio economico la
cultura delle anime. c) associazioni padronali
38. Non si può dire lo stesso delle Associazioni vivamente
desiderate dal Nostro Antecessore, tra gli imprenditori di lavoro
e gli industriali. Che se di queste dobbiamo lamentare la
scarsezza, ciò non si deve attribuire unicamente alla volontà
delle persone, ma alle difficoltà molto più gravi che si oppongono
a consimili associazioni e che Noi conosciamo benissimo e teniamo
nel giusto conto. Ci arride tuttavia la ferma speranza che anche
questi impedimenti si possano tra breve rimuovere, e fin d'ora con
intima consolazione del cuore Nostro salutiamo alcuni non inutili
tentativi fatti in questa parte, i cui frutti copiosi ripromettono
una più ricca messe in avvenire (cfr. Lettera della Sacra
Congregazione del Concilio al Vescovo di Lilla, 5 giugno 1929).
4 - Conclusione: la « Rerum Novarum » Magna Charta dell'ordine
sociale
39. Tutti questi benefici dell'enciclica Leoniana, venerabili
Fratelli e diletti Figli, da noi accennati piuttosto che
ricordati, sorvolando piuttosto che illustrando, sono tanti e così
grandi che dimostrano chiaramente come quell'immortale documento
sia ben lungi dal rappresentarci un ideale di società umano
bellissimo sì, ma fantastico e troppo lontano dalle vere esigenze
economiche dei nostri tempi e per ciò stesso inattuabile. Per
contrario, essi dimostrano che il Nostro Antecessore attinse dal
Vangelo, e perciò da una sorgente sempre viva e vitale, quelle
dottrine che possono, se non subito comporre, mitigare almeno in
gran parte quella lotta esiziale e intestina che dilania la
famiglia umana. Che poi una parte di quel buon seme, tanto
copiosamente sparso or sono quaranta anni, sia caduta in terra
buona, vediamo dalle messi lietissime che la Chiesa di Cristo, e
quindi l'intero gregge umano, con la grazia di Dio, ne ha raccolto
a sua salvezza. E ben a ragione si può dire che l'enciclica
Leoniana nella lunga esperienza si è dimostrata come la Magna
Charta, sulla quale deve posare tutta l'attività cristiana del
campo sociale come sul proprio fondamento. Coloro poi che mostrano
di fare poco conto di quell'enciclica e della sua commemorazione,
bisogna ben dire che, o bestemmiano quel che non sanno, o non
capiscono quello di cui hanno solo una superficiale cognizione, o
se la capiscono meritano d'essere solennemente tacciati
d'ingiustizia e di ingratitudine.
40. Se non che, nello stesso decorso di anni, essendo sorti
alcuni dubbi circa la retta interpretazione di parecchi punti
dell'enciclica Leoniana o circa le conseguenze da trarsene, dubbi
che hanno dato origine a controversie non sempre serene fra gli
stessi cattolici; e d'altra parte le nuove necessità dei nostri
tempi e la mutata condizione delle cose richiedendo una più
accurata applicazione della dottrina Leoniana o anche qualche
aggiunta, cogliamo ben volentieri questa opportuna occasione per
soddisfare, quanto è da Noi, ai dubbi e alle esigenze dei tempi
moderni, secondo l'apostolico Nostro mandato per cui siamo a tutti
debitori (cfr. Rom 1, 14).
II - LA DOTTRINA DELLA CHIESA IN MATERIA SOCIALE ED ECONOMICA
41. Ma prima di iniziare a dare queste spiegazioni, occorre
premettere il principio, già da Leone XIII con rara chiarezza
stabilito, che cioè risiede in Noi il diritto e il dovere di
giudicare con suprema autorità intorno a siffatte questioni
sociali ed economiche (enc. Rerum novarum, n. 13). Certo alla
Chiesa non fu affidato l'ufficio di guidare gli uomini a una
felicità solamente temporale e caduca, ma all'eterna. Anzi non
vuole nè deve la Chiesa senza giusta causa ingerirsi nella
direzione delle cose puramente umane (enc. Ubi arcano del 23
dicembre 1922). In nessun modo però può rinunziare all'ufficio da
Dio assegnatole, d'intervenire con la sua autorità, non nelle cose
tecniche, per le quali non ha né i mezzi adatti né la missione di
trattare, ma in tutto ciò che ha attinenza con la morale. Infatti
in questa materia, il deposito della verità a Noi commesso da Dio
e il dovere gravissimo impostoCi di divulgare e di interpretare
tutta la legge morale ed anche di esigerne opportunamente ed
importunamente l'osservanza, sottopongono ed assoggettano al
supremo Nostro giudizio tanto l'ordine sociale, quanto
l'economico.
42. Sebbene l'economia e la disciplina morale, ciascuna nel suo
ambito, si appoggino sui principi propri, sarebbe errore affermare
che l'ordine economico e l'ordine morale siano così disparati ed
estranei l'uno all'altro, che il primo in nessun modo dipenda dal
secondo. Certo, le leggi, che si dicono economiche, tratte dalla
natura stessa delle cose e dall'indole dell'anima e del corpo
umano, stabiliscono quali limiti nel campo economico il potere
dell'uomo non possa e quali possa raggiungere, e con quali mezzi;
e la stessa ragione, dalla natura delle cose e da quella
individuale e sociale dell'uomo, chiaramente deduce quale sia il
fine da Dio Creatore proposto a tutto l'ordine economico.
43. Soltanto la legge morale è quella la quale, come ci intima
di cercare nel complesso delle nostre azioni il fine supremo ed
ultimo, così nei particolari generi di operosità ci dice di
cercare quei fini speciali, che a quest'ordine di operazioni sono
stati prefissi dalla natura, o meglio, da Dio, autore della
natura, e di subordinare armonicamente questi fini particolari al
fine supremo. E ove a tal legge da noi fedelmente si obbedisca,
avverrà che tutti i fini particolari, tanto individuali quanto
sociali, in materia economica perseguiti, si inseriranno
convenientemente nell'ordine universale dei fini, e salendo per
quelli come per altrettanti gradini, raggiungeremo il fine ultimo
di tutte le cose, che è Dio, bene supremo e inesauribile per se
stesso e per noi. 1 - Il dominio o diritto di proprietà
44. Ed ora, per venire ai singoli punti, cominciamo dal dominio
o diritto di proprietà. Voi conoscete, venerabili Fratelli e
diletti Figli, come il Nostro Predecessore di f. m., abbia difeso
gagliardamente il diritto di proprietà contro gli errori dei
socialisti del suo tempo, dimostrando che l'abolizione della
proprietà privata tornerebbe, non a vantaggio, ma a estrema rovina
della classe operaia. E poiché vi ha di quelli che, con la più
ingiuriosa delle calunnie, accusano il Sommo Pontefice e la Chiesa
stessa, quasi abbia preso o prenda ancora le parti dei ricchi
contro i proletari, e poiché tra i cattolici stessi si riscontrano
dissensi intorno alla vera e schietta sentenza Leoniana, Ci sembra
bene ribattere ogni calunnia contro quella dottrina, che è la
cattolica, su questo argomento, e difenderla da false
interpretazioni. a) sua indole individuale e sociale
45. In primo luogo, si ha da ritenere per certo, che né Leone
XIII né i teologi che insegnarono sotto la guida e il vigile
magistero della Chiesa, negarono mai o misero in dubbio la doppia
specie di proprietà, detta individuale e sociale, secondo che
riguarda gli individui o spetta al bene comune; ma hanno sempre
unanimemente affermato che il diritto del dominio privato viene
largito agli uomini dalla natura, cioè dal Creatore stesso, sia
perché gli individui possano provvedere a sé e alla famiglia, sia
perché, grazie a tale istituto, i beni del Creatore, essendo
destinati a tutta l'umana famiglia, servano veramente a questo
fino; il che in nessun modo si potrebbe ottenere senza
l'osservanza di un ordine certo e determinato.
46. Pertanto occorre guardarsi diligentemente dall'urtare contro
un doppio scoglio. Giacché, come negando o affievolendo il
carattere sociale e pubblico del diritto di proprietà si cade e si
rasenta il cosiddetto « individualismo », così respingendo e
attenuando il carattere privato e individuale del medesimo
diritto, necessariamente si precipita nel « collettivismo » o
almeno si sconfina verso le sue teorie. E chi non tenga presente
queste considerazioni, va logicamente a cadere negli scogli del
modernismo murale, giuridico e sociale, da Noi denunciati nella
Nostra prima enciclica (enc. Ubi arcano del 23 dicembre 1922). E
di ciò si persuadano coloro specialmente che, amanti delle novità,
non si peritano d'incolpare la Chiesa con vituperose calunnie,
quasi abbia permesso che nella dottrina dei teologi s'infiltrasse
il concetto pagano della proprietà, al quale bisognerebbe
assolutamente sostituire un altro, che con strana ignoranza essi
chiamano cristiano. b) doveri inerenti alla proprietà
47. Per contenere poi nei giusti limiti le controversie, sorti
ultimamente intorno alla proprietà e ai doveri a essa inerenti,
rimanga fermo anzitutto il fondamento stabilito da Leone XIII: che
il diritto cioè di proprietà si distingue dall'uso di esso (enc.
Rerum novarum, n. 19). La giustizia, infatti, che si dice
commutativa, vuole che sia scrupolosamente mantenuta la divisione
dei beni, e che non si invada il diritto altrui col trapassare i
limiti del dominio proprio; che poi i padroni non usino se non
onestamente della proprietà, ciò non è ufficio di questa speciale
giustizia, ma di altre virtù, dei cui doveri non si può esigere
l'adempimento per vie giuridiche (cfr. enc. Rerum novarum, n. 19).
Onde a torto certuni pretendono che la proprietà e l'onesto uso di
essa siano ristretti dentro gli stessi confini; e molto più è
contrario a verità il dire che il diritto di proprietà venga meno
o si perda per l'abuso o il non uso che se ne faccia.
48. Per il che compiono opera salutare e degna di ogni encomio
tutti quelli che, salva la concordia degli animi e l'integrità
della dottrina, quale fu sempre predicata dalla Chiesa, si
studiano di definire l'intima natura e i limiti di questi doveri,
coi quali o il diritto stesso di proprietà ovvero l'uso o
l'esercizio del dominio vengono circoscritti dalle necessità della
convivenza sociale. S'ingannano invece ed errano coloro che si
studiano di sminuire talmente il carattere individuale della
proprietà, da giungere di fatto a distruggerla. c) poteri dello
Stato sulla proprietà
49. E veramente dal carattere stesso della proprietà, che abbiamo
detta individuale insieme e sociale, si deduce che in questa
materia gli uomini debbono aver riguardo non solo al proprio
vantaggio, ma altresì al bene comune. La determinazione poi di
questi doveri in particolare e secondo le circostanze, e quando
non sono già indicati dalla legge di natura, è ufficio dei
pubblici poteri. Onde la pubblica autorità può con maggior cura
specificare, considerata la vera necessità del bene comune e
tenendo sempre innanzi agli occhi la legge naturale e divina, che
cosa sia lecito ai possidenti e che cosa no, nell'uso dei propri
beni. Anzi Leone XIII aveva sapientemente sentenziato: avere Dio
lasciato all'industria degli uomini e alle istituzioni dei popoli
la delimitazione delle proprietà private (enc. Rerum novarum, n.
7). E invero, come dalla storia si provi che, al pari degli altri
elementi della vita sociale, la proprietà non sia affatto
immobile. Noi stessi già lo dichiarammo con le seguenti parole:
Quante diverse forme concrete ha avuto la proprietà dalla
primitiva forma dei popoli selvaggi, della quale ancora ai dì
nostri si può avere una certa esperienza, a quella proprietà nei
tempi e nelle forme patriarcali, e poi via via nelle diverse forme
tiranniche (diciamo nel significato classico della parola), poi
attraverso le forme feudali, poi in quelle monarchiche e in tutte
le forme susseguenti dell'età moderna (Alloc. al Comitato
dell'A.C. per l'Italia, 16 maggio 1926). La pubblica autorità
però, come è evidente, non può usare arbitrariamente di tale suo
diritto; poichè bisogna che rimanga sempre intatto e inviolato il
diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria
dei propri beni, diritto che lo Stato non può sopprimere, perché
l'uomo é anteriore allo Stato (enc. Rerum novarum, n. 6), ed anche
perché il domestico consorzio è logicamente e storicamente
anteriore al civile (enc. Rerum novarum, n. 10). Perciò il
sapientissimo Pontefice aveva già dichiarato non essere lecito
allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti la
proprietà privata da renderla quasi stremata. Poiché non derivando
il diritto di proprietà privata da legge umana, ma da legge
naturale, lo Stato non può annientarlo, ma semplicemente
temperarne l'uso e armonizzarlo col bene comune (enc. Rerum
novarum, n. 35). Quando poi la pubblica autorità mette così
d'accordo i primati domini con le necessità del bene comune, non
fa opera ostile ma piuttosto amichevole verso i padroni privati,
come quella che in tal modo validamente impedisce che il privato
possesso dei beni, voluto dal sapientissimo Autore della natura a
sussidio della vita umana, generi danni intollerabili e così vada
in rovina; né abolisce i privati possessi, ma li assicura; né
indebolisce la proprietà privata, ma la rinvigorisce. d) i redditi
liberi
50. Non sono neppure abbandonate per intero al capriccio
dell'uomo le libere entrate di lui, quelle cioè di cui egli non
abbisogna per un tenore di vita conveniente e decorosa; ché anzi
la sacra Scrittura e i santi Padri chiarissimamente e
continuamente denunciano ai ricchi il gravissimo precetto da cui
sono tenuti, di esercitare l'elemosina, la beneficenza, la
liberalità. 51. L'impiegare però più copiosi proventi in opere che
diano più larga opportunità di lavoro, purché tale lavoro sia per
procurare beni veramente utili, dai principi dell'Angelico Dottore
(cfr. S. Thom., Summ. Theol., II-II, q. 134) si può dedurre che
non solo ciò è immune da ogni vizio o morale imperfezione, ma deve
ritenersi per opera cospicua della virtù della magnificenza, in
tutto corrispondente alle necessità dei tempi. e) titoli della
proprietà 52. Che la proprietà poi originariamente si acquisti e
con l'occupazione di una cosa senza padrone (res nullius) e con
l'industria e il lavoro, ossia con la « specificazione », come si
suol dire, è chiaramente attestato sia dalla tradizione di tutti i
tempi, sia dall'insegnamento del Pontefice Leone XIII, Nostro
Predecessore. Non si reca infatti torto a nessuno, checché alcuni
dicano in contrario, quando si prende possesso di una cosa che è
in balia del pubblico, ossia non è di nessuno; l'industria poi che
da un uomo si eserciti in proprio nome e con la quale si aggiunga
una nuova forma o un aumento di valore, basta da sola perché
questi frutti si aggiudichino a chi vi ha lavorato attorno.
2 - Capitale e lavoro
53. Assai diversa è la natura del lavoro, che si presta ad altri
e si esercita sopra il capitale altrui. A questo lavoro
soprattutto si addice quel che Leone XIII disse essere cosa
verissima: cioè che non d'altronde è prodotta la pubblica
ricchezza, se non dal lavoro degli operai (enc. Rerum novarum, n.
37). Non vediamo noi infatti con gli occhi nostri, come l'ingente
somma dei beni, di cui è fatta la ricchezza degli uomini, esce
prodotta dalle mani degli operai, le quali o lavorano da sole, o
mirabilmente moltiplicano la loro efficienza valendosi di
strumenti, ossia di macchine? Non v'è anzi chi ignori come nessun
popolo mai dalla penuria e dall'indigenza sia arrivato a una
migliore o più alta fortuna, se non mediante un grande lavoro
compiuto insieme da tutti quelli del paese, tanto da coloro che
dirigono, quanto da coloro che eseguiscono. Ma non meno chiaro
apparisce che quei sommi sforzi sarebbero riusciti del tutto
inutili, anzi non sarebbe stato neppure possibile il tentarli, se
Dio Creatore di tutti non avesse prima largito, per sua bontà, le
ricchezze e il capitale naturale, i sussidi e le forze della
natura. Che cosa è infatti lavorare se non adoperare ed esercitare
le forze dell'animo e del corpo, circa queste cose e con queste
cose medesime? Richiede poi la legge di natura e la volontà di
Dio, dopo la promulgazione di questa legge, che si osservi il
retto ordine nell'applicare agli usi umani il capitale naturale; e
tale ordine consiste in ciò, che ogni cosa abbia il suo padrone.
54. Di qui avviene che, tolto il caso che altri lavorino intorno
al proprio capitale, tanto l'opera altrui quanto l'altrui capitale
debbono associarsi in un comune consorzio, perché l'uno senza
l'altro non valgono a produrre nulla. Il che fu bene osservato da
Leone XIII, quando scrisse: Non può sussistere capitale senza
lavoro, né lavoro senza capitale (enc. Rerum novarum, n. 16). Per
cui è del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo
lavoro ciò che si ottiene con l'opera unita dell'uno e dell'altro;
ed è affatto ingiusto che l'uno arroghi a sé quel che si fa,
negando l'efficacia dell'altro. a) ingiuste rivendicazioni del
capitale
55. Per lungo tempo certamente il capitale troppo aggiudicò a sé
stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne ricavavano,
ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena
all'operaio tanto che bastasse a ristorare le forze e a
riprodurre. Giacché andavano dicendo che per una legge economica
affatto ineluttabile, tutta la somma del capitale apparteneva ai
ricchi, e per la stessa legge gli operai dovevano rimanere in
perpetuo nella condizione di proletari, costretti cioè a un tenore
di vita precario e meschino. E' bensì vero che con questi princìpi
dei liberali, che volgarmente si denominano di Manchester,
l'azione pratica non si accordava né sempre né dappertutto; pure
non si può negare che gli istituti economico-sociali avevano
mostrato di piegare verso quei princìpi con vero e costante
sforzo. Ora, che queste false opinioni, questi fallaci supposti
siano stati fortemente combattuti, e non da coloro solo che per
essi venivano privati del naturale diritto di procurarsi una
migliore condizione di vita, nessuno vi sarà che se ne meravigli.
b) ingiuste rivendicazioni del lavoro
56. Perciò agli operai angariati, si accostarono i cosiddetti
intellettuali, contrapponendo a una legge immaginaria un principio
morale parimenti immaginario: che cioè quanto si produce e si
percepisce di reddito, trattone quel tante che basti a risarcire e
riprodurre il capitale, si deve di diritto all'operaio. Questo
errore, quanto è più lusinghevole di quello di vari socialisti, i
quali affermano che tutto ciò che serve alla produzione si ha da
trasfondere allo Stato, o come dicono da « socializzare », tanto è
più pericoloso e più atto a ingannare gli incauti: blando veleno,
che fu avidamente sorbito da molti, che un aperto socialismo non
aveva mai potuto trarre in inganno. c) principio direttivo di
giusta ripartizione
57. Certo, ad impedire che con queste false teorie non si
chiudesse l'adito alla giustizia e alla pace tanto per il capitale
quanto per il lavoro, avrebbero dovuto giovare le sapienti parole
del Nostro Predecessore, che cioè la terra, sebbene divisa tra i
privati, resta nondimeno a servizio e utilità di tutti, (enc.
Rerum novarum, n. 7). E ciò stesso Noi pure abbiamo insegnato
poc'anzi nel riaffermare che la spartizione dei beni in private
proprietà è stabilita dalla natura stessa, affinché le cose create
possano dare agli uomini tale comune utilità stabilmente e con
ordine. Il che conviene tenere di continuo presente, se non si
vuole uscire dal retto sentiero della verità.
58. Ora, non ogni distribuzione di beni e di ricchezze tra gli
uomini è tale da ottenere il fine inteso da Dio o pienamente o con
quella perfezione che si deve. Onde è necessario che le ricchezze
le quali si amplificano di continuo grazie ai progressi economici
e sociali, vengano attribuite ai singoli individui e alle classi
in modo che resti salva quella comune utilità di tutti, lodata da
Leone XIII, ovvero, per dirla con altre parole, perché si serbi
integro il bene comune dell'intera società. Per questa legge di
giustizia sociale non può una classe escludere l'altra dalla
partecipazione degli utili. Che se perciò è violata questa legge
dalla classe dei ricchi, quando spensierati nell'abbondanza dei
loro beni stimano naturale quell'ordine di cose, che riesce tutto
a loro favore e niente a favore dell'operaio; è non meno violata
dalla classe proletaria, quando, aizzata per la violazione della
giustizia e tutta intesa a rivendicare il suo solo diritto, di cui
è conscia, esige tutto per sé, siccome prodotto dalle sue mani, e
quindi combatte e vuole abolita la proprietà e i redditi o
proventi non procacciati con il lavoro, di qualunque genere siano
o di qualsiasi ufficio facciano le veci nell'umana convivenza, e
ciò non per altra ragione se non perché son tali.
59. E a questo proposito occorre osservare che fuori di argomento
e bene a torto applicano alcuni le parole dell'Apostolo: chi non
vuole lavorare non mangi (2 Tess 3, 10), perché la sentenza
dell'Apostolo è proferita contro quelli che si astengono dal
lavoro, quando potrebbero e dovrebbero lavorare, e ammonisce a
usare alacremente del tempo e delle forze del corpo e dell'anima,
né aggravare gli altri, quando da noi stessi ci possiamo
provvedere; ma non insegna punto che il lavoro sia l'unico titolo
per ricevere vitto e proventi (cfr. 2 Tess 3,8-10).
60. A ciascuno dunque si deve attribuire la sua parte di beni e
bisogna procurare che la distribuzione dei beni creati, la quale
ognuno vede quanto ora sia causa di disagio, per il grande
squilibrio fra i pochi straricchi e gli innumerevoli indigenti,
venga ricondotta alla conformità con le norme del bene comune e
della giustizia sociale.
3 - La elevazione dei proletari
61. Tale è l'intento che il Nostro Predecessore proclamò doversi
raggiungere: la elevazione del proletario. E ciò si deve asserire
tanto più forte e ripetere tanto più instantemente, in quanto non
di rado le prescrizioni così salutari del Pontefice furono messe
in dimenticanza, o perché di proposito passate sotto silenzio, o
perché l'eseguirle si reputò non possibile, mentre pure e si
possono e si debbono eseguire. Né sono esse diventate ai nostri
giorni meno sagge ed efficaci perché meno imperversa oggi
quell'orrendo « pauperismo » da Leone XIII considerato. Certo, la
condizione degli operai s'è fatta migliore e più equa. massime
negli Stati più colti e nelle Nazioni più grandi, dove non si può
dire che tutti gli operai siano afflitti dalla miseria o
travagliati dal bisogno. Ma dopo che le arti meccaniche e le
industrie dell'uomo sono penetrate e si sono diffuse con tanta
rapidità in regioni senza numero, tanto nelle terre che si dicono
nuove, quanto nei regni del lontano Oriente, già famosi per
antichissima civiltà, è cresciuta smisuratamente la moltitudine
dei proletari bisognosi, e i loro gemiti gridano a Dio dalla
terra. S'aggiunga il grandissimo esercito di braccianti della
campagna, ridotti ad una infima condizione di vita e privi di
speranza d'ottenere mai alcuna porzione di suolo (enc. Rerum
novarum, n. 35) e quindi sottoposti in perpetuo alla condizione
proletaria, se non si adoperino rimedi convenevoli ed efficaci.
62. Ma benché sia verissimo che la condizione proletaria debba
ben distinguersi dal pauperismo, pure la stessa foltissima
moltitudine dei proletari è un argomento ineluttabile, che le
ricchezze tanto copiosamente cresciute in questo nostro secolo
detto dell'industrialismo, non sono rettamente distribuite e
applicate alle diverse classi di uomini.
63, È necessario dunque con tutte le forze procurare che in
avvenire i capitali guadagnati non si accumulino se non con equa
proporzione presso i ricchi, e si distribuiscano con una certa
ampiezza fra i prestatori di opera, non perché questi rallentino
nel lavoro, essendo l'uomo nato al lavoro come l'uccello al volo,
ma perché con la economia aiutino il loro avere, e amministrando
con saggezza l'aumentata proprietà possano più facilmente e
tranquillamente sostenere i pesi della famiglia, e usciti da
quell'incerta sorte di vita, in cui si dibatte il proletariato,
non solo siano in grado di sopportare le vicende della vita, ma
possano ripromettersi che alla loro morte saranno convenientemente
provveduti quelli che lasciano dopo di sé.
64. Tutti questi suggerimenti furono dal Nostro Predecessore non
soltanto insinuati, ma apertamente proclamati e Noi con questa
Nostra Enciclica torniamo a vivamente inculcarli. Che se ora non
si prende finalmente a metterli in esecuzione senza indugio e con
ogni vigore, niuno potrebbe ripromettersi passibile un'efficace
difesa dell'ordine pubblico e della tranquillità sociale contro i
seminatori di novità sovversive. 4 - Il giusto salario
65. Ma tale attuazione non sarà possibile se i proletari non
giungeranno, con la diligenza e con il risparmio, a farsi un
qualche modesto patrimonio, come abbiamo detto riferendoci alla
dottrina del Nostro Predecessore Leone XIII. Orbene, chi per
guadagnarsi il vitto e il necessario alla vita altro non ha che il
lavoro, come potrà, pur vivendo parcamente, mettersi da parte
qualche fortuna se non con la paga, che trae dal lavoro?
Affrontiamo dunque la questione del salario, da Leone XIII
definita assai importante (enc. Rerum novarum, n. 34), svolgendone
e dichiarandone, ove occorra, la dottrina e i precetti. A) il
contratto di lavoro non è di sua natura ingiusto
66. E da prima l'affermazione che il contratto di offerta di
prestazione d'opera sia di sua natura ingiusto, e quindi si debba
sostituire con contratto di società, è affermazione gratuita e
calunniosa contro il Nostro Predecessore, la cui enciclica Rerum
novarum non solo lo ammette, ma ne tratta a lungo sul modo di
disciplinarlo secondo le norme della giustizia.
67. Tuttavia, nelle odierne condizioni sociali, stimiamo sia cosa
più prudente che, quando è possibile, il contratto del lavoro
venga temperato alquanto col contratto di società, come già si è
incominciato a fare in diverse maniere, con non poco vantaggio
degli operai stessi e dei padroni. Così gli operai diventano
cointeressati o nella proprietà o nell'amministrazione, e
compartecipi in certa misura dei lucri percepiti.
68. Né la giusta proporzione del salario deve calcolarsi da un
solo titolo, ma da più, come già sapientemente aveva dichiarato
Leone XIII scrivendo: Il determinare la mercede secondo la
giustizia dipende da molte considerazioni (enc. Rerum novarum, n.
17). Con le quali parole fin da allora confutò la leggerezza di
coloro i quali credono facilmente, ricorrendo a un'unica misura, e
questa, ben lontana dalla realtà.
69. Sono certamente in errore coloro i quali non dubitano di
proclamare come principio, che tanto vale il lavoro ed altrettanto
deve essere rimunerato, quanto valgono i frutti da esso prodotti,
e perciò il prestatore del lavoro ha il diritto di esigere quanto
si è ottenuto col suo lavoro: principio la cui assurdità apparisce
anche da quanto abbiamo esposto, trattando della proprietà. B)
carattere individuale e sociale del lavoro
70. Ora è facile intendere che oltre al carattere personale e
individuale deve considerarsi il carattere sociale, come della
proprietà, così anche del lavoro, massime di quello che per
contratto si cede ad altri; giacché se non sussiste un corpo
veramente sociale o organico, se un ordine sociale e giuridico non
tutela l'esercizio del lavoro, se le varie parti, le une
dipendenti dalle altre, non si collegano fra di loro e mutuamente
non si compiono, se, quel che è più, non si associano, quasi a
formare una cosa sola, l'intelligenza, il capitale, il lavoro,
l'umana attività non può produrre i suoi frutti; e quindi non si
potrà valutare giustamente né retribuire adeguatamente, dove non
si tenga conto della sua natura sociale e individuale. C) tre
punti da tener presenti
71. Da questo doppio carattere, insito nella natura stessa del
lavoro umano, sgorgano gravissime conseguenze, a norma delle quali
il salario vuole essere regolato e determinato. a) il
sostentamento dell'operaio e della sua famiglia
72. In primo luogo, all'operaio si deve dare una mercede che
basti al sostentamento di lui e della sua famiglia (cfr. enc.
Casti connubii del 31 dicembre 1930). È bensì giusto che anche il
resto della famiglia, ciascuno secondo le sue forze, contribuisca
al comune Sostentamento, come già si vede in pratica specialmente
nelle famiglie dei contadini, e anche in molte di quelle degli
artigiani e dei piccoli commercianti; ma non bisogna che si abusi
dell'età dei fanciulli né della debolezza della donna. Le madri di
famiglia prestino l'opera loro in casa sopra tutto o nelle
vicinanze della casa, attendendo alle faccende domestiche. Che poi
le madri di famiglia, per la scarsezza del salario del padre,
siano costrette ad esercitare un'arte lucrativa fuori delle pareti
domestiche, trascurando così le incombenze e i doveri loro propri,
e particolarmente la cura e l'educazione dei loro bambini, è un
pessimo disordine, che si deve con ogni sforzo eliminare. Bisogna
dunque fare di tutto perché i padri di famiglia percepiscano una
mercede tale che basti per provvedere convenientemente alle comuni
necessità domestiche. Che se nelle presenti circostanze della
società ciò non sempre si potrà fare, la giustizia sociale
richiede che s'introducano quanto prima quelle mutazioni che
assicurino ad ogni operaio adulto siffatti salari. Sono altresì
meritevoli di lode tutti quelli che con saggio e utile divisamento
hanno sperimentato e tentano diverse vie, onde la mercede del
lavoro si retribuisca con tale corrispondenza ai pesi della
famiglia, che, aumentando questi, anche quella si somministri più
larga; e anzi, se occorra, si soddisfaccia alle necessità
straordinarie. b) la condizione dell'azienda
73. Nello stabilire la quantità della mercede si deve tener
conto anche dello stato dell'azienda e dell'imprenditore di essa;
perché è ingiusto chiedere esagerati salari, quando l'azienda non
li può sopportare senza la rovina propria e la conseguente
calamità degli operai. È però vero che se il minor guadagno che
essa fa è dovuto a indolenza, a inesattezza e a noncuranza del
progresso tecnico ed economico, questa non sarebbe da stimarsi
giusta causa per diminuire la mercede agli operai. Che se
l'azienda medesima non ha tante entrate che bastino per dare un
equo salario agli operai, o perché è oppressa da ingiusti gravami,
o perché è costretta a vendere i suoi prodotti ad un prezzo minore
del giusto, coloro che così la opprimono si fanno rei di grave
colpa; perché costoro privano della giusta mercede gli operai; i
quali, spinti dalla necessità, sono costretti a contentarsi di un
salario inferiore al giusto.
74. Tutti adunque, e operai e padroni, in unione di forza e di
mente, si adoperino a vincere tutti gli ostacoli e le difficoltà,
e siano aiutati in quest'opera tanto salutare dalla sapiente
provvidenza dei pubblici poteri. Che se poi il caso fosse arrivato
all'estremo, allora dovrà deliberarsi se l'azienda possa
proseguire nella sua impresa, o se sia da provvedere in altro modo
agli operai. Nel qual punto, che è certo gravissimo, bisogna che
si stringa ed operi efficacemente una certa colleganza e concordia
cristiana tra padroni e operai. c) La necessità del bene comune
75. Finalmente la quantità del salario deve contemperarsi col
pubblico bene economico. Già abbiamo detto quanto giovi a questa
prosperità o bene comune, che gli operai mettano da parte la
porzione di salario, che loro sopravanza alle spese necessarie,
per giungere a poco a poco a un modesto patrimonio; ma non è da
trascurare un altro punto di importanza forse non minore e ai
nostri tempi affatto necessario, che cioè a coloro i quali e
possono e vogliono lavorare, si dia opportunità di lavorare. E
questo non poco dipende dalla determinazione del salario; la
quale, come può giovare là dove è mantenuta tra giusti limiti,
così alla sua volta può nuocere se li eccede. Chi non sa infatti
che la troppa tenuità e la soverchia altezza dei salari è stata la
cagione per la quale gli operai non potessero aver lavorato? Il
quale inconveniente, riscontratosi specialmente nei tempi del
Nostro Pontificato in danno di molti, gettò gli operai nella
miseria e nelle tentazioni, mandò in rovina la prosperità delle
città e mise in pericolo la pace e la tranquillità di tutto il
mondo. È contrario dunque alla giustizia sociale che, per badare
al proprio vantaggio senza aver riguardo al bene comune, il
salario degli operai venga troppo abbassato o troppo innalzato; e
la medesima giustizia richiede che, nel consenso delle menti e
delle volontà, per quanto è possibile, il salario venga temperato
in maniera che a quanti più è possibile, sia dato di prestare
l'opera loro e percepire i frutti convenienti per il sostentamento
della vita.
76. A ciò parimenti giova la giusta proporzione tra i salari; con
la quale va strettamente congiunta la giusta proporzione dei
prezzi, a cui si vendono i prodotti delle diverse arti, quali sono
stimate l'agricoltura, l'industria e simili. Con la conveniente
osservanza di queste cautele, le diverse arti si comporranno e si
uniranno come in un sol corpo, e come tra membra si presteranno
vicendevolmente aiuto e perfezione. Giacché allora l'economia
sociale veramente sussisterà e otterrà i suoi fini, quando a tutti
e singoli i soci saranno somministrati tutti i beni che si possono
apprestare con le forze e i sussidi della natura, con l'arte
tecnica, con la costituzione sociale del fatto economico; i quali
beni debbono essere tanti quanti sono necessari sia a soddisfare
ai bisogni e alle oneste comodità, sia promuovere tra gli uomini
quella più felice condizione di vita, che, quando la cosa si
faccia prudentemente, non solo non è d'ostacolo alla virtù, ma
grandemente la favorisce (cfr. S. Th., De regimine principum, 1,
15; enc. Rerum novarum, n. 27). 5 - Restaurazione dell'ordine
sociale
77. Le indicazioni finora date intorno all'equa divisione dei
beni e alla giustizia dei salari riguardano gli individui e solo
per indiretto toccano l'ordine sociale, alla cui restaurazione
soprattutto secondo i principi della sana filosofia e i precetti
altissimi della legge evangelica che lo perfezionano, applicò ogni
sua cura e attenzione il Nostro Antecessore Leone XIII.
78. Fu allora aperta la via; ma perché siano perfezionate molte
cose che ancora restano da fare e ne ridondino più copiosi ancora
e più lieti vantaggi all'umana famiglia, sono soprattutto
necessarie due cose: la riforma delle istituzioni e la emendazione
dei costumi. a) riforma delle istituzioni
79. E quando parliamo di riforma delle istituzioni, pensiamo
primieramente allo Stato, non perché dall'opera sua si debba
aspettare tutta la salvezza, ma perché, per il vizio
dell'individualismo, come abbiamo detto, le cose si trovano
ridotte a tal punto, che abbattuta e quasi estinta l'antica ricca
forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di
associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e
lo Stato. E siffatta deformazione dell'ordine sociale reca non
piccolo danno allo Stato medesimo, sul quale vengono a ricadere
tutti i pesi, che quelle distrutte corporazioni non possono più
portare, onde si trova oppresso da una infinità di carichi e di
affari.
80. È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la
mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più
compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si
eseguivano anche delle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il
principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è
illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con
le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è
ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che
dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme
un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della
società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della
società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra
del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle.
81. Perciò è necessario che l'autorità suprema dello stato,
rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli
affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto
sarebbe più che mai distratta ; e allora essa potrà eseguire con
più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo
spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di
vigilanza di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e
delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di
governo, che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine
gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio
della funzione suppletiva dell'attività sociale, tanto più forte
riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più
felice e più prospera la condizione dello Stato stesso.
82. Questa poi deve essere la prima mira, questo lo sforzo dello
Stato e dei migliori cittadini; mettere fine alle competizioni
delle due classi opposte, risvegliare e promuovere una cordiale
cooperazione delle varie professioni dei cittadini. b) concordia
delle classi
83. La politica sociale porrà dunque ogni studio a ricostruire le
professioni stesse; giacché la società umana si trova al presente
in uno stato violento, quindi instabile e vacillante, perché
appunto si fonda su classi di diverse tendenze, fra loro opposte e
propense, quindi, a lotte e inimicizie.
84. E per verità, quantunque il lavoro, come spiega egregiamente
il Nostre Predecessore nella sua enciclica (enc. Rerum novarum, n.
16), non sia una vile merce, anzi vi si debba riconoscere la
dignità umana dell'operaio e quindi non sia da mercanteggiare come
una merce qualsiasi, tuttavia, come stanno ora le cose, nel
mercato del lavoro l'offerta e la domanda divide gli uomini come
in due schiere; e la disunione che ne segue trasforma il mercato
come in un campo di lotta, ove le due parti si combattono
accanitamente. E a questo grave disordine, che porta al precipizio
l'intera società, ognuno vede quanto sia necessario portare
rimedio. Ma la guarigione perfetta si potrà ottenere allora
soltanto, quando, tolta di mezzo una tale lotta, le membra del
corpo sociale si trovino bene assestate, e costituiscano le varie
professioni, a cui ciascuno dei cittadini aderisca non secondo
l'ufficio che ha nel mercato del lavoro, ma secondo le diverse
parti sociali. che i singoli esercitano. Avviene infatti per
impulso di natura che, siccome quanti si trovano congiunti per
vicinanza di luogo si uniscono a formare municipi, così quelli che
si applicano ad un'arte medesima formino collegi o corpi sociali;
di modo che questo corporazioni, con diritto loro proprio, da
molti si sogliono dire, se non essenziali alla società civile,
almeno naturali.
85. Siccome poi l'ordine, come ragiona ottimamente san Tommaso
(cfr. S. Thom., Contra Gent., 3, 71; cfr. Summ. Theol., I, q. 65,
a. 2, i. c.), è l'unità che risulta dall'opportuna disposizione di
molte cose, il vero e genuino ordine sociale esige che i vari
membri della società siano collegati in ordine ad una sola cosa
per mezzo di qualche saldo vincolo. La qual forza di coesione si
trova infatti tanto nell'identità dei beni da prodursi o dei
servizi, da farsi, in cui converge il lavoro riunito dai datori e
prestatori di lavoro della stessa categoria, quanto in quel bene
comune, a cui tutte le varie classi, ciascuna per la parte sua,
devono unitamente e amichevolmente concorrere. E questa concordia
sarà tanto più forte e più efficace, quanto più fedelmente i
singoli uomini e i vari corpi professionali si studieranno di
esercitare la propria professione e di segnalarsi in essa.
86. Dal che facilmente si deduce che in tali corporazioni
primeggiano di gran lunga le cose che sono comuni a tutta la
categoria. Tra esse poi principalissima è il promuovere più che
mai intensamente la cooperazione della intiera corporazione
dell'arte al bene comune, cioè alla salvezza e prosperità pubblica
della nazione. Quanto agli affari invece, in cui si devono
specialmente procurare e tutelare i vantaggi e gli svantaggi
speciali dei padroni e degli artieri, se occorrerà deliberazione,
dovrà farsi dagli uni e dagli altri separatamente.
87. Appena occorre ricordare che, con la debita proporzione, si
può applicare alle corporazioni professionali quanto Leone XIII
insegnò circa la forma del regime politico, che cioè resta libera
la scelta di quella forma che meglio aggrada, purché si provveda
alla giustizia e alle esigenze del bene comune (enc. Immortale Dei
del 1° novembre 1885).
88. Orbene, a quel modo che gli abitanti di un municipio usano
associarsi per fini svariatissimi, e a tali associazioni ognuno è
libero di dare o non dare il suo nome, così quelli che attendono
all'arte medesima, si uniranno pure fra loro in associazioni
libere per quegli scopi che in qualche modo vanno connessi con
l'esercizio di quell'arte. Ma poiché su tali libere associazioni
già furono date ben chiare e distinte spiegazioni nell'enciclica
del Nostro Predecessore di illustre memoria, crediamo che basti
ora inculcare questo solo: che l'uomo ha libertà non solo di
formare queste associazioni che sono di ordine e di diritto
privato, ma anche di introdurvi quell'ordinamento e quelle leggi
che si giudichino le meglio conducenti al fine (enc. Rerum
novarum, n. 42). E la stessa libertà si ha da rivendicare per le
fondazioni di associazioni che sorpassino i limiti delle singole
arti. Le libere associazioni poi, che già fioriscono e portano
frutti salutari, si debbono aprire la via alla formazione di
quelle corporazioni più perfette, di cui abbiamo già fatto
menzione, e con ogni loro energia promuoverle secondo le norme
della sociologia cristiana. c) principio direttivo dell'economia
89. Un'altra cosa ancora si deve procurare, che è molto connessa
con la precedente. A quel modo cioè che l'unità della società
umana non può fondarsi nella opposizione di classe, cosi il retto
ordine dell'economia non può essere abbandonato alla libera
concorrenza delle forze. Da questo capo anzi, come da fonte
avvelenata, sono derivati tutti gli errori della scienza economica
individualistica, la quale dimenticando o ignorando che l'economia
ha un suo carattere sociale, non meno che morale, ritenne che
l'autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente
libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza
doveva trovare il suo principio direttivo o timone proprio,
secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per
qualsiasi intelligenza creata. Se non che la libera concorrenza,
quantunque sia cosa equa certamente e utile se contenuta nei
limiti bene determinati; non può essere in alcun modo il timone
dell'economia; il che è dimostrato anche troppo dall'esperienza,
quando furono applicate nella pratica le norme dello spirito
individualistico. È dunque al tutto necessario che l'economia
torni a regolarsi secondo un vero ed efficace suo principio
direttivo. Ma tale ufficio molto meno può essere preso da quella
supremazia economica, che in questi ultimi tempi è andata
sostituendosi alla libera concorrenza; poiché, essendo essa una
forza cieca e una energia violenta, per diventare utile agli
uomini ha bisogno di essere sapientemente frenata e guidata. Si
devono quindi ricercare più alti e più nobili principi da cui
questa egemonia possa essere vigorosamente e totalmente governata:
e tali sono la giustizia e la carità sociali. Perciò è necessario
che alla giustizia sociale si ispirino le istituzioni dei popoli,
anzi di tutta la vita della società; e più ancora è necessario che
questa giustizia sia davvero efficace, ossia costituisca un ordine
giuridico e sociale a cui l'economia tutta si conformi. La carità
sociale poi deve essere come l'anima di questo ordine, alla cui
tutela e rivendicazione efficace deve attendere l'autorità
pubblica; e lo potrà fare tanto più facilmente se si sbrigherà da
quei pesi che non le sono propri, come abbiamo sopra dichiarato.
90. Che, anzi, conviene che le varie nazioni, unendo propositi e
forze insieme, giacché nel campo economico stanno in mutua
dipendenza e debbono aiutarsi a vicenda, si sforzino di promuovere
con sagge convenzioni e istituzioni una felice cooperazione di
economia internazionale.
91. Pertanto, se le membra del corpo sociale saranno così
rinfrancate, e ne verrà raddrizzato il principio direttivo quale
timone della economia sociale, si potrà dire in qualche modo
dell'ordine sociale ciò che dice l'Apostolo del corpo mistico di
Gesù Cristo: che tutto il corpo compaginato e connesso per via di
tutte le giunture di comunicazione, in virtù della proporzionata
operazione sopra di ciascun membro, prende l'aumento proprio del
corpo per la sua perfezione mediante la carità (Ef 4, 16).
92. Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale
organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia
di questa Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno
e anche qualche opportuna considerazione.
93. Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza
carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così
riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i
padroni, esso solo concludere contratti e patti di lavoro.
L'iscrizione al sindacato è facoltativa, ed è soltanto in questo
senso che l'organizzazione sindacale può dirsi libera; giacché la
quota sindacale e certe speciali tasse sono obbligatorie per tutti
gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai o
padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro
stipulati dal sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente
dichiarato che il sindacato giuridico non escluse l'esistenza di
associazioni professionali di fatto.
94. Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei
sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e
professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato,
dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune.
95. Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare,
interviene il Magistrato.
96. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell'ordinamento
per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione
delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati
socialisti, l'azione moderatrice di une speciale magistratura. Per
non trascurare nulla in argomento di tanta importanza, ed in
armonia con i principi generali qui sopra richiamati, e con quello
che inibito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non
mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività
invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed
aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia
carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante
gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari
intenti politici piuttosto che all'avviamento ed inizio di un
migliore assetto sociale.
97. Noi crediamo che a raggiungere quest'altro nobilissimo
intento, con vero e stabile beneficio generale, sia necessaria
innanzi e soprattutto la benedizione di Dio e poi la
collaborazione di tutte le buone volontà. Crediamo ancora e per
necessaria conseguenza che l'intento stesso sarà tanto più
sicuramente raggiunto quanta più largo sarà il contributo delle
competenze tecniche, professionali e sociali e più ancora dei
principi cattolici e della loro pratica, da parte, non dell'Azione
Cattolica (che non intende svolgere attività strettamente
sindacali o politiche), ma da parte di quei figli Nostri che
1'Azione Cattolica squisitamente forma a quei principi ed al loro
apostolato sotto la guida ed il Magistero della Chiesa; della
Chiesa, la quale anche sul terreno più sopra accennato, come
dovunque si agitano e regolano questioni morali, non può
dimenticare o negligere il mandato di custodia e di magistero
divinamente conferitole.
98. Se non che, quanto abbiamo detto circa la restaurazione e il
perfezionamento dell'ordine sociale, non potrà essere attuato in
nessun modo, senza una riforma dei costumi come la storia stessa
ce ne dà splendida testimonianza. Vi fu un tempo infatti in cui
vigeva un ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto
e in ogni sua parte irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in
qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e la
necessità dei tempi. Ora quell'ordinamento è già da gran tempo
scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col
progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e
necessità di cose e in qualche modo venire dilatandosi, ma perché
piuttosto gli uomini induriti dall'egoismo ricusarono di
allargare, come avrebbero dovuto, secondo il crescente numero
della moltitudine, i quadri di quell'ordinamento, o perché,
traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di
qualsiasi autorità, si sforzarono di scuotere da sé ogni
restrizione.
99. Resta adunque che, dopo aver nuovamente chiamato in giudizio
l'odierno regime economico, e il suo acerrimo accusatore, il
socialismo, e aver dato giusta ed esplicita sentenza sull'uno e
sull'altro, indaghiamo più a fondo la radice di tanti mali e ne
indichiamo il primo e più necessario rimedio, cioè la riforma dei
costumi.
III - MUTAZIONI PROFONDE DELLA SOCIETA' DOPO LEONE XIII
100. E veramente profonde sono le mutazioni che dai tempi di
Leone XIII in qua hanno subìto tanto il regime economico quanto il
socialismo. E anzitutto, che le condizioni economiche siano
profondamente trasformate è una cosa a tutti evidente. E voi
sapete, venerabili Fratelli e diletti Figli, che il Nostro
Predecessore di f. m. nella sua enciclica contemplava soprattutto
quell'ordinamento economico con cui generalmente si contribuisce
all'attività economica dagli uni col capitale, dagli altri con il
lavoro, secondo che egli definiva con felice espressione: Non può
esservi capitale senza lavoro né lavoro senza capitale (enc. Rerum
novarum, n. 15). 1 - Mutazioni nell'ordinamento economico a)
relazioni fra capitale e operai
101. Orbene, Leone XIII adottò ogni mezzo per disciplinare questo
ordinamento economico, secondo le norme della rettitudine; sicché
è evidente che esso non è in sé da condannarsi. E infatti non è di
sua natura vizioso: allora però viola il retto ordine, quando il
capitale vincola a sé gli operai, ossia la classe proletaria, col
fine e con la condizione di sfruttare a suo arbitrio e vantaggio
le imprese e quindi l'economia tutta, senza far caso, né della
dignità umana degli operai, né del carattere sociale
dell'economia, né della stessa giustizia sociale e del bene
comune.
102. Vero è che neppure oggi è questo il solo ordinamento
economico vigente in ogni luogo; un'altra forma vi è che abbraccia
ancora grande moltitudine di persone, importante per numero e
potere, quale, ad esempio, la classe degli agricoltori, in cui la
maggior parte del genere umano si procura con probo e onesto
lavoro quanto è necessario alla vita. Anche essa ha le sue
angustie e le sue difficoltà, alle quali allude il Nostro
Predecessore in parecchi tratti della sua enciclica e Noi pure in
questa vi abbiamo più di una volta accennato. b) capitalismo
industriale
103. Ma, l'ordinamento capitalistico dell'economia, col dilatarsi
dell'industrialismo per tutto il mondo, dopo l'enciclica di Leone
XIII si è venuto esso pure allargando per ogni dove, a tal punto
da invadere e penetrare anche nelle condizioni economiche e
sociali di quelli che si trovano fuori della sua cerchia,
introducendovi in certo modo la sua impronta.
104. Perciò quando invitiamo a studiare le trasformazioni che
l'ordinamento capitalistico dell'economia subì dopo il tempo di
Leone XIII, non solamente procuriamo il bene di coloro che abitane
in paesi dominati dal capitale e dall'industria, ma di tutto
intero il genere umano. c) concentrazione della ricchezza
105. E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri
tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma
l'accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica
padronanza dell'economia in mano di pochi, e questi sovente
neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del
capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.
106. Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che,
tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in
qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive
l'organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l'anima
dell'economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe
nemmeno respirare.
107. Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la
nota specifica della economia contemporanea, è il frutto naturale
di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere
solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno
curanti della coscienza.
108. A sua volta poi la concentrazione stessa di ricchezze e di
potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si
combatte per la prevalenza economica; di poi si contrasta
accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi
delle sue forze e della sua influenza nelle competizioni
economiche; infine si lotta tra gli stessi Stati, o perché le
nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica a promuovere
i vantaggi economici dei propri cittadini, o perché applicano il
potere e le forze economiche a troncare le questioni politiche
sorte fra le nazioni. d) funeste conseguenze
109. Ultime conseguenze dello spirito individualistico nella vita
economica sono poi quelle che voi stessi, venerabili Fratelli e
diletti Figli, vedete e deplorate; la libera concorrenza cioè si è
da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la
egemonia economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata
cupidigia del predominio; e tutta l'economia è così divenuta
orribilmente dura, inesorabile, crudele. A ciò si aggiungono i
danni gravissimi che sgorgano dalla deplorevole confusione delle
ingerenze e servizi propri dell'autorità pubblica con quelli della
economia stessa: quale, per citarne uno solo tra i più importanti,
l'abbassarsi della dignità dello Stato, che si fa servo e docile
strumento delle passioni e ambizione umane, mentre dovrebbe
assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni
passione di partito e intento al solo bene comune e alla
giustizia. Nell'ordine poi delle relazioni internazionali, da una
stessa fonte sgorgò una doppia corrente: da una parte, il
nazionalismo o anche l'imperialismo economico; dall'altra non meno
funesto ed esecrabile, l'internazionalismo bancario o imperialismo
internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene.
e) i rimedi
110. Ora, con quali mezzi si possa rimediare a un male così
profondo, già l'abbiamo indicato nella seconda parte di questa
enciclica, dove ne abbiamo trattato di proposito sotto l'aspetto
dottrinale: qui ci basterà ricordare la sostanza del Nostro
insegnamento. Essendo dunque l'ordinamento economico moderno
fondato particolarmente sul capitale e sul lavoro, devono essere
conosciuti e praticati i precetti della retta ragione, ossia della
filosofia sociale cristiana, concernenti i due elementi menzionati
e le loro relazioni. Così, per evitare l'estremo
dell'individualismo da una parte, come del socialismo dall'altra,
si dovrà soprattutto avere riguardo del pari alla doppia natura,
individuale e sociale propria, tanto del capitale o della
proprietà, quanto del lavoro. Le relazioni quindi fra l'uno e
l'altro devono essere regolate secondo le leggi di una esattissima
giustizia commutativa, appoggiata alla carità cristiana. È
necessario che la libera concorrenza, confinata in ragionevoli e
giusti limiti, e più ancora che la potenza economica siano di
fatto soggetti all'autorità pubblica, in ciò che concerne
l'ufficio di questa. Infine le istituzioni dei popoli dovranno
venire adattando la società tutta quanta alle esigenze del bene
comune cioè alle leggi della giustizia sociale; onde seguirà
necessariamente che una sezione così importante della vita
sociale, qual è l'attività economica, verrà a sua volta ricondotta
ad un ordine sano e bene equilibrato.
2 - Trasformazione del socialismo
111. Non meno profonda che quella dell'ordinamento economico è la
trasformazione che dal tempo di Leone XIII ebbe il socialismo, con
cui specialmente lottò il Nostro Predecessore. Allora infatti esso
poteva quasi dirsi uno e propugnatore di principi dottrinali ben
definiti o raccolti in un sistema: ora invece va diviso in due
partiti principali, discordanti per lo più fra loro e
inimicissimi, ma pur tali che nessuno dei due si scosta dal
fondamento proprio di ogni socialismo, e contrario alla fede
cristiana. a) socialismo più violento o comunismo
112. Un partito infatti del socialismo andò soggetto alla
trasformazione stessa che abbiamo spiegato sopra, rispetto
all'economia capitalistica, e precipitò nel comunismo; il quale
insegna e persegue due punti, né già per vie occulte o per
raggiri, ma alla luce aperta e con tutti i mezzi, anche più
violenti una lotta di classe la più accanita e l'abolizione
assoluta della proprietà privata. E nel perseguire i due intenti
non v'ha cosa che esso non ardisca, niente che rispetti: e dove si
è impadronito del potere, si dimostra tanto più crudele e
selvaggio, che sembra cosa incredibile e mostruosa. Di che sono
prova le stragi spaventose e le rovine che esso ha accumulato
sopra vastissimi paesi dell'Europa Orientale e dell'Asia. Quanto
poi sia nemico dichiarato della santa Chiesa, e di Dio stesso, è
cosa purtroppo dimostrata dall'esperienza e a tutti notissima. Non
crediamo perciò necessario premunire i figli buoni e fedeli della
Chiesa contro la natura empia e ingiusta del Comunismo; ma non
possiamo tuttavia, senza un profondo dolore, vedere l'incuria e
l'indifferenza di coloro che mostrano di non dar peso ai pericoli
imminenti, e con una passiva fiacchezza lasciano che si propaghino
per ogni parte quegli errori, da cui sarà condotta a morte la
società tutta intera con le stragi e la violenza. Ma soprattutto
meritano di essere condannati coloro che trascurano di sopprimere
o trasformare quelle condizioni di cose, che esasperano gli animi
dei popoli e preparano con ciò la via alla rivoluzione e alla
rovina della società. b) socialismo più mite
113. Più moderato è l'altro partito che ha conservato il nome di
socialismo; giacché non solo professa di rigettare il ricorso alla
violenza, ma se non ripudia la lotta di classe e l'abolizione
della proprietà privata, la mitiga almeno con attenuazioni e
temperamenti. Si direbbe quindi che, spaventato dei suoi principi
e delle conseguenze che ne trae il comunismo, il socialismo si
pieghi e in qualche modo si avvicini a quelle verità che la
tradizione cristiana ha sempre solennemente insegnate; poiché non
si può negare che le sue rivendicazioni si accostino talvolta, e
molto da vicino, a quelle che propongono a ragione i riformatori
cristiani della società. c) la lotta di classe
114. La lotta di classe, infatti, quando si astenga dagli atti di
inimicizia e dall'odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in
una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia:
discussione che non è certo quella felice pace sociale che tutti
vagheggiano, ma che può e deve essere un punto di partenza per
giungere alla mutua cooperazione delle classi. Così anche la
guerra dichiarata alla proprietà privata si viene sempre più
calmando e restringendosi a tal segno, che alla fine non viene più
assalita in sé la proprietà dei mezzi di produzione, ma una certa
egemonia sociale, che la proprietà contro ogni diritto si è
arrogata e usurpata. E infatti tale supremazia non deve essere
propria dei semplici padroni, ma del pubblico potere. Con ciò si
può giungere insensibilmente fino al punto che le massime del
socialismo più moderato non discordino più dai voti e dalle
rivendicazioni di coloro che, fondati sui princìpi cristiani, si
studiano di riformare la società umana. E in verità si può ben
sostenere, a ragione, esservi certe categorie di beni da
riservarsi solo ai pubblici poteri, quando portano seco una tale
preponderanza economica, che non si possa lasciare in mano ai
privati cittadini senza pericolo del bene comune.
115. Cotali giuste rivendicazioni e desideri non hanno più nulla
che ripugni alla verità cattolica e molto meno sono rivendicazioni
proprie del socialismo. Quelli dunque che a queste sole mirano,
non hanno ragione di dare il nome al socialismo.
116. Né perciò si dovrà credere che quei partiti o gruppi di
socialisti, che non sono comunisti, si siano ricreduti tutti a tal
segno, o di fatto o nel loro programma. No, perché essi per lo
più, non rigettano né la lotta di classe, né l'abolizione della
proprietà, ma solo la vogliono in qualche modo mitigata. Senonché,
essendosi i loro falsi princìpi così mitigati e in qualche modo
cancellati, ne sorge, o piuttosto viene mosso da qualcuno, il
dubbio: se per caso anche i princìpi della verità cristiana non si
possano in qualche modo mitigare o temperare, per andare così
incontro al socialismo e quasi per una via media accordarsi
insieme. E vi ha di quelli che nutrono la vana speranza di trarre
a noi in questo modo i socialisti. Vana speranza, diciamo. Quelli,
infatti, che vogliono essere apostoli tra i socialisti, devono
professare apertamente e sinceramente, nella sua pienezza e
integrità, la verità cristiana, ed in nessuna maniera usare
connivenza con gli errori. Che, se veramente vogliono essere
banditori del Vangelo, devono studiarsi anzitutto di far vedere ai
socialisti che le loro rivendicazioni, in quanto hanno di giusto,
si possono molto più validamente sostenere coi princìpi della fede
cristiana e molto più efficacemente promuovere con le forze della
cristiana carità. d) socialismo e cristianesimo
117. Ma che dire nel caso che, rispetto alla lotta di classe e
alla proprietà privata, il socialismo sia realmente così mitigato
e corretto da non aver più nulla che gli si possa rimproverare su
questi punti? Ha con ciò forse rinunziato ai suoi princìpi, alla
sua natura contraria alla religione cristiana? Qui sta il punto,
su cui molte anime si trovano esitanti. E non pochi sono pure i
cattolici, i quali ben conoscendo come i princìpi cristiani non
possono essere né abbandonati, né cancellati, sembrano rivolgere
lo sguardo a questa Santa Sede e domandare con ansia, che
decidiamo se questo socialismo si sia ricreduto dei suoi errori a
tal segno, che senza pregiudizio di nessun principio cristiano, si
possa ammettere e in qualche modo battezzare. Ora per soddisfare,
secondo la Nostra sollecitudine paterna, a questi desideri,
proclamiamo che il socialismo, sia considerato come dottrina, sia
considerato come fatto storico, sia come « azione », se resta
veramente socialismo, anche dopo aver ceduto alla verità e alla
giustizia su questi punti che abbiamo detto, non può conciliarsi
con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Giacché il suo
concetto della società è quanto può dirsi opposto alla verità
cristiana.
118. Infatti, secondo la dottrina cristiana, il fine per cui
l'uomo dotato di una natura socievole, si trova su questa terra, è
questo che, vivendo in società e sotto un'autorità sociale
ordinata da Dio (cfr. Rom 13,1), coltivi e svolga pienamente tutte
le sue facoltà a lode e gloria del Creatore; e adempiendo
fedelmente i doveri della sua professioni o della sua vocazione,
qualunque sia, giunga alla felicità temporale ed insieme alla
eterna. Il socialismo al contrario, ignorando o trascurando del
tutto questo fine sublime, sia dell'uomo come della società,
suppone che l'umano consorzia non sia istituito se non in vista
del solo benessere.
119. Infatti, da ciò che una divisione conveniente del lavoro,
più efficacemente che lo sforzo diviso degli individui, assicura
la produzione, i socialisti deducono che l'attività economica,
nella quale essi considerano solamente il fine materiale, deve per
necessità essere condotta socialmente. E da siffatta necessità,
secondo essi, deriva che gli uomini sono costretti, per ciò che
riguarda la produzione, a sottomettersi interamente alla società;
anzi il possedere una maggiore abbondanza di ricchezze che possa
servire alle comodità della vita, è stimato tanto che gli si
debbono posporre i beni più alti dell'uomo, specialmente la
libertà, sacrificandoli tutti alle esigenze di una produzione più
efficace. Questo pregiudizio dell'ordinamento « socializzato »
della produzione portato alla dignità umana, essi credono che sarà
largamente compensato dall'abbondanza dei beni, che gli individui
ne ritrarranno per poterli applicare alle comodità e alle
convenienze della vita secondo i loro piaceri. La società dunque,
qual è immaginata dal socialismo, non può esistere né concepirsi
disgiunta da una costrizione veramente eccessiva, e d'altra parte
resta in balia di una licenza non meno falsa, perché mancante di
una vera autorità sociale: poiché questa non può fondarsi sui
vantaggi temporanei e materiali, ma solo può venire da Dio
Creatore e fine ultimo di tutte le case (enc. Diuturnum del 9
giugno 1881).
120. Che se il socialismo, come tutti gli errori, ammette pure
qualche parte di vero (il che del resto non fu mai negato dai
Sommi Pontefici), esso tuttavia si fonda su una dottrina della
società umana, tutta sua propria e discordante dal vero
cristianesimo. Socialismo religioso e socialismo cristiano sono
dunque termini contraddittori: nessuno può essere buon cattolico
ad un tempo e vero socialista.
121. Tutte queste verità pertanto, da Noi richiamate e
confermate solennemente con la Nostra autorità, si debbono
applicare del pari a una totale nuova forma o condotta del
socialismo poco nota finora in verità, ma che al presente si va
diffondendo tra molti gruppi di socialisti. Esso attende
soprattutto a informare di sé gli animi e i costumi;
particolarmente alletta sotto colore di amicizia la tenera
infanzia per trascinarla, seco, ma abbraccia altresì la
moltitudine degli uomini adulti; per formare in fine « l'uomo
socialistico », sul quale vuole appoggiare l'umana società
plasmata secondo le massime del socialismo.
122. Senonché, avendo Noi spiegato già largamente nella Nostra
enciclica Divini illius Magistri su quali princìpi si fondi e
quali fini intenda l'educazione cristiana (enc. Divini illius
Magistri del 31 dicembre 1929), è tanto chiaro ed evidente che ad
essi contraddice quanto fa e cerca il socialismo educatore, che
non occorre altra dichiarazione. Ma quanto siano gravi e terribili
i pericoli che questo socialismo porta seco, sembra che l'ignorino
o non vi diano gran peso coloro che non si curano punto di
resistervi con zelo e coraggio secondo la gravità della cosa. È
Nostro dovere pastorale quindi mettere costoro in guardia dal
danno gravissimo e imminente, e si ricordino tutti che di cotesto
socialismo educatore è padre bensì il liberalismo, ma l'erede è e
sarà il bolscevismo. e) diserzione dei cattolici verso il
socialismo
123. Da ciò, venerabili Fratelli, voi potete intendere, con
quanto dolore vediamo, in taluni paesi specialmente, non pochi dei
Nostri figli - di cui non possiamo persuaderci che abbiano
abbandonato del tutto la vera fede e la buona volontà - aver
disertato il campo della Chiesa per passare alle file del
socialismo: gli uni professandosi apertamente socialisti e
professandone le dottrine; gli altri per indifferenza, o anche con
ripugnanza, per aggregarsi alle associazioni che si professano o
sono di fatto socialistiche.
124. Con paterna ansietà Noi andiamo pensando e investigando come
sia potuto accadere una tanta aberrazione, e Ci sembra di sentire
che molti di essi Ci rispondano a loro scusa: la Chiesa e quelli
che alla Chiesa si proclamano più aderenti, favoriscono i ricchi,
trascurando gli operai e non se ne dànno pensiero alcuno: perciò
questi hanno dovuto, al fine di provvedere a sé, aggregarsi alle
schiere dei socialisti.
125. Ed è questa, senza dubbio, cosa ben lacrimevole, venerabili
Fratelli, che vi siano stati e ancora vi siano di quelli che,
dicendosi cattolici, quasi non ricordino la legge sublime della
giustizia e della carità, la quale non solamente ci prescrive di
dare a ciascuno quello che gli tocca, ma ancora di soccorrere ai
nostri fratelli indigenti come a Cristo medesimo (Lett. di S.
Giacomo, c. 2); e, cosa ancora più grave, per ansia di guadagno
non temono di opprimere i lavoratori. E vi ha pure chi abusa della
religione stessa, facendo del suo nome un paravento alle proprie
ingiuste vessazioni per potersi sottrarre alle rivendicazioni
pienamente giustificate degli operai. Noi non cesseremo mai di
riprovare una simile condotta; poiché sono costoro la causa per
cui la Chiesa, senza averlo punto meritato, ha potuto aver
l'apparenza, e quindi essere accusata, di prendere parte per i
ricchi e di non aver alcun senso di pietà per le pene di quelli
che si trovano come diseredati della loro parte di benessere in
questa vita. Ma che questa apparenza e questa accusa sia
immeritata ed ingiusta, tutta la storia della Chiesa dà
testimonianza; e l'enciclica stessa, di cui celebriamo
l'anniversario, è la più splendida prova della somma ingiustizia
di simili contumelie e calunnie, lanciate contro la Chiesa e i
suoi insegnamenti. f) paterno invito a ritornare
126. Ma per quanto provocati dagli insulti e trafitti nel cuore di padre, siamo ben lungi dal rigettare da Noi questi figli, sebbene così miseramente traviati e lontani dalla verità e dalla salvezza. Con tutto l'ardore anzi e con tutta la più viva sollecitudine li invitiamo a ritornare al materno seno della Chiesa. E Dio faccia che prestino orecchio alla Nostra voce! Ritornino donde sono partiti, alla casa cioè del Padre e ivi perseverino dove è il loro proprio luogo, tra le file cioè di quelli che seguendo gli insegnamenti di Leone XIII, da Noi ora solennemente rinnovati, si studiano di restaurare la società secondo lo spirito della Chiesa, rassodandovi la giustizia e la carità sociale. E si persuadano essi che non potranno mai trovare altrove una felicità maggiore, anche su questa terra, se non vicino a Colui che per amore nostro « essendo ricco, diventò povero, affinchè dalla povertà di Lui diventassimo ricchi » (2 Cor 8,9), che fu povero e in mezzo alle fatiche fino dalla sua giovinezza, che invita a sé tutti gli oppressi dalla fatica e dalle afflizioni per dar loro un pieno conforto nella carità del suo Cuore (Mt 11,28); e che infine, senza accettazione di persone, richiederà di più da quelli ai quali avrà dato di più (cfr. Luc 12,48), e renderà a ciascuno secondo il suo operato (Mat 16,27).
3 - Rinnovamento dei costumi
127. Ma se consideriamo la cosa con più diligenza e più a fondo,
chiaramente vediamo che a questa tanto desiderata restaurazione
sociale deve precedere l'interno rinnovamento dello spirito
cristiano, dal quale purtroppo si sono allontanati tanti di coloro
che si occupano di cose economiche; se no, tutti gli sforzi
cadranno a vuoto, non costruendosi l'edificio sulla roccia, ma su
la mobile arena (cfr. Mat 7,24).
128. E infatti, venerabili Fratelli e diletti figli, abbiamo dato
uno sguardo all'odierno ordinamento economico, e l'abbiamo trovato
guasto profondamente. Di poi, richiamato a nuovo esame il
comunismo e il socialismo, e tutte le loro forme, anche più
mitigate, abbiamo trovato che sono molto lontani dagli
insegnamenti del Vangelo.
129. Quindi, per usare le parole del Nostro Predecessore, se un
rimedio si vuole dare alla società umana, questo non sarà altro
che il ritorno alla vita e alle istituzioni cristiane (enc. Rerum
novarum, n. 22). Giacché questo solo può distogliere gli occhi
degli uomini affascinati e al tutto immersi nelle cose transitorie
di questo mondo, e innalzarli al cielo: questo solo può portare
efficace rimedio alla troppa sollecitudine per i beni caduchi, che
è l'origine di tutti i vizi. Del quale rimedio chi può negare che
la società umana non abbia al presente un sommo bisogno? a) il
principale disordine dell'odierno sistema: il danno delle anime
130. Tutti restano quasi unicamente atterriti dagli
sconvolgimenti, dalle stragi, dalle rovine temporali. Ma se
consideriamo i fatti con occhio cristiano, com'è dovere, che cosa
sono tutti questi mali in paragone della rovina delle anime?
Eppure si può dire senza temerità essere tale oggi l'andamento
della vita sociale ed economica, che un numero grandissimo di
persone trova le difficoltà più gravi nell'attendere a quell'uno
necessario all'opera capitale fra tutte, quella della propria
salute eterna.
131. Di queste innumerevoli pecorelle costituiti Pastore e Tutore
dal Principe dei Pastori, che le redense col suo sangue, non
possiamo contemplare con indifferenza tale sommo pericolo; che
anzi, memori dell'ufficio pastorale, con paterna sollecitudine
andiamo di continuo ripensando come recare ad esse aiuto,
ricorrendo altresì allo studio indefesso di altri, che vi sono
impegnati per debito di giustizia e di carità. Che cosa gioverebbe
infatti che gli uomini con più saggio uso delle ricchezze si
rendessero più capaci di fare acquisto anche di tutto il mondo, se
poi ne ricevessero danno per l'anima? (cfr. Mat 15,26). Che cosa
gioverebbe insegnar loro sicuri princìpi intorno alla economia, se
poi si lasciano trascinare dalla sfrenata cupidigia e dal gretto
amore proprio a tal segno che pur avendo udito gli ordini del
Signore, abbiano poi a fare tutto all'opposto! (cfr. Fudic. 2,17).
b) cause del danno spirituale
132. Questa defezione della vita sociale ed economica dalla legge
cristiana e l'apostasia che ne consegue di molti operai dalla fede
cattolica, hanno la loro radice e la loro fonte negli affetti
disordinati dell'anima, triste conseguenza del peccato originale
che ha distrutto l'equilibrio meraviglioso delle facoltà umane;
sicché l'uomo facilmente trascinato da perverse cupidigie, viene
fortemente spinto ad anteporre i beni caduchi di questo mondo a
quelli imperituri del cielo. Di qui una sete insaziabile di
ricchezze e di beni temporali che, se in ogni tempo fu solita a
spingere gli uomini a trasgredire le leggi di Dio e calpestare i
diritti del prossimo, oggi col moderno ordinamento economico,
offre alla fragilità umana incentivi assai più numerosi. E poiché
l'instabilità della vita economica e specialmente del suo
organismo, richiede uno sforzo sommo e continuo di quanti vi si
applicano, alcuni vi hanno indurito la coscienza a tal segno che
si danno a credere lecita l'aumentare i guadagni in qualsiasi modo
e difendere poi con ogni mezzo dalle repentine vicende della
fortuna le ricchezze accumulate con tanti sforzi. I facili
guadagni, che l'anarchia del mercato apre a tutti, allettano
moltissimi allo scambio e alla vendita, e costoro unicamente
agognando di fare guadagni pronti e con minima fatica, con la
sfrenata speculazione fanno salire e abbassare i prezzi secondo il
capriccio e l'avidità loro, con tanta frequenza, che mandano
fallite tutte le sagge previsioni dei produttori. Le disposizioni
giuridiche poi, ordinate a favorire la cooperazione dei capitali,
mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del
negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza; giacché
vediamo che, scemato l'obbligo di dare i conti, viene attenuato il
senso di responsabilità nelle anime, e sotto la coperta difesa di
una società che chiamano anonima, si commettono le peggiori
ingiustizie e frodi, e i dirigenti di queste associazioni
economiche, dimentichi dei loro impegni, tradiscono non rare volte
i diritti di quelli di cui avevano preso ad amministrare i
risparmi. Né per ultimo si può omettere di condannare quegli
ingannatori che, non curandosi di soddisfare alle oneste esigenze
di chi si vale dell'opera loro, non si peritano invece di aizzare
le cupidigie umane, per venirle poi sfruttando a proprio guadagno.
133. Questi così gravi inconvenienti non potevano essere
emendati, o piuttosto prevenuti, se non da una severa disciplina
morale, rigidamente mantenuta dall'autorità sociale. Ma questa
purtroppo mancò. Infatti, avendo il nuovo ordinamento economico
cominciato appunto quando le massime del razionalismo erano
penetrate in molti e vi avevano messo radici, ne nacque in breve
una scienza economica separata dalla legge morale; e per
conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi
avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non
si diedero più pensiero di altro che di accrescere ad ogni costo
la loro fortuna, e cercando sopra tutte le cose e in tutto i loro
propri interessi, non si fecero coscienza neppure dei più gravi
delitti contro gli altri. I primi poi che si misero per questa via
larga. che conduce alla perdizione (cfr. Mat 7,13), trovarono
molti imitatori della loro iniquità sia per l'esempio della loro
appariscente riuscita, sia per il fasto insolito delle loro
ricchezze, sia per il deridere che fecero, quasi vittima di
scrupoli insulsi, la coscienza altrui, sia infine schiacciando i
loro competitori più timorosi.
134. Così, traviando dal retto sentiero i dirigenti della
economia, fu naturale che anche il volgo degli operai venisse
precipitando nello stesso abisso, e ciò tanto più che molti
sovraintendenti delle officine sfruttavano i loro operai, come
semplici macchine, senza curarsi delle loro anime, anzi neppure
pensando ai loro interessi superiori. E in verità fa orrore il
considerare i gravissimi pericoli a cui sono esposti nelle moderne
officine i costumi degli operai (dei giovani specialmente) e il
pudore delle giovani e delle donne, gli impedimenti che spesso il
presente ordinamento economico e soprattutto le condizioni affatto
irrazionali dell'abitazione recano all'unione e alla intimità
della vita di famiglia; alle difficoltà di santificare debitamente
i giorni di festa; all'universale indebolimento di quel senso
veramente cristiano, onde prima anche persone rozze e ignoranti,
sapevano elevarsi ad alti ideali, laddove ora è sottentrata
l'unica ansia di procacciarsi comecchessia la vita quotidiana. E
così il lavoro corporale, che la divina Provvidenza, anche dopo il
peccato originale, aveva stabilito come esercizio in bene del
corpo insieme e dell'anima, si viene convertendo in uno strumento
di perversione: la materia inerte, cioè esce nobilitata dalla
fabbrica, le persone invece si corrompono e si avviliscono.
4 - Rimedi a) cristianizzazione della vita economica
135. A una strage così dolorosa di anime, che durando farà cadere
a vuoto ogni sforzo di rigenerazione della società, non si può
rimediare altrimenti se non col ritorno manifesto e sincero degli
uomini alla dottrina evangelica, ai precetti cioè di Colui che
solo ha parole di vita eterna (cfr. Giov 6,70), e quindi parole
tali che, passando cielo e terra, esse non passeranno mai (cfr.
Mat 24,35). Così quanti sono veramente sperimentati nelle cose
sociali, invocano con ardore quella che chiamano perfetta «
realizzazione » della vita economica. Ma un tale ordinamento, che
Noi pure ardentemente desideriamo e con fervido studio
promuoviamo, riuscirà incompleto e imperfetto, se tutte le forme
dell'attività umana amichevolmente non si accordano ad imitare ed
a raggiungere, per quanto è dato all'uomo, la meravigliosa unità
del disegno divino; quell'ordine perfetto, diciamo, che a gran
voce la Chiesa proclama e la stessa retta ragione richiede: che
cioè le cose tutte siano indirizzate a Dio come a primo supremo
termine di ogni attività creata, e tutti i beni creati siano
riguardati come semplici mezzi, dei quali in tanto si deve far uso
in quanto conducono al fine supremo.
136. Né si deve credere che perciò le professioni lucrative siano
meno stimate ovvero ritenute come poco conformi alla dignità
umana. Al contrario, anzi, noi impariamo a riconoscere in esse con
venerazione la manifesta volontà del Creatore, il quale ha posto
l'uomo sulla terra perché la venga lavorando, facendola servire
alle sue molteplici necessità. Né si proibisce a quelli che
attendono alla produzione, l'accrescere nei giusti e debiti modi
la loro fortuna; anzi la Chiesa insegna essere giusto che chiunque
serve alla comunità e l'arricchisce con l'accrescere i beni della
comunità stessa, ne divenga anch'egli più ricco, secondo la sua
condizione, purché tutto ciò si cerchi col debito ossequio alla
legge di Dio e senza danno dei diritti altrui e se ne faccia un
uso conforme all'ordine della fede e della retta ragione.
137. Che se queste norme saranno da tutti, in ogni luogo e sempre
mantenute, non solamente la produzione e l'acquisto dei beni, ma
anche l'uso delle ricchezze, che ora si vede così spesso
disordinato, verrà tosto ricondotto nei limiti della equità e
della giusta distribuzione. Così alla sordida cupidigia dei soli
interessi propri, che è l'obbrobrio e il grande peccato del nostro
secolo, si opporrà davvero e col fatto la regola, soavissima
insieme ed efficacissima, della moderazione cristiana, onde l'uomo
deve cercare anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia,
ritenendo per certo che i beni temporali gli saranno dati per
giunta, in quanto avrà bisogno, in forza della sicura promessa
della liberalità divina (cfr. Mat 6,33). b) legge della carità
138. Se non che per assicurare appieno queste riforme, è
necessario che si aggiunga alla legge della giustizia, la legge
della carità la quale è il vincolo della perfezione (Col 3,14).
Quanto dunque s'ingannano quei riformatori imprudenti, i quali
solo curando l'osservanza della giustizia e della sola giustizia
commutativa, rigettano con alterigia il concorso della carità!
Certo, la carità non può essere chiamata a fare le veci della
giustizia, dovuta per obbligo e iniquamente negata. Ma quando pure
si supponga che ciascuno abbia ottenuto tutto ciò che gli spetta
di diritto, resterà sempre un campo larghissimo alla carità. La
sola giustizia, infatti, anche osservata con la maggiore fedeltà,
potrà bene togliere di mezzo le cause dei conflitti sociali, non
già unire i cuori e stringere insieme la volontà.
139. Ora tutte le istituzioni ordinate a consolidare la pace e
promuovere il mutuo soccorso tra gli uomini, per quanto sembrino
perfette, hanno il loro precipuo fondamento di sodezza nel legame
vicendevole, delle volontà onde i soci vanno uniti fra loro; e
mancando questo, come spesso vediamo per esperienza, riescono vane
le migliori prescrizioni. Una vera intesa di tutti ad uno stesso
bene comune non potrà dunque aversi altrimenti, che quando tutte
le parti della società sentano di essere membri di una sola grande
famiglia e figli di uno stesso Padre celeste, anzi di essere un
solo corpo in Cristo e membri gli uni degli altri (Rom 12,0) in
modo che se un membro patisce, patiscono insieme tutti gli altri
(1 Cor 12,26). Allora soltanto i ricchi e gli altri dirigenti
muteranno la primitiva loro freddezza verso i loro fratelli più
poveri, in calda e operosa affezione; ne accoglieranno le giuste
domande con volto benigno e cuore largo, e, al bisogno, ne
perdoneranno anche cordialmente le colpe e gli errori. Gli operai
poi, dal loro canto, deposto sinceramente ogni sentimento di odio
e di invidia, che i fautori della lotta di classe sfruttano tanto
astutamente, non solo non disdegneranno il posto loro assegnato
dalla Provvidenza divina nella società umana, ma l'avranno anzi in
gran pregio, perché ben consapevoli di cooperare davvero utilmente
e onoratamente, ciascuno secondo il proprio grado e ufficio, al
bene comune, e seguendo in ciò più da vicino gli esempi di Colui
che, essendo Dio, ha voluto essere sulla terra un operaio e
stimato figlio di operaio. c) difficoltà dell'impresa
140. Da questa nuova diffusione pertanto dello spirito evangelico
nel mondo, che è spirito di moderazione cristiana, e di carità
universale, sorgerà, speriamo, quella piena e desideratissima
restaurazione della umana società in Cristo e quella pace di
Cristo nel regno di Cristo a cui fin dall'inizio del Nostro
Pontificato abbiamo fermamente proposto di consacrare tutte le
Nostre cure e la Nostra pastorale sollecitudine (cfr. lett. enc.
Ubi arcano del 23 dicembre 1922). E voi pure, venerabili Fratelli,
che insieme con Noi per mandato dello Spirito Santo governate la
Chiesa di Dio (cfr. At 20,28), con molto lodevole zelo allo stesso
intento, come a cosa capitale e al presente più necessaria che
mai, indefessamente lavorate, in tutte quante le parti del mondo,
anche nei paesi delle sacre Missioni tra gl'infedeli. A voi dunque
siano date le meritate lodi, ed insieme con voi a quelli tutti,
siano chierici o laici, che vediamo con gioia esservi ogni giorno
compagni e validi cooperatori della stessa opera grandiosa.
Diciamo i diletti figli Nostri iscritti all'Azione Cattolica, i
quali con particolare studio si occupano con Noi della questione
sociale, in quanto questa spetta e compete alla Chiesa, per la sua
stessa divina istituzione. E Noi li esortiamo tutti caldamente.
nel Signore che non tralascino fatiche, non si lascino vincere da
difficoltà, ma crescano ogni giorno più nello zelo e nel vigore
(cfr. Deut 31,7). Ardua, per certo, è l'impresa che loro
proponiamo, giacché ben sappiamo che da una parte e dall'altra,
sia tra le classi superiori come tra le inferiori della società,
si oppongono in gran numero ostacoli e difficoltà da superare; ma
non perciò si perdano essi di animo, né si lascino a nessun conto
distogliere dal proposito. L'affrontare aspre battaglie è proprio
dei cristiani; sostenere gravi fatiche è proprio di quelli che,
quali buoni soldati di Cristo, lo seguono più da vicino (cfr. 2
Tim. 2,3).
141. Fidati dunque nell'onnipotente aiuto di Colui che vuole
salvi gli uomini tutti (cfr. Tim. 2,4), procuriamo con tutte le
forze di giovare a quelle anime infelici, lontane da Dio, e
distaccandole dalle cure temporali, nelle quali troppo si
avviluppano, insegniamo loro a volgere con fiducia il desiderio
alle cose eterne. Il che talvolta si otterrà più agevolmente di
quanto a prima vista non sembrava forse sperabile; poiché, se
nell'intimo dell'uomo anche più rotto all'iniquità si nascondono,
come favilla sotto la cenere, delle mirabili forze spirituali,
testimoni non dubbi di quell'anima naturalmente cristiana, quanto
più nel cuore di tanti altri che furono indotti in errore
piuttosto per ignoranza e per le circostanze esteriori.
142. Del resto, alcuni lieti indizi di sociale rinnovamento si
presagiscono già nelle stesse ordinate schiere degli operai, tra
cui con somma Nostra allegrezza, vediamo anche folti stuoli di
giovani cattolici, i quali con docilità ricevono le ispirazioni
della grazia divina e con incredibile zelo si studiano di
guadagnare a Cristo i propri compagni. Né meritano minor lode i
capi delle associazioni operaie, i quali, posposti i propri
interessi e unicamente solleciti del bene dei propri compagni si
sforzano di conciliare e promuovere con prudenza le loro giuste
rivendicazioni con la prosperità di tutta la maestranza, né per
qualsivoglia impedimento o aspetto si lasciano rimuovere da questo
nobile impiego. Che anzi vediamo pure in gran numero giovani
destinati o per ingegno o per ricchezze ad occupare tra poco un
bel posto tra i dirigenti della società, i quali si applicano con
più intenso studio alle questioni sociali, e danno liete speranze
di dedicarsi un giorno pienamente all'opera della restaurazione
sociale. d) la via da seguire
143. Le condizioni presenti, venerabili Fratelli, ci additano la
via che occorre tenere. Come in altre età della storia della
Chiesa, noi dobbiamo lottare con un mondo ricaduto in gran parte
nel paganesimo. Ora per ricondurre a Cristo le classi diverse di
uomini che l'hanno rinnegato, è necessario anzitutto scegliere nel
loro seno e formare ausiliari della Chiesa, che ne comprendano lo
spirito e i desideri e sappiano parlare ai loro cuori con senso di
fraterno amore. I primi ed immediati apostoli degli operai, devono
essere operai; industriali e commercianti, gli apostoli degli
industriali e degli uomini di commercio.
144. A Voi soprattutto, venerabili Fratelli, e al vostro Clero
spetta cercare con diligenza, scegliere con prudenza, formare ed
istruire con opportunità questa schiera di laici apostoli, sia di
operai come di padroni. Un'opera certamente ardua s'impone ai
sacerdoti, e per sostenerla, tutti quelli che crescono nelle
speranze della Chiesa, debbono venirsi preparando con lo studio
assiduo delle cose sociali. Ma soprattutto è necessario che quelli
da Voi applicati in modo particolare a questo ministero, si
mostrino tali, cioè forniti di tanto squisito senso di giustizia,
da opporsi con una costanza del tutto virile, alle rivendicazioni
esorbitanti ed alle ingiustizie, da qualunque parte vengano; è
necessario che siano segnalati per prudenza e discrezione lontana
da qualsiasi esagerazione; ma specialmente che siano intimamente
compenetrati della carità di Cristo, che sola vale a sottomettere
con forza e soavità i cuori e le volontà degli uomini alle leggi
della giustizia e dell'equità. Questa è la via già più di una
volta raccomandata dal felice esito, e che ora si deve seguire con
ogni alacrità e senza titubanze.
145. Quanto poi ai cari figli Nostri scelti ad un'opera così
grande, vivamente li esortiamo nel Signore a consacrarsi
totalmente alla formazione delle anime loro affidate; e
nell'adempimento di questo ufficio il più sacerdotale ed
apostolico, con opportunità si avvalgano di tutti i mezzi più
efficaci dell'educazione cristiana, come istruzione della
gioventù, istituzione di cristiane associazioni, fondazioni di
circoli di studio, conformi alla regola della fede. Ma soprattutto
facciano grande stima e applichino al bene dei loro discepoli quel
mezzo preziosissimo di rinnovamento individuale e sociale che Noi
abbiamo additato negli Esercizi spirituali con l'enciclica Mens
Nostra. Nella quale enciclica abbiamo esplicitamente ricordato e
caldamente raccomandato, con gli Esercizi a pro dei laici tutti,
anche i Ritiri in specie utilissimi per gli operai (enc. Mens
Nostra del 20 dicembre 1929). In questa scuola dello spirito
infatti non solo si formano gli ottimi cristiani, ma anche si
addestrano i veri apostoli per qualsiasi condizione di vita,
riscaldandosi alla fiamma del Cuore di Gesù Cristo. Da questa
scuola, come gli Apostoli dal Cenacolo di Gerusalemme, usciranno
uomini fortissimi nella fede, di costanza invitta nelle
persecuzioni, ardenti di zelo e premurosi unicamente di propagare
per ogni dove il regno di Cristo.
146. E certamente, ai nostri tempi più che mai si ha bisogno di
tali valorosi soldati di Cristo che si affatichino con tutte le
forze a preservare la famiglia umana dalla spaventosa rovina che
la incoglierebbe, se, col disprezzo degli insegnamenti del
Vangelo, si lasciasse prevalere un ordine di cose che conculcano
le leggi della natura non meno che quelle di Dio. La Chiesa di
Cristo edificata sulla pietra incrollabile, non ha nulla da temere
per sé, ben sapendo che le porte dell'inferno non prevarranno mai
contro di essa (cfr. Mat 16,18); sicura come é, per la prova
dell'esperienza di tanti secoli, che dalle tempeste anche più
violente uscirà sempre più forte e gloriosa di nuovi trionfi. Ma
il suo cuore di madre non può non commuoversi ai mali innumerevoli
che queste tempeste accumulerebbero sopra migliaia di uomini, e
soprattutto agli enormi danni spirituali che ne sgorgherebbero a
rovina di tante anime redente dal sangue di Cristo.
147. Tutto dunque deve essere tentato per distogliere la società
umana da mali così grandi. A ciò debbono tendere le nostre
fatiche, a ciò le nostre cure e le nostre continue e ferventi
preghiere a Dio. Perché mediante il soccorso della grazia divina
noi abbiamo in mano la sorte della famiglia umana.
148. Non permettiamo dunque, venerabili Fratelli e diletti Figli,
che i figliuoli di questo secolo si mostrino più accorti, nel loro
genere, di noi i quali per divina bontà siamo i figliuoli della
luce (cfr. Luc 16,18). Noi infatti vediamo con quale meravigliosa
sagacia si adoperino a scegliersi aderenti operosi e formarseli
atti a diffondere sempre più largamente i loro errori fra tutte le
classi e in tutte le parti del mondo. Quando poi prendono ad
impugnare la Chiesa di Cristo, li vediamo mettere a tacere le
varie loro interne dissezioni e costituire come un solo concorde
esercito per raggiungere con l'unione delle forze il comune
intento. e) unione e cooperazione di tutti i buoni
149. Ora, nessuno certamente ignora a quante e quanto grandi opere si stenda dappertutto l'indefesso zelo dei cattolici, sia in ordine al bene sociale ed economico, sia in materia scolastica e religiosa. Ma questa azione mirabile e faticosa non di rado perde di efficacia per la troppa dispersione delle forze. Si uniscano dunque tutti gli uomini di buona volontà quanti sotto la guida dei Pastori della Chiesa amano di combattere questa buona e pacifica battaglia di Cristo; e tutti, sotto la guida ed il magistero della Chiesa, secondo il genio, le forze, la condizione di ciascuno, cerchino di contribuire in qualche misura a quella cristiana restaurazione della società, che Leone XIII auspicò con l'immortale enciclica Rerum novarum; non mirando a se stesso e agli interessi propri, ma a quelli di Gesù Cristo (cfr. Fil 2,21); non, pretendendo di imporre le proprie idee, comunque belle ed opportune esse sembrino, ma mostrandosi disposti a rinunziarvi per il bene comune, affinché in tutto e soprattutto Cristo regni, Cristo imperi, e al quale sia onore e gloria e potere nei secoli (cfr. Apoc 5,13).
Benedizione finale
150. E perché così felicemente avvenga, a Voi tutti, venerabili
Fratelli e diletti figli, quanti fate parte dell'immensa famiglia
cattolica a Noi affidata, ma con un particolare affetto del Nostro
cuore agli operai e a quanti altri lavorano nelle arti manuali,
dalla divina Provvidenza a Noi più vivamente raccomandati, come
pure ai padroni ed imprenditori cristiani, impartiamo con paterno
amore l'Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso san Pietro, il 15 maggio 1931, anno decimo
del Nostro Pontificato. PIO PP. XI