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In senso oggettivo, il complesso di norme giuridiche, che comandano
o vietano determinati comportamenti ai soggetti che ne sono
destinatari, in senso soggettivo, la facoltà o pretesa,
tutelata dalla legge, di un determinato comportamento attivo od
omissivo da parte di altri, o la scienza che studia tali norme e
facoltà, nel loro insieme e nei loro particolari
raggruppamenti.
1. Il d. in senso oggettivo
Con l’espressione o ci si riferisce al complesso delle norme poste
dall’autorità sovrana e che costituiscono l’ordinamento
giuridico. Elementi essenziali del d. oggettivo sono le norme
giuridiche , che fungono da regole per una determinata classe di
rapporti intersoggettivi, e le fonti del d. , da cui le norme
scaturiscono. Strettamente connesse alla nozione di norma sono le
nozioni di fattispecie e di sanzione. L’essere regola della norma si
identifica con la creazione della cosiddetta fattispecie giuridica ,
cioè di un rapporto tra uno o più fatti e uno o
più eventi qualificati come effetto dei primi, non dipendenti
necessariamente sul piano della causalità materiale, ma
affermati sul piano della causalità giuridica. D’altra parte,
l’essere precetto della norma implica la sanzione , vale a dire
l’applicazione di una quale conseguenza dell’azione che viola la
norma, sebbene occorra sottolineare come tale concezione, di matrice
normativistica, non renda pienamente conto della complessa
fenomenologia della sanzione, e in particolare del modo in cui
agiscono le cosiddette sanzioni positive o premiali, e più in
generale gli imperativi senza sanzione. In ogni caso, l’applicazione
concreta delle sanzioni previste dalle norme giuridiche implica, a
sua volta, un accertamento circa la violazione dei comandi contenuti
nelle norme. Questo accertamento, circondato di precise garanzie per
i soggetti coinvolti, è il processo ; qui l’azione e la norma
diventano termini di un in forza del quale si stabilisce se l’azione
considerata possa essere compresa nell’ambito di previsioni della
norma e assoggettata alle sanzioni in quella previste. Nel suo
perenne significato il processo presuppone la presenza e
l’attività di un soggetto imparziale, che può essere
l’arbitro di una controversia, ovvero il in quanto espressione di
una volontà obiettiva di ordine propria dello Stato. Tra i
valori che concorrono a formare il significato globale del d. va
anche ricordato il principio della certezza del d. , secondo cui
ogni individuo deve essere messo in condizione di conoscere la norma
giuridica alla quale la sua azione è assoggettata
poiché, diversamente, la norma non sarebbe un imperativo per
l’azione, ma coercizione pura e semplice.
Il rapporto tra d. oggettivo e giustizia è stato ed è
tuttora oggetto di discussione, nella riflessione filosofica e nella
teoria generale del d.; in linea generale, l’idea che la norma, per
poter funzionare adeguatamente, debba in qualche modo fondarsi sulla
giustizia è stata sostenuta nell’ambito delle dottrine
giusnaturalistiche. Di contro, nelle posizioni di matrice
giuspositivistica è emersa la tendenza a separare la
questione del d. da quella della giustizia.
2. Le principali articolazioni del diritto
Tra le varie suddivisioni del d. oggettivo rimane centrale quella
tra d. pubblico e d. privato, le cui origini risalgono all’epoca
romana.
2.1 Il diritto pubblicoIl pensiero moderno tende a considerare norme
di d. pubblico quelle che regolano l’organizzazione e la funzione
dello Stato o, più in generale, degli enti forniti di
sovranità.
Parte fondamentale del d. pubblico è il d. costituzionale ,
ossia l’insieme delle norme che definiscono la forma del governo, i
diritti e i doveri fondamentali dei cittadini, il funzionamento
degli organi supremi dello Stato e i rapporti relativi alle
posizioni dei cittadini e di tutti i soggetti sottoposti
all’ordinamento giuridico interno. Fonti principali del d.
costituzionale sono la Costituzione, le leggi costituzionali e le
sentenze della Corte costituzionale. I rapporti dello Stato e degli
enti autarchici operanti come persone giuridiche pubbliche per i
fini dell’amministrazione, sia tra loro sia con i privati, sono
invece oggetto del d. amministrativo , che si esplica soprattutto
attraverso gli atti e i provvedimenti.
Particolare rilievo assume, nel d. pubblico, il d. penale , che
disciplina la materia dei reati e delle pene, mentre il codice
penale e le altre leggi penali individuano in maniera minuziosa le
varie fattispecie aventi rilievo penale. Nell’ordinamento italiano
la Costituzione detta i principi fondamentali ai quali deve
attenersi la legislazione penale: legalità;
irretroattività; riserva assoluta di legge formale; non
;ultrattività della legge penale; e responsabilità
penale personale (art. 27 Cost.). Completano il quadro il principio
dell’indipendenza e della precostituzione del giudice (o principio
del giudice naturale ), in base al quale la Costituzione fa divieto
di fissare giudici per casi singoli, e il principio della
territorialità , per cui la legge penale italiana obbliga
tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato, salvo le
eccezioni stabilite dal d. pubblico e internazionale. Il d. penale
si distingue, inoltre, in generale (o comune ) e speciale , a
seconda che valga per tutti gli appartenenti alla comunità
statale o solo per una categoria di persone in base alla loro
qualità o alla speciale condizione in cui si trovano. Nel
secondo gruppo rientrano, in particolare, il e quello della
navigazione .
Il complesso delle norme giuridiche che disciplinano l’attuazione
del d. oggettivo, in quanto avviene attraverso il processo, è
il d. processuale . Tali norme hanno in prevalenza carattere
strumentale e regolano l’organizzazione, i requisiti,
l’attività degli organi chiamati ad agire nel processo, i
mezzi di prova e gli effetti degli atti processuali. Il d.
processuale civile , il d. processuale penale , il e il d.
processuale amministrativo , considerati nel loro complesso e nelle
loro strette relazioni, costituiscono il d. processuale
semplicemente detto o d. processuale generale. Tuttavia, l’autonoma
elaborazione, in distinti codici (➔ codice), delle norme processuali
civili e penali fa escludere che l’una delle due legislazioni penali
possa considerarsi legge comune rispetto all’altra e rende assai
delicato stabilire fino a che punto i principi dell’un processo
possano trasportarsi all’altro, nel silenzio della legge. Invece,
è pacifico che le norme processuali civili, in quanto non
abbiano carattere eccezionale, costituiscano d. comune anche per il
processo amministrativo e per quello costituzionale.
2.2 Il diritto privatoL’insieme delle norme che regolano i rapporti
fra gli individui, oppure fra essi e gli enti pubblici, qualora
questi ultimi non esplichino funzioni di potere politico e sovrano,
costituisce il d. privato. Esso si incentra, in particolare, sulla
nozione di persona fisica e giuridica, in quanto soggetto di
relazioni paritarie che attengono sia alla sfera personale sia a
quella patrimoniale.
Branca fondamentale del d. privato è il d. civile , ossia il
complesso delle norme che si applicano all’universalità dei
cittadini, e che concernono: il matrimonio, la famiglia e la
filiazione legittima e naturale; i d. reali, relativi cioè
alla natura giuridica delle cose e alla disciplina dei d. di
proprietà e di ogni altro d. sulle cose; il d. delle
obbligazioni, che comprende la dottrina dei rapporti obbligatori; e
il d. successorio, che contiene i principi della successione a causa
di morte.
Altro settore del d. privato è il d. commerciale , la cui
peculiarità consiste nel regolare le attività dei
soggetti economici e i relativi obblighi. Sebbene ricondotto
all’interno del d. civile già dalla codificazione del 1942,
il d. commerciale ha mantenuto una sua autonomia, scientifica oltre
che didattica, anche in virtù della notevole
dinamicità che lo caratterizza. Incentrato sull’istituto
dell’impresa, e quindi sul d. societario, comprende, tra l’altro, le
norme che regolano il mercato, la concorrenza, lo sfruttamento
economico di invenzioni e creazioni intellettuali.
Si fa tradizionalmente rientrare nel d. privato anche il d. del
lavoro , se non altro per il suo nucleo essenziale. Esso comprende,
in senso stretto, il complesso delle norme attinenti al rapporto di
lavoro subordinato, incluse quelle relative alla disciplina delle
fonti non statuali di regolamentazione del rapporto stesso. Alcuni
autori, però, propenderebbero a riconoscere autonomia a
quest’ultima parte del d. del lavoro, cui viene attribuita la
denominazione di d. sindacale . Tra le fonti del d. del lavoro sono
da ricordare, oltre la legge, i contratti collettivi di lavoro, e
gli usi.
Con l’espressione si intende invece un settore relativamente recente
degli studi giuridici che analizza la regolamentazione delle
attività economiche sulla base di un metodo
interdisciplinare; il suo campo di indagine risulta pertanto
circoscritto, in linea generale, agli ordinamenti settoriali
dell’attività bancaria, finanziaria, assicurativa. Al d.
dell’economia è correlato il ‘metodo dell’economia nella
legislazione’, la cui finalità consiste nell’introdurre i
concetti economici nel linguaggio giuridico.
3. Il d. in senso soggettivo
Concetto tra i più importanti e dibattuti dell’intera scienza
giuridica, il d. soggettivo è stato concepito come un potere
o una signoria della volontà, attribuita al singolo dal d.
oggettivo (B. Windscheid), ovvero come un interesse protetto (R. von
Jhering). Secondo altre definizioni, il d. soggettivo sarebbe la
facoltà accordata dal d. oggettivo a un singolo individuo di
esigere una determinata condotta da altri soggetti, ovvero la
garanzia normativa di una utilità (bene, prestazione)
sostanziale e diretta a favore del soggetto titolare. In ogni caso,
si può dire che il d. soggettivo rappresenta il massimo grado
di tutela di un interesse individuale. La principale distinzione
all’interno dei diritti soggettivi è quella che intercorre
tra d. assoluti e d. relativi.
3.1 I d. soggettivi assolutiTali d. si caratterizzano per il fatto
che il loro titolare dispone immediatamente del bene della vita che
ne forma l’oggetto e non ha quindi bisogno dell’altrui cooperazione
per soddisfare il proprio interesse. Ai d. assoluti corrisponde in
capo a tutti gli altri consociati un dovere generico di astenersi da
ogni comportamento che possa in qualche modo interferire con
l’esercizio di tali d. da parte del titolare.
Fanno parte dei d. assoluti sia i d. della personalità , che
sono riconosciuti a ogni individuo a tutela di suoi interessi
fondamentali (per es., l’onore, la reputazione, l’identità
personale) e sono imprescrittibili e inalienabili, sia i d. reali ,
che hanno a oggetto una cosa determinata (res) e possono essere o di
garanzia , a seconda che attribuiscano al titolare poteri di
godimento o di garanzia. D. reale per eccellenza è quello
della proprietà , tutelato dalla Costituzione (art. 42), che
consiste nel godere e disporre della cosa in modo pieno ed
esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi
stabiliti dall’ordinamento giuridico (art. 832 c.c.). Altri d. reali
di godimento sono la superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto,
l’abitazione, l’uso, le servitù; d. reali di garanzia sono il
pegno e l’ipoteca. L’opinione di gran lunga prevalente in dottrina
nega che i privati possano costituire d. reali diversi da quelli
previsti dalla legge (➔ autonomia): si parla, in tal senso, di
numerus clausus, ovvero di tipicità dei d. reali.
3.2 I d. soggettivi relativiTali d. si caratterizzano in quanto il
loro titolare non dispone immediatamente del bene della vita che ne
costituisce l’oggetto, ma, per soddisfare il suo interesse, deve
rivolgersi a uno o più soggetti determinati o determinabili.
In particolare, il potere di pretendere un certo comportamento da
parte di uno o più soggetti, che si trovano quindi in una
posizione di obbligo e sono tenuti a porre in essere quel
comportamento (per es., Tizio è debitore di Caio di una somma
di denaro), definisce i d. di credito ; più controversa
è la categoria dei d. potestativi , che consistono nel potere
di modificare l’altrui sfera giuridica mediante un atto unilaterale
senza che il destinatario, che si trova in una posizione di
soggezione, possa fare alcunché per opporsi (come avviene,
per es., nel caso del d. di recesso ).
Rientrano fra i d. di credito i d. personali di godimento , che
presentano numerose affinità con i d. reali. Essi
conferiscono, sulla base di un rapporto obbligatorio, il potere di
godere di un determinato bene nella cui disponibilità
materiale viene immesso il creditore; il codice civile (art. 1380)
stabilisce che se, con successivi contratti, una persona concede a
diversi contraenti un d. personale di godimento relativo alla stessa
cosa, il godimento spetta al contraente che per primo lo ha
conseguito. Se nessuno dei contraenti ha conseguito il godimento,
è preferito quello che ha il titolo di data certa anteriore.
Esempio tipico di d. personale di godimento è quello del
conduttore sul bene concesso in locazione.
Con l’espressione d. quesiti (o d. acquisiti ) si indicano invece
quei d. che sono entrati nel patrimonio di un soggetto ai quali,
perciò, non si applica la legge nuova. Tra questi, spiccano i
d. acquisiti dai lavoratori, in quanto su di essi non può
incidere la contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico
mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli
lavoratori. All’interno di questa categoria, oltre ai d. di natura
personale costituzionalmente garantiti, possono essere ricompresi
tutti i d. di natura patrimoniale: d. alla retribuzione, d. al
trattamento di fine rapporto, indennità speciali. Vi
rientrano anche i d. sindacali . Inoltre, in alcune situazioni la
stessa prestazione lavorativa, che si configura in via generale come
un obbligo, viene a essere essa stessa un d., come nel caso
dell’apprendistato, nel quale lo svolgimento dell’attività
è finalizzato alla formazione professionale del lavoratore, o
del lavoratore in prova, che ha interesse a completare il periodo
contrattualmente previsto al fine di essere definitivamente assunto.
3.3 I d. costituzionaliIn molti testi costituzionali (per es., nella
Costituzione della Repubblica di Weimar, art. 109 e seg.; in quella
spagnola, art. 10, co. 2, 15 e seg.; in quella svizzera, art. 7 e
seg.) si parla di d. fondamentali ; in altri, in nome di una visione
universalistica, si parla invece di d. dell’uomo (Dichiarazione di
indipendenza degli Stati Uniti; Déclaration des droits de
l’homme et du citoyen del 1789, del 1793 e del 1795); in altri
ancora di d. inviolabili (Costituzione italiana, art. 2;
Costituzione spagnola, art. 10, co. 1), di «libertà
pubbliche» (Costituzione spagnola, art. 13, co. 1) ecc. In
ogni caso, in virtù dello stretto legame con il
costituzionalismo moderno, è opinione comune che i nascano
tra la fine del 18° sec. e la fine del 19° sec., in
corrispondenza con le tre grandi rivoluzioni dell’età moderna
(inglese, americana e francese). D’altra parte, il legame tra d. e
costituzionalismo moderno consente anche di tracciare una linea di
demarcazione tra le dichiarazioni medievali dei d. (per es., la
Magna Charta Libertatum del 1215) e quelle moderne: in virtù
del carattere particolaristico degli ordinamenti giuridico-politici
del Medioevo, le libertà riconosciute nei documenti di quel
periodo si caratterizzavano, infatti, come meri privilegi, dei quali
il singolo beneficiava in ragione della sua appartenenza a uno
specifico ordine, e non avevano portata potenzialmente universale.
Nelle prime Carte costituzionali i d. venivano concepiti, secondo
una visione giusnaturalistica, come entità prestatuali, che
lo Stato doveva limitarsi a riconoscere e garantire. Così, la
Dichiarazione di indipendenza americana parla di d. inalienabili
(vita, libertà, perseguimento della felicità), e la
Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789 di
d. naturali e imprescrittibili (libertà, proprietà,
sicurezza e resistenza all’oppressione). Tuttavia, a partire dal
19° sec., in corrispondenza con il tramonto delle tematiche
giusnaturalistiche, si invertiva il rapporto tra Stato e d.: i
secondi perdevano via via la loro valenza antagonistica nei
confronti del primo e, anzi, venivano interpretati in un contesto
che prevedeva l’assorbimento della società civile e
dell’individuo nella superiore unità dell’organismo statale.
Muovendo da tale premessa, K.F. Gerber arrivò a parlare dei
d. dei sudditi in termini di «d. riflessi», intendendoli
come meri effetti del ritrarsi del potere statale dalla sfera degli
individui. Sulla stessa scia si collocò anche G. Jellinek con
la sua teoria dei d. pubblici soggettivi , visti come l’effetto
dell’autolimitazione dello Stato attraverso il diritto.
Un’altra distinzione tradizionale dei d. è quella tra d.
civili, d. politici e d. sociali. Da un punto di vista
storico-comparatistico, i sono quelli che si affermano per primi, e
cioè che vengono proclamati sin dai primi documenti
costituzionali e che si esplicitano essenzialmente nella pretesa di
non subire ingerenze da parte dei poteri pubblici, e sono
perciò d. ‘negativi’ di difesa. Rientrano in questa sfera i
diversi aspetti della libertà individuale (di pensiero, di
religione, di parola, di stampa, di circolazione, di stipulazione
dei contratti ecc.), il d. ad avere un giusto processo (con le
relative garanzie rispetto agli arresti arbitrari), il d. di
proprietà ecc. Tra le prime e più rigorose
teorizzazioni di questa tipologia di d. va ricordato il Discorso
sulla libertà degli antichi comparata a quella dei moderni
(1819) di B. Constant.
I sono, invece, d. di partecipazione e spettano all’individuo in
quanto membro di una comunità politica. Il d. politico per
eccellenza è l’ attivo e passivo (➔ voto). Va ricordato che
la piena affermazione di questi d. fu meno rapida di quella dei
diritti civili: il suffragio universale maschile si affermò
in Francia a partire dal 1848 (Costituzione del 1848, art. 24; l.
cost. 25 febbraio 1875, art. 1), in Germania dal 1871 (Costituzione
del 1871, art. 20), mentre in Italia e in Gran Bretagna
bisognò attendere il primo dopoguerra e, per il voto alle
donne, il secondo dopoguerra. A differenza dei d. civili, che
possono spettare a tutti gli uomini in quanto tali, i d. politici
riguardano tendenzialmente i soli cittadini (➔ cittadinanza), anche
se in molte esperienze costituzionali odierne si è ormai
cominciato a mettere in discussione tale assunto, permettendo agli
stranieri residenti da un certo numero di anni di votare alle
elezioni amministrative.
L’espressione si riferisce, infine, a quei d. a prestazioni positive
da parte dello Stato che realizzano il cosiddetto Stato sociale: dal
d. al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla previdenza sociale
ecc. Tali d. cominciarono a trovare accoglienza nei testi
costituzionali solo a partire dalla Costituzione della Repubblica di
Weimar; più controversa appare invece la questione degli
antecedenti storici: alcuni studiosi sottolineano l’importanza della
proclamazione del d. al lavoro nella Costituzione francese del 1848
(art. 13); altri evidenziano come già nella Dichiarazione del
1793 si parlasse di un «dovere di assistenza» e di un d.
all’istruzione (art. 21 e 22); altri, infine, scorgono lo spirito
dei d. sociali già presente nella Costituzione francese del
1791.
Molti studiosi preferiscono parlare, invece, di tre diverse
‘generazioni’ di diritti. La prima sarebbe formata dai classici ‘d.
negativi’ e da un primo nucleo di d. di partecipazione alla vita
pubblica (quali, per es., un elettorato attivo e passivo alquanto
ristretto, e i d. di riunione e di associazione, sebbene con forti
limitazioni), e troverebbe la sua esplicitazione nei documenti
costituzionali elaborati tra il 18° e il 19° secolo. A
partire dalla seconda metà del 19° sec., in virtù
dello sviluppo dell’ideologia socialista e del movimento dei
lavoratori, si comincerebbe quindi a delineare una ‘seconda
generazione’ di d., che troverebbe la sua esplicitazione nelle carte
costituzionali del 20° sec., caratterizzate, oltre che dalla
più completa valorizzazione dei d. di riunione e di
associazione (in particolare, in campo politico e sindacale), anche
dai meccanismi di ridistribuzione e di riequilibrio delle
disuguaglianze propri dello Stato sociale. A partire dalla seconda
metà del 20° sec. comincerebbe infine a delinearsi la
‘terza generazione’ di d., caratterizzata, da un lato, da un sempre
più esteso processo di universalizzazione (basti pensare
all’importanza di documenti come la Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo del 1948, o la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali del 1950), e, dall’altro, dall’emersione di ulteriori
tipologie di d. (i cosiddetti ‘nuovi diritti’), come il e il d. al
patrimonio genetico .
Un problema fondamentale che concerne l’elaborazione odierna dei d.
è se essi vadano considerati come un catalogo ‘chiuso’ o
‘aperto’. La grande diffusione di clausole generali nelle
Costituzioni europee del secondo dopoguerra (basti pensare all’art.
2 di quella italiana, o all’art. 2 di quella tedesca, in cui si
parla di «libero sviluppo della personalità») ha
sicuramente favorito un’interpretazione ‘aperta’ dell’elenco dei
diritti. D’altra parte, lo stesso genere di dibattito si è
avuto anche negli USA, in corrispondenza con il processo di
espansione dei d. operato, tra la metà degli anni 1950 e la
prima metà degli anni 1970, dalle Corti Warren e Burger (in
particolare, per quanto concerne la decisione del 1973 in tema di
aborto).
3.4 I d. degli animaliNella seconda metà del Novecento si
è venuta affermando anche la tematica dei nuovi soggetti di
d. e si è iniziato a discutere della possibilità di
attribuire d. morali e giuridici a esseri ai quali in precedenza
veniva data una rilevanza soltanto marginale e indiretta, e in
particolare agli animali.
Dal punto di vista etico-filosofico la ‘questione animale’ è
stata sollevata dal libro di P. Singer Animal liberation (1975).
Nella discussione che ne è seguita sono emerse due
impostazioni principali. L’una, di stampo utilitaristico e
consequenzialista, è rivolta soprattutto a dimostrare che
esiste il dovere di non infliggere sofferenze, non solo all’uomo ma
a qualsiasi altra creatura sensibile. L’altra, di matrice
giusnaturalistica, afferma l’esistenza di veri e propri d. naturali
di tutti gli esseri viventi. Le principali questioni attorno a cui
ruota la discussione sono: il d. a non subire sofferenze, che si
riferisce all’allevamento intensivo di animali, alla caccia, alla
sperimentazione scientifica, il d. alla libertà, riguardante
gli animali utilizzati in zoo, parchi e circhi, e il d., per gli
animali domestici o da compagnia, a essere accuditi e non
abbandonati.
Dal punto di vista normativo è intervenuta sulla materia la
l. 189/2004 (➔ maltrattamento).
4. Il d. internazionale pubblico
Il d. internazionale pubblico costituisce un sistema giuridico
separato e distinto rispetto agli ordinamenti interni degli Stati,
volto a regolare i rapporti tra gli Stati appartenenti alla
comunità internazionale. La sua nascita è storicamente
legata alla formazione degli Stati moderni, che, in seguito alla
Pace di Westfalia (1648), hanno dato vita al primo nucleo della
odierna comunità. Lo Stato è, infatti, il soggetto per
eccellenza del d. internazionale pubblico; la consuetudine è
la fonte primaria dell’ordinamento internazionale, e vincola tutti
gli Stati; mentre l’ costituisce fonte di secondo grado, vincola
solamente gli Stati contraenti, può essere bilaterale o
multilaterale e vertere su qualsiasi materia gli Stati intendano
regolare, ma senza entrare in contrasto con le norme imperativa del
d. internazionale (per lo ius cogens ➔ ius ). Fonti di terzo grado
sono gli atti vincolanti delle organizzazioni internazionali
(Nazioni Unite, NATO, Consiglio d’Europa ecc.) istituite dagli Stati
per meglio tutelare i loro interessi e favorire la cooperazione
internazionale.
4.1 Il d. umanitarioImportante settore del d. internazionale
pubblico è la parte del d. bellico volta a tutelare la
popolazione civile e inerme (d. di Ginevra ) o a porre limiti
all’impiego di mezzi e metodi di guerra (d. dell’Aia ) in situazioni
di grave emergenza (per es., in caso di conflitto armato). Il d.
internazionale umanitario non va confuso con il d. internazionale
dei diritti umani, giacché si applica in situazioni di guerra
(interna o internazionale), ha portata generale (si impone a
qualsiasi parte del conflitto, aggredito e aggressore) ed è
inderogabile. Inoltre, non si occupa di ius ad bellum, ossia delle
ragioni per cui ha inizio un determinato conflitto, ma solo dello
ius in bello, ossia di regolamentare la condotta delle
ostilità, a prescindere dal motivo per cui hanno avuto
inizio.
Oltre che nelle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907, il d.
umanitario ha trovato sistemazione nelle Convenzioni di Ginevra del
1906, 1929 e 1949. Come ha precisato la Corte internazionale di
giustizia (Parere sulla liceità delle armi nucleari, 1996),
le due branche si sono fuse in un unico sistema di diritto.
Fondamentali sono state, in questo senso, le quattro Convenzioni di
Ginevra elaborate nell’agosto del 1949: per il miglioramento delle
condizioni dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna;
per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei
naufraghi delle forze armate sul mare; sul trattamento dei
prigionieri di guerra; sulla protezione delle persone civili in
tempo di guerra. A queste convenzioni vanno sommati i protocolli
aggiuntivi codificati nel 1977, rispettivamente sulla protezione
delle vittime dei conflitti armati internazionali e dei conflitti
armati non-internazionali. Il Protocollo del 2005 consente il
riconoscimento del cosiddetto cristallo rosso, emblema aggiuntivo
del movimento internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna
rossa. Le categorie tutelate dalla Convenzione di Ginevra sono: la
popolazione civile; i feriti; i naufraghi; gli ammalati; i caduti; i
prigionieri di guerra. In seguito all’ampliamento del concetto di
‘vittima’ dei conflitti armati, la definizione è stata
estesa, mediante specifiche convenzioni internazionali (per es., la
Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali
in caso di conflitto armato), anche a oggetti diversi dalle persone,
e precisamente: ai beni culturali e all’ambiente.
Nel complesso di norme che compongono il d. umanitario in senso
stretto, possono essere incluse anche le norme sui rifugiati, sul
genocidio e sui crimini internazionali. Caratteristica comune di
questo corpus di convenzione è la ‘clausola Martens’, secondo
la quale le persone civili e i combattenti sono protetti dai d. in
uso al momento e nel luogo in questione e dai principi umanitari
dettati dalla coscienza pubblica. Le norme contenute nella
Convenzione di Ginevra sono state ritenute dalla Corte
internazionale di giustizia parte integrante del d. internazionale
consuetudinario (sent. del 1986 sulle Attività militari e
paramilitari in Nicaragua). Nelle sent. del 1995 e del 1997 sul caso
Tadić, il tribunale per l’ex Iugoslavia ha affermato, in sintonia
con la Corte internazionale di giustizia, che non solo i principi
umanitari contenuti nell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra,
ma anche quelli del 2° Protocollo addizionale costituiscono
norme inderogabili del d. internazionale generale.
4.2 I d. umaniIl d. internazionale ha per lungo tempo ignorato i
rapporti tra lo Stato e l’individuo (a eccezione delle norme sulla
protezione diplomatica), sulla base del principio della ‘non
ingerenza degli affari interni’, sicché la tutela dei d.
umani rientrava nella sfera di competenza interna di ogni singolo
Stato. Tuttavia, in seguito alle flagranti violazioni dei d. umani
commesse durante il secondo conflitto mondiale, la loro tutela
è divenuta oggetto di norme internazionali, sia pattizie che
generali. Lo statuto delle Nazioni Unite, adottato nel 1945,
già conteneva, nel preambolo riferimenti ai d. fondamentali
dell’uomo ed esortava le nazioni (art. 1) a sviluppare relazioni
amichevoli, fondate sul d. all’autodeterminazione dei popoli, e a
promuovere e incoraggiare il rispetto dei d. umani e delle
libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza,
sesso, lingua o religione. Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale
adottò inoltre, con risoluzione 217 (III), la Dichiarazione
universale dei d. dell’uomo che, pur non avendo carattere
vincolante, pose le basi per l’affermazione di tali d. a livello
internazionale. Tra questi, vanno anzitutto ricordati i d. civili
politici (cosiddetti di ‘prima generazione’, di matrice
occidentale), che comportano soprattutto obblighi di astensione per
gli Stati: il d. alla non discriminazione, all’integrità
fisica, alla vita, alla libertà personale, di pensiero, di
religione. Ci sono poi i d. economici, sociali e culturali
(cosiddetti di ‘seconda generazione’, propugnati in passato dai
paesi socialisti), che comportano obblighi di agire da parte degli
Stati: d. al lavoro, alla salute, all’istruzione. Negli anni 1970, i
paesi in via di sviluppo sostennero l’esistenza di d. collettivi o
della solidarietà (cosiddetti di ‘terza generazione’), tra
cui il d. allo sviluppo, alla pace, a un ambiente salubre. Questi
ultimi possono essere considerati d. solo in senso lato, in quanto
è difficile individuare il titolare degli obblighi
corrispondenti, configurandosi piuttosto quali interessi collettivi
delle comunità. In seguito si è venuta delineando una
‘quarta generazione’ di d. umani, connessi all’impiego delle nuove
tecnologie soprattutto nel campo della genetica e dell’informatica.
Tale classificazione ha carattere descrittivo e non indica una
gerarchia, in quanto i d. umani riconosciuti a livello
internazionale si caratterizzano per essere indivisibili e
interdipendenti. Vanno inoltre menzionate le numerose convenzioni in
materia stipulate grazie all’azione dell’ONU: la Convenzione per la
prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948); la
Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di
discriminazione razziale (1965); il Patto sui diritti civili e
politici (con due Protocolli addizionali) e il Patto sui diritti
economici, sociali e culturali (1966); la Convenzione internazionale
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti
della donna (1979, con un Protocollo facoltativo); la Convenzione
contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o
degradanti (1984); e la Convenzione sui diritti del minore (1989,
con due Protocolli facoltativi). Tra gli accordi stipulati a livello
regionale occorre infine ricordare: la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (1950, integrata da 14 Protocolli), che ha istituto la
Corte europea dei diritti umani, cui possono rivolgersi direttamente
gli individui; la Convenzione americana dei diritti umani (1969); e
la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981).
La protezione dei d. umani non era prevista originariamente nei
Trattati istitutivi delle comunità europee. Solamente a
partire dagli anni 1970 si è posto il problema di un
eventuale conflitto tra norma comunitaria e d. della persona.
È stata la giurisprudenza della Corte di giustizia europea a
conferire il rango di principi generali del d. comunitario ai d.
umani. A partire dall’adozione dell’Atto Unico (1976), i d. umani
sono entrati ufficialmente nel sistema comunitario. Con
l’istituzione dell’Unione Europea (Trattato di Maastricht del 1992,
e Trattato di Amsterdam del 1997), i d. umani sono divenuti valori
fondamentali dell’Unione e principi generali del d. comunitario
(Trattato sull’Unione Europea, art. 6). È stata inoltre
prevista una procedura di sospensione dal godimento dei d. derivanti
dallo status di membro dell’Unione in caso di grave e persistente
violazione dei d. umani, e nel rispetto dei d. umani si è
riconosciuto un prerequisito per i paesi che intendano aderire
all’Unione. Il 7 dicembre 2000 è stata poi adottata a Nizza
la Carta dei d. fondamentali, che ha dato particolare rilievo a sei
valori fondamentali: la dignità, la libertà,
l’uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza, e la
giustizia. La Carta è stata inserita nella seconda parte del
Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa (2004). Per
quanto concerne le relazioni esterne dell’Unione, tra gli obiettivi
della politica estera e di sicurezza comune vi è lo sviluppo
e il consolidamento della democrazia e dello stato di d.,
nonché il rispetto dei d. umani e delle libertà
fondamentali. Il rispetto dei d. umani è una condizione
indispensabile per i paesi terzi che intendono stringere accordi
commerciali o di altro genere (cosiddetta clausola di
condizionalità).
4.3 Il d. dell’Unione EuropeaL’insieme delle norme poste in essere
dai trattati istitutivi della Comunità europea (Trattato
sulla Comunità Europea, Trattato sull’Unione Europea), e il
d. derivante da questi trattati e dalle fonti atipiche costituisce
un d. di tipo particolare rispetto al d. internazionale. Infatti,
mentre le norme del d. internazionale si rivolgono esclusivamente ai
soggetti internazionali, quelle del d. dell’Unione Europea hanno
come destinatari sia gli Stati membri, sia i soggetti di d. interno
(regolamenti); esse hanno caratteri propri tanto del d. interno (per
es., l’esistenza di un sistema accentrato di accertamento e
attuazione del d.), quanto del d. internazionale (per es., l’origine
pattizia). Le fonti comunitarie possono essere suddivise in fonti
primarie (i trattati istitutivi e la giurisprudenza della Corte di
giustizia) e secondarie (gli atti delle istituzioni comunitarie). Il
d. dell’Unione può avere efficacia vincolante (regolamenti,
direttive, decisioni) o non vincolante (raccomandazioni, pareri) ed
è dotato di un sistema sanzionatorio e coercitivo che ne
garantisce l’attuazione (la Corte di giustizia). Con riferimento
agli ordinamenti interni, tali norme si pongono su un piano
superiore a quelle degli ordinamenti giuridici degli Stati membri
(per il principio della prevalenza del d. comunitario sul d.
interno). I regolamenti, per il solo fatto della loro emanazione a
livello comunitario, sono direttamente applicabili negli ordinamenti
interni; tale connotato è rafforzato dal fatto che gli Stati
membri hanno trasferito all’Unione, in determinate materie, una
parte delle proprie prerogative e competenze, non potendo più
emanare normative in contrasto con gli atti dell’Unione.
4.4 Il d. internazionale privatoCon tale espressione, coniata dal
giurista americano J. Story (Commentaries on the conflict of laws,
1834), si designa l’insieme delle regole e dei principi che
disciplinano i rapporti giuridici di d. privato (d. delle persone,
d. della famiglia, d. delle successioni, d. dei contratti, d. delle
società) aventi carattere internazionale. Come altre parti
del d. interno dei singoli Stati, anche il d. internazionale privato
può essere oggetto di norme internazionali. Sono tali le
convenzioni di d. internazionale privato, cioè gli accordi
internazionali che fanno obbligo agli Stati di introdurre nel
proprio ordinamento alcune particolari norme di d. internazionale
privato in modo da raggiungere la maggiore uniformità
possibile delle varie legislazioni. Rientrano in questa categoria le
convenzioni dell’Aia del 12 giugno 1902 per i conflitti di legge in
materia di matrimonio, di divorzio e separazione personale, di
tutela dei minori; quella del 17 luglio 1905 sugli effetti del
matrimonio relativamente ai d. e doveri dei coniugi nei rapporti
personali e patrimoniali; le due convenzioni di Ginevra del 7 giugno
1930 e del 19 marzo 1931 concernenti la cambiale e il vaglia
cambiario, l’assegno bancario. Norme internazionali relative al d.
internazionale privato possono essere contenute anche in convenzioni
collettive che, in linea principale, concernono materie diverse dal
d. internazionale privato, qual è per es., con i suoi art. 4
e 5, la convenzione di Ginevra del 23 ottobre 1933 sullo statuto dei
profughi. Alcune materie sono regolate da trattati internazionali
che sono stati elaborati in seno a varie organizzazioni
internazionali, come la Conferenza dell’Aia.
Nell’ordinamento giuridico italiano, le norme fondamentali di d.
internazionale privato sono racchiuse nella l. 218/1995 (di riforma
del sistema italiano del d. internazionale privato), che determina
l’ambito della giurisdizione italiana, pone i criteri per
l’individuazione del d. applicabile a fatti e rapporti che
presentano elementi di estraneità, e disciplina l’efficacia
delle sentenze e degli atti stranieri (art. 1). La struttura tipica
della norma di d. internazionale privato si articola attraverso due
elementi: la norma, che descrive in maniera astratta, cioè
per categorie, i fatti che intende disciplinare; e il criterio di
collegamento , volto a identificare l’ordinamento competente a
regolare un rapporto che presenta carattere di estraneità
rispetto all’ordinamento interno e che il legislatore prende in
considerazione ai fini dell’individuazione dell’ordinamento
straniero da richiamare.
Per quanto concerne il regime di d. internazionale privato dei d.
reali , la l. 218/1995 (capo 8°, art. 51-55) detta un criterio
di collegamento generale, quello della legge del luogo di situazione
della cosa, per disciplinare il possesso, la proprietà e gli
altri d. reali sui beni mobili e immobili (art. 51). La stessa legge
ne regola l’acquisto e la perdita, salvo che in materia successoria
e nei casi in cui l’attribuzione di un d. reale dipenda da un
rapporto di famiglia o da un contratto. L’articolo in questione
conferma, nella sostanza, la disciplina contenuta nella legislazione
precedente (disp. prel. c.c., art. 22). Il criterio della lex rei
sitae è stato scelto dal legislatore italiano al fine di
tutelare i terzi, i quali devono essere messi nelle condizioni di
accertare la titolarità e le prerogative del titolare sulla
base di una legge facilmente individuabile. Tale è
sicuramente la lex rei sitae (altrettanto, invece, non si potrebbe
dire per la legge nazionale del proprietario). Per quanto concerne i
d. reali su beni in transito , l’art. 52 dispone che siano regolati
dalla legge del luogo di destinazione. L’usucapione di beni mobili
è invece regolata dalla legge dello Stato in cui il bene si
trova al compimento del termine prescritto (art. 53). Con
riferimento ai d. sui beni immateriali (proprietà artistica,
letteraria e industriale), si applica la legge dello Stato per il
quale si richiede la protezione del bene immateriale (art. 54). La
pubblicità degli atti di costituzione, trasferimento ed
estinzione dei d. reali è regolata dalla legge dello Stato in
cui il bene si trova al momento dell’atto (art. 55).
5. Profili di storia del diritto
5.1 Le origini del d. nel Vicino e Medio Oriente. - Come attestano
le testimonianze archeologiche, negli imperi babilonese, assiro,
ittita, nonché in regni minori, si sviluppò un’intensa
attività giuridica, che culminò nel 2° millennio
a.C., con l’emanazione di leggi composte da vere e proprie norme,
tra cui le leggi di Ur-numma, il codice di Lipit-Ishtar, le leggi di
Eshnunna, e il famoso Codice di Hammurabi. Si trattava spesso di
norme particolari, che prendevano spunto da casi specifici, mentre
quelle di carattere generale si riferivano per lo più alla
consuetudine. Dai reperti pervenutici, si desume inoltre che, in
materia penale, la vendetta privata coesisteva con la repressione
giudiziaria promossa dai tribunali, e, in alcuni casi, con
l’ordalia. Rispetto a quello delle civiltà mesopotamiche, il
d. egizio appare più flessibile e più legato alla
consuetudine: il supremo giudice e anche gli altri organi
giudiziari, dovevano godere di una certa discrezionalità
nell’affrontare e decidere i casi. Quello biblico, invece, risulta
strettamente legato alla religione, in quanto il suo costituirsi
è preceduto dalla diretta imposizione al popolo, tramite
Mosé, della Tōrāh (legge) da parte di Dio sul monte Sinai, e
tutte le norme, anche quelle che per contenuto possono distinguersi
come ‘giuridiche’, sono accomunate dal fatto di scaturire da una
fonte divina.
5.2 Il d. nel mondo greco e romanoUn notevole apporto allo sviluppo
del d. venne dalla Grecia antica, soprattutto a seguito del
costituirsi della polis, con la distinzione, al suo interno, di tre
‘organi’: l’assemblea dei cittadini, il consiglio e i magistrati.
Oltre alla comparsa dei d. politici legati alla cittadinanza, si
affermò, soprattutto in Atene, un d. costituito da leggi
(nòmoi) votate dall’assemblea, anche se la consuetudine
(àgraphos nòmos, la legge non scritta) continuò
a svolgere un ruolo significativo. In ogni caso, gli atti compiuti
contro la legge erano colpiti con una pena o con una sanzione; e la
sua irrogazione da parte dei giudici poteva essere chiesta con
un’azione del singolo interessato (dike), o da un cittadino
qualunque quando si riteneva che l’interesse violato fosse pubblico
(graphè).
In Grecia il tema della giustizia e della polis fu trattato
soprattutto da un punto di vista filosofico; l’elaborazione
sistematica del d. fu principalmente un prodotto della cultura
romana. E il d. formatosi a Roma, nel corso di 7-8 secoli, a partire
dalla legge delle dodici tavole , fornì a lungo modelli ai d.
europei ed extrauropei. Un primo modello si configurò in
epoca repubblicana, con il ruolo che vennero a svolgere i magistrati
(consoli, pretori ecc.) e in particolare i tribuni della plebe. Un
secondo modello si delineò per opera dell’attività
interpretativa svolta, sulla base della legge delle dodici tavole,
dapprima da esponenti del collegio sacerdotale dei pontefici, poi da
parte delle quaestiones perpetuae (➔ quaestio), infine dai giuristi
(Labeone, Giuliano, Papiniano), i quali, dopo l’instaurazione del
principato e dell’impero, analizzarono le leggi anche come spunto
delle modificazioni introdotte da organi che giudicavano senza
giuria e fuori della relativa procedura (extra ordinem). Il terzo
modello fu impersonato dall’attività del pretore e di altri
magistrati operanti nel campo della giustizia, i quali disponevano
del potere di derogare più o meno ampiamente dal d. vigente,
laddove esso appariva inadeguato alle nuove esigenze sociali.
L’esercizio di tale potere – dapprima legato a casi singoli, poi con
promesse di intervento formulate attraverso editti – portò
alla formazione di un d. parallelo (ius praetorium o ius honorarium)
che si affiancò al ius civile, ossia a quello delle dodici
tavole, arricchito e aggiornato dalla consuetudine, dai giuristi,
dagli sporadici interventi legislativi e poi dalle disposizioni del
senato e del principe. Un ponte tra il ius civile e il praetorianum
fu il ius gentium, o d. comune, applicabile anche agli stranieri, e
derivato in parte dagli usi internazionali e commerciali, in parte
dai pretori, sempre con la guida dei giuristi. Con l’instaurazione
della monarchia assoluta (dominato), e il forte sviluppo della
burocrazia, iniziarono le raccolte dei testi classici, che
culminarono, sotto Giustiniano, con la grande compilazione formata
dal Codice (costituzioni imperiali), dal Digesto (antologia dei
giuristi classici) e dalle Istituzioni (esposizione elementare), cui
poi si aggiunsero le Novelle. Particolarmente importante fu
l’introduzione in Italia, del Corpus iuris civilis come d. vigente,
poco prima dell’invasione dei Longobardi (553); ciò che rese
possibile la rinascita dello studio del d. romano in epoca
medievale. La compilazione giustinianea rappresentò, infatti,
una sorta di cerniera tra l’antichità e il Medioevo: da essa
derivò – attraverso riassunti e compilazioni, con l’aggiunta
di nuovi atti normativi – il d. bizantino, che da Costantinopoli si
sarebbe poi irradiato nei Balcani, e quindi in Ucraina e in Russia.
Soprattutto, la compilazione giustinianea influenzò la
formazione dei d. europei, assieme ai d. dei popoli germanici e al
d. canonico.
5.3 Evoluzione del d. in epoca medievaleDopo la caduta dell’impero
romano d’Occidente e la formazione dei regni germanici si
avviò il processo che, nel corso del Medioevo, avrebbe
portato alla formazione dei d. europei continentali. In Occidente, i
popoli che si impossessarono dei territori dell’Impero avevano
strutture e caratteristiche loro proprie. Fra i Germani il d. aveva
essenzialmente origine consuetudinaria, e queste consuetudini furono
in parte sintetizzate in leggi generali o codici, quali il codice
Euriciano, le leggi romano-barbariche, l’editto di Rotari (643), la
lex Ribuaria dei Franchi orientali. Significativo fu anche il ruolo
svolto dalle consuetudini franche (coutumes). In linea di massima i
sovrani e i signori feudali di vario rango avevano nella loro
giurisdizione potere normativo. Con l’affermarsi dell’Impero
Carolingio prese quindi corpo il regime feudale, fondato sul
vassallaggio e sul sistema delle immunità. Ripreso da Ottone
I, il fondatore del Sacro romano impero, tale regime favorì
il sistema medievale dei due poteri simmetrici, del papa e
dell’imperatore. Più in generale, la debolezza del potere
centrale rese possibile, specialmente in Italia, la conquista da
parte dei comuni di un’autonomia normativa, amministrativa e
giudiziaria, e quindi lo sviluppo di una struttura costituzionale
simile a quella delle antiche poleis, imperniata su tre organi
(magistratura, consiglio, assemblea). Un ruolo analogo ebbero,
soprattutto in Inghilterra, le cosiddette chartae, segnatamente la
Magna Charta, che sancì garanzie giudiziarie e
costituì una importante premessa dell’originale sviluppo
giuridico anglosassone. Nell’Europa continentale, invece, il fatto
più rilevante fu l’imporsi del d. comune (ius commune),
processo in virtù del quale il d. romano giustinianeo venne a
formare la base del d. vigente e generale, in Italia e in gran parte
dell’Europa, fino all’entrata in vigore delle codificazioni moderne.
Alla riscoperta della tradizione romanistica contribuì la
Chiesa, che, nell’elaborare un d. proprio, il d. canonico , aveva
accolto la lex romana come propria lex saeculi, accanto alla lex
spiritualis, e ne aveva valorizzato l’elemento universalistico, in
contrapposizione al principio della personalità della legge.
Decisivo, soprattutto sul piano culturale, fu inoltre l’apporto
della scuola di Bologna, che, dapprima con Irnerio, poi con
Accursio, contribuì grandemente alla riscoperta dei testi
giustinianei, imponendosi come modello per le scuole che andavano
nascendo in Francia, Spagna, Germania. Nell’applicazione pratica,
questa nuova concezione del d. dovette tuttavia misurarsi con gli
ordinamenti particolari e locali che venivano emergendo nella
cornice dell’Impero (disposizioni consuetudinarie, legislative,
giudiziarie, statuti corporativi delle città mercantili,
prime forme di d. commerciale). In linea generale, si affermò
così un orientamento in cui d. romano e d. canonico
costituivano, assieme, il d. comune (ius commune); esso doveva
regolare tutte le azioni umane, temporali e spirituali, e aveva
dunque carattere generale, ma applicazione pratica limitata dai casi
in cui non valeva un ordinamento particolare (ius proprium). La
penetrazione della tradizione romanistica fu più lenta nei
pays de coutumes, dove comunque doveva essersi compiuta nel 16°
sec.; fu invece più rapida in Germania e nel resto
dell’Europa occidentale, dove maturò nel corso di pochi
decenni, tra il 15° e il 16° sec., anche in virtù
dell’intervento diretto dell’imperatore Massimiliano. Un’evoluzione
specifica si delineò invece in Inghilterra, dove la
penetrazione del d. romano si arrestò intorno al 13° sec.
e il processo di unificazione del d. poggiò sulla formazione
della common law , in seguito integrata dall’istituto dell’equity.
5.4 La nascita del d. modernoUna nuova fase si aprì, tra il
15° e il 16° sec., con la nascita degli Stati nazionali e
delle monarchie assolute, che fu accompagnata dall’emanazione di
importanti atti legislativi. In Francia, Luigi XIV emanò una
serie di ordonnances, nel 1667 (touchant l’administration de la
justice), nel 1670 (criminelle), nel 1673 (du commerce) ecc. Altri
atti legislativi notevoli furono la Constitutio criminalis Carolina
(1532), che costituì a lungo la guida del d. penale in
Germania, e gli editti dei principi elettori; la Recopilaciòn
de las leyes de estos Reynos in Spagna (1567), che si
ricollegò alle varie leyes de fuero precedenti; i decreti e
le Costituzioni dei Savoia registrati nella raccolta di Sola
(Commentaria ad decreta antiqua ac nova novasque constitutiones,
1607); nel Regno di Napoli, gli atti normativi raccolti da D.A.
Vario (Pragmatica, edicta, decreta, interdicta regiaeque sanctiones
Regni Neapolitani, 1772). Naturalmente questi e vari altri atti
normativi – che riguardavano in prevalenza il d. e il processo
penale e il d. amministrativo, ma in certa misura anche il privato –
ridussero l’ambito di applicabilità del d. romano comune, ma
in materia di d. privato si riferirono per lo più a punti di
dettaglio e non impedirono che le sue nervature fondamentali
continuassero a essere di origine romanistica. Parallelamente,
l’assolutismo determinò l’istituzione o il rafforzamento
delle Corti supreme, strumento essenziale della giurisdizione
centralizzata, e l’autorità di queste Corti si accrebbe, in
quanto le sentenze pronunziate costituivano precedenti vincolanti e
assumevano praticamente valore di fonte di d., in modo analogo alle
decisioni delle Corti inglesi. Ma un contributo essenziale alla
nascita del d. moderno venne dallo sviluppo delle scuole di d. e, in
modo particolare, dall’affermarsi del giusnaturalismo. In linea di
principio i giusnaturalisti avevano una posizione diversa dalla
tradizione romanistica, anzi quasi antitetica, ma il contenuto delle
loro esposizioni di d. privato era in larga parte desunto dal d.
romano, depurato di quanto appariva eticamente inaccettabile o
storicamente superato e inserito in un quadro sistematico. Con le
loro esposizioni, fondate su una nozione ideale di d., imperniata
sul concetto di d. naturale, i giusnaturalisti contribuirono
all’affermarsi del movimento di opposizione all’assolutismo –
culminato nelle rivoluzioni americana e francese – ma diedero anche
impulso a quel processo di codificazione che si sviluppò
nell’Europa continentale nel corso del 18° sec. e che
culminò nel Code Napoléon. Tali codici si
distinguevano da quelli del passato per la loro sistematicità
e organicità; inoltre, dopo il 1815 essi cessarono di essere
delle creazioni originali, proprie di ciascun paese, poiché
si modellarono sui codici francesi, e in particolare su quello
civile. Così fecero i paesi dell’America Latina resisi
indipendenti dalla Spagna, la Louisiana (1825), l’Olanda separatasi
dal Belgio (1837), l’Italia unita (1865), più tardi la Spagna
(1888-1889). Anche in Inghilterra fu avvertita l’esigenza di una
codificazione, per es. da J. Bentham, ma senza successo; si
emanarono invece, verso la fine dell’Ottocento, numerosi leggi di
vasta portata, fra cui la riforma dell’ordinamento giudiziario, con
l’unificazione delle Corti di common law e di quelle di equity, e la
legge sulla vendita commerciale. Con un certo ritardo, anche la
Germania procedette in questo senso: furono emanati nel 1861 il
Codice di commercio, nel 1870 il Codice penale, e in seguito
l’ordinamento processuale civile; finalmente, dopo la vittoria sulla
Francia di Napoleone III e la fondazione del II Reich (1871), ci si
sentì di porre mano all’elaborazione del Codice civile, il
cui testo definitivo (approvato solo nel 1896 ed entrato in vigore
il 1° gennaio 1900) divenne presto modello dei Codici giapponese
e cinese, di quelli svizzero (1907), brasiliano (1916), greco
(1941), portoghese (1967). Il codice svizzero, a sua volta, fu
assunto a modello del Codice civile turco, fatto emanare negli anni
1920 da Kemal Atatürk, nel quadro della laicizzazione ed
europeizzazione di quell’ordinamento.
5.5 Nuovi orizzonti del d. nell’età contemporaneaDopo la fine
della Seconda guerra mondiale, mentre nei Paesi del blocco
socialista si procedeva nel tentativo di elaborare una diversa
sistemazione del d., ispirata all’ideologia del marxismo-leninismo,
nuovi orizzonti del d. si delineavano in un quadro internazionale
segnato dalla nascita delle Nazioni Unite. Oltre all’esigenza di
consolidare il d. umanitario, si pose quella di conferire una
dimensione internazionale ai d. umani, attraverso dichiarazioni,
convenzioni e appositi istituti. L’Organizzazione delle Nazioni
Unite ha concentrato i propri sforzi principalmente nel campo del d.
pubblico internazionale, il cui sviluppo e progresso sono apparsi
più urgenti per assicurare la pace nel mondo. Ancora in seno
all’ONU, subito dopo la sua costituzione, fu ideato il grande
progetto di una carta che doveva disciplinare una serie di aspetti,
giuridici ed economici, riguardanti il commercio internazionale.
Altri tentativi di unificazione internazionale del d. sono stati
intrapresi per iniziativa di organi internazionali permanenti,
specialmente in materia di d. dei trasporti marittimi (prima con il
Comitato Marittimo Internazionale, poi con l’Organizzazione
Marittima Internazionale), aerei (Organizzazione dell’Aviazione
Civile Internazionale); terrestri (Ufficio Centrale dei Trasporti
Internazionali). Un altro settore nel quale un organismo a carattere
permanente (l’Organizzazione Mondiale per la Proprietà
Intellettuale, erede dei Bureaux réunis) si sforza di
modificare il d. sul piano internazionale è quello della
proprietà intellettuale: diritti d’autore, modelli e brevetti
industriali. Vi sono poi l’Organizzazione Internazionale del Lavoro,
con sede a Ginevra, competente tra l’altro per la formulazione di
testi di convenzioni riguardanti il d. del lavoro, e l’Istituto
internazionale per l’unificazione del diritto privato (UNIDROIT).
Oltre a tutti questi sforzi su scala mondiale, altri ne sono stati
tentati a livello di aree territoriali tra Stati che si sentono
uniti per certi legami, o una tradizione comune, ovvero da interessi
culturali o economici comuni. L’unificazione del d. è stata
frequentemente realizzata mediante un ampliamento del campo di
applicazione del d. federale (Germania, Svizzera); in altri contesti
essa ha potuto essere attuata in larga misura, per determinate
branche del d., attraverso l’opera di giudici preoccupati di
mantenere una certa unità al d. dei loro rispettivi paesi.
Una menzione a sé spetta ai progressi compiuti, pur tra
lentezze ed incertezze, dalle Comunità europee, che hanno
dato vita, con il Trattato di Maastricht del 1992, all’Unione
Europea.
6. Cenni sulla filosofia e la teoria generale del diritto
La riflessione filosofica sul d. ha accompagnato lo sviluppo delle
forme giuridiche fin dall’antichità classica. Il d. apparve
di preferenza ai Greci nel suo aspetto oggettivo, ossia come una
norma di condotta civile derivata dalla natura delle cose, e il suo
fondamento fu visto in un ordine naturale estraneo e presupposto
all’uomo. Tuttavia, già nel 5° sec. a.C. questa
concezione entrò in crisi per il mutamento generale delle
condizioni storiche. Si assistette alla nascita del nòmos,
dell’idea elementare di legge. Al nòmos venne comunque
progressivamente contrapponendosi l’àgraphos nòmos, la
legge non scritta obiettivamente assimilabile alla giustizia, al
concetto di dìke, universale legge divina vincolante per
tutti gli uomini e contestualmente ragione sufficiente di tutti i
particolari ordinamenti giuridici. Dall’età di Solone a
quella di Pericle fu questa la concezione fondamentale del diritto.
In particolare, l’appello alla natura e all’ordinamento che essa
prescriveva ai rapporti umani assunse nella sofistica un significato
polemico contro la convenzionalità delle leggi, e cioè
contro la giustizia dei più e per i più. Ma sarebbe
stato Platone, sulla scorta dell’indagine socratica sull’idea del
giusto in sé, a fondare l’autonomia (nel dialogo Repubblica)
del d. sull’essere universale e trascendente della giustizia,
ponendo così le basi della distinzione, caratteristica di
molte dottrine giuridiche occidentali fino all’età moderna,
tra d. naturale e d. positivo. Nel pensiero di Aristotele il d.
divenne l’anello di congiunzione tra la morale e la politica: il
fine ultimo dello Stato consiste nel garantire, con l’emanazione di
un sistema di regole coattive, un organismo nel quale tutti siano
costretti a comportarsi meglio di quanto farebbero senza coazione.
Una posizione di rilievo assunse anche la concezione del d. propria
dello stoicismo, mirabilmente ripresa da Cicerone (De republica e De
legibus): identificata la natura con la ragione universale immanente
nelle cose, lo stoicismo ammise un solo d., un solo Stato, che
comprendeva tutti gli uomini raccolti nella civitas omnium maxima,
riaffermando con forza l’idea di una legge naturale.
Il d. romano, che inizialmente si ispirò alla dottrina stoica
del d. naturale, ne venne in seguito avvertendo i limiti, avanzando
istanze critiche che lo orientarono verso uno sviluppo più
legato all’esperienza pratica della sua necessità e
utilità per la vita degli individui e della comunità.
Alla concezione speculativa del d. s’interessò invece il
pensiero medievale, di fronte al quale si pose anzitutto il problema
di conciliare la necessità del d. e dello Stato con la
libertà della coscienza religiosa e con i fini della Chiesa
cattolica. Questo motivo fondamentale prese le mosse dalla
concezione di s. Agostino della Civitas Dei, destinata a trionfare
sulla città terrena, e culminò nella dottrina della
legge di Tommaso d’Aquino, secondo la quale dalla lex aeterna, che
è la ragione divina che ordina e governa il mondo, deriva la
lex naturalis, che è la partecipazione imperfetta e limitata
della ragione umana alla prima, nonché termine di riferimento
ultimo per la legge positiva umana, nonostante questa si atteggi in
maniera diversa in base ai luoghi, ai tempi, alle persone. Nella
concezione medievale lo stesso d. soggettivo acquistò un
nuovo valore: l’uomo è soggetto di d. non in quanto è
cittadino di uno Stato, ma in quanto è essere spirituale e
morale, e i suoi d. derivano non dallo Stato ma da Dio, e può
quindi opporsi allo Stato che li violi.
In età moderna, e in particolare tra l’inizio del 17° e
la fine del 18° sec., la riflessione filosofico-giuridica
tornò a svilupparsi intorno alla nozione di d. naturale, che
nel giusnaturalismo assume tuttavia un nuovo valore, in quanto non
è più la via attraverso la quale le comunità
umane possono partecipare all’ordine cosmico, ma una tecnica
razionale della coesistenza. Tale concezione, formulata dapprima da
alcuni giuristi-filosofi (H. van Groot, S. Pufendorf, C. Thomasius),
sarebbe stata in seguito variamente elaborata, su un terreno
più generalmente filosofico, da T. Hobbes, J. Locke, J.-J.
Rousseau, I. Kant. Soprattutto a partire dal 19° sec.
l’influenza teorica del giusnaturalismo iniziò a declinare,
per effetto congiunto dello storicismo tedesco, dell’utilitarismo
inglese e del positivismo francese. In contrapposizione al
giusnaturalismo cominciò quindi a delinearsi una nuova
concezione del d., il giuspositivismo , o positivismo giuridico, che
trovò una prima, significativa formulazione
nell’imperativismo di J. Austin (The philosophy of positive law).
L’affermazione di tale orientamento coincise peraltro con la nascita
della teoria generale del d. , espressione con cui si iniziò
a designare lo studio dei concetti giuridici fondamentali tratti dal
d. positivo e presuntivamente validi per ogni ordinamento giuridico.
Nella seconda metà del 19° sec., il positivismo giuridico
segnò un momento di svolta nell’evoluzione del d., in
particolare in Germania. K.F. Gerber, P. Laband e G. Jellinek si
proposero di applicare al d. pubblico la metodologia elaborata nel
campo del d. privato dalla Scuola storica e dalla cosiddetta
‘giurisprudenza dei concetti’ (Begriffsjurisprudenz), e privarono il
d. della sua carica intrinsecamente politica. In questa accezione,
diveniva fondamentale la coerenza logica del sistema dei concetti,
la cui elaborazione era compito esclusivo della scienza
costituzionalistica. L’esigenza di fondo del giusnaturalismo, quella
di un d. che trascendesse il d. positivo, tornò comunque a
farsi sentire nei momenti di grave crisi morale e sociale,
segnatamente nel secondo dopoguerra. Negli stessi anni, tuttavia,
attraverso l’opera di H. Kelsen si delineò anche quella che
può essere considerata come la più rigorosa teoria del
giuspositivismo, il normativismo . Rivendicando il proprio carattere
scientifico e anti-ideologico, esso ha assunto a oggetto di indagine
la norma, intesa non come imperativo di una volontà sovrana,
ma come struttura logica, giudizio ipotetico ostensibile in ogni
aspetto dell’esperienza dei rapporti interindividuali. Occorre
infine ricordare che, fin dalla seconda metà dell’Ottocento,
al giusnaturalismo e al giuspositivismo si sono contrapposti diversi
orientamenti, che la teoria generale del d. ha raggruppato sotto
l’espressione giusrealismo .
*
Enciclopedia del Novecento (1977)
Diritto
di Bruno Paradisi
sommario: 1. Considerazioni preliminari. 2. Distinzione nella
trattazione del diritto nel XX secolo. 3. Rapporto tra morale e
diritto. 4. Il positivismo giuridico. 5. Hans Kelsen. Critica alla
teoria di Ehrlich. 6. La ‛teoria pura del diritto'. 7. Importanza
della Scuola storica per il positivismo giuridico moderno. 8. La
dottrina giuridica francese nel Rinascimento. 9. Importanza della
Seconda Scolastica. 10. Hobbes, Kant e Hegel. □ 11. Importanza del
diritto romano. 12. La reazione al diritto comune. Leibniz. 13. La
‛giurisprudenza dei concetti'. 14. Il problema dell'interpretazione.
15. La Scuola esegetica. 16. Jhering e la ‛giurisprudenza degli
interessi'. 17. Rapporto tra il diritto e la società. 18.
Stato e società. 19. Il movimento del diritto libero. 20. La
sociologia giuridica. 21. La dottrina di F. Gény. 22. La
teoria dell'istituzione e il realismo giuridico. 23. Altre teorie.
Stammler. 24. Marx e il diritto. 25. Gentile. 26. Il pensiero
tedesco dopo la prima guerra mondiale. C. Schmitt. 27. Il pensiero
americano. R. Pound. 28. Il ‛realismo scandinavo'. 29. Conclusione.
□ Bibliografia.
1. Considerazioni preliminari
Una trattazione che si proponga di esporre le linee essenziali del
pensiero del sec. XX intorno al diritto esige qualche considerazione
preliminare. Quel pensiero ha proseguito infatti nel tentativo
millenario di cogliere l'essenza della giuridicità,
aggredendo il problema da posizioni straordinariamente numerose e
dandone perciò soluzioni profondamente diverse. Il pensiero
del nostro secolo ha continuato nella tormentosa ricerca di una
rappresentazione, qualificazione e definizione di ciò che
chiamiamo diritto, obbedendo, non meno di quanto si è sempre
fatto nel passato, a due distinte sollecitazioni. Da un lato esiste
in ogni operazione del pensiero un aspetto che si collega e dipende
dalla tradizione del pensiero anteriore, un'eredità della
cultura da cui nessuno è in grado di prescindere. Anche nei
tentativi di dare una risposta al quesito: ‟che cos'è il
diritto", il pensiero moderno ha costruito servendosi di materiali
già esistenti, sia che li abbia accolti integralmente, sia
che li abbia modificati. Ma dall'altro lato ha obbedito alle
condizioni storiche del nostro tempo, che non sono soltanto quelle
rappresentate dallo stato della politica, dell'economia e degli
ordinamenti giuridici, ma anche, come ogni espressione del pensiero,
dal dramma che lo spirito dell'uomo vive vivendo la sua drammatica
libertà. Una cosa può dirsi con certezza: il problema
del diritto è onnipresente nella storia del pensiero, come
affermazione o come negazione della sua validità, come
certezza in qualche cosa di obiettivamente esistente o come
un'apparenza che maschera realtà diverse; ed è quindi
sempre una misura, una dimensione della vita intellettuale, che
attraverso il diritto attribuisce alla vita individuale come a
quella della società determinati valori, sia che alla norma
giuridica associ la norma morale, sia che le separi l'una
dall'altra, sia infine che annulli la prima in nome di diversi
valori.
Ma se poi vogliamo sapere in che cosa consista quella misura, quella
dimensione, allora ci troviamo di fronte a risposte diverse e spesso
opposte. Il diritto è una creazione della mente umana o
è invece l'ordine inerente alle cose e le cui origini e
natura sfuggono all'uomo o vengono imputate a un principio superiore
e imperscrutabile? Come creazione dell'intelletto e come ordine
obiettivo esso può avere natura razionale; ma può
anche essere frutto della volontà; può essere
organizzazione prima che norma e norma prima che organizzazione;
può essere comando o invece giudizio ipotetico; vivere
soltanto nella storia o invece nella sola ragione; essere frutto di
una logica matematica o soltanto di una logica probabile; essere
pura forma o contenere sempre uno scopo; essere coazione o
libertà; insieme di regole esistenti nella natura o nella
mente dell'uomo, o norme derivanti dalla volontà dello Stato;
identificarsi con la politica od opporsi a essa.
Noi qui ci proponiamo non di risolvere il problema filosofico di che
cosa sia il diritto, ma di considerare in qual modo a quel problema
sia stata data risposta nel nostro secolo; di comprendere
cioè che cosa abbia rappresentato l'idea del diritto per il
pensiero contemporaneo e nello stesso tempo quale sia l'importanza
assunta dal diritto nella società del Novecento. Noi dobbiamo
assumere quindi la posizione di chi voglia comprendere quanto
è avvenuto e avviene nel pensiero contemporaneo circa il
valore e la natura da attribuirsi al diritto, e non quella di chi
voglia risolvere per proprio conto quel problema. Questo in altre
parole significa che intendiamo qui assumere l'atteggiamento dello
storico e non quello del filosofo.
Questa posizione storica non è però una posizione di
agnosticismo. L'opzione che, scegliendola, si compie ha pure un
significato, che è quello di riconoscere implicitamente il
mutamento delle opinioni intorno al diritto e che invita a ricercare
le ragioni di questo mutare del pensiero. Nella posizione di chi si
proponga di esaminare storicamente e non di ridiscutere teoricamente
le idee intorno alla natura del diritto c'è la persuasione
che tra quelle idee e l'ambiente storico nel quale sono state
espresse corra un nesso. Questo rapporto non consiste certo in una
relazione di causa e di effetto tale che a una certa situazione
concreta corrisponda una determinata espressione del pensiero.
Tuttavia quel pensiero opera liberamente nell'ambito di una
determinata realtà; e tra tale realtà e il pensiero
corre un rapporto che è, appunto, un rapporto storico.
Se vogliamo dunque comprendere non soltanto quale sia il senso che
di volta in volta la speculazione ha attribuito al diritto, ma
vogliamo anche penetrarne le ragioni, dobbiamo non solo esaminare in
che modo il ragionamento intorno al diritto si sia sviluppato, ma
anche quali siano state le condizioni obiettive nelle quali tale
svolgimento ha avuto luogo. Se l'idea che possediamo del diritto
è, nonostante la trasmissione che la cultura ha operato
dell'antico retaggio speculativo, diversa da quella che se ne ebbe
nella Grecia antica, in Roma o nell'età medievale, ciò
dipende dalle capacità creative dell'intelletto umano, ma
anche dal fatto che tale intelletto ha operato sul fondamento di una
diversa realtà ed esperienza. Il diritto è per noi
distinto dalla morale; è un prodotto puramente umano e
destinato agli uomini; il suo scopo è di regolare la vita
associata; può essere considerato sotto l'aspetto subiettivo
e obiettivo; e l'ideale che se ne abbia assume un significato
soltanto se venga riferito a un determinato tempo e luogo. Ma il
modo di pensare il diritto e di metterlo in relazione con la
realtà, o con la sua rappresentazione, non è stato
sempre questo. Possiamo anzi dire che esso è stato di volta
in volta diverso a seconda delle caratteristiche assunte dalla
civiltà, dalle condizioni materiali della vita non meno che
dalle costruzioni dell'intelletto. Ciò nondimeno,
nell'immensa varietà delle circostanze, è dato di
notare una certa affinità nelle grandi risposte che l'uomo ha
dato alla problematica che esse di volta in volta hanno proposto.
Sono queste affinità che creano una specie di consonanza tra
il presente e il passato e la possibilità stessa che l'uomo
ha di collegarsi al passato e d'intenderlo. Cosicché
nell'eterna creazione che lo spirito ha prodotto intorno al problema
di che cosa sia il diritto e come esso possa assolvere al suo
compito di regolare l'esistenza degli uomini, v'è pure
qualcosa che lega tra loro l'una all'altra le soluzioni diverse, una
parentela ideale tra i diversi modi d'intendere e di giudicare.
Tener presenti le teorie del passato per meglio comprendere quelle
attuali sarà dunque una via che seguiremo costantemente,
persuasi che l'intendimento delle seconde sia possibile soltanto con
l'aiuto delle prime. Qui però dobbiamo aggiungere un altro
avvertimento. Quando, a proposito del problema specifico del
diritto, abbiamo avvertito delle affinità tra le costruzioni
intellettuali e le situazioni storiche del passato, non abbiamo
inteso comprendervi quelle che si attuarono nel secolo scorso. Tra
il sec. XIX e il nostro, per quante differenze possano intercorrere,
i legami sono così stretti che sarebbe impossibile parlare
delle dottrine intorno al diritto espresse nell'epoca da noi vissuta
senza fare continuo ricorso a quelle dell'età che ci ha
immediatamente preceduto.
2. Distinzione nella trattazione del diritto nel XX secolo
Se dunque si getti uno sguardo sulla trattazione dei sommi problemi
che intorno al diritto sono stati agitati nel Novecento si
dovrà riconoscere una distinzione che ne divide il campo in
due grandi settori, non meno di quanto era già avvenuto nel
secolo scorso. Da un lato v'è una concezione del diritto come
composto di norme e, per lo più, di norme consistenti in atti
di volontà dello Stato; dall'altro si contrappone allo Stato
la società e il diritto si concepisce come l'immediata
proiezione del ‛fatto' sociale. La prima è un'idea ‛formale'
del diritto, che si propone la sua essenza come il prodotto di un
esercizio puramente razionale, indipendentemente dal rapporto tra il
diritto e la realtà sottostante. La seconda, invece,
concepisce il diritto come una idea ‛reale', nella quale la
traduzione del fatto in espressione giuridica precede logicamente la
norma.
La concezione ‛formale' del diritto è l'immediato prodotto
dell'età liberale e dello stadio del diritto codificato. Ma
ha una storia molto più lunga e le sue radici partono di
lontano. Poiché senza scoprire quelle radici l'idea che ci si
può fare di quel movimento di pensiero è solo parziale
ed è destinata in sostanza a rimanere oscura, a esse si
farà allusione; non senza però aggiungere che la
distinzione che si è or ora ricordata ha anche un altro
aspetto, che però non coincide perfettamente col primo e deve
perciò essere rilevato separatamente. S'intende qui alludere
all'idea che il diritto positivo abbia come suo costante modello un
altro diritto, immutabile e sottratto all'arbitrio al quale invece
quello sarebbe soggetto; contrapposta all'altra che vede nel diritto
positivo l'unico diritto valido. Si deve anche avvertire che queste
due distinzioni, che qui si adducono per chiarezza, costituiscono
soltanto una schematizzazione che, se consente di raggruppare vari
movimenti del pensiero giuridico sotto alcuni criteri fondamentali,
è ben lungi dal contenerne la complessa varietà di cui
il pensiero giuridico del sec. XX, e del XIX che gli è
intimamente legato, si compone.
Quella concezione formale del diritto, che ha preso anche il nome di
‛positivismo giuridico', è a sua volta connessa con la
formazione e la maturità dello Stato nazionale in Europa, e
in particolare con la formazione e la maturità dello Stato
nazionale tedesco nel corso del sec. XIX. Ma a sua volta è
impossibile comprendere la portata di quel fatto storico e la sua
importanza nei confronti del pensiero giuridico e delle costruzioni
alle quali tale pensiero diede luogo, se non si consideri lo stretto
legame, di accettazione e poi di negazione, che unì gli
sviluppi della scienza giuridica e della filosofia tedesca
all'illuminismo e alla Rivoluzione francese.
3. Rapporto tra morale e diritto
Il grande problema del rapporto tra la morale e il diritto, che
aveva così a lungo affaticato le menti, fu genialmente
formulato e risolto da Immanuel Kant nella Metafisica dei costumi,
che è del 1797. La grande ventata rivoluzionaria, che aveva
mutato il volto della Francia, andava concludendo il suo ciclo; e le
sue ripercussioni si diffondevano per l'Europa suscitandovi, accanto
a speranze e a fermenti politici, un nuovo modo d'intendere il
diritto e l'eterna questione della libertà individuale e
dell'autorità dello Stato. Questa questione doveva
risolversi, prima ancora che nella determinazione dei limiti
rispettivi tra lo Stato e l'individuo, in quella, di più
profonda e vasta portata, dei rapporti tra norma etica e norma
giuridica. Appunto il generale carattere normativo che le riuniva
entrambe aveva lungamente esercitato il suo influsso, trascinando la
morale sul terreno del diritto o pretendendo di cancellare ogni
differenza tra loro confondendoli insieme. Il Kant pose a fondamento
della legge morale il dovere per se stesso e a fondamento della
legge giuridica un impulso diverso, cioè la semplice
conformità alla norma. Inoltre il dovere morale è
interno al soggetto, il dovere giuridico è esterno; e la
volontà giuridica è eteronoma, mentre quella morale
è autonoma. In un rapporto giuridico l'‛arbitrio' di un
soggetto deve essere in relazione con quello di un altro soggetto,
ma in ciò ha rilievo soltanto la ‛forma' e non il contenuto
dell'arbitrio.
Che la natura del diritto sia stata definita dal Kant partendo dalla
distinzione dalla morale e che la sua definizione (‟il diritto
è l'insieme delle condizioni per le quali l'arbitrio di
ognuno può accordarsi con l'arbitrio degli altri secondo una
legge universale di libertà") abbia a fondamento una legge
universale di libertà anziché prender le mosse
dall'autorità dello Stato, è già un indizio
eloquente che la sua concezione era ancora saldamente ancorata agli
ideali del giusnaturalismo. La libertà era l'unico diritto
innato; e lo Stato, sorgente, come per il Rousseau di cui certo il
Kant senti l'influsso, da un contratto sociale, era non il padrone
dispotico di cui l'assolutismo illuminato aveva disegnato
l'immagine, ma invece il garante della libertà di ognuno e di
tutti, modello dello ‛Stato di diritto' che costituirà il
grande motivo della scienza tedesca del diritto pubblico e che
troverà la sua espressione politica fin dal 1792 in una
celebre operetta giovanile di Karl Wilhelm von Humboldt, scritta
sotto l'influsso del Mirabeau: Ideen zu einem Versuch, die Grenzen
der Wirksamkeit eines Staates zu bestimmen.
Il diritto naturale, di cui il Kant confermava così la
funzione essenziale e che egli chiamò ‟diritto privato", era
costituito dai diritti soggettivi, a loro volta fondati sul
principio, che costituisce un postulato, che gli oggetti esterni
sono potenzialmente suscettibili di possesso da parte di un
soggetto. Per questa via il Kant riaffermava la validità dei
diritti soggettivi e la loro indipendenza dal ‛diritto pubblico',
cioè, secondo la sua terminologia, dal diritto positivo
promanante dallo Stato. Si ha quindi nella dottrina kantiana
un'ulteriore determinazione del diritto naturale e del diritto
positivo come corrispondenti rispettivamente alla ‛società
naturale' e alla ‛società civile', che costituisce un altro
passo verso quella futura distinzione tra la ‛società' e lo
‛Stato', corrispondente a un gruppo di dottrine che mirarono nel
sec. XIX e nel XX a una limitazione del monopolio dello Stato nel
campo del diritto (v. sotto). Ma preme qui rilevare come quel
‟diritto privato" kantiano fosse un diritto fondato esclusivamente
sulla ragione. Principio, anche questo, che era il punto d'arrivo di
una lunghissima storia e anche un aggancio per sviluppi ulteriori.
Che l'ordine dovesse coincidere con la ragione e che il diritto, in
quanto ordine, non potesse non essere razionale, era pensiero
antico. È mediante la ragione, esaltata dalla Scuola stoica e
che Cicerone riecheggia, che l'idea del diritto fa il suo ingresso,
anche nel mondo romano, in quella sfera spirituale che già
Platone aveva annunciato e che sarà da allora tanto spesso
unita al diritto. Nell'ordine delle cose l'uomo entrò come
partecipe di una ragione universale e provvisto di un proprio
diritto, che lo rendeva uguale a tutti i suoi simili. E
poiché l'affermazione della natura dell'uomo, della
uguaglianza di ciascun uomo con l'altro, aveva distrutto idealmente
ogni frontiera politica, la legge naturale divenne il modello
universale della legge positiva. Cominciò dunque da allora ad
apparire e ad esercitare la sua funzione sul diritto positivo
quell'eterno modello, cui si ispirarono non soltanto le ideologie e
le filosofie, ma anche trassero argomento di conforto e forza le
rivoluzioni, che affermavano a propria giustificazione un diritto
non stabilito dagli uomini, ma da Dio o dalla ragione, espresso
dall'ordine naturale delle cose. A quella stessa fonte si
confortarono però anche i diritti consolidati e il
legittimismo, che rovesciarono i termini nei quali si riconoscevano
i movimenti sovvertitori e sostennero l'ideale della
stabilità politica e del diritto delle classi dominanti
appunto con le leggi della natura.
Cicerone fu, anche sotto questo riguardo, il grande intermediario
del pensiero greco nel mondo romano e nel medievale. L'esigenza
etica dominò in tal modo la sua concezione della legge che
egli arrivò a concepirla come identica alla ragione; alla
ragione insita nell'ordine naturale e presente appunto nell'uomo
come parte di quell'ordine dell'universo: ‟lex est ratio summa,
insita in natura, quae iubet ea quae facienda sunt, prohibetque
contraria. Eadem ratio, cum est in hominis mente confirmata et
perfecta, lex est" (De leg. I,6,18). Comando e proibizione si
identificavano dunque in questa definizione con lo stesso modo di
essere della natura; e la ragione soddisfaceva a un'esigenza etica e
l'etica si poneva come un limite alla volontà dello Stato. Il
diritto naturale, che ancora una volta scaturiva da questa dottrina
ciceroniana, era il punto d'incontro tra la morale e il diritto; una
morale, appunto, nella quale quella mente romanamente educata faceva
larga parte all'aspetto giuridico, fino al punto da riconoscere
quanto poi alcune dottrine moderne hanno sostenuto, l'esistenza di
un diritto anche fuori dello Stato e perfino nelle società
illecite. Ma lo Stato si innalzava al di sopra di ogni altra
società per questo, che in esso si attuava il diritto; e
Cicerone intende qui quel diritto conforme a giustizia, essendo
appunto la giustizia il centro della sua dottrina intorno a
ciò che è ius, attuazione dell'aequitas. Così
l'idea della legge giusta e della legge ingiusta, del diritto e
dell'arbitrio, che pure poteva assumere l'aspetto esteriore del
diritto, si faceva strada. E da un lato si aprivano alla concezione
del diritto amplissimi ed essenzialissimi campi per la vita
dell'uomo; ma dall'altro, in un ambiente nel quale lo sforzo della
giurisprudenza era stato diretto a distinguere il diritto in senso
proprio e tecnico, cioè quanto si direbbe oggi diritto
positivo, dalle norme della religione e della morale, si riconduceva
questo diritto a una fondamentale esigenza etica. Bisognerà
arrivare fino al Tomasio (1655-1728) e soprattutto, come s'è
visto, a Kant, perché a una distinzione tra diritto e morale
si tornasse, non sul fondamento dell'accettabilità della
legge positiva come avente un valore autonomo al pari della politica
(il che sarà poi in effetti affermato e diverrà uno
dei cardini del pensiero giuridico moderno), ma su quello di una
sottile distinzione dipendente dall'intendimento della norma da
parte del soggetto.
Che il diritto si distinguesse dalla morale per la semplice
conformità alla norma è, tra le proposizioni della
filosofia kantiana, quella destinata a esercitare un influsso
determinante nella dottrina giuridica del sec. XIX e del nostro. E
ciò perché tale proposizione offriva un fondamento
speculativo alla scienza del diritto che suol dirsi ‛positivismo
giuridico', con un'espressione certamente del tutto inadeguata a
indicare il complesso e proteiforme indirizzo del pensiero che
corrispose alla costruzione dello Stato nazionale dell'Ottocento e
alla polemica che la cultura di quel momento storico rivolse in
vario modo al giusnaturalismo dei secoli precedenti.
Così la polemica del pensiero giuridico positivistico prese
le mosse dalla distinzione tra diritto e morale, sul presupposto in
sostanza non dimostrato che il diritto fosse soltanto il diritto
promanante dallo Stato e relegando su tale fondamento il diritto
naturale nella sfera dell'eticità. Questa posizione assunta
dal positivismo giuridico non si fondava però su una
dimostrazione filosofica, ma su una giustificazione politica e
storica, che aveva le sue lontane premesse nell'Hobbes e
nell'empirismo inglese, nel ‟verum ipsum factum" del Vico e
nell'utilitarismo del Bentham, e, in ultima analisi, nel grande e
vario movimento di pensiero che per secoli identificò il
diritto con la norma e la norma con un atto di volontà.
In tal modo venivano definitivamente rovesciati i termini secondo i
quali una lunga età della civiltà aveva prospettato la
natura del diritto, la sua funzione e le sue fonti. Non più,
come era già avvenuto nel Medioevo sotto l'influsso del
pensiero cristiano, una visione dualistica del diritto, da un lato
concepito come complesso di principi trascendenti, fossero essi
consistenti nelle norme del ius divinum o del ius naturale,
dall'altro di norme stabilite dalla volontà dei potenti, e in
primo luogo del papa e dell'imperatore, il ius positivum, secondo
un'espressione che il grande Abelardo (1079-1142) aveva assunto
probabilmente dal commento di Calcidio al Timeo platonico. Non
più dunque una gerarchia delle fonti del diritto,
corrispondente alla concezione essenzialmente gerarchica che il
Medioevo, ereditandola dall'età antica, aveva nutrito ed
esteso dalla realtà politica a tutti i valori. E neppure
più quella concezione ‛giuridica' di tutto quanto attenesse
alla disciplina dell'uomo, la norma essendo il concetto determinante
e la morale e il diritto potendo, sul comune fondamento normativo,
scambiarsi i loro contenuti. Nel diritto cessò di esistere
quella distinzione tra diritto eterno e immutabile e diritto
temporale e mutevole che era stata formulata dal pensiero della
Chiesa e che era divenuta uno dei cardini della dottrina
canonistica. Il sistema dei poteri universali e della metafisica
teologica cessò insieme di essere la guida delle azioni e del
pensiero umani. Al loro posto si erano andati sostituendo a poco a
poco altri valori. Il processo era cominciato per tempo, in quella
meravigliosa età medievale la cui ricchezza non finisce mai
di stupire l'osservatore moderno. E aveva preso le mosse appunto
dalla considerazione del problema della norma. L'ordine naturale
poteva essere considerato o l'espressione di una ragione universale
o la proiezione della legge. Inoltre il problema della norma poteva
essere prospettato o sotto il profilo generale di una volontà
divina rivolta all'ordine del creato o sotto quello di una norma
della condotta che non poteva non riferirsi che all'uomo.
Così dalla generale concezione giuridica del mondo, che
costituiva il fondamento della stessa teologia, si andò
differenziando una concezione del diritto riferita esplicitamente al
comportamento umano.
Questa riscoperta del valore umano del diritto, oggetto di una
speculazione filosofica che lo distingueva dalla fede nella legge
divina, fu provocata dai semi fecondissimi del pensiero aristotelico
e formulata, nel quadro di una tripartizione del diritto naturale e
in nome del libero arbitrio, da Alberto Magno (1193-1280). Ma questa
umanità del diritto non poteva essere giustificata da Alberto
che con la ragione umana, e non con una dimensione indipendente
dell'attività politica, che fu una conquista del
Rinascimento, e tanto meno con l'idea dell'utilità, che fu
propria della prima età industriale. L'antico principio
‟princeps legibus solutus", che è costantemente presente
nella storia dell'autocrazia, venne assunto ancora una volta come
rappresentativo di una concezione politica della legge, che non
conteneva più una ragione etica o metafisica e non doveva
necessariamente corrispondere alla giustizia, ma all'utilità
di cui solo giudice era il sovrano. Questo riconoscimento aperto
della ragione meramente pratica del diritto segnò a partire
dal Rinascimento gran parte del pensiero moderno e fu più
volte teoricamente formulato, dalla giustificazione che ne diede
Enea Silvio Piccolomini (il futuro Pio II; 1405-1464) alla scepsi
del Machiavelli, per il quale il diritto era divenuto una mera
parvenza di fronte all'autonomia dell'attività politica.
4. Il positivismo giuridico
Il positivismo giuridico fu l'erede di tutto questo travaglio
storico, nel quale l'idea del diritto e la trasformazione delle
istituzioni, le condizioni materiali dell'attività umana e le
costruzioni della filosofia sono ugualmente comprese. Lo Stato
dunque, lo Stato sovrano, particolare e, secondo la vocazione del
sec. XIX, nazionale, dominò la scena. E il suo dominio nel
campo del diritto avvenne secondo quanto era più intuibile e
plausibile, vale a dire come fatto storico da ricondursi alla
politica, anzi all'affermazione dell'attività politica come
potenza. Il volto demoniaco del potere, secondo il titolo di
un'opera di G. Ritter, si era svelato nel Machiavelli, ma si era
rivestito di dignità nell'Ottocento, che sembrò averne
accolto soltanto gli elementi positivi, consistenti nella scoperta
di un'attività umana autonoma nei confronti di qualsiasi
giudizio morale, ma che avrebbe pur dovuto trovare la sua misura
nell'equilibrio del giudizio e nella moderazione dell'azione. Lo
Stato era perciò divenuto la fonte del diritto; e gli stessi
diritti subiettivi erano entrati a far parte integralmente del suo
ordinamento positivo senza residui, trasformandosi così da
diritti inalienabili e inviolabili in una concessione politica, che
lo Stato avrebbe sempre potuto modificare.
Lo Stato era dunque, in quanto organismo politico, dotato di un
potere non dipendente da alcun altro o, come anche si dice,
‛originario': e la sua sovranità fu intesa come l'espressione
di questa sua assoluta indipendenza e autonomia, fino al punto da
misconoscere qualsiasi norma che ne regolasse la convivenza con gli
altri Stati. Non si parlò più, da parte della dottrina
giuspubblicistica tedesca, i cui principali rappresentanti furono il
Laband e il Jellinek, di diritto internazionale, una nozione questa
troppo idealmente collegata con il diritto naturale, ma di ‛diritto
pubblico esterno', cioè di una proiezione della
sovranità dello Stato, che regolava la sua azione politica
verso gli altri Stati in ossequio alle norme giuridiche che esso
aveva stabilito a se stesso. Ma era fin troppo facile osservare che,
se l'unico diritto era quello dello Stato e se, come è
implicito in tale affermazione, il diritto statuale poteva
perciò esser sempre modificato dalla stessa volontà
che l'aveva sancito, il ‛diritto pubblico esterno' non avrebbe
costituito limite alcuno all'arbitrio dello Stato in campo
internazionale. La tragica dimostrazione di questa verità si
ebbe nelle due guerre mondiali e nei numerosi altri conflitti che,
se propriamente mondiali non furono per la partecipazione attiva di
un gran numero di potenze, lo furono però per le loro
conseguenze e che tutti insanguinarono il nostro mondo. Il
positivismo giuridico fu coinvolto in questi eventi, che ne
dimostrarono meglio di ogni teoria le debolezze e i limiti e che
provocarono un parziale ritorno al diritto naturale un po'
dappertutto ma, dopo il secondo conflitto mondiale, specialmente in
Germania, dove fu invocato non soltanto nella dottrina ma nelle
corti di giustizia. Lo stesso processo di Norimberga propose
angosciosi interrogativi circa la validità dell'ordinamento
statuale vigente e la possibilità di un ricorso a principi
universali e trascendenti nel caso di crimini che offendessero
l'umanità nei suoi valori essenziali.
Torniamo comunque alle origini del positivismo giuridico,
considerato, pur nei suoi vari aspetti, come lo sforzo per negare al
diritto naturale ogni validità sul piano giuridico e
confinarlo nella sfera della moralità. Dei vari suoi aspetti
e di come essi si vennero svolgendo dal secolo scorso al nostro in
un complicato intrecciarsi di influssi e teorie parleremo di volta
in volta, cercando di dipanare l'intrico per renderlo intelligibile.
Ma intanto si dirà che, conformemente all'aspetto statuale
che esso assunse e sul quale, come abbiamo visto, fondò la
sua giustificazione, il positivismo giuridico concepì il
diritto come munito di sanzione. La coercibilità era
già stata indicata infatti dal Kant come un carattere
inseparabile del diritto, perché soltanto così esso
avrebbe potuto adempiere alla sua funzione di attuazione e di difesa
della libertà posta come legge universale. L'altezza di una
simile formulazione, che riconduceva in una sfera di eticità
il diritto dopo averlo separato dalla norma morale, rimase in
sostanza estranea alle dottrine del positivismo giuridico, che si
proponevano soprattutto di definire i caratteri del diritto come
scienza autonoma. Del resto, che la coazione fosse una componente
essenziale del diritto fu sostenuto in un ambiente non influenzato
dalla filosofia kantiana, come l'Inghilterra tra la fine del XVIII e
la prima metà del XIX secolo. Così il Bentham e il
Paley, e poi l'Austin, la massima figura di giurista inglese di quel
periodo, per quanto egli ribattesse al Paley, con una certa
incoerenza, che la forza determinante della sanzione non era
proporzionale alla sua intensità.
5. Hans Kelsen. Critica alla teoria di Ehrlich
Di fronte a tali teorie formulate dalla ‛giurisprudenza analitica'
si levò la voce di un giurista austriaco che è
considerato l'iniziatore dell'indirizzo secondo il quale il diritto
non è il prodotto dello Stato, ma della società, e sul
quale dovremo ritornare. L'Ehrlich sostenne giustamente che la
determinazione della condotta individuale non dipende normalmente
dalla sanzione di cui la norma è munita, ma da altre
motivazioni di diversa natura. I doveri del padre, del figlio, del
marito, della moglie, del debitore e così via non vengono
adempiuti per la coazione psicologica della sanzione, ma per
considerazioni di carattere sociale, come la propria reputazione, o
economiche, come la perdita della clientela, o familiari, che nulla
hanno a che vedere con la coercizione.
Tuttavia anche questo ragionamento conteneva un errore che fu
rilevato da quella che può essere considerata una delle
maggiori figure della scienza giuridica del nostro secolo. Massima
espressione della scuola neokantiana, Hans Kelsen notò a
proposito della tesi dell'Ehrlich che è ben vero che gli
individui soggetti all'ordinamento giuridico non si regolano in
conformità con questo per evitare la sanzione, ma che tale
osservazione riguarda appunto il comportamento dei soggetti e non
gli elementi che servono a distinguere il diritto da ogni altro tipo
di sanzione. Bisogna cioè distinguere tra i motivi effettivi
del comportamento degli individui e il contenuto dell'ordinamento
giuridico, cioè la sua tecnica particolare. ‟Ciò che
distingue l'ordinamento giuridico da tutti gli altri ordinamenti
sociali è il fatto che esso regola il comportamento umano per
mezzo di una tecnica specifica. Se ignoriamo questo elemento
specifico del diritto, - afferma il Kelsen - se non concepiamo il
diritto come una specifica tecnica sociale, se definiamo il diritto
semplicemente come ordinamento od organizzazione, e non come un
ordinamento (o un'organizzazione) coercitivo, perdiamo allora la
possibilità di differenziare il diritto dagli altri fenomeni
sociali; identifichiamo allora il diritto con la società, e
la sociologia del diritto con la sociologia generale" (v. Kelsen,
1945; tr. it., p. 26).
La critica coglie nel segno e investe la problematica di una parte
molto importante del pensiero giuridico contemporaneo. Esamineremo
in seguito questo aspetto. Ma fin d'ora possiamo dire che l'aver
identificato la società, o l'organizzazione, col diritto,
attribuendo a tale entità una natura giuridica prescindendo
dall'aspetto normativo, costituisce il lato debole di una dottrina
per tanti lati così significativa per la vita sociale dei
nostri giorni. Tuttavia la stessa teoria del Kelsen non può
essere accolta senza critica. Essa appartiene a quella parte del
pensiero giuridico che, dal secolo scorso al nostro, si è
sforzata di attribuire al diritto il carattere di scienza autonoma.
Come tale, la teoria del Kelsen si riconnette alla costruzione
operata nel secolo scorso dalla pandettistica tedesca e alla
‛giurisprudenza dei concetti' (Begriffsjurisprudenz), ed è
l'ultimo prodotto di una pianta che ha le sue lontane radici
nell'applicazione seicentesca e settecentesca della logica
matematica al diritto, che ebbe il suo massimo rappresentante nel
Leibniz. Queste origini sono indicate, in primo luogo, dalla
concezione del diritto come ‛sistema' logico discendente dalla
considerazione della norma, che è il fulcro del pensiero del
Kelsen e che indica non già un'organizzazione puramente
esteriore alla materia giuridica, o una sistemazione soltanto
classificatoria, ma appunto un'organizzazione dei concetti
rispondente alla logica formale di origine matematica. Il diritto,
per essere scienza, deve essere logicamente autonomo; deve
cioè trovare in se stesso, in quanto sistema normativo, i
propri fondamenti. Questa è la ‛teoria pura del diritto', un
prodotto del pensiero europeo continentale perché legato per
più rispetti ai sistemi positivi codificati, ma che tuttavia
mostra non poche affinità con la ‛giurisprudenza analitica'
proposta in Inghilterra soprattutto dall'Austin.
6. La ‛teoria pura del diritto'
La ‛teoria pura del diritto' si poneva dunque al di fuori di ogni
considerazione storica, fuori quindi di ogni prospettiva politica,
economica ed etica. Che non si trattasse di un'espressione di
pensiero isolata e indipendente dall'epoca nella quale fu formulata
è dimostrato, tra l'altro, dall'opera di un altro
neokantiano, R. Stammler, e soprattutto dal suo Lehrbuch der
Rechtsphilosophie, che è del 1911, lo stesso anno degli
Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, l'opera fondamentale del
Kelsen. Il pensiero dello Stammler, specialmente nell'altro suo
scritto Wirtschaft und Recht nach der materialistischen
Geschichtsauffassung (1896), conteneva una polemica con il
materialismo dialettico di Marx e di Engels. Così la Reine
Rechtslehre si proponeva, per opera dei suoi due maggiori
rappresentanti, come dottrina di contemplazione apollinea del
diritto, della sua essenza e della sua struttura, quale poteva
essere consentita in un'epoca che, anteriore al primo grande
conflitto mondiale, poteva anche sembrare alla classe dominante
un'era di stabilità politica, sociale ed economica. Di
ciò ha avuto coscienza lo stesso Kelsen, che nella prefazione
all'edizione americana della sua General theory of law and State del
1945 scriveva che ‟una teoria pura del diritto può sembrare
oggi intempestiva, mentre in grandi e importanti paesi, sotto il
regime di una dittatura di un partito, alcuni fra i più
eminenti rappresentanti della giurisprudenza non conoscono compito
migliore che di servire, con la loro ‛scienza', il potere politico
del momento. Se, ciò nonostante, l'autore si avventura a
pubblicare questa teoria generale del diritto e dello Stato,
è perché egli ritiene che nel mondo anglo-americano,
dove la libertà della scienza è ancora rispettata e il
potere politico è più stabile che altrove, le idee
siano tenute in maggior conto del potere; e anche perché
spera che pure nel continente europeo, dopo la sua liberazione dalla
tirannide politica, la nuova generazione sarà convertita
all'ideale di una scienza del diritto indipendente; poiché il
frutto di una tale scienza non potrà mai andare perduto" (v.
Kelsen, 1945; tr. it., pp. 12 ss.).
Amare e gravi parole, di fronte alle quali ci si deve però
domandare se l'opzione verso la scienza pura del diritto corrisponda
realmente alla vocazione e alle istanze di un'epoca che la seconda
guerra mondiale non aveva chiuso ma reso anche più
drammatica. Non v'è dubbio che l'intelletto può, anche
di fronte al problema del diritto, proporsi la scelta tra un'analisi
rigorosamente limitata alla determinazione della struttura logica
del diritto positivo e una valutazione di questo stesso diritto
positivo posto in relazione con la realtà totale nella quale
esso è chiamato a esercitare la sua funzione. La ‛teoria pura
del diritto' ha avuto il merito di dimostrare le incoerenze delle
dottrine dominanti nella scienza giuridica, nelle quali al
ragionamento giuridico si mescolano in modo vario motivi politici,
psicologici, economici e che, nello stesso tempo, respingono l'unica
misura con la quale tutto ciò può essere valutato in
rapporto al diritto, e cioè la misura della storia. Ma
è anche vero che una teoria che programmaticamente rifiuti
oggi quel complesso di valutazioni per descrivere i lineamenti
strutturali generali del diritto positivo è fuori delle
preoccupazioni prevalenti del mondo attuale e perde quindi gran
parte del suo interesse. Queste serene contemplazioni del diritto
come logica pura appartengono ad altre temperie; come può
dirsi per es. della speculazione del Leibniz, che scrisse in
un'epoca e in un ambiente socialmente statici, fondati com'erano su
una società signorile tradizionale e sulla mancanza di
impulsi provenienti da una classe borghese. Paradossalmente, la
teoria kelseniana contribuisce, nella sua esaltazione del diritto
come scienza autonoma, a diminuire il suo valore di fronte ai nostri
contemporanei, affiancandosi così alle altre espressioni del
pensiero, il marxismo, l'idealismo italiano, l'esistenzialismo, che,
ciascuna a suo modo, hanno contribuito a porre in rilievo la
profonda crisi dei valori giuridici nella nostra epoca. E vien fatto
di pensare se per caso quella ‛dottrina pura del diritto', che nelle
intenzioni del Kelsen avrebbe dovuto esaltare la verità di
fronte alle strumentalizzazioni che del diritto avevano fatto i
giuristi delle dittature, non potrebbe invece servire a giustificare
qualunque ordine giuridico, anche quello più pernicioso alla
libertà dell'uomo.
Nella sua estrema difesa della validità del diritto, del suo
significato in sé e per sé e della sua assoluta
autosufficienza, il Kelsen ha separato il diritto dall'idea di
giustizia, che egli ha definito un criterio politico, perché
‟la tendenza a identificare diritto e giustizia è la tendenza
a giustificare un dato ordine sociale" e non è perciò
suscettibile di determinazione scientifica. Ha rimproverato al
principio giusnaturalistico del suum cuique tribuere di essere una
formula vuota per non aver determinato che cosa sia il ‛suo' di
ciascuno (ma non sarebbe stata questa una determinazione
necessariamente ‛politica'?) e all'imperativo kantiano, che gli atti
di un uomo debbano essere determinati soltanto dai principi che egli
vuole siano vincolanti per tutti, di essere una tautologia. Ha
affermato che la norma giuridica è un giudizio di ‛dover
essere' fondato sul principio d'imputazione; che l'attribuzione di
una conseguenza a una condizione è altra cosa e che tale
conseguenza è la sanzione; e che il dover essere esprime
soltanto il senso specifico nel quale il comportamento umano
è determinato da una norma, che non può mai essere
considerata un atto di volontà, secondo quanto invece
è correntemente definita; infine, che l'illecito non è
tale per sé, ma per la sanzione che esso comporta.
L'ordinamento giuridico è un sistema di norme. Ma ciò
che fa di quelle norme un sistema è che ciascuna di esse ha a
proprio fondamento delle norme tacitamente presupposte perché
considerate come pacifiche, in modo tale che il fondamento di una
norma sia sempre un'altra norma e mai una realtà che faccia
deviare il diritto da se medesimo, che trasformi un ‛dover essere'
in un ‛essere'. È con questo procedimento graduale che il
Kelsen perviene a ipotizzare l'esistenza di una ‟norma fondamentale"
(Grundnorm) la cui validità non deriva da una norma superiore
e che costituisce la chiave di volta dell'ordinamento.
Da questa gerarchia normativa deriva anche la conclusione che
l'ordinamento interno ai singoli Stati e l'ordinamento
internazionale formano un'unità, e si esprime la teoria
‛monistica' dell'ordinamento. Poiché il diritto non
può derivare dal fatto sociale, lo Stato stesso non è
altra cosa dal suo ordinamento giuridico; e questo modo d'intendere
lo Stato ha, secondo il Kelsen, la priorità su ogni altra sua
concezione, dato che la forza organizzata altro non è che il
diritto.
Ma se il diritto equivale davvero alla forza organizzata, che
è l'espediente mediante il quale il Kelsen cerca di
ricondurre il fatto politico al diritto in esso risolvendolo,
ciò vuoi dire che esso ha bisogno di un punto di riferimento
estraneo a se stesso per essere definito. Il diritto non è
cioè soltanto un giudizio logico che ha per oggetto se
medesimo, ma un giudizio che abbisogna di un predicato che ne
è al di fuori. Inoltre ci si deve domandare se la ‛norma
fondamentale', che è al vertice della piramide normativa e
che per il Kelsen si identifica col principio pacta sunt servanda,
si mantenga davvero nei limiti che egli ha assegnato alla struttura
del puro diritto, cioè alla sua ricostruzione essenzialmente
logica. Vien fatto insomma di domandarsi se quella norma appartenga
al diritto positivo, così come dovrebbe dedursi dal postulato
kelseniano, o se invece non travalichi nella sfera della
moralità, riaprendo così al diritto naturale le
inespugnabili mura che il Kelsen voleva erigere contro di esso. E
infatti una nuova apertura al giusnaturalismo si trova nella
dottrina del suo allievo più illustre, l'internazionalista A.
Verdross.
È per questo che l'insegnamento forse più proficuo che
ci viene dalla dottrina del Kelsen è costituito
dall'impossibilità di esaurire il problema della natura del
diritto in termini puramente logici, com'era accaduto in ogni altro
tentativo di trovare i primi principî della
giuridicità. Così avviene con le teorie del diritto
naturale, che sconfinano nella sfera etica; così col
materialismo dialettico, che convertì il diritto in una
sovrastruttura dell'economia; così con la filosofia del Croce
e del Gentile, che risolsero l'uno il diritto nell'attività
pratica e l'altro nel ‛già voluto' di fronte alla perenne
attività dello spirito. La ragione per la quale anche la
dottrina del Kelsen, nonostante l'ammirevole acume, non sfugge allo
stesso destino è forse data dal fatto che il suo autore ha
preteso di dedurre la struttura generale del diritto astraendola dai
singoli diritti positivi. Questa dottrina generale, che si proclama
giuridico-positiva, non può probabilmente essere condotta
oltre il campo che del diritto positivo è proprio. Ma il
diritto positivo ha un'autonomia limitata. Oltre questa cessa il
territorio del diritto e comincia qualche altra cosa che diritto non
è.
Di questa insufficienza della ‛teoria pura del diritto' sono una
conferma certi atteggiamenti che compaiono in altri rappresentanti
della scienza giuridica contemporanea. Per quanto appartenenti a
indirizzi diversi tra loro, nessuno dei quali può essere
considerato una continuazione della Reine Rechtslehre, il danese A.
Ross e l'inglese H.L.A. Hart sono certo parzialmente dipendenti
dalla teoria kelseniana, per quanto il primo faccia parte di un
movimento di pensiero che va sotto il nome di ‛neopositivismo' o
‛realismo scandinavo', e il secondo possa considerarsi il più
recente rappresentante della ‛giurisprudenza analitica'. Il loro
kelsenismo si rivela nell'accettazione della distinzione tra regole
giuridiche di condotta e regole giuridiche di competenza. Non si
possono qui esaminare gli aspetti della dottrina dell'uno e
dell'altro, né la validità di alcuni assunti, di cui,
d'altronde, sarà fatto cenno in seguito. Ciò che si
vuol qui porre in rilievo è il disagio che entrambi hanno
avvertito di fronte alle conseguenze estreme del loro ‛positivismo',
cioè dell'accettazione del diritto positivo indipendentemente
dal suo contenuto, insomma della validità del diritto in
quanto sistema normativo. Che questa accettazione non sia stata
proposta per la prima volta dal Kelsen, ma sia già contenuta
nel positivismo statualistico del secolo scorso e del nostro
è, del resto, cosa troppo nota perché vi si debba
insistere. Ciò che va qui osservato è invece come
questa giustificazione del diritto in sé e per sé, che
il Kelsen aveva reso indipendente da altre considerazioni e
autonoma, ha sollevato a sua volta altre e opposte esigenze anche in
coloro che ne condividevano le proposizioni teoriche. Il Ross, nella
sua opera Directives and norms, comparsa nel 1968, ha ritenuto di
dover osservare: ‟Quando posso classificare un ordine come ‛ordine
giuridico' mi è possibile ritenere nello stesso tempo come il
mio più sacro dovere di rovesciare quest'ordine" (v. Ross,
1968, p. 32). E nello stesso ordine di idee mostra di essere il
Hart, quando, dopo aver affermato che il diritto è valido
anche quando è contro la morale, osserva che può
accadere che questo sia ‟bensì un diritto, ma troppo iniquo
per essere applicato od obbedito".
In queste dottrine, e in genere in quelle del ‛positivismo
giuridico', si riproduce, forse in misura più alta che in
altre epoche, il contrasto drammatico tra due opposte esigenze. Da
un lato la necessità di determinare che cos'è il
diritto in quanto regola di condotta distinta dalla norma morale e
dall'altro di stabilire, nella gerarchia delle norme, quale di esse,
la morale o la giuridica, debba avere la preminenza. Su quest'ultimo
punto gli atteggiamenti della dottrina giuridico-positiva non sono
concordi. Mentre alcuni autori hanno relegato nel mondo della
fantasia una normativa giuridica che non sia dipendente dalla
volontà dello Stato e hanno così concentrato il loro
interesse esclusivo sul diritto positivo, altri, pur dichiarandosi
positivisti, hanno sentito il fascino del pensiero giusnaturalista
come quello che aveva dato un contenuto etico alla norma giuridica.
La rinuncia a quel compromesso tra morale e diritto, che appunto il
giusnaturalismo aveva rappresentato, implicava un'opzione per una
concezione assolutamente formale della norma e per una riduzione dei
problemi giuridici a pura logica, che non tutti si sentivano di
seguire. La difficoltà era tanto maggiore in coloro che si
proponevano soprattutto di costruire l'edificio teorico del diritto
di un popolo piuttosto che di fondare una teoria generale astraendo
dai singoli sistemi positivi. Quest'ultima è la posizione
più moderna del positivismo giuridico, rappresentata
soprattutto dal Kelsen. Ma la prima è propria delle origini
moderne del positivismo, allorché l'ispirazione fondamentale
era fornita dallo Stato e dalla necessità di determinarne i
lineamenti giuridici in armonia con l'atmosfera del periodo inquieto
del Nachmärz, del marzo del 1848, quando a Francoforte fu
riunita l'assemblea degli Stati tedeschi. Dalla quiete degli anni
precedenti a quella data si passa a un periodo turbolento che si
conchiude con l'avvento sulla scena politica della figura di
Bismarck e con l'enunciazione di una politica di potenza che era la
negazione degli ideali liberali di origine settecentesca. Per quanto
le radici del futuro formalismo positivistico siano già
visibili al tempo della Scuola storica e nelle opere del suo
maggiore rappresentante, F. C. von Savigny, la sua definitiva
affermazione appartiene al Nachmärz, al periodo cioè
della politica di potenza e della costruzione dello Stato prussiano
come espressione ditale politica. L'ideale che si poneva di fronte
alla mente del giurista non era più quello di trovare una
versione del razionalismo giuridico che potesse accordarsi con la
storia, come era accaduto col Savigny, ma di prospettare una forma
nella quale lo Stato potesse trovare la definizione della sua
fisionomia e delle sue funzioni; una forma astratta, che non
mostrasse alcun collegamento con l'attività politica, una
scienza autonoma, insomma, pronta a servire qualsiasi contenuto.
Questo atteggiamento del pensiero giuridico era in rapporto
necessario col sistema del diritto codificato. La semplicità,
la certezza, la chiarezza, gli ideali insomma che avevano da sempre
accompagnato le codificazioni, mostrarono presto i propri limiti,
dovuti all'immobilità di fronte alla realtà
transeunte.
7. Importanza della Scuola storica per il positivismo giuridico
moderno
Sorse così la ‛giurisprudenza concettuale', la cui
complessità peraltro non può essere contenuta nella
semplice definizione di una scienza giuridica che aveva per suo
compito essenziale la costruzione di concetti giuridici, l'esistenza
della quale si innalzava al di sopra dello stesso diritto positivo.
Il concettualismo e il formalismo estremi non possono ridursi in
linee semplici, solo che si consideri che quel movimento di pensiero
espresse figure complesse quali quelle del Jhering e del Gerber,
entrambe deviazione, prosecuzione e anche opposizione rispetto al
pensiero della Scuola storica senza l'esistenza della quale essi
stessi non sarebbero stati quelli che furono.
Che la Scuola storica, per un singolare paradosso, sia stata in gran
parte la matrice della scienza giuridica che fondava sull'esigenza
sistematica e sulla signoria della logica non soltanto la
caratteristica essenziale della dottrina ma la stessa sostanza del
diritto, non è lecito dubitare. Di fronte alle idee
dell'illuminismo, che erano state la culla ideologica della
Rivoluzione francese, di fronte all'affermarsi delle codificazioni,
dapprima sospinte dalla necessità di chiarezza e di certezza
del diritto promanante dalle monarchie, poi sempre più
pervase dallo spirito riformatore che stava alle radici stesse dello
Stato accentrato moderno, e finalmente di fronte alla codificazione
napoleonica, nella quale trovarono il proprio coronamento tutte
quelle spinte e quelle esigenze storiche, le condizioni della
società tedesca sembrarono offrire validi motivi di
opposizione. Al fondo di tali motivi ci fu certamente una reazione
non sempre soltanto razionale, ma anche sentimentale ed emotiva, di
fronte agli aspetti della Rivoluzione francese che dovettero
apparire in Germania, non meno che in Inghilterra, come una dannosa
eversione, un'esaltazione della violenza quale negazione del diritto
e infine come l'origine della dittatura e delle sopraffazioni
napoleoniche ai danni delle nazioni europee. Ciò che era
cominciato con la libertà aveva finito per identificarsi con
l'oppressione. Lo spirito romantico, che aveva i suoi fondamenti
sentimentali nella coscienza popolare, si univa, nell'immagine che
della realtà si faceva la classe dominante tedesca, con
l'idillica condizione di vita che aveva ispirato i governi
paternalistici dei singoli Stati tedeschi, l'esistenza tranquilla e
sicura di cui il Goethe ci ha lasciato tante ammirevoli
testimonianze e nella quale sembrava attuarsi insieme alla
tranquillità una quasi perfetta giustizia. Se un'eccezione
v'era in Germania, questa era rappresentata dalla Prussia di
Federico il Grande, l'amico di Voltaire, il principe illuminista,
che aveva esaltato nella comunità dei popoli germanici la
politica di potenza e l'ostilità contro il Sacro Romano
Impero. Non a caso, proprio nello Stato prussiano si erano condotti
quei tentativi di una codificazione del diritto privato, il Project
des Corporis Juris Fredericiani e quella riforma del diritto
processuale che furono entrambi affidati a Samuele Cocceio a
metà del sec. XVIII e che avrebbero dovuto ispirarsi, per
criterio sovrano e non per convinzione scientifica di colui che
doveva curarne l'esecuzione, a uno spirito nettamente ostile al
diritto romano. Anche l'altro grande tentativo codificatorio
appartenente alle terre germaniche, il Codex Theresianus,
pressoché contemporaneo a quelli perseguiti in Prussia, per
quanto più rispettoso del diritto romano era tuttavia
condotto in nome di un'unificazione dei territori che, se era una
conseguenza logica di una migliore organizzazione dello Stato
monarchico, poteva anche essere considerata un elemento di profonda
trasformazione di fronte alla tradizione dei Länder e quindi
della tradizione sociale e popolare tedesca.
Tutti questi elementi agirono sugli iniziatori della Scuola storica,
l'Hugo, che però alla tendenza storica unì l'esigenza
sistematica già rappresentata dal Heise, F.C. von Savigny, e
il suo allievo G.F. Puchta, che rappresentò il precoce
passaggio dalla concezione storico-dogmatica dello svolgimento
organico del diritto, quale fu esplicitamente espressa specialmente
dal Savigny, a un altro modo di pensare il diritto che già
preludeva al predominio in esso dell'aspetto puramente logico. In
realtà bisogna riconoscere che la tradizione razionalistica
era troppo radicata nel pensiero tedesco perché non dovesse
esercitare un influsso determinante anche su una tendenza che, come
quella rappresentata dalla Scuola storica, si proponeva di reagire
in nome di uno specifico ‛spirito popolare' alle generalizzazioni e
universalizzazioni del giusnaturalismo.
Fu così che, accanto alla considerazione per la storia, che
fu però soprattutto storia e ricostruzione storica del
diritto romano, cioè paradossalmente di un diritto non
ispirato dal Volksgeist, si affermarono presso questi giuristi le
costruzioni intellettuali del sistema giuridico. Gli stessi
giureconsulti romani apparvero ai loro occhi come i grandi
edificatori di concetti. E qui avvenne la divaricazione tra la
Scuola storica di diritto romano e quella, sorta dalla stessa
scaturigine ma assai più coerente con le premesse e assai
più autenticamente pervasa di romanticismo, dei germanisti.
Secondo il Puchta quei germanisti seguivano la tendenza connaturata
ai diritti germanici di esprimere un diritto strettamente aderente
alle condizioni sociali e incapace di sollevarsi nella sfera
concettuale nella quale il mondo dell'esperienza veniva risolto in
quello della logica. Il rimprovero può apparire eccessivo nei
confronti degli sviluppi successivi della germanistica, che si
propose l'imitazione della sistematica dei romanisti proprio per
dare un volto al diritto germanico senza snaturarne le ispirazioni
fondamentali. Ma la grande spinta verso l'erezione di un edificio
giuridico nel quale l'organizzazione concettuale fosse l'essenza
stessa del diritto, cominciò nella Scuola storica di tendenza
romanistica. L'idea di una sistematica non soltanto complessiva, ma
riferibile alle singole parti componenti il sistema, rappresentata
dagli ‛istituti' dai quali le singole norme dipendono, è
adombrata in Savigny ed esplicitamente formulata in Stahl.
L'istituto era dunque un prius logico di fronte alle norme; ed
è evidente che l'interpretazione giuridica doveva seguire
questo itinerario, che era già quello della giurisprudenza
concettuale.
Tutto ciò non era privo di aspetti paradossali nella dottrina
del Savigny. La sua avversione alla codificazione, per la quale
è rimasta celebre la polemica con il Thibaut, sensibile
invece agli influssi provenienti d'oltre Reno, era motivata dal
fatto che il diritto codificato è immobile di fronte alla
continua evoluzione organica del diritto, che segue l'ispirazione
dei tempi e delle condizioni reali della vita. Questa idea era
parallela all'altra che opponeva il diritto codificato come diritto
del potere sovrano al diritto generato dallo spirito popolare. Ma
è evidente che qui il Savigny aveva del diritto romano
‛attuale', cioè di un diritto romano ormai da secoli adottato
dai territori tedeschi, un'idea che lo poneva alla sommità
dei diritti vigenti in Germania, in qualche modo conciliando
così la propensione ideale alla rivalutazione dei diritti
consuetudinari con quella per il diritto romano modificato
attraverso il lungo corso dei secoli. Inoltre, altro era per lui
questo diritto romano, sul quale era ben possibile, seguendo
l'ispirazione che era già propria dei giureconsulti della
Roma antica, costruire un sistema logico di concetti giuridici, e
altro era aderire al movimento codificatorio che si era diffuso in
Europa, per tanti rispetti rispondente a un movimento contrario al
diritto romano in nome del diritto emanato dai principi, e per altri
certamente rappresentativo di una tendenza a tutto unificare e
uniformare nell'ordinamento giuridico dello Stato, violando
così la struttura plurima della società tedesca
tradizionale. Lo Stato accentrato, che trovava nella codificazione
un aspetto a sé congeniale, non era soltanto un nuovo modo di
concepire la struttura statuale, ma aveva immediati riflessi sulle
condizioni degli individui e sui loro diritti subiettivi, non
più legati agli infiniti strati sovrapposti di una
società rimasta sostanzialmente feudale e alla suddivisione
in Stände. Quella del Savigny era, insomma, un'estrema
resistenza all'idea, fondamentale per il futuro positivismo
giuridico, che il diritto è un prodotto dello Stato. Ma egli
non si avvide che la ricerca del ‛sistema', anche se non concretato
in una codificazione, era destinata a portare agli stessi risultati.
Il sistema era una reazione agli sterminati commentari prodotti
dalla ‛pandettistica esegetica' della seconda metà del sec.
XVIII, che avevano analizzato il Digesto, secondo un metodo
facilmente riconducibile a una lunga tradizione dottrinale legata al
commento dei testi giustinianei, nel mentre l'esaltazione del
Volksgeist era una reazione al giusnaturalismo. Ma la conciliazione
tra questi due atteggiamenti critici era difficilmente sostenibile;
e infatti, nel mentre il primo si andò sempre più
affermando, il secondo era destinato a rimanere per lungo tempo
silenzioso. Inoltre sfuggivano alcuni aspetti sottili del rapporto
tra la giurisprudenza interpretativa, cioè tra la costruzione
evolutiva che la ‛pandettistica esegetica' aveva perseguito e la
stessa consuetudine. Perché appunto tanto l'una che l'altra
erano un veicolo per la trasformazione del diritto che non poteva
essere rifiutato da chi prendeva come oggetto della propria analisi
il ‛diritto romano attuale' e lo considerava ormai un prodotto
perfettamente aderente alle terre tedesche; e perché, a ben
guardare, ‛diritto giurisprudenziale' e consuetudine presentavano
delle analogie di fronte alla legge, la consuetudine essendo tanto
spesso observantia, cioè non fonte autonoma ma derivato e
rafforzamento della legge, e il ‛diritto giurisprudenziale'
anch'esso essendo non creazione ex novo, ma adattamento progressivo
del diritto alla realtà dei tempi.
Tuttavia occorre tenere ben presente che anche il pensiero del
Savigny non si formò d'un colpo e che esso subì
un'evoluzione nella quale finirono per convivere ispirazioni
appartenenti a momenti diversi della sua formazione mentale. Se in
lui rimase sempre un fondamento razionalistico che gli proveniva
dalla speculazione anteriore, la considerazione del diritto
consuetudinario deve essere posta nel momento intermedio della sua
dottrina, corrispondente all'opera del 1814 intitolata Von Beruf
unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, nella
quale le componenti romantiche appaiono con un'evidenza che non
c'è nei suoi scritti anteriori. È infatti soltanto
nella discussione che quel celebre libretto contiene che il diritto
consuetudinario assurse a un'importanza primaria nella sua teoria,
come quello che era l'immediata espressione dello spirito popolare.
Non bisogna però trascurare il fatto che la perenne creazione
giuridica che il Savigny suppone nella consuetudine, e che
d'altronde è assai minore nella realtà storica di
quanto egli non supponesse, era anche propria del sistema giuridico
sotto la spinta del pensiero, e che un primo schema di questa
concezione è già visibile nel corso di lezioni da lui
tenute nel 1802. Nel corso erano presi in considerazione vari
aspetti nei quali ai residui del pensiero settecentesco
s'intrecciavano motivi nuovi. La funzione interpretativa della
scienza giuridica vi veniva già presa in esame in relazione
al sistema intrinseco al diritto e alla considerazione della storia
intesa come storia del pensiero tecnico, sottoposto a un perenne
svolgimento. Così l'elemento storico si combinava fin da
quell'opera giovanile con quello sistematico, secondo uno schema che
accompagnerà costantemente il suo pensiero. Ma non vi
appariva ancora quella considerazione degli scopi delle norme che
darà maggior corpo alla sua concezione dell'interpretazione e
della sua funzione, e quindi conferirà anche all'idea di uno
svolgimento storico del diritto come intrinseco alla sua
comprensione una concretezza che prima non aveva avuto. Questo
risultato apparirà evidente nel System des heutigen
römischen Rechts, che è del 1840, dove si accompagna
all'idea dell'‛istituto', cioè di quell'elemento o dato
intuitivo e primario di cui il diritto stesso consta e dal quale
soltanto derivano le norme singole. In quell'idea dell'‛istituto',
che era un portato esso stesso della realtà nella quale la
mente giuridica lo identificava, si univano la realtà sociale
e la speculazione intellettuale. Era questo un pensiero che avrebbe
potuto essere ben altrimenti fecondo se nel Savigny l'importanza
della realtà sociale non fosse stata dominata dall'aspetto
sistematico e razionale, tanto da suscitare le antipatie e le
critiche di indirizzi diversi, cioè dello Hegel e di un
critico dello Hegel, Karl Marx.
Sono evidenti, in questi lineamenti del pensiero del Savigny,
anticipazioni della cosiddetta ‛giurisprudenza concettuale'. Ma tali
anticipazioni venivano contrastate, nella costruzione del grande
giurista tedesco, da altre ispirazioni, come il favore nei confronti
della consuetudine, che fu invece avversata dai rappresentanti di
quell'indirizzo positivista, corrispondente a un ben diverso momento
della storia della Germania, come s'è già accennato.
Il positivismo giuridico che si sviluppò nell'Ottocento e
continuò nel Novecento, era tutto preso dall'idea della
legislazione come prodotto dello Stato, e dallo Stato stesso come
pilastro essenziale di ogni costruzione giuridica. Quanto vi era di
romantico nella teoria del Savigny fu così eliminato e
insieme a esso fu messa da parte l'ostilità verso la
codificazione, salvo movimenti di pensiero che, come quello del
‛diritto libero' di cui parleremo in seguito, sembrano rievocare
certi atteggiamenti del Savigny e confermarne la mai spenta
validità.
Così il razionalismo settecentesco, nonostante gli attacchi
dello spirito romantico, rimase ben saldo in quel permanere del
razionalismo nella scienza giuridica che non fu contraddetto neppure
dal Savigny. L'aspirazione al ‛sistema' come insieme di parti
collegate in un tutto organico ed esprimibile secondo la logica, non
fu mai negata, sebbene la logica usata per la sua edificazione
potesse essere diversa e diversamente intesa. Anche
l'ostilità verso la consuetudine, che ricomparve dopo la
parentesi savigniana, era già stata propria dell'illuminismo
francese, che aveva opposto a essa la legge come strumento di
certezza e di progresso; un pensiero che corrispondeva, del resto,
alla maggiore maturità dello Stato francese nei confronti di
quelli tedeschi. Bisognerà attendere nel nostro secolo il
realismo di alcuni giuristi francesi e soprattutto del Duguit per
assistere a una riabilitazione della consuetudine come modo di
constatare l'esistenza di una regola sociale in contrasto con la
legge dello Stato.
Si deve aggiungere che l'apporto maggiore della Scuola storica e
specialmente del Savigny, che avrebbe potuto consistere appunto nel
rilievo dato alla storia come elemento intrinseco e costitutivo del
diritto, come parte integrante della sua formazione e del suo
intendimento, si perse nei limiti di una storia concepita come
storia dogmatica, cioè come storia di dottrine più che
come storia del rapporto tra le dottrine e le condizioni storiche
reali nelle quali erano chiamate a vivere e dalle quali erano
prodotte. Per una più essenziale e sostanziosa comprensione
della storia ci si dovrà rivolgere invece alla dialettica
hegeliana e, da un angolo visuale del tutto diverso ma da quella
derivato e quindi con essa connesso, alla dialettica storica del
marxismo.
Ma in tutte queste dottrine, e specialmente in quelle della Scuola
storica da un lato, in quelle della ‛giurisprudenza dei concetti'
dall'altro, tornano e ritornano con nuovi aspetti ma con la
permanenza di alcuni motivi fondamentali, alcune esigenze che val
qui la pena di accennare brevemente per un migliore intendimento
delle origini stesse di alcuni lineamenti fondamentali del diritto
contemporaneo. Per comprendere che cosa accadde nella scienza
giuridica europea a cominciare col Rinascimento bisogna tener
presente l'inclinazione sempre più forte verso
un'introduzione della ragione nella materia giuridica; di una
ragione che costituisse un modo di dominare questa materia
dall'alto, e non più soltanto nei singoli particolari secondo
quanto era stato fatto dai giuristi del Medioevo e si continuava a
fare dai pratici, seguaci di quel mos italicus nel quale appunto si
era espresso il metodo che aveva dominato la storia della scienza
giuridica dal sec. XII al XV. In altri termini, si andò a un
certo punto affermando il bisogno di ridurre il diritto in un
sistema logico, dall'alto del quale potesse essere dominata
l'immensa materia derivata dal diritto romano giustinianeo e dagli
sterminati commenti che a esso erano stati apposti e che avevano
portato con sé anche contributi diversi e in primo luogo
quello, fondamentale, del diritto canonico.
8. La dottrina giuridica francese nel Rinascimento
Il fondamento primo di questa rivoluzione, che doveva avere
conseguenze radicali nel mondo dei valori giuridici e nel loro
rapporto con la realtà politica, si trova in Francia, per
quanto i primi principi siano contenuti nel pensiero dell'umanesimo
rinascimentale italiano. Che la Francia fosse il luogo nel quale i
valori giuridici della tradizione medievale erano destinati a un
mutamento è suggerito dal fatto che proprio in Francia e in
quell'epoca lo Stato andava acquistando una fisionomia che precorre
quella dello Stato dell'epoca nostra. Da un lato dunque il
consolidarsi dello Stato e dall'altro l'esigenza di una sistemazione
del diritto. Ma accanto a ciò un altro movimento si
andò determinando, che sarà un fattore importante nel
divenire di quest'ultimo: l'esaltazione dei diritti nazionali e
l'ostilità verso il diritto romano per opera di una parte
della dottrina.
Questa importanza del diritto nazionale, che in Francia si
accompagnò all'ostilità verso il diritto romano, ebbe
radici popolari e motivi ufficiali da parte della monarchia. Il
popolo considerava il diritto giustinianeo come estraneo alle
proprie tradizioni e ai propri inveterati costumi e la monarchia, da
parte sua, vi vedeva un'espressione del potere imperiale e quindi
un'insidia. Interprete di queste esigenze fu l'Hotman (1524-1590),
la cui ostilità al diritto giustinianeo si fondava sulla
critica sostanziale delle sue imperfezioni e sul rilievo che,
comunque, esso era inadatto alla nazione francese. ‟Con uno spirito
che nulla aveva a che vedere col romanticismo, il Cinquecento
francese aveva dunque già affermato la necessità di
una corrispondenza tra il popolo e il suo diritto, corjispondenza
che era in definitiva il frutto di una riflessione storica e che
fruttificherà in quel paese nel pensiero illuministico del
sec. XVIII. Non tutti, certo, la pensavano in quel modo. Il grande
Jean Bodin (1530-1596), che non fu soltanto uno scrittore politico,
ma un giurista e l'enunciatore della moderna teoria della
sovranità, aveva colto l'intima corrispondenza tra il diritto
giustinianeo e la monarchia assoluta in nome di quella stessa
volontà predominante del principe con la quale all'epoca di
Enrico IV la corona francese pervenne appunto al consolidamento
dello Stato monarchico. Che da lungo tempo, del resto, la
costruzione dello Stato particolare avesse prodotto una reazione che
tendeva a limitare l'enorme importanza assunta dal pensiero
giuridico, interprete del diritto romano, e dall'esercizio della
giurisdizione è attestato fin dal tempo di Marsilio da
Padova, che nel Defensor pacis si appellava all'autorità di
Aristotele per circoscrivere il potere dei giudici di fronte alla
legge: ‟Hec propter consuluit Aristoteles, nulli iudici seu
principanti concedere arbitrium iudicandi seu precipiendi de
civilibus absque lege, in quibus lex determinare potuit". E nel
Cinquecento l'Hospital (1507-1573) insegnava che la legge del
principe assoluto doveva essere al di sopra dei giudici e non il
contrario.
In sostanza, in Francia il pensiero giuridico che si era nutrito di
cultura umanistica fu l'espressione del più ampio respiro del
regno, proprio quando la vita dei principati italiani andava
progressivamente declinando. Alla radice di questa nuova
interpretazione del diritto stava dunque lo Stato. E in accordo con
lo Stato monarchico stava anche l'importanza assunta dal
razionalismo, che divenne una delle note caratteristiche del
pensiero rinascimentale e della giurisprudenza culta. Le tendenze
verso una rivalutazione del pensiero platonico, che si erano
verificate in Italia, e quelle antintellettualistiche della Riforma
protestante, finirono per cedere a quella spinta potente. Prima
ancora che la filosofia sistematica di Pietro Ramo esercitasse il
suo influsso sulla scienza giuridica e sul modo stesso di concepire
il diritto, la reazione di Melantone all'irrazionalismo luterano e
calvinista si riferiva al diritto naturale, che venne concepito come
un sistema nel quale vi erano dei principî generali e
un'articolazione di deduzioni secondo il modello matematico. Se si
pensi che la costruzione di una ‛parte generale' nella quale si
raccolgono le linee complessive e le strutture portanti del sistema
giuridico fu uno dei prodotti più caratteristici della
‛giurisprudenza dei concetti', non si può fare a meno di
ricollegare il pensiero di quest'ultima a quel travaglio
rinascimentale, dove appunto per la prima volta certe esigenze di
generalizzazione, di astrazione e di sistemazione rivelarono tutta
la loro forza e la loro corrispondenza con la situazione politica
che si era andata determinando agli inizi dell'età moderna.
La funzione sempre maggiore assegnata alla logica nella costruzione
giuridica non si limitò peraltro al diritto naturale, che era
sempre un modo di considerare il diritto strettamente connesso con
la morale, ma si estese anche ai diritti positivi e al diritto
romano, ora considerato come ratio scripta. Questo succedere alla
logica analitica dei giuristi medievali, legata all'analisi delle
singole proposizioni, di una logica che aspirava a una sistemazione
generale della materia contenuta nelle leggi, e in primo luogo nelle
leggi romane di Giustiniano, aveva un enorme significato. Un diritto
sistematico era appunto un diritto il cui pernio stava nella
legislazione e non nella giurisdizione, alla quale veniva
perciò riconosciuta l'unica funzione di applicare la legge.
Parallelamente anche la dottrina doveva limitarsi a interpretare il
diritto dello Stato, cioè di un organismo vivo e legiferante,
ben diverso dall'impero romano, ormai lontano nei secoli; nel mentre
la sua costruzione razionale si esercitava specialmente sul diritto
giustinianeo, con l'intento appunto di introdurvi quelle linee
sistematiche che esso non aveva mai posseduto.
Tutto ciò si tradusse nelle grandi esposizioni sistematiche
del Donello e del Duareno; e non è un caso se proprio il
pensiero del Donello esercitò un influsso non indifferente su
quello del Savigny. Sta di fatto che quel pensiero francese, e
specialmente proprio quello del Donello, fece breccia in Germania,
favorito in questa sua diffusione dai giuristi tedeschi che si erano
recati in Francia a studiare. L'amore per il sistema assunse
così nei paesi tedeschi delle forme esasperate, anche se
spesso soltanto estrinseche, in ciò favorito dalla logica
ramistica e dal pensiero protestante specialmente di Melantone,
ispirato come s'è detto al modello della matematica.
In Germania non sussistevano però i motivi per i quali in
Francia la speculazione giuridica si era accordata così
profondamente con le esigenze dello Stato monarchico. È per
questo che in Germania divennero predominanti le teorie
giusnaturalistiche che si esercitarono a una sistematica nella quale
la morale e il diritto si mescolarono intimamente nel grande quadro
del diritto di natura. Il diritto naturale fu il campo d'elezione
per l'applicazione della filosofia al diritto e ai suoi massimi
problemi; ed è per questo che la Germania divenne la patria
elettiva di una speculazione intorno al diritto e partorì i
grandi nomi che fondarono la sistematica giuridica e che stanno alla
base dei sistemi normativi del sec. XIX.
9. Importanza della Seconda Scolastica
Ma, se si voglia completare questo breve giro d'orizzonte prima di
addentrarci ancora una volta nell'esame del pensiero giuridico del
secolo scorso e del nostro, gioverà far qualche cenno anche
al pensiero della Seconda Scolastica, che annoverò grandi
nomi di giuristi-teologi e che ebbe per sede la Spagna, per quanto
non fosse privo di rapporti col pensiero francese. L'importanza di
questo movimento speculativo, che fu a lungo trascurato ma al quale
la storiografia contemporanea attribuisce un notevole peso per gli
sviluppi futuri della costruzione teorica intorno al diritto,
sarebbe già posta sufficientemente in risalto solo che si
accennasse all'influsso che dovette esercitare sulla filosofia
kantiana. Che del gorgo turbinoso di idee contrastanti, anche se
riconducibili ad alcuni motivi essenziali, che fu proprio
dell'Europa tra il Cinquecento e il Seicento fosse teatro la Spagna
non può meravigliare. In nessun altro paese europeo i
contrasti tra la tradizione cattolica, rafforzata dal pericolo della
Riforma protestante, e le nuove realtà sociali ed economiche
che erano state determinate dalla scoperta del Nuovo Mondo e che del
resto avevano in Europa anche ragioni diverse, furono così
crudi e drammatici.
Ciò che ai nostri fini va specialmente rilevato nella Seconda
Scolastica, i cui principali rappresentanti furono il Vitoria, il
Suarez, il Soto e il Molina, è che la sintesi tra etica e
diritto diede luogo piuttosto a un adattamento dell'etica ai modelli
giuridici che non il contrario. Per questa ragione la teologia di
quegli scrittori non è meno rilevante per le dottrine
giuridiche di quanto non lo sia il suo contrario. L'interpretazione
teologica degli istituti giuridici aveva per effetto di sollevare i
concetti che avevano riferimento alla vita pratica a un livello
speculativo che altrimenti non avrebbero avuto. E, qualunque
giudizio possa darsi di questo metodo, che va comunque riferito alle
condizioni storiche nelle quali fu applicato, non può negarsi
che rese possibile l'apertura di vasti e nuovi orizzonti alla
scienza giuridica, la quale, per quanto possa essere concepita come
scienza tecnica, si rinnova soltanto con la filosofia. Anche nel
caso della Seconda Scolastica, dunque, la novità venne
dall'unione, e non di rado dalla confusione del non giuridico col
giuridico. Lo sfondo fu ancora una volta il diritto naturale. Che il
modo col quale il diritto naturale fu aggredito dagli autori della
Seconda Scolastica si ispirasse al razionalismo di san Tommaso
spiega come la loro dottrina abbia potuto costituire il punto di
passaggio dal giusnaturalismo del Medioevo a quello moderno e
protestante che ha il suo padre in Grozio. Giusnaturalismo,
però, significò anche apertura a una nuova concezione
del diritto delle genti, della quale il mondo del sec. XVI e poi del
XVII doveva fare esperienza e che non era più quella del
Medioevo. A un giusnaturalismo fondato sulla ragione faceva
riscontro un diritto internazionale a sua volta fondato sul diritto
di natura o, come per il Suarez, sulla volontà degli Stati
nella forma della consuetudine.
In un quadro nel quale la legge era concepita come superiore al
potere politico e come suo limite, e cioè in un quadro
dominato dal razionalismo misto però di elementi
volontaristici (la legge era un limite perché si fondava
sulla volontà di Dio), la condotta morale era l'oggetto
essenziale della norma. Questa proposizione, che si legge in Suarez
e che costituisce una correzione della definizione della legge
formulata da san Tommaso (la legge non è più
semplicemente ‟regola e misura delle azioni", ma ‟regola e misura
delle azioni morali"), trasferiva la legge su un piano più
elevato e fondava un controllo sulla legittimità della norma,
il cui contenuto non poteva essere soltanto considerato un comando
dell'autorità politica, ma doveva essere conforme all'ordine
morale.
In questa preminenza dell'etica sul diritto e in questa confluenza
di entrambi nel diritto naturale si possono vedere sviluppi futuri
del modo di concepire l'una e l'altro e la possibilità di
un'autonomia dell'uomo nel suo giudizio di ciò che è
bene e di ciò che è male. Ma l'originalità
della Seconda Scolastica si rivelò piuttosto nella concezione
della proprietà, del dominium, come espressione per
eccellenza del diritto. Poiché il dominium, con un processo
analogo a quello che s'è visto nei confronti della legge,
è trasferito dal diritto positivo in una sfera trascendente,
nella sfera dell'autonomia: dominio in primo luogo non delle cose,
ma dei propri atti, non della propria volontà ma sulla
propria volontà, e insomma libero arbitrio. Così il
concetto del dominium va molto al di là di quanto potesse
leggersi nei testi del diritto romano e anzi cambiava la sua natura,
per quanto non volesse negarsi che esso fosse anche
possibilità di dominare le cose e affermare la propria
personalità attraverso la padronanza del mondo esterno,
‟perfectio animae et hominis dignitas", ‟potestas absoluta ordinata
ad actus reales".
Proprio in relazione al concetto di dominium e come contributo della
teologia alle costruzioni del diritto, va ricordata una delle
conquiste fondamentali della civiltà moderna, cioè la
configurazione del diritto soggettivo. Per quanto le fondamenta
vadano ricercate nell'età feudale, una prima formulazione di
quel diritto si annunciò già nella teologia del
Gerson, vissuto tra il sec. XIV e il XV, ma trovò poi il suo
sviluppo nei teologi e giuristi spagnoli del Cinquecento, che
pensarono la facultas del dominus come una potestas che era una vera
e propria sovranità del soggetto.
10. Hobbes, Kant e Hegel
L'importanza di questa dottrina è particolarmente rilevante
per quanto concerne il diritto privato. In un certo senso può
dirsi che l'importanza che il diritto soggettivo doveva assumere
nella concezione del diritto a partire dal sec. XVII ha avuto in
quella dottrina il suo inizio moderno; e anche la tendenza a
contrapporre i diritti naturali soggettivi al diritto positivo e a
sottolinearne la priorità e la superiorità vi trova
una prima implicita enunciazione.
Ma nel Kant della Metafisica dei costumi l'idea del ‛possesso' ha
una parte essenziale nella trattazione di quello che egli chiama
‛diritto privato', cioè l'insieme dei diritti soggettivi che
spettano all'individuo in quanto tale, indipendentemente dalla
società statuale. Anche per il Kant il ‛mio giuridico' ha un
significato che trascende quello del possesso o della
proprietà secondo le dottrine giuridiche tradizionali,
perché esso si risolve in un diritto di libertà, la
libertà di appropriazione nei confronti di qualsiasi oggetto
esterno e, nello stesso tempo, in un limite imposto agli altri nei
confronti di quanto, appunto, può essere oggetto di possesso
da parte dell'individuo.
Lo stesso deve dirsi per la dottrina espressa da Hegel nei
Lineamenti di filosofia del diritto, il cui paragrafo 41 della parte
prima comincia con l'affermazione: ‟La persona, per esser in quanto
idea, deve darsi un'esterna sfera della propria libertà", e
prosegue poi (È 44) con l'asserzione che ‟la persona ha per
suo fine sostanziale il diritto di porre la sua volontà in
ogni cosa, la quale, pertanto, è mia: non avendo in se stessa
un tale fine, riceve a sua determinazione e anima la mia
volontà; assoluto diritto di appropriazione dell'uomo su
tutte le cose". Nei Lineamenti di un sistema del diritto pubblico
tedesco, che è del 1865 e di uno dei maggiori rappresentanti
della ‛giurisprudenza dei concetti', il già ricordato C.F.
Gerber, questi pensieri della filosofia tedesca ricompaiono secondo
l'impostazione che già ne aveva dato il Kant, con una
concezione del diritto privato quale diritto proprio della
società in primo luogo costituito dalla ‛libertà della
proprietà', cioè da una sfera di interessi che
è fuori del campo specifico riservato al potere dello Stato.
D'altronde, la concezione che il Gerber esprime dello Stato risente
della filosofia hegeliana e gli elementi di questa si sarebbero
così mescolati con quelli della Scuola storica nella dottrina
del formalismo giuridico. Lo Stato come ‟ordine razionale ed etico",
lo Stato come ‟Stato di popolo", il ‟potere dello Stato" quale
‟volontà generale del popolo come un tutto etico teso al
raggiungimento degli scopi dello Stato, con i mezzi e nelle forme
stabilite dallo Stato" (v. Gerber, 1880; tr. it., p. 110), tutte
queste proposizioni ricordano le proposizioni hegeliane intorno allo
Stato come ‟la realtà della libertà concreta", intorno
all'interesse generale come tale ed agli interessi particolari come
fine dello Stato, intorno allo Stato ‟in quanto spirito d'un
popolo", che è insieme la legge che penetra tutti i suoi
rapporti, l'ethos e la coscienza dei suoi individui; infine intorno
al popolo che, ‟in quanto Stato, è lo spirito nella sua
razionalità sostanziale e nella sua immediata realtà
e, quindi, è il potere assoluto sul territorio;
conseguentemente, uno Stato è, di fronte agli altri, in
indipendenza sovrana".
Del resto, hegeliana è la dottrina dell'äusseres
Staatsrecht, del diritto pubblico esterno, che fu enunciata nella
scienza giuridica dal Laband e dal Jellinek e divenne un credo del
positivismo giuridico, agli antipodi con la dottrina kantiana, nella
quale era contemplata una ‛società universale', come
attuazione di un diritto universale, attraverso una confederazione
universale degli Stati, una specie di attuazione positiva del
diritto naturale.
È per queste vie che si arriva fino al ‛diritto puro' e alla
sua estrema e più perfetta espressione per opera del Kelsen.
Ma se è facile distinguere per sommi capi una tendenza
esistente nella lunga storia della filosofia e della teoria intorno
al diritto verso una piena indipendenza del diritto dalla morale,
dalla tendenza che invece considerò questa unione come
essenziale e vivificante; se, insomma, vi fu per tempo una tendenza
positivistica contrapposta o mescolata con quella del diritto
naturale, difficilissimo e spesso impossibile è determinare
in quale proporzione l'una o l'altra abbiano influito sulla
formazione del pensiero giuridico contemporaneo, sulle sue
fondamentali esigenze e sul suo modo di essere. Ad esempio, la
dottrina con la quale si enuncia il positivismo giuridico moderno,
vale a dire la dottrina dell'Hobbes, per quanto possa essere lontana
dalle dottrine della Seconda Scolastica, aveva in sé qualcosa
della teoria del dominium che di essa fu propria. L'affermazione
assoluta dell'individuo attraverso il dominio su tutte le cose
è, in fondo, la manifestazione estrema di un individualismo
che si esprime nell'Hobbes col dominio assoluto sul mondo
circostante, in un diritto che coincide con la sua stessa negazione,
cioè con l'esaltazione della forza.
Ma nella dottrina hobbesiana proprio questa fu l'idea del diritto,
un diritto a un'assoluta libertà per il conseguimento
dell'utile. In questo scetticismo verso le concezioni tradizionali
v'era non solo un distacco da ogni trascendenza che non coincidesse
con la ragione per quanto riguardava il diritto naturale, ma anche
da ogni legittimazione che non fosse la volontà sovrana per
quanto concerneva la legge positiva. Certo si è che il
pensiero che sul diritto fu espresso nel sec. XVII aveva in comune
nei vari autori la ricerca di un ordine razionale, di un modo di
essere del diritto corrispondente al modo di essere delle cose e
della natura umana. Quel sostanziale abbandono della radice
metafisica del diritto era il fondamento di un ordine razionale, che
di volta in volta veniva cercato nella natura sulla scia del
naturalismo allora trionfante, oppure nella logica matematica, che
era anch'essa concepita come strumento per leggere nella natura. In
sostanza, ciò che accomunava tutte quelle diverse
manifestazioni del pensiero, fossero rivolte a considerare la
relatività del diritto a seconda dei tempi o dei luoghi, come
nei libertini francesi, o la natura umana, come in Hobbes, o
l'ordine della natura e la forza, rispettivamente del diritto
naturale obiettivo o del subiettivo, come in Spinoza, era la ricerca
di una ragione delle cose raggiungibile dalla mente umana (o propria
di esse) e nello stesso tempo di una realtà senza veli, di
una verità da ricercarsi nell'esame degli eventi e nel quadro
della quale l'ordine del diritto era visto come coincidente con
l'ordine stesso dei fatti, con la loro intrinseca forza dipendente
dalla natura delle cose o dalla natura stessa dell'uomo. Non dunque
una considerazione del diritto puramente positiva in senso moderno,
cioè di un diritto che si identificasse esclusivamente con le
norme emanate dallo Stato, ma invece una ricerca più profonda
dell'essenza di quanto è giuridico, delle radici della
giustizia, della giustificazione della legge, insomma di una
dimensione speculativa dell'ordine del diritto.
Da tutto ciò si può dedurre che il completo distacco
dalla realtà e la considerazione ‛pura' del diritto, quale si
è avuta nel Kelsen, costituisce una manifestazione alla quale
il pensiero giuridico moderno è stato condotto a poco a poco
ma che non ha alcun riscontro nella storia precedente di quella
speculazione. Per quanto si possano trovare gli antecedenti della
moderna sistematica e del moderno positivismo nel razionalismo
giuridico dei secoli passati, non è però dato
riscontrare nulla di simile a quanto si è fatto nel Novecento
intorno all'idea del diritto e della sua struttura come di qualcosa
a sé sufficiente, indifferente a qualsiasi richiamo alla
realtà nella quale il diritto nasce e per la quale è
voluto e pensato. Non si tratta infatti di considerare il diritto
come un sistema concettuale rispondente a elementi costanti, che
però hanno una corrispondenza o nell'ordine generale della
natura o nella mente e nello spirito dell'uomo, cosa che quelle
dottrine dei secc. XVI, XVII, XVIII e anche XIX hanno più
volte prospettato, ma di vedere il diritto nella sua sola struttura
logica, senza altri nessi o contenuti. Non si saprebbe neppure
affermare se a ciò si sia giunti in piena consapevolezza, o
invece procedendo per vie parzialmente già note e infine
conseguendo risultati nuovi e certamente straordinari, ma anche
sconcertanti. Certo si è (e questo va notato) che soltanto il
sec. XX è pervenuto a una scienza giuridica nella quale il
diritto è considerato esclusivamente come una costruzione
logica, senza alcun sottinteso che di questa stessa logica faccia
qualcosa di più di una forma e di un metodo.
Al contrario, di fronte alla disumanizzazione alla quale è
pervenuta la dottrina del diritto ‛puro' nei secoli che hanno
preceduto il nostro e nei quali il pensiero religioso per tanto
tempo era stato la chiave di volta del sistema giuridico, il diritto
era stato a poco a poco sostituito dal naturalismo e dal
matematicismo. Il risultato fu questo: che il diritto non fu
più considerato quale punto iniziale della
giuridicità, ma come punto finale; non come un diritto
metafisico da tramutare in diritto umano, ma come uno stato naturale
dell'uomo da imbrigliare e disciplinare attraverso la volontà
sovrana. Nella progressiva umanizzazione della ragione che era a
fondamento delle regole di condotta si rivelava uno spirito nuovo,
che arriverà fino a noi. Al di là dell'interpretazione
volontaristica o razionalistica delle norme, la ragione umana andava
dunque prevalendo sulle considerazioni teologiche della sua origine
e della sua dipendenza da Dio. Non l'origine della ragione
nell'uomo, ma il suo modo di essere era uno dei problemi del
pensiero che si proponeva di identificare i fondamenti del diritto.
Anche la progressiva separazione del diritto naturale da ogni
preoccupazione teologica, frutto della Riforma e opera del Grozio,
equivaleva a un distacco dal pensiero medievale che era gravido di
conseguenze. Ma a ben vedere, anche in questa diversa
interpretazione della natura del diritto l'eredità medievale
rimaneva per altri rispetti ben salda, perché il diritto di
natura, comunque inteso, restava a fondamento e a modello del
diritto positivo e perciò rimaneva ferma l'idea della norma
come di una categoria generale, nella quale, discendesse da un
comando o dalla ragione, si univano e si confondevano la morale e il
diritto, nonostante gli sforzi di alcuni per distinguere l'una
dall'altro. Ciò che più occupava la mente dei filosofi
e dei giuristi era la natura della normatività, ma sempre
nella sua funzione di disciplina della vita umana e quindi in
relazione esplicita o implicita con essa.
L'affermazione dei diritti soggettivi, che contribuì a dare
concretezza al problema del rapporto tra diritto naturale e diritto
positivo e che dal giusnaturalismo essenzialmente dipese,
trasferì la questione su un piano di immediato interesse
politico e suscitò il problema dei limiti che alla
libertà individuale dovevano essere posti dal diritto
obiettivo. Inoltre il sorgere in Francia dopo le guerre di
religione, di un pensiero giuridico che si ispirava all'assolutismo,
contribuì in modo decisivo, insieme con il pensiero
hobbesiano, a dare concretezza ad alcuni aspetti della concezione
del diritto e delle sue modalità e ad avvicinare alla
realtà storica un diritto ideale che si era concordemente
identificato nel ius naturae. Poiché ormai un tale diritto
era considerato prodotto dell'umana ragione, era inevitabile il suo
progressivo avvicinamento e anche la sua identificazione col diritto
storico, che era l'unico che potesse in definitiva offrire un
confronto tra ciò che era e ciò che avrebbe dovuto
essere, tra le norme universali del diritto naturale e la loro
eventuale identificazione nelle regole del diritto positivo. In
ciò si annunciava un mutamento fondamentale delle premesse
del giusnaturalismo, perché il diritto di natura,
anziché essere realmente una misura al vaglio della quale
doveva essere valutata la validità del diritto positivo,
finiva per divenire un motivo di giustificazione di quest'ultimo,
col quale era frammisto e nel quale doveva essere scoperto.
11. Importanza del diritto romano
Questa posizione intellettuale era alle origini della rivalutazione
del diritto romano in nome del diritto naturale e fu uno degli
elementi della polemica che da allora arriverà fino al sec.
XVIII e in realtà fino al XIX, quando il pensiero
giusnaturalistico cederà al formalismo e al concettualismo
attraverso il filtro della Scuola storica, non senza portare con
sé una non lieve eredità del diritto naturale. In
questo stesso quadro, la polemica ormai ricorrente pro e contro il
diritto romano si rinnoverà nell'età dei lumi e
proseguirà essa pure sotto mutate spoglie, cioè nella
polemica sviluppatasi all'interno della stessa Scuola storica tra
romanisti e germanisti, più vicini i primi alle posizioni non
completamente consumate del diritto naturale, più coerenti i
secondi con le premesse del Volksgeist; partecipi i primi di un
atteggiamento conservatore che, in nome della ragione, si
prolungherà fino alla seconda metà del sec. XIX e
vedrà i giuspubblicistici tedeschi, e il loro caposcuola P.
Laband, schierati a fianco del Bismarck, più inclini i
secondi a vedere, secondo appunto le tradizioni del diritto
germanico, una più stretta corrispondenza tra le norme e la
realtà effettuale, e più favorevoli a un atteggiamento
politico liberale. Anche Hegel, del resto, aveva condiviso le
critiche al diritto romano che furono proprie dei germanisti,
specialmente sotto il profilo della sua non eticità, come poi
dovevano ripetere i tanti autori che, nella letteratura tedesca,
esaltarono il carattere etico e sociale del diritto germanico di
fronte all'individualismo e all'esaltazione della forza che
sarebbero stati propri del romano.
Nel sec. XVII il diritto romano offriva il fondamento positivo per
una conciliazione tra diritto vigente e diritto ideale e naturale,
che sarà per lungo tempo uno dei problemi essenziali del
pensiero giuridico. Il pensiero giusnaturalistico dibatterà
la grande questione del fondamento razionalistico o volontaristico
del diritto, sommo problema della teoria giuridica e della
concezione dello Stato. Ma quando si trattava di esaminare in
concreto il diritto privato ben difficilmente il distacco dal
diritto romano era possibile. Ciò che sempre più
appariva inaccettabile era però il modo col quale il diritto
romano si era tramandato nei secoli, cioè l'immensa e
farraginosa costruzione del ‛diritto comune', nel quale, su
fondamento giustinianeo, la dottrina civilistica e canonistica era
andata elevando un caotico complesso di teorie e di principî,
indominabile nella varietà delle opinioni e nella
contraddittorietà delle disposizioni e comunque inadatto a
fungere da diritto dello Stato.
Tuttavia la dottrina del diritto comune offriva alla meditazione,
per la seconda volta nella storia dopo la giurisprudenza romana,
l'esempio di un pensiero giuridico che, pur avendo costruito le
proprie teorie sul fondamento di una interpretazione delle norme
positive, aveva raggiunto una tale importanza da poter essere
considerato esso stesso fonte di norme. Il divario tra questa
dottrina e quella che prenderà poi il nome di ‛giurisprudenza
dei concetti' è certamente grande. Ma sarebbe difficile
negare che quella dottrina del diritto comune, rielaborata a sistema
proprio dalla Scuola storica e dai suoi seguaci ed epigoni, non
abbia influito sui formalisti e concettualisti tedeschi nel
suggerire a essi - che quella tradizione del diritto comune,
specialmente nella sua versione germanica dei secoli immediatamente
precedenti, avevano avuta ben presente e avevano fatto oggetto di
lungo studio - la persuasione dell'onnipotenza della speculazione
intorno al diritto e della creatività della logica nel campo
non solo dei concetti, ma delle norme derivanti immediatamente da
essi.
12. La reazione al diritto comune. Leibniz
Così anche la scienza giuridica conobbe la sua rivoluzione
copernicana. La reazione al diritto comune assunse dal punto di
vista filosofico l'aspetto di un'applicazione al diritto di un
metodo matematico capace di ridurre le norme a sistema. Che il
sistema normativo passasse attraverso lo Stato, che fosse sempre per
opera dello Stato che le norme acquistavano carattere coattivo e il
diritto naturale si trasformava in positivo e il diritto romano in
diritto dello Stato particolare, è un'esigenza che si trova
già nelle opere del Pufendorf e in quelle del Locke. La
concezione secondo la quale il diritto non sarebbe più dovuto
consistere di proposizioni corrispondenti al diritto romano e
canonico fu sostituita da quella secondo la quale tutto il diritto
era dominato da una coesione fondamentale, consistente
nell'unità logica insita nel diritto e tale da consentire la
scoperta di un sistema ispirato dalla ragione matematica. Il corpo
delle norme non doveva più essere espresso da un'immensa
quantità di proposizioni che si incrociavano in una
sterminata casistica. All'analisi infaticabile si andava così
sostituendo la sintesi, fondata su principî semplici dai quali
dedurre regole esatte.
Questa tendenza, propria del Seicento e corrispondente
all'ispirazione matematica e scientifica di quel secolo, ebbe per il
diritto due sommi rappresentanti, di diversissimo carattere e
valore, ma uniti nella ricerca di un ‛sistema' semplificatore: il
Leibniz in Germania e il Domat in Francia. Il sistema del Domat,
consistente appunto nell'ordinare le leggi secondo il loro ‛ordine
naturale', ha come fondamento il diritto romano e come metodo una
ragione che aveva tratto ispirazione dal Pascal e dal Cartesio e si
pone come l'inizio di un movimento destinato a sfociare nelle
codificazioni. Alla logica matematica era informato il pensiero del
Leibniz, che però non fu indotto da ciò a una
costruzione astratta, fondata su ipotesi prive di riscontro nella
realtà. La caratteristica costante, che abbiamo già
verificata nella storia del pensiero intorno al diritto prima del
sec. XIX, non si smentisce neppure in questo caso. La dottrina del
Leibniz era il coronamento di una serie di sforzi compiuti in
Francia fin dal Cinquecento e poi proseguiti in Germania, volti a
ricercare nel corpo di un diritto storico, in primo luogo nel
diritto romano, una linea logica che per- mettesse di classificare,
raggruppare e ridurre a più semplice espressione la materia.
Il sistema proposto dal Leibniz aveva peraltro le sue profonde
corrispondenze con la storia e con lo stato della società,
come del resto era accaduto per lo schematismo a lui precedente. Il
solido fondamento romanistico scelto per l'applicazione del sistema
di natura matematica corrispondeva a un'ispirazione non
rivoluzionaria, ma anzi conservatrice nei confronti della
società tedesca. Il problema fondamentale del Leibniz, come
poi accadrà per tutti i sistematori delle epoche seguenti, fu
la riduzione a sistema e non la riforma del diritto. Tale riforma fu
estranea ai suoi fini perché la logica matematica è
fuori del tempo, superamento della storicità e astrazione da
essa, come astrazione furono le dottrine che dalla giurisprudenza
concettuale fino al Kelsen si proposero di costruire le linee
logiche generali del sistema giuridico. Dal Leibniz dunque,
cioè dal suo sistema logico eretto sul fondamento di un
diritto storico e tale da offrire ogni soluzione possibile
nell'interno di quel sistema normativo, ha origine propriamente la
dogmatica giuridica moderna, passata attraverso l'immensa fortuna
riscossa dall'opera di Ch. Wolff (1670-1754) in Germania.
È evidente che questa suprema ricerca del sistema giuridico e
il postulato che, data la natura logica di esso, ogni soluzione deve
essere possibile nell'interno del sistema, escludono qualsiasi
soluzione diversa, che sia al di fuori delle esigenze della ragione,
del problema delle lacune dell'ordinamento e di un adattamento della
norma al caso concreto. Non ebbero più alcun senso il
richiamo all'equità, che ha avuto nella storia
dell'applicazione delle norme giuridiche una funzione tanto
importante così in alcune epoche del diritto romano come nel
diritto dell'età intermedia, e il ricorso a diritti diversi
per l'interpretazione di un diritto dato, che fu caratteristico del
diritto comune ma che anche prima della sua formazione si
verificò su larga scala.
Per quanto questa sistematica logica derivi dalla concezione
razionalistica della norma, cioè si accordi con l'idea
fondamentale nella storia del pensiero giuridico che la norma ha in
sé una validità non dipendente dalla volontà ma
dalla ragione, storicamente quel razionalismo si accordò con
le codificazioni, quale espressione di una sistematica che, se si
ispirava alla ragione nella sua forma esterna, era internamente
costituita dalla volontà del legislatore. Così accadde
anche per il Leibniz e così è avvenuto per i seguaci
del formalismo giuridico moderno. Ma l'equilibrio tra quei due
elementi, che si ripresentano eternamente di fronte alla scienza del
diritto, o, per meglio dire il rapporto tra l'uno e l'altro, fu
variamente inteso ed è perciò necessario soffermarsi
sul problema. E il problema può essere così enunciato:
la validità della norma dipende da una volontà che si
considerava per sua natura razionale. Era la razionalità
della storia, la concezione della storia rispetto al diritto che la
Scuola storica aveva espresso e che conteneva un altro equilibrio
instabile, risolto sempre più in favore della ragione e
sempre meno della storia. Ma la norma conservava in sé, con
la volontà razionale del legislatore, questo significato
‛soggettivo', che l'interprete doveva penetrare, andando al di
là dell'espressione per raggiungere lo spirito, oppure la
norma aveva un suo significato, che diveniva indipendente
dall'intenzione del legislatore al momento della sua emanazione?
La prima posizione, ancora dipendente dall'impostazione della Scuola
storica, è quella che conosciamo anche nella storia del
diritto romano e del diritto intermedio. L'opera dell'interprete sta
nella penetrazione di un significato della legge che non può
prescindere dalla vera intenzione del legislatore. Questa
affermazione segnò, nel diritto romano, un momento
fondamentale nell'evoluzione del diritto, che si distaccò dai
verba per rivolgersi al sensus. Non era quindi soltanto una
questione d'interpretazione normativa, ma prima di tutto un diverso
modo d'intendere il diritto nella sua totalità, che fu
compiuto attraverso l'opera del pretore e che cambiò la
natura stessa del diritto civile. Si può assegnare un
importanza equivalente alle teorie che, in un modo o nell'altro, si
sono distaccate nel secolo scorso e nel nostro dallo strictum ius,
dal diritto così com'è espresso nella legge? Non
riteniamo che si possa affermarlo: perché, dietro alla
trasformazione del diritto in Roma, c'era una profonda
trasformazione dello Stato che, nonostante tutto, è mancata
negli ultimi due secoli della nostra era. La disputa è stata
una questione di dotti, non una questione realmente promossa da una
trasformazione civile.
13. La ‛giurisprudenza dei concetti'
In altre parole, si tratta essenzialmente di una tecnica
d'interpretazione, non di una trasformazione del modo d'intendere la
natura del diritto da parte dello Stato. La metodologia
sull'interpretazione non è derivata nella dottrina giuridica
del nostro tempo dalla necessità di risolvere in primo luogo
delle questioni presentate dalla vita, ma da impostazioni teoriche
che definivano il diritto come un complesso di norme in evoluzione,
come un sistema concettuale a forma di piramide (un'immagine che dai
primi rappresentanti della giurisprudenza concettuale arriva fino al
Kelsen), nel quale le massime giuridiche, considerate alla stessa
stregua dei concetti giuridici, sono collegate tra loro con un nesso
organico e in modo tale che da massime giuridiche note possono
dedursi altre massime prima ignote. Questa generazione concettuale
(il Puchta arrivò ad affermare che ‟i concetti sono
produttivi, essi si accoppiano e generano nuovi concetti") è,
com'è quasi ovvio, al fondamento delle teorie
sull'interpretazione, ma non può avere la vitalità
essenziale che tale interpretazione ebbe nel diritto romano. Lo
stesso può dirsi per il diritto intermedio, la cui importanza
rimane grandissima per intendere le teorie moderne, dato che tali
teorie si sono formate in qualche modo in accordo o in polemica col
sistema del diritto comune. Ma anche nel diritto medievale la
speculazione giuridica prese tutt'altra strada. Il fatto che il
fondamento essenziale di tale speculazione fosse un testo la cui
autorità poteva essere paragonata a quella di un testo sacro
fece sì che l'interpretazione si svolgesse su questo
presupposto fondamentale, che il giurista doveva comprendere
esattamente il pensiero del legislatore e nulla più. I casi
nei quali i civilisti assunsero un atteggiamento indipendente o
critico nei confronti del testo sono perciò eccezionali,
anche perché altri mezzi venivano se necessario usati per
modificare e adattare nella sostanza la norma senza contraddire a
quel principio fondamentale.
La ‛giurisprudenza concettuale' si è posta il problema
dell'interpretazione in modo del tutto diverso, non per quanto
poteva concernere l'analogia, che era un modo per affrontare il
problema delle lacune ben noto anche alla scienza giuridica
medievale, ma per quello che concerne il valore della dottrina in
sé e per sé. Nessun'altra dottrina giuridica assunse
in pratica il valore normativo di quella medievale. Ma ciò
avvenne per la grande autorità di cui l'opinione dei dottori
godette nei tribunali e non per un principio apertamente affermato
dalla stessa dottrina. Invece la ‛giurisprudenza concettuale' si
considerò creatrice di norme attraverso il lavoro compiuto
sulle norme esistenti, dando così luogo a quello che fu
chiamato ‛il diritto dei giuristi' (Juristenrecht). Questo
procedimento era nuovo; e costituiva, in un ambiente come quello
dell'Europa continentale nel quale aveva ormai trionfato il
principio codificatorio, una singolare rivincita del razionalismo
giuridico sul volontarismo.
L'inizio è anche in questo caso da identificare nel Puchta,
che dallo ‟spirito del popolo", fondamento non logico posto dal
Savigny alla razionalità intrinseca del sistema,
spostò più decisamente l'accento sull'aspetto
puramente concettuale. Con questo in realtà si perdeva il
significato di quanto la Scuola storica aveva intuito, nella sua
prima teoria circa il nesso tra quanto era autonoma attuazione
popolare nel campo del diritto e quanto invece costituiva
l'identificazione e lo sviluppo logico-tecnico di quella situazione
giuridica che spontaneamente si era creata nella società
nazionale. Essa attribuiva a quella logica un fondamento storico e
una corrispondenza con i bisogni reali della società che
doveva perdersi in una teoria nella quale lo sviluppo concettuale
andò acquistando un'autonomia sempre più assoluta. In
quella prima impostazione organico-storicistica, in quell'intuizione
che il diritto è un fenomeno che si attua spontaneamente in
una determinata comunità umana, c'era un limite alla logica e
un precorrimento di altre teorie, espresse nel nostro secolo, nelle
quali appunto il diritto è stato pensato in primo luogo come
un fatto di organizzazione spontanea. Ancora B. Windscheid, il
massimo dei pandettisti tedeschi, scriveva nel primo volume della
sua opera maggiore che la ‟scuola storica moderna (cioè
quella di Hugo e di Savigny) si distingue dalla scuola storica del
XVI secolo specialmente per l'energia della sua tendenza a concepire
i principî giuridici quali prodotti delle forze e dei bisogni
che nascono dai rapporti di fatto, e a scrutare così la sua
vita intima, e per la maggior attenzione a formulare esattamente i
concetti e mostrare l'accordo sistematico dei singoli principî
del diritto romano" (v. Windscheid, 1886; tr. it., pp. 25 ss.).
Ma, come s'è detto, col Puchta, che anche il Windscheid
considerava il migliore degli allievi del Savigny, la prospettiva
comincia a mutare sostanzialmente. Il problema della corrispondenza
tra la società e il diritto, che era stato prospettato
specialmente mediante il valore attribuito al diritto
consuetudinario - che il Windscheid, seguendo il pensiero di Hegel,
avvicina alla legge ‟perché la fonte ultima d'ogni diritto
positivo è la ragione dei popoli", la quale ‟può
stabilire il diritto in due modi, mediatamente [...] per mezzo della
legislazione [...]" e ‟immediatamente [...] per via dell'uso"
(ibid., pp. 50 ss.) - comincia ad affievolirsi e la ragione a
rivendicare il suo primato. È R. von Jhering che, nel primo
periodo della sua attività, e specialmente nella grande
trattazione sullo spirito del diritto romano (Der Geist des
römischen Rechts, 1852-1865), rimasta incompiuta, e nei
contributi pubblicati nella rivista che egli fondò e diresse
con perfetta uniformità d'intendimenti con Gerber,
rappresentò in quegli anni l'espressione estrema di quel
razionalismo. Proprio per il bisogno di distaccarsi dal razionalismo
di origine illuministica, ancora presente nei primi rappresentanti
della Scuola storica, è da ritenere che si facesse dal
Jhering ricorso a immagini tolte dalle scienze naturali e
sperimentali per esprimere il processo induttivo attraverso il quale
egli pretendeva di creare concetti e massime giuridiche mediante un
metodo combinatorio, prendendo le mosse da concetti dati per
pervenire a concetti prima ignoti, ai quali peraltro mancava ogni
carattere normativo.
Il problema fondamentale per una scienza giuridica che si fondasse
su una produzione razionale del diritto era dunque ancora, come era
stato anche in passato, il problema della ‛positività' delle
norme corrispondenti a ragione. E la soluzione non poteva ormai
trovarsi, essendo lontani i presupposti del diritto naturale, che
nel diritto positivo. Tra le due possibilità che abbiamo
enunciato poc'anzi e che si riferiscono al modo d'intendere la
funzione e i limiti dell'interpretazione, il Windscheid scelse la
prima. Per lui l'interpretazione doveva consistere nella
penetrazione del pensiero del legislatore, nell'effettivamente
voluto da lui, ed era così un fatto essenzialmente
storico-psicologico. Il procedimento interpretativo, che egli
definisce come ‟dichiarazione del contenuto del diritto", comincia
con lo ‟stabilire il senso annesso dal legislatore alle parole da
lui adoperate", dato che ‟le leggi sono norme giuridiche formulate
in parole". Il primo stadio dell'interpretazione è
perciò quello grammaticale. Il secondo è la
penetrazione nell'animo del legislatore, tenendo conto soprattutto
dello stato del diritto all'epoca dell'emanazione della legge e
dello scopo che il legislatore ha voluto raggiungere, contentandosi
anche della semplice verosimiglianza quando non sia possibile fare
di più. Con tutto ciò si può non solo
determinare il vero senso dell'espressione della legge, ma anche
integrarla e correggerla, pervenendo a seconda dei casi a
estenderne, restringerne o modificarne il disposto. Tuttavia
l'interpretazione, secondo il Windscheid, ha anche il compito di
arguire, dal senso, il vero concetto del legislatore. Quando
cioè lo stesso legislatore ‟non abbia avuto una percezione
completamente chiara di questo concetto", l'interprete può
far valere, di fronte alla volontà da lui espressa [...],
quella che aveva realmente".
È evidente che qui si compie un passo ulteriore sulla via
dell'interpretazione logica; e che dalla penetrazione
dell'intenzione si passa alla sua integrazione. L'estensione della
funzione interpretativa trae conforto dall'unità logica del
diritto nel suo insieme, di un diritto che era ormai tutto nello
Stato. E poiché dietro il diritto c'era questa figura
statuale, il presupposto era che la volontà di questa non
altrimenti dovesse agire che nell'interesse supremo di se stessa e
dei sudditi e che quindi lo Stato si identificasse con lo Stato
conservatore tedesco della seconda metà del secolo scorso,
che aveva il proprio ascendente nelle monarchie illuminate del
secolo precedente.
Teoria, dunque, dell'interpretazione come identificazione degli
scopi legislativi e come integrazione della volontà
legislatrice in uno Stato al di sopra del quale non c'era ormai
più nulla, e nel cui sistema i diritti subiettivi non
derivavano da una fonte autonoma ma dalla sola volontà
statuale. Qui il volontarismo proprio di una teoria che aveva
concentrato sullo Stato tutto il significato del diritto sollevava
delle difficoltà, una delle quali consisteva nel chiedersi di
quale natura fosse il diritto subiettivo che sussistesse anche
qualora il diritto non dipendesse dal suo titolare, da una sua
manifestazione di volontà. Così nel caso che si violi
un diritto del proprietario d'un fondo attraversandolo, sebbene il
proprietario non l'abbia impedito; così nel caso di chi non
soddisfi il suo creditore, sebbene questi non gli abbia ingiunto di
soddisfarlo; così l'incapace, che può avere un diritto
senza saperlo. Il Windscheid aveva dapprima cercato di risolvere la
difficoltà affermando che l'ordinamento giuridico, concedendo
un diritto, non dichiara decisiva la volontà del titolare, ma
il contenuto della volontà. Ma poi aveva preferito l'opinione
del Thon, ‟che la volontà imperante nel diritto soggettivo
è soltanto la volontà dell'ordinamento giuridico, non
la volontà del titolare" (v. Windscheid, 1886; tr. it., p.
109). Il problema, in realtà, era implicitamente esistito
anche nella concezione dei diritti subiettivi come indipendenti
dall'ordine giuridico positivo, in quanto corrispondenti a una norma
del diritto naturale. Ma nelle teorie giusnaturalistiche la
preoccupazione di affermare i diritti subiettivi come indipendenti e
autonomi aveva posto in ombra il problema, e come questo tanti altri
che vennero sul tappeto soltanto con l'affermarsi del diritto
positivo come l'unico diritto possibile. Il positivismo giuridico
ebbe così il grande merito di indurre all'approfondimento dei
concetti giuridici, che nelle teorie del diritto naturale erano
rimasti sospesi tra la dottrina del diritto romano e i problemi
filosofici propri del diritto naturale.
Da tutto ciò il Windscheid deduce la sua definizione del
diritto subiettivo come ‟una podestà o signoria della
volontà impartita dall'ordine giuridico". Dal punto di vista
del diritto obiettivo si poneva d'altronde il problema delle
‛lacune'. Ciò che qui premeva soprattutto era ancora una
volta di risolvere la questione non facendo ricorso al diritto
naturale, ma trovando nello stesso ordinamento il criterio per
sopperirvi. Questo criterio era affidato alla scienza giuridica e lo
strumento era ancora una volta quello dell'interpretazione, col
quale appunto la scienza del diritto diveniva, secondo la
tradizione, un elemento indispensabile d'integrazione della
volontà dello Stato. L'interprete doveva perciò, in
caso di ‛lacune', trovare la ‟decisione che è la giusta" nel
senso dell'intero complesso delle norme, anzi, come il Windscheid
precisa, nel loro ‟spirito". È evidente che nel modo
d'intendere ‛lo spirito' dell'ordinamento e di trarne la giusta
soluzione si introduceva nel diritto obiettivo una variabile che
dipendeva dal criterio dell'interprete ma di cui sembra che il
Windscheid, affascinato dalla visione del diritto positivo, non si
sia reso completamente conto.
Negli stessi anni nei quali il Windscheid completava e perfezionava
il suo pensiero, tre altri giuristi tedeschi, il Binding, il Wach e
il Kohler, enunciavano una nuova teoria dell'interpretazione nella
quale quell'elemento variabile trovava un più ampio
accoglimento. Ma che tale variabile entrasse in maggior misura che
di consueto nelle dottrine di questi tre giuristi non significa che
essi la riconoscessero come tale. Al contrario, essi si sforzarono
di sottolineare il carattere ‛oggettivo' dell'interpretazione,
affermando che la legge non ha il significato che il legislatore ha
voluto infondervi, ma un significato autonomo, inerente alla legge.
È singolare come questa presunta ‛obiettività' si
risolvesse in quella che tale era ritenuta di volta in volta
dall'interprete, e quindi, in realtà, nella sua
interpretazione della norma. La circostanza che nella legge si possa
constatare non solo la razionalità della sua natura, ma anche
la razionalità degli scopi che essa si propone, è
molto importante. Se l'analisi della razionalità della legge
deve prendere le mosse dalla considerazione dei principî
giuridici che sono alla base dell'ordinamento e deve cercare di
identificarli nella norma, un secondo criterio integratore del primo
sta nel determinare gli scopi che la legge si propone in vista delle
condizioni sociali che essa deve regolare. Ma è assolutamente
chiaro che, mentre con questa modifica dei criteri che devono
presiedere all'interpretazione si alteravano i lineamenti propri
della ‛giurisprudenza dei concetti', vi si introduceva anche un
principio di apprezzamento politico che, secondo i canoni della
dottrina precedente, non avrebbe dovuto far parte dell'ermeneutica.
Si è osservato dal Manigk, e si è confermato dal
Larenz, che tutto ciò sottolinea l'antitesi tra il
positivismo e il razionalismo. E questo è soprattutto vero se
si tenga conto delle conseguenze che una simile teoria poteva avere
sull'attività giudicante, nella quale si introduceva in tal
modo inevitabilmente un più ampio margine di apprezzamento.
Ma se si consideri la dottrina in sé e per sé, si
dovrà riconoscere che essa è pur sempre nell'ambito
del positivismo giuridico, il quale non può esaurirsi
nell'antitesi tra volontarismo e razionalismo.
Se si esaminano queste teorie non soltanto sotto l'aspetto delle
intenzioni dei loro autori (e non c'è dubbio che sotto questo
profilo essi fossero tutti convinti di dare il loro contributo allo
sviluppo di un diritto positivo) ma anche sotto quello del loro
effettivo contenuto, non si può evitare di riconoscere che la
positività di un determinato ordinamento e della scienza che
si propone d'interpretarlo non può esser fatta dipendere
dalla maggiore o minore ampiezza con la quale vengono usati dei
criteri razionali per l'analisi delle norme e dei concetti che vi
sono contenuti, ma dal fatto stesso che l'oggetto di tale
attività è costituito da norme positive, cioè
emanate dallo Stato. Il positivismo, se sia pensiero giuridico e non
attività politica, deve sempre venire a patti con il
razionalismo degli interpreti. Può darsi che
l'interpretazione alla Windscheid fosse più aderente alla
figura della legge che non quella, per esempio, del Kohler; ma
questo dipende soltanto dal fatto che nella prima si sono posti dei
limiti in sostanza arbitrari all'esercizio della ragione da parte
dell'interprete, limiti che non hanno una giustificazione
scientifica, ma soltanto politica. Tuttavia il tentativo di limitare
l'attività interpretatrice è un'illusione che da
Giustiniano in poi è ritornata costantemente nel mondo del
pensiero giuridico, con il successo che ognuno conosce. La questione
è soltanto questa: che l'interpretazione deve esercitarsi su
norme positive, cioè su regole di condotta espresse da un
legislatore, la cui attività si esplica nell'ambito dello
Stato. Il confine ideale che divide l'interpretazione dalla
fondazione di norme nuove non sta nella funzione dell'ermeneutica ma
piuttosto in quella legislativa, cioè in una funzione
identificabile attraverso certi caratteri formali. Se v'è una
legge, la sua interpretazione ha uno sviluppo al quale non possono
essere prestabiliti confini, come non si possono stabilire confini
all'intelletto umano quand'esso si proponga di determinare il
significato di un oggetto che esso ha assunto come proprio. O, se si
preferisce una dimostrazione per assurdo, l'interpretazione
cesserebbe di essere tale soltanto se essa assumesse i caratteri
formali della legislazione.
14. Il problema dell'interpretazione
Il problema dell'interpretazione in generale è il problema
dei limiti che essa ha nei confronti dell'oggetto interpretato. E il
problema dell'interpretazione della norma giuridica ha connotazioni
particolari, perché non implica solo una questione
intellettiva, cioè concernente l'esatto significato della
norma, bensì anche la sua applicazione. In altri termini, per
quanto riguarda l'interpretazione giuridica non è sufficiente
l'interpretazione della volontà del legislatore, ma è
anche necessario porre tale volontà in relazione con la
realtà sociale che la legge si propone di regolare.
L'impostazione data al problema dal Windscheid si dimostra dunque
sotto questo profilo insufficiente, perché l'interpretazione
giuridica non deve soltanto ricostruire quanto è stato
voluto, ma anche la sua efficacia effettiva e la sua validità
sociale attuale. Questo è quanto si vuol dire quando si
afferma che l'interpretazione giuridica ha carattere normativo. La
sua normatività non consiste nella formale sostituzione della
volontà dell'interprete a quella del legislatore, ma nel
fatto che la norma non vive veramente se non venga interpretata,
cioè intesa nel suo significato, il che è condizione
per la sua applicazione. Un significato che, come s'è
già detto, non si limita alla ricostruzione dell'intenzione
del legislatore, ma attribuisce alla norma la funzione migliore
possibile, considerate le circostanze.
Questa è, in sostanza, la dottrina che il Betti, che ha
lungamente dedicato la sua attenzione all'interpretazione giuridica
e non giuridica, ha costruito aderendo nell'impostazione generale a
quanto era già stato espresso dal Wach. È evidente che
il problema dell'interpretazione riveste nel diritto una somma
importanza, perché inerisce alla stessa natura ed efficacia
della norma, la quale richiede l'adesione di chi deve osservarla e
farla osservare. Ecco perché la determinazione dell'esatta
sua natura porta con sé la determinazione della stessa natura
della norma. Secondo la teoria normativistica del positivismo, che
ha il suo più eminente rappresentante nel Kelsen,
poiché la norma è un giudizio logico, la funzione
dell'interprete si limiterebbe alla formulazione rigorosa del
linguaggio nel quale la norma stessa si esprime. L'interpretazione
giuridica avrebbe quindi per suo compito essenziale di analizzare il
linguaggio legislativo con intento scientifico (Bobbio, Glanville,
Williams).
Che questa soluzione non possa soddisfare coloro che nella norma
giuridica non vedono soltanto un'espressione della logica, depurata
di ogni contenuto, etico, economico, politico che sia, s'intende
facilmente. Quali che possano essere le linee strutturali che la
logica attribuisce al diritto, esse non possono arrivare fino al
punto di togliere al diritto ogni collegamento con gli scopi che
esso non può non proporsi. La neutralità della teoria
di fronte a tali scopi concreti è in verità questione
del tutto diversa dalla sottrazione di ogni scopo al diritto quando
se ne vogliano definire le linee teoretiche essenziali,
perché altro è astrarre dalla sua funzione pratica,
senza optare per l'una o per l'altra finalità che di volta in
volta un'ispirazione politica scelga in concreto, e altro è
concepire il diritto come teoricamente privo di qualsiasi contenuto.
In sostanza anche il Betti, che pure non si appella a presupposti
volontaristici nel criticare il razionalismo kelseniano, ha ritenuto
che questa sterilizzazione della norma giuridica non possa essere
sostenuta. Anche per lui ‟le norme non sono pure enunciazioni di
giudizi tendenti a comunicare un sapere circa la sintesi di un
soggetto e di un predicato, ma sono strumenti a un fine di
convivenza sociale" (v. Betti, 1955, p. 797).
Se però si può accogliere questa definizione della
norma, di fronte alla quale la nostra sensibilità reagisce
positivamente per la stessa situazione storica che impone all'uomo
contemporaneo di stabilire un nesso tra il diritto e le aspirazioni
riformatrici insite in un'epoca di così rapidi e radicali
mutamenti sociali ed economici, non tutti i problemi inerenti
all'interpretazione possono considerarsi con ciò risolti. E
il problema certamente più delicato è quello che
riguarda il limite dell'interpretazione. Che questo limite ci sia
è un avvertimento del buon senso ancor prima che una
proposizione legata a una deduzione rigorosa. Ma dove il limite sia,
questo è veramente incerto e controverso. Fu sicuramente
l'intento di non superare il lecito interpretativo che indusse il
Windscheid a ritenere l'opera dell'interprete limitata
all'intendimento delle parole del legislatore e, oltre le parole,
dell'intenzione effettiva. Ma questa distinzione tra interpretazione
filologica e interpretazione logica fu, come sappiamo, contraddetta
da una teoria obiettiva, secondo la quale la norma, una volta
espressa, assume un contenuto e un significato indipendenti dalla
volontà di chi l'ha emessa. Che questa elasticità
attribuita al contenuto normativo sia una necessità di
qualunque ordinamento giuridico, che non può essere legato
alla volontà del passato per regolare i rapporti del
presente, è un'esigenza che la storia dimostra pienamente
valida. Le critiche che si sono rivolte dal Croce all'astrattezza
della norma (che sono sintetizzate nella sua celebre definizione:
‟la norma giuridica è un atto di volizione diretto a una
serie o classe di azioni"), non hanno tenuto conto del problema
interpretativo, che appunto identifica nell'interpretazione quanto
attualizza la norma, riproducendone la volontà tenuto conto
di fatti e situazioni determinate. In realtà
l'interpretazione non solo attualizza il disposto legislativo in
considerazione di fatti e di situazioni generali, ma anche e in
certi limiti nei singoli casi e fatti concreti. Inoltre la norma
presuppone per la sua effettiva validità, cioè per la
sua traduzione in norma funzionante, non solo l'interpretazione, ma
anche l'accettazione dei destinatari, accettazione che implica
adesione e in certi limiti anche interpretazione del significato
della norma, cioè dell'intenzione del legislatore per tramite
della scienza giuridica. In tal modo l'atto di volizione astratto o,
per ripetere la formula espressa dal Gentile, del ‟già
voluto", si attualizza e si perfeziona come diritto.
Una volta accettata la posizione di coloro che sostengono
l'autonomia della norma nei confronti del suo creatore come una
necessità intrinseca nell'ordinamento giuridico e comprovata
ampiamente dalla storia, il problema dei limiti rimane e diviene
centrale. Se è vero che l'interprete può e deve
intendere la norma in considerazione della realtà attuale; se
è vero che quest'opera di mediazione tra la formulazione
legislativa e la sua vita effettuale per rendere la legge proficua
è tanto maggiore quanto più la norma è remota
nel tempo; quali sono i criteri obiettivi che fermino l'opera
dell'interprete e le vietino di diventare arbitraria?
Da ciò derivano anche le obiezioni e le esitazioni mostrate
da S. Romano nei suoi Frammenti di un dizionario giuridico. Di
fronte alla concezione evolutiva della legge per opera della
giurisprudenza, il Romano osservava che le modificazioni della legge
non riguardano la sua efficacia giuridica, ma soltanto la sfera
della sua applicazione. Ma è facile ribattere che questa
distinzione tra sfera di applicazione ed efficacia giuridica della
legge è artificiosa e inammissibile logicamente, dato che la
legge non può esistere in sé, ma è soltanto
quella che vive nell'intendimento degli altri, cioè
nell'interpretazione. D'altro canto, anche l'opposto angolo visuale,
secondo il quale l'interpretazione sarebbe un atto normativo nel
senso che l'interprete assuma un'attività normativa, secondo
la tesi del Gorla, costituisce un eccesso al quale sarebbe
indebitamente trascinata la teoria dell'esistenza autonoma della
legge. Si può su questo punto concordare col Betti, quando
afferma che non si deve confondere l'atto di legiferare e quello
d'interpretare, che è puramente ricognitivo e subordinato
alla legge; e che, quando si parla di funzione normativa
dell'interpretazione giuridica, s'intende soltanto parlare della sua
destinazione e non dell'efficacia giuridica che può avere in
concreto.
Tuttavia, la domanda che dobbiamo rivolgerci è ancora una
volta: chi stabilisce i confini tra interpretazione e legislazione,
quando si accetti che la norma giuridica può evolversi per
opera della prima? Il Betti stesso indica alcuni criteri. Il primo
è la ricognizione della valutazione originaria immanente e
latente nella lettera della legge e costituente la ratio iuris della
norma secondo quanto era già stato espresso dall'Heck (1914).
Un altro criterio è la considerazione dell'ordinamento nel
suo complesso, cioè un'interpretazione degli scopi della
legge a seconda degli scopi complessivi impressi alle leggi che lo
formano. Infine compaiono qui la valutazione degli interessi che
hanno presieduto all'emanazione della legge, cioè dei suoi
scopi specifici, e la valutazione degli interessi attuali che essa
deve regolare. Il loro confronto darà l'indicazione del
divario che s'è formato nel tempo tra la norma e il suo
oggetto, divario che l'interprete è chiamato a colmare.
Ma tutti questi criteri sono subordinati non certo all'arbitrio, ma
all'intendimento di colui che esercita l'interpretazione, senza
fornire ancora un elemento obiettivo che lo trascenda. Tale elemento
obiettivo ci sembra che debba essere trovato
nell'ammissibilità che l'interpretazione giuridica incontra
nella coscienza sociale. Se quei criteri fanno parte della funzione
tecnica dell'interprete, in ultima analisi la sua credibilità
deve passare al vaglio della società alla quale egli destina
l'opera sua. Il suo modo d'intendere la legge, gli scopi che egli le
propone, le modifiche che egli vi apporta, lo stesso nesso che
continua ad avvincere la norma all'interpretazione, cioè
l'ultimo limite della sua modificabilità, rispondono ai
criteri dell'interprete, ma saranno accettati o rifiutati dalla
società, nella cui coscienza si sono affermati i bisogni, gli
interessi, gli scopi ai quali un disposto legislativo deve
rispondere. È soltanto nell'accettazione che la coscienza
sociale faccia dei frutti dell'interpretazione giurisprudenziale che
questa assumerà quella funzione ‛normativa' che la distingue
da altri tipi d'interpretazione. La storia ci dice che questo
è infatti ciò che nella realtà avviene. La
giurisprudenza romana, avesse essa dinanzi il costume o la legge,
operava in stretto contatto con la coscienza sociale e la sua
grandezza dipese proprio da questo, dall'aver tenuto presente che
quanto essa doveva costruire era materiato di realtà e alla
realtà sociale destinato. La scienza giuridica medievale, e
specialmente la civilistica, si trovò dinanzi un corpo di
leggi che erano vecchie di molti secoli. Quanto essa si propose fu
di mantenere fino all'estremo intatto il valore legislativo del
Corpus giustinianeo, partendo dalla duplice posizione di intenderlo
nel suo significato originario, supponendo che tale significato
fosse applicabile nel XII e XIII secolo, o di interpretare la
lettera della legge secondo uno spirito che si imputava a
Giustiniano, ma che in realtà era proprio del Medioevo.
Nell'un caso e nell'altro la scienza giuridica mostrò la sua
intenzione di operare per la civiltà coeva, ripristinando le
condizioni di una società ritenuta un modello insuperabile o
adattando le norme del VI secolo, o addirittura della giurisprudenza
romana, alla società dei Comuni. Ma l'opera di quei giuristi,
qualunque potesse esserne la sapienza e la penetrazione, divenne
‛normativa' soltanto quando superò il vaglio della coscienza
contemporanea, come dimostrano ampiamente gli statuti delle
città comunali, che giudicarono variamente, ma comunque
sempre sindacarono, i risultati ai quali quei giuristi erano
pervenuti.
Anche il metodo che i giuristi medievali seguirono nel glossare e
commentare il Corpus juris soddisfa però a un'eterna esigenza
del pensiero giuridico, corrispondente a una situazione politica
determinata. La situazione è quella di un diritto che promani
da un'autorità sovrana e che si sia concretato in una
consolidazione o codificazione delle norme. La consolidazione o
codificazione, a prescindere da qualsiasi ispirazione riformatrice
(che fu di fatto presente in molti casi anche di raccolta non
sistematica delle norme, come in quello appunto del Corpus juris
giustinianeo, e accompagnò da un certo momento in poi la
codificazione moderna) corrisponde al diritto dello Stato, e anzi a
un diritto esclusivamente, o sempre più esclusivamente,
statale. Per quanto preparato dalle teorie e dalle ideologie
dell'illuminismo, il movimento codificatorio, che culminò nel
Codice civile napoleonico del 1804, fu in primo luogo l'espressione
dell'autocrazia.
Il rapporto tra scienza giuridica e diritto si configurò
quindi nei sistemi codificati come rapporto tra l'autorità di
un legislatore e la speculazione della scienza; una nuova versione,
insomma, del rapporto tra auctoritas e ratio, che
caratterizzò il pensiero giuridico e teologico medievale.
Esso determinò nel diritto europeo le sostanziali differenze
che intercorsero tra la scienza francese, che appunto ebbe come
compito essenziale di interpretare la codificazione napoleonica, e
quella tedesca, che invece si trovò di fronte all'imponente
complesso normativo del diritto comune, sostituito dal codice civile
tedesco (BGB) soltanto nel 1900. Per la scienza giuridica francese,
il sistema fu un dato, preparato fin dalla trattazione del Domat,
Les lois civiles dans leur ordre naturel, che aveva visto la luce
nel sec. XVII; per la scienza tedesca, invece, fu qualcosa da
conquistare e da continuamente elaborare, ricorrendo dapprima alla
logica ramistica, poi a una sistemazione del diritto romano che
aveva per presupposto la storia e l'idea dell'evoluzione del
diritto, poi di nuovo alla logica. L'elaborazione dottrinale tedesca
produsse dunque grandi costruzioni teoriche e sistematiche, che
ebbero un punto d'arrivo nella pandettistica, nella quale si
andarono preparando le strutture della futura codificazione
germanica. Ma, compiuta che essa fu, la tendenza della dottrina
tedesca rimase prevalentemente speculativa, nella continua
impostazione di grandi problemi teorici e nei sempre rinnovati
tentativi della loro soluzione, sotto l'influsso della filosofia.
15. La Scuola esegetica
Come si determinassero nella giurisprudenza tedesca i grandi motivi
dell'interpretazione lo sappiamo. Ma occorre qui ancora una volta
ripetere che, se quelle linee interpretative, dopo il Windscheid, si
andarono evolvendo verso una teoria ermeneutica ‛oggettiva',
ciò non fu certo senza che la tradizione di quel pensiero,
avvezzo per secoli a interpretare il diritto comune per adattarlo
alle condizioni mutate e ai tempi, e perciò anche incline ad
ascoltare i suggerimenti del pensiero filosofico, vi avesse la sua
influenza. Così in Germania si andò sempre più
trascendendo la legge per costruire dei grandi edifici teorici,
mentre in Francia la tendenza assolutamente prevalente fu di
interpretare la legislazione. Determinante fu anche, per questi
così diversi e anzi opposti indirizzi, la grande tradizione
francese dello Stato monarchico e accentrato, e per converso quella
tedesca di una molteplicità di Stati, nel cui interno la
struttura sociale era quella degli Stände, cioè una
struttura complicata e composta di elementi molteplici, di fronte ai
quali il compito dello Stato per l'instaurazione di una sua
struttura moderna apparve arduo ed ebbe un lungo itinerario da
percorrere.
Non deve quindi stupire che in Francia, ancor più che in
Germania a ottant'anni di distanza, quando appunto il Windscheid
pubblicò la sua celebre trattazione sul diritto delle
Pandette, il problema dell'interpretazione della legge si ponesse
subito al centro della scienza giuridica e che esso si prospettasse
essenzialmente come un compito esegetico, cioè di fedele
aderenza al disposto legislativo. Determinante, per il formarsi di
questo carattere della dottrina (che un suo critico, Julien
Bonnecase, chiamò con un nome che poi le rimase, École
de l'exégèse), fu la volontà del potere
politico e la coincidenza degli interessi e delle funzioni di coloro
che la coltivarono con gli interessi della monarchia napoleonica. Ma
certo vi influirono anche le tendenze tradizionali dell'intelletto
francese, il desiderio della chiarezza e una forma di ragionamento
più amante della deduzione che dell'induzione. Poiché
esisteva una legge, proposta da un potere indiscutibile, essa andava
interpretata il più fedelmente possibile alla volontà
del legislatore. Qui agiva un'opzione del pensiero che non era
ignara del fatto politico, cioè un pensiero giuridico che non
aveva alcuna inclinazione a considerarsi autonomo, ma accettava come
premessa naturale che lo Stato era un'espressione politica e che
solo da essa il diritto ‛positivo', unico diritto possibile, era
generato.
Le premesse erano costituite dal pensiero illuministico, che col
Montesquieu aveva esaltato la separazione dei poteri attuata in
Inghilterra, facendone i fondamenti dello Stato moderno.
Poiché il potere legislativo e quello giurisdizionale avevano
sfere e compiti rigorosamente distinti, una funzione ‛normativa'
dell'interpretazione, sia da parte di chi esercitava la
giurisdizione sia da quella della dottrina, era del tutto
inconcepibile. A questa impostazione dava nuova esca l'articolo 4
del Codice napoleonico, che concerneva il déni de justice e
disponeva che il giudice. che avesse ricusato di giudicare sotto il
pretesto del silenzio, dell'oscurità o dell'insufficienza
della legge, poteva essere processato come colpevole di denegata
giustizia. La norma fu intesa in senso restrittivo, cioè come
una dichiarazione di completezza dell'ordinamento e non già
come la possibilità di una sua integrazione da parte del
giudice, secondo l'intenzione del legislatore. Questa proclamata
fedeltà alla volontà del legislatore, che si esplicava
nella parafrasi del contenuto della legge e nella spiegazione
letterale in primo luogo, si espresse anche nella forma
dell'esposizione, che veniva fatta articolo per articolo, titolo per
titolo, libro per libro, cioè seguendo il sistema codificato
e non sostituendo un ordine diverso, che avrebbe avuto il carattere
della surrogazione di un sistema a un altro.
La Scuola dell'esegesi ebbe in Francia numerosissimi cultori e sorse
immediatamente dopo la pubblicazione del Codice napoleonico, com'era
del resto naturale considerate le ragioni che le dettero origine. Ne
fecero parte giuristi insigni, come il Merlin, il Demolombe, il
Troplong, il Baudry-Lacantinerie e l'Huc, la cui opera, l'immenso
commentario terico e pratico di diritto civile, fu pubblicata negli
anni che vanno dal 1882 al 1903. Nel complesso, il merito della
Scuola fu quello di avere mostrato come si dovesse commentare la
legge, al di fuori delle grandi costruzioni teoriche; quanto una
disposizione legislativa potesse offrire allo spirito critico del
suo interprete, e come si dovessero usare i lavori preparatori e i
collegamenti che potevano essere trovati in articoli diversi del
codice. Insomma, l'interpretazione letterale, intesa però con
un senso critico spesso molto fine, vi celebrò i suoi fasti.
Nè l'utilità grande di un simile metodo può
essere disconosciuta, nè si può facilmente negare che,
se l'interpretazione debba intendersi come quella che ha per oggetto
un diritto positivo, una simile esegesi, nella quale la filologia si
combinava a un uso della logica costantemente rapportato al dato
legislativo e soltanto a quello, non può non essere il
presupposto per ogni speculazione che sul diritto positivo venga
condotta. Ciò spiega, del resto, oltre all'autorità
che la potenza francese infuse alla propria codificazione anche nei
confronti di altri paesi, la grandissima fortuna che quel metodo
incontrò in tutta l'Europa continentale, a esclusione della
Germania, dove anzi, da parte dello Zachariae, si andò al
contrattacco e si trattò il diritto civile francese secondo
la pandettistica. In Italia la Scuola esegetica fu largamente
seguita, e nelle trattazioni di diritto civile è ancora
possibile, o lo era fino a qualche anno fa, constatare il frequente
ricorso alla sua dottrina e anche l'imitazione del suo modello. Ma
se le critiche che, come eco della diversa impostazione seguita in
Germania, si levarono in molte parti, sono certamente ingiuste se
rivolte a quanto quella Scuola seppe pure insegnare, è
altrettanto vero che la rinuncia che in essa si può
constatare a qualsiasi contributo sistematico e a qualsiasi indagine
sulle ragioni che avevano ispirato le norme, sulla loro rispondenza
alle condizioni attuali, sulla loro natura che non fosse, insomma,
soltanto un'espressione dell'autorità, non può oggi
riscuotere il plauso. La Scuola dell'esegesi si risolse in una sorta
di formalismo, opposto nelle modalità sue a quello del
Kelsen, ma tuttavia rispondente anch'esso a una concezione immobile
del diritto, che si risolveva e si risolve ancora in una rinuncia da
parte della dottrina a un contributo di pensiero che sia non
soltanto spiegazione aderente al testo, ma anche suggerimento e
stimolo, costruzione e non soltanto analisi.
16. Jhering e la ‛giurisprudenza degli interessi'
In Germania, dunque, un simile modo di affrontare i problemi
giuridici non doveva apparire congeniale. Ma nella seconda
metà del XIX secolo, e precisamente nel 1877, nell'atmosfera
che si era instaurata dopo la vittoria sulla Francia del 1870, uno
dei maggiori giuristi tedeschi, R. von Jhering, già seguace
della Scuola storica e uno dei protagonisti, a metà del
secolo (1857), della sua trasformazione costruzionistica, già
fondatore dei ‟Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen
römischen und deutschen Privatrechts" insieme col Gerber,
pubblicava un'opera famosa, rimasta peraltro incompiuta, dal titolo
significativo Der Zweck Im Recht, lo scopo nel diritto. Ma
già nella prima delle Vertrauliche Briefe über die
heutige Jurisprudenz. Von einem Unbekannten, pubblicata nella
‟Preussische Gerichtszeitung" (III, n. 41) del 16 giugno 1861 e che,
con altri scritti, doveva poi comporre il volume del Scherz und
Ernst in der Jurisprudenz apparso molto più tardi (1884),
egli faceva la satira del ‛costruzionismo' di moda in Germania. ‟Che
significa ‛costruire'? Cinquant'anni fa di questa roba nessuno ne
sapeva nulla, si viveva ingenui e lieti, puntate le armi solo contro
l'uno o l'altro passo delle Pandette" (tr. it., p. 12). Nello
scritto Wieder auf Erden. Wie soll es besser werden? di parecchi
anni posteriore e anch'esso incluso in quel volume, egli tornava a
dichiarare: ‟Con questo ho toccato il punto che costituisce la
caratteristica saliente di quella che ho chiamato la ‛giurisprudenza
dei concetti'. Il giurista opera sempre con dei concetti; pensare in
termini giuridici significa lo stesso che pensare in termini di
concetti. Proprio perciò è superflua codesta ulteriore
qualificazione. Se io tuttavia me ne servo, è per indicare le
aberrazioni di certa dottrina moderna che, trascurando lo scopo e le
condizioni di applicabilità del diritto, si compiace di
considerarlo poco più di una materia su cui può far le
sue prove una dialettica affidata a se stessa e tutta intesa a
ritrovare in sé sola il suo fascino e la sua ragion d'essere"
(v. Jhering, 1884; tr. it., pp. 367 ss.). E faceva dipendere quella
che ora chiamava ‟aberrazione" dal divorzio tra la teoria e la
pratica. Ancora in una nota apposta al medesimo scritto, il Jhering
rilevava: ‟Questa diversità di attitudini ricorre anche tra i
popoli: a mio parere per esempio francesi e italiani sono
decisamente superiori a noi tedeschi in sede di applicazione pratica
del diritto" (ibid.; tr. it., p. 404). Questo accenno, che è
probabilmente ispirato alla Scuola esegetica francese, deve essere
unito con l'altro nel quale egli tesseva gli elogi dell'aspetto
esegetico della prima pandettistica e della Scuola storica, e deve
essere inteso come un aspetto di quella reazione che il Jhering
aveva cominciato col quarto volume del suo Geist des römischen
Rechts.
Quali furono i motivi che indussero il Jhering ad una così
profonda trasformazione, alla seconda ‛svolta' - der Wendepunkt,
come chiamarono il Windscheid e il Kuntze l'abbandono dei metodi
della Scuola storica a metà del secolo - della sua vita
intellettuale? Ce ne parla egli stesso nel già citato scritto
Scherz und Ernst in der Jurisprudenz: ‟Insomma, non è facile
che il metodo logico abbia mai avuto un seguace così fanatico
come ero io allora [...], ma non tardò molto a sopravvenire
la crisi. E non fu tanto una crisi maturata all'interno di me,
quanto una crisi prodotta dall'esterno. Vi contribuirono i contatti
assidui ‛che ho sempre cercato di stabilire e di mantenere coi
pratici [...]; vi concorsero le esperienze fatte partecipando
direttamente alla pratica professionale [...] e per parte non
piccola vi influirono pure le esercitazioni pratiche di Pandette,
che ho tenute per tutta la vita [...]" (tr. it., pp. 358 ss.). Egli
non sembra avere il minimo sentore delle ragioni storiche
sottostanti al mutamento, cioè lo sviluppo industriale
tedesco, che accompagnò e seguì lo sviluppo della
potenza prussiana, l'esaltazione dello Stato da parte della scienza
del diritto pubblico, il primo rivelarsi dei problemi del lavoro
come essenziali per la natura della società, e soprattutto il
trasferimento del centro dell'interesse dagli ideali romantici alla
vita economica ed al materialismo.
Lo stimolo rappresentato da questo complesso di eventi non cadeva
però su un campo infecondo. Anche nella prima fase del suo
pensiero, il Jhering aveva colto le implicazioni contenute
nell'aspetto evoluzionistico, già presente nel Savigny e
formulato dalla filosofia del Herder. L'intero titolo della sua
prima opera di grande respiro, pubblicata a Lipsia fra il 1852 e il
1865, Lo spirito del diritto romano (Geirt des römischen
Rechts), che in questa sua parte riecheggia non inconsapevolmente
L'esprit des lois del Montesquieu, prosegue col sottotitolo ‟nelle
diverse fasi della sua evoluzione" (auf den verschiedenen Stufen
seiner Entwicklung). E per quanto diversi potessero essere i
concetti evoluzionistici di Herder e di Darwin, il passaggio del
Jhering dal primo al secondo è in realtà segnato da
uno svolgimento del suo pensiero e non da un brusco passaggio.
17. Rapporto tra il diritto e la società
Che la crisi del giurista fosse il risultato della ripercussione di
una profonda crisi sociale e politica sul pensiero contemporaneo,
è certo. La crisi proponeva nuovi problemi e richiedeva nuove
soluzioni. E anche una nuova dimensione si era rivelata
nell'apprezzamento della realtà, che si opponeva in modo
rivoluzionario alla società quale era stata fino ad allora e
ai suoi valori: il materialismo storico di Marx e di Engels, sorto
in Marx sotto la forma di una polemica ideale con Hegel. Da Hegel,
però, il Marx aveva tratto alcuni spunti essenziali, l'idea
dell'importanza della società civile, che Hegel aveva
concepito come uno stadio intermedio tra l'individuo e lo Stato e
l'idea del fondamento economico delle classi di cui tale
società era composta. Nella Ideologia tedesca, Marx affermava
che ‟la forma di relazioni determinata dalle forze produttive
esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua
volta le determina, è la società civile [...] vero
focolaio e teatro di tutta la storia" (K. Marx e F. Engels,
L'ideologia tedesca, a cura di F. Codino, Roma 1958, p. 32).
L'evidenza con cui l'esistenza delle classi sociali fu presente a
Hegel e poi, sebbene con impostazione e conclusioni diametralmente
diverse, in Marx, dipendeva, del resto, dall'importanza che esse
avevano rivestito specialmente nella società germanica, nella
quale gli Stände avevano formato tanto a lungo il tessuto
connettivo di una società nella quale lo Stato aveva avuto,
più tenacemente che altrove, la struttura feudale. Già
in Hegel, del resto, in una certa dipendenza dal passato ma anche
con una previsione del futuro, le classi erano fondate
sull'attività economica e l'economia vi aveva assunto
un'importanza che prima non aveva avuto. Hegel aveva mantenuto alla
proprietà l'importanza che già il pensiero precedente
le aveva attribuito come fondamento del diritto subiettivo ed
espressione di libertà. Ma egli vi aveva sovrapposto l'idea
del contratto, rapporto tra uomini e non tra uomini e cose, che
sembrava rappresentare il passaggio da una società agricola a
una società industriale e commerciale. Il Manifesto del 1848
non si rivolge contro la proprietà, ma contro la
proprietà borghese: ‟la proprietà borghese moderna
è l'ultima e più perfetta espressione della produzione
e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di
classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri" (ibid.,
p. 148). Contro il rimprovero rivolto ai comunisti di voler abolire
la proprietà conquistata personalmente, frutto del lavoro
diretto e personale, ‟la proprietà che costituirebbe il
fondamento di ogni libertà, attività e autonomia
personale", Marx ed Engels rispondono che tale tipo di
proprietà è già stata di fatto abolita dallo
sviluppo dell'industria. La proprietà è, per questi
due autori, in realtà soltanto la proprietà borghese,
cioè il diritto è soltanto il diritto borghese: ‟Le
vostre idee stesse sono prodotti dei rapporti borghesi di produzione
e di proprietà, come il vostro diritto è soltanto la
volontà della vostra classe elevata a legge [...]" (ibid., p.
152).
Ma il capovolgimento essenziale che il pensiero di Marx aveva
operato nei confronti del precedente e specialmente di quello di
Hegel che era a esso il più polemicamente vicino, riguardava
l'essenza stessa del pensiero e dei suoi frutti, da cui dipendevano
tutte le conseguenze ideologiche e giuridiche derivate dai due
sistemi. Per Hegel l'idea domina sovrana in un mondo di
libertà; per Marx le idee dipendono dalle condizioni
economiche. Così l'idea del diritto si innalza per il primo
fino alla sfera dell'etica, per il secondo è di volta in
volta un prodotto storico di una situazione economica; per il primo
lo Stato è lo Stato di diritto che trascende nello Stato
etico, per il secondo è lo Stato borghese, che deve essere
sostituito dalla dittatura del proletariato. Non è questo il
luogo di esaminare a fondo quelle due diverse filosofie, né
di vedere fino a che punto quella di Hegel fosse astratta, o quella
di Marx concreta, rimanendo sempre anche in questa ultima
un'aspirazione etica non propriamente opposta a certe formulazioni
del giusnaturalismo, per quanto il giusnaturalismo fosse stato
ritenuto da Marx una giustificazione delle classi dominanti per il
mantenimento dello status quo; né, in sostanza, poiché
questo è il vero nodo della questione, di stabilire se la
legge di gravitazione universale di Newton o l'equazione di Einstein
siano l'espressione di una condizione economica. Ciò che qui
importa è di notare come, nel pensiero tedesco, dal
conservatorismo di Novalis e di F. Schlegel, o addirittura dal
medievalismo romantico di Haller, verso il quale Hegel stesso aveva
espresso il suo disprezzo, si fosse passati per tramite appunto di
Hegel a una nuova concezione della società e del diritto,
all'idea di uno Stato costituzionale moderno, teorizzato da Gerber e
poi da Laband e Jellinek, e a quella di un diritto non più
fondato sul puro ‛costruzionismo' ma su una misura della vita reale;
che fu appunto il prodotto del Jhering della seconda maniera.
Jhering non ebbe simpatia per il comunismo; nè poteva averne,
perché avrebbe altrimenti dovuto essere non un giurista, ma
un ideologo. La misura del divario tra il suo pensiero e quello di
Marx, che sono tuttavia entrambi il frutto del travaglio di
un'epoca, è data dalla conferenza che il Jhering tenne nel
1872 a Vienna, poi divenuta una delle sue opere più celebri,
Der Kampf um's Recht. L'idea centrale è che ‟il concetto del
diritto è puramente pratico, cioè un concetto non
puramente speculativo, ma tendente a uno scopo" e che il diritto, e
qui si intende il diritto individuale, è la lotta contro la
violenza del diritto e per la realizzazione della pace sociale. Non
v'era in lui alcuna presa di posizione che richiamasse l'ideologia
di Marx, di cui egli era contemporaneo, e al contrario l'istituto
della proprietà privata era da lui ritenuto eterno: ‟La
proprietà privata - egli scriveva in un passo della sua opera
maggiore del secondo periodo, Der Zweck im Recht (1877) - e il
diritto ereditario esisteranno sempre e ritengo assolutamente
pazzesche le idee comunistiche e socialistiche miranti alla loro
eliminazione" (v. Jhering, 1877-1883; tr. it., p. 373). Il grande
romanista L. Mitteis, che non ebbe simpatia per Jhering e che si
compiaceva di scherzare sul doppio senso che in tedesco, come del
resto in italiano, può attribuirsi alla parola Geist, disse
che le idee di Jhering avrebbero fatto un'ottima figura duecento
anni prima, ma non nell'epoca di Spencer e di Marx. Ma questo
giudizio è ingiusto e ciò è dimostrato
dall'immensa influenza che le teorie di Jhering esercitarono sulla
dottrina giuridica della seconda metà del sec. XIX e della
prima metà del nostro. Fu pur sempre un fatto molto
importante che nella scienza giuridica all'ideale di una scienza
matematica, costruttrice di concetti senza alcuna preoccupazione
della realtà, si venisse sostituendo un'altra visione, che
attribuiva al diritto uno scopo, e uno scopo che doveva essere
identificato nella società e nei suoi bisogni.
Come un ‟sistema dell'ordinamento sociale" Jhering definiva l'opera
sua nella prefazione al secondo volume di Der Zweck Im Recht. La
società è quindi al centro del suo sistema, la
società che si pone prima del diritto e non, come per lo
Stammler, dopo di esso. È la società che crea il
diritto, perché sono i bisogni sociali, cioè gli
interessi e gli scopi concreti, che creano il diritto, in
un'interpretazione della storia che denuncia tutta la sua
derivazione dal positivismo filosofico del secolo scorso. La stessa
idea dello Stato, del resto, che nel Jhering si presenta come Stato
moderno, con i suoi scopi sempre più complessi e sempre
più orientati verso l'economia, dà la misura di quanto
egli si fosse allontanato dalla visione astratta della
‛giurisprudenza dei concetti', alla quale contrapponeva ora una
‛giurisprudenza degli interessi'. La nazione come espressione della
società era stata dunque definitivamente sostituita dalla
società in quanto tale e dallo Stato, nel quale la
società trovava la sua organizzazione giuridica. Nella
prefazione a Der Zweck Im Recht il Jhering affermava: ‟Un unico
pensiero costituisce la base di quest'opera: lo scopo è il
creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica, che
non debba la sua origine a uno scopo, cioè a un motivo
pratico" (ibid., p. 6). E proseguendo egli affermava che ‟i limiti
entro cui la filosofia si trovava rinchiusa ai tempi di Hegel, il
bando decretato contro colui che, senz'essere passato attraverso
quella scuola, osava pronunciar parola su questioni filosofiche; il
sovrano disprezzo con cui il filosofo della scuola hegeliana
guardava l'uomo della scienza positiva, hanno fortunatamente ceduto
il passo a un altro ordine d'idee" (ibid., p. 7). Per quanto lontano
il suo pensiero potesse essere da quello del Marx, almeno una cosa
li accomunava, la reazione a Hegel, cioè la reazione a un
mondo intellettuale di cui Marx aveva avuto nozione diretta dalle
lezioni berlinesi dell'allievo di Hegel, il Gans; ma anche un'altra
cosa li accomunava, e cioè la polemica, che li avvicinava a
Hegel, contro la Scuola storica.
Lontano ormai da ogni inclinazione verso l'astrazione, lo Zweck Im
Recht si apre con questa enunciazione, che illustra meglio di
qualsiasi altro argomento l'influsso del pensiero contemporaneo
sulla nuova teoria: ‟Secondo il principio di ragion sufficiente, nel
mondo nulla avviene da sé (causa sui) ma tutto ciò che
accade [...] è la conseguenza di un evento antecedente e
diverso, senza il quale essa non avrebbe potuto verificarsi. A
questo fatto, postulato dal nostro pensiero e comprovato
dall'esperienza, diamo, com'è noto, il nome di legge di
causalità. Questa legge esiste anche per la volontà
[...]; il concepire la libertà della volontà come se
la volontà potesse porsi spontaneamente in movimento, senza
una qualche causa efficiente, è una trovata degna del barone
di Münchhausen [...]. Il principio di ragion sufficiente,
quindi, è necessario tanto per la volontà quanto per
la natura..." (ibid., p. 17). La causa è per la
volontà lo scopo da conseguire, e lo scopo è la
rappresentazione di un evento futuro che la volontà pensa di
realizzare e che è mosso da un bisogno che si presenta come
autodeterminazione. Ma per l'uomo v'è anche una spinta
psicologica che si chiama egoismo e che si fonda sull'interesse.
‟L'orgamzzazione dello scopo raggiunge il suo punto culminante nello
Stato (...]. L'organizzazione dello scopo nello Stato è
caratterizzata da una vasta utilizzazione del diritto" (ibid., p.
45); né questo deve far dichiarare che la molla dell'egoismo
è superflua: ‟poiché il diritto stesso [...] è
però costretto a fare appello all'interesse, cioè alla
libera azione secondo la propria scelta" (ibid.). In questo
ragionamento del Jhering si avverte l'influsso della filosofia dello
Schopenhauer, del quale Jhering cita una proposizione contenuta in
Die beiden Grundprobleme der Ethik (‟Una volontà senza
interesse è una volontà senza motivo, cioè un
effetto senza causa") nel capitolo quarto, dove critica la filosofia
kantiana, il cui imperativo categorico, contenuto nella Metafisica
dei costumi e nella Critica della ragion pratica, presupponeva che
la volontà fosse mossa soltanto dal volere in sé,
senza tener conto dell'effetto e secondo il quale perciò ‟un
semplice concetto deve spingere l'uomo all'agire": ‟come se
ciò fosse possibile" commenta Jhering; ‟sperare di muovere la
volontà umana per mezzo dell'imperativo categorico è
come sperare di muovere un carro per mezzo di una lezione sulla
teoria del movimento" (ibid., p. 50).
A questa visione della volontà e dei suoi scopi si coordina
il concetto di società, che è, dice il Jhering nel
capitolo sesto, un concetto moderno giunto dalla Francia: ‟il fatto
- egli osserva ancora - che tutti facciano uso del termine, mentre
non si è d'accordo sulla sua definizione concettuale,
dimostra che, alla base di tale concetto, deve trovarsi un'idea, di
cui il pensiero odierno ha necessità assoluta, ma che
soltanto ora sta faticosamente giungendo alla propria piena
chiarezza concettuale" (ibid., p. 74). La società in senso
giuridico è, secondo il Jhering, l'unione di più
persone, riunite al fine di perseguire uno scopo comune,
cosicché ognuna di esse, agendo per realizzare lo scopo
sociale, agisce al tempo stesso per la realizzazione del proprio. La
società in senso giuridico presuppone un contratto che la
costituisca e la regoli, cioè il contratto sociale. ‟Ma
l'elemento sostanziale della società - egli aggiungeva - si
presenta ripetutamente nella vita anche senza questa forma [...].
Pertanto la società va definita come la concreta
organizzazione della vita a vantaggio e per mezzo di altri e [...]
come la forma indispensabile della vita a proprio vantaggio;
insomma, essa è la forma della vita umana tout court" (ibid.,
p. 75). Ed egli conclude queste sue considerazioni sulla
società affermando che il concetto della società
coincide con quello dello Stato, ma solo in parte, cioè solo
in quanto il raggiungimento dello scopo sociale abbia
necessità della coazione esterna.
La teoria dello scopo, o degli interessi, di Jhering ha avuto sul
pensiero giuridico una straordinaria influenza, ed è per
questo che qui si sono riportati alcuni brani significativi delle
sue opere. Ancora oggi, come durante la seconda metà del
secolo scorso e la prima del XX, l'affermazione teorica che il
diritto si fonda sulla realtà economica e sui bisogni e gli
impulsi fondamentali dell'uomo, che esso è la proiezione di
una situazione preesistente nella vita e non una costruzione
intellettuale, ha scavato tracce profonde. A essa deve non poco
anche la fortuna della scienza del diritto romano e l'alta opinione
che di quel diritto si è nutrita fino a oggi. Il pensiero dei
secc. XVII e XVIII, che aveva veduto nel diritto una natura
sistematica esprimibile mediante un pensiero matematico, aveva
considerato variamente il diritto romano, ora respingendolo in nome
di un diritto della ragione, ora accettandone la sostanza come ratio
scripta. Ma nel complesso, il secolo dei lumi vide una critica
fondamentale verso la civiltà classica e verso il diritto
romano, che aveva liberato il pensiero da un'imitazione millenaria e
che fu considerata come una conquista di libertà dalle
pastoie della tradizione. L'esaltazione del diritto romano, di cui
pure la codificazione fece un uso critico, si dovette al pensiero
tedesco, soprattutto alla pandettistica e a Jhering. Con Jhering il
diritto romano, e soprattutto la sua giurisprudenza, ebbero una
sorta di ringiovanimento, perché apparve in tutta la sua
importanza il carattere di quell'antico pensiero giuridico, rivolto
alla considerazione delle condizioni reali e non avviluppato nelle
ragnatele di una logica avulsa dalla realtà.
L'immensa ripercussione della teoria di Jhering sulle dottrine
giuridiche europee e americane si deve senza dubbio al fatto che
l'aver posto a fondamento del diritto il concetto d'interesse
corrispondeva alle necessità e alle aspirazioni di un'epoca
che aveva visto sorgere la dottrina marxista e nella quale i
problemi economici avevano assunto un'importanza prevalente. Che in
primo luogo la ‛giurisprudenza degli interessi' abbia fatto breccia
in Germania si spiega dunque non soltanto per il fatto che in quel
paese essa apparve, ma anche per coincidenze profonde, che furono le
stesse a dare i natali alle teorie di Marx, di Engels e anche di
Lassalle. Il pensiero filosofico positivista, di origine comtiana,
offriva al desiderio di concretezza che era subentrato nel pensiero
giuridico alle speculazioni astratte della ‛giurisprudenza dei
concetti' un fondamento scientifico, che aveva il suo appoggio
essenziale nel concetto di ‛causa'.
Questa ispirazione filosofico-positivistica, che aveva già
corrisposto alla conversione di Jhering, continuò a
fruttificare e diede origine a sviluppi ulteriori, che si addentrano
nel Novecento e che prendono nome specialmente da Heck, da Stoll e
da Müller-Erzbach. Anzi, della ‛giurisprudenza degli interessi'
il Heck, al quale si deve anche la denominazione di questo
indirizzo, si può considerare il vero padre, per averne
svolto coerentemente le implicazioni teoriche e averlo portato alla
sua più matura formulazione, nonostante il riconoscimento che
egli apertamente ha fatto della derivazione jheringhiana della sua
dottrina. Ma che gli sviluppi e la fortuna di questa teoria
dipendessero dalla sua consonanza con i tempi, è già
indicato dal fatto che ancora una volta, ma con la coscienza che il
diritto è la proiezione di interessi reali e che l'influsso
del diritto sulla vita viene rivelato nei giudizi, il problema
dell'interpretazione è posto al centro della costruzione
teorica. Che ancora una volta il problema delle ‛lacune'
dell'ordinamento vi avesse del resto tanta importanza, dimostra non
soltanto che, a partire almeno dal Windscheid, la scienza giuridica
era stata sensibile alla pressione delle forze nuove che andavano
muovendo la società moderna, ma che ciò diede
coscienza della tendenziale necessità che l'ordinamento
giuridico ha di svolgersi all'unisono con lo sviluppo dei rapporti
della vita. Se, astraendo dalle opposizioni polemiche e dai punti di
vista fondamentalmente diversi, ci si sollevi perciò a una
considerazione complessiva della scienza giuridica a partire dal
sec. XIX per giungere fino a noi, non si può non rilevare che
la necessità dello sviluppo dell'ordinamento è stato
il centro di ogni preoccupazione e di ogni espressione concettuale.
La Begriffsjurisprudenz, non meno della futura ‛giurisprudenza degli
interessi', aveva dimostrato di essere sensibile a tale
necessità, che essa aveva risolto con la ‛generazione dei
concetti', con la possibilità che all'ordinamento fosse
infuso uno sviluppo logico illimitato. La teoria che ha i suoi inizi
col Jhering ha sostituito a quella generazione concettuale il
suggerimento delle condizioni effettive della vita. Il compito della
scienza giuridica, ha scritto Ph. Heck in Begriffsbildung und
Interessenjurisprudenz, pubblicato nel 1932, è ‟di facilitare
al giudice il suo ufficio, in quanto prepara la decisione adeguata
mediante l'indagine della legge e delle condizioni della vita". In
questo modo nelle ‟condizioni della vita" viene identificata ogni
origine del diritto, perché la legge stessa è
l'espressione di quelle condizioni e il giudice si trova
perciò, quando interpreta la legge, a interpretare i bisogni
effettivi che la vita propone. Come posizione scientifica la
‛giurisprudenza degli interessi' si contrappone perciò non
soltanto alla ‛giurisprudenza dei concetti', perché lo
sviluppo del diritto era concepito da quest'ultima come puramente
teorico e concettuale, mentre la considerazione degli interessi e
non dei concetti deve costituire un prius, ma soprattutto alla
teoria del Kelsen, nella quale la costruzione di un sistema immobile
è il fine della scienza del diritto.
La concatenazione causale, che è uno dei concetti
fondamentali di Heck, doveva però portare la dottrina
dell'interpretazione su posizioni ben diverse da quelle della
dottrina dell'interpretazione obiettiva, per quanto in essa, come
s'è visto, non mancassero le aperture verso la considerazione
dello scopo delle norme, e, paradossalmente, doveva in parte
ricondurla all'interpretazione soggettiva di Windscheid.
Poiché il legislatore, nell'emanare la legge, aveva obbedito
alla pressione di interessi che costituivano la causa del disposto
legislativo e al di sotto di quel disposto si erano mosse successive
fasi di quella situazione obiettiva, v'era una concatenazione di
eventi storici, anch'essi tenuti insieme da una concatenazione
causale, secondo la visione tipica del positivismo filosofico; e
perciò la considerazione della volontà del legislatore
rimaneva indispensabile per l'interprete. La considerazione della
volontà del legislatore, di singole leggi o di gruppi di
norme, non implica per Heck la legittimità del procedimento
tipico della ‛giurisprudenza dei concetti', secondo il quale sarebbe
stato possibile dedurre da concetti giuridici generali, frutto di
astrazione operata sulle norme positive, nuovi concetti e quindi
nuove norme. Lo sviluppo dell'ordinamento secondo questo canone non
è ammissibile per Heck. L'avvertire l'esistenza di lacune,
che è già di per sé un'operazione critica e
valutativa, che viene compiuta sulle norme esistenti e in base alla
considerazione di interessi concreti, implica da parte del giudice
un apprezzamento che egli deve compiere sul fondamento della
realtà, ma entro i limiti dei criteri legislativi, nel mentre
una valutazione autonoma deve essere considerata come eccezionale.
Si è giustamente richiamata l'attenzione
sull'inconciliabilità di questi due criteri dell'interesse e
del giudizio di valore. Se in questo modo Heck ha negato
validità alla pretesa dell'inesistenza delle lacune
nell'ordinamento, egli non ha potuto respingere l'idea, in sé
contraddittoria con le premesse positivistiche, che l'interesse
stesso sia non la causa meccanica della legge ma l'oggetto di un
procedimento valutativo da parte del legislatore, il quale tende con
ciò alla realizzazione di un ideale sociale, e anche del
giudice, che deve integrare i comandi legislativi appunto sulla
scorta di giudizi di valore. Come dice anche Stoll, ogni massima
giuridica contiene ‟mediatamente un giudizio di valore sui conflitti
di interessi che stanno a base di essa" e le idee di finalità
generali e astratte, come sicurezza del diritto, equità ecc.
sono nient'altro che interessi, cioè interessi ideali, che il
legislatore valuta al momento della formazione delle norme"
(Festgabe für Heck, Rümelin und A.B. Schmidt,
Tübingen 1931, p. 67).
Questa duplicità non univoca di criteri che costituirebbero
l'essenza delle norme giuridiche e il fondamento per la loro
interpretazione toglie alla ‛giurisprudenza degli interessi' una
parte di quell'affinità con la dottrina di Marx che sarebbe
altrimenti sostenibile e che è stata del resto rilevata dalla
scienza giuridica sovietica. La conoscenza delle opere di Jhering in
Russia risaliva all'epoca zarista e continuò nel periodo di
Lenin nello Stučka (1865-1932) e nel Pašukanis (1871-1937 circa), in
giuristi cioè che consideravano fondamento del diritto la
classe e della scienza del diritto l'interesse di classe, o
semplicemente l'economia, e le cui teorie furono poi respinte e
condannate nel periodo staliniano, quando il concetto di Stato
riprese il sopravvento. E in effetti, il porre l'interesse a
fondamento del diritto aveva un significato analogo a quello di
considerare il diritto come una ‛sovrastruttura', non autonomo
quindi, ma determinato da un substrato che avrebbe potuto facilmente
ridursi a quello economico, appunto come nel Pašukanis. Ma altre
implicazioni sono ancora identificabili nella ‛giurisprudenza degli
interessi', che poi dovevano esprimersi e svilupparsi in altre
teorie, in qualche modo ricollegabili a quella o per influssi
diretti o per partecipazione spontanea a una problematica che ormai
era nello spirito dei tempi. Vorremmo a questo proposito indicare un
collegamento con quanto si dirà poi circa il realismo
giuridico del Duguit, perché la prima apertura verso una
considerazione ‛realistica' del diritto era stata appunto suggerita
dal collegamento suo con gli interessi reali della società,
che lo poneva in attrito con le costruzioni astrattamente
intellettualistiche, e anche intorno alla teoria di Santi Romano,
che a proposito della ‛giurisprudenza degli interessi' è
richiamata alla mente dal pensiero che si trova in Heck, che le
relazioni della vita formino già di per sé un ‛sistema
interno', al quale si sovrapporrebbe il sistema teorico e
ordinatore.
18. Stato e società
Il riconoscimento del valore della società, che assunse il
valore della precedenza e preminenza delle condizioni effettive
della vita sociale nei confronti dello Stato, visto ancora come
produttore di norme dipendenti da una volontà politica e
quindi in certo senso arbitraria se non all'unisono con la
società, è l'elemento che accomuna le diverse teorie
che tra la fine del sec. XIX e la prima metà del XX si
ispirarono alla filosofia positiva. Il diritto diviene cioè
il risultato degli interessi, degli scopi, di determinate situazioni
storiche, espressione di formazioni spontanee nella società,
concepite come indipendenti dallo Stato. Questa scoperta della
relazione tra diritto e società è una scoperta
moderna, che comincia nel sec. XVIII a rivelare i propri contorni e
che poi, a poco a poco, ha trovato ragione di svilupparsi nelle
condizioni effettuali della vita moderna. Così il diritto
diviene per una parte notevolissima del pensiero giuridico quella
che Marx chiamò ‛sovrastruttura', anche se questa specifica
definizione non si trova nella scienza giuridica. Ma una scienza
giuridica che sia posta tra il diritto e la società che lo
produce, è una scienza che deve interpretare prima del
diritto la società, il suo modo di essere e di evolversi.
È cioè una scienza che non può sentirsi legata
alla lettera della legge, almeno nei limiti nei quali essa vi era
sottoposta dalle teorie rigidamente statualistiche.
Accanto all'interpretazione oggettiva di Wach, di Binding e di
Kohler, accanto alla ‛giurisprudenza degli interessi' di Jhering e
di Heck, si affacciò negli anni dell'ultimo Ottocento
un'altra teoria, che, se anche non era destinata ad avere
l'accoglimento di quella del Jhering, è tuttavia sintomatica
per l'indirizzo assunto da una parte cospicua del pensiero giuridico
moderno. La nuova tesi ebbe carattere nettamente contrario al
diritto dello Stato e fu anticipata da un'opera di O. Bülow,
Gesetz und Richteramt (Leipzig 1885). L'interesse di questa nuova
visione del problema del diritto sta nel fatto di aver sottolineato,
con un'energia ancora non conosciuta, il peso della funzione
giudicante nella creazione del diritto.
Abbiamo già visto che il problema dell'interpretazione aveva
assunto nelle altre teorie che abbiamo precedentemente ricordato
un'importanza centrale. Ma in nessuna di esse era stato così
apertamente riconosciuto che la sentenza del giudice ha una funzione
creatrice di diritto, e che il diritto è soltanto ‛una
preparazione' di fronte a essa. Il Bülow dice soltanto che il
giudice è libero di fronte alla parola della legge, ma non
specifica in che modo debba attuarsi questa libertà di fronte
alla varietà delle interpretazioni possibili. L'esigenza di
una precisazione fu invece sentita da E. Ehrlich, al quale si deve
anche il nome preso da questo indirizzo scientifico,
Freirechtsbewegung (movimento del diritto libero), e che è
considerato il fondatore della sociologia giuridica. Nella
conferenza da lui tenuta nel 1903 (Freie Rechtsfindung und freie
Rechtswissenschaft) egli tornava a sottolineare che ogni
interpretazione che il giudice faccia di una norma legislativa
comprende necessariamente una sua partecipazione, attraverso la
quale la norma assume un significato specifico che manca nella sua
astratta formulazione. Il problema dei limiti dell'interpretazione,
o della creatività del giudice, era naturalmente il punto
dolente ed essenziale di questa impostazione. Tuttavia nell'Ehrlich
la tendenza a determinare i confini della libertà nel
giudicare sono più evidenti che non nel Bülow, e sono o
presupposti o indicati nel comportamento degli uomini nella
società. Soltanto nella società il diritto vive
realmente e soltanto la società corrisponde a un ordinamento
che si forma nella convivenza e che è anteriore alle leggi
dello Stato. La famiglia, la corporazione, il matrimonio, il
possesso, il contratto, la successione, egli affermava ancora nel
1922, non sono stati introdotti mediante norme giuridiche. Sono, in
sostanza, dei ‛fatti' sociali, dai quali piuttosto le norme
derivano; sono ‛istituti', che costituiscono un che di primario nei
confronti della disciplina legislativa. L'affermazione era di
estrema importanza e assume un sapore nuovo, nonostante che anche
altri (il Thon specialmente) avessero già affermato che il
diritto può essere prodotto da qualsiasi gruppo sociale.
L'importanza attribuita alla società dava infatti un
carattere di novità alla teoria, che in sostanza non era
stata propriamente ignota neppure ad alcuni dei rappresentanti del
formalismo giuridico statualistico. In realtà, il
riconoscimento della creatività sociale del diritto era per
così dire endemico nella cultura filosofica e giuridica
tedesca; e basti ricordare l'importanza data dalla Scuola storica
alla consuetudine e l'affermazione famosa di Hegel, secondo il quale
le leggi, per il fatto di essere formulate, non cessano
perciò di essere la consuetudine di un popolo.
Ma le radici prime, a parte il ricorso ad Aristotele, si trovano nel
Montesquieu, che in contrasto con le teorie dell'illuminismo, aveva
trovato il fondamento delle leggi non nella ragione astratta ma in
un ‟rapporto di convenienza", insito nella ‟natura delle cose". Egli
aveva già affermato che la società è un fatto
naturale e organico perché storico, e le leggi giuridiche
hanno per fondamento delle altre leggi naturali, che sono costanti e
fondamentali. Questo è il loro ‟spirito". Esse sono dei
‟rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose", sono
cioè il modo di essere della realtà secondo la sua
formazione storica. Un'interpretazione in parte diversa della natura
del ‛diritto libero' fu poi espressa da H. Kantorowicz (che doveva
diventare un'illustrazione anche della storiografia giuridica
medievalistica), in uno scritto pubblicato nel 1906 col titolo: Der
Kampf um die Rechtswissenschaft (La lotta per la scienza del
diritto) e con lo pseudonimo di Gnaeus Flavius. Questo manifesto
appariva dunque prima che l'Ehrlich pubblicasse la sua Soziologie
des Rechts, che è del 1913, e prima che Max Weber stesso
desse alle stampe le sue opere sociologiche. E, pur ponendosi nella
scia di un pensiero che aveva già aperto un solco nella
dottrina giuridica tedesca e che avrebbe avuto poi per seguaci
numerosi nomi illustri (il Rumpf, lo Sternberg, il Fuchs e anche il
Radbruch), vi impresse un'orma personale, per aver concepito il
diritto libero come il prodotto dell'opinione pubblica, delle
sentenze giudiziali e della dottrina, oltreché, secondo
l'indirizzo generale, come la culla del diritto statale.
19. Il movimento del diritto libero
In ciò che si chiama, generalizzando, ‛movimento del diritto
libero', si era dunque andata rivelando e determinando una nuova
dimensione del diritto, che si usa chiamare la dimensione
sociologica. Ciò che la lega all'idea della libera creazione
del diritto da parte del giudice è l'esigenza di svincolare
il diritto dallo Stato, per trovare più liberamente il
suggerimento della norma da applicare al caso concreto
nell'interpretazione dei fatti sociali. Da un lato quindi il diritto
si soggettivizza, perché viene lasciato alla libera decisione
del giudice, per quanto poi la determinazione dei limiti di tale
decisione, che fu un'esigenza universalmente sentita dai seguaci di
tale tendenza, rimanga piuttosto oscura. Ma dall'altro lato il
diritto si oggettivizza, perché il giudice, nella sua
funzione qualificatrice e creatrice, in quanto determinante di una
norma da applicare al caso, segue il fatto sociale, che egli deve
intendere e trasferire in proposizioni normative. V'erano in questa
concezione suggerimenti che provenivano dalla cultura, perché
l'esempio della giurisprudenza romana, nell'attività della
quale i giureconsulti avevano avuto tra i loro compiti quello
essenziale di definire in proposizioni corrispondenti allo stadio
più avanzato di formazione dello Stato quanto essi
osservavano nel mos maiorum, deve aver avuto il suo peso.
Anche l'idea che una società esistesse, con i suoi rapporti e
le sue istituzioni, e che lo Stato si sia sovrapposto a essa,
emanando una serie di norme decisionali sul fondamento delle
istituzioni sociali, non può essere sorta senza un certo
riferimento alla storia giuridica romana, che la scienza storica del
diritto aveva studiato tanto a fondo a cominciare dal secolo scorso.
Ma ciò che anche va notato in questa tendenza è il
ritorno in nuova forma di una concezione per così dire
obiettiva del diritto, che sembra periodicamente riaffacciarsi nello
spirito dell'uomo e alternarsi con l'opposto atteggiamento, di un
diritto invece prodotto della volontà e del ragionamento, che
si sollevano dalle condizioni della vita per dominarle dall'alto.
Una considerazione, questa del diritto come ordine obiettivo, che si
era già affacciata nella Grecia antica, per opera della
filosofia milesia e poi della sofistica, che avevano preceduto la
speculazione socratico-platonica e che avevano dato luogo a un
obiettivismo a sfondo naturalistico-politico, dapprima espressione
dell'idea che il diritto corrispondente a un'ordine universale, il
cosmos, riproducente l'ordine della polis, fosse un ordine dato e
non costruito dall'uomo, nel quale non v'era posto per una
valutazione del diritto subiettivo. Poi quest'ordine aveva trovato
un paragone e un'ispirazione nell'immensità dell'impero
persiano, e l'uomo, l'uomo in quanto tale, era risorto di fronte al
cosmos e aveva cominciato ad accampare i suoi diritti. La grande
scoperta fu l'esistenza di una società di uomini diversa da
quella riunita nello Stato e che nello Stato si identificava e si
esauriva completamente, e fu conseguente all'esperienza che il mondo
greco fece di un'umanità più vasta, risultato delle
guerre persiane. Su questa esperienza si svilupperà l'idea di
un altro ordine obiettivo, comprendente tutti gli animali (‟quod
natura omnia animalia docuit") col quale il giureconsulto Ulpiano
riecheggiava un pensiero del Timeo che gli era giunto per tramite di
Calcidio, filtrato poi, attraverso Isidoro di Siviglia, nella
dottrina civilistica e soprattutto canonistica del periodo
bolognese, unendosi ad altre visioni di quello stesso diritto, e
soprattutto a quella che lo faceva riservato agli uomini.
L'eclettismo col quale le varie interpretazioni del diritto naturale
sono espresse nei secc. XII e XIII ne fece un fenomeno di recezione
del pensiero antico che rimase in sospeso tra le varie versioni,
finché lo stesso pensiero medievale non risolse il problema
di un ‛ordine dato' nell'interpretazione razionalistica del diritto
naturale. In essa l'idea del diritto subiettivo rimase nel
sottofondo, né vi fu propriamente una contrapposizione tra
l'ordine naturale e il potere politico, perché questo potere
conservava qualcosa della visione greca di un'identità, o di
un'imitazione dell'uno dall'altro, o di un accordo necessario. Fu
soltanto a poco a poco, e poi apertamente nel sec. XVII, che il
diritto naturale, in seguito alle lotte di religione e come
espressione del protestantesimo, spezzò quell'accordo
armonico. Nel diritto naturale si vide un diritto corrispondente
alla ragione, e per ciò i diritti subiettivi vi apparvero in
primo piano, non più dipendenti da un ordine dato, ma
manifestazione di un ordine creato e sostanza di esso.
20. La sociologia giuridica
Questa costruzione intellettuale arrivò fino al sec. XIX e
non fu estranea neppure alla Scuola storica. La sua eclissi vera,
cioè una costruzione della dottrina giuridica nella quale non
si può dire che un ordine giuridico trascendente avesse parte
alcuna, coincise con lo statualismo e con la ‛giurisprudenza dei
concetti'. Ma già coll'influsso del positivismo filosofico
sulla scienza giuridica quel tentativo di rendere il diritto
pienamente autonomo era destinato a tramontare. Nella sociologia di
A. Comte (1798-1857) il diritto ridiviene un fenomeno determinato
dalle forze sociali e da quel momento si verifica nella scienza
giuridica un ritorno alla considerazione di un elemento obiettivo e
pregiuridico, in base al quale il diritto stesso doveva ricevere la
sua valutazione. Da allora una corrente di pensiero filosofico,
giuridico e paragiuridico, invase la cultura europea ed
esercitò un influsso determinante sulle dottrine giuridiche
in senso stretto. Le linee generali di questo pensiero sociologico e
positivistico si svolsero come opposizione al diritto naturale,
coincidendo in questo col pensiero giuridico detto anch'esso
‛positivo'. Ma sarebbe inesatto sostenere che questa opposizione si
manifestasse sempre, come non corrisponderebbe alla realtà
definire quella corrente di pensiero come costantemente contraria
alla valutazione dei diritti subiettivi. In realtà, la
scoperta fu, ancora una volta, quella di un ordine dato, di un
ordine obiettivo e pregiuridico, sia che tale termine si intendesse
come equivalente a prestatuale, oppure come un fatto costituente la
causa, il fondamento non giuridico del diritto; però di un
ordine dato costituito in primo luogo da una società umana
dominata da leggi economiche, evoluzionistiche, fisiologiche e
psicologiche, che è veramente il nuovo di fronte all'idea
greca e medievale dell'ordine obiettivo. Evoluzionista fu il Sumner
Maine, per il quale peraltro, accanto allo Stato primitivo, dove
l'individuo subisce le norme del gruppo, v'è la condizione
delle società progressive, nelle quali ai singoli membri
è riconosciuta una personalità e quindi un diritto
subiettivo. Evoluzionisti furono il Post (1839-1895) e il
Fouillé (1838-1912), ma quest'ultimo vide nell'evoluzione
storica il divenire della libertà. E il Durkheim (1858-1917),
pur essendo stato allievo del Comte, enunciò una sociologia
del diritto che dava a questo elemento, per lui essenziale alla vita
sociale, un valore che il maestro non gli aveva riconosciuto.
Finalmente H. Spencer (1820-1903), che fu contemporaneo del Jhering,
applicò all'etica quell'evoluzionismo che il giurista tedesco
volle applicare al diritto, concependo la morale come una
necessità biologica e lo svolgimento della società,
analogamente al Sumner Maine e al Marx, come conchiuso da uno stadio
finale e perfetto, e sostenne che i diritti soggettivi non sono
dettati dalle leggi ma sono kantianamente derivati dalla legge della
libertà.
Non è difficile scorgere in tutte queste dottrine, che qui si
possono soltanto sommariamente accennare, delle nostalgie
giusnaturalistiche e delle contraddizioni patenti, come quella che
sogna di uno stadio perfetto e definitivo dell'umanità, non
meno inconciliabile con lo storicismo del Marx che con
l'evoluzionismo dei positivisti. Ma queste contraddizioni avevano la
loro ragione, il bisogno dello stadio finale e felice corrispondendo
a un'aspirazione di certezza e i compromessi col giusnaturalismo
alla difficoltà, che sempre si ripresenta, di stabilire un
passaggio dalle condizioni materiali della vita a un giudizio di
valore, difficilmente separabile dall'idea del diritto.
Ciò non toglie che alle due posizioni tradizionali, che
avevano diviso la scienza giuridica per secoli, quella
volontaristica e quella razionalistica, la prima identificante il
diritto in una norma espressione di volontà e la seconda in
un giudizio, se ne fosse affiancata ora una terza, profondamente
diversa da quelle due, cioè una concezione sociologica. La
società come ‛dato', come ‛fatto' generante il diritto, ecco
la scoperta e la novità di un'epoca che doveva tutta ruotare
intorno alla considerazione non dell'uomo singolo, dell'uomo come
cittadino, come suddito o semplicemente come uomo, ma dell'uomo
riunito in gruppi sociali e prestatuali. Non sappiamo quanto ci si
sia resi conto che l'interesse mostrato dalla scienza
storico-giuridica del secolo scorso, dal Sumner Maine al Post, dal
Leist ai romanisti della generazione immediatamente precedente
all'attuale, tra i quali sotto questo rispetto primeggia P.
Bonfante, aveva come premessa questa ricerca nella storia della
conferma di una tesi che in primo luogo non era storica ma teorica.
Nella fondazione di questa sociologia del diritto un posto
preminente spetta, in ogni caso, all'Ehrlich, al quale si sono
richiamati o dal quale comunque derivano tutti coloro che hanno
dedotto le loro teorie dalla ricerca di un diritto concepito come
anteriore alle norme. In che modo possa essere concepito il diritto
come anteriore alla sua espressione normativa è peraltro un
punto che è rimasto oscuro. L'Ehrlich sostenne che esistono,
prima delle norme di ‟decisione", che sono quelle dello Stato, delle
norme di ‟comportamento", le ‟vere norme giuridiche", risultanti dai
fatti che danno origine al diritto. In sostanza, prima delle norme
che disciplinano i rapporti, vi sono i rapporti, le ‛istituzioni
giuridiche', che sono fatti anteriori alla formulazione delle norme,
che sono nei loro confronti un posterius e non un prius. Ma in
questo modo di rappresentarsi il diritto nel suo aspetto primo e
fondamentale, come il fatto che precede la norma, c'è
qualcosa di non risolto e insomma l'aspetto debole della dottrina.
Che il diritto non abbia come sua caratteristica la coercizione, che
è un altro aspetto di questo modo di rappresentarselo, che il
diritto subiettivo passi in seconda linea di fronte all'aspetto
essenzialmente obiettivo, si comprende. Ma in che cosa si distingue
l'‛istituzione', di cui del resto aveva già parlato il
Savigny, dalla norma consuetudinaria? Il fatto della coesione del
gruppo, dell'‛organizzazione', per esprimerci con il termine
adottato dal Romano, la cui dottrina deriva sostanzialmente
dall'Ehrlich, in che senso è anteriore alla norma, se per
norma non s'intenda esclusivamente la norma dello Stato, il che
sarebbe poi un'indebita restrizione del significato di quel termine?
La verità è che l'esistenza della norma, e non
soltanto dell'‛istituzione' o dell'‛organizzazione', è
precedente alla qualificazione che di essa fa il pensiero giuridico;
o, forse, si potrebbe dir meglio che la qualificazione giuridica
considera la norma come precedente al fatto tecnico della sua
definizione. Se l'uomo compie volontariamente quanto gli incombe nei
rapporti della vita, ciò non avviene perché egli non
segua una norma, che è una norma di condotta a fondamento
della quale v'è un interesse materiale o morale e che egli si
rappresenta come obbligatoria e che poi potrà essere
qualificata come religiosa, etica o giuridica, ma perché egli
ha la possibilità di determinare la propria condotta secondo
un criterio valutativo.
21. La dottrina di F. Gény
Il movimento del diritto libero, che si collega da un lato alla
‛giurisprudenza degli interessi' e dall'altro alla sociologia
giuridica nel modo che abbiamo cercato di mostrare, fece breccia
specialmente in Francia, dove provocò un movimento di
pensiero di grande importanza. La stanchezza provocata dagli
orientamenti che, nel nome della completezza dell'ordinamento
giuridico dello Stato, pretendevano, sia pure con metodi diversi, di
trovare in ogni caso la soluzione nelle norme codificate e che,
ponendo al centro della dottrina giuridica il problema
dell'interpretazione, erano divenuti l'origine di costruzioni
sottili che confinavano non di rado nel virtuosismo esegetico,
causò la reazione di chi ritenne che la vita reale assolvesse
da quel compito, offrendo essa stessa i suggerimenti necessari. Ma
quei suggerimenti furono ipostatizzati. Non furono soltanto materia
di definizione giuridica e di creazione normativa da parte della
dottrina giuridica e della giurisprudenza, ma, come abbiamo veduto,
furono considerati essi stessi diritto, fatto istituzionale o norma.
Fu in primo luogo F. Gény (1861- 1938) che si rivolse contro
gli abusi dell'ermeneutica in nome di quella ‛natura delle cose' che
era stata proprio in Francia oggetto di meditazione da parte del
Montesquieu. Da Méthode et sources en droit privé
positif, che apparve la prima volta nel 1899, a Science et technique
en droit privé positif, pubblicato tra il 1914 e il 1924, il
Gény costruì a sua volta una teoria che, se corrispose
a quella del diritto libero, ne fu però alle origini
indipendente, dimostrando che l'aspirazione alla liberazione dallo
statualismo e dagli abusi della logica costruzionistica ed esegetica
era diffusa per ogni dove e corrispondeva a un nuovo momento storico
del pensiero giuridico. La ‛natura delle cose', un concetto della
cui vaghezza egli era perfettamente cosciente, fu da lui concepita
come un dato, epperò nello stesso tempo come un diritto,
sottostante ai vari diritti positivi e loro naturale integrazione e
fondamento. Nel 1931, d9po aver combattuto per questa tesi per oltre
trent'anni, egli poteva constatare con soddisfazione che ‟il diritto
contemporaneo sembra passi in maniera lenta e talvolta oscura e
inconsapevole, ma continua, da uno stato di puro giuridicismo,
caratterizzato dal predominio della forma e dalla sottomissione
cieca ai precetti scritti, ad uno stato di ragione riflessa e di
critica indipendente" (F. Gény, La notion du droit en France.
Son état présent. Son avenir, in ‟Archives de
philosophie du droit et de sociologie juridique", 1931, I, p. 10).
Ci si è domandati se il Gény sia stato un
giusnaturalista. Ma la questione non ha, tutto sommato, una grande
importanza, solo che si rilevi quanto vada al di là delle
parole usate dallo stesso Gény e quali siano stati realmente
il significato e l'apporto della sua teoria. Se giusnaturalismo
è ogni dottrina che ponga il diritto prima dello Stato e non
lo identifichi con questo, ma sostenga che vi è una
pluralità di ordinamenti giuridici, il Gény fu
giusnaturalista. Ma la questione diviene puramente terminologica,
perché poi si dovrà avvertire che, se di
giusnaturalismo si tratta, è un giusnaturalismo ben diverso
da quello che conosciamo nella storia del pensiero intorno al
diritto. Anche F. Ferrara, la cui dottrina aveva un'impostazione
statualistica e giuridico-positivistica, definì
giusnaturalista il Romano, recensendone l'Ordinamento giuridico e
provocando la reazione di V. E. Orlando, che del Romano era stato il
maestro e che aveva portato in Italia la scienza del diritto
pubblico statualistico sorta in Germania. Ma è caratteristico
che la polemica si svilupasse intorno al rimprovero mosso al Romano
di volersi in qualche modo rifare al diritto naturale, che i
giuristi positivisti consideravano con orrore come un passato
superato per sempre.
22. La teoria dell'istituzione e il realismo giuridico
È ancora dalla posizione dell'Ehrlich che deriva la teoria di
un altro giurista francese, M. Hauriou (1856-1929), il cui problema
centrale fu quello dell'‛organizzazione sociale obiettiva' come
situazione di diritto. Il dato primario è il gruppo sociale
dotato di organi per perseguire dei fini. Questa è, secondo
la terminologia già usata da altri giuristi, l'‛istituzione',
nella quale rientrano lo Stato e ogni altra forma di organismo
sociale.
Che questi organismi, o organizzazioni, o istituzioni, costituiscano
essi stessi il diritto e non soltanto il fondamento sociale del
diritto, che dunque il diritto sia in primo luogo organizzazione, e
non norma, è una notazione comune al gruppo di autori che
abbiamo ora considerato. Con l'Hauriou ha seguito in Francia questa
via anche il Renard e in Italia il Romano, il cui Ordinamento
giuridico, pubblicato per la prima volta nel 1917 e 1918, è
pressoché contemporaneo alle opere dell'Hauriou (i Principes
de droit public comparvero per la prima volta nel 1910, il
Précis de droit constitutionnel nel 1923 e La théorie
de l'institution et de la fondation nel 1925), per quanto il Romano
avesse avuto nozione della tesi dell'Hauriou prima di pubblicare
l'Ordinamento. Semmai una differenza tra le due dottrine può
essere stabilita in questo, che l'Hauriou si propone soprattutto il
problema della ‛personalità morale naturale' delle
istituzioni e dei gruppi sociali, nel mentre il Romano ha presente
specialmente l'obiettività dell'ordinamento giuridico come
non limitata alle norme. L'ordinamento è un momento
anteriore, ‛logicamente e materialmente', al suo aspetto normativo;
e poiché questo ordinamento non si identifica con lo Stato,
ma con ogni società organizzata, il diritto si esprime in una
pluralità di ordinamenti.
Più indipendente forse dalla teoria di Ehrlich, per quanto
legatissimo alle posizioni filosofiche del positivismo, è il
pensiero di L. Duguit. La sua demolizione dei concetti di diritto
subiettivo, di personalità dello Stato e di volontà
statuale, di imperatività della legge, la sua particolare
interpretazione della società come realtà che sta alla
base del diritto attraverso il concetto di funzione sociale,
attribuiscono alla sua dottrina un'originalità prepotente di
fronte alle costruzioni dello statualismo giuridico e denunciano una
sensibilità per la realtà della nostra epoca
più immediata e indipendente dalle costruzioni giuridiche
anteriori di quella che si esprime nelle opere, pure insigni, degli
autori che appartengono, nelle linee generali del loro pensiero,
allo stesso indirizzo. Quale sia stata, d'altronde, l'appassionata
sua partecipazione agli eventi lo dimostra la prefazione alla
seconda edizione di Le droit social, le droit individuel et la
transformation de l'État, apparsa nel 1922 e riproducente le
conferenze da lui tenute nel 1908 che sono quasi un riassunto del
suo pensiero; una prefazione violentemente antisovietica, scritta da
questo autore, così sensibile ai problemi della
socialità contemporanea ma così lontano da una
traduzione politica di essi in chiave marxista.
Partendo da una concezione sperimentale della scienza e quindi anche
della scienza giuridica, il Duguit rigetta ogni costruzione della
dottrina che non possa essere verificata nella realtà, ma sia
soltanto una costruzione intellettuale. Questo ‛realismo' fu senza
dubbio la sua originalità e la sua debolezza, perché
è pur necessario chiedersi se sia possibile vietare alla
speculazione la possibilità di qualificare la realtà
attraverso concetti che la trascendono. Ma la questione non
può essere posta in questi termini quando si voglia
comprendere la dottrina del Duguit, perché è indubbio
che ogni problema scientifico deve essere in primo luogo esaminato
dal suo interno, e non già ponendosi al di fuori di esso. La
premessa del Duguit stava nello sperimentalismo di marca
positivistica, e questa scelta iniziale può certo essere
discussa ma tuttavia deve essere presupposta se si voglia
considerarne criticamente l'opera. Ciò che il Duguit
combatte, con un'ispirazione del resto più o meno comune alla
sociologia giuridica, è in primo luogo l'astrazione e la
finzione concettuale della dottrina tradizionale; e la sua posizione
ripete in questo un certo ‛germanesimo', cioè quella
posizione che fu propria della scuola storica germanistica,
germinata dai semi gettati dall'Hugo e dal Savigny, di cui O. von
Gierke (1841-1921) fu il rappresentante più significativo e
che prendeva ispirazione dal carattere connaturato al diritto
germanico, che sarebbe stato, in opposizione al presunto
individualismo romano, pervaso da uno spirito di concretezza e di
socialità. Così Gierke non si limitava a ricercare,
sotto la metafisica del concetto di ‛personalità morale', una
personalità morale naturale, secondo l'indirizzo degli
‛istituzionalisti', ma negava addirittura la legittimità
della finzione rappresentata dalla persona collettiva, la cui
realtà sarebbe consistita esclusivamente negli individui
umani che la compongono, dato che la legge non può creare
ciò che nella realtà non esiste. Non solo, ma neppure
il soggetto di diritto esiste, perché ciò che ha
rilievo è soltanto una finalità che corrisponda alla
solidarietà sociale. Questo è il punto centrale della
dottrina del Duguit e questa anche la sua fondamentale
originalità; perché egli frappone tra la realtà
e il diritto questo dovere di socialità, che è un
aspetto attivo e morale, una qualificazione e valutazione
dell'azione dell'uomo che si eleva al di sopra della semplice
‛natura delle cose' concepita come una condizione subita piuttosto
che dominata e trascesa dall'azione giuridica.
23. Altre teorie. Stammler
Se le teorie che si sono fin qui ricordate si riconnettevano in un
modo o nell'altro col positivismo filosofico per l'importanza
attribuita alla società e per l'obiettivismo da cui erano
permeate, e se esse per molti rispetti erano il riflesso non
soltanto di aspetti della cultura, ma anche di condizioni sociali
che si erano manifestate nella seconda metà del secolo scorso
ed erano divenute sempre più importanti nel nostro, non si
deve credere che esse costituissero però l'unico aspetto
sotto il quale il diritto veniva considerato. Nel campo della
filosofia il neokantismo della Scuola sud-occidentale tedesca del
Windelband e del Rickert e della Scuola di Marburg, che ebbe come
principali rappresentanti il Cohen e il Natorp, e il pensiero
hegeliano del Lasson e del Kohler, nonché l'idealismo
italiano del Croce e del Gentile, proponevano esigenze diverse non
soltanto nella filosofia in generale, ma anche nel pensiero
giuridico e politico. Qui si deve ricordare, ai fini specifici di
questo discorso, soprattutto lo Stammler, la cui critica del
materialismo storico (1896) aveva attirato l'attenzione del Croce,
allora impegnato nel riesame della teoria marxista. Secondo lo
Stammler non è l'economia a condizionare il diritto ma al
contrario è il diritto, come condizione a priori, a rendere
possibile l'esistenza della società. Questa tesi ha interesse
non soltanto come espressione di un pensiero che attribuisce
importanza primaria all'aspetto formale e definitorio del diritto,
ma anche in rapporto con quanto s'è accennato a proposito
della dottrina dell'istituzione e dell'organizzazione. In
realtà, le tesi dell'Hauriou e del Romano, per quanto abbiano
connessioni profonde con la dottrina di Ehrlich e con la sociologia
giuridica, rappresentano per altri rispetti una loro correzione
conseguita mediante l'equiparazione del fatto sociale col fatto
giuridico. Se è vero che la società non è
concepibile che come organizzazione e se l'organizzazione si
identifica col diritto, il diritto, cioè la qualificazione
giuridica della realtà, tende a riprendere il sopravvento sul
fatto sociale puro e semplice. È quanto, in sostanza, si
riflette anche nella filosofia di G. Del Vecchio, per il quale il
concetto universale del diritto è logicamente anteriore ai
fenomeni empirici che sono definiti come giuridici. Sennonché
la posizione del Del Vecchio ha, appunto, un valore logico, non
storico-empirico, che invece sembra immanente nella dottrina
dell'istituzione e dell'organizzazione e per il quale appunto
quest'ultima è ancora per tanta parte dipendente
dall'Ehrlich.
24. Marx e il diritto
Il particolare aspetto sotto il quale è stato considerato il
diritto da queste teorie che hanno voluto risalire dalla norma a un
‛fatto' precedente a essa, fondando così il diritto su
un'organizzazione della società soltanto in parte coincidente
con lo Stato e dando perciò valore e risalto alla
società in quanto tale e alla molteplicità degli
ordinamenti correlativa a una molteplicità di gruppi sociali,
corrispondeva al prevalere, nel periodo storico che va dalla
metà del secolo scorso fino ai nostri giorni, dei problemi
riguardanti la collettività come insieme di uomini prima
ancora che di cittadini, e dei problemi economici soprattutto, che
sono la conseguenza dello sviluppo, portato fino alle estreme
conseguenze, dell'attività industriale. Alla concezione
liberale si era così sostituita una nuova visione degli scopi
fondamentali del diritto e della sua stessa natura, non più
sovrapposizione di una volontà sovrana alla società e
trasformazione della società in Stato per effetto di essa, ma
una società che affermava se stessa indipendentemente dallo
Stato, nel rifiuto dell'esaltazione dello Stato compiuta da Hegel,
visione certamente elevatissima dell'individualità che si
innalza fino all'armonia dello Stato etico, ma difficilmente
riscontrabile nella realtà storica, dove anzi essa offriva
facilmente una giustificazione all'ingresso del potere politico
nella sfera più gelosa e riservata della persona. Ecco
perché nello sforzo di ristabilire la validità dei
diritti della società e della natura sociale del diritto,
sforzo compiuto da tutte le teorie istituzionalistiche e
giuridico-sociologiche, si può vedere implicitamente
restaurato il diritto dell'individuo. Proprio questa difesa dei
diritti individuali, della società non divisa in classi ma
nella quale l'individuo sia parte integrante e indispensabile del
tutto, segna la linea di divisione tra quelle dottrine e la teoria
del Marx. Nella dottrina del Marx v'era infatti, contrariamente a
quelle formulazioni teorico-giuridiche, una finalità
prettamente politica, la vittoria della classe proletaria su quella
borghese, del comunismo sullo Stato espressione della borghesia.
Certo, anche in quella ideologia, che con lo Stato negava il diritto
come espressione di una classe, era pur visibile il riscatto dei
diritti della classe lavoratrice, al fondo dei quali, a ben vedere,
v'erano pure dei diritti innati o naturali dell'individuo. Ma il
fatto di averli riferiti non all'uomo in quanto tale, ma alla classe
proletaria, diveniva la nota prevalente e trasformava una dottrina,
che avrebbe potuto anche essere prospettata sotto l'aspetto del
diritto, in una negazione del diritto e in un'ideologia
rivoluzionaria.
Sennonché tutti questi aspetti teorici, visti nella
prospettiva del liberalismo e dello statualismo della seconda
metà del XIX secolo, mutarono profondamente dopo e in
conseguenza della prima guerra mondiale. L'avvento delle masse sulla
scena politica, delle masse che erano state le protagoniste del
conflitto armato, e l'ulteriore impulso industriale che era stato
una delle conseguenze capitali di quegli eventi, segnarono l'eclissi
dello Stato liberale e l'avvento del comunismo in Russia, come
conseguenza della Rivoluzione d'ottobre, e dei regimi fascista e
nazista in Italia e in Germania. Si aprì dunque, in una
così vasta parte dell'Europa continentale, un periodo
caratterizzato dall'instaurazione di Stati autoritari nei quali i
concetti rispettivamente di ‛classe' e di ‛società' si
trasformarono in quelli dello Stato sovietico e degli Stati nazista
e fascista, istituzioni autoritarie, nelle quali l'immagine dello
Stato etico ritornò tragicamente quale espressione estrema
dell'autocrazia, padrona dei corpi e delle anime, sbocco fatale
delle rivoluzioni e dei sommovimenti violenti, nei quali l'individuo
perde ogni valore nell'utopico sforzo per il conseguimento di scopi
collettivi, non mai presentati nella loro concretezza ma sempre
idealizzati ed espressi con l'astrazione.
Il contrasto tra, questa situazione e quella ipotizzata o teorizzata
dalle teorie giuridiche che avevano preso le mosse dalla
‛giurisprudenza degli interessi, e si erano poi variamente
sviluppate nel modo che s'è descritto, è troppo
evidente perché vi si debba insistere. Dappertutto lo Stato
fu idealizzato nelle dottrine giuridiche ufficiali, e con lo Stato
tornò alla ribalta la concezione volontaristica e
imperativistica, che aveva avuto la sua origine moderna nel regime
di Bismarck, nel Kulturkampf e nella ‛giurisprudenza concettuale'
tedesca. La definizione data dal Vyšinskij del diritto come ‟un
insieme di regole della condotta umana stabilite dal potere statuale
in quanto potere della classe che domina la società,
nonché delle consuetudini e delle regole di convivenza
sanzionate dal potere statuale coercitivamente con l'ausilio
dell'apparato statuale al fine di tutelare, consolidare e sviluppare
i rapporti e l'ordinamento vantaggiosi e favorevoli alla classe
dominante" (Problemi del diritto e dello Stato in Marx, in Teorie
sovietiche del diritto, a cura di U. Cerroni, Milano 1964, p. 283),
è uno sforzo impressionante di ricomprendere e riassumere le
premesse del marxismo in una formula nella quale paradossalmente
riaffiorano motivi che hanno le loro radici in dottrine originate
dalla Scuola storica e dall'hegelismo. Il risultato era la
giustificazione e la teorizzazione della tirannia, nella quale si
era trasformata la ‛dittatura del proletariato', che Marx aveva
vagheggiato nella sua utopia millenaristica, e che il Vyšinskij
interpretava in quei termini nel famoso discorso da lui tenuto
all'Accademia delle Scienze di Mosca nel 1938, in piena epoca
staliniana, sulla concezione dello Stato e del diritto in Marx. In
seguito, col mutamento dell'indirizzo politico, anche tale
interpretazione è cambiata per opera dello Strogovič e del
Golunskij. Ma anche se con questi giuristi si è tornati, in
parte almeno, alla sociologia giuridica di Stučka e di Pašukanis,
rimane che la teoria giuridica è nell'URSS strettamente
dipendente dalle premesse politiche, che ne sono dunque sempre le
ispiratrici.
25. Gentile
L'esaltazione dell'onnipotenza dello Stato di fronte all'individuo,
anzi la riaffermazione dello Stato ‛come la realtà vera
dell'individuo', fu il fondamento della dottrina giuridica ufficiale
anche in Italia durante il fascismo e fu formulata in termini
teorici da Giovanni Gentile in varie occasioni, e specialmente nella
relazione da lui tenuta al secondo congresso hegeliano di Berlino
nel 1931, dove è esaltato il concetto dello Stato ed è
contestato il valore delle dottrine anteriori a Hegel, fino a
Fichte, per le quali ‟il concetto dello Stato [...] è negato.
Lo Stato rimane una semplice realtà di fatto, contro la quale
batterà l'individualismo liberale fino a sboccare
nell'anarchismo", mentre a Hegel ‟spetta nella storia del pensiero
il merito di aver costruito o scoperto il concetto dello Stato". Su
queste premesse il Gentile dettò la teoria filosofica e
politica del fascismo nella voce omonima pubblicata nel 1932
nell'Enciclopedia Italiana: ‟Il liberalismo negava lo Stato
nell'interesse dell'individuo particolare; il fascismo riafferma lo
Stato come la realtà vera dell'individuo". Alcuni anni prima,
e con minor rigore teorico, ma con preciso riferimento al diritto,
A. Rocco (1875-1936) aveva affermato a sua volta che ‟in Italia la
grande tradizione è per una forte concezione dei diritti
dello Stato, della preminenza della sua autorità, della
superiorità dei suoi fini"; e, stabilendo l'antitesi tra
liberalismo e fascismo, affermava che ‟per il fascismo il problema
preminente è quello del diritto dello Stato e del dovere
dell'individuo e delle classi; i diritti dell'individuo non sono che
riflesso dei diritti dello Stato, che il singolo fa valere come
portatore di un interesse proprio e come organo di un interesse
sociale con quello convergente" (Discorso di insediamento alla
presidenza della Camera dei deputati, 28 maggio 1924, in La
formazione dello Stato fascista, 1925-1934, vol. III, Milano 1938,
pp. 1002 ss.).
26. Il pensiero tedesco dopo la prima guerra mondiale. C. Schmitt
In Germania il pensiero giuridico del primo dopoguerra si
sviluppò anch'esso nel senso di una subordinazione
dell'individuo a un'entità superiore, la cui concezione
variò tuttavia nei singoli autori. Può però
affermarsi che nota comune del pensiero giuridico che in Germania
volle costruire la dottrina del nazionalsocialismo fu il richiamo
sia alla tradizione del pensiero tedesco, specialmente di Hegel,
come nel Larenz e nel Binder, sia al pensiero politico di Hobbes e
di Machiavelli, oltre che di Hegel, come nel caso di Schmitt. Tutti
questi scrittori sentirono il fascino, alquanto torbido, dell'idea
di ‛popolo', che giuridicamente voleva dire ‛diritto secondo le
tradizioni del popolo tedesco', di origine romantica e già
insita, sebbene con diverso significato, nella Scuola storica e
nella filosofia hegeliana. Il ‛popolo' era l'espressione di una
concezione del diritto antindividualistica, preoccupata
dell'interesse collettivo, corrispondente quindi a quel modello del
socialismo nazionale che costituiva il programma ideologico del
movimento. I motivi scientifici e le conclusioni furono in un primo
momento partecipi del movimento del diritto libero e delle dottrine
istituzionalistiche. I diritti subiettivi furono subordinati alle
‛situazioni', la situazione essendo un concetto all'unisono con lo
spostamento del centro di gravità del diritto verso il
diritto obiettivo, verso l'ordinamento o l'organizzazione.
Soprattutto nel pensiero dello Schmitt queste premesse furono svolte
con coerenza sistematica e come punto di confluenza di pensieri di
provenienza diversa e soprattutto, accanto a quelli già
ricordati, della sociologia di Max Weber.
Prendendo le mosse da un'impostazione diametralmente opposta a
quella del Kelsen, lo Schmitt sostenne che il diritto è
un'espressione della politica. E ciò a cominciare dallo
Stato. ‟Il concetto di Stato presuppone quello di ‛politico'. Per il
linguaggio odierno, Stato è lo Status politico di un popolo
organizzato su un territorio chiuso"; queste sono le parole con le
quali si apre il lavoro Der Begriff des Politischen (tr. it.: Le
categorie del politico, Bologna 1972, p. 101), pubblicato per la
prima volta nel 1927 e poi soggetto a successive rielaborazioni. Lo
Schmitt proseguiva dicendo che lo Stato è una situazione di
un popolo, anzi è la situazione che fa da criterio ‟nel caso
decisivo", quello cioè che esprime il contenuto della
sovranità. Questa situazione egli la vedeva storicamente
svilupparsi dallo Stato assoluto del sec. XVIII fino allo Stato
‛totale' del XX, allorché Stato non è più,
hegelianamente, un'entità che si colloca sopra la
società, né comunque qualcosa di distinto da essa, ma
con la società si identifica in un'integrazione di cui egli
scorge il passo più importante nel Gierke e che è
stata teorizzata da R. Smend. In questo processo, nel quale lo Stato
penetra ogni sfera sociale guadagnando così tutte le forze
vitali del popolo, ‟tutto è politico". Da ciò appunto
dipende il fatto che lo Stato e ‟un'unità decisiva".
Criticando il pensiero liberale del secolo scorso per avere esso, a
suo avviso, ignorato sistematicamente lo Stato e la politica e aver
posto invece l'accento su una polarità comprendente etica ed
economia, spirito e commercio, cultura e proprietà,
cioè composta di sfere eterogenee, lo Schmitt perviene per
vie diverse alle stesse conclusioni del Marx e del Croce, affermando
che ‟la signoria del diritto" non significa altro che ‟la
legittimazione di un determinato status quo, al cui mantenimento
naturalmente hanno interesse tutti coloro il cui potere politico ed
economico si consolida in questo diritto" (ibid., p. 153).
V'era dunque nello Schmitt, come nella scienza del diritto pubblico
tedesco che reagiva contro la linea purista dei Laband-Kelsen di
origine liberale e d'ispirazione puramente logica, senza alcun
attacco ai contenuti, un intento (che egli ha condiviso con
Kaufmann, Binder, Heller, Holstein, Jerusalem, Smend) di dare al
diritto una sua ontologia. Il grande quesito, se il diritto debba
esaurirsi in un ‛dovere' (Sollen) o invece comprenda l'‛essere'
(Sein) ritorna anche in Schmitt, con la necessità di
scandagliare questo contenuto attraverso la sociologia e la storia.
L'‛essere', di cui il diritto è perfuso, è una
situazione dinamica, che si contrappone a una concezione
volontaristica essenzialmente statica. Per questo anche la dottrina
di Schmitt inclinò verso una forma di ‛istituzionalismo',
dopo aver elaborato e superato, ma anche assimilato, la critica
contro una metafisica dello Stato espressa dal Duguit e il
pluralismo di G.D.H. Cole e di H.J. Laski. Egli si richiamò
all'Hauriou, contestando la validità della critica a questi
rivolta dal Bonnecase, che aveva definito la nozione d'istituzione
‟una nuova mistica", e al Romano. ‟Ogni tipo di considerazione
giuridica di termini composti come ‛ordinamento-giuridico',
‛sovranità-della-legge', ‛validità-delle-norme'" egli
affermava in Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen
Denkens (I tre tipi di pensiero giuridico) pubblicato nel 1934 e poi
incluso in una rielaborazione di Der Begriff des Politischen, ‟rende
possibili i due diversi tipi di pensiero giuridico-scientifico: il
tipo astratto fondato sulle regole e sulle norme e quello concreto
fondato sull'ordinamento. Per il giurista del primo tipo [...]
l'ordinamento consiste [...] sostanzialmente nel fatto che una
situazione concreta corrisponda a norme generali, alle quali essa
viene commisurata. D'altra parte, proprio questa ‛corrispondenza'
costituisce un difficile e irrisolubile problema logico, dal momento
che il pensiero normativistico, quanto più è ‛puro',
tanto più conduce a una frattura sempre più drastica
fra norma e realtà, fra dovere ed essere, fra regola e
comportamento concreto [...]. Al contrario - egli proseguiva - oggi
molti giuristi considerano irreale e fantastica la riduzione di
questi concreti tipi di ordinamento a una somma o a un sistema di
norme. Noi sappiamo che ogni ordinamento - anche l'‛ordinamento
giuridico' - è legato a concreti ‛concetti di
normalità' che non sono derivati da norme generali ma al
contrario producono essi stessi tali norme, solo in base al loro
proprio ordine e in funzione del medesimo" (ibid., pp. 255-259).
Da questa concezione dell'ordinamento, che egli ha chiamato
‟concreta", lo Schmitt ha ritenuto di poter e dover derivare le
strutture dello Stato nazionalsocialista. Ma questa è una
deduzione non necessaria, tratta dall'adattamento di una teoria,
certamente corrispondente a istanze fondamentali del nostro tempo, a
una situazione storica contingente.
Ogni teoria, normativa o istituzionalistica che sia, può
trovare applicazione nei più diversi aspetti della
realtà. Che ciò sia accaduto, che le stesse teorie
giuridiche possano essere state adattate a un regime di
libertà o invece a uno di tirannia, sta a dimostrare che il
giudizio morale non è parte della definizione giuridica della
realtà, ma la trascende e implica non la logica, ma la
responsabilità di fronte all'azione. Ma tutto ciò
sottolinea anche la drammaticità della storia della nostra
epoca, che nelle sue contraddizioni, nelle sue violenze, nella
ricerca, anche, di una giustizia che sia più giusta, si
riflette sul diritto e ne piega di volta in volta le forme a
rivestire i problemi e le soluzioni che la vita politica ed
economica suggerisce.
27. Il pensiero americano. R. Pound
Che dunque ‟le scuole giuridiche attuali sono sorte in seguito alla
dissoluzione della scuola del Savigny, quasi allo stesso modo in cui
le scuole giuridiche del secolo scorso ebbero origine dal
dissolversi della scuola del diritto naturale" (v. Pound, 19462; tr.
it., p. 4) è un paradosso che il maggior filosofo giurista
americano di questo secolo, R. Pound, espresse fin dalla prefazione
dell'edizione delle sue lezioni, tenute al Trinity College di
Cambridge nel 1922. Una simile visione, che ridurrebbe la storia del
pensiero giuridico del XIX e XX secolo a uno sviluppo interno della
Scuola storica tedesca, non è sostenibile proprio da un punto
di vista storico, perché trascurerebbe ciò che
v'è d'essenziale nel divenire di quelle dottrine, vale a dire
il suggerimento dei tempi e delle situazioni reali e la costruzione
autonoma che si è determinata su tale fondamento. Essa ha
tuttavia ugualmente del vero, perché una parte cospicua dei
movimenti dottrinali nell'ultimo secolo e mezzo hanno attinto ai
poliedrici aspetti della Scuola storica e agli aspetti contrastanti
che ne formavano il nucleo. Così lo stesso Pound ha attinto,
nella costruzione della sua dottrina, che egli chiamò
‟ingegneria sociale", soprattutto al Jhering nel pensare agli
interessi che si sviluppano in una società concretamente
considerata, al Kohler, e perciò a Hegel, nel concepire il
diritto come un elemento propulsivo del progresso sociale, in un
divenire non però dipendente dall'impulso dell'Idea, ma dal
mutamento stesso della società, ogni teoria essendo, secondo
il Pound, il riflesso di una situazione storica.
Sostanzialmente pragmatista, secondo una tendenza fiorita nel
dinamismo della società americana per opera del Dewey
(1859-1952) e dell'Holmes (1841-1935), il Pound accentuò
ancora e soprattutto affinò l'idea dell'importanza della
storia nella dottrina giuridica positiva, in sostanza pervenendo a
una concezione storiografica di tipo idealistico, che ha risentito
fortemente, anche se non ne ha sempre esattamente riflesso l'idea,
della concezione crociana della storia. Questo suo più
moderno e raffinato storicismo si esprime nell'apprezzamento critico
dello storicismo del sec. XIX, non solo perché il Savigny e i
suoi seguaci avevano considerato ‟la storia giuridica come un dato
assoluto, e il progresso come qualcosa che avesse insito in
sé il proprio fondamento, in quanto progresso della ragione o
dello spirito o in quanto consistente nel realizzarsi dell'idea" (v.
Pound, 19462; tr. it., p. 31), con il che si andava ben oltre la
scuola savignyana e si comprendeva evidentemente anche l'indirizzo
di Hegel; ma anche perché le correnti di pensiero del sec.
XIX ‟consideravano tutta la storia come un lento e ordinato
succedersi di eventi e d'istituti attraverso il quale le cose si
perfezionavano evolvendosi fino alla realizzazione completa della
loro idea" (ibid., p. 20), alimentando quel dogma del fatalismo
storico che il fondamentale pragmatismo del Pound giudicava come
un'abdicazione al valore dell'azione umana. La filosofia giuridica
del Pound e il suo storicismo mostrano dunque fin dagli inizi un
sostanziale fondamento etico, che li distingue dalle altre teorie
antiformaliste e antirazionaliste. La sua eticità coincide
con la ragione, ma con una ragione non astratta bensì
ricercata nella storia, perseguibile cioè dall'azione
concreta degli uomini. Alla conclusione del capitolo Che
cos'é la giustizia, che è il primo del suo libro
Justice according to law, pubblicato nel 1951, il Pound riprese la
definizione della giustizia del Radbruch, che egli considerava il
più grande filosofo del diritto della sua generazione, e che
era espressa in questi termini: giustizia è ‟la relazione
ideale tra gli uomini". Il Radbruch (1878-1949), già vicino
alla Scuola del diritto libero, divenne poi, dopo le esperienze del
nazionalsocialismo, uno dei massimi rappresentanti della rinascita
del giusnaturalismo in Germania, promossa dall'anelito verso
l'identificazione di un fondamento trascendente nel diritto, che lo
sottraesse alle nefaste conseguenze politiche incluse nelle dottrine
positivistico-giuridiche.
Questo nuovo indirizzo del Radbruch, per quanto stimolato
dall'esperienza politica e dalle esigenze etiche che per reazione
sorgevano in ogni natura sensibile, non era però in netta
contraddizione con quanto il Radbruch aveva sostenuto nel periodo
precedente, quando aveva pubblicato la sua Rechtsphilosophie (1932).
Anche lui, come Gény, era ricorso al concetto della ‟natura
delle cose" per porre in armonia il diritto positivo con la
realtà effettuale; un concetto che era stato largamente
condiviso da coloro che avevano posto la società a fondamento
del diritto che alle necessità di essa doveva corrispondere.
Proprio il Gény e il Radbruch, del resto, contribuirono a
rivelare la moralità intrinseca delle dottrine ‛sociali' e
come non fosse fuor di luogo avvicinare proprio quelle dottrine al
giusnaturalismo, purché con questo termine non s'intendesse
la forma astrattamente razionalistica che aveva assunto nei secc.
XVII e XVIII. Ciò corrispondeva, in ultima analisi, a quella
ricerca del contenuto dei valori significativi per il diritto, che
caratterizza la filosofia di Radbruch e la differenzia da quella,
che pur è alle sue origini, di Windelband, di Rickert e di
Lask.
Il Pound riprese dunque la definizione della giustizia data dal
Radbruch, concludendo che ‟ciò che si deve fare nel controllo
sociale" - vale a dire nell'ordinamento giuridico, ove per il Pound
si attua concretamente la giustizia - ‟e perciò nel diritto
è conciliare e adattare questi desideri o bisogni o
aspettative (dell'uomo) in modo da garantirne la massima
quantità possibile" (v. Pound, 19462; tr. it., p. 251).
Così il Pound, come il Radbruch, parte dalla dottrina
sociologica del diritto per arrivare a una forma di giusnaturalismo
che non rinnega la storia, ma vuol conciliarla con la restaurazione
dei valori; ‟diritto naturale positivo", come egli lo chiama, non
‟raffigurazione razionalmente concepita della giustizia come ideale
dei rapporti tra gli uomini, dell'ordine giuridico come mezzo
razionalmente concepito per instaurare e conservare tale rapporto, e
di precetti giuridici come strumenti ideali razionalmente
concepiti", ma ‟sistema di precetti giuridici universali logicamente
derivati e formati sull'esperienza del passato, postulato come
formulabile in relazione alle esigenze poste da problemi universali,
e in tal modo assunto a fornire precetti giuridici di
validità universale" (R. Pound, Natural law and positive
natural law, in ‟Natural law forum", 1960, p. 70).
28. Il ‛realismo scandinavo'
Tra le teorie moderne che hanno contestato la validità del
positivismo giuridico bisogna ancora ricordare il cosiddetto
‛realismo scandinavo'. Law as fact (1939) è il titolo di una
delle opere dell'Olivecrona, che di quello è uno dei
rappresentanti, gli altri due essendo il suo maestro
Hägerström e il Lundstedt.
Ma il ‛fatto' non dev'essere inteso questa volta come un fenomeno
sociale, ché anzi l'Olivecrona nega che il fatto sociale sia
di per sé normativo, perché lo Stato stesso, inteso
realisticamente come organizzazione, ‟si fonda su un insieme di
regole che vengono di fatto applicate all'interno di un certo gruppo
sociale". Per questo aspetto la dottrina del ‛realismo scandinavo'
si colloca sulla posizione opposta a quella dell'‛istituzionalismo'
o del sociologismo giuridico. Infatti una simile concezione del
rapporto organizzazione-norme implica non solo la critica di tutta
la dottrina statualistica, che suppone il diritto creato dalla
volontà dello Stato, ma implica anche che lo Stato presuppone
il diritto. Ciò che accomuna però questo movimento di
pensiero con la sociologia giuridica e con le teorie che ne sono
derivate o connesse è il rifiuto netto di ogni metafisica
giuridica e la convinzione che il diritto appartiene alla
realtà empirica. Con ciò s'intende negare
validità alle costruzioni della scienza giuridica che
costituiscono una proiezione rappresentativa di realtà
attraverso concetti che la snaturano. Così si dica per la
volontà dello Stato, per il carattere volontario della norma,
per il diritto soggettivo e così via. La genesi di quelle
rappresentazioni è stata vista dall'Hägerström e
dall'Olivecrona nella magia che avrebbe pervaso il diritto romano e
che, mutatis mutandis, avrebbe continuato a dar vita ai ragionamenti
intorno al diritto. Invece tutto quanto la scienza del diritto
proietta nella realtà obiettiva è una realtà
soltanto in quanto consiste di rappresentazioni che la mente umana
va costruendo. Le norme giuridiche sono degli ‛imperativi
indipendenti', cioè immagini di azioni e di situazioni
proposte dal legislatore come modelli della condotta e mediante una
forma imperativa. Al comando si sostituisce quindi la suggestione,
perché nel comando vero e proprio è implicita una
relazione personale che manca nella norma giuridica. ‟Non esiste
nessuna volontà dello Stato - afferma Olivecrona - e neppure
dei veri e propri comandi di legislatori individuali. Ciò che
si verifica nella realtà è il seguente fenomeno: le
formalità previste dalla costituzione applicate agli
‛imperativi indipendenti' contenuti nel precetto legislativo,
conferiscono loro un'importanza peculiare per la vita sociale,
avvolgendoli in un'aureola e contrassegnandoli in modo tale che gli
uomini sono indotti ad assumerli come modelli di comportamento" (v.
Olivecrona, 1939; tr. it., p. 45).
Anche i diritti soggettivi esistono soltanto nell'immaginazione
degli uomini e appartengono alla sfera del tempo e dello spazio
soltanto per questo e non perché corrispondano a una
realtà del mondo empirico. La mancanza di una distinzione tra
ideologia e realtà empirica, che si verifica nel diritto,
è la conseguenza di abitudini mentali, che ottundono il senso
critico. Per il Lundstedt anzi, i diritti e gli obblighi giuridici
non esistono in quanto tali; i ‛diritti' sono soltanto delle
posizioni tutelate dallo Stato e le norme giuridiche sono in
realtà le decisioni giudiziarie.
Per l'Olivecrona il diritto nel suo complesso non è altro che
l'organizzazione della forza e la forza non è il mezzo col
quale attuare il diritto, ma il suo oggetto. Questo pensiero
è ripreso anche da A. Ross, che ha risentito dell'influsso
del Kelsen, almeno per quanto concerne la natura delle norme, che
sarebbero direttive del comportamento e non semplice fatto.
C'è tuttavia da chiedersi nei confronti dell'Olivecrona se la
norma, concepita come rappresentazione psicologica, possa essere
ridotta a mero fatto, o se essa non implichi, insieme alla
rappresentazione, anche una reazione della coscienza, una
partecipazione del soggetto che si traduca appunto nel Sollen e non
in un semplice Sein. Comunque il Ross valuta le norme al lume della
loro efficacia e qui consiste essenzialmente il suo realismo. Le
norme nel loro complesso sono per lui tali se possono costituire
un'interpretazione dei fatti o delle azioni sociali. Egli poi
distingue tra la regola di condotta, indicazione di un comportamento
obbligatorio, che sia concretamente vissuta dall'uomo che ne
riconosce la validità e perciò si sente da essa
vincolato, e l'idea astratta che è contenuta nella regola e
che è lo schema interpretativo della condotta corrispondente.
‛Diritto valido' è l'insieme delle idee astratte che fanno da
schema interpretativo dei fenomeni del diritto in atto.
Possiamo ora tornare sui nostri passi. Notevoli affinità
legano al Ross la teoria del già ricordato H.L.A. Hart, che
è considerato il continuatore della ‛giurisprudenza
analitica' che aveva avuto nel Bentham e nell'Austin i suoi
più illustri rappresentanti, per quanto la concezione del
Hart sia meno radicale di quella del Ross. Come il Ross, ma anche
più del Ross soggetto all'influsso del Kelsen, il che poi non
è in contraddizione con il fondamento austiniano della sua
teoria, Hart si è dedicato a un'analisi critica delle
costruzioni giuridiche erette dalla dottrina così europea
come nordamericana. Aperto ai suggerimenti di vari sistemi di
pensiero, ma sostanzialmente positivista, come dimostrano le
critiche da lui mosse al neogiusnaturalismo del Radbruch e di una
parte della filosofia del diritto e della giurisprudenza tedesca del
secondo dopoguerra, che egli considera originata più da
motivi emozionali che dalla ragione giuridica e filosofica, la sua
impostazione ha strette affinità con quella che in Italia
è stata sostenuta da N. Bobbio, anch'egli sensibile al
sistema della filosofia analitica del Wittgenstein, anch'egli
incline a porre al centro della problematica l'esame critico del
linguaggio, che diviene così rappresentativo delle
costruzioni concettuali. Questa teoria, che il Bobbio ha sviluppato
in vari scritti (Scienza del diritto e analisi del linguaggio, 1950;
Teoria della scienza giuridica, 1950; Studi di teoria generale del
diritto, 1955; Teoria della norma giuridica, 1958; Teoria
dell'ordinamento giuridico, 1960; Il positivismo giuridico, 1961;
ecc.) e che pone in rilievo la validità formale del diritto
in senso affine a quello del Kelsen e quindi neopositivistico, si
concilia in lui con la ricerca sociologica, come due campi diversi
ma ugualmente validi. Nel Hart, invece, non si trova un analogo
interesse per la sociologia, ma l'insistente motivo linguistico, che
per lui costituisce la ragione più valida per la revisione e
l'analisi dei sistemi concettuali applicati al diritto; e valga, a
mo' d'esempio, quanto egli dice a proposito della ‛persona
giuridica' in Definition and theory in jurisprudence (1953).
29. Conclusione
L'esposizione che veniamo ora concludendo non esaurisce certo gli
argomenti che un tema come quello del ‛diritto' può
suscitare. Anche se essa è stata volutamente limitata alle
questioni intorno alla natura del diritto sollevate dalla filosofia
giuridica e dalla teoria generale, si è cercato di tener
presenti le linee fondamentali dello sviluppo dei vari sistemi,
trascurando necessariamente tutto quanto, anche se in sé
validissimo, non rientrava nel disegno generale di tale problematica
giuridica per ragioni di equilibrio espositivo e di economia della
materia. Riassumendo quanto è stato svolto fin qui, si
può dire che il Novecento ha ereditato dal secolo precedente
i fondamenti essenziali delle sue dottrine intorno alla natura del
diritto e alla sua struttura. I grandi problemi sono ancora quelli
suscitati dalla polemica del positivismo giuridico nei confronti del
giusnaturalismo e dalla sociologia giuridica contro il formalismo
positivista. Quest'ultimo ha assunto la sua forma più
raffinata e logicamente coerente nel sistema del Kelsen, che ha per
questa ragione inciso profondamente sulla scienza giuridica del sec.
XX. Ma, se dobbiamo darne un giudizio complessivo, non ci sembra che
sia proprio l'indirizzo kelseniano ad avere per sé il futuro.
Che un sistema logico quale quello del ‛diritto puro' abbia in ogni
caso molte cose da insegnare a chi analizzi la struttura concettuale
del diritto, è certo; e a ciò si deve il suo grande
successo. Ma è sempre valida la questione se chi studia il
diritto debba appagarsi di quegli elementi strutturali, o non debba
invece ricercare nel diritto una disciplina dei rapporti umani alla
quale questa umana realtà non è sottraibile.
Vi sono nella storia del pensiero svolgimenti che apparentemente
derivano dal sistema dei pensieri precedenti, in cui cioè la
tradizione intellettuale sembra avere la prevalenza; e svolgimenti
che più apertamente e immediatamente traggono la loro
ispirazione dai fatti, e nel caso del diritto, dai fatti della vita
sociale. È probabile che questa diversa origine delle
costruzioni teoriche sia soltanto apparente, e che anche dietro ai
primi vi siano, se esaminati nel profondo, motivi che derivano da
una storia più complessa che non quella delle pure teorie. Ma
questo pare che si possa comunque affermare oggi con certezza: che,
pur nell'estrema vastità e nell'intima compenetrazione di
influssi e di dottrine diverse, tutte agenti contemporaneamente, che
è poi un'altra caratteristica della teoria giuridica dei
nostri giorni, un'esigenza di verifica storica si va affermando
sempre più ampiamente e sicuramente nella scienza del
diritto. La stessa ricerca di una concretezza che porti le dottrine
a contatto immediato con la realtà e ne faccia l'espressione
stessa dei suoi suggerimenti, il principio di ‛effettività'
nella considerazione teorica del diritto, vanno guadagnando terreno.
Anche nella scienza giuridica dell'Ottocento non mancarono
certamente questi richiami alla storia; e anzi, come ben sappiamo,
è proprio allora che la via della storia venne sperimentata
in questo senso.
Ma ciò non vuol dire che oggi il ricorso alla storia non
rivesta un significato nuovo. Autori pur di diverso indirizzo come
il Pound, il Triepel, il Verdross, il Romano, lo Schmitt, il Jemolo,
il Calamandrei, l'Ascarelli, l'Hauriou, il Cesarini Sforza, il
Radbruch, il Quadri, che qui si citano a mo' d'esempio, hanno avuto
sempre più spesso necessità di verificare le loro
dottrine alla luce della storia. La più giovane generazione
dei giuristi italiani ha anch'essa mostrato una decisa inclinazione
verso la storia, nella quale l'economia e la società sono gli
aspetti salienti per la costruzione dell'edificio giuridico.
Si avverte, dovunque diffuso, un bisogno di revisione delle idee che
corrisponde al mutamento delle condizioni della vita e che prelude,
o ha già preluso, a una revisione degli ordinamenti positivi.
Può darsi che in tale revisione si affaccino prepotentemente
e si rivelino allo scoperto, come non era mai accaduto prima, delle
istanze politiche alle quali il diritto viene subordinato. Non
spetta qui a noi giudicare se questo sia un bene o un male. Del
resto, il giudizio sulla positività o negatività di
questa tendenza dipende dai limiti in cui ciò può
venir fatto. Ed è questa una questione sulla quale soltanto
il futuro potrà pronunciarsi.