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Uomo politico italiano (Mezzana Corti, Pavia, 1813-Stradella, Pavia, 1887).
Eletto al Parlamento subalpino nel 1848, fece parte dell'opposizione democratica e si staccò da Mazzini solo dopo il fallimento del moto milanese del 1853. Avversò Cavour durante la guerra di Crimea, ma all'inizio della campagna del 1859 si accostò alle posizioni governative e nel 1860 fu inviato come prodittatore in Sicilia. Dopo la proclamazione dell'Unità entrò nel Parlamento nazionale, dove nel 1873 succedette a Rattazzi nella direzione della Sinistra italiana, dopo aver fatto parte dei ministeri Rattazzi (1862) e Ricasoli (1866-67). Nel 1875, in un vigoroso discorso tenuto a Stradella, Depretis dimostrò, contro l'immobilismo della Destra al potere, l'improrogabilità di profonde riforme. Pochi mesi dopo, il 25 marzo 1876, caduto il governo Minghetti, ebbe dal re l'incarico di formare il primo ministero della Sinistra, che dovette subito affrontare, e con successo, il problema della gestione delle ferrovie. Negli anni successivi non seppe però attuare quelle riforme che egli stesso aveva prima rivendicato e l'11 marzo 1878 rassegnò le dimissioni.
Dopo la parentesi del ministero Cairoli, il 19 dicembre Depretis formò il suo terzo gabinetto caratterizzato da un'accentuata connotazione conservatrice. Messo in minoranza il 3 luglio 1879, tornò al governo il 29 maggio 1881 e vi restò fino alla morte. Nonostante fosse sostenuto da un'esigua maggioranza, riuscì a far approvare la nuova legge elettorale (1882) e a ottenere l'adesione dell'Italia alla Triplice Alleanza.
Politico abile e spregiudicato, Depretis si fece banditore del cosiddetto "trasformismo" che, aprendo le file della Sinistra a tutti i sedicenti progressisti, aveva lo scopo di battere l'estrema sinistra e di formare una maggioranza parlamentare in pratica conservatrice.
Fu un propugnatore dell'espansione coloniale iniziata con il suo governo.
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DBI
di Raffaele Romanelli
Nacque a Cascina Bella, frazione del comune di
Mezzana Bottarone (oggi Brèssana Bottarone), il 31 genn. 1813, unico
figlio maschio di Francesco e di Maria Antonia Tronconi.
Il comune di Mezzana era situato nell'Oltrepò pavese, dunque in
territorio lombardo ma appartenente al Regno sardo. Sette anni prima il
padre vi si era trasferito da Albuzzano, in Lombardia, di cui era
originario, in qualità di agente della famiglia Gazzaniga. Di origini
modeste (i fratelli, artigiani, più volte ne ottennero l'aiuto
economico), proprio nel 1813 iniziò una serie di acquisti di case e
terreni che alla sua morte coprivano circa 31 ettari. Passarono poi in
eredità al D., che alla più consistente delle proprietà, quella di
Castellazzo Beccaria, rimase sempre legato e che estese con successivi
acquisti.
Iniziato agli studi dal parroco del paese, a otto anni il D. fu mandato
a scuola a Pavia, dove il governo austriaco ammetteva i subalpini
d'Oltrepò. Completò il ginnasio-liceo al Ghislieri, e di li passò alla
locale università, che lo laureò dottore in giurisprudenza nel giugno
1834. Avviatosi alla pratica legale presso uno studio cittadino,
l'abbandonò nel 1836 per tornare in famiglia.
Ve lo richiamò certamente la morte del padre, avvenuta in quell'anno
per colera, e la necessità di prenderne il posto e le attività, dovendo
egli provvedere al mantenimento di due sorelle ancora nubili, nonché
della seconda moglie del padre, Caterina Tabacchi, e della sorellastra
Antonia.
In seguito il D. stesso attribuì la partenza da Pavia anche alla
necessità di sottrarsi ai controlli di polizia per essere coinvolto
nelle attività della Giovine Italia. A Pavia aveva in effetti
frequentato un ambiente studentesco nel quale i consueti comportamenti
goliardici e scapigliati si confondevano naturalmente con l'agitazione
democratica; aveva fatto parte di un gruppo che distribuiva materiale
di propaganda e che era in contatto con Mazzini, e almeno in una
occasione aveva dovuto attraversare precipitosamente il fiume e
riparare nel più ospitale territorio sardo.
Necessitato dalle vicende familiari e da quelle politiche,
l'allontanamento dalla pratica legale e dall'ambiente cittadino
diventava per il D. - così lo rievocava molti anni più tardi un suo
seguace, il Coppino (Commemorazione..., p. 12) - una scelta per "la
libertà del contado" e per la possibilità di farvi opera pedagogica
come "benevolo consigliere dei contadini" e nelle "non vigilate
espansioni con gli amici" che l'ambiente meglio consentiva. A questo
ruolo e a quest'immagine il D. doveva tenersi fedele, e trovarvi il
fondamento della sua ideologia politica. Proprietario e agente di
campagna in una delle più ricche e operose province agricole italiane,
crocevia di traffici tra il Regno sardo, quello lombardo-veneto e il
ducato di Parma, vi sviluppò le attitudini sue tipiche per
l'amministrazione attenta dei beni patrimoniali e per l'accortezza
delle transazioni, così mercantili come politiche. Succeduto al padre
nella carica di sindaco di Mezzana Bottarone, agente dei Gazzaniga a
Cascina Bella, passato poi a Stradella come agente dei Gazzaniga
Arnaboldi, nel giro di pochi anni aveva già raddoppiato il patrimonio
ricevuto, che nel 1844 si estendeva per 66 ettari e alla fine del
decennio seguente avrebbe raggiunto i 250 ettari.
Chi ne ha ricostruito la storia scrive che questo patrimonio fu
accumulato "sottoponendo ad ipoteca la proprietà e investendo nella
stessa il denaro ottenuto per aumentare la rendita, vivendo senza lussi
superflui e conservando le sane e parsimoniose abitudini della gente
che sa spendere il suo denaro e sa quanto valga una proprietà ampliata
lentamente e faticosamente" (Talamo, La formazione..., p. 38) - Ma il
benessere economico, nonché la cerchia delle relazioni - che via via si
consolidavano con la frequentazione dei mercati, e grazie ai rudimenti
appresi della pratica legale - si ampliarono poi in modo determinante
allorché nel 1842 la famiglia Gazzaniga si estinse nella più ricca
casata milanese degli Arnaboldi, che ne acquisirono il nome e le
proprietà. Agente a Cascina Bella e uomo di fiducia dell'ultima dei
Gazzaniga, Maria, il D. ne riorganizzò il patrimonio familiare
redigendo un dettagliato regolamento che metteva un agente a capo delle
"provincie" in cui divideva la proprietà e affidava la direzione
suprema a un agente generale, incarico che egli stesso assunse per il
corrispettivo di 6.000 lire milanesi all'anno oltre a una "decente
abitazione" e una persona al suo servizio. Stabilita la sede centrale
dell'amministrazione dei Gazzaniga-Arnaboldi a Stradella, il D. vi si
trasferì, dirigendovi con perizia ed efficacia le proprietà
affidategli, mentre per i suoi nuovi uffici ebbe spesso occasione di
varcare il confine e di recarsi a Pavia e a Milano, e qui di
frequentare l'ambiente dei Gazzaniga-Arnaboldi, simpatizzanti liberali
e presto suoi intimi, nonché dell'agente del duca Visconti di Modrone,
ing. Caccianino, che nel '42 aveva esaminato e approvato l'originale
regolamento redatto dal Depretis.
Esponente di una minore borghesia agraria in ascesa che gli interessi
stessi sospingevano su posizioni innovatrici entro l'ordine ormai
scosso della Restaurazione, il D. fu tra i primi aderenti della
Associazione agraria sorta a Torino nel 1842 e qui ebbe una prima
occasione di mescolarsi a molti rappresentanti della classe dirigente
sarda, subito accostandosi ai più avanzati tra di loro, come L. Valerio
o G. Lanza. I contatti e le amicizie qualificati, assieme al suo stesso
censo e all'esperienza quotidiana dei traffici, erano intanto pronti a
tramutarsi in base elettorale non appena s'instaurassero gli
ordinamenti rappresentativi. Il 27 apr. 1848, alle prime elezioni
politiche del Regno sardo, il D. si presentò candidato sia nel collegio
di Stradella, dove non fu eletto per soli 17 voti, sia in quello
confinante di Broni, dove raccolse invece soltanto 20 Voti su 235
votanti. Ma avendo il vincitore di quest'ultimo collegio, Paolo Farina,
optato per il IV di Genova, alle suppletive del 26 giugno il D. fu
eletto quasi senza opposizione e divenne così deputato di Broni, che
sempre lo riconfermò fino al 1860, mentre il seggio di Stradella
rimaneva, con l'appoggio dello stesso D., a C. Correnti. Sei mesi più
tardi si svolsero pure le prime elezioni amministrative, e il D., che
era consigliere comunale di Stradella già dal 1844 - nominatovi
dall'intendente di Voghera, cui spettava la nomina, a quel tempo non
elettiva - il 14 dic. 1848 ebbe il terzo posto tra i venti consiglieri
eletti, figurando al primo posto Carlo Arnaboldi Gazzaniga, il figlio
ventiquattrenne di Maria. Con regio decreto del 10 marzo 1849 il D. fu
quindi nominato sindaco di Stradella e rimase nella carica fino
all'ottobre del 1850. Sempre nel 1849, fu eletto anche consigliere
provinciale di Voghera.
Entrato alla Camera quando si discuteva il progetto sull'unione della
Lombardia e delle province venete agli Stati sardi, il D. si schierò a
sinistra e votò con l'opposizione, che proprio su quella legge fece
cadere il governo Balbo. Nei suoi primi interventi si può vedere come
in quell'opposizione si manifestassero i temi a lui più congeniali d'un
democraticismo rurale e borghese: accanto all'incoraggiamento al
progresso economico e sociale, accanto al liberismo, particolarmente
sentiti l'autogoverno locale e il coinvolgimento nelle istituzioni di
una più vasta base sociale.
Infatti il 6 luglio, sempre in tema d'annessione della Lombardia,
presentò e sostenne un emendamento per l'abolizione delle barriere
doganali, mentre pochi giorni dopo richiese una pronta riforma degli
ordinamenti locali e più tardi - nel primo suo intervento riportato
nella serie dei Discorsi Parlamentari, quello del 18 nov. 1848, -
collegò l'esigenza delle riforme amministrative al tema delle libertà
politiche. Manifestava così l'esigenza di un rinnovamento congiunto
delle istituzioni e degli uomini, sia a livello locale e amministrativo
- dove il D., accingendosi a una personale azione di svecchiamento, di
rigore e di chiarezza amministrativa in qualità di sindaco, chiedeva il
sostegno dello Stato e delle leggi -, sia a livello politico e
nazionale, dove più volte affermò la necessità di radicare lo statuto
in un vasto rinnovamento del personale politico e amministrativo dello
Stato. Discutendosi infatti il 18 novembre due disegni di legge
relativi a provvedimenti di assistenza e di pubblica sicurezza da
adottare per gli emigrati - e in quel momento riguardanti soprattutto
gli esuli lombardi -, metteva in guardia dal pericolo di affidare
l'emigrazione ad una macchina amministrativa retriva, che spesso
ostacolava l'applicazione di direttive liberali; ad impiegati,
funzionari, sindaci e segretari comunali, com'egli disse, "già di per
se stessi inclinati ad usare, ad abusare del loro ufficio a danno della
libertà". Perciò invocando la tutela statutaria delle libertà personali
propose un articolo aggiuntivo che esplicitamente subordinava
all'intervento dell'autorità giudiziaria gli arresti personali e le
visite domiciliari.
Se dunque fin dall'inizio della sua esperienza parlamentare - che egli
compiva, si noti, mentre il costituzionalismo stesso muoveva i suoi
primi passi e fondava le sue regole e le sue procedure - il D.
manifestava una sua vocazione ben radicata e definitiva ad affidare la
difesa del liberalismo allo studio ravvicinato dei congegni
amministrativi; se così sì definiva una sua collocazione già tutta
"interna" agli ordinamenti, la sua insistenza poi perché fosse
effettiva e sostanziale l'evoluzione liberale di quegli ordinamenti, e
il liberalismo avesse larghe basi sociali, spiega il radicalismo che
connotò le sue posizioni politiche nelle prime legislature del
Parlamento sardo. Nei fatti del 1848-'49, nel succedersi rapido dei
governi e delle legislature, egli agì infatti come uomo di partito, e
via via che le posizioni più estreme della Sinistra si distinsero da
quelle più moderate si riconobbe piuttosto nelle prime, ed anzi ne fu
esponente di primo piano. Esordì nel luglio del '48 non votando i pieni
poteri al governo per la durata della guerra; firmò, nel novembre, la
Dichiarazione politica con la quale le opposizioni condannavano le
incertezze del ministero nella politica nazionale. Sciolta la Camera, i
firmatari di quella Dichiarazione nominarono un "cornitato elettorale"
presieduto dal Valerio e fu probabilmente il D. a stilare l'Appello
alla nazione col quale la Sinistra si presentò agli elettori fissando
congiunti i propri obiettivi "interni" ed "esterni": "l'indipendenza
assoluta d'Italia, l'unione delle forze nazionali, la costituente, lo
sviluppo delle libertà politiche e municipali, la perfezione dei
codici, l'incremento delle industrie e dei commerci, il benessere delle
classi povere e faticanti, la grandezza insomma e la gloria d'Italia".
Vinte quelle elezioni dalla Sinistra, il 9 febbr. 1849 fu eletto
vicepresidente della Camera per la seconda legislatura, che tuttavia
durò pochi mesi, e di nuovo sciolta la Camera, costituì con Lanza e
Mellana un comitato elettorale e nell'agosto, apertasi la terza
legislatura, tornò ad essere vicepresidente della Camera.
Col nuovo appello alle urne del dicembre 1849 accompagnato dal proclama
di Moncalieri, la Sinistra perse la maggioranza e s'accentuò al suo
interno la distinzione tra il gruppo più moderato facente capo al
Rattazzi e la Sinistra "pura" del D., di Valerio, Sineo, Mellana.
Fautore d'una massima apertura sociale delle istituzioni liberali, il
D. condivideva molto dell'opera di propaganda e dei programmi di
mobilitazione popolare propri del democraticismo più avanzato di stampo
mazziniano e repubblicano da cui lo divideva però la fedeltà al quadro
costituzionale, che era in lui nettissima, fisiologica addirittura.
Solo una certa voluta indeterminazione dei presupposti dottrinari
consentiva perciò al suo radicalismo d'affiancarsi alle correnti
estreme dell'attivismo risorgimentale. Sullo sfondo di questa
indeterminazione vanno collocati sia i suoi rapporti con i mazziniani,
con lo stesso Mazzini e in genere col mondo dell'iniziativa
rivoluzionaria risorgimentale, sia l'attiva partecipazione, tra il 1850
e il 1851, alla fondazione d'un nuovo giornale, Il Progresso (uscito il
7 nov. 1850) che, cessata la Concordia del Valerio - della quale il D.
era pure azionista -, avrebbe dovuto propagandare gli obiettivi
dell'opposizione parlamentare senza vincolarsi a programmi politici
troppo definiti. Al giornale, diretto da C. Correnti, contribuì
attivamente, acquistandone e probabilmente diffondendone le azioni,
partecipando al consiglio di direzione e collaborandovi occasionalmente
per la parte economica e finanziaria. Vi conobbe tra gli altri il
Crispi, che pure collaborò al giornale.
Schierato all'estrema e puntualmente antigovernativo, Il Progresso era
nettamente ostile anche al Rattazzi, al Centro-Sinistra e a consimili
"apostati della democrazia" (pare che un articolo costasse al D. un
duello alla pistola con un giornalista dell'Opinione), mentre
riprendeva i manifesti mazziniani non senza esitazioni e reticenze che
indispettivano lo stesso Mazzini. La varietà delle vedute all'interno
della redazione e quindi l'incertezza della linea presto lo
indebolirono; cessò le pubblicazioni il 31 dic. 1851, quando tra
l'altro il colpo di stato in Francia aveva di molto ristretto le
prospettive della democrazia estrema. In quel momento di delusione vi
fu chi propose di affidare un rilancio ad iniziative clamorose come
quella, di cui rimangono più tarde e assai vaghe testimonianze, del
rapimento dell'imperatore Francesco Giuseppe ad opera di Cairoli e del
D. stesso.
La partecipazione del D. a un simile progetto più che mal documentata è
poco verosimile. Se può esser vero, come riporta un memorialista, che
durante le Cinque giornate il D. fremesse, impedito all'azione da
febbri perniciose (Breganze, p. 48), o che poi, nominato "commissario
insurrezionale per tutta la Lombardia", fosse fermato dal disastro di
Novara (Coppino, p. 15), resta il fatto che poche persone come lui
erano aliene dall'azione risoluta, e comunque tarde a schierarsi, o
inclini a non schierarsi affatto, nelle situazioni di conflitto. Perciò
le lettere di Mazzini alternavano a quel tempo gli apprezzamenti, e in
certi casi l'intimità cospirativa, alle esortazioni, agli ammonimenti e
fino ai rimproveri, che si fecero più frequenti col passare del tempo.
"Mi fu impossibile intendere il vostro pensiero, e me ne duole. Non son
tempi questi da rimanerci in dubbiezza l'uno verso l'altro", gli
scriveva ad es. il Mazzini il 17 nov. 1851, allorché il D., oggetto di
pressioni da entrambe le parti, non seppe prender partito tra i due
concorrenti comitati costituitisi a Parigi per la riorganizzazione
della Sinistra democratica europea, l'uno ispirato da Lamennais, e per
conto del quale nel maggio gli scriveva il Montanelli, l'altro da
Mazzini.
L'occasione di saggiare la disponibilità del D. sarebbe peraltro venuta
di lì a un anno, al momento di organizzare una insurrezione in
Lombardia nella quale doveva avere un ruolo preminente il comitato di
Pavia, capcggiato dal Cairoli, mentre tra i possidenti ai quali i
mazziniani chiesero un sostegno economico figurava l'Arnaboldi. Si
aggiunga che dopo Novara il D. avrebbe nascosto una partita di fucili
proprio.a Stradella, nodo comunque strategico per il moto sul quale per
più ragioni convergevano perciò le attenzioni dei cospiratori. Alla
fine dell'estate 1852 Cairoli e G. Acerbi, esuli lombardi ora in
Piemonte, incontrarono a Stradella il giovane Piolti de' Bianchi,
principale agente di Mazzini a Milano. Nel ricordo di Piolti il D. si
sarebbe mostrato del tutto all'oscuro del progetto. Ma è difficile che
lo fosse, se ai primi di ottobre ospitò E. Brizi, capo del moto
milanese, proveniente da Londra, e lo aiutò a passare in Lombardia.
D'altra parte il 20 novembre Mazzini stesso sconsigliava dal riporre
"troppa buona fede in D., buonissimo, ma non caldissimo nell'azione".
Al D. Mazzini chiedeva di svolgere soprattutto un ruolo politico; in
questo senso gli scrisse da Chiasso il 5 febbr. 1853, alla vigilia
dell'insurrezione, esponendogli la sua strategia, e in essa il ruolo
che avrebbe dovuto svolgervi la Sinistra subalpina: un ruolo
insurrezionale, nel caso in cui il Piemonte si schierasse con l'Austria
nel reprimere la rivoluzione lombarda; il compito invece di ottenere
dal governo un intervento militare senza condizioni nel caso che il
Piemonte si schierasse con il moto. Scritta con tono elevato, la
lettera riproduceva lo schema dell'appello ai Genovesi, nel quale
appunto si diceva che se il Piemonte fosse stato favorevole
all'insurrezione, "bisogna esigere imperiosamente: creazione d'un
Gabinetto lealmente nazionale, per esempio, di Gabella, Mellana,
Depretis, Parent, ed altri" (Mazzini, Scritti..., LI, p. 3). Il D. era
effettivamente a Torino il 6 febbraio, giorno del moto, che peraltro
falli sul nascere. Da parte piemontese, si contribuì al fallimento con
una serie di provvedimenti di polizia che portarono a bloccare sul
confine quanti tentarono di attraversare la frontiera lombarda e ad
operare numerose perquisizioni e sequestri. Il più rumoroso di questi
avvenne in casa Depretis, in cerca dei famosi fucili. "Si faccia
immediata rigorosa perquisizione a Stradella in casa del Deputato D.,
sempreché sia ben accertato il fatto dell'uscita da casa sua del carro
carico di fucili", così si ordinava dal ministero dell'Interno
all'intendente generale di Alessandria. La sera del 9 furono
sequestrati al D. sciabole e fucili, che più tardi, dopo una sentenza
di proscioglimento della Corte d'appello di Casale, il D. riuscì a
farsi restituire muovendo il guardasigilli Boncompagni tramite Rattazzi
presidente della Camera.
La crisi del mazzinianesimo che seguì il fallimento di quel moto segnò
in breve tempo anche l'indebolirsi e poi lo spengersi dei rapporti
diretti del D. con Mazzini. Forse ancora nel febbraio 1854 il D. cercò
di ristabilire qualche contatto organizzativo col Mazzini se questi gli
scriveva: "Amico, vi sono grato del vostro ricordarvi di me. Penso alla
persona che chiedete come centro visibile del Partito: ma non è facile
trovare chi riunisca tutte le condizioni volute" (in Grandi, p. 199).
Di lì a pochi mesi tuttavia, dopo che il 3 apr. 1854 insieme al
Correnti, al Valerio, Robecchi e Pareto, il D. aveva fondato un nuovo,
impegnativo giornale della Sinistra democratica, Il Diritto, Mazzini
faceva seguire un aspro sfogo: "Scrivo, e so che non risponderete (...)
Scrivo per esaurire ogni possibile tentativo coi buoni, prima di
dichiararmi libero e di protestare per conto mio contro una inerzia che
comincia a diventar codardia (...) Credete veramente voi buoni, voi che
amate l'Italia, sdebitarvi dagli obblighi vostri, scrivendo un
Giornale?" (ibid., p.201). Pure non rinunciando a cercare ancora di
ottenere finanziamenti tramite il D., nel 1855 Mazzini lo farà con toni
sempre più disillusi, e che ci testimoniano in atto o prossima
l'interruzione definitiva del rapporto: "Attribuii al vostro stato di
salute il vostro silenzio con me, malgrado l'ultima mia", scriveva il 5
marzo. "L'Italia ha tradito se stessa, il Partito ha tradito l'Italia"
(ibid., p. 204).
Intanto le capacità d'amministratore del D. s'applicavano, a partire
dal patrimonio suo personale e da quello affidatogli, nei Consigli
comunali e provinciali e in molteplici attività locali cui era
interessato, e di lì passavano al Parlamento nazionale, in una serie di
nessi che sarebbero ancora tutti da ricostruire.
Il Breganze riferisce ad es. di un istituto scolastico sorto a
Stradella per iniziativa del D. e per finanziamento dell'Arnaboldi al
fine di contrastare l'influenza dei convitti clericali (e per
opposizione di questi presto costretto alla chiusura); oppure di una
Società enologica patrocinata, sempre a Stradella, dal D. (e nella
quale avrebbe investito, perdendovela, "la maggior parte del modesto
suo peculio": così il memorialista trasmette una immagine di
ristrettezze economiche che gli studi recenti smentiscono, ma che fece
allora parte del ritratto sociale dell'uomo).
Più congrua certamente ad illustrare il ruolo svolto dal D. nei nessi
che intercorrevano tra interessi locali - privati e pubblici - e
attività parlamentare, tra programmi amministrativi, schieramenti
politici e iniziative economiche, sarebbe la sua attività nella
costruzione della linea ferroviaria Alessandúa-Stradella-Piacenza. Era
un settore. quello ferroviario, che avrebbe coltivato per tutta la
vita, sottolineandone il rilievo politico ed economico nazionale. In
questo caso poi poté a buon diritto presentare gli interessi del suo
collegio come quelli generali dello Stato, data la posizione
dell'Oltrepò pavese nella rete dei collegamenti che andavano
stabilendosi tra il Piemonte e la pianura padana lombarda, e tra Genova
e Milano.
Nella primavera del '53 fu relatore alla Camera sul ddl riguardante la
linea di collegamento con la rete svizzera, e sostenitore in quel caso
di un tracciato diverso da quello voluto dal governo e poi approvato.
L'anno seguente partecipò alla commissione che esaminò, relatore
Correnti, le concessioni relative ai tronchi tra Alessandria e
Stradella e tra Novi e Tortona, di cui auspicava il collegamento con
Pavia. In questo senso, rimasto in minoranza su alcune questioni di
tracciato, intervenne più volte nella discussione del giugno 1854. Già
da due anni, a quell'epoca, egli aveva costituito un "cornitato
provvisorio promotore della strada ferrata da Alessandria al ducato di
Piacenza" che andava raccogliendo le adesioni degli enti locali
interessati e di singoli possidenti. Votata la legge relativa, il 3
ott. 1855 fu quindi costituita l'apposita società anonima e il D.,
azionista, fu eletto presidente del Consiglio d'amministrazione. Mentre
procedevano i lavori, ampliatasi la partecipazione di capitali e la
provenienza degli azionisti, nel 1856 la società si trasferi a Torino;
il 3 nov. '57 furono aperti i tronchi da Alessandria e Novi a Voghera e
l'anno seguente quello fino a Stradella. Per sopraggiunte difficoltà
finanziarie, nel '59 la società votò la cessione dell'esercizio al
governo e la conversione delle azioni in rendita pubblica. Il D., che
credeva nelle possibilità di espansione dell'iniziativa, avrebbe voluto
evitare la liquidazione della società e, rimasto in minoranza, ne
lasciò la presidenza.
L'impegno parlamentare del D. era in quegli anni il naturale esito di
siffatte attività amministrative e ne rimaneva caratterizzato, così
nelle forme come nei contenuti. Nel più ordinato svolgersi delle
legislature che seguì all'avvio concitato del biennio rivoluzionario, e
soprattutto nell'opera riformatrice a cui le indirizzarono i governi
cavouriani, il D. trovò il terreno a lui più congeniale. A partire
dalla quarta legislatura, nella quale i suoi interventi furono
particolarmente numerosi, egli si dedicò ai lavori parlamentari "corne
un impiegato". Così lo dipinge il Breganze (pp. 88-90): impegnato per
tutta la giornata alla Camera, ne usciva la sera - lui scapolo, ormai
residente a Torino - per trasferirsi al caffè con gli amici della
politica. Lo occupavano soprattutto questioni economiche e finanziarie
(appartenne alla commissione Bilancio nella V legislatura) e intervenne
di preferenza sui bilanci, su leggi bancarie e d'imposta, su dogane e
trattati, in genere prendendo la parola nella discussione degli
articoli, su aspetti tecnici particolari sui quali si dimostrava in
particolar modo agguerrito e nei quali, più che nei suoi rari
interventi su temi politici generali, trovava spesso argomento per
manifestare le proprie posizioni fiberali avanzate, le proprie
convinzioni democratiche: così la difesa della giustizia fiscale, o la
riaffermazione d'un laicismo deciso e d'una rigorosa difesa della
libertà.
Nel gennaio-febbraio 1853, ad e s., affidò la difesa d'un regime
fiscale socialmente più avanzato a diciotto suoi brevi interventi sulla
legge d'imposta personale e mobiliare, sulla quale il governo aveva
accettato le modifiche di segno conservatore apportate dal Senato. Nel
maggio del 1854, discutendosi il bilancio degli Esteri, chiese invece
una drastica riduzione dello stanziamento per la legazione di Roma
facendone occasione per lanciarsi contro la politica delle trattative e
contro la Curia romana, che nelle trattative, nelle "tergiversazioni",
com'egli disse, aveva il suo secolare strumento di dominio, nemico
delle riforme e dell'indipendenza d'Italia. Nei giorni successivi,
intervenendo sulla legge di pubblica sicurezza, dette poi prova della
sua acribia garantista criticando a più riprese la portata
potenzialmente illiberale di alcune norme riguardanti l'autorizzazione
all'esercizio delle professioni, l'abolizione del controllo comunale
sulle liste delle persone sospettate di furto campestre, l'obbligo
imposto ai proprietari di immobili di comunicare alle autorità i nomi
degli abitanti o agli imprenditori di elencare i dipendenti, e così via.
Nell'esercizio di questa attività parlamentare, e di una opposizione
che è stata detta "burocratica", si manifestavano in modo precoce e
definitivo i tratti principali dell'immagine politica del D., a
cominciare dal fatto stesso che essa tendesse a risolversi tutta entro
l'ambito dell'attività parlamentare e amministrativa. Va notato infatti
che né allora né poi dette mai alle stampe scritto alcuno, né lasciò
memorie o altre significative elaborazioni concettuali che non fossero
contenute nei suoi discorsi o relazioni parlamentari.
Erano discorsi, quelli del D., pronunciati con uno stile oratorio
piano, meticoloso, senza impennate, lo stile d'un oratore "poco
splendido, ma molto succoso", scrisse il Brofferio; anzi "un parlatore
e non un oratore", come precisò il Petruccelli della Gattina. E a voler
seguire la distinzione di un suo biografo, se il Brofferio fu tipico
tribuno, il D. aveva invece l'eloquenza del debater, "cioè dell'oratore
d'affari, del buon disputatore", di colui che non trascina, non
commuove, non convince, ma "dotato di sangue freddo insuperabile e di
gran pratica degli affari amministrativi e nella tattica parlamentare,
discorreva senza paura di sorta, ma senza enfasi e pretensione" (Lewis,
pp. 38, 39). Sia pur con concetti e parole diverse, le testimonianze
del tempo sono quindi unanimi nel descriverlo come "uoino di analisi
più che di sintesi", come scrisse il Petruccelli: "i dettagli gli
oscurano la vista delle grandi linee"; un uomo, annotò ancora il
Minghetti nei suoi Ricordi, "che ha vivo l'intuito pratico ed il tatto
parlamentare" ma che "non ebbe mai alto senso politico".
L'annotazione del Minghetti commentava il voto del D. sulla guerra di
Crimea, nel 1855. Di fronte alla politica cavouriana la posizione del
D. manifestò, assieme alle incertezze proprie del carattere dell'uomo,
più profonde e sostanziali contraddizioni. "Egli che aveva origini,
mentalità, spirito, interessi di uomo di centro - scrive a questo
proposito il Moscati (p. 433) - era rimasto, - come per scarsa
conoscenza di se stesso, lontano da quell'aggruppamento che ora
partecipava al connubio". Se infatti la sua profonda adesione alle
ragioni degli ordinamenti statutari, la sua estraneità all'azione
decisa, la sua vocazione amministrativa erano tutti elementi che
rendevano dubbia e combattuta la sua militanza nell'Estrema, le radici
più autentiche del suo democraticismo - in sostanza una interpretazione
progressista del quadro costituzionale, in senso pragmatico più che
ideologico - per esprimersi avrebbero potuto forse trovare più fertile
terreno nella collaborazione con l'attivismo cavouriano che
nell'opposizione "di schieramento" che egli gli mosse in tutto il
decennio. Ne nasceva l'ambivalenza, la disponibilità piena di remore,
pronta a manifestarsi come incertezza, che i contemporanei rilevavano,
a volte con toni assai sarcastici. Cavour, in questo più rigido di
Mazzini, ebbe pessima opinione del D., e pare anzi che lo descrivesse
come "un uomo di neve, dominato dall'indecisione; il suo proponimento
di oggi è dimenticato all'indomani per una futile circostanza".
Di Cavour il D. fu oppositore anche nei momenti di particolare impegno
nazionale, come di fronte alla guerra di Crimea, allorché si schierò
contro il trattato franco-sardo-inglese del gennaio 1855, con una
posizione non condivisa interamente nemmeno dalla sua parte politica.
Di quella scelta avrebbe fatto ammenda di fronte alla Camera almeno in
due occasioni; il 21 apr. 1858, dichiarando: "La guerra d'Oriente, o
signori, ci ha dato dei risultati che io, confesso schiettamente alla
Camera, non mi aspettavo. Io riconosco che la guerra d'Oriente ha
acquistato credito ed influenza al nostro paese, e, quello che più
conta, ha fatto sì che le nostre armi acquistassero nuovo lustro e
nuova gloria" (Discorsi parlamentari, II, p. 386); e il 1º dic. 1862,
con una "franca confessione": "Ammetto che non ho votato questa
debberazione, e il fatto ha dimostrato che avrei fatto meglio ad
appoggiarla" (ibid., IV, p. 246).
In realtà nel 1858 il riconoscimento fu tutt'altro che limpido. Dopo
avere, per tutto il '56 e parte del '57, rallentato un poco la sua
attività parlamentare, era stato eletto vicepresidente della Camera per
la sesta legislatura, appoggiato dallo stesso Cavour. Prendendo la
parola su di un composito provvedimento che trattava tra l'altro del
reato di cospirazione contro capi di Stato e di governo esteri e di
apologia dell'assassinio politico, e quindi consentiva di toccare temi
di politica estera, il D. dapprima metteva in guardia dal pericolo
d'esser troppo strettamente vincolati da quei provvedimenti alla difesa
dell'ordine internazionale nel caso scoppiasse una rivoluzione in un
paese vicino (evidentemente nella penisola). Venendo poi a commentare
la politica estera di Cavour, da un lato rendeva omaggio ai risultati
raggiunti con la guerra di Crimea, dall'altro li screditava
attribuendoli al caso, che aveva consentito ai soldati sardi di farsi
onore in una guerra per altri versi inutile e inconcludente, che
nessuno avrebbe votato se solo se ne fosse previsto l'esito. Perciò,
aggiungeva, alla politica diplomatica del governo - la parte "intesa"
del programma cavouriano alla quale si dovevano quei risultati - voleva
aggiungerne un'altra "sottintesa" ("Questa l'aggiungo io, non la
domando al presidente del Consiglio"): "Il programma deve terminare con
dire: coll'aiuto dei nostri alleati, usando della nostra influenza,
pigliando il momento opportuno, siccome la diplomazia non scioglie
definitivamente veruna grande questione, finiremo la questione
coll'Austria coll'aiuto di Dio e dei cannoni piemontesi" (ibid., II, p.
388).
Di una siffatta opposizione il D. avrebbe offerto nel 1862 la sua
interpretazione affermando che "la Sinistra (...) esagerò i concetti
politici del conte di Cavour; ebbe questo torto, che è quello
ordinariamente dei partiti più avanzati, di portare le teorie ad un
diapason forse più alto di quello che lo consenta la pratica. Si
potrebbe anche dire più esattamente che il conte di Cavour ebbe
l'abilità ed il senno di far sue e rendere pratiche le idee, le
dottrine, le teorie messe avanti e sostenute dalla Sinistra ... La
Sinistra, se fu di stimolo, non fu mai d'inciampo al Gahinetto del
conte di Cavour e ... anzi svolte fu sua alleata ed aiutatrice" (ibid.,
IV, p. 234). Pronunciando questa specie di riconciliazione postuma col
suo avversario, il D. difendeva nel caso specifico il contributo di
Rattazzi, e cioè il valore del connubio, in cui vedeva la realizzazione
del medesimo programma che la Sinistra aveva sostenuto con maggiore
rigidità. Con ciò ricordava i contenuti della sua sostanziale
convergenza col programma cavouriano: "la Sinistra sostenne la dottrina
del libero scambio, la libertà di coscienza, la libertà dei comuni,
l'armamento del paese, la costruzione di nuove fortificazioni, di
arsenali, l'incameramento dei beni ecclesiastici, il matrimonio civile,
ed altre simili provvisioni e riforme furono messe innanzi dalla
Sinistra, e in parte, se non in tutto, vennero accettate dal conte di
Cavour" (ibid., pp. 234 s.). Il che lo induceva a concludere: "Confesso
che forse avranno servito meglio il paese coloro che si sono messi a
lato del conte di Cavour, ma lo obbediva ad una convinzione sincera e
non mi pento d'aver seguito quella via" (ibid., p. 236).
Nel corso degli avvenimenti aveva però dato più volte l'impressione che
la sua adesione o la sua opposizione al governo fosse di volta in volta
subordinata all'evolversi delle prospettive nazionali. Se nel maggio
del 1858 votò contro la concessione di un prestito al governo, dopo
averne proposto la riduzione, con considerazioni esclusivamente
economiche, il 9 febbraio seguente, allorché fu messo ai voti il
prestito straordinario di guerra di 50 milioni, vi aderì con poche
entusiastiche parole con le quali identificava il governo, ora
presieduto da Rattazzi, con la causa nazionale: "Il nostro Governo è
non solo il Governo di questo libero paese che tiene alta la bandiera
tricolore; egli ha qui il nerbo delle sue forze materiali, ma egli
estende il suo stesso governo sopra forze immateriali; egli ha un
impero molto più esteso, egli ha il governo morale delle popolazioni
d'Italia (...) Capo morale d'Italia, il Governo del nostro paese è il
guardiano dei suoi interessi e delle sue sorti, e il custode delle sue
speranze" (Discorsi parlamentari, II, pp. 490 s.). Egli stesso nel 1862
avrebbe risposto citando queste sue parole a chi gli ricordava il voto
contrario al prestito. Eppure, giunto l'ultimatum austriaco, quando i
deputati furono convocati il 23 aprile per votare i pieni poteri e
Rattazzi propose tra gli applausi la procedura immediata e sommaria, fu
ancora il D. ad opporsi, e a chiedere una breve dilazione, che gli fu
negata, per "non precipitar troppo la discussione".
Si apriva per il D. un periodo di intensa collaborazione governativa.
Votati i poteri, i deputati raggiunsero i collegi e il D., recatosi a
Stradella - dunque in zona di guerra - vi prese il comando della
guardia nazionale e, "in camiciotto azzurro a righettine bianche e
berretto di prescrizione" (Breganze, p. 84) aiutò a perlustrare il
territorio circostante. Pare che il 2 maggio telegrafasse al
commissario della zona di guerra di Alessandria, sen. Plezza,
proponendo un'azione militare contro un fortilizio austriaco. Ma il 4
le truppe austriache oltrepassarono il Po e occuparono le vicine
Voghera e Broni; egli lasciò allora Stradella e riparò a Torino.
Giunsero l'armistizio di Villafranca e la sospensione delle ostilità.
Il Rattazzi, ministro dell'Interno nel gabinetto Lamarmora, dapprima
nominò il D. nella commissione che doveva studiare la nuova legge
amministrativa, poi, il 23 novembre, lo nominò governatore di Brescia.
Come un altro esponente della Sinistra a lui vicino, il Valerio, che
assunse il governatorato di Como, il D. diveniva così funzionario del
governo sardo. La sede era in quel momento assai importante, e certo
egli, all'epoca vicepresidente della Camera, vi era stato destinato per
la sua autorevolezza anche se la nomina, alla quale Larnarmora tentò di
opporsi, dispiacque negli ambienti moderati. Si trattava di predisporre
il passaggio della provincia dall'amministrazione austriaca a quella
sarda, di organizzare la vita politica locale in vista delle prime
elezioni politiche, e infine di svolgere un'opera ora di controllo e di
infiltrazione, ora di sostegno alla fuoruscita di volontari alla
frontiera col Veneto. Pare che il D. avesse successo nell'opera
amministrativa, dove tra l'altro prese anche alcune iniziative di
maggiore ambizione, come lo studio immediato di una ferrovia
Brescia-Cremona e della linea telegrafica tra Como e Varese, e che
fosse assai sollecito verso il volontariato e il fuoruscitismo; in vari
luoghi è ricordata la sua attività nella raccolta per "un milione di
fucili" o l'appoggio dato al movimento per l'annessione dell'Italia
centrale. Nel bilancio politico tratto alla Camera nel '62 lo stesso D.
disse di quel periodo: "io era governatore di Brescia, e potei, senza
mancare al mio ufficio, anzi, io credo, adempiendo bene il mio mandato
di governatore di quella provincia, rendere un servigio al generale
Garibaldi (...) Potei fare acquistare dalla provincia di Brescia 3.000
fucili che servirono ad armare la guardia nazionale, una delle più
belle di tutta l'Italia" (Discorsi parlamentari, IV, p. 241).
Dieci giorni dopo il suo arrivo a Brescia - che era avvenuto soltanto
il 7 genn. 1860 - il ritorno di Cavour alla guida del governo suggerì
al D. di presentare le dimissioni, cosa che fece il 19, avendo tuttavia
l'accortezza, nel momento stesso in cui doveva ipotizzare di non avere
più la fiducia del governo, di dichiarare di avere assunto la carica al
solo scopo di sostenere la causa nazionale, così sottolineando il
carattere formale del gesto e lasciando al Cavour la responsabilità di
una eventuale ripulsa politica. Il 22 gennaio Cavour respinse le
dimissioni, e qualche giorno più tardi i due ebbero un incontro
diretto, nel quale il D. confermò la sua fedeltà al governo, anche se è
da supporre che entrambi evitassero di dare alla collaborazione il
significato di una concessione alle posizioni politiche dell'altro.
Nelle settimane seguenti il D. si comportò correttamente da agente del
governo centrale, almeno su piano amministrativo e patriottico. Forse
spiacquero al Cavour le iniziative prese dal governatore in sede
elettorale, dove il D. cercò di conciliare i due contrapposti comitati
elettorali, e dopo avere probabilmente tentato di impedirla, favorì poi
l'elezione - che fu plebiscitaria - del Cavour stesso nel primo
collegio di Brescia, ma non quella degli altri candidati governativi.
Sta di fatto che il 26 aprile il D., forse anticipando un richiamo del
Cavour, rassegnò le dimissioni motivandole con le difficoltà incontrate
in campo amministrativo.
Il fatto che egli avesse indossato l'uniforme di governatore, se poteva
aver scandalizzato i moderati e disorientato i democratici, non lo
aveva però allontanato dalle file della Sinistra, dove forse il suo
prestigio ne usciva accresciuto: è della fine di aprile la proposta
avanzata da Bertani a Garibaldi di inserirlo nel comitato direttivo
dell'associazione che doveva sostenere le nuove imprese garibaldine in
concorrenza con la Società nazionale di La Farina. Negli stessi giorni,
si parlava per il D. di un governatorato di Milano. Ma egli soffriva
piuttosto la forzata esclusione dalla competizione elettorale e quindi
dalla Camera; non essendosi potuto presentare alle elezioni perché
governatore, il seggio di Broni era stato vinto non dal suo candidato
A. Borella, ma da un deciso avversario, il conte A. Nomis di Cossilla,
che poi optò per un altro collegio. Date le dimissioni da governatore,
il D. si presentò alle elezioni suppletive del 6 e 10 maggio in ben
quattro collegi, riuscendo ovunque eletto: oltre che a Broni,
riconquistato contro R. Conforti, a Stradella, che lasciato da Correnti
era stato vinto nel marzo da Garibaldi, una candidatura patrocinata
dallo stesso D. evidentemente per non dare spazio a un candidato
effettivo; e in due dei nuovi collegi lombardi, il IV di Milano e
quello di Chiari, vinto nel marzo da Zanardelli, che aveva optato per
Gardone. È forse questo notevole successo, e in particolare la vittoria
a Chiari, che era in provincia di Brescia, alla base delle diffidenze
di Cavour, e del sospetto che il D. avesse usato del governatorato per
prepararsi l'elezione. Optò per Stradella, che gli aveva dato 248 voti
su 252 votanti.
Il D. si era dunque sottratto per il momento alla collaborazione con il
governo senza però rompere con Cavour, e aveva ripreso il suo posto
alla Camera in tempo per votare con l'Estrema contro la cessione di
Nizza e della Savoia. Si apprestava allora a ricevere un nuovo e più
importante incarico presso la dittatura di Garibaldi in Sicilia, e la
storia stessa della sua nomina aiuta a definire le funzioni a cui fu
chiamato e il modo in cui le esercitò.
Deteriorandosi i rapporti tra Garibaldi e il rappresentante sardo La
Farina, che il 7 luglio fu poi arrestato e espulso dall'isola, da
entrambe le parti si aveva interesse ad accordarsi sul nome di un nuovo
inviato sardo, al quale Garibaldi avrebbe tra l'altro potuto affidare
il governo civile dell'isola data l'incerta posizione di Crispi, che il
27 giugno fu costretto alle dimissioni. Per quell'incarico era già
stato fatto il nome del D., che da parte sua ai primi di luglio
scriveva al Bertani: "Amerei (...) che il Generale sapesse che, appena
tornato alla Camera, io ho detto a Farini che, se il Governo voleva
mandarmi in Sicilia, io ero pronto ad andare (...). Io insomma ho fatto
quanto doveva e se non mi trovo in Sicilia presso di lui non è colpa
mia". Non sappiamo quanto il D. fosse noto a Garibaldi, che sicuramente
non aveva mai incontrato e del quale era comunque considerato un
apprezzato seguace, oltre ad essere noto come esponente autorevole
della Sinistra ed insieme persona capace di porsi "al di sopra delle
parti": dopo che Bertani lo aveva contrapposto alla Società nazionale,
a fine luglio furono i comitati romagnoli della Società stessa a
offrirgli la presidenza al posto di La Farina, mentre anche il gruppo
torinese del partito d'azione - Bargoni, Regoli, Macchi - lo proponeva
ora per la missione siciliana.
Il 2 luglio Persano, sollecitando da Palermo l'invio di "un uomo
energico, capace ed ordinatore", comunicava a Cavour che Garibaldi
aveva inviato il conte Trecchi con tre nomi per la carica di
commissario regio: il D., il marchese Pallavicino e il gen. Brignone.
Negli stessi giorni, il re aveva invitato Farini a richiamare al più
presto La Farina, manifestando l'intenzione di inviare in sua vece L.
Valerio. La richiesta di Garibaldi mise dunque il governo in un bel
pasticcio", come scriveva Cavour a Farini: "Interpellato dal Re,
risposi che avrei preferito di gran lunga Valerio, ma che non credeva
si potesse ricusare la persona designata dal Generale. Il Re fece
dapprima chiamare Valerio. Questi con una schiettezza che l'onora, fa
un quadro tale di D. che il Re esita". Mentre veniva inviato l'Amari a
Palermo per parlamentare col dittatore, Cavour rispondeva al Persano
manifestandogli i termini della sua opinione perché ne facesse
argomento presso Garibaldi. "D.", scriveva tra l'altro il Cavour, "è
stato mazziniano prima e dopo il '48. Era non è molto in corrispondenza
con Mazzini, e rifuggì sempre dal disdire in modo solenne e pubblico il
Profeta. Di più, sotto forme austere, ed ad onta di modi che parrebbero
indicare un carattere riàoluto, D. è un uomo indeciso, irresoluto, che
mal sa affrontare l'impopolarità. Ha ingegno ma difetta di studi
pofitici che valgano ad abilitare di giudicare dell'opportunita degli
atti che sono d'indole internazionale. Sarebbe un ottimo esecutore
sotto un capo deciso. Riuscirà un mediocrissimo direttore in un gran
movimento politico". E il giorno dopo, più sbrigativamente, a Ricasoli:
"Garibaldi, accorgendosi di non saper governare, chiede al Re in ajuto
D. Il Re voleva mandargli Valerio. Il primo fu Mazziniano ed è tuttora
cercatore di popolarità. Il secondo ha meno ingegno ma più onestà
politica". Il rilievo forse sproporzionato, anche nel suo carattere
tutto negativo, che Cavour attribuiva al D. nel momento in cui si
sentiva costretto a rimettere ogni scelta a Garibaldi, ce lo fa
comprendere quanto scriveva a Nigra il giorno 12: "Si un changement de
Ministère pouvait rétablir l'harmonie entre Garibaldi et Turin il
faudrait peut-étre songer à l'opérer. Mais qui mettre à notre place?
... [Garibaldi] montre une grande confiance dans Depretis. Mais
Depretis ne serait tolléré ni par le pays ni par l'Europe". Il D.,
informato nel frattempo di tutta la trattativa, confidava: "Se
Garibaldi, com'è probabile, si arrende ai desiderii del Governo, io
tornerò a Stradella a fare il contadino, e a raccoglier denari per la
Sicilia". Ma Garibaldi non si lasciò convincere: "Si dichiarò amico di
Valerio - così riferiva Persano - ma non lo tiene adatto al paese". Il
14 luglio, al ricever conferma dell'irremovibilità di Garibaldi, Cavour
convocò dunque il D. per farlo partire immediatamente. "Ritenga quanto
le scrissi di D.", comunicava al Persano, "è uomo debole che si
lascierà strascinare. Se si rivolge a lei per appoggio, non glielo
neghi, senza però riporre in lui cieca fiducia".
Il 15 luglio il D. partiva per Genova, dove la mattina del 17 si
imbarcava sul "Provence" diretto in Sicilia. Impostogli solo dalla
necessità di non contrariare Garibaldi dopo l'infelice esperimento di
La Farina, il D. non godeva affatto della stima di Cavour, che pure
doveva contare su di lui per convincere il generale a concedere
l'annessione dell'isola. Da qui le riserve con cui Cavour gli concesse
la sua fiducia: "Mi lusingo che il sig. Depretis", scriveva il 18
luglio, "partito ieri sera per Palermo dietro invito del Generale,
riuscirà a ristabilire l'accordo fra lui ed il Ministero; in caso
contrario, lo abbandoneremo, qualunque possano esserne le conseguenze".
Partendo, il D. portò con sé un cifrario speciale per comunicare con
Torino, e secondo la sua stessa testimonianza avrebbe anche avuto, da
utilizzare al momento opportuno, un decreto speciale che lo nominava
commissario straordinario dei re in Sicilia. La cosa non è altrimenti
documentata e non venne mai alla luce, ma il D. fupoi comunemente
chiamato "commissario regio" e come tale fu considerato.
Arrivò a Palermo la sera del 20 luglio, il giorno in cui si combatteva
a Milazzo, e fu ricevuto da Crispi col quale subito si reimbarcò per
raggiungere il generale al campo e sempre insieme al Crispi incontrò
Garibaldi, che con decreto del 2210 nominò prodittatore ("L'avv. D.,
deputato al Parlamento nazionale, è nominato prodittatore. Egli
eserciterà tutti i poteri conferiti al Dittatore dai comuni della
Sicilia"). Immediatamente mise mano al riordino dell'amministrazione.
Ma già nell'incontro di Milazzo s'erano delineati i ruoli e le
rispettive posizioni che avrebbero condizionato la sua missione. La
stessa sua alacrità nel ristabilire l'ordine mirava infatti a inserire
le strutture amministrative dell'isola negli ordinamenti sardi e doveva
quindi preparare, e insieme avvalersi, di una pronta annessione. Ma se
Garibaldi lo delegò senza riserve e quasi distrattamente alle cure del
governo ("aveva persino dimenticato, alla partenza per Milazzo, di aver
chiamato D. da Torino", riferiva Cordova, e Persano: "ebbi tempo di
fargli dare disposizioni riguardanti D., altrimenti scordava; sono però
vaghe ..."), gli chiarì anche subito di voler rinviare ogni discorso
circa l'annessione almeno al momento in cui egli avesse raggiunto il
continente, dopodiché l'annessione avrebbe potuto esser promulgata
anche per decreto. Questa precisazione pare che fosse richiesta dal
Crispi come condizione per rimanere, come Garibaldi voleva, al fianco
del Prodittatore. Garibaldi non voleva insomma precisamente ciò che
Torino si attendeva dal D., e che era poi la soluzione del maggior nodo
politico del momento, una annessione cioè che salvasse alla Corona la
conquista della Sicilia dalle possibili conseguenze di una avanzata
garibaldina. Tra queste, poco considerata dal generale ma molto dal suo
entourage, era una evoluzione democratica del moto, possibilità che era
legata anche ai procedimenti e agli uomini con i quali si poneva mano
al riordino del governo, nonché al modo in cui, al momento opportuno,
si fosse proceduto all'annessione. Su queste faccende vigilava il
Crispi, che era ben addentro nella politica isolana e a partire dal 3
agosto tornò al dicastero dell'Interno. Il D. fu accolto con generale
simpatia, e all'inizio conquistò addirittura i più vicini
corrispondenti di Cavour come l'Amari il Persano (che lo descrisse a
Cavour come "uomo rispettabile di ottimi sentimenti, ordinatore di
sommo ingegno, onesto, devoto al Re ed a V. E.") e il Cordova ("D. è
accetto a tutti. Il suo aspetto (...) ispira soggezione agli importuni,
la parola mite gli concilia i cuori"). Era soprattutto l'impegno
amministrativo del D. a consolare il Cordova, che già il 24 luglio
riferiva a Cavour: "D. dispose studi immediati (e già siamo all'opera)
per la pronta: Formazione dei bilanci; Applicazione alla Sicilia della
legge comunale e provinciale; Istituzione di una commissione
legislativa temporanea; Relazione sul debito pubblico; Applicazione del
codice penale militare; Riforma del codice penale e di procedura
penale; Legislazione dei lavori pubblici; Ordinamento de' tribunali;
Legge sul sistema monetario". Egli agì in queste materie secondo la
prassi - che fu consueta in tutto il processo di unificazione, e che
creò malcontento in Sicilia non meno che altrove - di estendere le
leggi sarde, appena adeguandole alla situazione; un'opera che non gli
pose problemi di comprensione e di conoscenza, e a compier la quale il
D., diffidente degli elementi locali, chiamò collaboratori dal
Settentrione, come B. Casalis e A. Mordini. Tra le altre cose, furono
così iniziati il riordinamento dell'amministrazione militare, della
marina da guerra e della pubblica sicurezza, fu istituita una sezione
temporanea del Consiglio di Stato, applicato il sistema monetario
italiano e riaperta la zecca di Palermo in vista del prestito che fu
poi emesso il 27 agosto. Fautore di uno sviluppo ferroviario quanto più
rapido possibile, il D. non ebbe esitazioni nell'annulIare la
concessione data da Garibaldi all'Adami ("qui siamo tutti d'accordo",
scriveva al generale il 6 agosto, "che non era ammissibile; che gli
interessi dell'Adami erano inconciliabili con quello dello Stato") e il
17 agosto istituì una commissione consultiva per le strade ferrate.
Scrivendo a Garibaldi il 6 agosto, il D. riferiva con compiacimento e
ottimismo della sua intensa azione amministrativa, e in particolar modo
del decreto con cui il 3 agosto aveva dichiarato lo statuto sardo legge
fondamentale dell'isola - e imposto il giuramento di fedeltà agli
impiegati pubblici - rinviandone però l'entrata in vigore a epoca da
destinarsi. "Io sono persuaso, scriveva, che il paese andrà sempre più
rassicurandosi. Pubblicata la legge provinciale e comunale che è il
vero fondamento della pubblica amministrazione, ed ordinata la
sicurezza pubblica in tutta l'isola, avremo ricondotta la quiete nelle
popolazioni e riordinati i servizi potremo non solo esigere
regolarmente le imposte ma accrescerle occorrendo, e realizzare nel
paese se non tutto almeno una parte del prestito".
Proclamazione dello statuto e unificazione amministrativa, ordine
pubblico e risanamento finanziario: questi gli elementi della
mediazione tentata dal D. tra Garibaldi, al quale chiedeva l'assenso
all'annessione, i moderati locali, ai quali offriva il ristabilimento
defl'ordine, e il govemo di Torino, al quale ripetutamente chiese
carabinieri e soldi ("il denaro è uno dei più decisi annessionisti",
avrebbe poi dichiarato alla Camera l'11 ottobre).
Ma nonostante i successi ottenuti sui vari punti del programma,
l'operazione complessiva fallì. Già la proclamazione dello statuto per
decreto (e non per voto popolare, comunque espresso), e poi la formula
del rinvio - pare suggerita da Crispi - furono criticati negli ambienti
moderati dell'isola, che sempre più rimproveravano al D. di non sapersi
sottrarre al controllo di Crispi, o di non volerlo fare, per sottile
calcolo politico, come temeva il Cordova, che per questo rifiutò un
dicastero offertogli dal D. L'ipotesi di una più o meno calcolata
debolezza del D. nei confronti di Crispi sembrava al Cordova confermata
anche da alcune scelte amministrative, come la nomina dei governatori
che tenne dietro la pubblicazione della legge comunale e provinciale
avvenuta con decreto del 26 agosto. Probabilmente, la scarsa conoscenza
che aveva il D. della società locale, e che lo stesso suo progetto di
"dittatura amministrativa" non lo aiutava a capire, lo indebolivano in
queste materie di fronte a Crispi, il quale minava d'altra parte la sua
reputazione presso Garibaldi ("D. è venuto in Sicilia per continuare
l'opera di La Farina. Fingendosi vostro amico e a voi devoto, si è
cinto d'uomini a voi e a me completamente ostili, affin di preparare
quella annessione immediata, che è il desiderio del barattatore di
Nizza").
Certo è che l'impossibilità di convincere Garibaldi all'annessione
indebolì di molto la fiducia di cui egli godeva presso i cavouriani, e
ciò soprattutto dopo il 19 agosto, quando il passaggio di Garibaldi sul
continente sembrò realizzare la condizione fin lì posta per proclamare
l'annessione. All'annessione d'altra parte il governo di Torino sempre
più chiaramente subordinava l'invio di aiuti, e al posto dei
carabinieri che egli chiedeva, il D. vedeva arrivare gli agitatori e i
volontari dirottati in Sicilia dallo stesso governo sardo per tenerli
lontani dal fronte. All'Amari, che da parte del D. gli sollecitava
aiuti, il Cavour rispose: "La Sicilia domanda molte cose, ma se essa
vuole davvero aiuti dal Piemonte faccia o per dir meglio, s'incammini
per fare la pronta annessione, e tutto avrà". Un anticipo di mezzo
milione di lire, mandato di lì a poco per tramite di G. B. Bottero, era
infatti accompagnato da direttive precise, praticamente da un ultimatum.
Scrivendo a Cavour il 1º settembre, il D. ribadiva il suo proposito di
bandire il plebiscito, ma denunciava anche "l'abbandono nel quale fui
lasciato per quaranta giorni". "Se il Governo m'avesse ajutato come
m'era stato promesso, aggiungeva, le cose della Sicilia sarebbero in
assetto ben migliore, la annessione sarebbe a quest'ora un fatto
compiuto". Di fatto, la situazione gli sfuggiva ormai di mano e in quei
giorni concitati di settembre, in cui il D. appariva ormai stanco e
svuotato, si consumava il fallimento della sua missione. Scrisse
nuovamente a Garibaldi per convincerlo. La lettera raggiunse il
generale al campo, tra Lagonegro e Sala Consilina, e ricorda Bertani
che Garibaldi aveva già dettato la sua autorizzazione ("Caro D., fate
l'annessione quando volete"), quando lo stesso Bertani lo convinse a
non farlo. Il 5 settembre, quando il diniego di Garibaldi raggiunse
Palermo, la situazione era divenuta ancora più difficile per i
contrasti tra Crispi e gli emissari di Cavour, tra i quali invano il D.
tentava di mantenersi equidistante. Le dimissioni di Crispi e con lui
dell'intero gabinetto gli impedirono di partire subito per il campo.
Scrisse ancora, questa volta offrendo le sue dimissioni, e il 9
Garibaldi (per lui in realtà Bertani) gli rispose invitando i siciliani
alla pazienza ("Voi comprendete che l'annessione significa lo staccare
un paese dalla solidarietà rivoluzionaria con gli altri") e il 10
proclamò ai Siciliani che il D., rappresentante non solo suo ma "della
santa idea nazionale", avrebbe annunciato l'annessione determinandone
l'epoca, "fedele al mio comando e agli interessi d'Italia", ma "sulle
vette del Quirinale". L'11 settembre il D. partì per Napoli insieme al
Crispi. A Napoli tentarono ancora di convincerlo a tornare a Palermo.
Ma il 14, dopo un ennesimo rifiuto alle sue richieste, rassegnò ancora
le dimissioni, che questa volta furono accettate.
Si spezzava così il collegamento ufficiale tra il governo di Torino e
la dittatura siciliana. Il 17 il generale stesso andò a Palermo a
insediarvi il Mordini, proclamando di voler incontrare Vittorio
Emanuele a Roma per marciare di là sul Veneto. Era il momento
culminante del conflitto tra Garibaldi e Cavour, e il D., che ne era
rimasto travolto per qualche giorno credette ancora di poter giocare le
sue carte negli spazi aperti da quel contrasto. Si trattenne a Napoli,
dove erano tutti i maggiori esponenti delle varie correnti
democratiche, da Mazzini a Cattaneo, da Saffi a Ferrari. Nella gran
confusione, c'era addirittura chi prevedeva che fosse il D. a
sostituire Cavour se questi avesse ceduto a Garibaldi. Ma alcune
lettere di Casalis e di Cordova al Cavour, scritte allo scopo di
chiedere per lui un sussidio finanziario, affermavano che egli voleva
conservarsi nell'intimità del generale nel momento in cui "le cose
precipitano verso uno scioglimento" per servirvi ancora la causa
annessionistica coltivando i rapporti con quegli esponenti garibaldini
che non avrebbero seguito il generale contro Cavour. Pare d'altronde
che egli accarezzasse l'idea di tornare in Sicilia come commissario
regio, ed effettivamente c'era tra gli annessionisti a Palermo chi
aveva progetti del genere. Si imbarcò a fine mese per partecipare al
dibattito parlamentare sulle annessioni, e quando da Livorno telegrafo
che lo si aspettasse, il Cavour annotò: "temo qualche tranello del
quale si faccia, sciente od isciente, istrumento quel tentennante,
fallito tribuno".
Ma ancora una volta il giudizio di Cavour era eccessivamente malevolo e
i suoi timori infondati. Il D. aveva agito lealmente in Sicilia per
realizzare un accordo tra piemontesi e garibaldini, e se poi tardò
qualche giorno a prender partito misurando le occasioni che si
offrivano, l'evolversi stesso della situazione a favore di Torino
decise per lui. La discussione nella quale Cavour sottopose al
Parlamento la sua politica ne segnò il trionfo e diniostrò la debolezza
dello schieramento di Sinistra. Anche il D., parlando in chiusura della
discussione l'11 ottobre, annunciò quindi, come la stragrande
maggioranza dei deputati, il suo voto favorevole, e soltanto ne
approfittò per contestare La Farina sottolineando le difficilissime
condizioni in cui aveva trovato la Sicilia, e quindi per difendere la
sua amministrazione e con essa la decisione del generale di "non
precipitare" l'annessione.
Passati quei tempi eccezionali, il D. ritrovò il suo posto nell'arena
parlamentare, che si era fatta intanto più larga e autorevole. Egli
stesso, che era già membro tra i più noti della deputazione subalpina e
forte ora della sua collaborazione con i governi dell'Unità nazionale e
insieme intimo di Garibaldi, doveva facilmente primeggiarvi.
Nell'ambito poi dell'opposizione, il D. rappresentava una delle voci
più aperte alla collaborazione governativa anche se distinta dalla
"opposizione amministrativa", più possibilista e vicina al re, guidata
da Rattazzi. Fu al centro del processo di riorganizzazione del partito
tentato alla fine del '61, quando dopo varie riunioni il gruppo
parlamentare lo elesse suo presidente, con Crispi e Zanardelli
vicepresidenti, Saffi e Cadolini segretari. Il tentativo non fu in
realtà molto efficace, e la Sinistra era ancora in cerca di una guida
unitaria quando, nel marzo seguente, caduto Ricasoli, il Rattazzi formò
un governo con la Destra piemontese e l'ala garibaldina della Sinistra.
In quell'occasione il D. tenne i contatti con Garibaldi e si adoprò non
solo perché riuscisse la coalizione ma anche per portarvi compatta la
Sinistra che egli andava riorganizzando. L'operazione non riuscì, e il
D. soltanto entrò nel gabinetto, al ministero dei Lavori Pubblici,
quasi come garanzia a Sinistra nonostante il parere contrario della
maggior parte del partito. Scelse come segretario generale G. Guerzoni,
che seguì poi Garibaldi in Sicilia.
Come ministro, entrò in trattative con diversi gruppi per la
concessione delle ferrovie meridionali, e il 15 giugno firmò la
convenzione con i Rothschild-Talabot. Presentata il giorno successivo
alla Camera e approvata in commissione, la convenzione stava per essere
discussa in aula quando fu presentata la proposta Bastogi. Il D. parlò
allora in difesa del proprio operato e della convenzione, sottolineando
la solidità del gruppo interessato e rifiutando di considerare
preferibile la proposta Bastogi solo perché italiana, anche se più
onerosa per lo Stato ("se vogliamo dare più alle società italiane sol
perché sono italiane, allora quali regole avremo nelle opere pubbliche?
Che sorta di teoria mettiamo in campo?": così il 4 ag. '62). Finì
tuttavia per accettare la convenzione con Bastogi e per enfatizzare
anch'egli "questo fatto notevolissimo di una compagnia nazionale, che
si forma per la prima volta per costruire una gran rete di strade
ferrate italiane" (cosi parlando al Senato il 18 agosto) quando poté
affermare che le modificazioni apportate in itinere all'accordo lo
avevano reso conveniente quasi quanto il primo.
Data la posizione che il D. occupava nel ministero Rattazzi - come di
rappresentante della Sinistra garibaldina -, la crisi d'Aspromonte
colpì in modo particolare la sua posizione personale e il suo
prestigio. Al termine della lunga e sofferta discussione parlamentare
che seguì quei fatti e che si concluse con le dimissioni del gabinetto,
il 30 novembre e il 10 dic. 1862 parlò a difesa sua personale, e di
Rattazzi e della coalizione, con toni a momenti impetuosi e drammatici
a lui del tutto inconsueti, specie quando, giunto a commentare i fatti
di Sarnico e di Aspromonte, riaffermò la sua devozione a Garibaldi ma,
aggiunse, "l'amicizia ha i suoi diritti, ma ha anche i suoi confini, e
questi sono là dove cominciano i doveri verso il Re e verso la patria".
Poiché molti indicavano come causa prima del disastro gli accordi poco
chiari intercorsi tra la Destra e la Sinistra garibaldina, egli doveva
innanzi tutto allontanare il sospetto d'esserne stato in certo senso il
pegno: "è duopo ch'io dica alla Camera che credo di non aver mai
assistito neppure una volta a colloquii che ebbero luogo tra il
generale Garibaldi e l'onorevole Rattazzi"; "entrando nel Gabinetto,
non vi poteva entrare e non vi sono entrato se non come doveva un uomo
politico, colle sue convinzioni, col suo passato, colle sue opinioni
senza farne abdicazione in mano a nessuno e nemmeno senza farne
abdicazione in mano al generale Garibaldi". La coalizione governativa,
disse il D., era piuttosto lo sviluppo di una politica di
"conciliazione" di stampo cavouriano, una politica che egli veniva così
a lodare - pronunciando il già citato bilancio autocritico di tutta la
sua opposizione a Cavour - per cercarvi legittimazione alle scelte di
Rattazzi e sue proprie.
La sua preminenza in seno alla Sinistra era per il momento gravemente
compromessa. L'anno successivo la Sinistra parlamentare eleggeva suo
presidente il Crispi, che andava rafforzandosi anche grazie alla netta
dissociazione dalle posizioni repubblicane e rivoluzionarie, ma che pur
sempre rappresentava, rispetto a quelle del D., posizioni più a
sinistra.
Rimasto così in disparte sulla scena politica nazionale nel corso
dell'VIII legislatura (1863-65), il D. partecipò regolarmente ai lavori
parlamentari, tra l'altro intervenendo sulle leggi di unificazione
amministrativa che furono allora discusse e alle quali aveva sempre
prestato particolare attenzione.
Membro della commissione che aveva elaborato la legge del 1859, egli
l'aveva poi applicata in Sicilia e la riteneva "forse la migliore e la
più liberale delle leggi amministrative dell'Europa continentale", come
ebbe a dire alla Camera il 5 luglio 1861 intervenendo sui disegni
Minghetti che aveva esaminato come membro della commissione.
Sostenitore di larghe forme di autonomia locale, del suffragio
universale amministrativo e dell'elettività delle cariche locali, egli
si era però dichiarato nettamente ostile - forse anche'in base alla sua
esperienza siciliana - a ogni forma di regionalismo, e quindi contrario
ai progetti Minghetti e fautore semmai di un potenziamento
dell'istituto provinciale. Per gli stessi motivi, e sempre ribadendo la
sua ostilità per il decentramento burocratico e in genere per
l'ingerenza dello Stato e degli apparati burocratici, egli era
contrario all'aggregazione forzosa dei piccoli comuni, oppure a
sottrarre alla deputazione provinciale elettiva la tutela sui comuni.
Riprese queste argomentazioni intervenendo, nel luglio del '64, sul
progetto Peruzzi, e poi, decaduto quello, annunciando nel gennaio
seguente il voto contrario sulla legge di unificazione amministrativa,
che nella parte riguardante la materia comunale e provinciale egli
riteneva, nei molti dettagli in cui si discostava da quella del 1859,
meno liberale di quella, che con più vantaggi avrebbe potuto, egli
disse, essere migliorata negli aspetti tecnici e resa più liberale
negli aspetti politici. Particolarmente impegnati, in quello scorcio di
legislatura, anche gli interventi che il D. pronunciò tra il marzo e
l'aprile 1865 sul riordinamento delle reti ferroviarie del Regno.
Ritrovò il suo posto all'opposizione nella campagna elettorale del 1865
e il 7 dicembre all'aprirsi della IX legislatura, venne eletto
vicepresidente della Camera grazie agli sforzi per riorganizzare le
proprie file compiuti dalla Sinistra, che puntava sui nomi di Crispi e
di De Luca ma contribuì anche all'elezione del D., candidato del "terzo
partito" di Rattazzi. Il 19 febbr. 1866 fu quindi eletto presidente
della speciale commissione scelta dalla Camera a scrutinio segreto e a
maggioranza assoluta per esaminare il piano di riforma delle imposte
dirette presentato dal ministro Scialoia. La relazione, a firma
Correnti, fu presentata il 24 aprile e la discussione in aula si svolse
tra il 7 maggio e il 6 giugno. Di particolare impegno, tra gli
interventi del D., furono quelli del 16 maggio sulla tassazione dei
titoli della rendita pubblica e del 22-23 maggio sulla tassa
straordinaria sull'imposta fondiaria.
In quei giorni il D. era in predicato per tornare sui banchi del
governo poiché, in previsione che la guerra con l'Austria destinasse al
fronte il presidente del Consiglio in carica gen. La Marmora, Ricasoli
aveva avuto dal re l'incarico di sondare la possibilità di dar vita a
un ministero a più larga base e che perciò includesse esponenti della
Sinistra. Si parlò in quei giorni del D., di Crispi e di Mordini, e
Ricasoli offrì infatti il ministero di Agricoltura, Industria e
Commercio al Mordini, e al D. la Marina. L'inserimento di esponenti di
Sinistra, espressamente richiesto dal re e da Cialdini, era però inteso
dal Ricasoli come sostanziale loro subordinazione alla Destra, e dalla
Sinistra invece come forma di collaborazione paritaria, di
"conciliazione nazionale". Perciò gli esponenti interpellati della
Sinistra, il D. compreso, rifiutarono la proposta, e all'ultimo momento
accettò il solo D., "il quale tramezza il centro-sinistra colla
Sinistra", come spiegò G. Dina sull'Opinione, fornendoci una buona
formula per definire la sua posizione intermedia tra il "terzo partito"
di Rattazzi e la Sinistra parlamentare pura.
Il ministero Ricasoli si costituì il 20 giugno 1866, il giorno stesso
in cui iniziarono le ostilità con l'Austria. Comunicando la propria
nomina al conte Persano, comandante della flotta, il D. gli assicurava
il pieno appoggio, e il 21 ordinava alla flotta di lasciare Taranto e
di dirigersi verso la base di Ancona, dove egli stesso si recò
segretamente a riceverla il 25, per conferire con Persano.
Il ruolo svolto dal D. nei successivi trenta giorni, quelli che
portarono a Lissa, ci e noto nei molti dettagli rilevati nel processo e
nelle polemiche che seguirono. Nessuna responsabilità egli ebbe, né
poteva avere, né mai gli fu attribuita, nelle cause più remote del
disastro, riguardanti l'organizzazione della flotta o la nomina di
Persano. Egli stesso nelle note autobiografiche oggi smarrite avrebbe
scritto: "Questa data [della costituzione del ministero] dimostra che
non ebbi parte alcuna nella nomina dei Comandanti della flotta e che
certo non poteva far altro che provvedere come amministratore a che la
flotta non mancasse di mezzi, e tutte le forze si riunissero". La
determinazione che egli mise nel raggiungere sollecitamente questi
obiettivi, e poi nel sospingere la flotta all'azione, può essergli
addebitata solo perché si accompagnò ad una sicurezza di sé, dei propri
pareri e orientamenti -anche strategici e tecnico-operativi - che era
senz'altro eccessiva, e comunque destinata ad avere effetti perniciosi
di fronte da un lato al difetto di coordinamento nella conduzione
militare e politica della guerra, dall'altro agli atteggiamenti poco
lineari di Persano. L'ingerenza diretta nella gestione della flotta,
dei suoi movimenti e operazioni non poteva infatti che concretizzarsi
in direttive generiche, facilmente eluse e che però toglievano la
responsabilità ai comandi militari.
I primi giorni infatti il D. esortò l'impaziente Persano alla calma e
alla preparazione, ma già ai primi di luglio, allorché Napoleone III
propose la cessione del Veneto e il governo italiano volle che una
vittoria anticipasse e rafforzasse la conclusione del conflitto,
dapprima telegrafò al Persano "ragioni gravissime consigliano
affrettare completo allestimento flotta (...) urge compiere
allestimento", e subito dopo ordinò di muoversi immediatamente per
cercare la squadra nemica, attaccarla e distruggerla, e
contemporaneamente di "rendersi padroni dell'Adriatico". La flotta
compì una inutile crociera tra l'8 e il 13 luglio, al termine della
quale il D. fece ad Ancona una rapida indagine tra i vari comandanti -
dalla quale il Persano uscì certo indebolito, ma confermato
nell'incarico - e dopo un consiglio di guerra riunitosi a Ferrara il 14
luglio - e dal quale venne a Persano l'"ordine perentorio" di far
cessare l'inazione della flotta, ma nessun vincolo operativo - tornò ad
Ancona, incontrò vari ufficiali, nuovamente sollecitò Persano e
concordò con lui l'obiettivo di Lissa, dando nuova prova - così
sostengono i suoi critici - di ingerirsi eccessivamente e insieme
confusamente nella condotta delle operazioni.
Lo scontro di Lissa fu sentito come una catastrofe per il governo e il
paese. Il D., che al ricevere le prime ambigue notizie aveva trasmesso
le sue felicitazioni al Persano, gli chiese sempre più insistentemente
una dettagliata relazione sugli avvenimenti: iniziava così la laboriosa
ricostruzione che sarebbe poi finita di fronte ai giudici. Nei mesi
seguenti, tentò di avviare diverse riforme nell'amministrazione della
Marina, tra l'altro trovandosi in un conflitto di attribuzioni col
ministro dei Lavori Pubblici sul servizio delle spiagge e dei porti che
lo indusse a presentare le dimissioni a Ricasoli, poi, ritirandole, il
10 ottobre e di nuovo il 2 dicembre. Lasciò comunque il ministero della
Marina allorché fu chiamato a sostituire alle Finanze il dimissionario
Scialoia, il cui progetto sulla liquidazione dell'asse ecclesiastico
incontrava forte ostilità. In una congiuntura particolarmente difficile
per le finanze italiane, ministro solo dal 7 febbr. al 10 apr. 1867,
quando cadde il governo, il D. non fece molto. Il 10 aprile presentò
comunque un disegno di legge con misure a favore dei redditi minori di
ricchezza mobile e la riduzione dell'aliquota della tassa straordinaria
sull'imposta fondiaria, e nei mesi seguenti, escluso dal governo
Rattazzi, fu però da questi incaricato di presiedere una commissione
straordinaria per lo studio della riforma del sistema tributario.
Nell'ottobre, il ministero Rattazzi si ritirò, incapace di sostenere la
situazione creatasi con la nuova iniziativa garibaldina nello Stato
pontificio. Allorché il 21 ott. 1867 il re incaricò Cialdini di formare
un ministero che sul piano internazionale evitasse l'intervento
francese nel Lazio, e sul piano interno coinvolgesse la Sinistra
moderata, questi si rivolse tra gli altri al D., che avrebbe destinato
alle Finanze. Il tentativo fallì, e mentre si formava un ministero "di
corte" presieduto da Menabrea, l'insuccesso della spedizione
garibaldina aprì una fase di riorgaffizzazione della Sinistra. Alla
ripresa dei lavori parlamentari il "terzo partito" di Rattazzi si fuse
con la Sinistra, aprendo così uno spazio che per breve tempo parve
consentire la formazione di un nuovo gruppo di Sinistra moderata, nel
quale confluirono alcuni ex-seguaci di Rattazzi, indipendenti di
centro, e il gruppo del Diritto che si staccava così dalla Sinistra. La
frattura fu sottolineata dalla contrapposizione al Diritto del nuovo
giornale crispino, La Riforma, nato nel giugno. Questo "nuovo terzo
partito" di cui fecero parte insieme al D., Mordini, Bargoni, Cadolini,
Correnti, al momento dell'elezione del presidente della Camera fece
confluire i suoi voti sul D., che ebbe 45 voti contro 1165 di Lanza e
1141 di Rattazzi. Il risultato parve incoraggiante; ma il gruppo, che
fu chiamato "degli agostiniani" dal nome di tre dei suoi capi, il D.,
il Plutino e il Bertani - ma nelle cronache fu detto anche degli
"equilibristi", e dalla Sinistra fu tacciato di scissionismo -, non
ebbe vita robusta. Diretto da lontano da Mordini, cercò di guadagnare
un suo spazio chiedendo al ministero una politica di riforme in cambio
del proprio appoggio ai provvedimenti finanziari di Cambray-Digny. Ma
nelle votazioni succedutesi sui vari provvedimenti, come il macinato e
la Regia cointeressata dei tabacchi, la compattezza del gruppo presto
venne meno. Il D. stesso non votò la Regia il 6 ag. 1868, con ciò
lasciando di fatto il gruppo. L'anno seguente entrò nella Sinistra
parlamentare ora presieduta da Rattazzi, abbandonando definitivamente
l'ipotesi a lungo e in vario modo perseguita di poter costituire un
polo d'attrazione riformista esterno al partito.
In quel periodo la presenza del D. sulla scena politica nazionale fu
meno incisiva. Nel '68 lo sappiamo membro della commissione d'inchiesta
sulla Sardegna. Nella X legislatura (1869-'70) non prese la parola se
non per dimettersi da deputato, il 27 luglio 1870, insieme a Valerio e
a Consiglio, per dissensi sulla politica ferroviaria del governo, e
nella XI (1870-'74) parlò soltanto, in più occasioni, come relatore del
bilancio dei Lavori Pubblici. Sempre impegnato nel sostenere lo
sviluppo ferroviario (il settore meno documentato della sua attività, e
dove uno studio riempirebbe la maggior lacuna), in questi anni il D. vi
dedicò i suoi sforzi anche come presidente del Consiglio provinciale di
Pavia.
Anche dopo l'unificazione non era mai venuto meno, infatti, il suo
impegno negli enti locali, che pure non è stato sufficientemente
studiato. È documentata, ad es., la sua presenza, come vicesindaco, nel
Consiglio comunale di Mezzana Bottarone tra il 1859 e il 1862, mentre a
partire dal 1864 e fino al 1880 presiedette il Consiglio provinciale di
Pavia, la provincia alla quale dal '59 erano aggregati Stradella e i
territori contigui. In quella sede il D. si impegnò soprattutto per
dotare la provincia di una fitta rete di comunicazioni, e in
particolare per la costruzione della linea ferroviaria
Stradella-Broni-Bressana-Mortara-Vercelli, proponendo per il
finanziamento dei consorzi tra enti locali che poi affidassero alla
società Alta Italia la costruzione.
Il 3 giugno 1873 moriva U. Rattazzi. Il 5 il D. ne dava l'annuncio alla
Camera con brevi parole con le quali lodava, oltre che il grande
cittadino, oltre che la guida della Sinistra, "un fratello primogenito,
un soldato veterano" accanto al quale egli aveva mosso i primi passi
nelle lotte parlamentari e accanto al quale si era ritrovato negli
ultimi tempi. Anche Crispi dettò quel giorno parole da protagonista e
da erede: era palese la concorrenza tra i due esponenti democratici
alla guida del partito. Crispi era in quel momento più in vista del D.,
e certo meglio caratterizzato politicamente; fu scelto il D., che
peraltro avrebbe dovuto ancora consolidare la sua guida di fronte alla
costellazione delle personalità, dei gruppi e degli interessi che la
trasformazione dei partiti e degli schieramenti storici andava
liberando. Per il momento, egli rimaneva esponente del gruppo più
moderato espresso dal Diritto. Non a caso, quando questo giornale dette
la notizia che il comitato dell'opposizione parlamentare aveva nominato
all'unanimità e a scrutinio segreto suo presidente il D., dapprima
Nicotera e poi la crispina Riforma precisarono che egli era stato
soltanto eletto a rimpiazzare Rattazzi nel comitato, e non altro.
Era allora in pieno svolgimento la battaglia delle opposizioni contro
il ministero presieduto da Lanza, che veniva attaccato sia da Destra
che da Sinistra in particolare per i provvedimenti finanziari
presentati da Sella. Il D., vistasi dapprima respinta una proposta di
rinvio, si schierò al fianco della Destra minghettiana nell'attaccare
il ministero fino al voto del 25 giugno che lo costrinse alle
dimissioni. Parve allora delinearsi un'alleanza tra il D. e Minghetti,
tanto più che il re stesso, nel conferire a quest'ultimo l'incarico,
gli indicò, tra i nomi di cui tener conto, l'intero gruppo del Diritto
col D. in testa. Questi era pronto a entrare nella combinazione insieme
a Coppino e De Luca, ma la Sinistra, e in particolare Nicotera e
Crispi, forzandolo a presentarsi alle trattative come capo del partito
e con richieste più elevate, le fece fallire.
Privo di chiari appoggi a Sinistra e nato in contrapposizione alla
Destra selliana, il governo Minghetti assunse l'aspetto di un gabinetto
"tecnico", aperto al contributo delle varie parti politiche su singoli
provvedimenti di riforma.
L'importante legge bancaria fu ad esempio votata agli inizi del 1874 da
una larga maggioranza di Centro-Sinistra. Il D., benché prodigo di
aperture e di riconoscimenti verso il governo, votò con l'opposizione.
In quell'occasione, l'avvicinamento al governo avveniva infatti ad
opera non del vecchio gruppo del Diritto, che ormai tendeva a non
differenziarsi troppo dall'opposizione, ma di numerosi deputati della
Sinistra meridionale, guidati in questo caso da De Luca, e segnalava
fenomeni del tutto nuovi, legati appunto alla vivacità e alla forza
raggiunte dalla deputazione meridionale. Nel corso della campagna per
le elezioni del 1874 - che dettero la dimostrazione di quella forza -
il nuovo orientamento emerse con la pubblicazione di un manifesto
elettorale - che fu detto della "Sinistra giovane", e contrapposto ad
un altro manifesto, finnato dai rappresentanti della Sinistra "storica"
- che raccolse le istanze di una opposizione "amministrativa", una
opposizione che cioè lasciava sullo sfondo le maggiori questioni ideali
e politiche per concentrarsi su alcuni concreti temi amministrativi e
finanziari particolarmente sentiti nel Mezzogiorno.
Il D., che rimaneva estraneo, lui in tutto e per tutto lombardo e
legato alla tradizione subalpina, ai maggiori problemi del Mezzogiorno
e aveva scarsa dimestichezza personale con gli esponenti meridionali,
rimase per il momento estraneo anche a quel dibattito, e forse non
firmando nessuno dei due manifesti volle anche rinviare una sua presa
di posizione.
Apertasi la XII legislatura, fu candidato della Sinistra alla
presidenza della Camera, raccogliendo 172 voti contro i 236 del
Biancheri, che fu eletto. In seno alla Sinistra, la sua candidatura
prevalse grazie all'appoggio della "giovane Sinistra" e per la
connotazione più debolmente caratterizzata rispetto alla candidatura di
Cairoli, avanzata dai gruppi "storici", e a quella di Mancini,
nettamente meridionalista. In una fase di intensa trasformazione dei
partiti, la fortuna del D. sempre più sarebbe stata affidata a questa
sua debole caratterizzazione politica, che faceva di lui il punto di
riferimento di gruppi anche eterogenei. Dopo le elezioni, pare che egli
tentasse ancora di dar vita a un nuovo connubio con Minghetti, ma senza
successo. L'anno seguente si trovò invece ad essere uno degli
interlocutori decisivi di una complessa manovra avviata nell'ambito
della nuova opposizione meridionale da G. Nicotera. Parlando il 4
luglio 1875 a Salerno, Nicotera aveva proposto una netta rottura con la
tradizione radical-repubblicana e la formazione d'una "Sinistra
costituzionale" con l'obiettivo - incoraggiato, pare, dal re - di
aggregare un gruppo della Destra dissidente e conquistare così la
maggioranza. Era però necessario il consenso dei vari gruppi della
Sinistra, e in particolare di quella settentrionale e del D. che,
sollecitato da Nicotera, convocò il 1º agosto a Torino una riunione di
deputati per discutere la fusione della deputazione piemontese con la
costituenda Sinistra costituzionale. Fu tra l'altro decisa in
quell'occasione la creazione d'un giornale, Il Bersagliere - che nacque
alla fine dell'anno, ma fu organo personale di Nicotera e non del nuovo
raggruppamento, com'egli sperava -, fu votata una risoluzione con la
quale si incaricava il D. di "concertarsi coi deputati di opposizione
delle altre provincie sulle questioni principali che si agiteranno
nella prossima sessione della Camera"; e fu deciso che sul progetto
della nuova Sinistra il D. avrebbe parlato in un successivo discorso a
Stradella. L'attenzione degli ambienti politici fu perciò tutta
concentrata su ciò che il D. avrebbe detto a Stradella il 10 ottobre,
giorno fissato per il discorso.
Si trattava di sapere se la rottura con l'estrema Sinistra proposta da
Nicotera era accettata dai settentrionali, e se le rivendicazioni dei
meridionali potevano costituire la piattaforma d'una nuova maggioranza.
Ma non solo per questo il discorso del D. era destinato ad avere vasta
eco. Esso fu il primo di una serie di tre "discorsi di Stradella"
pronunciati tra il '75 e l'82 nei quali si sarebbe compendiato il
programma della Sinistra al governo. Pronunciati, com'era costume del
tempo, nel corso di affollati banchetti, davanti a un uditorio
attentamente selezionato nel quale gli inviti, gli arrivi o le assenze
erano scrupolosamente notati come altrettanti segnali politici, quei
discorsi erano perciò enfatizzati anche da una accorta organizzazione e
da una pubblicità adeguata che ne moltiplicavano la risonanza nazionale.
Rispetto alle attese della vigilia il discorso del '75 fu deludente,
sia per Nicotera la cui proposta era sostanzialmente respinta, sia per
quanti avrebbero voluto una maggiore incisività politica. "Un discorso
tanto di Destra, quanto di Sinistra" riportò L'Opinione. "Il discorso
di D. è veramente un po' fiacco, scrisse Cairoli a Bertani, ma
additando almeno agli aspiranti al potere un programma di riforme, ed
una via dignitosa, ebbe l'approvazione dei giornali d'opposizione".
Così era stato: elencando i vari punti d'un programma di riforme -
istruzione elementare obbligatoria e gratuita, allargamento del
suffragio elettorale, decentramento amministrativo, riforma tributaria
e della magistratura, ecc. - il D. venne a incarnare, dell'esigenza
tutta pragmatica e amministrativa che si stava imponendo a larghi
settori dell'opposizione, una versione insieme più distaccata dalle
motivazioni localistiche che sembravano proprie della deputazione
meridionale, e insieme più organica e completa, meglio collegata a
tutta la tradizione di riformismo moderato che egli poteva a buon
diritto rappresentare, nonché allo stesso patrimonio ideale della
Sinistra "storica" verso la quale non esprimeva alcuna ripulsa.
Nel programma del D. molte rivendicazioni liberali potevano essere
condivise anche dai moderati, com'era certamente per il proposito di
concedere maggiore autonomia alle amministrazioni locali, o di
regolamentare i casi di incompatibilità parlamentari. Ma soprattutto il
D. non ripeteva le richieste di spesa consuete all'opposizione - e a
quella meridionale in ispecie - dichiarando anzi di far suo l'obiettivo
del pareggio, e a questo apprezzamento della politica della Destra
univa una calda professione di fede monarchica, che dava alla Sinistra
il profilo di una "opposizione di sua maestà", com'egli disse. A tutto
ciò non seguiva infatti la ricerca di un accordo con i moderati, ma al
contrario l'adozione di una strategia "frontale" del tutto estranea al
D., e della quale infatti egli stesso si dichiarava debitore al Crispi:
"l'opposizione non ha e non deve avere nessuna fretta di andare al
potere (...) Quando un partito politico va al potere, e lo assume
nell'interesse della Corona e del paese deve giungervi per la strada
diritta, a tamburo battente, colla sua bandiera spiegata, per la
breccia aperta nelle file dei suoi avversari".
Già nel marzo successivo, caduto il 18 del mese il governo Lanza, il D.
fu incaricato dal re di formare il nuovo governo, che fu governo di
partito, interamente formato da rappresentanti della Sinistra, molti
dei quali per la prima volta ministri, e con una marcata presenza di
meridionali, primo fra tutti Nicotera, che dopo avere stabilito
un'intesa con una frazione della Destra e stretto una alleanza col D.,
diventava ministro degli Interni. Fautore convinto d'una strategia di
convergenze al Centro, da tempo convertito al connubio, paradossalmente
il D. si trovò così artefice dell'unico caso che la storia parlamentare
italiana a tutt'oggi conosca in cui l'opposizione è subentrata al
governo secondo la logica bipartitica che molti - non lui - a
quell'epoca invocavano. Ma il paradosso era destinato a chiarirsi. A
imporre la "rivoluzione parlamentare" del 18 marzo 1876 era un impasto
d'innovazione e di continuità di cui proprio il D. sarebbe divenuto con
gli anni l'artefice insuperabile.
Riprendendo, nel presentare il suo primo dicastero alla Camera il 28
marzo, il programma enunciato a Stradella, il D. illustrò la gamma
vastissima di materie sulle quali l'opposizione divenuta governo
intendeva misurarsi. In linea generalissima, il suo programma può esser
compendiato nel proposito di ridurre, o di ricondurre entro limiti più
chiari e corretti, la pressione esercitata dallo Stato sulla società
civile, e quindi di garantire a questa autonomi spazi di espressione e
nuove possibilità di crescita. Ciò valeva sia nel campo delle riforme
politiche e amministrative, sulle quali spiccava la rivendicazione
democratica classica, l'allargamento del suffragio, sia in quello
economico e finanziario, in cui il D. ribadiva la sua ispirazione
privatistica e liberistica.
Si trattava di riforme in nessun caso particolarmente ardite, decantate
e insieme temprate dall'esperienza dell'opposizione: "In molti anni di
discussioni parlamentari, disse il D., noi abbiamo avuto occasione di
esporre e di svolgere le nostre idee: il tempo ha potuto temperarne
alcune, ma ne ha raffermate e chiarite molte altre". Complessivamente,
doveva accomunarle un'idea di progresso, secondo la formula usata più
tardi a Stradella ("noi siamo, o signori, un ministero di
progressisti"); un progresso, andrebbe aggiunto, di stampo "borghese",
cioè principalmente collegato allo sviluppo delle forze produttive,
intimamente laico, civile e pragmatico, alieno dagli eccessi. A fronte
infatti della vastità del programma di governo, del suo carattere
necessariamente onnicomprensivo, stavano le dichiarazioni di prudenza:
"tutti questi concetti, concluse alla Camera, tutti questi doveri
dovranno, voi lo comprenderete, essere soggetti a quella legge della
prudenza, della successione, della gradualità, che s'impone ad ogni
cosa pratica". Da qui non solo la cautela che accompagnò lo studio e la
proposta di molte delle riforme, ma anche il fondamentale realismo che
temperò i principi dottrinari professati; realismo e cautela che di
volta in volta furono poi invocati per sottolineare la profonda
aderenza della sua politica alle condizioni del paese o viceversa la
funzione conservatrice e di freno svolta da quella politica.
Le elezioni del 1876 segnarono il trionfo del "partito progressista"
che ovunque - ma particolarmentre nel Meridione - sbaragliò gli
oppositori moderati. "La maggioranza è numerosa, commentò il D., forse
troppo numerosa, e il mantenerla compatta nelle sue diverse gradazioni
è estremamente difficile". L'ampiezza stessa di quel successo,
caratterizzato tra l'altro da un accentuato rinnovamento della
rappresentanza parlamentare, appariva infatti come un segno non
dell'alternanza tra i partiti ma della loro "disgregazione", del fatto
cioè che l'avvento al potere della Sinistra sanciva il definitivo
tramonto delle distinzioni tra i gruppi storici e la nascita di un
assetto nuovo, che attendeva d'esser definito e modellato. Il D. seppe
forse intuire meglio di altri la natura di quel processo, e comunque ne
divenne l'elemento centrale. Nel nuovo discorso di Stradella dell'8
ott. 1876, in cui il programma fu esposto in una più curata e più
imponente cornice, esordi auspicando "quella concordia, quella feconda
trasformazione dei partiti, quella unificazione delle parti liberali
della Camera, che varranno a costituire quella tanto invocata e salda
maggioranza, la quale, ai nomi storici tante volte abusati, e forse
improvvidamente scelti dalla topografia parlamentare, sostituisca per
proprio segnacolo un'idea comprensiva, popolare, vecchia come il moto,
come il moto sempre nuova: il progresso". Ad operare quella
trasformazione il D. avrebbe da allora dedicato intera la sua umana
vocazione per la politica e per il tessuto delle relazioni parlamentari.
L'unico avvenimento di rilievo da registrare nella sua vita privata si
colloca peraltro proprio in quell'anno 1876. Il 16 novembre sposò
Amalia Flarer. Non ancora trentenne - era nata il 22 maggio 1847 - la
Flarer era figlia d'un professore d'oculistica dell'università di
Pavia, Francesco Flarer, e vedova di Enrico Grassi, un ingegnere da lei
sposato nel '70 e dal quale aveva avuto una figlia, Bice, che fu poi
allevata dal D. accanto all'unico suo figlio, chiamato anch'egli
Agostino, che gli nacque a Stradella il 26 ag. 1877 e divenne più tardi
funzionario del ministero degli Esteri.
La concordia all'interno della maggioranza del 18 marzo fu di breve
durata. La scarsa iniziativa riformatrice mostrata dal governo col
rinvio dei più qualificanti punti del programma - primo fra tutti la
riforma elettorale - o il cedimento alle ragioni conservatrici, come
nel caso del progetto sul decentramento amministrativo, che fu
ritirato; o ancora, sul terreno del costume politico, le pesanti
interferenze rimproverate al ministro degli Interni, nonché i contrasti
emersi in campo economico e ferroviario: tutto ciò alienò al governo, e
particolarmente ai suoi esponenti più in vista, il D. e il Nicotera,
l'appoggio dei gruppi della Sinistra facenti capo al Bertani, al
Cairoli e allo Zanardelli. Quest'ultimo, ministro dei Lavori Pubblici,
rassegno le dimissioni a metà novembre 1877; un mese dopo un incidente
politico mise sotto accusa il Nicotera, e il D. stesso dette le
dimissioni. La crisi fu precariamente risolta, il 16 genn. 1878, con
l'ingresso in un secondo ministero Depretis di F. Crispi, il maggior
esponente del partito rimasto escluso dalla coalizione del 18 marzo,
poi presidente della Camera e reduce da una discussa missione a
Berlino. Ma quando pochi mesi più tardi lo stesso Crispi fu oggetto di
una campagna diffamatoria - alimentata dal suo predecessore agli
Interni, Nicotera - e dové ritirarsi, fu giocoforza per il D. cedere la
mano a un governo guidato da Cairoli.
Il governo Cairoli ebbe vita breve e travagliata, durando fino al
dicembre dello stesso 1878, quando il D. riassunse la presidenza del
Consiglio. Esso rappresentò tuttavia la più marcata alternativa alla
direzione depretisina, alternativa sinteticamente raffigurabile come
tentato recupero di una originaria coerenza liberaldemocratica di
fronte alla tendenza, che sembrava innata nel D., alla cautela
paralizzante, al compromesso, al coinvolgimento "affaristico".
Per valutare appieno la natura di questa contrapposizione, la più seria
tra quelle che i governi depretisini ebbero a subire, occorrerebbe
esaminare le complesse questioni della politica economica e
finanziaria, e in particolare di quella ferroviaria, che aveva avuto
parte non piccola nella stessa svolta del '76. In quell'occasione
infatti, di fronte ai progetti di statalizzazione del governo
Minghetti, la posizione privatistica della Sinistra - più congeniale,
sembrava allora, alla sua tradizionale difesa delle libertà - era stata
anche tale da guadagnarle nuovi consensi nell'opinione "borghese",
oltre che tra i rappresentanti della finanza italiana ed europea, come
quelli presenti nella deputazione toscana, che fu corresponsabile della
"rivoluzione" del 18 marzo, o come il barone Rothschild, ben presente
nelle cose italiane e del D. estimatore. Guadagnata così la maggioranza
parlamentare e rigettata la statizzazione delle ferrovie, il D. si
orientò verso l'accordo con i gruppi finanziari maggiori - il gruppo
Rothschild, col quale il governo Minghetti aveva già firmato la
convenzione di Basilea per il riscatto della linea dell'Alta Italia,
che il D. rinegoziò, accettandone l'impostazione, o il gruppo facente
capo a D. Balduino, col quale il D. concordò poi la costituzione di due
grandi compagnie per la gestione dell'intera rete. Questa scelta a
favore dei grandi gruppi finanziari già coinvolti nei maggiori
investimenti e speculazioni del decennio precedente, dispiacque
all'opinione democratica, che seguiva un ideale modello di capitalismo
concorrenziale non monopolistico. Il contrasto apparteneva dunque alla
complessa molteplicità d'orientamenti e di interessi che si muovevano
attorno alla maggiore questione politica del tempo, quella costituita
dal ruolo dello Stato nella sfera dell'economia, nella quale accanto
alla questione ferroviaria rientravano quella tributaria e bancaria,
nonché il problema del rinnovo dei trattati commerciali e dell'adozione
di una tariffa generale - occasioni tra le tante in quegli anni nelle
quali venne delineandosi una opinione protezionistica più o meno
concettualmente elaborata -, oppure la minore ma significativa vicenda
della abolizione del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio,
decisa agli inizi del '78 e subito dopo annullata da Cairoli.
Su tali materie il D. professava una fondamentale adesione ai canoni
del liberismo e del laisser-faire, alla difesa della ricchezza privata,
del risparmio e dell'accumulazione, nonché alle ragioni del
"consumatore" e in genere di una più larga ed equa distribuzione della
ricchezza. Tipiche in questo senso le sue argomentazioni a favore del
pareggio del bilancio - che pure contribuivano a rinviare i propositi
di riforma tributaria -: "Nessuna permanente diminuzione delle entrate,
disse parlando come ministro delle Finanze il 27 marzo 1877;
trasformazione del nostro sistema tributario, da eseguirsi senza
turbare l'assetto dei bilanci; provvedimenti per riescire
all'abolizione del corso forzoso; provvedimenti per aiutare lo sviluppo
delle forze economiche del paese; (...) quindi (...) resistere alla
foga di chi mi chiede diminuzione di imposte da una parte, e di chi mi
domanda, dall'altra, eccessive spese per opere pubbliche". Maggiore
flessibilità già nelle enunciazioni programmatiche egli dimostrava
invece nel campo della politica commerciale. "L'esaine delle tariffe
doganali, aveva detto il 28 marzo, non si può sottoporre ai criteri di
un solo e rigido principio"; per ribadire poi a Stradella: "Sarò fedele
alle dottrine economiche", aggiungendo: "se poi ci fosse giuoco di
tariffe contro il nostro commercio e la nostra produzione, che volete,
mi rassegnerò a difendere gli interessi del paese con le tariffe". Tali
aperture non giungevano però in alcun modo ad accogliere le richieste
di protezione: "per me, signori, le dogane moderne non hanno che uno
scopo finanziario", dichiarò al Senatol nel luglio del '76,
manifestando con inconsueta decisione il suo dissenso da A. Rossi. Il
favore per la produzione si indirizzava infatti in lui,
cavourianamente, al mondo rurale, semmai al mondo del credito e della
finanza, più che a quello dell'industria, e comunque tendeva a non
coinvolgere l'intervento diretto dello Stato.
Destinato a prevalere sull'alternativa "democratica" di Cairoli perché
più aderente forse alle effettive esigenze e condizioni del momento, il
progetto sociale del D. doveva però misurarsi con la variegata
espressione degli interessi che esso intendeva ascoltare e sollecitare,
e qui manifestare una sua propria originale strategia politica. Privo,
com'era sempre stato e come sempre rimase, di un proprio autonomo
gruppo politico e di un proprio esclusivo organo di stampa (anche se a
partire dal 1878, orientandosi IlDiritto a favore di Cairoli, fu Il
Popolo romano di C. Chauvet a fungere da suo portavoce), il D. tendeva
a sottrarsi alla contrapposizione più cruda tra le varie correnti della
Sinistra e a rappresentarvi un elemento di concordia e di mediazione,
in genere agitando la bandiera della "unità del partito" e quindi
rifiutando, insieme con la logica delle esclusioni interne, anche
quella che sovente avvicinò, sempre all'insegna della "trasformazione",
qualche gruppo di Sinistra - ora quello di Cairoli, ora quello di
Nicotera - alla Destra selliana. La sua stessa contrapposizione con
Cairoli venne perciò smussandosi, e anche quando nel dicembre 1878,
dopo l'attentato Passanante, il D. si unì allo schieramento che fece
cadere Cairoli, fu di proposito assai moderato nelle critiche.
Incaricato della successione, volle costituire d'accordo con Crispi un
governo "di partito" - anche se ne rimasero fuori gli esponenti
nicoterini e cairoliani - e già l'anno successivo, dopo l'esperienza di
un nuovo breve governo presieduto da Cairoli, raggiunse finalmente un
accordo col suo concorrente e nel novembre 1879 divenne suo ministro
degli Interni, avendo a fianco, come titolare delle Finanze, il suo più
stretto collaboratore A. Magliani.
Come ministro degli Interni il D. organizzò le elezioni del 1880, le
ultime svoltesi secondo la legge elettorale sarda. Più volte era
tornato a raccogliere le file del partito attorno alla necessità di
riformare quella legge, dopo che a più riprese egli stesso aveva
contribuito a "insabbiare" l'iter dei vari progetti via via presentati
sull'argomento. Egli era assertore d'un ampliamento delle basi sociali
del regime, ma lo concepiva in modo graduale e paternalistico,
saldamente controllato dai ceti dirigenti; diffidava perciò, in epoca
di montante radicalismo, di un allargamento troppo deciso del suffragio
politico (era stato invece un sostenitore di quello universale
amministrativo, anche se vi escludeva gli analfabeti), e quando la
riforma giunse in discussione nella primavera del 1881, e sia per le
pressioni della Sinistra, sia per l'evolversi stesso del dibattito, il
censo e le capacità richieste per il voto furono abbassati ben oltre i
limiti da lui indicati inizialmente, finì coll'accettare e col
difendere il testo conclusivo come estrema concessione, come ardito
gesto di fiducia nei confronti del paese.
Oltre che ministro degli Interni, il D. era a quel punto anche
presidente del Consiglio, tornatovi nel maggio 1881 alla testa di una
forte coalizione: con Zanardelli, relatore del progetto di legge
elettorale, ministro della Giustizia, Berti, firmatario di vari
progetti di legislazione sociale, all'Agricoltura, e Mancini, che dopo
la crisi tunisina doveva dare un nuovo e più energico indirizzo alla
politica estera, settore peraltro per il quale il D. non ebbe mai
competenza alcuna né interesse. Varata la legge elettorale,
accingendosi a indire elezioni eccezionali da tenersi secondo le nuove
norme, il D. riteneva necessario, "dinanzi ai pericoli che minacciavano
le istituzioni" di "formare un partito compatto", come testimoniò il
Minghetti, col quale s'incontro e s'intese. Si presentò quindi l'8 ott.
1882, nell'ultimo e nel più rituale dei suoi "discorsi di Stradella",
come capo di un partito che con la riforma del suffragio - "quella che,
con paterna e veramente magnanima fiducia, chiama tutti i cittadini
capaci all'esercizio del diritto sovrano dell'elettorato politico,
sanzionando il suffragio universale possibile" -vedeva "compita la
parte più importante e sostanziale del programma che aveva annunziato
al paese".
Benché dedicasse dettagliate e rassicuranti parole a tutto il complesso
delle materie ancora in progetto o allo studio, egli sottolineò nella
prima parte di quel discorso il carattere di bilancio che esso doveva
assumere; anzi di "testamento", aggiungendovi il vezzo di presentarsi
come un patriarca che solo le necessità del paese potevano distogliere
dalla sua "antica e prediletta professione di agricoltore".
Doveva infatti entrare a far ormai parte della sua immagine politica
l'atteggiamento rustico e patriarcale con cui amava presentarsi al
paese nel momento in cui si impadroniva saldamente della sua vita
politica. Lo stesso aspetto fisico lo sottolineava, con l'abbigliamento
da sempre trasandato, la lunga barba scarmigliata e ormai bianca, una
gotta fastidiosa e insistente. "Sono mezzo malato, sono un po' di
malumore, abbiate un po' di pazienza": con simili intercalari dominava
gli accenni d'insofferenza della Camera. Capo del governo fino alla
morte, sempre più spesso riunì il Consiglio dei ministri nel salotto di
casa sua, a via Nazionale a Roma, dove "non c'era che un piccolo
tavolinetto tondo, spesso senza carta né calamaio", cosicché raramente
si redigevano verbali, come ricorda F. Martini. Così il D. governava il
processo di trasformazione e di convergenza al centro del sistema
politico italiano.
Suscitati spontaneamente in periferia dalla nuova dislocazione
dell'elettorato o sollecitati dal centro con opportuni interventi
prefettizi, processi di fusione tra "progressisti" e moderati avvennero
già alle elezioni del 1882, che non solo furono vinte dal governo, ma
mandarono alla Camera ben 173 nuovi deputati "ministeriali", non più
classificabili nemmeno formalmente per appartenenza di partito. Fu
questa la base del "trasformismo". Rispondendo nel maggio 1883 a quanti
gli rimproveravano l'insensibilità per la questione sociale e la
gestione illiberale del dicastero degli Interni, accusandolo di essersi
ormai allontanato dalla Sinistra e di non avere più una maggioranza
definita, il D. invocò l'estrema difficoltà dei tempi, i rapidi
progressi dell'emancipazione popolare e la radicalizzazione dello
scontro politico che richiedeva concordia, chiarezza di propositi e
forza politica sufficiente per elaborare e varare i Provvedimenti
necessari. Chiese perciò "una larga ed esplicita approvazione" del suo
programma al di fuori di qualsiasi logica di schieramento di partito.
Riprendendo, come sempre più spesso gli capitava di fare, la catena
delle autocitazioni, ricordava la "feconda trasformazione" dei partiti
da lui auspicata nel '76, e poi l'invito ripetuto, sempre a Stradella,
nel 1882 "Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole
accettare il mio modesto programma, se qualcheduno vuole trasformarsi e
diventare progressista, come posso io respingerlo?") e con quelle
parole rispondeva a chi gli rimproverava il trasformismo, "questo
benedetto trasformismo, che è non solo vecchio fisicamente, ma vecchio
anche parlamentarmente, ed in continua applicazione". Volle che
dall'ordine del giorno fosse cancellato ogni riferimento alla Sinistra,
ed ottenne 348 voti a favore contro 29 contrari e 5 astensioni.
È stato detto che quella maggioranza formò il "partito unico della
borghesia italiana". Un partito la cui principale caratteristica fu di
mancare quasi programmaticamente di qualsiasi forma consociativa di
tipo partitico, anche nel senso ottocentesco, e di basarsi piuttosto su
di una convergenza di gruppi, interessi e singole personalità privi di
connotazioni ideologiche, di volta in volta legati da singoli
provvedimenti, concessioni, favori. Questo tipo di rapporto tra
Parlamento e governo, che tendeva a riprodursi dal centro alla
periferia, sulle grandi questioni di indirizzo come sulle minute
questioni locali, influenzò anche la vita e il profilo dei cinque
diversi gabinetti che il D. guidò tra il 1882 e il 1887 mutandone la
composizione con abili giochi di dimissioni, di "rimpasti" e di
reincarichi secondo le esigenze del momento.
Di altro il D. non si occupava. E nel momento in cui la sua biografia
aderisce perfettamente alla pratica quotidiana della trama
amministrativa e parlamentare, essa scompare e subisce una sorta di
sublimazione. Dalla somma delle singole, pragmatiche transazioni, e
proprio nella misura in cui in esse sembra risolversi tutta la tensione
ideale e politica del tempo, si levano le astrazioni concettuali che
definiscono una fase storica e secondo alcuni autori addirittura una
tipologia del comportamento politico, per cui il nome del D. si
identificherà definitivamente col trasformismo. Ma se come categoria
del politico il trasformismo è fenomeno di lunga durata, intrinseco
forse al trapianto del meccanismo parlamentare unitario in un paese
come l'Italia eterogeneo e composito, di tutto ciò il D. ebbe soltanto
una consapevolezza intuitiva e mai teoricamente dispiegata, limitata
poi alle forme e ai modi di una sua applicazione, quella degli anni
Ottanta, che di fatto fu assai breve e presto messa in crisi.
Per sua natura tendente ad occupare il centro dello schieramento
politico, una maggioranza trasformista non tollera la costituzione di
robusti raggruppamenti concorrenti dei quali deve continuamente erodere
le frange. Il martellante, esclusivo riferimento ai discorsi di
Stradella che veniva fatto dal D. - e che nel gergo del tempo li fece
chiamare "gli evangelii di Stradella" -, il suo costante richiamarsi al
periodo di governo della Sinistra come a un unico ciclo politico,
doveva avere questa funzione: di evitare che il suo insediamento al
centro facesse sorgere - o risorgere, con le bandiere della Sinistra -
una forte opposizione. Una simile tendenza, anch'essa costante nel
sistema politico del tempo, tornò infatti a manifestarsi negli anni del
trasformismo, giacché fin dal 1883, in certo senso ricalcando la
frattura del '77, due ministri, Zanardelli e Baccarini, abbandonarono
il governo e costituirono con altri capi storici della Sinistra come
Crispi, Nicotera e Cairoli un gruppo d'opposizione, che fu detto "la
pentarchia". Priva di interna coesione, come gruppo la pentarchia si
sgretolò presto, ma le sue diverse componenti segnalavano realtà
sociali che il trasformismo, depretisino non sapeva coinvolgere nella
direzione dello Stato e che alla lunga ne avrebbero provocato lo
sfaldamento.
I capisaldi della strategia depretisina - l'allargamento delle basi
dello Stato e lo sviluppo della ricchezza privata, soprattutto di
quella agricolo-commerciale, in una gestione di tipo liberistico dello
Stato ma in un quadro sociale e politico stabile, saldamente nelle mani
del ceto dirigente borghese - subirono infatti le conseguenze dei
profondi mutamenti che proprio negli anni Ottanta si stavano
verificando. La crisi dell'agricoltura, della proprietà e del mondo
rurale, l'acuirsi dello scontro sociale e la crescita delle
organizzazioni popolari, la germinale affermazione della produzione
industriale occuparono i governi Depretis in lunghi e complessi
dibattiti parlamentari che gradualmente mutarono il quadro politico a
lui familiare. Nascevano ad esempio nuovi orientamenti protezionistici,
e la richiesta di una nuova e più esigente politica estera e coloniale,
tendenze nelle quali il D. si trovò alla fine coinvolto in virtù dello
stesso meccanismo trasformistico, e della sua disponibilità a mediare
tutte le istanze. Quello stesso meccanismo, d'altra parte, basando le
sue tendenze espansive su di una costante erogazione di ricchezza e di
privilegi, e dunque implicando una forte espansione della spesa
pubblica (tipicamente le costruzioni ferroviarie, dove il D. riuscì tra
l'84 e l'85 a far votare le convenzioni, ma anche la cantieristica, le
spese militari, i lavori pubblici in genere: tutte le "infrastrutture"
di cui il periodo depretisino dotò il paese) ricondusse al disavanzo, e
dunque a gravi problemi finanziari, facendo crollare un altro dei
capisaldi di Stradella. Il Magliani, oggetto di crescenti critiche,
dovette essere allontanato dal governo, e tra l'85 e l'86 su questo
tema si staccò dalla maggioranza un nuovo gruppo di
"dissidenti".Incapace di controllare, e forse di comprendere a fondo,
tali fenomeni, l'ultimo D. sembrò rimanerne vittima. Rimase
profondamente scosso dall'incidente di Dogali, egli che nell'impresa
africana era stato trascinato di cattiva volontà. L'ingresso di Crispi
nel suo ultimo ministero, nell'aprile 1887, sancì il mutamento del
clima politico e l'ineluttabilità d'un cambiamento. "Subito che il
Crispi fu ministro, annotò il Martini, nessuno badò più al Depretis".
L'attesa suscitata da Crispi tradiva anche un impietoso bisogno di
rimozione nei confronti del D. e per lui del trasformismo, che nella
sua totale mancanza di legittimazione ideologica si presentava, alle
polemiche dei contemporanei come alla memoria storica, sotto il segno
negativo della degenerazione, dell'alterazione "clientelare" e
"affaristica" dei meccanismi fisiologici del sistema parlamentare.
Vittima di quell'identificazione fu l'uomo Depretis. Trasferito a
Stradella per l'aggravarsi della malattia, vi morì il 29 luglio 1887
senza destare rimpianti. "L'elogio più sicuro che si può fare di lui,
scrisse Ruggiero Bonghi, è che quelli che rimangono, per sventura
nostra, non sono migliori di lui".