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Il Decamerone o Decameron è una raccolta di cento
novelle scritta nel Trecento (probabilmente tra il 1349 ed il 1351)
da Giovanni Boccaccio.
È considerata, nel contesto del Trecento europeo, una delle opere
più importanti della letteratura, fondatrice della letteratura in
prosa in volgare italiano. Ebbe larghissima influenza non solo nella
letteratura italiana ed europea (si pensi solo ai Canterbury Tales
di Geoffrey Chaucer), ma anche nelle lettere future, ispirando
l'ideale di vita edonistica e dedicata al piacere ed al culto del
viver sereno tipici della cultura umanista e rinascimentale (che si
traduce per esempio nel celebre Trionfo di Bacco e Arianna,
composizione poetica di Lorenzo de' Medici).
Il libro narra di un gruppo di giovani, sette donne e tre uomini,
che trattenendosi fuori città per quattordici giorni (il titolo
indica i dieci giorni in cui si raccontano le novelle e non i
quattro in cui ci si riposa), per sfuggire alla peste nera, che
imperversava in quel periodo a Firenze, raccontano a turno delle
novelle di taglio spesso umoristico e con frequenti richiami
all'erotismo bucolico del tempo. Per quest'ultimo aspetto, il libro
fu tacciato di immoralità o di scandalo, e fu in molte epoche
censurato o comunque non adeguatamente considerato nella storia
della letteratura.
Il titolo
Il titolo finito che Boccaccio dà alla sua opera è Comincia il libro
chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si
contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre
giovani uomini.
Decameron deriva dal greco e letteralmente significa "dieci giorni"
e si rifà all'Exameron ("sei giorni") di Sant'Ambrogio, un racconto
sui sei giorni della creazione divina. In realtà il tempo effettivo
trascorso fuori città dai giovani è di quattordici giorni, poiché il
venerdì è dedicato alla preghiera e il sabato alla cura personale
delle donne.
L'opera è cognominata (ossia sottotitolata) Prencipe Galeotto, con
riferimento a un personaggio, Galeuth o Galehaut, del ciclo bretone
del romanzo cortese che fece da intermediario d'amore tra
Lancillotto e Ginevra. "Galeotto" inoltre riecheggia un famoso
verso, riferito allo stesso personaggio, del V canto dell'Inferno di
Dante Alighieri, "Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse", verso con
cui Francesca termina il suo racconto.
La struttura
All'interno del Decameron, Boccaccio immagina come, durante il
periodo in cui la peste devasta Firenze (1348), una brigata di sette
ragazze e tre ragazzi, tutti di elevata condizione sociale, decidano
di cercare una possibilità di fuga dal contagio spostandosi in
campagna. Qui questi dieci giovani trascorrono il tempo secondo
precise regole, tra canti, balli e giochi. Notevole importanza, come
vedremo dopo, assumono anche le preghiere. Per occupare le prime ore
serali, i ragazzi decidono di raccontare una novella ciascuno,
secondo precisi rituali: per esempio, l'elezione quotidiana di un re
che fisserà il tema della giornata a cui tutti gli altri narratori
dovranno ispirarsi nei loro racconti. Al solo Dioneo, per la sua
giovane età, è concesso di non rispettare il tema delle giornate;
dovrà però novellare sempre per ultimo (Privilegio di Dioneo). La
prima e la nona giornata hanno un tema libero. Si sono date
molteplici interpretazioni degli strani nomi attribuiti ai
narratori, in gran parte riecheggianti etimologie greche: Pampinea
("la rigogliosa"), Filomena ("amante del canto", oppure "colei che è
amata"), Neifile ("nuova amante"), Filostrato ("vinto d'amore"),
Fiammetta (la donna amata da Boccaccio), Elissa (l'altro nome di
Didone, la regina dell'Eneide di Virgilio), Dioneo ("lussurioso", da
Diona, madre di Venere; spurcissimus dyoneus si definiva Boccaccio
in una lettera giovanile), Lauretta (la donna simbolo di Petrarca),
Emilia e Panfilo (il "Tutto Amore", che infatti racconterà spesso
novelle ad alto contenuto erotico).
Nel Decamerone le cento novelle, pur avendo spesso in comune il
tema, sono diversissime l'una dall'altra, poiché l'autore vuol
rappresentare la vita di tutti i giorni nella sua grande varietà di
tipi umani, di atteggiamenti morali e psicologici, di virtù e di
vizio; ne deriva che il Decameron offre una straordinaria panoramica
della civiltà del Trecento: in quest'epoca l'uomo borghese cercava
di creare un rapporto fra l'armonia, la realtà del profitto e gli
ideali della nobiltà cavalleresca ormai finita.
Come scritto nella conclusione dell’opera, i temi che Boccaccio
voleva illustrare al popolo sono essenzialmente due. In primo luogo,
infatti, Boccaccio voleva mostrare ai fiorentini che è possibile
rialzarsi da qualunque disgrazia si venga colpiti, proprio come
fanno i dieci giovani con la peste che si abbatte in quel periodo
sulla città. Il secondo tema, invece, è legato al rispetto e ai
riguardi di Boccaccio nei confronti delle donne: egli infatti scrive
che quest’opera è dedicata a loro che, a quel tempo, erano le
persone che leggevano maggiormente e avevano più tempo per dedicarsi
alla lettura delle sue opere.
Il proemio
Il libro si apre con un proemio che delinea i motivi della stesura
dell'opera. Boccaccio afferma che il libro è indirizzato a coloro
che sono afflitti da "pene d'amore", allo scopo di dilettarli con
piacevoli racconti e dare loro utili consigli. È chiaro perciò che
l'opera è rivolta ad un pubblico di donne e più precisamente a
"coloro che amano". Il Decameron non è quindi una lettura da
letterati di professione, anche se raffinato ed elegante.
Sempre nel proemio Boccaccio racconta di rivolgersi alle donne per
rimediare al "Peccato della Fortuna": le donne possono trovare poche
distrazioni dalle pene d'amore rispetto agli uomini. Alle donne,
infatti, a causa delle usanze del tempo, erano preclusi certi svaghi
che agli uomini erano concessi, come la caccia, il gioco, il
commerciare; tutte attività che possono occupare l'esistenza
dell'uomo. Quindi nelle novelle le donne potranno trovare diletto e
utili soluzioni che allevieranno le loro sofferenze.
Anche il tema dell'"Amore" ha una certa importanza: in effetti gran
parte delle novelle tocca questa tematica, che assume anche forme
licenziose e che susciterà reazioni negative da parte di un pubblico
retrivo; per questo motivo Boccaccio, nell'introduzione alla quarta
giornata e specialmente nella conclusione, rivendicherà il suo
diritto ad una letteratura libera ed ispirata ad una concezione
naturalistica dell'Eros (significativo in questo senso il cosiddetto
"Apologo delle Papere").
La cornice [modifica]
La cornice narrativa in cui inserire le novelle è di origine
indiana. [2] Tale struttura passò poi nella letteratura araba e in
Occidente. La cornice è costituita da tutto ciò che si trova al di
fuori delle novelle ed in modo particolare dalla Firenze contaminata
dalla peste dove un gruppo di dieci giovani, di elevata condizione
sociale, si ritira in campagna per trovare scampo dal contagio. È
per questo che Boccaccio all'inizio dell'opera fa una lunga e
dettagliata descrizione della malattia che colpì Firenze nel 1348
(ispirata quasi interamente a conoscenze personali ma anche
all'Historia Langobardorum di Paolo Diacono) che, oltre a decimare
la popolazione, distrugge tutte quelle norme sociali, quegli usi e
quei costumi che tanto gli erano cari. Al contrario, i giovani
creano una sorta di realtà parallela quasi perfetta per dimostrare
come l'uomo, grazie all'aiuto delle proprie forze e della propria
intelligenza, sia in grado di dare un ordine alle cose, che poi sarà
uno dei temi fondamentali dell'Umanesimo. In contrapposizione al
mondo uniforme di questi giovani si pongono poi le novelle, che
hanno vita autonoma: la realtà descritta è soprattutto quella
mercantile e borghese; viene rappresentata l'eterogeneità del mondo
e la nostalgia verso quei valori che via via stanno per essere
distrutti per sempre; i protagonisti sono moltissimi ma hanno tutti
in comune la determinazione di volersi realizzare per mezzo delle
proprie forze. Tutto ciò quindi fa del Decameron un'opera unica,
poiché non si tratta di una semplice raccolta di novelle: queste
ultime sono tutte collegate fra di loro attraverso la cornice
narrativa, formando una sorta di romanzo.
La follia e le altre tematiche nel Decameron
Nel Decameron il tema della follia compare a più riprese
intrecciandosi inevitabilmente con altre tematiche, come quelle
della beffa, dello scherno, della burla. Uno degli aspetti più
interessanti, però, è quello della follia per amore, per la quale
spesso uno dei due amanti giunge fino alla morte.
La concezione della vita morale nel Decameron si basa sul contrasto
tra Fortuna e Natura, le due ministre del mondo (VI, 2, 6). L'uomo
si definisce in base a queste due forze: una esterna, la Fortuna
(che lo condiziona ma che egli può volgere a proprio favore),
l'altra interna, la Natura, con istinti e appetiti che deve
riconoscere con intelligenza. La Fortuna nelle novelle appare spesso
come evento inaspettato che sconvolge le vicende, mentre la Natura
si presenta come forza primordiale la cui espressione prima è
l'Amore come sentimento invincibile che domina insieme l'anima e i
sensi, che sa ugualmente essere pienezza gioiosa di vita e di morte.
L'amore per Boccaccio è una forza insopprimibile, motivo di diletto
ma anche di dolore, che agisce nei più diversi strati sociali e per
questo spesso si scontra con pregiudizi culturali e di costume. La
virtù in questo contesto non è mortificazione dell'istinto, bensì
capacità di appagare e dominare gli impulsi naturali.
Durante tutta la IV giornata vengono narrate novelle che trattano di
amori che ebbero infelice fine: si tratta di storie in cui la morte
di uno degli amanti è inevitabile perché le leggi della Fortuna
trionfano su quelle naturali dell'Amore. All'interno della giornata,
le novelle 3, 4 e 5 rappresentano un trittico che illustra in modi
diversi l'amore come follia. L'elemento che le accomuna è la
presenza della Fortuna coniugata come diversità di condizione
sociale: prevale infatti la tematica dell'amore che travalica le
leggi della casta e del matrimonio, che diventa una follia sociale e
motivo di scandalo.
Un esempio è costituito dalla V novella della IV giornata, ovvero la
storia di Lisabetta da Messina e il vaso di basilico. In questa
novella si sviluppa il contrasto Amore/Fortuna: Lorenzo è un
semplice garzone di bottega, bello e gentile, con tutte le qualità
cortesi per suscitare l'amore; Lisabetta, che appartiene a una
famiglia di mercanti originaria di San Gimignano, incarna l'energia
eroica di chi resiste all'avversa fortuna solo con la forza del
silenzio e del pianto; i tre fratelli sono i garanti dell'onore
della famiglia, non tollerano il matrimonio della sorella con
qualcuno di rango inferiore. Sono costretti ad intervenire per
riportare le cose in ordine e per ristabilire l'equilibrio
sovvertito dalla pazzia amorosa di Lisabetta. Lisabetta è un esempio
di amore dagli aspetti tragici ed elegiaci e nell'opera di Boccaccio
sono presenti altre figure femminili tragiche in cui lo scrittore
vede realizzarsi pienezza di vita ed intelligenza che egli chiama
"grandezza d'animo". Ad esempio si possono menzionare la moglie di
Guglielmo Rossiglione (IV, 9), la quale, costretta dal marito a
mangiare il cuore del suo amante, si uccide gettandosi da una
finestra del castello oppure Ghismonda di Salerno (IV, 1) che,
uccisole dal padre il giovane valletto di cui si era innamorata, si
uccide stoicamente. Boccaccio comunque affronta il tema dell'Amore
mostrando con perfezione il gioco degli istinti e dei sentimenti,
senza compiacimenti per la materia sessuale, fornendo invece esempi
in cui l'Amore cozza contro il Caso o le leggi delle convenzioni
sociali.
Boccaccio dichiara di aver scritto questo testo per le donne che lo
leggeranno per passare il tempo: più in generale, si può dire quindi
che il pubblico a cui si rivolge l'opera è di ceto medio.
La Fortuna presente nell'opera è il "caso", a differenza di Dante
che la considerava una intelligenza angelica che agiva nell'àmbito
di un progetto divino (Inferno, VII,76-96). L'opera boccacciana non
è ascetica ma laica, svincolata dal teocentrismo (Dio al centro
dell'Universo) che invece sta alla base della Commedia di Dante e
della mentalità medievale della quale il Decameròn rappresenta
l'"autunno". Oltre all'amore, presentato nei suoi vari aspetti anche
sensuali, l'"Ingegno" umano è un motivo ricorrente. Troviamo il
gusto della beffa (Chichibio, VI, 4), la spregiudicatezza empia di
Ciappelletto (I, 1), la dabbenaggine di Andreuccio da Perugia (II,
5) e Calandrino, l'arguzia e l'imbroglio (Frate Cipolla, VI, 10),
gli aspetti maliziosi e ridanciani (racconto delle monache e della
badessa, novella del giudice marchigiano beffato). Incontriamo anche
l'arguzia gentile di Cisti fornaio (VI, 2), l'intelligenza pronta di
Melchisedech (I, 3) e l'ingegno di Giotto (VI, 5), la signorilità
venata di arguzia e di bizzarria del brigante Ghino di Tacco (X, 2).
Due giornate sono consacrate ai motti, cioè alla prontezza dello
spirito, quattro sono dedicate alle astuzie di ogni genere, volte a
conquistare l'amore o a vendicarlo o a beffare l'intelligenza
altrui, o, soprattutto, a trarsi d'impaccio, mediante l'immediata
intuizione, dalle situazioni più difficili e strane.
L'opera presenta una duplice "anima". La prima è realistica,
riflette la mentalità e la cultura della classe borghese-mercantile
("epopea mercantile" Vittore Branca ha definito l'opera). La seconda
è aristocratica ed in essa sono presenti le virtù cavalleresche
proprie dell'aristocrazia feudale, del mondo cortese-cavalleresco:
cortesia, magnanimità, munificenza, lealtà, virtù umana fino al
sacrificio (novelle della decima giornata; novella di Federigo degli
Alberighi). Federigo degli Alberighi (V, 9) è un insigne esempio di
dignità cavalleresca, mentre tra le novelle dell'ultima giornata
emergono la magnanima cortesia di Natan (X, 39), la saggezza
malinconica di re Carlo (X, 6), la virtù di Griselda (X; 10). Scrive
Vittore Branca: " È un'epopea (cioè un'interpretazione al di là
degli eventi) di quell'età in cui la vita cavalleresca e feudale si
incontrava splendidamente con quella pulsante e fervida delle
compagnie e delle arti e la grandiosa architettura dell'impero
andava mirabilmente frangendosi nel molteplice e ricco mosaico dei
regni, dei principati, dei comuni. [....] Accanto al mondo solenne e
dorato dei re e dei cavalieri, il Boccaccio pone senza alcuna
esitazione la società operosa e avventurosa degli uomini della sua
età".
È scomparso il Medio Evo mistico e idealizzato e al suo posto è
presente la vita terrena riscoperta con un senso di gioia e di
prorompente vitalità, un intenso interesse per tutte quelle
manifestazioni che legano l'uomo all'esistenza, intesa non solo
sotto il profilo materiale ma anche spirituale, pur nell'assenza di
preoccupazioni morali e religiose. Il Decameron si conclude con una
giornata in cui domina appunto il motivo della virtù, seguendo
quindi una parabola morale ascendente secondo lo schema della
poetica medievale. Si tratta del percorso anche della Commedia di
Dante e del Canzoniere di Petrarca, dove però è presente il motivo
religioso e teologico che invece manca nelle virtù terrene del laico
Boccaccio. Nella Commedia si va dalla condizione di peccato alla
beatitudine celeste, nel Canzoniere dall'idea di peccato e di
traviamento del primo sonetto alla conclusiva canzone alla Vergine.
Oltre ai temi principali esposti ampiamente nel poema, è possibile
distinguere anche altri contenuti, meno argomentati, ma non per tale
motivo da considerarsi di poco conto. Uno di questi è il tema
dell’individualità. Con questo termine si indica il complesso di
qualità che caratterizza l’individuo e lo distinguono dagli altri
membri della stessa società, in quanto capace di agire e di pensare
secondo modalità proprie e non conformate alle altrui. Infatti,
nelle varie novelle c'è spesso una figura di riferimento che sembra
assumere un ruolo primario nella svolta della vicenda; essa
contribuisce attraverso i propri sentimenti, azioni, impulsi,
ragionamenti, a modificare la scena. Inoltre, tale personaggio è
pronto alle conseguenze derivanti dai propri comportamenti, del
quale se ne assume, seppur con qualche eccezione, la piena
responsabilità. Le sue decisioni, sbagliate o giuste che siano,
spesso si estendono alla folla, che, in contrapposizione, si rivela
essere facilmente adulabile dall’individuo singolo. La “massa” non
detiene, infatti, capacità di decisione propria nei vari ambiti,
accetta semplicemente ciò che è proposto per quanto assurdo possa
sembrare; assiste talvolta alle scelte della figura di riferimento
senza però esprimere la propria idea. Boccaccio sembra configurare
gli appartenenti ai gruppi sociali più elevati nella veste di
personaggio individuale, mentre identifica la classe contadina nella
folla priva di carattere.
Diversi sono gli esempi inerenti a tale affermazione:
in Ser Ciappelletto (giornata I, novella I) il protagonista della
vicenda assume su di sé le responsabilità per le proprie azioni
blasfeme condotte nei confronti della Chiesa cattolica; pur senza
essere costretto a compierle, decide di eseguirle. Ciò deriva dal
desiderio di “espiare” i propri peccati in punto di morte al fine di
non recare danno alla reputazione dei mercanti fiorentini suoi
ospitanti, per una ragione, più che religiosa, di favori tra classi
sociali congrue; in Federigo degli Alberighi (giornata V, novella
IX) il personaggio principale rinuncia a tutti i propri averi, anche
al simbolo della nobiltà, al fine di conquistare la donna da lui
amata. Tali comportamenti andranno a intrecciarsi con i valori
appartenenti al ceto aristocratico, quali la dignità e il vizio
dello sperpero, e alla mentalità della borghesia nascente,
incentrata sull’ascesa economica e sociale; nella Badessa e le
brache del prete (giornata IX, novella II) le due donne protagoniste
della novella agiscono in modo proprio, senza seguire le regole e il
pudore imposto dalla comunità. Nonostante questa caratteristica
comune, le due procedono in vie differenti: infatti, Isabetta non
nega le proprie colpe una volta scoperta, mentre la badessa, non
accorgendosi di avere come copricapo un indumento del prete con il
quale si era intrattenuta sessualmente e pensando quindi di non
essere stata scoperta nel proprio peccato, ammonisce con ipocrisia
la monaca colpevole delle sue stesse colpe. A dispetto di ciò,
rimane tuttavia l’autonoma decisione nel tradire il voto di castità.
Anche in questo caso la novella unisce altre tematiche, quale
l’ipocrisia ecclesiastica;
in contrapposizione ai personaggi principali si oppone, quindi, la
folla intesa come gruppo omogeneo per un’ideologia la quale non è
discussa e argomentata dagli appartenenti stessi. Infatti, nella
novella Ser Ciappelletto si può notare come sia facile che la
“massa” accetti di buon grado anche una santificazione prematura e
infondata; nella medesima novella, vi è anche la rappresentazione di
un personaggio che rimanda a una categoria più vasta, come nel caso
del frate che allude al clero. Tale personaggio è facilmente
raggirato da Ser Ciappelletto, a simboleggiare un’assoluta mancanza
di parametri razionali in un atto così sacro come quello della
santificazione; questo grave errore commesso dal prete raffigura
l’incapacità dello stesso nel prendere decisioni secondo criteri
propri e non seguendo quelli accordati dal mondo ecclesiastico.
[...]
La censura
A partire dalla metà del XVI secolo il sistema di controllo delle
scritture andò organizzandosi e istituzionalizzandosi per poter far
fronte alla lotta contro l'eresia. Fu così istituito L'Indice dei
libri proibiti voluto da Papa Paolo IV Carafa nel 1559 come "filtro"
per poter fronteggiare le accuse, anche se velate, degli scrittori
del tempo. L'ordine da Roma era tassativo: «...Per niun modo si
parli in male o scandalo de' preti, frati, abbati, abbadesse,
monaci, monache, piovani, provosti, vescovi, o altre cose sacre, ma
si mutino lj nomi; o si faccia per altro modo che parrà meglio».
Il Decameron apparve nell'Indice dei libri proibiti alla lettera B
nel seguente modo: «Boccacci Decades seu novellae centum quae
hactenus cum tollerabilibus erroribus impressae sunt et quae
posterum cum eisdem erroribus imprimentur». Traduzione: Le decadi di
Boccaccio o Cento Novelle che finora sono state stampate con errori
intollerabili e che in futuro saranno stampate con i medesimi
errori.
Nel 1573 l'Inquisizione commissionò a degli esperti fiorentini,
Deputati, il compito di "sistemare" il testo fiorentino per
eccellenza. Non esiste accordo sull'identità dei Deputati alla
revisione del Decameron, ma le ipotesi plausibili sembrano essere
due. La prima considera tre componenti: Vincenzo Borghini,
Pierfrancesco Cambi, Sebastiano Antinori. La seconda ne considera
quattro: Vincenzo Borghini, Sebastiano Antinori, Agnolo Guicciardini
e Antonio Benivieni. Tra i membri del gruppo emerge Vincenzo
Borghini, riconosciuto come il vero promotore della censura del
Decameron.
Essi, ricevuto dalla Chiesa di Roma il Decameron segnato nei passi
da modificarsi, procedettero con armi diverse, con ragioni
culturali, tradizionali, filologiche e retoriche alla difesa del
Decameron, tentando di salvare il salvabile. Quindi alla Chiesa di
Roma spettò direttamente la censura vera e propria, mentre la
specializzazione linguistica e filologica spettò ai Deputati.
Il 2 maggio 1572 tornò a Firenze la copia ufficiale autorizzata
dall'Inquisitore di Roma per la stampa, ma solo il 17 agosto 1573 il
testo venne stampato. L'anno successivo il testo dell'opera ridotta
fu accompagnato da "Le Annotazioni di discorsi sopra alcuni luoghi
del Decameron", una raccolta di considerazioni linguistiche e
filologiche che cercavano di giustificare le scelte fatte durante le
singole fasi della rassettatura. Il Decameron dei Deputati si
ritrovò poco dopo proibito dalla stessa Inquisizione, e conobbe
perciò solo un'edizione.
Il Decameron conobbe nel 1582 un'altra edizione curata da Leonardo
Salviati. Sembra che sia stato lo stesso Salviati che, tramite il
suo protettore Jacopo Buoncompagni, spinse la curia romana a
chiedere una nuova censura del Decameron. Infondata è l'ipotesi
avanzata, secondo cui la nuova rassettatura si sarebbe resa
necessaria perché i Deputati avrebbero rivelato una certa
trascuratezza sul terreno della morale, soprattutto sessuale,
lasciando insomma troppo correre sulla lascivia del testo.
In realtà il Decameron di Salviati piuttosto che una vera e propria
edizione fondata sui risultati di ricerche originali, appare una
correzione dell'edizione precedente. Ne deriva che mentre i Deputati
di Borghini si limitarono a tagliare, Salviati modificò, o più
precisamente, che mentre i primi intervennero sul testo, il secondo
censurò anche la lettura, facendo ricorso a glosse marginali, per
svolgere apertamente una funzione di mediazione fra il testo e il
lettore, per dare un'interpretazione univoca. L'operazione di
Salviati risparmiò 48 novelle, mentre ne modificò 52.