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Scrittore italiano (Napoli 1861-Catania 1927).
Siciliano per parte di madre e per educazione, studiò a Catania e fin dal 1881 fu amico di Verga, che lo introdusse nei salotti di Milano, e di P. Bourget, che conobbe in Sicilia. Il suo primo volume di novelle, La sorte (1887), riecheggia la concezione verghiana dei "vinti", togliendole ogni afflato epico, come risulta dal primo racconto, La disdetta, rappresentazione di un ambiente di nobili decaduti e rovinati dal demone del gioco: uno degli esiti più alti della narrativa derobertiana. Nella raccolta Documenti umani (1888) si rivela per la prima volta l'influsso di Bourget: uno psicologismo retorico ed enfatico che ritorna, insieme con il più vieto armamentario romantico, nel romanzo autobiografico Ermanno Raeli (1889).
L'ambivalenza di De Roberto, distaccato narratore verista e, insieme, "capofila degli scrittori d'analisi" (D'Ambra), si può constatare nei due volumi di racconti, pubblicati contemporaneamente nel 1890: Processi verbali, in cui il canone verista dell'impersonalità si irrigidisce e si disumanizza, e L'albero della Scienza, dove, al contrario, prevale una tematica soggettiva, ispirata a un misticismo erotico e cerebrale. Nel secondo romanzo, L'illusione (1891), l'ambiguità si risolve conciliando verismo e psicologismo sul piano della più minuta adesione ai casi della vita quotidiana e della precisione con cui è profilata la protagonista, Teresa Uzeda.
Nel 1894 De Roberto pubblicò I Viceré, grandioso affresco di vita aristocratica siciliana e acuta interpretazione del fallimento del Risorgimento. Il soggetto storico sarà ripreso nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, la cui fama ha richiamato l'attenzione sul romanzo di De Roberto, riabilitandolo dalla troppo sommaria condanna di Croce.
Dopo I Viceré, che ebbe una stanca prosecuzione ne L'Imperio (postumo, 1929), la vena dello scrittore si esaurisce: nulla aggiungono alla sua fama lo psicologismo esasperato di Spasimo (1897) o le elucubrazioni di psicologia amorosa (L'amore, fisiologia, psicologia, morale, 1895; Una pagina della storia dell'amore, 1898; Come si ama, 1900; La messa di nozze, 1911); più degni di ricordo i racconti ispirati all'orrore della guerra (La Cocotte, 1920; La paura, 1927) e alcuni lavori teatrali, come Il rosario (1912). L'operosità critica di De Roberto è raccolta nei volumi Arabeschi (1893), Colore del tempo (1900), L'arte (1901); si ricordano, in particolare, un saggio su Leopardi (1898) e soprattutto i saggi su Verga, raccolti in volume nel 1964 con il titolo Casa Verga e altri saggi verghiani.
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DBI
di Graziella Pulce
Nacque a Napoli il 16 genn. 1861. Il padre, Ferdinando,
ufficiale di stato maggiore della piazza di Napoli, allora
quarantenne, era discendente di illustre famiglia, dotto e chiaro
spirito di soldato e di gentiluomo (Patané). La madre, donna
Marianna degli Asmundo, di Trapani, apparteneva ad una nobile
famiglia di origine catanese. Natole un secondo figlio, Diego, il 25
dic. 1871, e rimasta vedova, donna Marianna ritornò a Catania
e qui il D. compì gli studi superiori nell'istituto tecnico,
sezione fisico-matematica, conseguendo il diploma nel 1879. Nello
stesso anno si iscrisse al corso di scienze fisiche, matematiche e
naturali dell'università di Catania. Solo più tardi, e
per suo conto, avrebbe intrapreso lo studio dei classici e in
particolare del latino. Appena diciottenne, suoi scritti compaiono
sulla Rassegna settimanale di Firenze (in occasione dell'eruzione
dell'Etna), sulla Rivista europea di Firenze e sull'Esploratore di
Milano.
Abbandonati gli studi universitari, nel 1881 il D. iniziò
l'attività letteraria vera e propria con la pubblicazione e
la direzione di un settimanale, il Don Chisciotte (13 febbr. 1881-12
sett. 1883), ove, seguendo la moda inaugurata dal Fanfulla,
firmò gli articoli con uno pseudonimo (Cardenio o Anonimo).
Frattanto ebbe modo di conoscere L. Capuana, che mostrò di
apprezzarlo, stringendo con lui una duratura amicizia.
Nello stesso 1881 intervenne nella polemica sorta tra Mario
Rapisardi e Giosuè Carducci curando, per i tipi dell'editore
catanese Giannotta, un libretto, GiosuèCarducci e Mario
Rapisardi. Polemica, Catania 1881, nel quale auspicava una pronta
riappacificazione. Ma la prefazione non piacque al Carducci che se
ne risenti tanto che essa scomparve nelle edizioni successive senza
che per questo il D. desistesse nel suo tentativo di riconciliare i
due.
All'inizio dell'82 diventò il corrispondente da Catania del
Fanfulla di Roma, con una serie di lettere intitolate "Echi
dall'Etna" che firmò con lo pseudonimo HamIet. Nella
primavera dell'83 inviò al Capuana, direttore a Roma del
Fanfulla della domenica, una novella, La malanova, che fu
però rifiutata perché giudicata troppo irta di
sicilianismi. Divenuto quindi collaboratore della casa editrice
Giannotta, il D. fondò la collana narrativa dei "Semprevivi",
avendo così modo di frequentare da vicino non solo il Capuana
ma anche - tra gli altri - Giovanni Verga, con il quale
iniziò un'amicizia continuata fino alla morte di questo.
Appartengono a tale periodo numerosi articoli critici di letteratura
e arte su autori quali Flaubert, Zola, Capuana, Serao e Cesareo, poi
raccolti in volume col titolo Arabeschi (Catania 1883). Nel 1884
iniziò la sua collaborazione al Fanfulla della domenica, che
continuerà fino al 1890. Qui pubblicò un gruppo di
novelle di carattere psicologico e mondano che saranno ripubblicate
nella raccolta Documenti umani (Milano 1888), nelle quali già
si ravvisano con chiarezza quella scrupolosità della
osservazione, quella sincerità di espressione e
impersonalità di esecuzione che guideranno le sue scelte
letterarie ed estetiche anche nella maturità. Leggeva e
traduceva poeti e narratori stranieri, soprattutto francesi, e si
cimentava pure nella poesia con i sonetti, enfatici e acerbi, di
Encelado, che pubblicò solo qualche anno più tardi
(Catania 1887). Sempre a Catania vide la luce la raccolta di novelle
La sorte (1887), che Treves gli aveva rifiutato.
Praticamente ignorati dalla critica, i racconti furono apprezzati
dal Capuana, che ne lodò "la fermezza della mano, la
precisione del tocco, la giusta misura". Di ispirazione
prevalentemente verghiana, in La sorte l'obiettività e
l'impersonalità sono programmatiche, la scrittura essenziale,
spoglio il linguaggio delle cose. In La disdetta, il migliore di
essi, la figura della protagonista è tracciata con sicurezza
ed efficacia e la passione morbosa per il gioco adombra la
fatalità della sorte che l'attende, incarnata nella decadenza
fisica e poi nella morte, motivi che troveranno piena espressione
nei Viceré.
A questo periodo risale la prima idea di Ermanno Raeli (Milano
1889), inizialmente concepito come uno dei Documenti umani, romanzo
fortemente autobiografico nel quale è narrata la storia di un
uomo e dei fallimenti che lo conducono al suicidio.
Alle suggestioni contenutistiche e formali connesse al non rifiutato
magistero verghiano si affianca ora uno studio analitico dell'anima,
e ciò contribuisce a proiettare Ermanno Raeli, personaggio
individualistico ed egocentrico, irresoluto e incapace di
autodeterminazione, nel mondo dei vari Andrea Sperelli, Daniele
Cortis e Des Esseintes, accanto cioè a quelle figure tipiche
del decadentismo europeo nelle quali si rivela la malattia dello
spirito, quelle in cui - secondo la definizione dell'autore - "il
pensiero precede l'esperienza, invece di assoggettarvisi".
Seguì un periodo di alternanza tra novelle naturalistiche di
argomento siciliano (come già La sorte e i successivi
Processi verbali, Milano 1890) e novelle di carattere
psicologico-sentimentale (Documenti umani, cit., e L'albero della
scienza, ibid. 1890). I Documenti umani (come pure le più
tarde note psicologiche de Gli amori) sono sempre percorsi e
talvolta soffocati da una struttura riflessiva che non permette
quasi mai la simpatia con personaggi e situazioni.
Aprioristici e raziocinanti nel delineare figure malinconiche di
vinti da un destino avverso, descrizione di anime fragili, dominate
da una perpetua crisi di inquietudine, questi racconti si avvicinano
visibilmente allo psicologismo bourgettiano e alla "maniera" del
Verga di Eros e di Tigre reale. Con L'albero della scienza il
documento, elemento cui il D. non rinuncia e che resta comunque al
centro della sua narrazione, è ravvivato da un'indagine
psicologica che spesso si avvale della tecnica del discorso
indiretto. Compare la figura innovativa dell'uomo alienato che
assiste sorpreso e impotente al compiersi tragico del suo destino. A
questo periodo si può ricondurre il trapasso del D. dal
verismo come ispirazione diretta della realtà ad una
prospettiva più ampia, che accoglie notevoli elementi di
soggettività di fronte ai quali il documento non è
più il solo depositario del vero. Ora l'attenzione dello
scrittore si estende anche ai sentimenti e alle loro complesse
interazioni, e viene riconosciuto loro un ruolo sempre più
determinante. La lezione dei romanzieri francesi - decisiva per
intendere questo ampliamento d'orizzonte - indirizza la sua indagine
che si fa più intellettualistica, più attenta alla
casistica erotica dei personaggi d'eccezione e alla loro trama
psicologica, anche se il tutto non si allontana mai dalla percezione
e dalla consapevolezza della gratuità del gioco
intellettuale.
In questi anni, intensi e ricchi sotto il profilo sia umano sia
intellettuale, si rivelò importante per lo sviluppo della
personalità letteraria del giovane D. l'incontro con Paul
Bourget (dicembre 1890), del quale proprio in questa occasione
tradusse alcuni degli Aveux. Continuava la frequentazione (con il
piacere della conversazione e di lunghe passeggiate per certi versi
"rituali") di una cerchia ristretta di amici, tutti scapoli: Clerle,
segretario di prefettura, il conte Guido Viani, Sabatino Lopez, che
aveva ottenuto la cattedra di letteratura italiana a Catania, e
Giovanni Verga, il più illustre della brigata, al cui fianco
il D. camminava "adorante e riamato" (Lopez). Se il D. riconobbe
sempre in Capuana e Verga i suoi maestri, è certo però
che al secondo in particolar modo andarono oltre che l'ammirazione
anche una vivissima devozione e un caldissimo affetto. Instancabile
intanto continuava la sua collaborazione a giornali e riviste: tra i
più importanti, la Nuova Antologia, L'Illustrazione italiana,
La Rivista d'Italia, La Lettura, Il Giornale d'Italia, Il Secolo XX,
Il Giornale di Sicilia.
Nel 1890 lavorò a L'illusione, che pubblicò nel giugno
dell'anno successivo presso la casa editrice Galli di Milano. Il
romanzo tende a conciliare le due esigenze che più gli stanno
a cuore: quella, primaria, dell'assoluta fedeltà al vero, e
quella dell'indagine psicologica del personaggio. La soluzione
è un romanzo psicologico nel quale però l'autore si
faccia, secondo le sue stesse parole, "storiografo del vero".
La nuova formula gli dà più ampio respiro e gli
consente di seguire, dall'infanzia alla morte, tutte le vicende
della protagonista, la principessa Teresa Uzeda di Francalanza.
Sulla linea del realismo di Flaubert e Maupassant, il narratore
rinuncia a mettere in campo la propria voce (se non con rarissime
eccezioni e sempre in modo ben riconoscibile), ricorrendo ad una
tprospettiva ristretta" (Lavagetto), quella di Teresa: tutto
ciò che si descrive risente direttamente del punto di vista
della protagonista e delle cose e delle persone che attraversano la
sua vita. L'autore non riferisce né da giudizi che non siano
o possano essere quelli di lei, senza venire mai meno in tutto il
romanzo a questa tecnica della "focalizzazione interna". Pur
considerato migliore dell'Ermanno Raeli, al romanzo nuocciono la
scoperta somiglianza con Madame Bovary e la monotonia con cui sono
ripresentati dialoghi e situazioni tipici dell'aristocrazia: "Pare,
leggendo, come se tutte le donne e gli uomini dei racconti di questa
sorta di passioni e avventure amorose, sieno convenuti nel romanzo a
ripetere stancamente le parti da loro innumeri volte recitate"
(Croce).
Ben presto, quasi a modellare la sua stessa biografia su quella dei
"maestri", si trovò a seguirne le tracce: come avevano
già fatto il Verga e il Capuana, il D. lasciò Catania
per Firenze, subito abbandonata per una Milano in piena espansione
culturale, aperta alle novità d'Oltralpe ancor più
ricca di fascino "europeo" per chi veniva dalla provincia e della
provincia avvertiva acutamente e soffriva il grigiore e l'angustia
culturale. Il Verga lo introdusse negli ambienti colti e
favorì gli incontri con Treves, Boito, Praga, Giacosa,
Camerana; cominciò insomma un periodo di intensa
attività mondana e letteraria. Il nuovo romanzo, cui stava
lavorando, Realtà, era però così triste che
egli non riuscì ad andare oltre la metà del primo
capitolo. Sempre a Milano ebbe la prima idea dei Viceré che
iniziò a scrivere appena tornato a Catania e la cui stesura
lo occupò interamente per tutto il '92 fino al luglio del '93
- quando consegnò il manoscritto all'editore - e che
proseguì per altri otto mesi nella correzione delle bozze. Il
D. si rivelò un perfezionista, infaticabile correttore di se
stesso, mai veramente soddisfatto della sua scrittura. L'attenzione
scrupolosa con cui controllava le fonti documentarie di cui si
servì per conferire alla narrazione l'auspicato statuto di
"vero" (parzialmente negato dal Grana proprio per quanto riguarda i
Viceré) diventa quasi ossessiva necessità di ordine e
di chiarezza. Non più biografia di un singolo ma osservazione
di un'intera famiglia attraverso tre generazioni; il D. passa al
romanzo storico, pienamente consapevole di tutti i mutamenti di
stile, struttura e tono narrativo conseguenti a tale mutato
obiettivo.
Dai moti del '59 alle elezioni politiche dell'82, i Viceré,
opera tra le più significative del verismo italiano,
tracciano la storia degli Uzeda di Francalanza, aristocratica
famiglia siciliana discendente dei viceré spagnoli che riesce
a fronteggiare e a superare tutti gli ostacoli derivanti dai moti
risorgimentali e dal mutato assetto politico italiano. Ne risulta
che dopo più di un ventennio di rivolgimenti storici
all'apparenza eccezionali, la situazione della Sicilia si presenta
in sostanza immutata: il dominio delle aristocrazie viene
riconfermato e sancito dal successo elettorale di Consalvo, il
rampollo degli Uzeda, un arrivista ambizioso e senza scrupoli che
per puro calcolo politico si fa sostenitore dei più attuali
ideali di democrazia e di socialismo. L'autore descrive
analiticamente tutti i pur numerosi personaggi senza perdere mai
l'occasione per ribadire quella sottile ma ineludibile
continuità spirituale - e perfino somatica - che segna il
trionfo delle leggi naturalistiche anche nell'ambito della storia
umana, dove al di là di ogni apparenza di rivoluzione o di
cambiamento politico resistono e vincono solo i più forti,
coloro che più presto e meglio sanno adattarsi alle
circostanze, quali che siano, per poi servirsene. Su tutti gli altri
della famiglia (Consalvo, don Blasco, Lodovico, Raimondo, don
Gaspare, Lucrezia, donna Ferdinanda e molti altri) incombe la figura
della vecchia Teresa, principessa di Francalanza, la cui morte, che
pure apre il romanzo, non rende la presenza meno ossessiva.
Orgogliosa, dispotica, avida, calcolatrice e ingiusta anche verso i
suoi figli, questa matriarca assomma in sé tutti i caratteri
negativi della famiglia, sui quali l'autore indugia con sguardo
freddo, ironico quando non deformante fino al grottesco, con
l'intento di mostrare la decadenza, la corruzione, la follia che il
sangue degli Uzeda, inevitabilmente contaminato da un potere troppo
a lungo esercitato, trasmette ereditariamente. Ciascuno dei
personaggi sembra infatti chiuso dentro i confini di questo
patrimonio che è genetico e spirituale insieme, imprigionato
nelle sue stesse ambizioni, nei suoi pregiudizi e nelle sue
meschinità. Espressione tra le più significative del
pessimismo dell'autore è il feto mostruoso partorito da
Chiara Uzeda. Talora non compresa appieno dalla critica (sono note
le stroncature del Croce e del Russo), tutta l'opera del D., e i
Viceré in particolare, documentano due crisi: quella della
letteratura verista e della cultura positivista da una parte e
quella della borghesia postrisorgimentale dall'altra (Tedesco). In
questa prospettiva il pessimismo storico, il cerebralismo e il
criticismo che caratterizzano tanta parte della lezione derobertiana
sono da considerare tra i diretti antecedenti delle problematiche di
Pirandello, Jovine, Brancati, Tomasi di Lampedusa e di altri autori
fondamentali del Novecento italiano (Spinazzola).
Nello stesso 1893 egli iniziò a scrivere L'imperio, al quale
attenderà per lungo tempo e che lascerà incompiuto
(Milano 1929; ma si veda l'edizione curata da C. A. Madrignani,
ibid. 1981): terzo romanzo del cosiddetto "ciclo degli Uzeda",
è imperniato sulle vicende politiche di Consalvo a Roma e
costituisce dunque la diretta continuazione dei Viceré; non
è però fra i migliori del D., privo com'è di
quel vigore e di quella tensione narrativa che invece animano - il
confronto è inevitabile - i Viceré.
Consalvo Uzeda ha perduto i suoi tratti caratteristici di cinico,
padrone di sé e delle situazioni; a confronto con l'ambiente
politico della capitale la sua figura finisce con lo scadere e
l'immiserirsi in quella di un avventuriero, mentre la narrazione si
fa disorganica e si perde tra divagazioni e annotazioni
cronachistiche. Il punto di partenza, il rimpianto per gli ideali
del Risorgimento traditi da un ceto parlamentare sollecito
unicamente dei propri interessi di carriera, diventa in
realtà un pretesto per dare sfogo a una concezione cupamente
pessimistica, fino ad intrecciare il tema del suicidio individuale
con un nichilismo cosmico che vede nella prospettiva
dell'autodistruzione della specie umana l'unica soluzione del
problema dell'esistenza.
Nell'agosto del '94 uscì Iviceré (Milano), mentre a
Lipsia venne tradotto l'Ermanno Raeli. Nel luglio del '95 il D. era
a Milano, dove l'anno successivo vide la luce L'amore. Fisiologia,
psicologia, morale, saggio che gli valse l'ammirazione di C.
Lombroso e P. Mantegazza. Tornò poi a Catania per una vita
sempre più insofferente; lavorò a Spasimo, un romanzo
pubblicato a Milano nel 1897, l'anno stesso in cui iniziò la
sua collaborazione al Corriere della sera, durata fino al 1910;
collaborò saltuariamente a Roma di Roma. Giornale
politico-letterario quotidiano (1896-97), che dal marzo 1897 si
trasformò nel settimanale Roma. Rivista politica
parlamentare, con articoli di letteratura. Soggiornò di nuovo
a Milano per qualche mese, scrisse articoli per L'Illustrazione
italiana di Treves, lavorò alla monografia Leopardi (Milano
1898) e al rifacimento di Spasimo che aveva accettato di adattare
per il teatro (da allora venne spesso chiamato o citato
scherzosamente col nome di uno dei personaggi, Zakunine).
In questo romanzo il protagonista, l'intellettuale ginevrino Roberto
Vérod (evidente allusione ad Edouard Rod, scrittore
svizzero-francese amico del D.), ripropone alcuni dei tratti di
Ermanno Raeli: anche per lui la vita è una morte continua,
oppressa da un'incessante tensione autoanalitica e raziocinante che
gli fiacca la volontà e gli preclude ogni possibilità
di azione. Il sentimento amoroso è rappresentato come
esperienza eccezionale, acceso da una morbosa sensibilità
erotica che la protagonista, Fiorenza d'Arda, esaspera nel rispetto
di canoni tardoromantici della donna dai tratti angelicati, pallida
e astratta.
Sono questi gli anni nei quali affiorò con maggiore vivezza
la passione segreta e sfortunata del D. per il teatro, confessata in
una lettera spedita a Lopez da Milano nel maggio 1897 e testimoniata
dalla cura straordinaria che pose a Spasimo, protratta
infaticabilmente e puntigliosamente per lunghi mesi. Il ritorno a
Catania, dovuto all'imminente matrimonio del fratello Diego
(annunciato per settembre), non fu dei più felici anche
perché veniva a coincidere con un momento di stanchezza
intellettuale e di sconforto; fu certamente solo atto di obbedienza
e devozione verso la madre, alla quale avrebbe sacrificato il suo
tempo e i suoi sogni di carriera, nonché la sua stessa vita
affettiva (significativo a questo proposito l'abbandono di Renata,
una donna conosciuta a Milano e da lui molto amata). Tornato a casa,
continuò a lavorare a Spasimo, che ristrutturò
specialmente per quanto riguarda i dialoghi, con l'occhio attento
alla scrittura di Dumas figlio, a proposito del quale
confessò a Lopez: "mi ha aperto gli occhi" (lettera del 13
ott. 1898).
L'insofferenza per l'ambiente siciliano si rifletté nello
stato di abbandono cui si lasciò andare: quello stesso D. che
fino ad allora si era sempre distinto per l'eleganza e la fierezza
del portamento "a Catania apparve disadorno e negletto" e a chi
gliene chiedeva ragione rispondeva: "qui siamo in campagna"
(Villaroel, 1954). Comunque, la vita di provincia non
affievolì del tutto la sua vena letteraria (come era invece
accaduto per Verga): continuava a scrivere con l'impegno e l'amore
di sempre, anche se la vita appartata contribuiva all'indebolimento
della sua fama nel continente. Di fronte ad una vena creativa che
sembrava esaurirsi e non riusciva più ad attingere agli esiti
delle prime prove, la critica fu concorde nel considerarlo ormai ben
oltre la sua stagione migliore. Accanto alla raccolta Gli amori
(Milano 1898), lettere immaginarie indirizzate a un'aristocratica
lettrice, o ai saggi di Come si ama (Torino 1900), nei quali la
riflessione si appunta sugli amori di grandi personaggi della storia
- Bismarck, Napoleone, Lassalle - o della letteratura - Rousseau,
Balzac, Goethe, ecc. - egli continuava una narrativa condotta ancora
secondo i canoni dell'indagine psicologica, anche se priva ormai di
novità d'ispirazione e di freschezza d'immagini. Cominciava a
sentire con particolare amarezza il decadere della sua fama, che
pure era stata sempre associata e necessariamente subordinata a
quella del Verga e del Capuana. In un'intervista fattagli da Lucio
D'Ambra però affermava: "ci sono due modi di servire la
letteratura: darle orgogliosamente capolavori o sacrificarle
modestamente la nostra vita ... a noi appartiene il dovere di
onorare di per dì la professione letteraria" e ancora:
"dicono tutti che io debba a Verga la mia arte. Può essere e
può anche non essere. Ma devo certamente a lui la
dignità della mia vita di scrittore e il mio silenzio".
Nel 1901 pubblicò a Torino L'arte e, a Milano, la seconda
edizione dell'Illusione. Nel settembre si recò per un breve
tempo a Milano e vi tornò nel marzo successivo. Nel gennaio
del 1903 era a Roma, ma lo stato di prostrazione successivo a una
grave crisi di natura psicologica lo spinse a cercare sollievo
nell'aria salubre di Zafferana Etnea. Tuttavia né questo
rimedio né i consulti con i più illustri specialisti
di malattie nervose riuscirono a liberarlo - se non per brevi
periodi - da un disturbo che gli impediva di lavorare e di studiare
e gli toglieva ogni interesse. Nominato sopraintendente onorario per
i monumenti della provincia, scrisse articoli e monografie di
carattere storico e artistico, e per questi lavori, nonostante le
ristrettezze economiche, non accettò mai compenso.
Pubblicò Catania (Bergamo 1907), una guida artistica con
fotografie; la fotografia fu infatti un'attività nella quale
sempre si produsse, anche se mai con troppo impegno. Nel 1909
pubblicò un'altra guida, Randazzo e la Valle dell'Alcantara
(Bergamo), mentre nel 1927 raccolse gli articoli dedicati alla sua
città col titolo Il patrimonio artistico di Catania
(Catania). Nella speranza di riprendere a lavorare all'Imperio e con
l'intento di documentarsi ulteriormente sulle abitudini e sui
costumi dei parlamentari, nell'autunno del 1908 si recò a
Roma. Continuò la sua collaborazione a periodici quali La
Lettura e la Nuova Antologia. Nel 1911 terminò e
pubblicò un nuovo romanzo, La messa di nozze (Milano), che
sottopose - con esito favorevole - al giudizio di S. Lopez (peraltro
adombrato nella figura di Domenico Perez).
Nominato direttore della Società degli autori al posto del
dimissionario Marco Praga, il Lopez gli propose di adattare il nuovo
romanzo per le scene. Il ritorno di fiamma per il teatro è
immediato e il D. ne ricavò una commedia, L'anello ribadito,
che spedì all'amico insieme al copione di un atto unico, Il
cane della favola. Sembrava arrivato anche per lui il momento del
successo, ma gli attori del teatro Stabile di Milano accolsero senza
entusiasmo la commedia. Insoddisfatto del lavoro, il D. lo sottopose
a numerosi rifacimenti: "credevo di poter foggiare la commedia sullo
stampo del romanzo" è l'espressione della sua autocritica. La
lettura di Ch.-M. Donnay, M. Bernstein, P.-E. Hervieu, O. Mirbeau
sembrò giovargli; seguì il consiglio di Verga di
leggere e studiare E. Augier. Ma nonostante tutti i rifacimenti La
strada maestra (questo il nuovo titolo della riduzione della Messa
di nozze) non verrà mai portata sulle scene né dalla
compagnia Praga, con la quale aveva perfezionato un accordo,
né dalla compagnia di Virgilio Talli, con il quale pure aveva
preso contatti. Pure in quello stesso anno il D. coronò il
suo sogno: al teatro Manzoni, con la compagnia Talli-Melato, venne
rappresentato Ilrosario, riduzione teatrale di un racconto
pubblicato nel 1899 sulla Nuova Antologia, che era stato fatto
precedere, quasi a bilanciarne l'inconsueta asprezza, da una
pièce del tutto convenzionale e leggera come Ilcane della
favola.
Il rosario delinea con brevi tratti la figura di una madre che
spadroneggia sulle figlie, mature zitelle, alle quali impedisce di
portare aiuto a un'altra figlia che si è svincolata dal suo
giogo e che per questo è stata ripudiata. La prima, del 29
nov. 1911, segnò un grave insuccesso di pubblico, mentre
generalmente favorevole fu il giudizio, della critica; la terza sera
Ilrosario venne tolto dal cartellone.
Per il D. fu una delusione amarissima e, affranto, si rifugiò
a Roma, in casa del fratello. Ma la passione per il teatro lo
tentava ancora: il mese successivo scrisse al Lopez di un altro suo
lavoro drammatico, La prova del fuoco, di cui però non si
saprà più nulla (Barbina). Il fascino della scena
tuttavia rimaneva immutato: il teatro è - aveva dichiarato ad
Ojetti (1895) - "una forma inferiore d'arte", ma nei Processi
verbali ammetteva: "l'ideale della rappresentazione obbiettiva
consiste nella scena ... l'impersonalità assoluta non
può conseguirsi che nel puro dialogo". Il 30 maggio fu
ripresa la rappresentazione del Rosario che suscitò ancora
dissensi e venne ritirata. Nel 1913 pubblicò a Milano Le
donne, i cavalier..., che raccoglie saggidi carattere
erotico-moralistico. La vigilia della guerra lo vede affaccendato
intorno al Leopardi, al quale lavorò con estrema
faticosità, facendolo e disfacendolo più volte. Nel
luglio del '17 venne colpito dalla flebite, un male dal quale non
riuscirà più a guarire e che gli procurò
dolorosi disagi. Nei periodi trascorsi a Zafferana Etnea mantenne
una fitta corrispondenza, specialmente con la madre, che
quotidianamente metteva al corrente del suo stato di salute e della
sua attività artistica, confidandole dubbi e amarezze.
Biglietti affettuosissimi scriveva anche alla nipotina Nennella, che
lui e donna Marianna avevano accolto in casa dopo la morte di Diego.
Nel 1918 fu nominato bibliotecario della Biblioteca civica di
Catania. Nello stesso anno Nino Martoglio gli manifestò
l'intenzione di rappresentarlo in dialetto siciliano e il 25 gennaio
successivo la compagnia del teatro Mediterraneo, diretta dallo
stesso Martoglio, presentò Ilrosario insieme a Ilciclope di
Euripide. Il dramma venne accolto favorevolmente, soprattutto da
parte della critica. Compose quindi una serie di racconti, indicati
generalmente come "novelle della guerra". Questo "secondo
sperimentalismo" derobertiano (Tedesco, 1972) che va dal '19 al '23
si concretò nelle raccolte Alrombo del cannone (Milano 1919),
All'ombra dell'ulivo (ibid. 1920), di carattere saggistico, La
"cocotte" (ibid. 1920) e L'ultimo voto (ibid. 1923), nonché
La paura, edita postuma nel 1929 sulla Fiera letteraria.
Queste "novelle della guerra" sembrano testimoniare un ritorno alla
narrazione di tipo naturalistico, e il dato di maggior rilievo
è rappresentato dall'adozione di una pluralità di
linguaggi, a loro volta espressioni della pluralità degli
antagonismi sociali (come nella Paura). Il pastiche linguistico -
variamente ripreso nell'espressionismo novecentesco - permette pure
di intravvedere una qualche sfasatura tra il conservatorismo e il
nazionalismo professati dal D. (che accolse con simpatia il fascismo
come apportatore del "nuovo") e la sincera comprensione delle
sofferenze dei proletari in guerra (Tedesco, 1981).
Nel 1923 ripubblicò l'Ermanno Raeli in un'edizione riveduta e
accresciuta di un avvertimento, di un'appendice di carattere
autobiografico, delle sue poesie giovanili e di alcune traduzioni
dal francese. Tra il 20 e il 21 febbr. 1923 la madre fu colpita da
un grave malore che la rese inferma e sofferente fino alla morte (22
nov. 1926): il D. l'assistette con le cure più amorevoli,
trascurando ogni altra attività. La sua morte fu per lui uno
strazio irreparabile: "quattro anni vissi sotto la minaccia di
questo colpo, ma tanto tempo non bastò, e non sarebbe bastato
neanche uno più lungo, a prepararmi". Da quel dolore non si
riprese più. Pochi mesi dopo, colpito da lipotimia,
morì a Catania coi conforti religiosi (in precedenza si era
professato e dimostrato scettico e agnostico in fatto di religione)
il 26 luglio 1927. Per contrasti sorti tra Sabatino Lopez e le
autorità fasciste, la commemorazione pubblica che gli amici
catanesi avevano richiesto non ebbe luogo.