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Scrittore italiano (Milano 1851-1901).
Laureato in lettere, insegnò stilistica all'Accademia scientifico-letteraria di Milano e collaborò a numerose iniziative pedagogiche e filantropiche: più che L'età preziosa (1888), raccolta di precetti per gli adolescenti, l'espressione più significativa di questo suo impegno morale è La buona parola, un periodico per gli operai che, pubblicato dopo la repressione sanguinosa dei tumulti popolari milanesi del 1898, raggiunse tirature altissime.
Nelle sue pagine il manzoniano De Marchi operava una riduzione del problema sociale nei limiti di un'educazione morale e di una collaborazione tra le classi; ma l'ideologia religiosa dello scrittore era contraddetta da uno stato d'animo inquieto e tormentato, su cui agiva il fermento della Scapigliatura: tale intimo contrasto si avverte anche nella lingua "italiano-lombarda" di De Marchi, in cui il tentativo di una simbiosi tra dialetto e lingua oscilla tra esiti letterari e tono parlato.
I personaggi di De Marchi sono "anime belle" che non riescono a stabilire un rapporto concreto con la vita reale: personaggio-archetipo è il protagonista del capolavoro Demetrio Pianelli (1890), che personifica la sanità morale e la fervida operosità meneghina, ma è travolto dalla passione amorosa fino alla sconfitta e alla rinuncia; seguono Arabella (1892), la cui protagonista eponima è una creatura fragile e umbratile, spinta al suicidio dalla volgarità dell'ambiente; Giacomo l'idealista (1897) dove, al di là del fallito dramma intellettuale del protagonista, dovuto al programmatico atteggiamento antispeculativo dell'autore, il vero nucleo è da ricercare nel dramma di Celestina, che rinnova quello di Arabella; e, infine, Col fuoco non si scherza (1901), in cui lo schema "demetriano" si complica in un conflitto di sentimenti che scade nel gusto più trito del romanzo d'appendice.
Ben diversi risultati, in quest'ultima direzione, De Marchi aveva raggiunto nel suo primo romanzo, Il cappello del prete (1888), pubblicato a puntate sull'Italia di Milano e sul Corriere di Napoli: vi era palese il proposito di nobilitare il genere del romanzo d'appendice, intrecciando elementi macabro-criminali, alla Poe, con la rappresentazione veristica, pittoresca e farsesca dell'ambiente partenopeo.
Sono infine da ricordare le poesie di timbro crepuscolare (Vecchie cadenze e nuove, 1899), i saggi, alquanto modesti, di critica letteraria (La letteratura: definizione, 1882) e la raccolta di prose Milanin Milanon (postumo, 1902), in cui sono evocati angoli e prospettive della vecchia Milano.
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DBI
di Lucia Strappini
Nacque a Milano il 31 luglio 1851 da Giovanni e Caterina Perego. A
soli nove anni gli morì il padre, lasciando una famiglia
numerosa di cui si assunse il carico la madre, donna energica e
coraggiosa con un passato di combattente durante le Cinque giornate
quarantottesche. Il D. frequentò dal 1863 al '71 la scuola e
il liceo "Beccaria", poi l'accademia scientifico-letteraria dove si
laureò in lettere nel 1874.
Dal 1876 al '78 insegnò presso il collegio "Calchi Taeggi" ed
ebbe quindi un incarico di insegnamento di italiano in un liceo
milanese. Nel 1879 prese il posto di E. Camerini come segretario
dell'accademia scientifico-letteraria e sempre presso l'accademia
sostituì nella docenza Paolo Ferrari (1883-85); conseguita la
libera docenza in stilistica (1890), vi insegnò questa
disciplina fino al 1900 quando fu costretto a ritirarsi per ragioni
di salute. Aveva sposato nel 1880 Lina Martelli, dalla quale ebbe
due figli, Marco e Cesarina. La morte della figlia quindicenne nel
'97 lo colpì duramente aggravando le sue già precarie
condizioni di salute e provocando una crisi profonda che
rischiò di intaccare anche la sua fede religiosa (cfr.
lettera di risposta ad A. Fogazzaro che gli aveva espresso il suo
cordoglio, del 21 ag. 1897, in Tutte le opere, III, 2, pp. 760 s.).
Ricoprì numerosi incarichi nella vita sociale e politica
cittadina: fu membro della commissione per la scelta dei libri di,
testo (1888), della commissione civica degli studi (1893), del
Consiglio di amministrazione degli orfanotrofi e luoghi pii (1895,
incarico che abbandonò nel '99), corrispondente dell'Istituto
lombardo, tra i fondatori del patronato scolastico delle scuole di
via S. Orsola e via Ansperto. Fu inoltre consigliere comunale
(1891-94) e ricevette la decorazione di cavaliere della Corona
d'Italia nel 1900.
Il D. morì il 6 febbr. 1901 a Milano.
Nel 1876 aveva fondato, insieme con Ambrogio Bazzero ed Ettore
Borghi, il quindicinale letterario Vita nuova che condiresse fino al
dicembre 1877 scrivendovi assiduamente, spesso con pseudonimi (Primo
De Vecchi, Primo De Novi). Quando alla fine di quell'anno si
concretizzò la fusione della Vita nuova con il Preludio di A.
Ghisleri, il D. rinunciò alla collaborazione alla rivista,
esprimendo le sue riserve di ordine ideologico allo stesso Ghisleri
in una lettera del 20 dic. 1877 (in Tutte le opere, III, 2, pp.
770-773).
In questa egli chiariva, assieme al dissenso dal radicalismo di
Ghisleri, le sue convinzioni: "Del progresso e della libertà
io mi sono formato un concetto più prudente e aborro dalle
asserzioni recise, perché so che l'uomo nella sua vita
sociale è in un continuo concambio di idee, di concessioni
reciproche, e che la prudenza è lo smalto che conserva
un'istituzione ... Il negare tutto l'oggi non lo trovo un mezzo per
giungere al domani" (p.771).
In un brevissimo arco di tempo il D. aveva consumato ogni
possibilità di cointeressamento alle ragioni più
diffuse e maturate della scapigliatura milanese, non solo sul
terreno ideologico, ma anche su quello strettamente letterario.
Nel 1874 aveva pubblicato sul Convegno la prima novella (I due
filosofi), cui seguirono Fiori naturali e fiori di carta e molte
altre che comparvero sulla Vita nuova, La Famiglia e la scuola, e
vari altri periodici. Proprio sulla Vita nuova erano usciti i suoi
primi romanzi, Il signor Dottorino nel 1876 (non ristampato in
volume, ora in Tutte le opere, I, pp. 1-100) e Due anime in un corpo
nel 1877 (in volume, Milano '78, con lo stesso titolo, insieme con
tre novelle: Lucia, Carletto in collegio, Don Asdrubale), a giudizio
della critica decisamente influenzati, ancora, dalla propensione per
la bizzarria e l'anomalo tipici di certa narrativa scapigliata
(Tarchetti e Dossi in particolare), ma dove già compaiono i
due ingredienti caratteristici della vena demarchiana: patetismo e
umorismo, non felicemente equilibrati e calibrati, ma sufficienti a
dare un tono riconoscibile, specie nel caso di Due anime in un
corpo, al suo stile narrativo. Risalgono a questi anni anche due
romanzi rimasti inediti (ora in Tutte le opere, III, 1, pp. 447-476
e pp. 481-746): la Prefazione e i primi due capitoli di Vita di un
giovane serio (presumibilmente scritto attorno al 1875) e il romanzo
completo Anime del purgatorio (circa 1880), che G. Ferrata ha letto
come "il prologo ai Ritratti e costumi di vita milanese iniziati da
De Marchi col Pianelli" (Prefazione a Tutte le opere, III, 1, p.
XIII). Sempre sulla Vita nuova uscivano contemporaneamente diversi
suoi interventi di particolare interesse perché segnano sul
versante critico il consolidarsi di una serie di idee relative alla
letteratura e al suo esercizio che si manterranno pressocché
inalterate nel corso degli anni.
Nell'articolo Fra gli estremi per esempio (16 genn. 1877, ora in
Tutte le opere, III, 1, pp. 145-149) sono espressi con chiarezza i
capisaldi del suo paternalismo populistico che rimarrà una
costante, animando la sua produzione letteraria e insieme la sua
attività sociale e civile ("importa piuttosto rinforzare
l'anima dei cittadini con quella quantità di idee morali,
civili ed estetiche, che senza essere la scienza propriamente,
mettano i più in grado di intenderla o almeno di venerarla"
(p. 146). Così recensendo le Odi barbare di G. Carducci (2
sett. 1877, ora ibid., pp. 190-198) ne criticava decisamente il
valore, nel nome della necessità per la letteratura e per la
poesia di essere popolari. Sono concetti e convinzioni che tornano,
senza rilevanti mutamenti, anche negli scritti degli anni
successivi, e che non soltanto segnano la distanza del D. dalle
tendenze scapigliate, di cui per qualche tratto sembrava aver subito
l'influenza, ma segnano soprattutto la sostanziale
impermeabilità della sua personalità civile e
letteraria ai fenomeni contemporanei.
Si troveranno, più
tardi, giudizi severi su D'Annunzio e sui suoi esperimenti
linguistici e culturali. come sulla letteratura decadentistica,
nella conferma di un'idea di letteratura efficacemente sintetizzata
in questo passo di un suo saggio intitolato appunto La letteratura
(sottotitolo Definizione) comparso in opuscolo a Milano nel 1882:
"Il più bel vero nei lavori d'immaginazione è quello
che corrisponde a queste condizioni, cioè il verosimile che
si può definire un sistema di ragioni per le quali le cose
del mondo, sparse nel tempo e nello spazio, oscure e fuggevoli,
restano fissate e dipinte in una chiarissima prospettiva di immagini
e di concetti" (ora ibid., pp. 210-241). Oltre che sulla Vita nuova,
il D. tenne rubriche letterarie su L'Italia (1884) e il Corriere
della sera (1885-88); collaborò inoltre a moltissimi
periodici tra cui: La Famiglia e la scuola (1876-77),
L'Illustrazione italiana (1880-84), I Nuovi Goliardi (1881), Scuola
classica, Patria e famiglia, La Gente per bene, La Perseveranza,
Serate torinesi, Il Pungolo della domenica, Il Caffè, La
Gazzetta nazionale, L'Italia giovane, Il Secolo illustrato, La
Rivista per le signorine, Il Focolare, La Vita internazionale,
L'Idea liberale. L'attività critica accompagnò l'intera
carriera letteraria del D., passando per gli articoli e saggi
pubblicati sui periodici, oltre che per alcuni volumi di critica e
di storia letteraria come Lettere e letterati del secolo XVIII
(Milano 1882); Prefazione a Storia di un'anima, romanzo di A.
Bazzero (ibid. 1885); Carlo Maria Maggi (ibid. 1885); Prefazione a
Un poeta: scritti di G. Marchini (ibid. 1886).
Benché cattolico, egli non fece mai trasparire nei suoi
scritti alcun elemento confessionale o apologetico, nella piena
tradizione del cattolicesimo lombardo e, benché intimamente
conservatore, con punte di aperto reazionarismo, non
partecipò ad alcun gruppo politico organizzato e fu del tutto
immune, per esempio, da quella ventata nazionalistica e patriottarda
che coinvolse non pochi intellettuali alla fine dell'Ottocento. Come
tutti i moralisti, insomma, il D. elaborò e mantenne
sostanzialmente immutato un suo corpus di idee, di principi e di
convinzioni sui quali modellò una pratica di scrittura
funzionale ai suoi propositi etici e culturali.
Naturalmente sono vive e operanti influenze e reminiscenze
letterarie, italiane e straniere, da Manzoni a Fogazzaro, da
Maupassant a Balzac, da Dickens a Gogol, da Verga a Bersezio, tutti
segnalati di volta in volta dalla critica ed altri se ne potrebbero
aggiungere. Ma, prendendo come modello il riferimento manzoniano che
è per così dire canonico, considerato l'ossequio che
sempre il D. professò nei suoi confronti (interessante al
proposito un discorso pronunciato nel Circolo popolare di Milano il
7 marzo 1885 dal titolo L'opera di A. Manzoni, ora in Tutte le
opere, III, 2, pp. 270-296), si arriva abbastanza facilmente a
concludere che la linea del manzonismo rappresenta per il D. un dato
tacitamente e quasi necessariamente acquisito (e quindi operante)
nella composita tradizione culturale milanese, essendo il Manzoni il
suo esponente di maggior spicco e di innegabile suggestione, senza
che tuttavia trascorra nulla della sostanza problematica manzoniana
nella dimensione letteraria del De Marchi. Certo, sono stati
precisamente individuati dai critici luoghi, situazioni e personaggi
ispirati al modello manzoniano, quando non addirittura su di esso
ricalcati (per esempio il personaggio del conte Lorenzo Magnenzio in
Giacomo l'idealista che richiama il don Ferrante dei Promessi sposi,
come ha notato Leone De Castris, oppure "la scena del perdono" in
Demetrio Pianelli e il "colloquio tra il vescovo e il conte
Lodovico" in Giacomo l'idealista:ed è notazione di Croce,
ecc.); tuttavia nel caso del Manzoni, come degli altri autori, si
tratta solo di riferimenti culturali variamente influenti per la
formazione della personalità demarchiana, una
personalità però che si strutturò e si espresse
in forme originali, non riconducibili direttamente ad alcuna scuola,
ad alcuna moda, ad alcuna tendenza.
Se indubbiamente la maturità espressiva (pure nei limiti
delle sue corde) fu raggiunta dal D. nei romanzi degli anni Novanta,
se ne possono cogliere indizi anche consistenti nelle novelle e nei
racconti che pubblicò incessantemente sui più diversi
periodici, raccogliendoli poi, in selezione, in vari volumi:
Storielle di Natale (Milano 1880), Sotto gli alberi (ibid. 1882),
Storie d'ogni colore (ibid. 1885), cui seguirono Racconti (ibid.
1889), Nuove storie d'ogni colore (ibid. 1895) e, postumo, Vecchie
storie (ibid. 1926).
Prevale, soprattutto nelle novelle degli inizi e degli anni Ottanta,
il gusto per l'effetto, il bozzetto, la capacità di delineare
situazioni e caratteri con pochi tratti, insomma il buon esercizio
di una forma di scrittura, quella appunto novellistica, che era
codificata da precise regole di costruzione e di espressione, per il
consumo di un pubblico formato e consolidato sui canoni facilmente
riconoscibili della piacevolezza, del garbo, della misura. Ma sono
anche diffusi molti motivi che torneranno sviluppati e intrecciati
nei romanzi. Innanzitutto, come già si diceva, la mescolanza
di umorismo e di patetismo, di tonalità e personaggi comici e
situazioni emotivamente coinvolgenti; l'ambientazione spesso
popolare e umile; l'evocazione di condizioni psicologiche dimesse,
sopraffatte dalla prepotenza e dall'aggressività dei
più forti, ma ancora più dalla durezza della vita; il
pessimismo privo di consolazioni che dominera completamente nei
romanzi maggiori, affiancato, in modo spesso non del tutto
equilibrato, all'ispirazione etica cristiana tipica del modo di
sentire più che di ragionare del D. ("forse io ragiono
più coi nervi che col cervello", lettera citata al Ghisieri,
p. 771); e infine la lingua semplice, piana, raramente sciatta e
banale, quell'impasto di dialetto e lingua, pienamente utilizzato
nei romanzi della maturità, che indusse l'Albertazzi a
definirlo scrittore "in lingua milanese".
Per tutti gli anni Ottanta la vena narrativa del D. si
manifestò in maniera pressoché esclusiva nelle novelle
e nei racconti, tra i quali conviene ricordare qualche titolo tra
quelli indicati come più riusciti: Don Carlino, La bella
Clementina, I coniugi Spazzoletti e la novella certamente più
apprezzata dalla critica Carliseppe della Coronata che anticipa in
modo stilisticamente compiuto temi e figure dei romanzi più
noti. Solo a dieci anni di distanza dai primi romanzi uscì a
puntate in appendice a L'Italia (1887) e poi al Corriere di Napoli
(1888) il romanzo Il cappello del prete (in volume, Milano 1888),
che riscosse grande successo di pubblico.
Non è, come specificava l'autore nell'avvertenza alla prima
edizione, "un romanzo sperimentale", ma "un romanzo d'esperimento, e
come tale vuol essere preso". L'esperimento consisteva precisamente
nel "provare se sia proprio necessario andare in Francia a prendere
il romanzo detto d'appendice, con quel beneficio del senso morale e
del senso comune che ognuno sa". L'intenzione di scrivere per un
pubblico vasto, sul modello della narrativa d'appendice di gran voga
in Francia e in Italia, è esplicitamente dichiarata dal D.:
"l'autore, entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si
è sentito più di una volta attratto dalla forza
potente che emana dalla moltitudine; e più di una volta si
è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori
italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza
naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell'arte nostra".
Negli anni in cui usciva Il piacere di D'Annunzio (1889) e I
Malavoglia di Verga (1888), una simile dichiarazione di poetica, per
così dire, esprime perfettamente l'orizzonte etico e
letterario del D., interprete finissimo, come sarà col di
poco successivo Demetrio Pianelli, delle condizioni di vita
più schive e schiacciate dal peso delle vicende della vita, e
forse proprio per questa sua intima consonanza, in qualche modo
necessariamente limitato a temi, personaggi e motivi racchiusi in un
cerchio predeterminato e invalicabile. La riproposizione del
tradizionale dettato dell'"istruire dilettando", sia pure passando
per le forme della comunicazione di massa più diffuse al
momento come il feuilleton, conferma la profonda estraneità
del D. ad una società letteraria che, nelle sue punte
più consapevoli e agguerrite, mirava a un rimodellamento del
pubblico, all'intervento attivo e perfino provocatorio sui gusti e
sugli umori consolidati, nelle forme elaborate da Carducci come da
D'Annunzio o da Verga. Il populismo dichiarato e programmatico
è ancora una volta la spia di una concezione letteraria
sostanzialmente conservatrice delle forme come delle tematiche.
Il romanzo sviluppa intorno all'asse portante (una trama "gialla"
con risvolti misteriosi) una serie di situazioni e di caratteri
gustosamente tratteggiati, benché concordemente sia stato
rilevato come l'ambientazione napoletana non sia affatto congeniale
al milanese D., portandolo a una pittura cittadina manierata e poco
convincente. Il nucleo del romanzo sta nel delitto che il
protagonista, il barone di Santafusca, architetta e realizza
freddamente per impadronirsi del denaro accumulato da un prete.
All'analisi della psicologia dell'assassino, pressato da una serie
di grovigli e di incidenti provocati dal cappello del prete
assassinato, si affianca, non del tutto compattamente nella
struttura, il ritratto di ambiente e di figure in cui già si
era manifestata l'abilità del D. scrittore di novelle. Il
cappello del prete ottenne un grande successo all'epoca, un successo
del resto a tutt'oggi confermato da numerose ristampe, anche in
edizioni economiche, e da una trasposizione televisiva.
Ancora in appendice a L'Italia, usciva nel 1889 con il titolo La
bella pigotta, il romanzo, considerato il capolavoro del D., che
nella pubblicazione in volume (Milano 1890) prese il titolo di
Demetrio Pianelli. Il primo nucleo del romanzo è in un testo
drammatico del 1881, I poveri di spirito, secondo un costume
consueto del D., che spesso utilizzava la stessa trama per romanzi e
testi teatrali (tra gli altri Dopo un duello, rappresentato a Milano
nel 1877, La bella pigotta, Giacomo l'idealista, Col fuoco non si
scherza). Sipossono ricordare qui, per inciso, le diverse
composizioni drammatiche del D., oltre le già citate, e
precisamente: Roncisvalle, dramma lirico in tre atti per musica di
E. Bertini, Varese 1891; 1848, dramma in tre atti, Milano 1929;
Pergolesi, dramma in quattro atti, pubblicato sul periodico Scene e
controscene, Torino 1940.
In Demetrio Pianelli l'ambiente torna ad essere quello più
congeniale al D., la Milano povera e triste dei sobborghi; il
protagonista è un modesto impiegato, abituato da anni ad una
vita solitaria e schiva, che si trova all'improvviso addossato il
peso economico e psicologico della famiglia del fratellastro
Cesarino, dopo che questi è stato praticamente costretto al
suicidio, oppresso dai debiti. Intervenendo a rimettere ordine nella
famiglia dissestata di Cesarino, Demetrio viene per la prima volta
in contatto con aspetti della vita di cui fino a quel momento aveva
ignorato perfino l'esistenza ("Demetrio, come imparasse per la prima
volta i principi d'una scienza nuova e meravigliosa, stava a
sentire, con tanto d'occhi aperti, come impiombato coi piedi sul
pavimento", in Tutte le opere, II, p. 117); nella sua esistenza
ritirata e dimessa irrompono situazioni, sollecitazioni e sentimenti
dai quali sarà travolto proprio nelle sue ragioni più
intime. Domina il denaro, simbolo dell'ingiustizia sociale e
dell'oppressione esercitata dalla società sui più
deboli; domina il senso della ineluttabilità della sconfitta
per chi, come Demetrio, non voglia o non possa condividere le regole
crudeli della convivenza civile; domina la convinzione,
profondamente radicata nel D., che al centro dell'esistenza
c'è l'amore, "al quale - scrive Croce - nessuno sa o
può sottrarsi, e che divora anime e vite" (p. 162). L'amore
silenzioso e senza speranza di Demetrio Pianelli per la cognata
Beatrice, la "bella pigotta", non ha alcuna possibilità di
esprimersi, anzi, al contrario, è la molla della rinuncia,
della sconfitta, della sanzione della sofferenza, come appannaggio
di questo e di tutti i protagonisti demarchiani. "Personaggio
dimesso e sbilanciato, Demetrio è attivo sul piano morale,
passivo e umbratilmente introverso sul piano sentimentale e
psicologico: donde la sconfitta" (D. Mattalia, pp. 3186 s.).
La perfetta consonanza delle psicologie dei personaggi con
l'ambiente, le vie, le case, i caffè, gli uffici di una
Milano colta nel brulicare della vita quotidiana della piccola
borghesia e del "popolo", richiama i moduli sperimentati del
realismo balzachiano e dickensiano, appena toccati dai canoni
imperanti della letteratura naturalista. Il fatto è che
sfuggono al D., perché non sono in sintonia con la sua vena
narrativa, tutti i precetti e le convinzioni basilari del
naturalismo e del verismo. Non c'è, prima di tutto,
impersonalità né impassibilità del narratore
che anzi, nel Demetrio Pianelli, compare come personaggio secondario
e che comunque interviene a commentare, chiosare e sempre a
governare la materia raccontata; l'unica forma stilistica di
distanza che il D. conosca e applichi è quella ironica e
umoristica che è accortamente miscelata nel succedersi degli
avvenimenti. Pienamente complementare alla vena umoristica, il
diffuso e profondo senso di pietà e compartecipazione alle
sofferenze dei suoi antieroi che è una nota assolutamente
costante e distintiva della scrittura del D., in linea con
l'ispirazione cristiana e genericamente umanitaria della sua vita
come della sua letteratura. Ancora, a segnare la distanza dal
naturalismo, non c'è nel D. intenzione documentaria e
scientifica, nonostante il sottotitolo del Demetrio Pianelli che
ritorna anche nel successivo Arabella, Ritratti e costumi di vita
milanese. Le storie romanzate demarchiane somigliano semmai
più a storie esemplari, come è stato notato, nel senso
che contengono più o meno accentuata una vis moralistica e
rimandano a un'intenzione pedagogica che, nei casi meno felici,
tende a prevalere a danno dell'equilibrio dell'opera.
Demetrio Pianelli, come i protagonisti dei romanzi successivi,
è sostanzialmente l'espressione di quel conflitto tra mondo
reale e mondo ideale che non solo il D. avvertiva come tratto tipico
della sua epoca, un periodo segnato anche sul terreno politico dalla
consapevolezza della fine della tensione risorgimentale e
dall'apertura di una fase difficile di confronto con la
realtà concreta, minuta e prosaica. Al di là delle
intenzioni e dei convincimenti soggettivi del D., oggi possiamo
vedere nei suoi romanzi, e nel Pianelli sopratutto, lo specchio di
un modo molto preciso e molto diffuso di vivere la fase
immediatamente postunitaria, per un insieme di gruppi sociali che si
suole identificare con la piccola borghesia cittadina. Di questi
strati il D. ha saputo esprimere in modo puntuale e suggestivo la
condizione esistenziale, la psicologia, gli umori fino alle
più riposte e irrisolte contraddizioni.
Il mondo chiuso, triste e disperato delineato in Demetrio Pianelli
si ritrova pienamente in Arabella, pubblicato in appendice al
Corriere della sera nel 1892 (in volume Milano 1893), che ne
è una sorta di continuazione sia perché, come si
è detto, condivide il sottotitolo del Pianelli, sia in quanto
la protagonista compariva già in larga misura nel romanzo
precedente. Proprio sul personaggio di Arabella si chiudeva Demetrio
Pianelli, in una sorta di anticipazione della sua futura vicenda
psicologica narrativa: "Solamente Arabella, indugiando sulla scala,
s'è fermata a casa. Ritta dietro i vetri della finestra, essa
stende il suo sguardo molle e afflitto sulla pianura tutta coperta
di neve, pensa ai morti, pensa ai lontani e riempie l'avvenire colle
ombre del suo passato" (p. 375).
Arabella è la nipote di Demetrio Pianelli, una dei figli del
fratellastro Cesarino e di Beatrice; la sua è una psicologia
affine per molti versi a quella dello zio - e già nel
Pianelli questo legame spirituale era stato tratteggiato -, e, come
lo zio, è destinata a soccombere di fronte alla
crudeltà e alla volgarità del mondo. Anche qui
campeggia il motivo dell'amore impossibile, o forse,
dell'impossibilità dell'amore negli ambienti gretti e
meschini in cui questi esseri intimamente delicati si trovano a
vivere. Come sempre il romanzo sviluppa, attorno al filo centrale
della narrazione, una serie di personaggi di contorno, di cui alcuni
delineati con pochi tratti macchieffistici, a volte caricaturali,
altri più prominenti, come il suocero di Arabella, Tognino
Maccagno, un affarista senza scrupoli e tutto dedito ad accumulare
denaro con ogni mezzo, lecito e illecito, che è il vero
antagonista della donna. In Arabella il contrasto tra la concreta
realtà del mondo e le tensioni ideali di personaggi schivi e
puri, diviene programmaticamente più accentuato che nel
Pianelli, nuocendo, in ultima analisi, alla coerenza strutturale e
stilistica della protagonista e dell'intera opera.
Emerge inoltre,
in questo caso come negli altri romanzi, "una visione della
realtà insicura e perplessa, non intellettualmente chiarita,
oggettivamente incoerente e contraddittoria" perché è
pienamente avvertibile una "sfasatura costante" "tra l'oggettiva
dialettica oppressi-oppressori che ne costituisce la struttura
spontanea" e "la sua ricorrente incapacità di rilevarla o
renderla coerentemente centrale nella prospettiva della
rappresentazione" (Leone De Castris, p.14). Ma è abbastanza
chiaro che l'interesse più vivo del D. sta nel ritrarre
personaggi come Demetrio, Arabella, Giacomo, ecc., accomunati
dall'essere dei disadattati, delle figure dissonanti rispetto alle
linee dominanti, sul terreno sociale come su quello esistenziale;
delle figure destinate a soccombere perché incapaci di
interagire con l'esterno. In questo senso gli avvenimenti, le
vicende, le traversie sono del tutto accidentali, non
intrinsecamente portatrici degli esiti drammatici finali: quei fatti
o altri porterebbero ugualmente alla medesima conclusione di
sconfitta quando non, come nel caso di Arabella, di morte anche
fisica. Il contorno, cioè i luoghi, i personaggi secondari,
l'umorismo delle situazioni e dei caratteri, è una componente
necessaria dei quadro, perché risaltino in misura adeguata i
tratti dominanti dei protagonisti, calati negli ambienti reali in
cui scontano la propria diversità, che è sempre un
prerequisito, in nessun caso un prodotto dello svolgersi delle
vicende.
Influisce indubbiamente sulla struttura dei romanzi la loro
appartenenza a un "genere", la narrativa d'appendice, che prima di
tutto per la sua collocazione editoriale, in appendice appunto ai
quotidiani, a puntate, richiede l'utilizzazione di una serie di
accorgimenti e di espedienti tecnici di provata efficacia. Se questo
dato va tenuto sempre presente nell'analisi di questo tipo di
narrativa, non conviene pero esagerarne l'importanza e il peso, dal
momento che, all'interno di questa area di produzione narrativa che
dominò nel secondo Ottocento, le differenze tra i vari autori
e i loro prodotti appaiono spesso notevoli, arrivando a volte a
soverchiare decisamente le somiglianze e le analogie deducibili
dall'appartenenza allo stesso "genere". Ed è una
considerazione valida anche nel caso del D., i cui romanzi
pubblicati in appendice si presentano, sul piano della resa,
sensibilmente diversi. Ad Arabella seguì su Il Mattino di
Napoli (1894-95) il romanzo Il morto che parla (poi in appendice a
L'Italia del popolo nel 1896, con il titolo Il redivivo che rimase
nel volume pubblicato postumo, Milano 1909), che si riallaccia
chiaramente all'"esperimento" del Cappello del prete, per la trama
ad effetto, l'ambientazione extramilanese (la storia si svolge in
una Germania improbabile come la Napoli dell'altro romanzo), la
mescolanza calibrata di drammatico e comico e l'introduzione di
figure e caratteri tipici del romanzo d'appendice nelle sue forme
più popolari.
Ricordando il proprio recente passato, il protagonista, un giovane e
geniale scienziato tedesco autoesiliatosi in Giappone, racconta a un
occasionale confidente la sua storia, dall'incontro con una perfida
donna che lo ha distratto dai suoi veri interessi spingendolo a
intraprendere speculazioni rovinose, per poi tradirlo, fino a un
incidente che gli permette, essendo da tutti creduto morto, di
ripercorrere le tappe della sua degradazione, e infine la scelta
della partenza definitiva e del rifugio alla corte dell'imperatore
giapponese. Nelle pieghe delle avventurose vicende del protagonista
ricompare il tema caro al D., come a tanta letteratura ottocentesca,
del dominio corrompente e degradante del denaro, insieme alle
insidie rovinose della donna fatale. Per la scarsa elaborazione del
materiale e l'evidente approssimazione psicologica e narrativa,
questo romanzo appartiene decisamente alla zona meno matura della
produzione del D., che, del resto, non doveva apprezzarlo molto,
visto che non ne curò la stampa in volume, come fece con gli
altri.
Di tutt'altro genere il romanzo successivo Giacomo l'idealista
(Milano 1897, strenna della Perseveranza), nel quale il D. con tutta
evidenza avrebbe voluto profondere il meglio delle sue riflessioni e
problematiche etico-letterarie, incarnate nel protagonista, Giacomo
Lanzavecchia che è una sorta di Demetrio-Arabella con un di
più di complicazioni intellettuali a sfondo filosofeggiante
(essendo Giacomo professore di filosofia). Come è stato
ampiamente notato, il personaggio è narrativamente debole e
incoerente, come il suo dramma poco convincente nella pretesa di una
opposizione filosofia-vita reale; in sostanza anche Giacomo, come le
tipiche figure della narrativa demarchiana, è una vittima
dell'amore, delle vicende umane che non sa governare e che quindi lo
travolgono, è un altro antieroe della sofferenza e della
rassegnazione. Ancora una volta la morte, in questo caso di
Celestina, la giovane amata da Giacomo, viene a sciogliere una
vicenda che denuncia, come in Arabella e in Demetrio Pianelli,
l'impossibilità dell'amore, l'impraticabilità della
virtù, la prevalenza dei forti sui deboli, la sconfitta certa
di ogni illusione o "idealismo".
Lo sfondo della storia è qui più ambizioso e
complicato dalla presenza di piani sociali diversi: c'è uno
spaccato di società nobiliare impersonato dai conti Magnenzio
di Villalta, l'ambiente contadino evoluto di Mauro Lanzavecchia, il
mondo dei politici ritratto negli intrighi e nelle pratiche
opportunistiche che sembra definirlo agli occhi del D.; la
dimensione paesaggistica brianzola, nella quale la vicenda è
collocata, è probabilmente l'aspetto stilisticamente
più riuscito del romanzo, nel quale si avverte un'eco
indubbia della complessità strutturale e tematica di
Piccolomondo antico di A. Fogazzaro (che è del 1895) e,
ancora una volta, dei Promessi sposi di Manzoni, di cui è
ricalcata la situazione base dell'amore tra due giovani, insidiato e
violentato dalla prepotenza del nobile locale, nonché figure
laterali e interi episodi.
Il D., già angustiato dallo scarsissimo successo di pubblico
e di critica dei suoi libri, dopo l'exploit del Cappello del prete
(cfr. lettere a E. Mascheroni, 25 febbr. 1890 e a A. Ghisleri, 22
marzo 1890, in Tutte le opere, III, 2, pp. 782 ss.), e colpito
profondamente dalla morte della moglie cui seguì, come si
è già accennato, la morte della figlia Cesarina
nell'agosto 1897, continuò tuttavia a scrivere romanzi,
l'ultimo dei quali, Col fuoco non si scherza, comparve sulla Rassegna
nazionale di Firenze nel 1900 e l'anno dopo, postumo, in volume
(Milano).
Tornano di nuovo figure care alla fantasia del D.: Beniamino Cresti
che soccombe nella aspirazione alla realizzazione dell'amore per
Flora Polony, a lungo sommessamente coltivato; la stessa Flora,
personaggio caratterizzato ol da rettitudine morale e carica
passionale, che decide di votarsi al sacrificio e alla rinuncia; il
terzo elemento del triangolo, Ezio Baglioni, che da figura connotata
inizialmente in modo negativo, si riscatta nel finale, anch'egli nel
nome della dignità e della comprensione. Sono personaggi
sottomessi, in modi diversi, alla sofferenza e passivamente dediti a
tentare di convivere con la passione, analizzata a volte con finezza
e attenzione ai risvolti ambigui e inquietanti delle psicologie
coinvolte. C'è in quest'ultimo romanzo un'influenza
più accentuata di Fogazzaro, sia nell'ambientazione
socialmente e psicologicamente composita, sia nella cura
letterariamente più attenta alla costruzione e allo
svolgimento stilistico del romanzo, entrambi motivi però
troppo esteriormente assunti dal D., in sovrapposizione e quasi in
contrasto con la sua vena più autentica.
Per molti versi affiancabili alla produzione specificamente
narrativa sono le prose di Milano e suoi dintorni (Milano 1881) e
sopratutto quelle raccolte in volume dopo la morte del D. con il
titolo Milanin Milanon (ibid. 1902). Si tratta di componimenti
pervasi dal senso elegiaco della consonanza con i luoghi e i
paesaggi del Milanese, "poemetti in prosa dialettale" li ha definiti
G. Ferrata, che testimoniano efficacemente la vena lirica del D. che
meglio si esprime qui, come in ritratti analogamente ispirati degli
ambienti cittadini e brianzoli sparsi nei romanzi, piuttosto che
nelle poesie raccolte in diversi volumi: Poesie (Milano 1875);
Sonetti (per l'onomastico della madre, ibid. 1877); Aifanciulli del
collegio (ode, ibid. 1879); Susetta (bozzetto medioevale, ibid.
1883); Vecchie cadenze e nuove (ibid. 1899); va aggiunta la
traduzione in versi delle Favole di Lafontaine (con illustrazioni di
G. Doré, ibid. 1885). Generalmente giudicate negativamente
dalla critica, queste composizioni poetiche furono invece apprezzate
dal Croce perché "si sente che ciascuno di quei componimenti
del De Marchi è nato da una trama di pensieri e da un'onda di
sentimenti, che veramente agitavano e interessavano lo scrittore"
(p. 165), benché anche il Croce non potesse non rilevare che
i suoi versi non arrivavano ad essere costruiti "poeticamente, ossia
compiutamente, con le sue sfumature di colore, con la sua musica di
suoni" (ibid.). È stato del resto osservato che il versante
poetico della produzione demarchiana trova una collocazione
singolarmente sfasata rispetto alle sue scelte narrative e critiche;
vi si avverte, per esempio, una influenza anche di ordine metrico
del Carducci dal quale esplicitamente, in sede critica, il D. aveva
preso le distanze, testimoniando insomma la persistenza di una
divaricazione tra linguaggio poetico e linguaggio prosastico, che
segna in modo continuo la letteratura italiana ottocentesca, con
pochissime eccezioni. In conclusione, "l'interesse delle poesie
è essenzialmente psicologico: escludendo l'umorismo, esse
scoprono un fondo d'anima malinconicamente pensoso e sentimentale,
"crepuscolare"" (D. Mattalia, p. 3180).
Molto più interessante del D. poeta è il D. educatore
e pedagogo, un piano di impegno cui incessantemente si dedicò
con l'operosità concreta del filantropo (e si sono ricordati
già i molti incarichi che ricoprì in questa direzione)
e con un'attività intensa di scrittura e di organizzazione
editoriale. Il primo documento di questa sua tensione è la
conferenza Premi e castighi (Milano 1881), seguita dalla
collaborazione assidua a L'Italia giovane (diretto da A. Vertua
Gentile e P. Fornari) sul cui primo numero (1886) il D.
pubblicò un racconto di decisa intenzione pedagogica morale
dal titolo Il libro della vita. Sulla rivista comparvero negli anni
successivi molti altri interventi (racconti, bozzetti drammatici per
ragazzi, articoli) del D., che curò, nel 1888, il volume
L'Italia giovane. Parte maschile. Pensare e sentire. Letture varie
per i giovanetti (ibid.). C. A. Madrignani, che a questo aspetto ha
dedicato uno studio particolare, ha sottolineato l'impianto
moderatamente positivistico della rivista di cui risentì
naturalmente la concezione pedagogica dei D. nell'accentuazione
della necessità della diffusione tra il popolo
dell'educazione, nell'esaltazione del valore della volontà e
dello spirito di iniziativa, nella erppiristica proposizione dei
canoni del buon senso e della moderazione, sul terreno sociale come
su quello morale e civile. Sono gli stessi criteri a ispirare
l'opera di questo genere più nota del D., L'età
preziosa. Precetti ed esempi offerti ai giovinetti, ibid. 1888, una
sorta di manuale di educazione articolato in racconti, divagazioni e
riflessioni morali e psicologiche, dominato dalla idea
programmaticamente didattica e sostenuto dall'affiato umanitario e
sinceramente partecipe che al narratore D. ispirano i suoi dolenti
personaggi.
La dimensione educativa che ne emerge è riconducibile al tono
di medietà, di moderazione, di saggezza spicciola ed empirica
che caratterizza il D. anche sul terreno letterario e critico. Sono
iscrivibili sulle stesse coordinate, anche se si tratta di scritti
in forma drammatica, le garbate commediole e i monologhi per bambini
raccolti nel volume postumo Oggisi recita in casa dello zio Emilio
(Milano 1910). Dunque, sempre sulla medesima linea si collocano i
libri successivi all'Età preziosa, che sono Lettere a un
giovin signore (ibid. 1891), Le quattro stagioni (ibid. 1892),
I nostri figliuoli (ibid. 1894), che ripropongono sotto angolature
diverse la sostanza dell'interesse etico del D., in sintonia con
l'esigenza fortemente sentita a livello sociale e intellettuale di
educare le nuove generazioni ad un tipo di convivenza civile e di
partecipazione sociale, organiche al giovane Stato unitario.
Basterebbe ricordare gli scritti ben più celebri di De Amicis
e il grande successo del Pinocchio di Collodi, per citare solo le
punte emergenti di un interesse variamente e acutamente percepito da
una parte almeno della "società delle lettere".
Dall'educazione dei giovinetti il D. passò facilmente, spinto
con tutta probabilità dallo choc provocato in lui e nei
benpensanti milanesi dai moti popolari del '98 (cruentemente
repressi a Milano dal gen. Bava Beccaris), all'educazione dei
lavoratori, nella illusione che la propaganda genericamente
umanitaria potesse sedare se non risolvere i conflitti sociali che
stavano esplodendo. Fondò quindi e diresse tra il 1898 e il
'900 il periodico La Buona parola. Letture per il popolo (Milano) di
cui scrisse interamente molti fascicoli (precisamente i nn. 1-5,
7-18, 21, 27, 28), affidando gli altri a diversi collaboratori.
Nonostante lo scarsissimo interesse letterario di questi e di tutti
i suoi scritti pedagogici, non sarebbe proficuo relegarne il valore
ad una zona delimitata della sua attività, isolandoli
dall'arca narrativa di dominio letterario. In effetti i nessi tra
queste due zone sono molti e molto significativi per illuminare una
personalità unitaria benché intimamente
contraddittoria come quella del De Marchi. Certamente ci sono, e ben
visibili, contiguità di ordine tematico, etico e ideologico;
ma l'elemento più importante che induce a considerare tutta
la sua attività senza soluzione di continuità risiede
nella tensione verso le forme "popolari" della scrittura che
caratterizza in modo originale la sua narrativa, per le tematiche e
molto più per le forme di comunicazione elaborate e scelte,
la lingua e il "genere" del romanzo d'appendice, accanto alle
novelle, che rispondono alle medesime intime esigenze di educazione
del popolo che ispirarono i suoi scritti direttamente pedagogici e
didattici.
"L'educazione del popolo io vorrei compierla adagio, come si tratta
un gran malato, e non recidergli la testa per medicargli il
pensiero" aveva scritto a Ghisleri nel '77 (lett. cit., p. 772).
Considerazione che si completa perfettamente con questo passo del
discorso su Marizoni: "Il più grande merito di uno scrittore
non è tanto d'aver de' buoni concetti e dei seritimenti
onesti come ogni buon galantuomo, quanto di possedere l'arte di
insinuarli nell'animo altrui in una maniera che vi attecchiscano e
producano frutto" (L'opera di A. Manzoni, in Tutte le opere, III, 1,
p. 287). Che è il proposito esplicito e concreto di un tipo
di intellettuale che non privilegia una forma di scrittura rispetto
ad altre, in ordine a criteri estetici, stilistici o espressivi, ma
le subordina programmaticamente a una intenzionalità morale
ed esemplare che, in modo più o meno trasparente, è
tuttavia sempre presente. Anche, quando non sopratutto per questo,
il D. appartiene pienamente a una stagione della nostra letteratura
che si concluse sulla fine dell'Ottocento e ad una zona
geografico-culturale come quella milanese che si era andata
strutturando e organizzando attorno ad una tradizione che nei nomi
di Parini, Porta e Manzoni trovava, in qualche modo, le ragioni
della propria identità.
*
wikipedia
Demetrio Pianelli
Trama
Parte prima. Lord Cosmetico
Cesarino Pianelli, detto Lord Cosmetico per l'eleganza e la
bellezza, è un quasi quarantenne sposato con la bellissima
Beatrice e con tre figli, la dodicenne Arabella e due maschi
più piccoli, Mario e Naldo.
Cesarino gestisce il circolo Monsù Travet, al quale sottrae
duemila lire per pagare debiti di gioco. Per non essere scoperto
prende mille lire alla posta, dove lavora come cassiere,
approfittando dell'assenza dell'altro cassiere Martini, partito per
assistere la moglie morente. Al rientro di Martini, Cesarino viene
scoperto: cerca disperatamente di trovare il denaro per restituirlo
ma nessuno lo aiuta, né il ricco Melchisedecco Pardi,
proprietario di una fabbrica di nastri di seta, con cui è
molto amico, né il suocero, che deve ancora versargli una
parte della dote. Cesarino viene denunciato e si toglie la vita
impiccandosi nel solaio della casa. Alla famiglia viene fatto
credere che è morto per un malore. A Milano in quei giorni si
festeggia il Carnevale, e Beatrice è tra le donne più
ammirate alle feste.
Cesarino lascia una lettera per il fratello Demetrio, in cui gli
chiede di occuparsi della famiglia e di riparare il debito di mille
lire. Demetrio è figlio dello stesso padre di Cesarino, ma
hanno avuto madri diverse. Demetrio è più anziano di
oltre dieci anni e i due fratelli hanno avuto un'educazione assai
diversa, rozza quella di Demetrio, raffinata per Cesarino. Demetrio
è uno scapolo non bello con abitudini da contadino, vive con
uno stipendio da impiegato del Demanio di mille e quattrocento lire
annue. Da anni tra Demetrio e Cesarino erano cessati i rapporti, e
Cesarino parlava del fratello come di una persona avara e bigotta.
Parte seconda. Le tribolazioni di un pover'uomo
Demetrio accetta di farsi carico della famiglia del fratello,
scoprendo che è pieno di debiti. Il suocero, Isidoro Chiesa,
non è in grado di versare ciò che resta della dote,
perché ha perduto i suoi averi ed è impegnato in un
grosso processo contro l'ospedale di Melegnano, nel quale sono in
ballo ottantamila lire ma di cui non si vede la fine. Anzi, il
Chiesa vorrebbe che Demetrio gli versasse settecento lire promesse
tempo prima da Cesarino.
Demetrio, anche su consiglio del suo capo cavaliere Balzalotti, per
un po' non si fa più vedere in casa della cognata, ridotta
quasi alla fame. Una domenica, però, Arabella, che ha intuito
dai discorsi dei vicini che Cesarino è morto suicida, si
presenta a casa dello zio e lo supplica di aiutare lei e la
famiglia. Demetrio non sa resistere e le regala del denaro. Demetrio
si impone su Beatrice, e comincia a vendere mobili e altri oggetti
per fronteggiare i debiti. Ottiene anche l'aiuto di Paolino, un
cugino benestante che ha ospitato per alcuni giorni Beatrice dopo la
morte di Cesarino. Paolino presta i soldi per restituire le mille
lire al Martini che, a causa della sua negligenza nella gestione
della cassa, ha dovuto risarcire il danno e verrà trasferito
in Sardegna. Demetrio va a consegnare il denaro con Arabella, che
è ormai al corrente di tutta la vicenda.
Parte terza. Paolino delle Cascine
Paolino è un ricco agricoltore che abita fuori Milano, in una
località detta Le Cascine. Rimasto colpito da Beatrice, pensa
di sposarla: chiede a Demetrio di preparargli il terreno e continua
a dargli sostegno economico.
Dopo Pasqua, Arabella fa la prima comunione. Demetrio trascorre una
domenica serena con lei, Beatrice e i due maschietti, e per la prima
volta riesce a pensare a Beatrice come ad una donna desiderabile.
Beatrice, nascondendolo a Demetrio e con l'aiuto della moglie del
Pardi, Palmira, che si sente un po' colpevole per avere impedito al
marito di aiutare Cesarino, e del Balzalotti, cerca di mandare
avanti il processo del padre. Quando si reca dal Balzalotti per
chiedergli consigli, questi sostiene che per lui la causa è
persa, poi cerca di corteggiare Beatrice e prima che lei se ne vada
la obbliga ad accettare un braccialetto.
Demetrio comincia ad affezionarsi a Beatrice: gli costa molta fatica
portarle una lettera di Paolino con la proposta di matrimonio.
Durante l'incontro, Beatrice gli confessa la storia col Balzalotti,
a cui chiede a Demetrio di restituire il braccialetto. Demetrio se
ne va furioso col Balzalotti, da cui si sente ingannato, poi si
accorge di avere perso la lettera di Paolino, che la rabbia gli
aveva fatto dimenticare.
Parte quarta. Dalla sonnambula
Paolino, spazientito per la mancanza di notizie da Demetrio, si reca
a Milano da una veggente, una sonnambula che predice il futuro,
portandole una ciocca di capelli di Beatrice, rinvenuta alle
Cascine. La maga gli assicura che entro agosto sarà felice.
Demetrio ha perso la lettera in casa di Beatrice, che l'ha trovata e
letta. Dice a Demetrio che ci penserà, ma le pare una buona
proposta. Demetrio è triste, vede svanire le illusioni che si
stava facendo nei confronti della cognata. Restituisce il
braccialetto al Balzalotti, ma finiscono per litigare: viene sospeso
dal lavoro per due mesi, poi sarà trasferito a Grosseto. Nel
frattempo, per sopravvivere, è costretto a vendere un vecchio
orologio, ricordo del padre.
Qualche giorno dopo, quando è ormai fine maggio, Demetrio va
a trovare Beatrice, trova da lei anche Paolino e così scopre
che tutto è combinato per il matrimonio, che si
celebrerà il ventiquattro di agosto, e che la famiglia, col
denaro di Paolino, è tornata a vivere nel lusso.
Un giovane vicino di casa dei Pianelli, Ferruccio, parte per
studiare in seminario: Arabella, che ne era segretamente innamorata,
scoppia in lacrime tra le braccia di Demetrio, l'unico nel quale ha
sentito di poter cercare consolazione.
Parte quinta. Alle Cascine
Demetrio, che non ha detto nulla del futuro trasferimento, resta
solo a Milano in compagnia di Giovedì, il cane dei Pianelli
che all'inizio detestava, mentre alle Cascine si prepara il
matrimonio. Paolino, insospettito dal suo strano comportamento, lo
va a cercare in ufficio, e qui un collega gli racconta la storia del
litigio col Balzalotti, a cui molti hanno assistito. Paolino rimane
sorpreso e pensa di avere un rivale in Demetrio.
Beatrice, temendo che Paolino voglia annullare il matrimonio, va a
trovare Demetrio: lo trova pronto a partire e gli chiede di scrivere
a Paolino per chiarire la situazione, ma si rende conto che anche
Demetrio è innamorato di lei e rimane vivamente colpita.
Il matrimonio viene rinviato a causa di un articolo di legge.
Palmira Pardi, ignara del rinvio, finge di essere stata invitata per
trascorrere una notte fuori casa con l'amante, un cantante su cui il
marito nutre sospetti. Ma Melchisedecco, gelosissimo, scopre
l'inganno e uccide la moglie quando questa rientra a casa.
Demetrio parte, portando con sé Giovedì. Arabella ha
saputo del trasferimento e si fa accompagnare alla stazione da un
vicino di Demetrio per salutarlo, portandogli una lettera con un
ritratto di Beatrice. Demetrio, nonostante la partenza, non è
triste, perché gli pare che qualcosa di dolce sia entrato
nella sua vita.
Parte sesta. Gli altri
A Milano si parla molto dell'omicidio Pardi. Beatrice, sentendosi un
po' in colpa, passa alcuni giorni debilitata. Arriva l'inverno.
Paolino è rassicurato dalle lettere di Demetrio, che racconta
di trovarsi bene a Grosseto.
Poi giunge finalmente il giorno delle nozze. Nella festa generale
solo Arabella, che pensa a chi è morto e a chi è
lontano, e riempie l'avvenire con le ombre del passato, è un
po' malinconica.