DE MARCHI, Emilio

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Scrittore italiano (Milano 1851-1901).

Laureato in lettere, insegnò stilistica all'Accademia scientifico-letteraria di Milano e collaborò a numerose iniziative pedagogiche e filantropiche: più che L'età preziosa (1888), raccolta di precetti per gli adolescenti, l'espressione più significativa di questo suo impegno morale è La buona parola, un periodico per gli operai che, pubblicato dopo la repressione sanguinosa dei tumulti popolari milanesi del 1898, raggiunse tirature altissime.

Nelle sue pagine il manzoniano De Marchi operava una riduzione del problema sociale nei limiti di un'educazione morale e di una collaborazione tra le classi; ma l'ideologia religiosa dello scrittore era contraddetta da uno stato d'animo inquieto e tormentato, su cui agiva il fermento della Scapigliatura: tale intimo contrasto si avverte anche nella lingua "italiano-lombarda" di De Marchi, in cui il tentativo di una simbiosi tra dialetto e lingua oscilla tra esiti letterari e tono parlato.

I personaggi di De Marchi sono "anime belle" che non riescono a stabilire un rapporto concreto con la vita reale: personaggio-archetipo è il protagonista del capolavoro Demetrio Pianelli (1890), che personifica la sanità morale e la fervida operosità meneghina, ma è travolto dalla passione amorosa fino alla sconfitta e alla rinuncia; seguono Arabella (1892), la cui protagonista eponima è una creatura fragile e umbratile, spinta al suicidio dalla volgarità dell'ambiente; Giacomo l'idealista (1897) dove, al di là del fallito dramma intellettuale del protagonista, dovuto al programmatico atteggiamento antispeculativo dell'autore, il vero nucleo è da ricercare nel dramma di Celestina, che rinnova quello di Arabella; e, infine, Col fuoco non si scherza (1901), in cui lo schema "demetriano" si complica in un conflitto di sentimenti che scade nel gusto più trito del romanzo d'appendice.

Ben diversi risultati, in quest'ultima direzione, De Marchi aveva raggiunto nel suo primo romanzo, Il cappello del prete (1888), pubblicato a puntate sull'Italia di Milano e sul Corriere di Napoli: vi era palese il proposito di nobilitare il genere del romanzo d'appendice, intrecciando elementi macabro-criminali, alla Poe, con la rappresentazione veristica, pittoresca e farsesca dell'ambiente partenopeo.

Sono infine da ricordare le poesie di timbro crepuscolare (Vecchie cadenze e nuove, 1899), i saggi, alquanto modesti, di critica letteraria (La letteratura: definizione, 1882) e la raccolta di prose Milanin Milanon (postumo, 1902), in cui sono evocati angoli e prospettive della vecchia Milano.

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DBI

di Lucia Strappini

Nacque a Milano il 31 luglio 1851 da Giovanni e Caterina Perego. A soli nove anni gli morì il padre, lasciando una famiglia numerosa di cui si assunse il carico la madre, donna energica e coraggiosa con un passato di combattente durante le Cinque giornate quarantottesche. Il D. frequentò dal 1863 al '71 la scuola e il liceo "Beccaria", poi l'accademia scientifico-letteraria dove si laureò in lettere nel 1874.

Dal 1876 al '78 insegnò presso il collegio "Calchi Taeggi" ed ebbe quindi un incarico di insegnamento di italiano in un liceo milanese. Nel 1879 prese il posto di E. Camerini come segretario dell'accademia scientifico-letteraria e sempre presso l'accademia sostituì nella docenza Paolo Ferrari (1883-85); conseguita la libera docenza in stilistica (1890), vi insegnò questa disciplina fino al 1900 quando fu costretto a ritirarsi per ragioni di salute. Aveva sposato nel 1880 Lina Martelli, dalla quale ebbe due figli, Marco e Cesarina. La morte della figlia quindicenne nel '97 lo colpì duramente aggravando le sue già precarie condizioni di salute e provocando una crisi profonda che rischiò di intaccare anche la sua fede religiosa (cfr. lettera di risposta ad A. Fogazzaro che gli aveva espresso il suo cordoglio, del 21 ag. 1897, in Tutte le opere, III, 2, pp. 760 s.).

Ricoprì numerosi incarichi nella vita sociale e politica cittadina: fu membro della commissione per la scelta dei libri di, testo (1888), della commissione civica degli studi (1893), del Consiglio di amministrazione degli orfanotrofi e luoghi pii (1895, incarico che abbandonò nel '99), corrispondente dell'Istituto lombardo, tra i fondatori del patronato scolastico delle scuole di via S. Orsola e via Ansperto. Fu inoltre consigliere comunale (1891-94) e ricevette la decorazione di cavaliere della Corona d'Italia nel 1900.

Il D. morì il 6 febbr. 1901 a Milano.

Nel 1876 aveva fondato, insieme con Ambrogio Bazzero ed Ettore Borghi, il quindicinale letterario Vita nuova che condiresse fino al dicembre 1877 scrivendovi assiduamente, spesso con pseudonimi (Primo De Vecchi, Primo De Novi). Quando alla fine di quell'anno si concretizzò la fusione della Vita nuova con il Preludio di A. Ghisleri, il D. rinunciò alla collaborazione alla rivista, esprimendo le sue riserve di ordine ideologico allo stesso Ghisleri in una lettera del 20 dic. 1877 (in Tutte le opere, III, 2, pp. 770-773).

In questa egli chiariva, assieme al dissenso dal radicalismo di Ghisleri, le sue convinzioni: "Del progresso e della libertà io mi sono formato un concetto più prudente e aborro dalle asserzioni recise, perché so che l'uomo nella sua vita sociale è in un continuo concambio di idee, di concessioni reciproche, e che la prudenza è lo smalto che conserva un'istituzione ... Il negare tutto l'oggi non lo trovo un mezzo per giungere al domani" (p.771).

In un brevissimo arco di tempo il D. aveva consumato ogni possibilità di cointeressamento alle ragioni più diffuse e maturate della scapigliatura milanese, non solo sul terreno ideologico, ma anche su quello strettamente letterario.

Nel 1874 aveva pubblicato sul Convegno la prima novella (I due filosofi), cui seguirono Fiori naturali e fiori di carta e molte altre che comparvero sulla Vita nuova, La Famiglia e la scuola, e vari altri periodici. Proprio sulla Vita nuova erano usciti i suoi primi romanzi, Il signor Dottorino nel 1876 (non ristampato in volume, ora in Tutte le opere, I, pp. 1-100) e Due anime in un corpo nel 1877 (in volume, Milano '78, con lo stesso titolo, insieme con tre novelle: Lucia, Carletto in collegio, Don Asdrubale), a giudizio della critica decisamente influenzati, ancora, dalla propensione per la bizzarria e l'anomalo tipici di certa narrativa scapigliata (Tarchetti e Dossi in particolare), ma dove già compaiono i due ingredienti caratteristici della vena demarchiana: patetismo e umorismo, non felicemente equilibrati e calibrati, ma sufficienti a dare un tono riconoscibile, specie nel caso di Due anime in un corpo, al suo stile narrativo. Risalgono a questi anni anche due romanzi rimasti inediti (ora in Tutte le opere, III, 1, pp. 447-476 e pp. 481-746): la Prefazione e i primi due capitoli di Vita di un giovane serio (presumibilmente scritto attorno al 1875) e il romanzo completo Anime del purgatorio (circa 1880), che G. Ferrata ha letto come "il prologo ai Ritratti e costumi di vita milanese iniziati da De Marchi col Pianelli" (Prefazione a Tutte le opere, III, 1, p. XIII). Sempre sulla Vita nuova uscivano contemporaneamente diversi suoi interventi di particolare interesse perché segnano sul versante critico il consolidarsi di una serie di idee relative alla letteratura e al suo esercizio che si manterranno pressocché inalterate nel corso degli anni.

Nell'articolo Fra gli estremi per esempio (16 genn. 1877, ora in Tutte le opere, III, 1, pp. 145-149) sono espressi con chiarezza i capisaldi del suo paternalismo populistico che rimarrà una costante, animando la sua produzione letteraria e insieme la sua attività sociale e civile ("importa piuttosto rinforzare l'anima dei cittadini con quella quantità di idee morali, civili ed estetiche, che senza essere la scienza propriamente, mettano i più in grado di intenderla o almeno di venerarla" (p. 146). Così recensendo le Odi barbare di G. Carducci (2 sett. 1877, ora ibid., pp. 190-198) ne criticava decisamente il valore, nel nome della necessità per la letteratura e per la poesia di essere popolari. Sono concetti e convinzioni che tornano, senza rilevanti mutamenti, anche negli scritti degli anni successivi, e che non soltanto segnano la distanza del D. dalle tendenze scapigliate, di cui per qualche tratto sembrava aver subito l'influenza, ma segnano soprattutto la sostanziale impermeabilità della sua personalità civile e letteraria ai fenomeni contemporanei.

Si troveranno, più tardi, giudizi severi su D'Annunzio e sui suoi esperimenti linguistici e culturali. come sulla letteratura decadentistica, nella conferma di un'idea di letteratura efficacemente sintetizzata in questo passo di un suo saggio intitolato appunto La letteratura (sottotitolo Definizione) comparso in opuscolo a Milano nel 1882: "Il più bel vero nei lavori d'immaginazione è quello che corrisponde a queste condizioni, cioè il verosimile che si può definire un sistema di ragioni per le quali le cose del mondo, sparse nel tempo e nello spazio, oscure e fuggevoli, restano fissate e dipinte in una chiarissima prospettiva di immagini e di concetti" (ora ibid., pp. 210-241). Oltre che sulla Vita nuova, il D. tenne rubriche letterarie su L'Italia (1884) e il Corriere della sera (1885-88); collaborò inoltre a moltissimi periodici tra cui: La Famiglia e la scuola (1876-77), L'Illustrazione italiana (1880-84), I Nuovi Goliardi (1881), Scuola classica, Patria e famiglia, La Gente per bene, La Perseveranza, Serate torinesi, Il Pungolo della domenica, Il Caffè, La Gazzetta nazionale, L'Italia giovane, Il Secolo illustrato, La Rivista per le signorine, Il Focolare, La Vita internazionale, L'Idea liberale. L'attività critica accompagnò l'intera carriera letteraria del D., passando per gli articoli e saggi pubblicati sui periodici, oltre che per alcuni volumi di critica e di storia letteraria come Lettere e letterati del secolo XVIII (Milano 1882); Prefazione a Storia di un'anima, romanzo di A. Bazzero (ibid. 1885); Carlo Maria Maggi (ibid. 1885); Prefazione a Un poeta: scritti di G. Marchini (ibid. 1886).

Benché cattolico, egli non fece mai trasparire nei suoi scritti alcun elemento confessionale o apologetico, nella piena tradizione del cattolicesimo lombardo e, benché intimamente conservatore, con punte di aperto reazionarismo, non partecipò ad alcun gruppo politico organizzato e fu del tutto immune, per esempio, da quella ventata nazionalistica e patriottarda che coinvolse non pochi intellettuali alla fine dell'Ottocento. Come tutti i moralisti, insomma, il D. elaborò e mantenne sostanzialmente immutato un suo corpus di idee, di principi e di convinzioni sui quali modellò una pratica di scrittura funzionale ai suoi propositi etici e culturali.

Naturalmente sono vive e operanti influenze e reminiscenze letterarie, italiane e straniere, da Manzoni a Fogazzaro, da Maupassant a Balzac, da Dickens a Gogol, da Verga a Bersezio, tutti segnalati di volta in volta dalla critica ed altri se ne potrebbero aggiungere. Ma, prendendo come modello il riferimento manzoniano che è per così dire canonico, considerato l'ossequio che sempre il D. professò nei suoi confronti (interessante al proposito un discorso pronunciato nel Circolo popolare di Milano il 7 marzo 1885 dal titolo L'opera di A. Manzoni, ora in Tutte le opere, III, 2, pp. 270-296), si arriva abbastanza facilmente a concludere che la linea del manzonismo rappresenta per il D. un dato tacitamente e quasi necessariamente acquisito (e quindi operante) nella composita tradizione culturale milanese, essendo il Manzoni il suo esponente di maggior spicco e di innegabile suggestione, senza che tuttavia trascorra nulla della sostanza problematica manzoniana nella dimensione letteraria del De Marchi. Certo, sono stati precisamente individuati dai critici luoghi, situazioni e personaggi ispirati al modello manzoniano, quando non addirittura su di esso ricalcati (per esempio il personaggio del conte Lorenzo Magnenzio in Giacomo l'idealista che richiama il don Ferrante dei Promessi sposi, come ha notato Leone De Castris, oppure "la scena del perdono" in Demetrio Pianelli e il "colloquio tra il vescovo e il conte Lodovico" in Giacomo l'idealista:ed è notazione di Croce, ecc.); tuttavia nel caso del Manzoni, come degli altri autori, si tratta solo di riferimenti culturali variamente influenti per la formazione della personalità demarchiana, una personalità però che si strutturò e si espresse in forme originali, non riconducibili direttamente ad alcuna scuola, ad alcuna moda, ad alcuna tendenza.

Se indubbiamente la maturità espressiva (pure nei limiti delle sue corde) fu raggiunta dal D. nei romanzi degli anni Novanta, se ne possono cogliere indizi anche consistenti nelle novelle e nei racconti che pubblicò incessantemente sui più diversi periodici, raccogliendoli poi, in selezione, in vari volumi: Storielle di Natale (Milano 1880), Sotto gli alberi (ibid. 1882), Storie d'ogni colore (ibid. 1885), cui seguirono Racconti (ibid. 1889), Nuove storie d'ogni colore (ibid. 1895) e, postumo, Vecchie storie (ibid. 1926).

Prevale, soprattutto nelle novelle degli inizi e degli anni Ottanta, il gusto per l'effetto, il bozzetto, la capacità di delineare situazioni e caratteri con pochi tratti, insomma il buon esercizio di una forma di scrittura, quella appunto novellistica, che era codificata da precise regole di costruzione e di espressione, per il consumo di un pubblico formato e consolidato sui canoni facilmente riconoscibili della piacevolezza, del garbo, della misura. Ma sono anche diffusi molti motivi che torneranno sviluppati e intrecciati nei romanzi. Innanzitutto, come già si diceva, la mescolanza di umorismo e di patetismo, di tonalità e personaggi comici e situazioni emotivamente coinvolgenti; l'ambientazione spesso popolare e umile; l'evocazione di condizioni psicologiche dimesse, sopraffatte dalla prepotenza e dall'aggressività dei più forti, ma ancora più dalla durezza della vita; il pessimismo privo di consolazioni che dominera completamente nei romanzi maggiori, affiancato, in modo spesso non del tutto equilibrato, all'ispirazione etica cristiana tipica del modo di sentire più che di ragionare del D. ("forse io ragiono più coi nervi che col cervello", lettera citata al Ghisieri, p. 771); e infine la lingua semplice, piana, raramente sciatta e banale, quell'impasto di dialetto e lingua, pienamente utilizzato nei romanzi della maturità, che indusse l'Albertazzi a definirlo scrittore "in lingua milanese".

Per tutti gli anni Ottanta la vena narrativa del D. si manifestò in maniera pressoché esclusiva nelle novelle e nei racconti, tra i quali conviene ricordare qualche titolo tra quelli indicati come più riusciti: Don Carlino, La bella Clementina, I coniugi Spazzoletti e la novella certamente più apprezzata dalla critica Carliseppe della Coronata che anticipa in modo stilisticamente compiuto temi e figure dei romanzi più noti. Solo a dieci anni di distanza dai primi romanzi uscì a puntate in appendice a L'Italia (1887) e poi al Corriere di Napoli (1888) il romanzo Il cappello del prete (in volume, Milano 1888), che riscosse grande successo di pubblico.

Non è, come specificava l'autore nell'avvertenza alla prima edizione, "un romanzo sperimentale", ma "un romanzo d'esperimento, e come tale vuol essere preso". L'esperimento consisteva precisamente nel "provare se sia proprio necessario andare in Francia a prendere il romanzo detto d'appendice, con quel beneficio del senso morale e del senso comune che ognuno sa". L'intenzione di scrivere per un pubblico vasto, sul modello della narrativa d'appendice di gran voga in Francia e in Italia, è esplicitamente dichiarata dal D.: "l'autore, entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito più di una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e più di una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell'arte nostra".

Negli anni in cui usciva Il piacere di D'Annunzio (1889) e I Malavoglia di Verga (1888), una simile dichiarazione di poetica, per così dire, esprime perfettamente l'orizzonte etico e letterario del D., interprete finissimo, come sarà col di poco successivo Demetrio Pianelli, delle condizioni di vita più schive e schiacciate dal peso delle vicende della vita, e forse proprio per questa sua intima consonanza, in qualche modo necessariamente limitato a temi, personaggi e motivi racchiusi in un cerchio predeterminato e invalicabile. La riproposizione del tradizionale dettato dell'"istruire dilettando", sia pure passando per le forme della comunicazione di massa più diffuse al momento come il feuilleton, conferma la profonda estraneità del D. ad una società letteraria che, nelle sue punte più consapevoli e agguerrite, mirava a un rimodellamento del pubblico, all'intervento attivo e perfino provocatorio sui gusti e sugli umori consolidati, nelle forme elaborate da Carducci come da D'Annunzio o da Verga. Il populismo dichiarato e programmatico è ancora una volta la spia di una concezione letteraria sostanzialmente conservatrice delle forme come delle tematiche.

Il romanzo sviluppa intorno all'asse portante (una trama "gialla" con risvolti misteriosi) una serie di situazioni e di caratteri gustosamente tratteggiati, benché concordemente sia stato rilevato come l'ambientazione napoletana non sia affatto congeniale al milanese D., portandolo a una pittura cittadina manierata e poco convincente. Il nucleo del romanzo sta nel delitto che il protagonista, il barone di Santafusca, architetta e realizza freddamente per impadronirsi del denaro accumulato da un prete. All'analisi della psicologia dell'assassino, pressato da una serie di grovigli e di incidenti provocati dal cappello del prete assassinato, si affianca, non del tutto compattamente nella struttura, il ritratto di ambiente e di figure in cui già si era manifestata l'abilità del D. scrittore di novelle. Il cappello del prete ottenne un grande successo all'epoca, un successo del resto a tutt'oggi confermato da numerose ristampe, anche in edizioni economiche, e da una trasposizione televisiva.

Ancora in appendice a L'Italia, usciva nel 1889 con il titolo La bella pigotta, il romanzo, considerato il capolavoro del D., che nella pubblicazione in volume (Milano 1890) prese il titolo di Demetrio Pianelli. Il primo nucleo del romanzo è in un testo drammatico del 1881, I poveri di spirito, secondo un costume consueto del D., che spesso utilizzava la stessa trama per romanzi e testi teatrali (tra gli altri Dopo un duello, rappresentato a Milano nel 1877, La bella pigotta, Giacomo l'idealista, Col fuoco non si scherza). Sipossono ricordare qui, per inciso, le diverse composizioni drammatiche del D., oltre le già citate, e precisamente: Roncisvalle, dramma lirico in tre atti per musica di E. Bertini, Varese 1891; 1848, dramma in tre atti, Milano 1929; Pergolesi, dramma in quattro atti, pubblicato sul periodico Scene e controscene, Torino 1940.

In Demetrio Pianelli l'ambiente torna ad essere quello più congeniale al D., la Milano povera e triste dei sobborghi; il protagonista è un modesto impiegato, abituato da anni ad una vita solitaria e schiva, che si trova all'improvviso addossato il peso economico e psicologico della famiglia del fratellastro Cesarino, dopo che questi è stato praticamente costretto al suicidio, oppresso dai debiti. Intervenendo a rimettere ordine nella famiglia dissestata di Cesarino, Demetrio viene per la prima volta in contatto con aspetti della vita di cui fino a quel momento aveva ignorato perfino l'esistenza ("Demetrio, come imparasse per la prima volta i principi d'una scienza nuova e meravigliosa, stava a sentire, con tanto d'occhi aperti, come impiombato coi piedi sul pavimento", in Tutte le opere, II, p. 117); nella sua esistenza ritirata e dimessa irrompono situazioni, sollecitazioni e sentimenti dai quali sarà travolto proprio nelle sue ragioni più intime. Domina il denaro, simbolo dell'ingiustizia sociale e dell'oppressione esercitata dalla società sui più deboli; domina il senso della ineluttabilità della sconfitta per chi, come Demetrio, non voglia o non possa condividere le regole crudeli della convivenza civile; domina la convinzione, profondamente radicata nel D., che al centro dell'esistenza c'è l'amore, "al quale - scrive Croce - nessuno sa o può sottrarsi, e che divora anime e vite" (p. 162). L'amore silenzioso e senza speranza di Demetrio Pianelli per la cognata Beatrice, la "bella pigotta", non ha alcuna possibilità di esprimersi, anzi, al contrario, è la molla della rinuncia, della sconfitta, della sanzione della sofferenza, come appannaggio di questo e di tutti i protagonisti demarchiani. "Personaggio dimesso e sbilanciato, Demetrio è attivo sul piano morale, passivo e umbratilmente introverso sul piano sentimentale e psicologico: donde la sconfitta" (D. Mattalia, pp. 3186 s.).

La perfetta consonanza delle psicologie dei personaggi con l'ambiente, le vie, le case, i caffè, gli uffici di una Milano colta nel brulicare della vita quotidiana della piccola borghesia e del "popolo", richiama i moduli sperimentati del realismo balzachiano e dickensiano, appena toccati dai canoni imperanti della letteratura naturalista. Il fatto è che sfuggono al D., perché non sono in sintonia con la sua vena narrativa, tutti i precetti e le convinzioni basilari del naturalismo e del verismo. Non c'è, prima di tutto, impersonalità né impassibilità del narratore che anzi, nel Demetrio Pianelli, compare come personaggio secondario e che comunque interviene a commentare, chiosare e sempre a governare la materia raccontata; l'unica forma stilistica di distanza che il D. conosca e applichi è quella ironica e umoristica che è accortamente miscelata nel succedersi degli avvenimenti. Pienamente complementare alla vena umoristica, il diffuso e profondo senso di pietà e compartecipazione alle sofferenze dei suoi antieroi che è una nota assolutamente costante e distintiva della scrittura del D., in linea con l'ispirazione cristiana e genericamente umanitaria della sua vita come della sua letteratura. Ancora, a segnare la distanza dal naturalismo, non c'è nel D. intenzione documentaria e scientifica, nonostante il sottotitolo del Demetrio Pianelli che ritorna anche nel successivo Arabella, Ritratti e costumi di vita milanese. Le storie romanzate demarchiane somigliano semmai più a storie esemplari, come è stato notato, nel senso che contengono più o meno accentuata una vis moralistica e rimandano a un'intenzione pedagogica che, nei casi meno felici, tende a prevalere a danno dell'equilibrio dell'opera.

Demetrio Pianelli, come i protagonisti dei romanzi successivi, è sostanzialmente l'espressione di quel conflitto tra mondo reale e mondo ideale che non solo il D. avvertiva come tratto tipico della sua epoca, un periodo segnato anche sul terreno politico dalla consapevolezza della fine della tensione risorgimentale e dall'apertura di una fase difficile di confronto con la realtà concreta, minuta e prosaica. Al di là delle intenzioni e dei convincimenti soggettivi del D., oggi possiamo vedere nei suoi romanzi, e nel Pianelli sopratutto, lo specchio di un modo molto preciso e molto diffuso di vivere la fase immediatamente postunitaria, per un insieme di gruppi sociali che si suole identificare con la piccola borghesia cittadina. Di questi strati il D. ha saputo esprimere in modo puntuale e suggestivo la condizione esistenziale, la psicologia, gli umori fino alle più riposte e irrisolte contraddizioni.

Il mondo chiuso, triste e disperato delineato in Demetrio Pianelli si ritrova pienamente in Arabella, pubblicato in appendice al Corriere della sera nel 1892 (in volume Milano 1893), che ne è una sorta di continuazione sia perché, come si è detto, condivide il sottotitolo del Pianelli, sia in quanto la protagonista compariva già in larga misura nel romanzo precedente. Proprio sul personaggio di Arabella si chiudeva Demetrio Pianelli, in una sorta di anticipazione della sua futura vicenda psicologica narrativa: "Solamente Arabella, indugiando sulla scala, s'è fermata a casa. Ritta dietro i vetri della finestra, essa stende il suo sguardo molle e afflitto sulla pianura tutta coperta di neve, pensa ai morti, pensa ai lontani e riempie l'avvenire colle ombre del suo passato" (p. 375).

Arabella è la nipote di Demetrio Pianelli, una dei figli del fratellastro Cesarino e di Beatrice; la sua è una psicologia affine per molti versi a quella dello zio - e già nel Pianelli questo legame spirituale era stato tratteggiato -, e, come lo zio, è destinata a soccombere di fronte alla crudeltà e alla volgarità del mondo. Anche qui campeggia il motivo dell'amore impossibile, o forse, dell'impossibilità dell'amore negli ambienti gretti e meschini in cui questi esseri intimamente delicati si trovano a vivere. Come sempre il romanzo sviluppa, attorno al filo centrale della narrazione, una serie di personaggi di contorno, di cui alcuni delineati con pochi tratti macchieffistici, a volte caricaturali, altri più prominenti, come il suocero di Arabella, Tognino Maccagno, un affarista senza scrupoli e tutto dedito ad accumulare denaro con ogni mezzo, lecito e illecito, che è il vero antagonista della donna. In Arabella il contrasto tra la concreta realtà del mondo e le tensioni ideali di personaggi schivi e puri, diviene programmaticamente più accentuato che nel Pianelli, nuocendo, in ultima analisi, alla coerenza strutturale e stilistica della protagonista e dell'intera opera.

Emerge inoltre, in questo caso come negli altri romanzi, "una visione della realtà insicura e perplessa, non intellettualmente chiarita, oggettivamente incoerente e contraddittoria" perché è pienamente avvertibile una "sfasatura costante" "tra l'oggettiva dialettica oppressi-oppressori che ne costituisce la struttura spontanea" e "la sua ricorrente incapacità di rilevarla o renderla coerentemente centrale nella prospettiva della rappresentazione" (Leone De Castris, p.14). Ma è abbastanza chiaro che l'interesse più vivo del D. sta nel ritrarre personaggi come Demetrio, Arabella, Giacomo, ecc., accomunati dall'essere dei disadattati, delle figure dissonanti rispetto alle linee dominanti, sul terreno sociale come su quello esistenziale; delle figure destinate a soccombere perché incapaci di interagire con l'esterno. In questo senso gli avvenimenti, le vicende, le traversie sono del tutto accidentali, non intrinsecamente portatrici degli esiti drammatici finali: quei fatti o altri porterebbero ugualmente alla medesima conclusione di sconfitta quando non, come nel caso di Arabella, di morte anche fisica. Il contorno, cioè i luoghi, i personaggi secondari, l'umorismo delle situazioni e dei caratteri, è una componente necessaria dei quadro, perché risaltino in misura adeguata i tratti dominanti dei protagonisti, calati negli ambienti reali in cui scontano la propria diversità, che è sempre un prerequisito, in nessun caso un prodotto dello svolgersi delle vicende.

Influisce indubbiamente sulla struttura dei romanzi la loro appartenenza a un "genere", la narrativa d'appendice, che prima di tutto per la sua collocazione editoriale, in appendice appunto ai quotidiani, a puntate, richiede l'utilizzazione di una serie di accorgimenti e di espedienti tecnici di provata efficacia. Se questo dato va tenuto sempre presente nell'analisi di questo tipo di narrativa, non conviene pero esagerarne l'importanza e il peso, dal momento che, all'interno di questa area di produzione narrativa che dominò nel secondo Ottocento, le differenze tra i vari autori e i loro prodotti appaiono spesso notevoli, arrivando a volte a soverchiare decisamente le somiglianze e le analogie deducibili dall'appartenenza allo stesso "genere". Ed è una considerazione valida anche nel caso del D., i cui romanzi pubblicati in appendice si presentano, sul piano della resa, sensibilmente diversi. Ad Arabella seguì su Il Mattino di Napoli (1894-95) il romanzo Il morto che parla (poi in appendice a L'Italia del popolo nel 1896, con il titolo Il redivivo che rimase nel volume pubblicato postumo, Milano 1909), che si riallaccia chiaramente all'"esperimento" del Cappello del prete, per la trama ad effetto, l'ambientazione extramilanese (la storia si svolge in una Germania improbabile come la Napoli dell'altro romanzo), la mescolanza calibrata di drammatico e comico e l'introduzione di figure e caratteri tipici del romanzo d'appendice nelle sue forme più popolari.

Ricordando il proprio recente passato, il protagonista, un giovane e geniale scienziato tedesco autoesiliatosi in Giappone, racconta a un occasionale confidente la sua storia, dall'incontro con una perfida donna che lo ha distratto dai suoi veri interessi spingendolo a intraprendere speculazioni rovinose, per poi tradirlo, fino a un incidente che gli permette, essendo da tutti creduto morto, di ripercorrere le tappe della sua degradazione, e infine la scelta della partenza definitiva e del rifugio alla corte dell'imperatore giapponese. Nelle pieghe delle avventurose vicende del protagonista ricompare il tema caro al D., come a tanta letteratura ottocentesca, del dominio corrompente e degradante del denaro, insieme alle insidie rovinose della donna fatale. Per la scarsa elaborazione del materiale e l'evidente approssimazione psicologica e narrativa, questo romanzo appartiene decisamente alla zona meno matura della produzione del D., che, del resto, non doveva apprezzarlo molto, visto che non ne curò la stampa in volume, come fece con gli altri.

Di tutt'altro genere il romanzo successivo Giacomo l'idealista (Milano 1897, strenna della Perseveranza), nel quale il D. con tutta evidenza avrebbe voluto profondere il meglio delle sue riflessioni e problematiche etico-letterarie, incarnate nel protagonista, Giacomo Lanzavecchia che è una sorta di Demetrio-Arabella con un di più di complicazioni intellettuali a sfondo filosofeggiante (essendo Giacomo professore di filosofia). Come è stato ampiamente notato, il personaggio è narrativamente debole e incoerente, come il suo dramma poco convincente nella pretesa di una opposizione filosofia-vita reale; in sostanza anche Giacomo, come le tipiche figure della narrativa demarchiana, è una vittima dell'amore, delle vicende umane che non sa governare e che quindi lo travolgono, è un altro antieroe della sofferenza e della rassegnazione. Ancora una volta la morte, in questo caso di Celestina, la giovane amata da Giacomo, viene a sciogliere una vicenda che denuncia, come in Arabella e in Demetrio Pianelli, l'impossibilità dell'amore, l'impraticabilità della virtù, la prevalenza dei forti sui deboli, la sconfitta certa di ogni illusione o "idealismo".

Lo sfondo della storia è qui più ambizioso e complicato dalla presenza di piani sociali diversi: c'è uno spaccato di società nobiliare impersonato dai conti Magnenzio di Villalta, l'ambiente contadino evoluto di Mauro Lanzavecchia, il mondo dei politici ritratto negli intrighi e nelle pratiche opportunistiche che sembra definirlo agli occhi del D.; la dimensione paesaggistica brianzola, nella quale la vicenda è collocata, è probabilmente l'aspetto stilisticamente più riuscito del romanzo, nel quale si avverte un'eco indubbia della complessità strutturale e tematica di Piccolomondo antico di A. Fogazzaro (che è del 1895) e, ancora una volta, dei Promessi sposi di Manzoni, di cui è ricalcata la situazione base dell'amore tra due giovani, insidiato e violentato dalla prepotenza del nobile locale, nonché figure laterali e interi episodi.

Il D., già angustiato dallo scarsissimo successo di pubblico e di critica dei suoi libri, dopo l'exploit del Cappello del prete (cfr. lettere a E. Mascheroni, 25 febbr. 1890 e a A. Ghisleri, 22 marzo 1890, in Tutte le opere, III, 2, pp. 782 ss.), e colpito profondamente dalla morte della moglie cui seguì, come si è già accennato, la morte della figlia Cesarina nell'agosto 1897, continuò tuttavia a scrivere romanzi, l'ultimo dei quali, Col fuoco non si scherza, comparve sulla Rassegna nazionale di Firenze nel 1900 e l'anno dopo, postumo, in volume (Milano).

Tornano di nuovo figure care alla fantasia del D.: Beniamino Cresti che soccombe nella aspirazione alla realizzazione dell'amore per Flora Polony, a lungo sommessamente coltivato; la stessa Flora, personaggio caratterizzato ol da rettitudine morale e carica passionale, che decide di votarsi al sacrificio e alla rinuncia; il terzo elemento del triangolo, Ezio Baglioni, che da figura connotata inizialmente in modo negativo, si riscatta nel finale, anch'egli nel nome della dignità e della comprensione. Sono personaggi sottomessi, in modi diversi, alla sofferenza e passivamente dediti a tentare di convivere con la passione, analizzata a volte con finezza e attenzione ai risvolti ambigui e inquietanti delle psicologie coinvolte. C'è in quest'ultimo romanzo un'influenza più accentuata di Fogazzaro, sia nell'ambientazione socialmente e psicologicamente composita, sia nella cura letterariamente più attenta alla costruzione e allo svolgimento stilistico del romanzo, entrambi motivi però troppo esteriormente assunti dal D., in sovrapposizione e quasi in contrasto con la sua vena più autentica.

Per molti versi affiancabili alla produzione specificamente narrativa sono le prose di Milano e suoi dintorni (Milano 1881) e sopratutto quelle raccolte in volume dopo la morte del D. con il titolo Milanin Milanon (ibid. 1902). Si tratta di componimenti pervasi dal senso elegiaco della consonanza con i luoghi e i paesaggi del Milanese, "poemetti in prosa dialettale" li ha definiti G. Ferrata, che testimoniano efficacemente la vena lirica del D. che meglio si esprime qui, come in ritratti analogamente ispirati degli ambienti cittadini e brianzoli sparsi nei romanzi, piuttosto che nelle poesie raccolte in diversi volumi: Poesie (Milano 1875); Sonetti (per l'onomastico della madre, ibid. 1877); Aifanciulli del collegio (ode, ibid. 1879); Susetta (bozzetto medioevale, ibid. 1883); Vecchie cadenze e nuove (ibid. 1899); va aggiunta la traduzione in versi delle Favole di Lafontaine (con illustrazioni di G. Doré, ibid. 1885). Generalmente giudicate negativamente dalla critica, queste composizioni poetiche furono invece apprezzate dal Croce perché "si sente che ciascuno di quei componimenti del De Marchi è nato da una trama di pensieri e da un'onda di sentimenti, che veramente agitavano e interessavano lo scrittore" (p. 165), benché anche il Croce non potesse non rilevare che i suoi versi non arrivavano ad essere costruiti "poeticamente, ossia compiutamente, con le sue sfumature di colore, con la sua musica di suoni" (ibid.). È stato del resto osservato che il versante poetico della produzione demarchiana trova una collocazione singolarmente sfasata rispetto alle sue scelte narrative e critiche; vi si avverte, per esempio, una influenza anche di ordine metrico del Carducci dal quale esplicitamente, in sede critica, il D. aveva preso le distanze, testimoniando insomma la persistenza di una divaricazione tra linguaggio poetico e linguaggio prosastico, che segna in modo continuo la letteratura italiana ottocentesca, con pochissime eccezioni. In conclusione, "l'interesse delle poesie è essenzialmente psicologico: escludendo l'umorismo, esse scoprono un fondo d'anima malinconicamente pensoso e sentimentale, "crepuscolare"" (D. Mattalia, p. 3180).

Molto più interessante del D. poeta è il D. educatore e pedagogo, un piano di impegno cui incessantemente si dedicò con l'operosità concreta del filantropo (e si sono ricordati già i molti incarichi che ricoprì in questa direzione) e con un'attività intensa di scrittura e di organizzazione editoriale. Il primo documento di questa sua tensione è la conferenza Premi e castighi (Milano 1881), seguita dalla collaborazione assidua a L'Italia giovane (diretto da A. Vertua Gentile e P. Fornari) sul cui primo numero (1886) il D. pubblicò un racconto di decisa intenzione pedagogica morale dal titolo Il libro della vita. Sulla rivista comparvero negli anni successivi molti altri interventi (racconti, bozzetti drammatici per ragazzi, articoli) del D., che curò, nel 1888, il volume L'Italia giovane. Parte maschile. Pensare e sentire. Letture varie per i giovanetti (ibid.). C. A. Madrignani, che a questo aspetto ha dedicato uno studio particolare, ha sottolineato l'impianto moderatamente positivistico della rivista di cui risentì naturalmente la concezione pedagogica dei D. nell'accentuazione della necessità della diffusione tra il popolo dell'educazione, nell'esaltazione del valore della volontà e dello spirito di iniziativa, nella erppiristica proposizione dei canoni del buon senso e della moderazione, sul terreno sociale come su quello morale e civile. Sono gli stessi criteri a ispirare l'opera di questo genere più nota del D., L'età preziosa. Precetti ed esempi offerti ai giovinetti, ibid. 1888, una sorta di manuale di educazione articolato in racconti, divagazioni e riflessioni morali e psicologiche, dominato dalla idea programmaticamente didattica e sostenuto dall'affiato umanitario e sinceramente partecipe che al narratore D. ispirano i suoi dolenti personaggi.

La dimensione educativa che ne emerge è riconducibile al tono di medietà, di moderazione, di saggezza spicciola ed empirica che caratterizza il D. anche sul terreno letterario e critico. Sono iscrivibili sulle stesse coordinate, anche se si tratta di scritti in forma drammatica, le garbate commediole e i monologhi per bambini raccolti nel volume postumo Oggisi recita in casa dello zio Emilio (Milano 1910). Dunque, sempre sulla medesima linea si collocano i libri successivi all'Età preziosa, che sono Lettere a un giovin signore (ibid. 1891), Le quattro stagioni (ibid. 1892), I nostri figliuoli (ibid. 1894), che ripropongono sotto angolature diverse la sostanza dell'interesse etico del D., in sintonia con l'esigenza fortemente sentita a livello sociale e intellettuale di educare le nuove generazioni ad un tipo di convivenza civile e di partecipazione sociale, organiche al giovane Stato unitario. Basterebbe ricordare gli scritti ben più celebri di De Amicis e il grande successo del Pinocchio di Collodi, per citare solo le punte emergenti di un interesse variamente e acutamente percepito da una parte almeno della "società delle lettere".

Dall'educazione dei giovinetti il D. passò facilmente, spinto con tutta probabilità dallo choc provocato in lui e nei benpensanti milanesi dai moti popolari del '98 (cruentemente repressi a Milano dal gen. Bava Beccaris), all'educazione dei lavoratori, nella illusione che la propaganda genericamente umanitaria potesse sedare se non risolvere i conflitti sociali che stavano esplodendo. Fondò quindi e diresse tra il 1898 e il '900 il periodico La Buona parola. Letture per il popolo (Milano) di cui scrisse interamente molti fascicoli (precisamente i nn. 1-5, 7-18, 21, 27, 28), affidando gli altri a diversi collaboratori.

Nonostante lo scarsissimo interesse letterario di questi e di tutti i suoi scritti pedagogici, non sarebbe proficuo relegarne il valore ad una zona delimitata della sua attività, isolandoli dall'arca narrativa di dominio letterario. In effetti i nessi tra queste due zone sono molti e molto significativi per illuminare una personalità unitaria benché intimamente contraddittoria come quella del De Marchi. Certamente ci sono, e ben visibili, contiguità di ordine tematico, etico e ideologico; ma l'elemento più importante che induce a considerare tutta la sua attività senza soluzione di continuità risiede nella tensione verso le forme "popolari" della scrittura che caratterizza in modo originale la sua narrativa, per le tematiche e molto più per le forme di comunicazione elaborate e scelte, la lingua e il "genere" del romanzo d'appendice, accanto alle novelle, che rispondono alle medesime intime esigenze di educazione del popolo che ispirarono i suoi scritti direttamente pedagogici e didattici.

"L'educazione del popolo io vorrei compierla adagio, come si tratta un gran malato, e non recidergli la testa per medicargli il pensiero" aveva scritto a Ghisleri nel '77 (lett. cit., p. 772). Considerazione che si completa perfettamente con questo passo del discorso su Marizoni: "Il più grande merito di uno scrittore non è tanto d'aver de' buoni concetti e dei seritimenti onesti come ogni buon galantuomo, quanto di possedere l'arte di insinuarli nell'animo altrui in una maniera che vi attecchiscano e producano frutto" (L'opera di A. Manzoni, in Tutte le opere, III, 1, p. 287). Che è il proposito esplicito e concreto di un tipo di intellettuale che non privilegia una forma di scrittura rispetto ad altre, in ordine a criteri estetici, stilistici o espressivi, ma le subordina programmaticamente a una intenzionalità morale ed esemplare che, in modo più o meno trasparente, è tuttavia sempre presente. Anche, quando non sopratutto per questo, il D. appartiene pienamente a una stagione della nostra letteratura che si concluse sulla fine dell'Ottocento e ad una zona geografico-culturale come quella milanese che si era andata strutturando e organizzando attorno ad una tradizione che nei nomi di Parini, Porta e Manzoni trovava, in qualche modo, le ragioni della propria identità.

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Demetrio Pianelli

Trama

Parte prima. Lord Cosmetico

Cesarino Pianelli, detto Lord Cosmetico per l'eleganza e la bellezza, è un quasi quarantenne sposato con la bellissima Beatrice e con tre figli, la dodicenne Arabella e due maschi più piccoli, Mario e Naldo.

Cesarino gestisce il circolo Monsù Travet, al quale sottrae duemila lire per pagare debiti di gioco. Per non essere scoperto prende mille lire alla posta, dove lavora come cassiere, approfittando dell'assenza dell'altro cassiere Martini, partito per assistere la moglie morente. Al rientro di Martini, Cesarino viene scoperto: cerca disperatamente di trovare il denaro per restituirlo ma nessuno lo aiuta, né il ricco Melchisedecco Pardi, proprietario di una fabbrica di nastri di seta, con cui è molto amico, né il suocero, che deve ancora versargli una parte della dote. Cesarino viene denunciato e si toglie la vita impiccandosi nel solaio della casa. Alla famiglia viene fatto credere che è morto per un malore. A Milano in quei giorni si festeggia il Carnevale, e Beatrice è tra le donne più ammirate alle feste.

Cesarino lascia una lettera per il fratello Demetrio, in cui gli chiede di occuparsi della famiglia e di riparare il debito di mille lire. Demetrio è figlio dello stesso padre di Cesarino, ma hanno avuto madri diverse. Demetrio è più anziano di oltre dieci anni e i due fratelli hanno avuto un'educazione assai diversa, rozza quella di Demetrio, raffinata per Cesarino. Demetrio è uno scapolo non bello con abitudini da contadino, vive con uno stipendio da impiegato del Demanio di mille e quattrocento lire annue. Da anni tra Demetrio e Cesarino erano cessati i rapporti, e Cesarino parlava del fratello come di una persona avara e bigotta.

Parte seconda. Le tribolazioni di un pover'uomo

Demetrio accetta di farsi carico della famiglia del fratello, scoprendo che è pieno di debiti. Il suocero, Isidoro Chiesa, non è in grado di versare ciò che resta della dote, perché ha perduto i suoi averi ed è impegnato in un grosso processo contro l'ospedale di Melegnano, nel quale sono in ballo ottantamila lire ma di cui non si vede la fine. Anzi, il Chiesa vorrebbe che Demetrio gli versasse settecento lire promesse tempo prima da Cesarino.

Demetrio, anche su consiglio del suo capo cavaliere Balzalotti, per un po' non si fa più vedere in casa della cognata, ridotta quasi alla fame. Una domenica, però, Arabella, che ha intuito dai discorsi dei vicini che Cesarino è morto suicida, si presenta a casa dello zio e lo supplica di aiutare lei e la famiglia. Demetrio non sa resistere e le regala del denaro. Demetrio si impone su Beatrice, e comincia a vendere mobili e altri oggetti per fronteggiare i debiti. Ottiene anche l'aiuto di Paolino, un cugino benestante che ha ospitato per alcuni giorni Beatrice dopo la morte di Cesarino. Paolino presta i soldi per restituire le mille lire al Martini che, a causa della sua negligenza nella gestione della cassa, ha dovuto risarcire il danno e verrà trasferito in Sardegna. Demetrio va a consegnare il denaro con Arabella, che è ormai al corrente di tutta la vicenda.

Parte terza. Paolino delle Cascine

Paolino è un ricco agricoltore che abita fuori Milano, in una località detta Le Cascine. Rimasto colpito da Beatrice, pensa di sposarla: chiede a Demetrio di preparargli il terreno e continua a dargli sostegno economico.

Dopo Pasqua, Arabella fa la prima comunione. Demetrio trascorre una domenica serena con lei, Beatrice e i due maschietti, e per la prima volta riesce a pensare a Beatrice come ad una donna desiderabile.

Beatrice, nascondendolo a Demetrio e con l'aiuto della moglie del Pardi, Palmira, che si sente un po' colpevole per avere impedito al marito di aiutare Cesarino, e del Balzalotti, cerca di mandare avanti il processo del padre. Quando si reca dal Balzalotti per chiedergli consigli, questi sostiene che per lui la causa è persa, poi cerca di corteggiare Beatrice e prima che lei se ne vada la obbliga ad accettare un braccialetto.

Demetrio comincia ad affezionarsi a Beatrice: gli costa molta fatica portarle una lettera di Paolino con la proposta di matrimonio. Durante l'incontro, Beatrice gli confessa la storia col Balzalotti, a cui chiede a Demetrio di restituire il braccialetto. Demetrio se ne va furioso col Balzalotti, da cui si sente ingannato, poi si accorge di avere perso la lettera di Paolino, che la rabbia gli aveva fatto dimenticare.

Parte quarta. Dalla sonnambula

Paolino, spazientito per la mancanza di notizie da Demetrio, si reca a Milano da una veggente, una sonnambula che predice il futuro, portandole una ciocca di capelli di Beatrice, rinvenuta alle Cascine. La maga gli assicura che entro agosto sarà felice.

Demetrio ha perso la lettera in casa di Beatrice, che l'ha trovata e letta. Dice a Demetrio che ci penserà, ma le pare una buona proposta. Demetrio è triste, vede svanire le illusioni che si stava facendo nei confronti della cognata. Restituisce il braccialetto al Balzalotti, ma finiscono per litigare: viene sospeso dal lavoro per due mesi, poi sarà trasferito a Grosseto. Nel frattempo, per sopravvivere, è costretto a vendere un vecchio orologio, ricordo del padre.

Qualche giorno dopo, quando è ormai fine maggio, Demetrio va a trovare Beatrice, trova da lei anche Paolino e così scopre che tutto è combinato per il matrimonio, che si celebrerà il ventiquattro di agosto, e che la famiglia, col denaro di Paolino, è tornata a vivere nel lusso.

Un giovane vicino di casa dei Pianelli, Ferruccio, parte per studiare in seminario: Arabella, che ne era segretamente innamorata, scoppia in lacrime tra le braccia di Demetrio, l'unico nel quale ha sentito di poter cercare consolazione.

Parte quinta. Alle Cascine

Demetrio, che non ha detto nulla del futuro trasferimento, resta solo a Milano in compagnia di Giovedì, il cane dei Pianelli che all'inizio detestava, mentre alle Cascine si prepara il matrimonio. Paolino, insospettito dal suo strano comportamento, lo va a cercare in ufficio, e qui un collega gli racconta la storia del litigio col Balzalotti, a cui molti hanno assistito. Paolino rimane sorpreso e pensa di avere un rivale in Demetrio.

Beatrice, temendo che Paolino voglia annullare il matrimonio, va a trovare Demetrio: lo trova pronto a partire e gli chiede di scrivere a Paolino per chiarire la situazione, ma si rende conto che anche Demetrio è innamorato di lei e rimane vivamente colpita.

Il matrimonio viene rinviato a causa di un articolo di legge. Palmira Pardi, ignara del rinvio, finge di essere stata invitata per trascorrere una notte fuori casa con l'amante, un cantante su cui il marito nutre sospetti. Ma Melchisedecco, gelosissimo, scopre l'inganno e uccide la moglie quando questa rientra a casa.

Demetrio parte, portando con sé Giovedì. Arabella ha saputo del trasferimento e si fa accompagnare alla stazione da un vicino di Demetrio per salutarlo, portandogli una lettera con un ritratto di Beatrice. Demetrio, nonostante la partenza, non è triste, perché gli pare che qualcosa di dolce sia entrato nella sua vita.

Parte sesta. Gli altri

A Milano si parla molto dell'omicidio Pardi. Beatrice, sentendosi un po' in colpa, passa alcuni giorni debilitata. Arriva l'inverno. Paolino è rassicurato dalle lettere di Demetrio, che racconta di trovarsi bene a Grosseto.

Poi giunge finalmente il giorno delle nozze. Nella festa generale solo Arabella, che pensa a chi è morto e a chi è lontano, e riempie l'avvenire con le ombre del passato, è un po' malinconica.