Wikipedia
Carlo De Cristoforis (Milano, 1824 – San Fermo della Battaglia, 27
maggio 1859) è stato un patriota italiano, veterano delle
cinque giornate, economista, pubblicò un celebre testo di
teoria militare. Capitano dei Cacciatori delle Alpi, cadeva
eroicamente a San Fermo, a soli trentaquattro anni.
Esordi
Nacque a Milano nel 1824, figlio di un professore di lettere che,
tra i suoi allievi al liceo, aveva annoverato Carlo Cattaneo e
Cesare Cantù e che era stato collaboratore del
"Conciliatore". Studente all'Università di Pavia, fu ammesso
nel 1842 nel Collegio Ghislieri, e proprio nel Collegio grazie ad
amicizie e letture "clandestine" sviluppò le sue idee
politiche e patriottiche.
La prima guerra di indipendenza
Combattente alle cinque giornate del 1848 con il Manara. Compagno di
Manara anche fra le montagne del Trentino nel 1848.
Il ritorno degli austriaci
Dopo il 1848, nei difficili anni seguiti al rientro degli austriaci
a Milano, si rifugiò negli studi di economia e sociologia.
Economista, allievo esterno della Scuola Imperiale d'Applicazione di
Stato Maggiore di Parigi, era ritenuto una delle più feconde
menti lombarde del tempo. Fautore della teoria del "credito
gratuito" del Proudhon, pubblicò, in vita, "Il credito
bancario e i contadini (1851)".
Non tralasciò nemmeno l'azione politica, legandosi al
cosiddetto “Comitato dell'Olona", guidato dal Carta (quello che
aveva stampato il manifesto per cui venne fucilato l'Amatore
Sciesa). Nel 1853, compromessosi nella fallita insurrezione tentata
il 6 febbraio 1853 a Milano, partì esule in Francia, Piemonte
e Inghilterra.
L'esilio
I fatti contribuirono ad allontanarlo definitivamente dal Mazzini:
nel 1856 si arruolò con il grado di Sottotenente nella
Legione Italiana organizzata in Piemonte ed a Malta dall'Inghilterra
per la guerra di Crimea. Nel 1857 si parlò di lui come un
possibile partecipante ad una spedizione nel Regno di Napoli cui
parteciperebbero ex-mazziniani, quali il Sirtori. Quindi
passò Londra nel 1858 quale professore supplente di
fortificazioni e topografia nel Collegio Militare di Sumbury e poi
professore titolare della stessa disciplina in un altro collegio
militare dello Stato Maggiore.
Fra il 1849 e l'agosto 1857 stendeva il libro “Che cosa sia la
guerra” (pubblicato solo nel 1860), per preparare i giovani colti
all'alto compito d'inquadrare negli eserciti regolari italiani le
nuove forze. Egli si mostrava più che mai scettico circa ogni
utilizzazione delle forze popolari che non fosse attraverso
l'esercito regolare, anzi l'esercito di qualità, sul modello
francese, ossia un esercito con soldati a lunga ferma e divenuti
alla fine simili a soldati di mestiere e privo di volontari.
La seconda guerra di indipendenza
Nel 1859 veniva in Italia per combattere, ma il La Marmora lo
credeva un sovversivo e non lo voleva nell'esercito regolare. Non
riusciva ad ottenere un posto nello stato maggiore di Garibaldi
né in quello dei Cacciatori degli Appennini di cui curava
l'organizzazione il generale Ulloa.
Si arruolò allora come semplice capitano comandante di
compagnia nei Cacciatori delle Alpi. Cadde eroicamente nella San
Fermo il 27 maggio 1859, a soli trentaquattro anni, mentre alla
testa dei suoi uomini guidava un assalto alla baionetta verso una
ben difesa postazione austriaca.
*
DBI
di Giuseppe Monsagrati
Nacque a Milano il 20 ott. 1824,
primogenito di nove figli, da Giovan Battista e da Giovanna Adelaide
Rota.
Il padre, figura di spicco nell'ambiente culturale milanese, amico
del Manzoni e uno degli istitutori del Cattaneo, in epoca
napoleonica era stato viceprefetto a Salò e alla caduta
dell'Impero si era ritirato a vita privata, dedicandosi a studi di
pedagogia e alla letteratura per l'infanzia; e nel figlio, che
inizialmente era stato affidato alle cure di M. Macchi, ebbe
perciò il primo banco di prova delle sue idee educative che
miravano ad uno sviluppo armonioso della personalità sulla
base di una salda e sincera accettazione della fede e della morale
cristiane.
La precettistica paterna, con i suoi contenuti evangelici e i suoi
richiami al senso del dovere, si impresse profondamente nell'animo
dei D. producendovi, a contatto con un carattere naturalmente
esuberante, conflitti interiori di non facile superamento; tanto che
nel 1838, sconvolto per la scomparsa del padre e credendo di
avvertire in sé il nascere di una vocazione, il D.
s'infervorò nello studio della religione con l'intenzione di
avviarsi al sacerdozio. Da tale proposito scarsamente meditato lo
distolse la madre che lo convinse invece a sostenere l'esame per un
posto gratuito di convittore nel collegio Ghislieri di Pavia per
frequentare nella locale università i corsi di
giurisprudenza.
Il D. entrò nel Ghislieri il 3 nov. 1842. Il collegio aveva
una tradizione in fatto di serietà degli studi e di
libertà della ricerca, e richiedeva ai suoi ospiti un impegno
costante e profondo nello stesso momento in cui ne favoriva una
preparazione di tipo non dogmatico. In questa atmosfera, che proprio
in quegli anni subiva l'azione innovatrice di una generazione
ansiosa di cambiare e portata a guardare con spirito concretamente
riformatore ai problemi della Lombardia, si compì lo sviluppo
dei D. che sull'educazione cristiana dell'adolescenza innestò
il bisogno di conoscere scientificamente la realtà, il
desiderio vivissimo di porre rimedio ai mali della società e
l'impostazione pragmatistica - tipica di certa cultura lombarda -
delle soluzioni proposte.
La Milano in cui il D. tornò dopo aver conseguito la laurea
in legge (1847) viveva la vigilia dell'insurrezione antiaustriaca:
membro autorevole di quella élite del patriottismo che si era
formata sui testi mazziniani e ora lavorava a preparare la rivolta
armata, il D. fu, coi quattro fratelli minori, tra i primi a salire
sulle arricate al seguito di quel L. Manara che, improvvisatosi capo
militare, guidò in vari punti della città la lotta
alle truppe del gen. Radetzky. Il coraggio e la serenità con
cui affrontò i combattimenti e quindi partecipò,
sempre col Manara, alla campagna del battaglione dei volontari
nell'alta Lombardia non gli fecero tuttavia chiudere gli occhi sui
difetti d'una azione militare, quella dei corpi franchi, che si
sforzava di colmare col valore dei singoli e l'agilità degli
spostamenti le lacune organizzative e la preparazione improvvisata.
Perciò, prima ancora che nel settembre del 1848 il
battaglione Manara si sciogliesse, il D., evidentemente incredulo
sulle possibilità della guerra di popolo propagandata come
sola salvezza dai repubblicani, si ritirò in una casa di
campagna a Gavirate, donde assistette, con partecipazione umana ma
anche con scetticismo, agli eventi del 1849.
Tra il 1850 e il 1853 partecipò alle attività occulte
del milanese Comitato dell'Olona esponendosi di persona in audaci
gesti di sfida alla polizia imperiale o in beffe clamorose ai danni
della nobiltà austriacante (fu lui a sfregiare il ritratto
del conte A. Nava esposto a Brera da F. Hayez). Mentre d'altra parte
frequentava le riunioni politico-mondane del salotto della contessa
Maffei in cui prendeva gradualmente piede il rifiuto della strategia
insurrezionale mazziniana, il D. si immergeva in una analisi attenta
della realtà sociale lombarda e, al corrente dei progressi
fatti segnare nell'economia politica in Francia dal Proudhon,
scorgeva nella soluzione della questione agraria un punto di
passaggio obbligato nella strada verso l'indipendenza e
l'unità nazionale. Nasceva così il volume Il credito
bancario e i contadini (Milano 1851; ripubblicato ivi nel 1871 con
il titolo La libertà delle banche e la soluzione del problema
sociale).
Partendo dal postulato: "I prodotti si cambiano coi prodotti" (P. 7)
e assodato che la vita economica si basa sulla legge della
"proporzionalità" (cioè della vendibilità) dei
prodotti, il D. affronta il problema della mobilitazione dei
capitali con l'obbiettivo di farli giungere a chi li possa
utilizzare per incrementare la produzione. La soluzione da lui
escogitata è quella di un credito a un tasso di interesse via
via più ridotto, ma tuttavia sempre presente, in quanto per
il D. - diversamente che per il Proudhon, il quale lo voleva abolito
del tutto scopo finale non era soltanto quello della circolazione
dei capitali, ma anche il rispetto della legge della
proporzionalità, che avrebbe consentito un incremento della
produzione vendibile: "nessuno vorrà porsi ad una produzione
che crei merci non vendibili, non proporzionate, giacché
è dalla vendita che l'intraprenditore spera di ricavare e
l'interesse dei capitale ed il profitto proprio" (p. 194). Per
ottenere il progressivo abbassamento degli interessi bancari secondo
il D. occorreva abolire il regime privilegiato e istituire un
sistema bancario assolutamente libero da vincoli statali e governato
unicamente dalla legge della concorrenza: in tal modo i capitali
sarebbero affluiti in gran quantità sotto forma di depositi
attratti dal pagamento dell'interesse bancario (che non esisteva in
regime privilegiato), traducendosi in un aumento del credito e di
conseguenza in un incremento della produzione, del "prodotto netto
della società" (p. 205). Sarebbe stata, infine, la
concorrenza a produrre gradatamente una diminuzione indefinita dei
tassi di interesse sul credito bancario.
Questo fenomeno avrebbe avuto ripercussioni vantaggiose sia per le
classi più povere, in particolare per i contadini - i quali,
grazie all'abbondanza di credito a buon mercato, sarebbero stati
messi in condizione di divenire piccoli proprietari -, sia per i
"capitalisti", i quali avrebbero visto la perdita relativa, causata
dall'abbassamento dei tassi di interesse, ampiamente compensata dal
maggiore prelievo da un prodotto netto sociale sempre più
elevato. Il progetto del D. aveva il suo fine principale nel
raggiungimento di una situazione di equilibrio per la
collettività, per porla al riparo da ogni turbamento sia di
carattere economico (eliminazione delle crisi cicliche) sia di
carattere sociale ("la scienza fa sparire ogni sognato antagonismo
di classe e ci acquieta dall'avvenire", p. 206).
Il tratto distintivo della concezione del D. è da trovare,
quindi, non nella sua derivazione dalla teoria proudhoniana, ma
nell'affermazione di un ideale di libertà che, facendo perno
su un altro ideale, quello della giustizia, consentisse il
dispiegarsi, al di fuori di ogni controllo dello Stato, di tutte le
energie dell'uomo; un ideale fatto di ottimismo, ingenuità e
fiducia indubbiamente eccessiva nel sistema della libera concorrenza
e nelle leggi del mercato, sistema che era già stato
criticato negli studi del Sismondi e dell'Owen come suscettibile di
portare ineluttabilmente a una concentrazione di capitali nelle mani
di pochi.
Questa proposta doveva costituire anche l'ossatura della Memoria
sulle condizioni dei contadini in Lombardia, in relazione ai
contratti rurali ed alle istituzioni di credito agrario presentata
dal D. in quello stesso 1851 al concorso bandito dalla
Società d'incoraggiamento di scienze, lettere ed arti di
Milano, poi vinto da S. Jacini che era con lui il solo candidato al
premio: il testo della Memoria è andato perduto, ma il sunto
che ne fu dato dal Campolieti insieme con i frammenti successivi pet
un mai compiuto studio sul credito agrario provano come per il D. la
ricerca d'un rinnovamento politico non potesse andar disgiunta da
una vasta opera di riforma sociale; ma ciò, lungi dal
divenire in lui motivo agitatorio e spinta alla propaganda delle
proprie idee, continuava a restare oggetto di riflessione
scientifica, nella persuasione che "la rivoluzione italiana doveva
venire dall'alto, dagli intelligenti" (Campolieti, p. 445). Anche
nell'attività politica vera e propria il repubblicanesimo del
D., che nella Milano postquarantottesca aveva curato particolarmente
il raccordo dell'elemento settario borghese con quello popolare,
subiva una parabola in cui il primo tratto era costituito da un
atteggiamento di sempre più marcata sfiducia verso le
insurrezioni armate: l'organizzazione del moto del 6 febbraio 1853
lo vide perciò sulle stesse posizioni di quelle "marsine" a
cui il Mazzini avrebbe poi addebitato la defezione e il fallimento.
Tuttavia, proprio perché a conoscenza della preparazione del
moto e per essere poi sceso in strada rischiando l'arresto, il D. fu
costretto a restare nascosto fino a quando il 24 febbraio non
riuscì a lasciare Milano e a rifugiarsi nel Canton Ticino.
La condanna, comminata da un tribunale austriaco il 21 luglio 1854,
a 12 anni di arresto in fortezza e alla perdita della nobiltà
che era stata riconosciuta alla famiglia con diploma imperiale nel
1793 e confermata nel 1816, raggiunse il D. a Parigi dove, nella
vicinanza con esuli come D. Manin e G. Sirtori, si sarebbe definito,
dopo una breve infatuazione per il murattismo, il suo accostamento
ai gruppi unitari filosabaudi. All'intemo della revisione da lui
iniziata dopo il '48 occupava un posto di preminenza la
considerazione della scarsa esperienza militare delle forze
rivoluzionarie italiane: per cercare un rimedio su questo terreno
anche sotto il profilo personale il D., visto naufragare un progetto
di colonizzazione in Perù, frequentò per un anno
(1854) i corsi della Scuola imperiale d'applicazione di Stato
Maggiore in Parigi. Col titolo conseguito tentò invano di
farsi arruolare nell'esercito francese impegnato in Crimea: ottenne
solo, grazie ai buoni uffici di J. Hudson, ministro inglese in
Piemonte, di essere assegnato col grado di tenente ad una legione
anglo-italiana che a Malta, ove era stata dislocata, trascorse quasi
tutto il 1856 nella vana attesa d'un impiego bellico.
Finita la guerra di Crimea, il D. riprese a viaggiare, visitando
l'Inghilterra. il Belgio, di nuovo la Francia e facendo spesso tappa
a Torino: carattere irrequieto, tormentato dal pensiero di non aver
ancora trovato una sua collocazione e riluttante all'idea di
rimpatriare fruendo dell'amnistia concessa dall'Austria all'inizio
del 1857 (diceva che "non già l'imperatore aveva a perdonare
a lui, ma bensì molto lui all'imperatore": Guttièrez,
p. 207)., il D. si applicò allora agli studi di meccanica e
cullò per qualche tempo il sogno. di trasferirsi in Etiopia
per collaborare all'opera di civilizzazione intrapresa dal negus
Teodoro II. Sul finire del '57 tornò in Inghilterra dove
riuscì ad ottenere un insegnamento di tecnica delle
fortificazioni prima come supplente nel collegio militare di
Sunbury, quindi aprendo e dirigendo a Londra una scuola per
ufficiali (luglio 1858).
Il D. aveva intrapreso la riflessione sul problema militare e sul
ruolo dell'esercito come strumento indispensabile per la conquista
dell'indipendenza (in ciò risiedeva anche una delle cause del
suo avvicinamento al Piemonte) subito dopo gli insuccessi del '48.
Ne era derivato un saggio che, arricchito dalle esperienze di studio
e insegnamento in Francia ed in Inghilterra, avrebbe visto la luce
come opera postuma col titolo Che cosa sia la guerra (Milano 1860).
In questo testo, giudicato da taluni come "la più importante
opera apparsa in Italia sulla guerra nel secolo scorso" (Rochat, p.
391), da altri inserito impropriamente nel filone proudhoniano, il
D., partendo dalla analisi delle guerre rivoluzionarie di fine '700
e soprattutto sulla base della sterminata casistica delle campagne
napoleoniche, enunciava quello che per lui era il "principio sommo"
dell'arte militare: la massa come fattore decisivo della vittoria
(ossia della disarticolazione, più che della distruzione
fisica, dell'esercito nemico). Sviluppando questo assunto con
procedimento simile a quello adottato per l'opera sul Credito ma
senza la stessa capacità di persuasione, il D. subordinava il
raggiungimento dell'obiettivo primario alla creazione di un esercito
di caserma a lunga ferma (sul modello, ha osservato il Pieri, non
tanto delle armate napolconiche quanto di quelle di Federico II di
Prussia), compatto, ordinato, guidato da ufficiali.di carriera e
tenuto insieme da una disciplina ferrea e da un senso rigoroso della
gerarchia. La struttura da lui ideata era così caratterizzata
sottoilprofilo professionale da escludere esplicitamente ogni
ricorso a quella guerra per bande tanto cara ai democratici. E in
questo quadro alcuni fugaci richiami al solidarismo proudhoniano e,
soprattutto, qualche concessione al messianismo della giovinezza non
erano tali da intaccare una concezione che faceva dell'esercito una
istituzione molto selezionata ed informata ad un forte spirito di
casta.
Allo scoppio della guerra del 1859, che aveva atteso con ansia
febbrile, il D. rientrò in Italia. A Torino chiese
inutilmente di essere arruolato nell'esercito regio: il suo passato
di mazziniano lo rendeva probabilmente sospetto non solo
all'ufficialità piemontese ma allo stesso Garibaldì,
che lo accolse tra le sue file senza però affidargli quei
compiti di ufficiale di Stato Maggiore cui egli si sentiva in grado
di aspirare. Capitano comandante della 3ª compagnia del 2°
reggimento dei Cacciatori delle Alpi, l'8 maggio il D. sostenne il
primo scontro con le avanguardie austriache; il 20 maggio, varcato
il Ticino, fu lasciato a presidiare Sesto Calende dal Garibaldi che
intanto entrava in Varese: attaccato ancora, il 25 maggio il D. si
ricongiunse al Garibaldi che il 27 maggio, a San Fermo, lo
lanciò all'attacco d'una postazione nemica. Il D. fu tra i
primi a cadere, secondo alcuni tradito da un eccesso di foga che gli
fece dimenticare ogni cautela, secondo altri incolpevolmente portato
ad anticipare l'assalto dal fuoco prematuro d'una squadra operante
nei pressi: colpito al ventre, spirò poco dopo tra le braccia
del fratello Malachia, ufficiale medico dei Cacciatori delle Alpi
destinato a diventare celebre ginecologo e capo della massoneria
indipendente.
Fra le sue opere, Il credito bancario è stato recentemente
ristampato (Milano 1981) con introduzioni di M. Talamona ed E. Di
Nolfò; il Che cosa sia la guerra ha avuto altre quattro
edizioni (Milano 1868; Modena 1894; Roma 1925; ibid. 1938, a cura di
R. Morretta).
Fonti e Bibl.: Le carte lasciate dal D., dopo essere state
utilizzate da G. Guttièrez, Il capitano D., Milano 1860,
(questo lavoro fu recensito sul Politecnico, s. 2, VIII [1860], 47,
pp. 519-527), e da N. M. Campolieti, La mente e l'anima d'un eroe,
Milano 1907, sono andate disperse. Oltre a quelle utilizzate dal
Guttièrez e dal Campolieti, cui hanno attinto tutti i
biografi successivi, altre fonti coeve sul D. sono: Ediz. naz. degli
scritti di G. Mazzini, XLIX, e Appendice, IV, ad Indices; B. L.
Guastalla, Carte di Enrico Guastalla, Roma-Milano 1921, p. XV;
Lettere di L. Manara a F. Bonacina Spini…, a cura di F. Ercole, Roma
1939, ad Indicem; C. Cattaneo, Epistolario, a cura di R. Caddeo, II,
Firenze 1952, ad Indicem; G. Visconti Venosta, Ricordi di
gioventù, Milano 1959, pp. 59, 139, 150, 158 ss., 166, 173,
176 s., 315 s., 321, 323. Indicazioni bibl. sul D. sono fornite da
A. P. Campanella, G. Garibaldi e la tradiz. garibaldina. Una
bibliografia dal 1807 al 1970, II, Ginevra 1971, ad Indicem, e da F.
Della Peruta, I democratici dalla Restauraz. all'Unità, in
Bibliografia dell'età del Ris. in onore di A. M. Ghisalberti,
I, Firenze 1971, p. 174. Ulteriori dettagli sulla vita del D. si
ricavano da repertori e studi a carattere generale: così per
notizie sulla famiglia si rinvia a V. Spreti, Enc. stor-nobiliare
it., II, Milano 1929, p. 577; V. Piceni, Centenaria signora
gallaratese ed una pagina del Ris. nazionale. C. D. e la sua
famiglia, in Rassegna gallaratese di storia e d'arte, XV (1956), pp.
204-234; D. Muoni, Storia e geneal. della famiglia De Cristoforis,
in F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, Bologna 1969, II, ad nomen;
Libro della nobiltà lombarda, II, Milano 1978, pp. 422 s.
Sugli anni del Ghislieri si veda E. Sanesi, I Ghisleriani del
"Crepuscolo", in Ilcollegio Ghislieri 1567-1966, Milano 1967, pp.
364, 371, 374 s., 377. Sulla parte avuta nel '48 milanese: G.
Capasso, Dandolo, Morosini, Manara e il I battaglione dei
bersaglieri lombardi 1848-49, Milano 1914, pp. 34, 37, 50, 123, 148,
250 ss., 274, 280. Sugli anni 1849-53 e sul suo ruolo nel moto del 6
febbraio: T. Massarani, C. Tenca e il pensiero civile del suo tempo,
Milano 1886, p. 245; R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei,
Sesto San Giovanni 1914, pp. 117, 122, 127, 142, 192 s.; L. Pollini,
Mazzini e la rivolta milanese del 6 febbr. 1853, Milano 1930, pp.
32, 35 s., 51, 61, 72, 81 s., 91 s., 115, 223 s., 309 s., 332, 345,
356, 378; Storia di Milano, XV, Milano 1962, ad Indicem. Sul
murattismo dei D. un cenno in C. Agrati, G. Sirtori "il primo dei
Mille", Bari 1940, p. 151. Sulla morte e sulla polemica derivatane
si vedano: G. Guerzoni, Garibaldi, Firenze 1882, ad Indicem; J. W.
Mario, A. Bertani e i suoi tempi, Firenze 1888, I, pp. 340, 362 s.,
369, 372 ss.; C. Pagani. Milano e la Lombardia nel 1859, Milano
1909, pp. 242-246, 251-278. Discutibile l'interpretazione che dei
pensiero dei D. dà F. Della Peruta, I democratici e la rivol.
italiana..., Milano 1958, ad Indicem; limitatamente alle teorie
militari si v. C. Argan, Il pensiero di C. D. e la guerra mod., in
Riv. milit. italiana, VI (1932), pp. 501-24; P. Pieri, Guerra e
politica negli scrittori italiani, Milano-Napoli 1955, ad Indicem;
Id., Le forze armate nell'età della Destra, Milano 1962, ad
Indicem; G. Rochat., C. D., in Il collegio Ghislieri, cit., pp.
391-393. Vedi ora: G. Monsagrati, Per una rilettura degli scritti di
C. D., in Clio, XIX (1983), pp. 225-248