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Il pensiero politico di D'Annunzio
D’Annunzio è stato un poeta, non uno statista, pertanto non
ho esposto un suo “pensiero politico”, ma solo le sue convinzioni.
Egli è stato un importantissimo personaggio pubblico che con
le sue opere e la sua stessa vita ha influenzato il costume e la
letteratura europea del suo tempo; non a caso anche oggi si parla di
uno stile ‘dannunziano’ o si usa tale aggettivo per una persona che
agisce in modo raffinato, elegante, ricercato, a volte lezioso.
Nessuno come d’Annunzio ha saputo creare il proprio mito ancora in
vita, il cosiddetto “vivere inimitabile”. Egli è stato
l’araldo dell’Italia, il “vate”, il poeta soldato della Grande
Guerra, il Comandante di Fiume. D’Annunzio ha quindi avuto un peso
notevole non solo in campo artistico, ma anche in quello sociale e
politico. Tale sua importanza non era limitata ai confini italiani,
ma si estendeva anche al resto dell’Europa. Per questi motivi
è interessante analizzare le idee politiche del “vate”,
tenendo però sempre presente come egli sia stato ‘solamente’
un letterato e non un vero e proprio politico.
D’Annunzio è rimasto una questione aperta per la cultura
italiana, che non è riuscita ad affrontarlo con la dovuta
serenità e con il distacco critico che invece la sua
importanza meriterebbe. Il suo nome è ancora oggi troppo
legato a quello del partito fascista, nonostante gli studi sul
d’Annunzio politico effettuati a partire dagli anni Sessanta che
hanno messo in luce le distanze tra lui e il fascismo. Trattazioni
fondamentali sono state effettuate da importanti storici come Nino
Valeri (D’Annunzio davanti al fascismo del 1963) e Renzo De Felice
(Mussolini il rivoluzionario del 1965; Carteggio D’Annunzio
Mussolini del 1971; La penultima ventura del 1974).
Per chiarire la reale posizione del Comandante in campo politico
è strettamente necessario analizzarne l’esistenza e le
numerose esperienze vissute. A tal fine il periodo storico coperto
deve partire, necessariamente, dalla fine dell’Ottocento,
cioè dalla nascita del “vate” nel 1863, per concludersi nel
1938, anno della sua morte. L’arco di tempo non è certo
breve, ma è solo attraverso il suo intero studio che si
possono meglio cogliere le idee politiche del poeta. Le fonti
utilizzate sono state fondamentalmente di due tipi: librario e
archivistico. Il materiale librario è composto dalle opere
dannunziane e da testi pubblicati da altri autori sia durante la
vita del “vate”, sia successivamente; mentre la documentazione
archivistica è costituita da lettere e documenti vari
conservati presso l’archivio del Vittoriale a Gardone Riviera. Si
è deciso di consultare questo archivio per poter meglio
comprendere le scelte del Comandante attraverso la lettura delle sue
missive e dei suoi appunti. L’archivio si suddivide principalmente
in tre grandi compagini: l’archivio fiumano, che raccoglie molti
documenti ed epistolari riguardanti i mesi dell’impresa; l’archivio
generale dove è catalogato tutto ciò che è
pervenuto a d’Annunzio; l’archivio personale che riguarda invece la
corrispondenza scritta dal poeta e suoi appunti di vario genere. A
Gardone sono stati quindi analizzati diversi carteggi tra il poeta e
i suoi collaboratori e amici; inoltre si sono consultate le carte
del periodo fiumano, fondamentali per la cognizione degli
avvenimenti racchiusi nei quindici mesi di occupazione della
“città di luce”. Reperire materiale librario su d’Annunzio
è stato compito semplice.
Molti studiosi hanno analizzato la sua figura; le biografie sono
numerose e la maggior parte di esse sono complete ed esaurienti,
soprattutto quelle più recenti, mentre quelle scritte da
contemporanei del “vate” sono invece di tipo agiografico e peccano
di troppa adulazione nei suoi confronti. Lo storico Renzo De Felice
ha rappresentato una fonte importantissima per la ricerca. Egli
è artefice non solo di un’autorevole biografia su Mussolini,
ma anche, come già anticipato, di vari studi sulla figura del
d’Annunzio politico, nonché curatore, con Emilio Mariano,
dell’estesa corrispondenza tra il poeta e il “duce”.
Altro studioso che deve essere assolutamente posto in rilievo
è Paolo Alatri, autore di un’ampia biografia dannunziana e di
un basilare testo sulla questione adriatica, in cui sono tracciate
in modo assai esauriente le linee che ne hanno caratterizzato gli
avvenimenti, descritti in modo accurato e sulla base di numerosi
documenti.
Particolare rilevanza, e non poteva essere altrimenti, va data
all’analisi dell’intera opera di d’Annunzio: poesie, romanzi,
drammi, orazioni, annotazioni varie. Il “vate” ha lasciato
praticamente in quasi ogni suo scritto traccia del proprio pensiero
socio politico. Estrapolando brani da ogni singola opera letteraria
e riunendoli in un unico volume sarebbe possibile riassumere le idee
politiche di Gabriele d’Annunzio. Idee che hanno mantenuto sempre
una propria base nazionalista ed elitaria, ma che comunque,
attraverso il passare degli anni e il contatto con esponenti di
correnti politiche diverse, si sono avvicinate maggiormente al mondo
dei lavoratori, senza per questo mai giungere a una reale svolta a
sinistra.
Il lavoro è stato affrontato partendo proprio dalla lettura
degli scritti dannunziani, nella convinzione che sia necessario
studiare prima quanto prodotto direttamente dal “vate” e solo dopo
ciò che hanno scritto gli altri su di lui. Ruolo centrale
hanno avuto le biografie sul Comandante: in primis quella già
citata di Paolo Alatri; ma anche quelle di Guglielmo Gatti e di
Piero Chiara, autore quest’ultimo di un libro molto dettagliato.
Successivamente sono stati affrontati testi più specifici,
riguardanti cioè il ruolo politico svolto da d’Annunzio. A
tale proposito vogliamo citare le opere di Renzo De Felice, di
Michael A. Ledeen, di Emilio Mariano e di Guglielmo Salotti.
Gli studi di De Felice (in particolare la sua biografia
mussoliniana) sono stati indispensabili per l’indagine del complesso
legame che univa il “duce” al Comandante. Proprio per giungere a
tale comprensione, ancora più centrale è stato
però il carteggio curato sempre da De Felice con Mariano. Il
loro volume raccoglie - suddivisi per anni - quasi seicento pezzi
tra lettere e telegrammi scambiati a partire dal 1919 fino al 1938.
L’esame del rapporto d’Annunzio - Mussolini è stato esposto
seguendo un ordine prettamente temporale. L’epistolario è
stato suddiviso in sette periodi che racchiudono ciascuno vari anni
collegati fra loro da particolari eventi politici, come ad esempio
l’impresa fiumana. In effetti tutta l’analisi si fonda
essenzialmente su base cronologica: è stata infatti
presentata l’intera vita del poeta, mettendo man mano in evidenza
gli accadimenti politici che l’hanno accompagnata e segnata.
Durante lo svolgimento della ricerca si sono presentate alcune
piccole difficoltà: non è stato sempre facile
presentare con imparzialità le gesta e il pensiero di
d’Annunzio, soprattutto quando si è narrato della tragica
esperienza bellica, così tanto esaltata dal poeta-soldato.
Tenendo presente i valori universalistici e umanitari trasmessi
dalla civiltà contemporanea, non si può non provare
disagio e non si può condividere quanto il “vate” ha espresso
nei suoi discorsi alle truppe, nei suoi scritti propagandistici.
Forse la complicazione maggiore è stata presentare
‘asetticamente’ d’Annunzio, senza attribuire una forzata
collocazione a chi, per sua intima natura, una collocazione ha
sempre rifiutato. Egli non è stato né fascista
né antifascista. Il “vate” è un personaggio a se
stante, non inquadrabile in un precisa categoria politica. E proprio
questa sua ‘anarchia’ di fondo si è mostrata non agevole
argomento da esprimere, spiegare e comprendere. La sua figura
caratterizzerà per circa mezzo secolo la vita culturale,
sociale e politica italiana, con le sue opere letterarie al limite
dell’osceno secondo i canoni dell’Ottocento, con i suoi
comportamenti anacronistici da signore rinascimentale, con il suo
antiparlamentarismo e la sua antidemocraticità.
Centrale in qualsiasi studio su Gabriele d’Annunzio è il suo
rapporto con il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, un legame
interessante ed articolato. Forte è l’influenza nietzscheana
sul poeta e sulla formazione e maturazione del superuomo
dannunziano. Tale aspetto dell’arte e della vita stessa di
d’Annunzio. il lato superomistico dell’autore sarà
fondamentale durante l’intero corso della sua esistenza e delle sue
imprese, sia letterarie sia politiche. Il velleitario superuomo
dannunziano accompagnerà il suo creatore dalla “Roma
Bizantina” di fine Ottocento, alla “città di luce”, fino al
totale ritiro a Gardone.
Essenziale per tentare di comprendere le idee politiche del poeta
sarà l’analisi del suo legame con
il nazionalismo e l’imperialismo. D’Annunzio desidera ardentemente
un ritorno del suo paese a un ruolo di primo piano in campo
internazionale. Il poeta sogna per l'Italia un futuro di gloria e
grandezza, mentre è costretto a assistere a una politica
debole e incerta da parte del governo. La fine del capitolo vede
d’Annunzio esaltato dall’impresa libica, alla quale presterà
tutto il proprio appoggio, malgrado si trovi già “esiliato”
in Francia. Il poeta sarà il portavoce del colonialismo come
pochi anni dopo sarà quello dell’interventismo italiano nella
grande guerra.
Gabriele d’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da Francesco
Paolo Rapagnetta (il quale, adottato dallo zio Antonio, nobile
marchigiano, ne assume il cognome d’Annunzio) e da Luisa De
Benedictis, appartenente ad una facoltosa famiglia di Ortona. Il
padre, agricoltore ed enologo, é un notabile di Pescara, di
cui è stato consigliere comunale e anche sindaco. Alla fine
dell’Ottocento Pescara è solo un paese di poche migliaia di
abitanti, soprattutto pescatori; d’Annunzio cresce quindi in un
ambiente ristretto, ancor meno che provinciale, fin quando nel 1874
è inviato al Reale Collegio Cicognigni di Prato dal padre, il
quale ambisce a una promozione sociale dell’intera famiglia e
comprende inoltre la necessità di liberare il figlio dal
provincialismo abruzzese. Dopo la fine del liceo d’Annunzio si
iscrive a Roma all’università nel 1881: non sosterrà
alcun esame. Frequenta invece assiduamente le redazioni de “Il
Fanfulla”, della “Cronaca bizantina” e del “Capitan Fracassa”, con
le quali inizia a collaborare, senza però abbandonare
totalmente i divertimenti e gli sport a quali ama dedicarsi. Inizia
così la sua carriera letteraria che non sarà mai
disgiunta dalla politica, sempre presente nei suoi scritti.
D’Annunzio è infatti un letterato la cui produzione è
in gran parte finalizzata all’affermazione di un’ideologia. Egli non
vuole essere un semplice poeta, ma intende dare un’espressione
politica al proprio pensiero attraverso i suoi scritti e la sua
stessa vita. Così dichiarerà in una intervista
rilasciata allo scrittore Edmondo De Amicis
(Oneglia,1846-Bordighera,1908): Arte e politica non furono mai
disgiunte nel mio pensiero, né compresi mai come si potessero
disgiungere.
L’iniziale produzione dannunziana si rifà però al
grande maestro Carducci, anche se nelle poesie del giovane poeta
abruzzese sono presenti forti tinte sensuali e naturalistiche,
certamente non appartenenti allo stile carducciano. Il riferimento
in tal caso va alle poesie Primo vere (1879-1880). Il filone verista
si rintraccia inoltre nelle Novelle della Pescara (1902), nelle
quali è presente l’influsso verghiano. D’Annunzio subisce poi
una prima svolta ideologica nell’aprile 1892 quando su “Il Mattino”
è pubblicata la Commemorazione di Percy Bisshe Shelley. Qui
il poeta per un verso esalta l’amore shelleyano per l’umanità
e presenta Shelley come il precursore degli evangelici slavi, per
l’altro si basa su di un motivo diverso e addirittura antinomico:
l’ammirazione per il poeta eccezionale nell’arte come nella vita, in
lotta perpetua con la società. L’articolo termina con la
profezia di una non ben precisata rinascita, attesa in sdegnosa e
sublime solitudine da pochi eletti fedeli al «Sogno» e
«assorti nella contemplazione del loro turbine interno».
D’Annunzio proietta su Shelley il problema che lo assilla,
cioè superare la sfera della sensitività attraverso
l’acquisizione di un punto di vista generale, attraverso una precisa
concezione del mondo. Dal tono magniloquente di questo scritto
emerge con chiarezza un’attenzione nuova per la vita quotidiana,
spia del graduale spostarsi dell’autore verso nuove prospettive
letterarie e ideologiche, passaggio rintracciabile anche negli
articoli scritti per l’Arte letteraria in Italia apparsi su “Il
Mattino” il 22-23 settembre 1892. Questa ricerca spinge d’Annunzio
verso l’umanitarismo evangelico; scrive difatti il romanzo Giovanni
Episcopo (1891), nel quale possiamo ritrovare chiarissimi
riferimenti all’opera di Dostoievskij. L’umanitarismo non può
essere la corretta risposta alla problematica di d’Annunzio, in
quanto quella corrente di pensiero non corrisponde alla natura del
poeta e inoltre non è adatta alla realtà italiana.
L’esperimento dura infatti solo due anni e dopo l’incontro diretto
con Nietzsche nel 1893 sarà totalmente accantonato, portando
d’Annunzio verso la creazione del suo superuomo. Questo precedente
umanitarista è però determinante, perché
dimostra la diversa qualità dell’esperienza superomistica,
perché anche questa nasce dalla medesima esigenza (esigenza
evidentemente assai vitale se riusciva a sopravvivere anche a un
tentativo abortito come quello della bontà): e perché,
contrariamente a questo tentativo, non si esaurisce nel giro di
pochi anni, ma rimane come una costante fino alla morte del poeta.
Conoscendo, analizzando le opere e le azioni compiute da d’Annunzio
durante la propria vita, si può cogliere immediatamente in
esse un impronta nietzscheana. In realtà il rapporto con
Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken,1844-Weimar,1900) non
è così semplice come invece appare ad uno primo
sguardo: il filosofo influenza certamente d’Annunzio, il quale
è però già un nietzscheano senza sapere
d’esserlo. Prima della conoscenza diretta di Nietzsche il poeta
presenta caratteri della propria personalità che risultano
essere in sintonia con l’ideologia nietzscheana, anche senza averne
una diretta conoscenza. Nietzsche, partito dalla concezione di
Arthur Schopenhauer (Danzica,1788-Francoforte sul Meno,1860) della
vita come dolore e lotta, ne rovescia la soluzione e contro la
rinuncia difende invece l’accettazione totale ed entusiastica della
vita come essa é. Nietzsche entra in contatto con l’opera di
Schopenhauer intorno al 1865 - in occasione del suo trasferimento a
Lipsia - e la filosofia gli si rivela allora nel suo significato
più drammatico, cioè come un’intensa esplorazione
dell’enigma della personalità e dell’esistenza. Con Nietzsche
si apre nel pensiero moderno uno dei varchi del grande filone
irrazionalistico ed esistenziale, avviene la ribellione al
panlogismo, all’intellettualismo, al conformismo. Secondo il
filosofo una vera razionalità è sempre in rapporto
correlativo con l’irrazionalità, soprattutto nella sua
filosofia che pone al centro di sé il mistero della vita.
Coerentemente con questa visione le sue opere sono scritte con uno
stile aforistico e sono prive di qualsiasi articolazione
sistematica.
La polemica del filosofo contro il presente si sviluppa nelle
Unzeitgemässe Betrachtungen del 1873-76 (Considerazioni
inattuali) e soprattutto nella Die fröhliche Wissenschaft del
1882 (La gaia scienza) dove il sapere è invocato come
liberazione dai pregiudizi. Nietzsche vede il suo tempo
contraddistinto da uno spirito meschino e conformista, egli invece
è contro la democrazia del gregge, la religione della
rinuncia, lo statalismo livellatore, la morale dei pregiudizi. I
supremi valori sono quindi la gioia, la forza, la guerra, la
volontà di potenza dell’uomo. La morale nietzscheana trova
nel superuomo la sua massima incarnazione; a tale figura si
contrappone il gruppo informe dei dominati, necessario in ogni caso
alla costituzione di un nuovo mondo.
Secondo Nietzsche l’uomo è limitato nel suo agire da una
serie di freni: la tradizione, le norme etiche, religiose,
politiche; sono questi i confini che ogni persona deve di continuo
oltrepassare per realizzare la propria verità, la quale non
è oggettivamente fissata a un ordine di valori rivelato una
volta per tutte, ma è mutabile. La forma lirica e profetica
è forse l’unico modo in cui possa esprimersi una filosofia
della volontà, che è volontà di potenza, di
superumanità, d’affermazione decisa dei valori della vita,
dell’uomo, della natura contro il loro assorbimento nel sistema. Per
esattezza, ciò che deve essere superato non sono tanto le
categorie con cui la gente impone ordine ed armonia a quello che la
circonda, ma è l’uomo stesso che - diventano superuomo - deve
avere il coraggio (Der Wille zur Macht, La volontà di
potenza) di accettare il caos, cioè la vita per quello che
è, fino a far coincidere il destino con la propria
volontà, la necessità con la propria libertà.
Per giungere a tanto è però fondamentale il
capovolgimento di tutti i valori. Infatti la tradizione, soprattutto
quella cristiana, ha considerato valori tutti quelli che convergono
nella rinuncia al mondo; invece per Nietzsche è proprio
l’incondizionata accettazione del mondo l’unico vero valore. Questa
visione è illustrata dal filosofo nella sua opera Jenseits
von Gut und Böse del 1886 (Al di là del bene e del
male). Nietzsche partendo da questi presupposti conduce una dura
polemica contro ogni forma di democrazia e di educazione delle
masse, diventando la guida del pensiero decadentistico e
individualistico del periodo dell’imperialismo, fino a essere
utilizzato dal fascismo e dal nazionalsocialismo come precursore.
L’opera del filosofo tedesco é naturalmente in feroce
polemica con il cristianesimo («la morale degli
schiavi»). Nietzsche appoggia infatti la tesi di un
cristianesimo eroico, formulata dal teologo protestante Franz
Camille Overbeck (Dresda,1837-Basilea,1905), mettendo in evidenza
nella figura di Cristo il momento di rottura con tutti i valori del
suo tempo, con il conservatorismo giuridico della tradizione
giudaica, con lo spirito scientifico, con l’etica sociale della
civiltà ellenico-romana. Tuttavia il Cristo prevalso nella
Chiesa, sin dai tempi di San Paolo, sarebbe un altro, il negatore
della vita, come afferma in Der Antichrist, Fluch auf Christenthum
(L’anticristo) del 1884. Figura fondamentale nel pensiero
nietzscheano è quindi Cristo, rappresentante dell’amore
caritativo, affiancato da Socrate, rappresentante invece della
ragione, entrambi secondo Nietzsche capostipiti della civiltà
moderna.
L’opera più nota di Nietzsche è sicuramente Also
Sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra) (1883-84 e
1892), nella quale il filosofo descrive la sua utopia del superuomo:
egli è l’uomo totale, l’uomo diverso da opporre alla
borghesia per un ritorno alla purezza dell’idealismo. Secondo il
filosofo la persona stessa è una dimensione dell’universo e
per questo deve essere posta in rapporto con esso; Zarathustra,
personificazione dell’essere consapevole di sè e conoscitore
del bene e del male, è colui che «la conoscenza
misterica spinge a divenire completamente libero e signore di se
stesso, a collocare la propria esistenza nella circolarità
universale, nel ritmo vitale e divino delle cose.». Ciò
che a Nietzsche sta veramente a cuore, in modo particolare, è
il superamento della repressione degli istinti, della
spontaneità vitale, dell’incoscienza primordiale. Tali forme
di repressione sono connesse, dal filosofo, a una morale classica
fondata sulla repressione della coscienza. Il superuomo per lui non
è tanto il dominatore quanto l’uomo psicologicamente liberato
da quegli atteggiamenti ritenuti contro natura, contro la vita,
connessi allo spirito del cristianesimo. Egli mirava
all’oltrepassamento dell’uomo tradizionale, intimamente scisso,
tanto che oggi diversi studiosi, come Gilles Deleuze,8 preferiscono
infatti parlare di “oltreuomo”. Ma la sua vis polemica contro l’uomo
tradizionale lo induce spesso a contrapporsi ai valori democratici,
in nome dello “spirito libero”. Questo appello del suo pensiero,
nonostante il proposito di liberazione dello spirito umano, è
ripreso dalle tendenze antidemocratiche emergenti nella cultura alla
fine del XIX secolo, nel cui ambito va annoverato lo stesso
d’Annunzio. Il poeta scopre Nietzsche attraverso gli estratti della
sua opera, mediante il musicista Richard Wagner
(Lipsia,1813-Venezia,1883), Joris-Karl Huysmans
(Parigi,1848-Parigi,1907) e altri decadenti.
La concezione nietzscheana del superuomo sarà espressa da
d’Annunzio nel romanzo che proprio in quel periodo sta completando:
il Trionfo della morte (1894). Ma il vero primo richiamo di
d’Annunzio a Nietzsche si ha quando il 25-26 settembre 1892 su “Il
Mattino” di Napoli il poeta pubblica La bestia elettiva. L’articolo
è scritto dopo aver letto un brano di Jean de Néthy,
Nietzsche-Zarathustra, pubblicato nell’aprile del 1892 dalla “Revue
Blanche”, dal quale d’Annunzio trae spunto per la sua prima
affermazione di disistima per il sistema parlamentare ed il
suffragio universale.
Ne La bestia elettiva troviamo riferimenti ai temi della Zur
Genealogie der Moral (Genealogia della morale) del 1887, come ad
esempio nell’origine del termine buono da identificarsi con nobile
di spirito, temi utilizzati da d’Annunzio per denunciare lo stato di
decadenza etica e politica dell’Italia. Contemporaneamente il poeta
auspica la nascita di una nuova aristocrazia, che deve trarre la
propria ispirazione dall’energia pura della volontà, una
nuova élite sociale in grado di restaurare il sentimento di
potenza e di esercitare la sua forza. È proprio quest’ultima
a essere esaltata in questo articolo dannunziano, essa è
destinata a dominare sulle masse, le quali non meriterebbero altro
destino. È come se d’Annunzio trovasse nelle opere di
Nietzsche le proprie idee, concepite fino ad allora solo vagamente,
esposte invece ora con chiarezza e con quella base filosofica che a
lui manca. D’Annunzio quindi recepisce l’ideologia nietzscheana
rielaborandola e riuscendo a trarne un proprio pensiero, grazie
anche alla sua ‘all’attitudine’ al superomismo. Come dirà
direttamente il poeta, egli contiene già in sé in nuce
alcuni tratti del superuomo, fin dai tempi di Canto Novo (1882). In
una lettera del 23 ottobre 1895 a Vincenzo Morello, d’Annunzio
afferma Se tu ti ricordi certe odi del Canto Novo, convieni con me
che là sono i germi dell’idea di potenza e di predominio, i
quali si svilupperanno in Cantelmo [protagonista de Le Vergini delle
rocce] con un resultato di pura poesia e in Stelio Effrena
[protagonista de Il Fuoco] con un resultato di azione e di
elevazione. Tale connaturazione dell’ideologia superomistica in
d’Annunzio è naturalmente evidenziata dai diversi studiosi
che hanno ‘affrontato’ la personalità dannunziana. Come il
tedesco Mosse, secondo il quale il poeta si ritenne capace di
qualsiasi impresa molto prima di aver letto Nietzsche ”Io assisteva
in me medesimo alla continua genesi d’una vita superiore in cui
tutte le apparenze si trasfigurano come nella virtù di un
magico specchio.” Questa vita più bella era dominata dal mito
e dal simbolo, con lui al centro. Come Gatti, che nella sua
biografia dannunziana dichiara come il poeta non avesse avuto
bisogno di attingere alla teoria nietzschiana del superuomo,
perché quella teoria era già sua, (…).
Tipica di d’Annunzio è infatti fin dall’adolescenza la forte
volontà di emergere, di vincere, superarsi e superare, senza
sentirsi obbligato a seguire una qualsiasi legge d’ordine:
già dalla giovinezza quindi si presenta come un possibile
prototipo del superuomo. Molti aspetti dell’ideologia nietzscheana
saranno riutilizzati, modificati, da d’Annunzio nelle sue opere sia
di prosa sia di poesia. Del pensiero di Nietzsche il poeta sceglie
infatti solo quegli aspetti che meglio si adattano alla sua
sensibilità, alle particolari condizioni dell’epoca in cui
vive: la polemica antidemocratica, il senso della decadenza del
mondo contemporaneo, l’esaltazione della virtù della stirpe,
la bellezza della guerra e della violenza, oltre a ulteriori
elementi che possono esser definiti egotistici, come l’esaltazione
della vita e dei sensi, l’insindacabilità dell’azione
dell’individuo superiore, che si pone al di fuori di ogni limite
sociale. Attraverso tali acquisizioni, d’Annunzio riesce a desumere
- a proprio modo - la conferma della propria personalità di
artista superiore e di uomo libero nell’agire, forte e senza
condizionamenti, incarnando così la figura dell’eroe caro
alla società reazionaria di d’Annunzio la rivelazione
definitiva di se stesso, e in modo tale che sarà impossibile
(..) distinguere le immagini della sua umanità
sensuale dal segno di Zarathustra (…) Si ha pertanto una
volgarizzazione di Nietzsche da parte di d’Annunzio, che scopre nel
filosofo una mitologia dell’istinto, un repertorio di gesti e di
convinzioni che permettono al dandy di trasformarsi in superuomo e
fanno presa immediatamente in un mondo di democrazia fragile e
contrastata, (..) Saranno i borghesi a essere particolarmente
influenzati dalle immagini romanzesche di d’Annunzio, che
diventeranno come una sorta d’oppio per non vedere la
mediocrità della loro esistenza. In comune con il filosofo
d’Annunzio possiede il concetto musicale dell’arte, l’idea che la
moralità della bellezza risieda nella bellezza stessa e
soprattutto che la conquista del vero senso della vita coincida con
quello del mondo greco. Per entrambi l’ideale della perfezione
estetica diventa missione sociale.
Come un novello Zarathustra, d’Annunzio si considera l’uomo colto
che con il proprio sapere può aiutare la società
italiana a iniziare quel processo di rinnovamento assolutamente
necessario per poter far ritornare il paese una grande potenza
internazionale. Ma prima del contatto diretto con Nietzsche,
è però Wagner che influisce con le proprie opere sulla
vita di d’Annunzio. Tale influsso comincia a sentirsi quando il
poeta, ossessionato sempre dall’insoddisfazione personale, comincia
a interessarsi alla rigenerazione nazionale. D’Annunzio fa propri
gli ideali del musicista, ritenendo che Wagner sia in grado di
conseguire con le sue opere la rigenerazione spirituale, fondendo
insieme mito, simbolo e bellezza. Nei tre articoli del 1893, apparsi
su “La Tribuna” il 23 luglio, il 3 e il 9 agosto e dedicati a Il
caso Wagner, è documentata la prima - e forse più
spontanea - risposta di d’Annunzio a Nietzsche, soprattutto quando,
nel primo di questi articoli, presenta ai suoi lettori il filosofo
(praticamente sconosciuto al pubblico italiano) definendolo come
«uno dei più originali spiriti che sieno comparsi in
questa fine di secolo, ed uno dei più audaci.». In
Nietzsche d’Annunzio trova la propria medesima convinzione della
necessità di una nuova aristocrazia, «lentamente e
implacabilmente formata per selezione». Recupera quindi temi
già svolti ne La bestia elettiva, infatti prosegue
descrivendo quello che per Nietzsche sarebbe il vero nobile, il
superuomo: «Ma il vero nobile secondo Nietzsche, non somiglia
in nulla agli slombati eredi delle antiche famiglie patrizie.
L’essenza del ‘nobile’ è la sovranità interiore. Egli
è l’uomo libero, più forte delle cose, convinto che la
personalità supera in valore tutti gli attributi accessorii.
Egli è una forza che governa, una libertà che si
afferma e si regola sul tipo della dignità.». Questa
definizione del nobile riprende alcuni aspetti della figura
nietzscheana del Frei-Geist (Spirito libero), che rappresenta l’uomo
impavido, amante della conoscenza, pronto a rinunciare a tutto per
essa. Ma in d’Annunzio manca proprio questa dimensione conoscitiva,
il suo Frei-Geist è espresso in termini prettamente
volontaristici come una forza esuberante, è la traduzione
politica di quello nietzscheano.
I tre articoli di d’Annunzio apparsi su “La Tribuna” seguono
un pamphlet scritto da Nietzsche nel settembre 1888 che ha il
medesimo titolo degli articoli dannunziani (Der Fall Wagner. Ein
Musikanten-Problem; Il caso Wagner. Un problema musicale), nel quale
il filosofo tedesco attacca Wagner, perché passato dalla
musica aristocratica ed eroica del Sigfrido a quella cristiana e
decadente del Parsifal. Nietzsche scrive: «il grande successo,
il successo di massa, non sta più dalla parte dei genuini -
si deve essere commedianti per averlo! - Victor Hugo e Richard
Wagner - significano una sola e identica cosa: che in culture di
decadenza, ovunque la decisione cada in mano alle masse, la
genuinità diventa superflua, svantaggiosa, mette in secondo
piano». Nietzsche definisce poi il musicista come «un
tipico décadent che si sente necessario nel suo gusto
pervertito, che con esso rivendica un gusto superiore, che sa di
valorizzare il suo pervertimento come una legge, un progresso, un
adempimento.»21 Nietzsche nel pamphlet contro Wagner prevede
quindi la degenerazione decadentistica dell’artista e del suo ruolo.
Con il passare degli anni la stessa definizione di Wagner data da
Nietzsche potrà essere trasportata (non necessariamente con
valenza negativa) alla figura dannunziana: sarà d’Annunzio il
seduttore degli spiriti, l’incantatore delle masse, il brillante
pubblicista, promotore della vita come spettacolo, dello spettacolo
come vita. D’Annunzio nel suo Caso Wagner prende le difese del
musicista (il poeta scoprendo Wagner contemporaneamente a Nietzsche
coglie da entrambi lo slancio per la creazione di una nuova arte,
l’arte totale, la Gesamtkunstwerk), anche se questo non gli
impedirà di propendere per l’accettazione della filosofia
nietzscheana; va comunque tenuta sempre presente la sua posizione
critica nei confronti di Nietzsche.
D’Annunzio infatti - come già esposto in precedenza - si
appropria solamente di determinati aspetti del pensiero
nietzscheano, che gli permettono di esaltare la forza creatrice, il
ruolo dell’artista, essere superiore alla media degli altri uomini.
È forse più giusto dire che questi articoli di
d’Annunzio sono in un certo senso il manifesto del suo superomismo,
la presentazione ufficiosa del superuomo dannunziano. Tale
accettazione dell’ideologia nietzscheana è presente negli
articoli, pubblicati sempre su “La Tribuna” il 3, 10 e 15 luglio
1893 su La morale di Zola, nei quali il poeta respinge la
pietà, la speranza, la fraternità che caratterizzano
invece il Docteur Pasteur zoliano. In questo articolo d’Annunzio
pone il problema dell’inquietudine e dell’ansia che travaglia i
giovani di quegli anni. Secondo il poeta è necessaria una
nuova arte: Perché un’arte nuova fiorisse, perché una
nuova credenza cangiasse il cammino dell’umanità, sarebbe
necessario un nuovo terreno che a questa credenza permettesse di
germogliare e di elevarsi. Zola e il naturalismo hanno fallito e con
essi le altre dottrine che cercano di superarlo - come il pessimismo
schopenhaueriano e dei romanzieri francesi, l’evangelismo degli
scrittori russi - perché non in grado «di conoscere il
gran flutto d’idee, di sensazioni e di sentimenti nuovi che si agita
alla soglia del nuovo mondo.». Secondo d’Annunzio, tanto il
pessimismo sistematico degli scrittori di Francia quanto la recente
predicazione tolstoiana, tendono ambedue a un effetto distruttivo.
L’uno dimostra l’inutilità di tutti gli sforzi e la
spaventosa vacuità della vita; l’altro rinnega ogni
civiltà e ogni progresso a beneficio delle idee di rinunzia.
Ambedue procedono da una medesima impotenza speculativa d’innanzi al
mistero.
Cosa debbono allora fare i nuovi artisti secondo il poeta? Ora ci
sembra che i nuovi artisti a punto abbiano per compito la reazione
contro le due dottrine e l’esposizione di un concetto della vita
più profondo. (…). Una semplice e virile parola venga dopo
tanta severità, dopo tanta pietà; venga infine la
parola che tutti credono di aver su le labbra e che nessuno ancora
ha mai proferito. Questa parola - forte, virile - secondo d’Annunzio
non è certo quella che fa riferimento alla morale del lavoro
di Tolstoij o a quella della scienza di Zola. Lo scrittore italiano
oppone alla saggezza di tali idee la natura della civiltà
contemporanea, della quale fornisce una definizione fortemente
nietzscheana: Ora appunto la mancanza di equilibrio è il
principale carattere dell’uomo moderno. Secondo la formula di
Federico Nietzsche, l’uomo moderno rappresenta «un sistema
eterogeneo di valori morali». Tutti, senza saperlo, senza
volerlo, abbiamo dentro di noi una gran quantità di elementi
di origine opposta; e inoltre apparteniamo a un’epoca di vita
discendente. L’estetica e la morale sono legate in modo
indissolubile a queste premesse biologiche. Si comprende quindi come
d’Annunzio, accettando l’interpretazione nietzscheana della vita
moderna la ponga in stretta relazione con l’arte, in particolare con
la propria. Di qui l’esigenza di un’attività letteraria che
s’innesti sulla situazione della vita e della civiltà
contemporanea, che egli [d’Annunzio] vede, attraverso la definizione
di Nietzsche, deterministicamente connesse alla crisi di certi
valori.
Questa radicale critica alle correnti allora in voga della prosa
mostra come d’Annunzio sia alla ricerca di una direzione nuova che
segni uno stacco deciso dal passato naturalista. Il superuomo
dannunziano La situazione socio-politica in cui vede la luce il
superuomo dannunziano è caratterizzata da una crisi di
grandezza europea che scava un solco profondo nel mondo conservatore
e apre una dialettica tra avanguardia e conformismo, tra solitudine
dell’individuo come specchio della crisi e impegno militante degli
studiosi. L’intellettuale assiste in tutta Europa al declino della
fede “positiva”, crollano i miti liberali del mondo piccolo-borghese
e con essi la sicurezza dell’artista, la sua coscienza di guida di
una società in crescita. Inoltre la rapida ascesa
industriale, con il conseguente sviluppo economico, scatena in
Europa una frattura insanabile tra proletariato e grande capitale,
portando così a una lotta aperta e in genere al trionfo della
reazione.
Unica possibile soluzione alla crisi che interessa l’intera Europa
pare essere il ristabilire e consolidare il privilegio borghese,
anche attraverso l’ideologia superomistica. In questo momento
storico di transizione nasce l’ideologia superomistica di
d’Annunzio. svolgersi delle vicende descritte nei romanzi composti
dall’autore. I protagonisti maturano, si sviluppano, aumentano le
loro forze, diventano personaggi sempre più saldi e vigorosi.
Il percorso di nascita e di sviluppo del superuomo parte dal
titubante e perdente suicida Giorgio Aurispa, non in grado di
vincere l’ossessione della sensualità - passa attraverso
Claudio Cantelmo - aristocratico corrotto, decadente - fino a
giungere a Stelio Effrena, il superuomo perfetto, creato da
d’Annunzio stesso per potersi adeguatamente rappresentare. Nei
precedenti romanzi la coincidenza tra d’Annunzio e il protagonista
della vicenda è solo parziale e indiretta, in Stelio invece
il poeta si rispecchia: è un esteta e un superuomo, quindi
rappresenta puntualmente la personalità dannunziana o almeno
quella che d’Annunzio stesso si attribuisce. Vero e proprio
trionfatore è anche Paolo Tarsis, che, una volta spezzato il
legame carnale che lo trattiene, vola libero e vincente nel cielo.
Raggiungiamo così l’apoteosi del superuomo: ormai ha
conquistato la giusta forza, è pronto a vivere la propria
vita con coraggio, spregio del pericolo e perfino della stessa
morte. Il suo unico scopo da ora sarà la vittoria in ogni
campo, dal volo, all’amore, alla guerra. Tutto sarà
subordinato ai desideri e alle necessità del superuomo; tutto
dovrà essere in funzione del suo pensiero e della sua azione.
La morale superomistica ha un’enorme forza trascinatrice
perché si inserisce in un tessuto storico idoneo a sfruttare
i miti del superuomo: la forza guerriera, la concezione
antidemocratica e strettamente individualistica della vita, i miti
della razza e del destino glorioso, la fede nel culto della Bellezza
e della potenza creatrice del genio.
Ma il superuomo possiede anche un preciso programma politico basato
su componenti strettamente nazionaliste: crisi della democrazia
italiana, quindi opposizione sempre più decisa della
borghesia nazionalista al cauto riformismo giolittiano, esaltazione
della guerra come purificazione dell’individuo, affermazione della
razza e della patria sul palcoscenico internazionale, negazione
violenta di una realtà sociale da risolvere sul piano della
giustizia. Il superuomo dannunziano vede nelle tristi condizioni
dell’Italia democratica il fallimento degli ideali risorgimentali e
risolve nei miti della razza e della potenza nazionale tutti i
problemi che angustiano la classe sociale di cui si è fatto
interprete supremo. Finora è stato esposto il quadro generale
nel quale d’Annunzio vive il suo incontro con l’ideologia
nietzscheana e nel quale il poeta inizia a esprimere il proprio
particolare superomismo.
Per comprendere le caratteristiche e il ruolo del superuomo di
d’Annunzio è ora indispensabile analizzare almeno
sinteticamente i protagonisti dei suoi romanzi. Essi sono tutti
appartenenti a quell’élite di “superuomini” a cui tutto
sarebbe dovuto; sono al di sopra di ogni cosa e persona, le loro
azioni, i loro voleri vengono preposti a qualsiasi sentimento e
giustizia grazie alla loro intelligenza superiore. Il superuomo
è quindi una creatura privilegiata che vive in una propria
dimensione diversa dalla normalità. Tali personaggi creano il
culto della propria rarità di esseri intellettuali ed etici,
sono nietzscheanamente convinti dell’impossibilità di una
comunione col prossimo, la loro vita interiore è in continuo
movimento, senza riuscire a placarsi mai. Il segno di Nietzsche
è riconoscibile fin dal primo romanzo di d’Annunzio, Il
Piacere (1888-89), scritto prima della conoscenza diretta con il
filosofo. L’autore mostra infatti il proprio cammino di ricerca di
un mito, di un’ideologia che sia in grado di rappresentare la sua
visione della vita, rinvenendola nella teoria nietzscheana
dell’Übermensch e interpretandola - come già è
stato spiegato - a modo proprio. D’Annunzio esalta la
vitalità, la sensualità, il principio della completa
libertà d’azione per il superuomo, principio affiancato dal
culto della bellezza e dell’arte, tutte tematiche che
rappresenteranno una costante nell’opera e nella vita del poeta. In
Andrea Sperelli - protagonista de Il Piacere - d’Annunzio proietta
le proprie aspirazioni e in lui rappresenta la malattia della
volontà e il “dangereux esprit d’analyse” di Paul Bourget,
tipico dell’epoca. Nasce così - secondo le parole di Oliva -
un uomo privo di coscienza, che antepone il senso estetico a quello
morale. Questo romanzo può essere interpretato come la storia
fallimentare del tentativo di «fare la propria vita come si fa
un’opera d’arte». La raffinata cultura e le capacità
artistiche di Sperelli («…quel colore ch’egli ha quando parla
di cose belle, con quell’entusiasmo d’arte, ch’è una delle
sue più alte seduzioni»34) si trasformano in fattori di
corruzione e strumenti di una lussuria che corrode progressivamente
le stesse facoltà intellettuali di Andrea, impedendo loro di
realizzarsi, e che distrugge il piacere stesso cui esse sono
finalizzate: al termine del romanzo, Sperelli soccomberà al
vizio, giungendo alla totale aridità morale.
È però nella dedica del Trionfo della morte (1894)
all’amico pittore Francesco Paolo Michetti (Tocco da Casauria,
1851-Francavilla al mare, 1929) che troviamo la prima esplicita
citazione di Nietzsche da parte di d’Annunzio, con la quale l’autore
proclama l’arrivo dell’ideologia nietzscheana nelle proprie opere.
Noi tendiamo l’orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, o
Cenobiarca; e prepariamo nell’arte con sicura fede l’avvento
dell’Uebermensch, del Superuomo. Così si conclude la dedica,
con un richiamo diretto a Zarathustra, nell’attesa dell’arrivo del
superuomo. Nel Trionfo della morte la concezione nietzscheana del
superuomo sarà però sconfitta, per essere poi
richiamata nuovamente ne Le Vergini delle rocce (1895) e finalmente
resa vincitrice ne Il Fuoco (1900) e nel Forse che sì forse
che no (1910). Per riprodurre la vicenda di Zarathustra d’Annunzio
creerà il personaggio di Claudio Cantelmo - protagonista de
Le Vergini delle rocce - ma già nel Trionfo della morte
Giorgio Aurispa si richiama alla figura nietzscheana, anche senza
essere un vero superuomo, ma solamente un aspirante a tale
condizione, in quanto non possiede che connotati incerti di
quell’immagine. Egli rappresenta invece l’insuccesso nella vita, dei
suoi ideali, delle sue aspirazioni: più Giorgio cerca il
dominio e la potenza, più egli è debole, senza
volontà e forza per agire. Più che un dominatore,
Giorgio si rivela un dominato; il vero “Invincibile” è
Ippolita (protagonista femminile), la “nemica”, la donna che
è allo stesso tempo amante e tiranna.
Nello schema narrativo, come spiega De Michelis il Superuomo
vorrà essere un’altra aspirazione nostalgica del fallito
Aurispa (…); non per nulla la disgressione nicciana si chiude
sull’allegoria di settembre dove i cipressi michelangioleschi delle
Terme di Diocleziano appaiono eroi colpiti dall’«ingiuria
delle forze cieche,» (…). In realtà, anche
ripercorrendo la dottrina di Zarathustra, Giorgio Aurispa continua
ad essere, non personaggio che lo scrittore giudichi in vitro,
l’alter-ego di lui; di qui il risentimento d’enfasi in tutto il
capitolo, che sottolinea la concezione eroica, non la nostalgia di
essa concezione eroica; (…) Il limite di Aurispa è quindi
costituito dalla donna amata («ella è giunta a poco a
poco a limitare la mia attività materiale nelle cose dei
sensi (…) Ella si compiace di impormi la sua opera voluttuosa (…)
Conoscendo tutte le predilezioni del suo maestro, ella par felice di
coltivarle e di appagarle. Ma le mie predilezioni son le
sue?»), dalla sofferenza che deriva dalla schiavitù dei
sensi e dal contemporaneo desiderio di liberarsene. Per questo il
romanzo terminerà con il suicidio-omicidio dei due
protagonisti: Giorgio si getterà da una rupe trascinando con
sé Ippolita. Foscanelli dà un’illuminante descrizione
di Aurispa nel suo libro Gabriele d’Annunzio e l’ora sociale,
definendolo così: Aurispa non è l’uomo che ha superato
il bene e il male, ma colui che ricerca se stesso ansiosamente nelle
scaturigini della sua stirpe. La folla miserabile dei fanatici
religiosi lo atterrisce e lo riempie di sgomento; si rifugia fra le
braccia di Ippolita, (…) e ha la visione del Trionfo della Vita,
mentre fantastica di Zarathustra. Ma è un affanno senza
conclusione, agli effetti della teoria del superuomo; il doppio
suicidio è antinicciano; (…) Per combattere le sue debolezze
Aurispa domanda ‘aiuto’ a due «intercessori per la
vita». Il primo è Maurice Barrès
(Charmes-sur-Moselle,1862-Parigi,1923), il teorico del culto
dell’io. A lui chiede un metodo per dominare il senso di interiore
inconsistenza che è poi l’”io” schopenhaueriano. Il secondo
intercessore è - naturalmente - Nietzsche, al quale Giorgio
si ispira presentandosi nelle vesti di superuomo. Nel Trionfo della
morte appaiono diverse citazioni da Così parlò
Zarathustra, tutte tradotte alla lettera dall’Antologia di
Lauterbach e Wagnon. Tali richiami rappresentano il primo momento
dell’adesione, sempre del tutto personale, di d’Annunzio alla
dottrina nietzscheana dopo La bestia elettiva.
Normale è chiedersi il perché della scelta di
d’Annunzio di rappresentare - e per la prima volta - il suo
superuomo attraverso un decadente, un uomo debole e incapace di
creare, mentre Zarathustra dichiara proprio come scopo precipuo del
superuomo la creazione. Questo perché Aurispa rappresenta
ancora la visione - possiamo dire - privata del superuomo.
D’Annunzio svilupperà poi nei successivi romanzi e drammi il
mito collettivo dell’Italia e del primato latino a lui tanto caro,
ma per il momento Giorgio è solamente un riflesso del
d’Annunzio uomo e delle sue aspirazioni personali. Il cammino di
formazione del superuomo dannunziano è solo all’inizio. Oltre
tutto bisogna tener presente come questo romanzo sia scritto a
partire dal 1889, quando cioè l’ideologia nietzscheana non
è ancora assorbita da d’Annunzio; Nietzsche è
già stato letto - infatti nell’opera sono presenti espliciti
riferimenti al filosofo tedesco - ma l’esperienza del superuomo non
agisce ancora sul piano ideologico, ma solamente come suggestione
letteraria. Inoltre più forte di Nietzsche è
l’influenza estetico-decadente del tempo. Il ‘perdente’ è
più ‘bello’, più ‘giusto’ in quel momento storico e
d’Annunzio non può che rappresentarlo così nel suo
romanzo. Nel Trionfo della morte troviamo le principali tematiche
dannunziane che saranno poi alla base degli scritti successivi: la
repulsione per la plebe, la visione della Storia come campo d’azione
per pochi eletti, il rifiuto della democrazia, l’idea che lo Stato
debba favorire l’elevazione graduale di una casta di privilegiati
verso una forma ideale d’esistenza. Come già dichiarato, il
Trionfo della morte è quindi la prima opera di d’Annunzio
nella quale egli dà inizio alla creazione del proprio
superuomo, utilizzando e modificando alcune caratteristiche
dell’Übermensch nietzscheano. Sarà però con Le
Vergini delle rocce (1895) e con il suo protagonista Claudio
Cantelmo che d’Annunzio rappresenterà a modo proprio la
vicenda di Zarathustra. Mariano - nella sua biografia dannunziana -
chiarisce perfettamente il punto di partenza de Le Vergini delle
rocce, cioè l’affermazione del sogno aristocratico e
superumano attraverso i tre precisi compiti che spettavano a
Cantelmo:- 1° Giungere metodicamente a formare anima e corpo,
secondo la “perfetta integrità del tipo latino -2°
rappresentare la più profonda visione dell’universo “in una
sola e suprema opera d’arte”, -3° fare un figlio (superumano),
allo scopo di “preservare le ricchezze ideali della stirpe” e “le
conquiste” del superuomo-padre. Il tutto in nome del principio a
metà carlyliano e a metà paretiano secondo il quale
(…) il mondo è la rappresentazione della sensibilità e
del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e
quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre
più ampliandolo e ornandolo nel futuro. In questo romanzo
l’autore racchiude pienamente ed esplicitamente l’ideologia
conservatrice, borghese, antidemocratica.
D’Annunzio infatti descrive il mondo come la rappresentazione della
sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali
lo hanno creato e ornato nel corso nel tempo e andranno sempre
più ampliando e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi
appare, è un dono magnifico largito da pochi ai molti, dai
liberi agli schiavi, da coloro che pensano e sentono a coloro che
debbono lavorare. Cantelmo è l’esponente di una nuova
oligarchia nata per governare sui deboli; in lui si concretizza
l’aspirazione alla grandezza tanto agognata dalla borghesia italiana
ed europea, mentre il diffuso senso di insoddisfazione nei confronti
della vita italiana individua come fonte di tale male
l’inferiorità naturale della massa e l’impotenza di chi la
dovrebbe invece dominare. Possiamo così leggere: Come un
rigurgito di cloache l’onda delle basse cupidige invadeva le piazze
e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che
mai l’attraversasse la fiamma di un’ambizione perversa ma titanica,
senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d’un bel delitto. La
cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da
un’anima senile ma ferma nella consapevolezza de’ suoi scopi, era
pur sempre il massimo segno, contrapposta a un’altra dimora
inutilmente eccelsa dove un Re di stirpe guerriera dava esempio
mirabile di pazienza adempiendo l’officio umile e stucchevole
assegnatogli per decreto fatto dalla plebe. In questo brano del
romanzo però è possibile notare - contemporaneamente
al disprezzo per la plebe - una critica alla stessa borghesia
arricchita. Infatti Claudio vede la capitale romana come una
città corrotta, con politici inadeguati e deboli e una classe
borghese capace solamente di vivere della propria brama,
sollazzandosi nell’avarizia, senza preoccuparsi minimamente dello
stato delle cose italiane. Nessun moto, nessuna insurrezione per
cambiare la situazione del paese.
D’Annunzio critica la borghesia per spronarla a rinnovarsi, a
divenire la classe sociale che può spingere la nazione verso
grandi mete. A questo proposito si rileva però come l’autore
sia in un certo senso contraddittorio. Se da un lato si pone quale
difensore della borghesia, pur criticandola, comprendendo il ruolo
chiave che essa svolge e svolgerà nella società
moderna, da un altro esalta l’aristocrazia quale esempio della
passata gloria italiana. Questa classe è posta al centro di
un sistema sociale gerarchico fondato sulla subordinazione del
‘servo’ all’uomo ‘libero’; il primo svolge una funzione prettamente
manuale, mentre il secondo si dedica ad attività
contemplative, potendo contare sui benefici derivanti proprio dal
lavoro delle classi inferiori. La borghesia invece si caratterizza
per la sua attenzione e il suo favore nei confronti di chi,
utilizzando la propria intraprendenza, il proprio lavoro, riesce a
migliorare la sua situazione socio-economica, senza adagiarsi
completamente - come invece fanno gli aristocratici - sulle persone
loro sottostanti gerarchicamente.
D’Annunzio si colloca tra queste due diverse visioni, in bilico tra
il rispetto per la vecchia classe nobile e la giovane classe
borghese, intuendo l’importanza che questa ultima andrà
sempre più a rivestire. L’individualismo di Cantelmo -
cioè quello dell’autore stesso - è tipico
dell’Ottocento; esso è caratterizzato dal timore di
un’avanzata democratica sotto forma di socialismo. Allo stesso tempo
però, forte della scienza, preannuncia il proprio trionfo nel
nuovo secolo, una volta esaurita la ventata democratica. Attraverso
Cantelmo d’Annunzio descrive la democrazia come un falso egotistico
individualismo. Quando essa avrà sommerso l’intera
società appariranno le individualità superiori.
Tornerà il Re, un Re che regna su di uno stato adatto a
favorire la graduale elevazione d’una classe privilegiata verso
un’ideal forma di esistenza. Le aristocrazie saranno al vertice
dello stato e lo guideranno non tanto con principi quanto con forza.
Per capire realmente la figura di Claudio è necessario
affidarsi direttamente alle parole di d’Annunzio. Egli si rammarica
che l’inettitudine della sua casta non gli consenta di condurre
alcuna impresa civile; e, non potendo manifestarsi com’ei vorrebbe,
concentra nel suo proprio spirito la forza della sua volontà
e crea un interno mondo di poesia. Ora la poesia è azione. Ed
è proprio su di quest’ultima frase che vogliamo porre
l’attenzione: la visione dannunziana dell’azione come opera d’arte.
La vita deve essere vissuta totalmente, senza rinunce, con mete
sempre più alte e grandi. Rischiando tutto per innalzarsi al
di sopra del ’comune’, delle masse. Anche la stessa impresa fiumana
sarà per d’Annunzio un’enorme, la più bella,
realizzazione artistica. Claudio è consapevole che il proprio
ceto non riuscirà a compiere quell’azione necessaria per
riportare l’Italia ai suoi antichi splendori; per questo - da vero
rappresentante decadente - preferisce ritirarsi nella Bellezza,
nell’arte. Infatti il culto della Bellezza, valore che solo gli
eletti possono comprendere, rappresenta la vera linea discriminante
tra essi e la plebe. Cantelmo, per colpa dei tempi, non è
però uomo d’azione e di iniziativa politica. Egli è un
visionario, crede che il mondo debba essere comandato da
«pochi uomini superiori», in grado di ricostruire un
mondo dei «valori»; un desiderio quindi per niente
superumano e che non esige un gesto politico. L’ambizione di Claudio
è «di portare un qualche ornamento, di aggiungere un
qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s’accresce di
bellezza e di dolore». Il protagonista di questo romanzo si
richiama quindi esplicitamente a Nietzsche, ma soprattutto a
Socrate, Dante e Leonardo da Vinci.
Il sogno di Cantelmo è quello di una restaurazione utopica,
che si traduce in un’auto-esortazione alla poesia: Poiché un
tal giorno sembra lontano, tu cerca per ora, condensandole [le
antiche forze barbare], di trasformarle in viva poesia. Claudio non
è quindi un superuomo, non crede nemmeno di esserlo, si
limita a immaginarlo, a sognarlo nel proprio figlio non ancora
concepito. Lo studioso Petronio fa risaltare come in questo romanzo
d’Annunzio si sia - possiamo dire - ‘diviso’. L’autore compie
infatti con Le Vergini delle rocce un’opera polivalente. Dà
sfogo al suo snobismo, sociale e letterario, di temi e di stile;
continua a lusingare quell’aristocrazia che gli era cara nella vita
e che nella finzione letteraria aveva ancora un posto di rilievo; ma
intanto manda i primi segnali a quella “classe dei dotti”, a quei
poeti ed artisti, tutti borghesi, ai quali annunzia, anticipando il
“Leonardo” ed “Il Marzocco” il loro diritto a guidare il Paese;
più mira inoltre ad attirare alle sue tesi quel tanto di
pubblico alto e medio borghese che ora lo legge, pur con tutti i
suoi affatturamenti di stile: forse proprio per quelli.