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La Comune di Parigi è il governo democratico-socialista che
diresse Parigi dal 18 marzo al 28 maggio 1871.
A seguito delle sconfitte militari della Francia contro la Prussia,
il 4 settembre 1870 la popolazione di Parigi impose la proclamazione
della Repubblica, contando di ottenere riforme sociali e la
prosecuzione della guerra. Quando il governo provvisorio deluse le
sue aspettative e l'Assemblea nazionale, eletta l'8 febbraio 1871,
impose la pace e minacciò il ritorno della monarchia, il 18
marzo 1871 Parigi insorse cacciando il governo Thiers che aveva
tentato di disarmare la città, e il 26 marzo elesse
direttamente il governo cittadino, sopprimendo l'istituto
parlamentare.
La Comune, che adottò a proprio simbolo la bandiera rossa,
eliminò l'esercito permanente e armò i cittadini,
separò lo Stato dalla Chiesa, stabilì l'istruzione
laica e gratuita, rese elettivi i magistrati, retribuì i
funzionari pubblici e i membri del Consiglio della Comune con salari
prossimi a quelli operai, favorì le associazioni dei
lavoratori.
L'opera sociale della Comune fu interrotta dalla violenta reazione
del governo e dell'Assemblea nazionale, stabiliti a Versailles.
Iniziati i combattimenti nei primi giorni di aprile, l'esercito
comandato da Mac-Mahon pose fine all'esperienza della Comune
entrando a Parigi il 21 maggio e massacrando in una settimana almeno
20.000 parigini con fucilazioni indiscriminate. Seguirono decine di
migliaia di condanne e di deportazioni, mentre migliaia di parigini
fuggirono all'estero.
La caduta del Secondo Impero
La guerra contro la Prussia, dichiarata il 19 luglio 1870, si mise
subito male per l'Impero francese. Nei primi di agosto le sue armate
furono ripetutamente sconfitte, l'Alsazia e la Lorena invase.
L'opinione pubblica cominciò ad agitarsi e il 7 agosto
Napoleone III emanò un proclama invitando «tutti i
buoni cittadini a mantenere l'ordine. Turbarlo, oggi, vuol dire
diventare complici dei nostri nemici». L'ex prefetto di Parigi
Haussmann invocò la necessità dello stato d'assedio,
se si voleva «salvare il trono, oggi tanto seriamente
minacciato», e il 9 agosto l'imperatrice telegrafò al
marito che «la sommossa è ormai quasi in piazza. Entro
48 ore sarò tradita dalla paura degli uni e dall'inettitudine
degli altri».
Quel giorno si riuniva a palazzo Borbone l'Assemblea Nazionale e
place de la Concorde era «stracolma di gente, come le strade
adiacenti. Ci sono pochi borghesi e molti colletti neri [...] Tutti
parlano ormai apertamente contro il governo [...] alcuni uomini,
issati su di una vettura, arringano la folla. Si levano grida: Viva
la Repubblica! S'intona lo Chant du départ [...] Migliaia di
uomini si allineano cantando e avanzano verso il ponte».
I dimostranti non avevano ancora capi che li guidassero: Blanqui era
a Bruxelles, Eugène Varlin ad Anversa, Leó Frankel in
prigione. L'opposizione al bonapartismo eletta all'Assemblea era
costituita da repubblicani moderati, ed invitò alla calma.
Garnier-Pagès parlò alla folla, sostenendo che sarebbe
stato «colpevole» fare una rivoluzione, Jules Ferry
«fece appello ai sentimenti patriottici di quella folla
impazzita» - così la definì - e Gambetta
invitò i dimostranti ad andare a casa. Da parte sua, il
prefetto di polizia Joseph Marie Piétri, devoto bonapartista,
ammise che «la rivoluzione poteva riuscire»
perché quella massa «era composta da elementi del tutto
simili a quelli che il 4 settembre riuscirono a vincere».
Il 2 settembre ci fu la disfatta di Sedan e la resa di Napoleone
III. I bonapartisti, i monarchici legittimisti e orléanisti,
e i repubblicani moderati erano divisi sull'assetto istituzionale da
costruire per la Francia, ma uniti nel progetto di evitare una
rivoluzione democratica o socialista. I repubblicani dell'Assemblea
avrebbero voluto la Repubblica, ma temevano che la sua proclamazione
«potesse scatenare la guerra civile e la rivoluzione
sociale», così tutta l'Assemblea tentò la
soluzione di un rimpasto di governo, della richiesta della pace e di
una «monarchia più o meno parlamentare».
La proclamazione della Repubblica (4 settembre 1870)
Il 4 settembre una grande folla di popolo invase palazzo Borbone e
occupò le tribune. Il presidente Eugène Schneider,
proprietario delle acciaierie Creusot, fu cacciato dall'Assemblea,
il blanquista Ernest Granger s'insediò al suo posto, e dalle
tribune si chiese con forza la proclamazione della Repubblica. Il
deputato Favre, per allontare il popolo dall'Assemblea temendo che
potesse forzare l'emanazione di decreti, dichiarò che la
Repubblica doveva essere proclamata all'Hôtel de Ville, il
municipio di Parigi.
Qui fu ufficialmente istituita la Repubblica, furono sciolti il
Senato e l'Assemblea Nazionale, e fu formato in fretta un governo di
«difesa nazionale»: alla testa, anche con l'incarico di
comandante militare di Parigi, fu posto il generale Trochu,
monarchico e clericale, Jules Favre andò agli Esteri,
Léon Gambetta agli Interni, Ernest Picard alle Finanze, Jules
Simon all'Istruzione, Adolphe Le Flô alla Guerra, Martin
Fourichon alla Marina, Adolphe Crémieux alla Giustizia.
Ministri senza portafoglio furono Jules Ferry, Emmanuel Arago,
Alexandre Glais-Bizoin, Eugène Pelletan, Louis-Antoine
Garnier-Pagès e anche il democratico Henri Rochefort, appena
liberato dal carcere, fu chiamato al governo.
Il bonapartismo non esisteva più: Napoleone III era nelle
mani dei prussiani, l'imperatrice era fuggita in Inghilterra, il
Senato era svanito prima ancora di essere dichiarato sciolto,
«grandi dignitari, alti funzionari, mammalucchi feroci,
ministri imperiosi, ciambellani solenni, generali baffuti, tutti
[...] si eclissarono pietosamente».
Compito primario del governo di difesa nazionale doveva essere
quello di condurre la guerra contro la Prussia, ma pochi, tra i
ministri, ne avevano l'intenzione. Trochu non credeva nemmeno
possibile difendere Parigi. Egli «riteneva assai più
importante tenere a bada i rossi a Parigi [...] anziché
battere i prussiani». Se i repubblicani moderati miravano a
concludere la pace, ancor più la desideravano le altre forze
conservatrici: «gli orléanisti vogliono una repubblica
provvisoria, che concluda una pace vergognosa affinché la
responsabilità non cada sulla dinastia degli Orléans,
che essi restaurerebbero in seguito».
L'organizzazione politica del popolo parigino
Le forze popolari, intenzionate a resistere all'invasione e a dare
un contenuto rivoluzionario alla nuova situazione politica,
cercarono di organizzarsi fin dal 5 settembre. Quella sera si
riunirono nella scuola di rue au Maire alcune centinaia di
rappresentanti delle sezioni dell'Internazionale, dei sindacati e
dei club rivoluzionari parigini. Diffidando della sincerità
dei membri del governo, «indubbiamente capaci di ogni sorta di
vigliaccherie, se non fossero stati seriamente sorvegliati»,
fu deciso di istituire in ciascuno dei venti arrondissements di
Parigi un comitato di vigilanza per controllare le azioni delle
nuove amministrazioni municipali, «vergognosamente succubi del
governo installato all'Hôtel de Ville». Ciascun comitato
avrebbe delegato quattro suoi membri per costituire un Comitato
centrale dei venti rioni parigini, con sede nei locali
dell'Internazionale di rue de la Corderie.
Fu votata anche una risoluzione nella quale si dichiarava che il
governo non sarebbe stato attaccato, «data la presente guerra
e l'insufficiente preparazione delle masse popolari, ancora male
organizzate», e si rivendicavano la soppressione della
prefettura di polizia e l'organizzazione di una nuova polizia
municipale; la revoca di tutti i magistrati; il pieno diritto di
associazione e di riunione; la libertà di stampa; l'elezione
delle amministrazioni municipali; l'annullamento di tutte le
condanne comminate durante l'Impero per reati politici.
L'11 settembre i comitati di vigilanza e il Comitato centrale dei
venti rioni erano costituiti. La funzione dei comitati di vigilanza
sarebbe dovuta consistere nel controllo degli atti del governo,
segnalandone natura ed effetti al Comitato centrale che avrebbe
coordinato le azioni da intraprendere contro le eventuali
«macchinazioni reazionarie del governo», denunciandole
alla popolazione parigina.
I comitati di vigilanza, composti di qualche decina di membri,
venivano eletti nelle assemblee popolari di ciascun arrondissement e
si riunivano generalmente nel municipio del proprio rione.
Riflettendo la composizione sociale prevalente del rione, i comitati
esprimevano politiche e assumevano iniziative diverse. Quelli del
centro città, come i rioni Louvre e Borsa, o residenziali
come quello di Passy, prevalentemente borghesi, appoggiavano il
governo e collaboravano con le sue decisioni, quelli dei rioni
popolari, come Saint-Laurent, Popincourt, Gobelins, Montmartre,
Ménilmontant e Belleville, avevano posizioni chiaramente
rivoluzionarie.
Per questo motivo il conte Napoléon Daru lamentava che i
comitati di vigilanza «si erano arrogati il diritto di
esercitare una pressione sulle decisioni dei sindaci, ne usurpavano
le funzioni, davano ordini, ispezionavano case, facevano arresti e
perquisizioni, soprattutto con il pretesto dello spionaggio».
Una visione, quella del monarchico Daru, molto diversa da quella di
Louise Michel, per la quale nei comitati «si raccoglievano
persone incontestabilmente devote alla rivoluzione, quasi votate
anticipatamente alla morte [...] Tutti arrivavano verso le 5 o le 6,
riassumevano il lavoro compiuto durante la giornata, deliberavano
quello che si doveva fare l'indomani [...] alle otto, ognuno se ne
andava nel suo club».
I clubs costituivano la struttura politica di base della popolazione
parigina. Se ne sono contati trentasei in attività durante la
Comune, soprattutto nei quartieri operai. I pochi circoli dei
quartieri borghesi chiusero ben presto per mancanza di argomenti e
di oratori. I clubs avevano la loro sede in vari locali pubblici,
dai caffè-concerto ai teatri, alle scuole e persino nelle
chiese. Ciascun club aveva un proprio programma politico, si
partecipava pagando dieci centesimi, si tenevano pubbliche riunioni,
si eleggeva mensilmente un ufficio con un presidente e due
vice-presidenti. L'ufficio convocava le assemblee fissando gli
argomenti e coordinando gli interventi degli oratori, che erano
tenuti a rispettare la linea politica del club. Per esempio, il club
di Batignolles aveva per esplicito programma la difesa della
Repubblica e la lotta contro la reazione, quello di Clignancourt
chiedeva ai suoi aderenti di essere repubblicani, socialisti e
rivoluzionari.
Le ideologie politiche delle forze rivoluzionarie
Dopo il 4 settembre uscirono dal carcere o tornarono a Parigi
dall'esilio molti esponenti politici oppositori del deposto regime.
Le idee politiche e sociali dominanti nelle forze rivoluzionarie
erano di diverso tipo. In Francia erano molto diffuse le teorie
proudhoniane, secondo le quali occorre conciliare lavoro e capitale.
Ogni cittadino deve essere un produttore di beni, «un uomo
libero, un vero signore che agisce per propria iniziativa e sotto la
sua personale responsabilità, sicuro di ricevere per il
proprio prodotto e per i suoi servizi la giusta
remunerazione».
Una banca popolare avrebbe elargito credito a basso interesse ai
produttori di merci il cui valore sarebbe stato determinato dal
tempo di lavoro necessario a produrle. I prodotti sarebbero andati
al mercato e i produttori avrebbero ricevuto un numero di buoni
equivalenti alle ore lavorate, con i quali avrebbero potuto
comperare merci e servizi a loro necessari. In questo modo ciascuno
avrebbe ricevuto il giusto compenso per il proprio lavoro e avrebbe
acquistato al giusto prezzo i prodotti altrui. Questo, chiamato da
Proudhon mutualismo, è «un sistema d'equilibrio tra le
forze libere, in cui a ogni forza sono assicurati eguali diritti, a
condizione che adempia eguali doveri; e a ogni forza è data
la possibilità di scambiare servizi con servizi
corrispondenti».
I proudhoniani sono nemici dello Stato e immaginano la nazione
organizzata in una federazioni di città: «ogni gruppo
etnico, ogni razza, ogni nazionalità ha il pieno dominio del
proprio territorio; ogni città, fidandosi della garanzie dei
vicini, ha il pieno dominio della zona che entra nel suo raggio
d'azione. L'unità non è assicurata da leggi, ma
soltanto dagli impegni che i diversi gruppi autonomi assumono
reciprocamente». Ogni comune deve essere sovrano: «il
comune ha diritto all'autogoverno, all'amministrazione, alla
riscossione dei tributi, alla disponibilità della sua
proprietà e delle sue imposte. Ha il diritto di costruire
scuole per la sua gioventù, di nominare gli insegnanti, di
avere la sua polizia, i suoi gendarmi e la sua guardia nazionale; di
designare i giudici, di avere giornali, di tenere assemblee, di
possedere società private, imprese, banche».
Tuttavia i seguaci di Proudhon non costituirono un movimento
omogeneo e si divisero a riguardo della posizione da tenere nei
confronti della situazione rivoluzionaria venutasi a creare a
Parigi: suoi avversari furono i proudhoniani ortodossi, quali
Gustave Chaudey e Henri Tolain, mentre i proudhoniani «di
sinistra» Augustin Avrial, Charles Beslay, François
Jourde, Charles Longuet, Benoît Malon, Louise Michel, Albert
Theisz, Eugène Varlin, Auguste Vermorel e altri, divennero
attivi dirigenti della Comune. Vicini ai proudhoniani nel rifiuto
dello Stato e delle forme organizzate di lotta politica, erano i
seguaci di Bakunin, che non avevano però quasi nessun seguito
a Parigi.
Rivoluzionari attivi erano i blanquisti. Comunisti, essi ponevano in
primo piano la necessità della conquista del potere politico.
Per ottenere questo risultato, ritenevano sufficiente
l'organizzazione di un piccolo nucleo di risoluti cospiratori,
disciplinati ed efficienti che, una volta impadronitosi del potere,
avrebbero instaurato un governo dittatoriale, necessario per
stroncare ogni opposizione e, insieme, per attirare a sé le
masse popolari. Le trasformazioni sociali sarebbero avvenute
più tardi: «il comunismo non si realizza con i decreti
- aveva scritto Blanqui - ma sulla base di decisioni prese
volontariamente dalla nazione stessa, e queste decisioni possono
avvenire solo sulla base di una larga diffusione
dell'istruzione». Tutti i blanquisti parteciparono attivamente
alla Comune: Casimir Bouis, Frédéric Cournet, Gaston
Da Costa, Émile Eudes, Théophile Ferré, Gustave
Flourens, Ernest Granger, Alphonse Humbert, Victor Jaclard,
Eugène Protot, Raoul Rigault, Gustave Tridon, Édouard
Vaillant.
Un'altra importante componente rivoluzionaria, ma non socialista,
attiva a Parigi, fu quella dei neo-giacobini. Repubblicani radicali,
i loro obbiettivi politici erano le libertà democratiche,
come la laicità della scuola e la libertà di stampa.
La loro base sociale risiedeva nell'intellettualità della
piccola e media borghesia e il loro modello di riferimento era la
Repubblica giacobina espressa dalla Grande Rivoluzione, che del
resto esercitava ancora un certo fascino anche negli altri gruppi
rivoluzionari: non a caso i blanquisti Humbert, Vermersch e
Vuillaume fondarono il quotidiano Le Père Duchêne,
richiamandosi all'omonimo giornale di Hébert e il
proudhoniano Vermorel pubblicò i discorsi di Danton, di
Marat, di Robespierre e di Vergniaud. Figure rilevanti di
neo-giacobini furono Louis Charles Delescluze, Charles Ferdinand
Gambon, Jules Miot e Félix Pyat.
Altri elementi di spicco della rivoluzione parigina furono il
garibaldino Amilcare Cipriani, il pittore Gustave Courbet, i
marxisti Élisabeth Dmitrieff, Leó Frankel,
Prosper-Olivier Lissagaray e Auguste Serraillier, i socialisti
Jean-Baptiste Clément e Nathalie Lemel, gli anarchici
André Léo, Gustave Lefrançais, Louise Michel ed
Élisée Reclus.
L'assedio di Parigi
Il 17 settembre il Comitato centrale pubblicò un manifesto
programmatico, ampliando e precisando richieste già avanzate
giorni prima. Si chiedeva la soppressione della polizia, che
«in tutti i governi monarchici aveva servito la causa
dell'asservimento dei cittadini e non la causa della sua
difesa». Le sue funzioni dovevano essere trasferite ai
municipi, che avrebbero eletto funzionari appositi, e i suoi compiti
sarebbero stati svolti dalle guardie nazionali. Ogni legge
limitativa della libertà di stampa, di associazione e di
riunione doveva essere abrogata. Stante la situazione di guerra,
tutti i cittadini dovevano essere armati, ogni strumento necessario
alla difesa requisito, tutti i prodotti alimentari di prima
necessità espropriati, pagando i commercianti alla fine della
guerra, la distribuzione ai cittadini dei generi alimentari
assicurata dai municipi.
Due giorni dopo 120.000 prussiani - saliranno a 220.000 solo a
gennaio - circondarono la capitale. A Parigi si trovavano i 125.000
uomini di due corpi di fanteria, 15.000 tra marinai e artiglieri,
115.000 guardie mobili, 20.000 gendarmi e, dalla fine del mese di
settembre, 384.000 guardie nazionali divise in 254 battaglioni. La
città era cinta da un bastione fortificato largo sei metri,
profondo dieci e lungo 34 chilometri, percorso da un fossato di
quindici metri di larghezza. A intervalli di qualche chilometro si
ergevano quindici forti, più il castello di Vincennes. Parigi
disponeva altresì di artiglierie di media e lunga gittata, di
depositi e di fabbriche di armi e di munizioni.
Malgrado una superiorità di forze che avrebbe permesso di
affrontare apertamente il nemico davanti a Parigi, il governo aveva
già deciso di trattare la pace. Thiers era stato mandato in
missione diplomatica presso i governi europei, e il ministro degli
esteri Jules Favre aveva avuto il 19 settembre, nel castello di
Ferrières, con il cancelliere Bismarck un incontro durante il
quale - disse - non aveva potuto frenare le lacrime. Fu per altro
smentito dal segretario di Bismarck, secondo il quale Favre
«non versò una sola lacrima, per quanto si sforzasse di
piangere». Trochu ripeteva che resistere era solo
«un'eroica follia», «un'impresa disperata tanto
dal punto di vista militare che da quello politico», il suo
capo di Stato maggiore Isidore-Pierre Schmitz sosteneva che
«non ci possiamo difendere; noi siamo decisi a non
difenderci», il ministro Picard diceva che «ogni
speranza era una chimera», e Crémieux prevedeva che i
prussiani sarebbero entrati a Parigi «come il coltello nel
burro».
L'inerzia del governo e dei capi militari rafforzò la
volontà delle forze popolari di ricostituire quella Comune
rivoluzionaria che dal 1792 aveva dato un impulso determinante nella
lotta sia contro i nemici esterni che contro gli avversari della
rivoluzione. Il 20 settembre un'assemblea di migliaia di persone
riunite a Belleville votò una risoluzione che chiedeva la
soppressione della prefettura, l'eleggibilità degli
ufficiali, l'arresto dei bonapartisti e «l'immediata
designazione dei membri della Comune rivoluzionaria da parte dei
cittadini dei venti arrondissements».
Poiché il governo continuava a rinviare le elezioni
municipali, già promesse al momento della sua
costituzione,bsi diffuse la decisione di procedere alla
organizzazione della Comune senza attendere l'autorizzazione
governativa. Il club di rue d'Arras votò il 24 settembre la
risoluzione di «eleggere la Comune di Parigi [...] per salvare
la patria e la repubblica» direttamente nelle assemblee
popolari. Il 28 settembre il Comitato centrale dei venti rioni
invitò la popolazione «a prepararsi ugualmente alle
elezioni per la Comune nel più breve tempo» e trasmise
la risoluzione ai comandanti dei battaglioni della guardia
nazionale, e il giorno dopo l'assemblea del X arrondissement
dichiarò di voler procedere all'elezione del municipio
rionale e della Comune.
Ai primi di ottobre il Comitato centrale lanciò un appello
alla cittadinanza: «Nelle vostre assemblee pubbliche, nei
vostri comitati rionali, nei battaglioni della guardia nazionale
eleggete immediatamente le persone che ritenete più degne di
essere vostre rappresentanti all'Hôtel de Ville [...] Il
popolo parigino ha il dovere e l'obbligo di dirigere da sé,
con la massima attenzione, la liberazione della patria
dall'aggressione straniera e la liberazione della repubblica contro
ogni pericolo da parte della reazione».
Il 5 ottobre Gustave Flourens fece sfilare 10.000 guardie nazionali
di Belleville davanti all'Hôtel de Ville, sede del governo,
chiedendo elezioni e una sortita contro gli assedianti. Trochu
rispose facendo promesse. L'8 ottobre fu il Comitato centrale a
organizzare una manifestazione per ottenere la fissazione a breve
della data delle elezioni, ma questa volta solo ottocento persone
manifestarono sotto le finestre dell'Hôtel de Ville.
Confortato dal successo, il governo dichiarò che le elezioni
non si potevano tenere, dovendo i cittadini impegnarsi unicamente
alla difesa della città.
In un successivo appello, il Comitato centrale precisava che la
Comune di Parigi non pretendeva di sostituirsi al governo centrale,
ma che essa, insieme alle Comuni delle altre città e al
governo stesso, sarebbe stata uno degli organismi dello Stato.
Tuttavia il suo programma era ampio e ambizioso, prevedendo il
principio della sua completa autonomia; il diritto di revoca e la
responsabilità personale dei suoi funzionari; la
distribuzione gratuita dei generi alimentari e l'abolizione del
pagamento degli affitti durante il periodo di guerra; la
persecuzione dei disertori e dei bonapartisti responsabili di
illegalità, e la pubblicazione dei documenti segreti del
passato regime; l'abolizione della prefettura di polizia e il
passaggio delle sue funzioni alla Comune; l'istruzione laica,
gratuita e obbligatoria per tutti; «la riforma sociale e la
soppressione di tutti i monopoli e i privilegi».
Il 28 ottobre, con un colpo di mano, franchi tiratori parigini
s'impadronirono di Le Bourget, a nord-est della capitale. Poteva
essere l'occasione di una sortita in massa per rompere
l'accerchiamento, ma Trochu rifiutò di soccorrere i 1.600
soldati che difendevano il villaggio, che il 30 ottobre furono
sopraffatti dal ritorno in forze dei prussiani. La condotta di
Trochu suscitò indignazione, ma una notizia peggiore si
diffuse a Parigi: il maresciallo Bazaine aveva capitolato a Metz con
tutta l'armata e il governo stava trattando l'armistizio con i
prussiani.
La giornata del 31 ottobre 1870
Mentre Thiers stava trattando a Versailles, da un mese il
bonapartista Bazaine, che aveva dichiarato di non riconoscere la
Repubblica, trattava con i prussiani. Egli calcolava, d'accordo con
Bismarck, di far firmare la pace all'imperatrice Eugenia e insieme
restaurare l'Impero. Ma l'imperatrice rifiutò quell'accordo
oneroso che, prevedendo la consegna alla Prussia di territori
francesi, l'avrebbe messa in una situazione insostenibile di fronte
all'opinione pubblica. Così, adottata la stessa tattica di
difesa passiva di Trochu e debilitata la popolazione «con una
carestia coscientemente organizzata», Bazaine capitolò
a Metz liberando altre armate prussiane per l'assedio di Parigi.
La mattina del 31 ottobre il Comitato centrale dei venti rioni,
riunito a rue de la Corderie, decise di rovesciare il governo,
sostituendogli la Comune rivoluzionaria. Una grande folla di
cittadini comuni e di guardie nazionali accorse all'Hôtel de
Ville, lo invase, mise prima a tacere il sindaco Arago e i ministri,
poi li arrestò. Nella confusione, furono compilate diverse
liste di membri di una commissione incaricata di indire le elezioni
della Comune e di nominare il nuovo governo. Nel pomeriggio, fu
raggiunto l'accordo sui nomi dei designati: Avrial, Blanc, Blanqui,
Delescluze, Dorian, Flourens, Hugo, Ledru-Rollin, Millière,
Mottu, Pyat, Ranvier, Raspail, Rochefort.
Furono decise le elezioni municipali per l'indomani, e le elezioni
per nominare il governo per il 2 novembre: si stamparono i manifesti
firmati dal sindaco Arago e dai ministri Dorian e Schoelcher, che
furono affissi nelle strade. Intanto, Arago, Ferry e Trochu
riuscirono a dileguarsi, mentre Blanqui emanava l'ordine di occupare
la prefettura e i municipi rionali, e veniva costituito un Comitato
di salute pubblica, composto da Blanqui, Delescluze, Flourens,
Millière e Ranvier. La sera, mentre gran parte della folla e
delle Guardie nazionali sgombravano l'Hôtel de Ville,
cominciarono ad arrivare forze fedeli al governo. A notte, la
situazione si era rovesciata. Liberati gli ultimi ministri, Jules
Favre promise che le elezioni si sarebbe tenute e assicurò
che non ci sarebbero state rappresaglie. Gli insorti ottennero il
diritto di allontanarsi indisturbati dall'edificio, che tornò
nelle mani del governo.
Il giorno dopo il governo sostituì il comandante della
guardia nazionale, François Tamisier, che si era dimostrato
troppo arrendevole con gli insorti, con il generale Clément
Thomas, il sindaco Arago con Jules Ferry e, mancando alla parola
data, procedette ugualmente all'arresto di quattordici capi
rivoluzionari, accusandoli di essere al soldo dei prussiani. Blanqui
e Millière riuscirono a nascondersi. Il 3 novembre fu indetto
un plebiscito, nel quale si chiedeva se «la popolazione di
Parigi mantiene sì o no i poteri del governo di Difesa
nazionale» ottenendo una schiacciante maggioranza - circa
558.000 contro 62.000 - di voti favorevoli. Le elezioni municipali,
tenute il 5 novembre, videro eletti dodici sindaci governativi e
otto tra radicali e socialisti, tra i quali Mottu a Popincourt,
Clemenceau a Montmartre, Delescluze alle Buttes-Chaumont e Ranvier a
Belleville.
La resa
La situazione alimentare peggiorò progressivamente. I prezzi
aumentavano e molti prodotti sparirono dal mercato, come la carne
bovina. Si vendeva la carne di cavallo, poi fu la volta della carne
di gatto, di cane e di topo. A dicembre furono abbattuti gli animali
del giardino zoologico, e furono macellati gli elefanti, gli orsi,
le antilopi. Furono introdotte le tessere per la carne, e i
più poveri, che avevano bisogno di denaro, le vendevano.
Essenziale alimento quotidiano rimaneva il pane, «un impasto
nero che torceva gli intestini».
L'inverno 1870-1871 fu particolarmente rigido, e per l'alto costo
della legna e del carbone la popolazione smantellò palizzate,
segò gli alberi dei parchi del Bois de Boulogne, di
Vincennes, degli Champs-Elysées, di qualche boulevard, e si
rubò legname dai depositi e dalle fabbriche. L'erogazione del
gas interrotta, razionato il petrolio, le strade di notte erano
immerse nel buio più completo. La situazione sanitaria
peggiorò. Prima della guerra la mortalità a Parigi era
di 750 decessi a settimana, con l'assedio passò a 1.500 in
ottobre e a 4.500 a gennaio, aggravata dai bombardamenti.
Il 28 novembre il comando militare decise una sortita. La
guidò il generale Ducrot, che promise:
«rientrerò a Parigi o morto o vincitore. Potrete
vedermi cadere, ma non mi vedrete retrocedere». Il 30
novembre, superata la Marna a Nogent, battuti i prussiani, fu
conquistata Champigny. Per tutto il 1º dicembre Ducrot rimase
inattivo, nella sorpresa degli stessi nemici che, ottenuti rinforzi,
il 2 dicembre passarono alla controffensiva. Nel gelo, senza
coperte, tende, ambulanze e rifornimenti, i francesi resistettero un
giorno e il 3 dicembre Ducrot ordinò la ritirata, lasciando
sul terreno 8.000 morti.
Il 6 dicembre il consiglio dei ministri decise di procedere alla
resa in modo graduale, dopo la convocazione dell'Assemblea
Nazionale, secondo la proposta di Jules Favre. Una capitolazione
immediata sarebbe stata impopolare e pericolosa, perché
«la piazza chiede la guerra - disse Trochu - solo i salotti
vogliono la pace», e il governo sarebbe stato accusato di
tradimento. Tali intenzioni erano da tempo richiamate nei giornali
di opposizione e nei clubs, che dopo uno sbandamento succeduto al
fallimento del 31 ottobre, avevano ripreso l'agitazione e la ricerca
di nuove forme di aggregazione.
A novembre erano stata formate l'Alliance républicaine di
Ledru-Rollin e Delescluze, la Ligue républicaine de la
défense à outrance di Chatelain e Napias-Piquet,
l'Union républicaine di Beslay, Gambon e altri proudhoniani e
neo-giacobini, e il club del Comitato centrale dei venti rioni,
un'associazione che riuniva tutti i circoli socialisti che
appoggiavano il Comitato centrale. Il 26 novembre l'Internazionale e
le società operaie lanciarono un appello per la guerra a
oltranza e la difesa della Repubblica, con le consuete
rivendicazioni. La novità consisteva nel fatto che esso si
rivolgeva anche ai contadini, dichiarando che operai e contadini
avevano eguali interessi: «vogliamo che ogni comune, nella
libera Francia, abbia la sua autonomia municipale e si amministri da
sé. Noi vogliamo, infine, che la terra sia data ai contadini
che la lavorano, le miniere ai minatori che vi lavorano, le
fabbriche agli operai che le creano».
Grande risonanza ebbe l'Affiche rouge, il Manifesto rosso firmato il
6 gennaio 1871 da 130 delegati del Comitato centrale. Accusava il
governo di non aver fatto il reclutamento generale, di aver lasciato
al loro posto i bonapartisti e messo in prigione i repubblicani, di
non saper condurre la guerra e di affamare i parigini:
«l'unica salvezza del popolo e l'unico mezzo contro la rovina
è la creazione di un consiglio municipale, o Comune, o
comunque lo si voglia chiamare».
Il 10 gennaio il consiglio dei ministri decise un'importante azione
militare con l'impiego della Guardia repubblicana. Il generale
Clément-Thomas si dichiarò convinto che bastasse
mandarla all'attacco perché la Guardia perdesse tutto il suo
ardore guerresco e «se nel grande combattimento sotto le mura
di Parigi - disse Trochu - moriranno 20-25.000 uomini, Parigi
capitolerà». Come al solito, il 19 gennaio, dopo un
iniziale successo nel quale furono conquistati d'assalto il forte di
Montretout, Buzenval e Saint-Cloud, le truppe, lasciate senza
copertura dell'artiglieria, furono costrette a ripiegare lasciando
4.070 caduti. Alcuni battaglioni, tornando, «gridavano di
rabbia. Tutti compresero che la sortita era stata fatta per
sacrificarli».
Il 21 gennaio i comitati di vigilanza decisero una manifestazione
all'Hôtel de Ville, mentre nella notte un gruppo di Guardie
nazionali guidate da Cipriani liberò dal carcere di Mazas
alcuni degli arrestati per i fatti del 31 ottobre, tra i quali
Flourens. Nel pomeriggio del 22 gennaio, quando i battaglioni della
Guardia nazionale affollavano place de Grève, dalle finestre
del municipio la guardia mobile iniziò a sparare sui
dimostranti e la folla si disperse. Rimasero uccise una cinquantina
di persone, tra le quali l'internazionalista Théodore Sapia.
Seguirono arresti, la chiusura di tutti i clubs e di 17 giornali,
tra i quali Le Combat e Le Réveil, la proibizione delle
assemblee pubbliche. Il 23 gennaio, munito di un lasciapassare,
Jules Favre raggiunse Bismarck a Versailles per concordare le
condizioni della resa. Fu previsto un primo indennizzo di 200
milioni di franchi, il disarmo dell'esercito, tranne una divisione,
la consegna dei fortini di Parigi, le elezioni dell'Assemblea
Nazionale entro dieci giorni. L'Assemlea avrebbe poi dovuto
approvare il trattato di pace. Bismarck voleva anche il disarmo
della Guardia nazionale, ma Favre gli fece presente la
difficoltà dell'opera: «entrate a Parigi e tentate di
disarmarli voi stessi». Così, la popolazione parigina
si mantenne in armi. L'armistizio fu firmato il 28 gennaio e il
giorno dopo i mercati e i negozi di Parigi furono nuovamente pieni
di merci.
L'Assemblea Nazionale, il governo Thiers e il trattato di pace
Gambetta, il capo della delegazione del governo che agiva a Tours,
in vista delle elezioni emanò un decreto che stabiliva
l'ineleggibilità dei personaggi compromessi con il passato
regime, ma Jules Simon lo annullò. Le elezioni, tenute l'8
febbraio, diedero una netta maggioranza ai rappresentanti
monarchici: su 675 deputati, almeno 400 erano orléanisti o
legittimisti, e 30 bonapartisti, tutti possidenti, funzionari di
provincia, ricchi agricoltori e commercianti agiati. Furono chiamati
da Gaston Crémieux, con un termine rimasto famoso,
«rurali», in quanto espressione di una Francia retriva
che guardava al passato e che per il presente esigeva la pace a
qualunque costo per dedicare ogni energia alla restaurazione della
monarchia.
L'Assemblea, riunita per la prima volta il 13 febbraio a Bordeaux,
rifiutò di convalidare il mandato di Garibaldi, eletto a
Parigi, perché straniero, il 15 febbraio soppresse il soldo
delle Guardie nazionali e il 16 scelse Adolphe Thiers, noto
orléanista, come capo dell'esecutivo. Questi presentò
il suo gabinetto il 19 febbraio: Favre agli Esteri, Picard agli
Interni, Simon all'Istruzione, il legittimista Larcy ai Lavori
pubblici, l'industriale bonapartista Pouyer-Quertier alle Finanze,
l'ammiraglio Louis Pothuau alla Marina e Colonie, il generale Le
Flô alla Guerra, gli orléanisti Dufaure e Lambrecht
rispettivamente alla Giustizia e al Commercio. Il programma del
governo era: concludere la pace e sottomettere Parigi.
Il 21 febbraio Thiers incontrò Bismarck a Versailles e il 26
firmò i preliminari di pace, che prevedevano la consegna
dell'Alsazia e di un terzo della Lorena alla Germania, e l'enorme
somma di cinque miliardi di franchi d'indennizzo. Tornato il 28
febbraio a Bordeaux, li sottopose all'Assemblea che li
approvò il 1º marzo con 546 voti a favori contro 107
contrari e 23 astenuti. Conclusa la questione della pace, il governo
si occupò di Parigi. Venne adottata la risoluzione di
trasferire l'Assemblea a Versailles, fu abrogata la moratoria del
pagamento degli affitti e delle cambiali in scadenza - due misure
che colpivano soprattutto operai, artigiani e piccoli commercianti -
nominati i generali Aurelle de Paladine capo della guardia nazionale
e Valentin prefetto di polizia, il cui corpo venne rinforzato. Il 14
marzo lo stesso Thiers, convinto di risolvere in tre giorni il
problema di Parigi, stabilì il suo ufficio alla Prefettura di
polizia della capitale.
Il Comitato centrale della Guardia nazionale
A Parigi, per iniziativa del giornalista Pommeroye e del
commerciante Courty, in un'assemblea tenuta il 6 febbraio al Cirque
d'hiver, fu lanciata l'idea di una Federazione della Guardia
nazionale: ogni battaglione avrebbe costituito, con i suoi delegati,
un comitato rionale della Guardia e ciascuno di questi comitati
rionali avrebbe eletto suoi delegati per costituire un Comitato
centrale della Guardia nazionale. Il 15 febbraio, riuniti alla sala
Vauxhall, i delegati dei venti arrondissements elessero una
commissione provvisoria incaricata di redigere lo statuto della
Federazione. La commissione fu composta da 18 membri, uno per rione
- il I e il II arrondissements, rioni borghesi, non mandarono
rappresentanti - tutti personaggi ancora sconosciuti all'opinione
pubblica.
Il 24 febbraio un'altra assemblea alla Vauxhalle di 2000 delegati
votò una mozione dove si dichiarava che la Guardia non
avrebbe disarmato. La commissione provvisoria agì subito come
un organo politico che diriga la vita della città: il 28
febbraio fece raggruppare i cannoni della Guardia a Montmartre e a
Belleville in previsione dell'entrata dei soldati tedeschi nella
capitale e con un manifesto, l'Affiche noire, raccomandò ai
parigini di non manifestare contro le truppe straniere.
Un'altra assemblea nominò un Comitato esecutivo provvisorio
di 31 membri il 3 marzo, lo stesso giorno in cui il governo
nominò il generale Aurelle de Paladines comandante della
Guardia. Considerata questa nomina una provocazione, il 4 marzo fu
pubblicamente dichiarato che «il Comitato centrale della
Guardia nazionale, nominato da un'assemblea generale di delegati
rappresentanti di più di 200 battaglioni, ha per missione di
costituire la Federazione repubblicana della Guardia nazionale
perché sia organizzata in modo da proteggere il paese meglio
di quanto abbiano fatto finora gli eserciti permanenti, e per
difendere con tutti i mezzi la Repubblica minacciata».
Era una sconfessione di fatto dell'autorità del generale
Aurelle de Paladines, ribadita esplicitamente nel comunicato del 10
marzo: «Niente più eserciti permanenti, ma la nazione
tutta armata [...] Niente più oppressione, schiavitù o
dittatura di sorta, ma la nazione sovrana e cittadini liberi che si
governano a loro piacimento». Il giorno dopo il generale
Vinoy, comandante della piazza militare di Parigi, rispose
sospendendo sei giornali - La Bouche de fer, La Caricature, Le Cri
du Peuple, Le Mot d'ordre, Le Père Duchêne e Le Vengeur
- il consiglio di guerra della prigione militare di Cherche-Midi
condannò a morte in contumacia Blanqui e Flourens quali
responsabili della giornata del 31 ottobre e Vallès ricevette
sei mesi di prigione.
Il 15 marzo, ancora alla Vauxhalle, 1.325 delegati in rappresentanza
di 215 battaglioni della Guardia approvarono lo statuto della
Federazione ed elessero il Comitato centrale definitivo, composto di
32 membri: Allemane, Andignoux, Arnaud, Arnold, Assi, Babick,
Barroud, Bergeret, Billioray, Blanchet, Castioni, Chouteau,
Clémence, Duval, Eudes, Faltot, Ferrat, Fougeret, Gauthier,
Geresme, Gouhier, Groslard, Josselin, Jourde, Lisbonne, Lucien,
Maljournal, Moreau, Mortier, Prud'homme, Ranvier e Varlin. A
dimostrare la loro indipendenza dal governo, i delegati offrirono il
comando della Guardia a Garibaldi, che comunque rifiutò.
D'ora in poi le guardie nazionali si chiameranno soprattutto
Federati, riconosceranno sola autorità quella del Comitato
centrale e s'impegneranno per la costruzione di una
«Repubblica democratica e sociale».
La giornata del 18 marzo 1871
Già l'8 marzo il governo aveva tentato di smobilitare
l'artiglieria piazzata a Montmarte e al Luxembourg, e il 16 marzo
quella posta in place des Vosges, due tentativi falliti per
l'opposizione delle guardie nazionali. Il 18 marzo fu fatto un nuovo
tentativo. Alle 3 del mattino truppe regolari comandate dal generale
Lecomte occuparono la riva destra della Senna e alcuni distaccamenti
salirono la china di Montmartre, dispersero i federati di guardia e
cominciarono a trascinare i cannoni posti sul terrapieno della Butte
Montmartre.
Fu dato l'allarme: «cominciarono a suonare le campane [...] e
i tamburi suonarono a raccolta [...] tutte le strade che portavano
all'altura si rimpierono di una folla fremente. I dimostranti erano
in maggioranza donne, ma c'erano anche molti bambini». Anche
Louise Michel, «con la carabina sotto il mantello»,
corse sulla collina, dove erano saliti i battaglioni del XVIII
arrondissement.
Il generale Lecomte ordinò più volte di sparare, ma
non venne ubbidito. Un suo sottufficiale, il sergente dell'88º
reggimento di linea Galdric Verdaguer, ordinò di abbassare le
armi. Soldati e federati fraternizzarono, Lecomte fu arrestato dai
suoi stessi soldati e condotto allo Château Rouge, la sede del
comando di legione del XVIII rione. Il 128º battaglione della
Guardia recuperò i cannoni, una carica dei cacciatori a
cavallo fu respinta a place Pigalle, mentre la brigata del generale
Paturel ridiscendeva l'altro versante di Montmartre. Finalmente,
alle 11, il generale Vinoy diede l'ordine di ritirata.
Nel primo pomeriggio il Comitato centrale diede ordine di occupare i
municipi, le caserme, gli edifici governativi, e si cominciarono a
costruire le barricate. Quando tre battaglioni della guardia
nazionale passarono davanti al ministero degli esteri, dove era in
corso una riunione di governo, Thiers e i ministri, presi dal
panico, abbandonarono precipitosamente Parigi per Versailles,
insieme a generali e funzionari. Nella fretta, non fu comunicato
l'ordine a tutte le truppe, e furono «dimenticati» a
Parigi tre reggimenti, sei batterie, la flottiglia delle
torpediniere della Senna e molti vagoni blindati.
Un uomo che stava ispezionando una barricata di rue de Martyr
suscitò sospetti. Benché in abiti civili, venne
riconosciuto: era il generale Clément Thomas, fino a gennaio
comandante della Guardia e uno dei protagonisti della sanguinosa
repressione della rivolta del giugno 1848. Venne trascinato dalla
folla allo Château Rouge e, malgrado l'opposizione di alcuni
ufficiali federati, fu condotto nel giardino di rue des Rosiers e
ucciso. A quel punto, i soldati dell'88º reggimento prelevarono
anche il generale Lecomte e lo fucilarono.
Nel pomeriggio furono occupate le ultime caserme e la Stamperia
nazionale, la sera fu la volta dell'Hôtel de Ville, da dove
era fuggito poco prima il sindaco Jules Ferry. Vi fu issata la
bandiera rossa e il Comitato centrale della Guardia nazionale vi
s'installò. Non furono invece occupate la Posta centrale, la
Banca di Francia e il forte di Mont-Valérien, che controllava
la strada per Versailles, tutti errori che favoriranno la reazione
governativa, come la mancata opposizione alle truppe in ritirata,
una responsabilità che grava su Charles Lullier, il nuovo
comandante della Guardia nominato dal Comitato centrale.
L'errore più grave fu probabilmente quello di non attaccare
immediatamente Versailles, come afferma lo stesso generale Vinoy,
scrivendo di «errore gravissimo e irreparabile»,
perché il Comitato centrale non utilizzò «tutti
i vantaggi inaspettatamente conseguiti. In quel momento tutte le
probabilità erano dalla sua parte. Esso avrebbe dovuto
tentare l'attacco il giorno seguente».
In effetti, gli uomini del Comitato centrale non avevano nessun
piano militare perché essi furono sorpresi dalla stessa
insurrezione spontanea della popolazione: «essi non l'avevano
prevista e non avevano fatto nulla per organizzarla. Solo la
disgregazione dell'esercito eccitò la loro audacia».
Seppero però mettersi alla testa dell'insurrezione e ne
divennero il punto di riferimento. Dal 19 marzo spettò al
Comitato centrale della Guardia nazionale dare una nuova forma e un
nuovo contenuto al potere politico che il popolo di Parigi si era
conquistato.
Dal 18 marzo alla Comune
Il Comitato centrale, insediato all'Hôtel de Ville,
fissò al 22 marzo le elezioni del Consiglio municipale. La
maggioranza dei sindaci dei rioni, rimasta fedele al governo,
contestò la legittimità dell'insurrezione e delle
funzioni che il Comitato aveva assunto, chiedendogli di rimettere a
loro il potere della città. Seguirono trattative il cui
scopo, rivelerà Pierre Tirard, il sindaco del II
arrondissement, era quello di prendere tempo, impedendo «ai
federati di andare a Versailles [...] la nostra opposizione diede al
governo la possibilità di organizzare la difesa».
Un risultato delle trattative fu quello di spostare, di comune
accordo, le elezioni al 26 marzo, mentre venivano organizzate
manifestazioni pubbliche contro il Comitato. Un migliaio di persone
dei quartiere del centro sfilò il 21 marzo da place de
l'Opéra agli Champs-Elisées. Il 22 marzo la
manifestazione si ripeté e questa volta ci fu una sparatoria
a place Vendôme che fece due morti tra le guardie nazionali e
un decina tra i dimostranti, tra i quali il visconte de Molinet. Il
23 marzo i sindaci firmarono un manifesto nel quale annunciavano di
aver nominato l'ammiraglio e deputato Jean-Marie Saisset, giunto due
giorni prima da Versailles, comandante della Guardia, e il
colonnelli Langlois e Schoelcher, entrambi deputati, rispettivamente
a capo dello Stato maggiore e dell'artiglieria. Ma essi non
riuscirono a raccogliere alcuna forza armata disposta a mettersi ai
loro ordini e il 24 marzo l'ammiraglio se ne tornò a
Versailles.
Il 24 marzo, un manifesto del Comitato centrale fissava il consueto
programma da realizzare dopo le elezioni: mantenimento delle
Repubblica, creazione di un consiglio comunale elettivo, abolizione
della prefettura di polizia e dell'esercito permanente, mantenimento
dell'ordine affidato alla Guardia nazionale. E poiché la
Comune era stata proclamata anche a Lione, a Marsiglia, a Tolosa, a
Saint-Etienne, a Limoges e a Narbonne, la Comune di Parigi,
«unita alle altre libere Comuni della Francia», avrebbe
discusso «i punti fondamentali del patto che dovrà
legarle al resto della nazione», dovendo rimanere assicurati i
diritti e l'autonomia di ciascuna città.
L'idea era dunque quella di una nazione di città federate,
ognuna delle quali amministrata, senza alcuna ingerenza del governo
centrale e dell'Assemblea nazionale, da un'assemblea «che si
chiamerà municipale o comunale o Comune» nella quale
avrebbero operato le varie commissioni per le finanze, il lavoro,
l'istruzione, l'ordine pubblico e così via, essendo tutti i
membri del consiglio revocabili e dovendo «rendere conto delle
loro azioni ed essere completamente responsabili».
In un manifesto del Consiglio federale delle sezioni parigine
dell'Internazionale e della Camera federale delle associazioni
operaie, pubblicato il 23 marzo, si accennava alle riforme sociali
che la Comune avrebbe dovuto attuare. Vi si parlava di eliminare
«l'antagonismo delle classi» e di assicurare
«l'uguaglianza sociale», attraverso
«l'organizzazione del credito» e la creazione di
associazioni che assicurassero ai lavoratori «il frutto
completo del loro lavoro». Analoghe vaghe formulazioni erano
contenute in un appello del Comitato centrale dei venti
arrondissements, firmato da Arnaud e Vaillant, in cui si diceva che
«la Repubblica doveva instaurare l'armonia degli interessi e
non sacrificare gli uni per gli altri», e si proponeva
l'organizzazione di un sistema creditizio che prima liberasse
l'operaio dalla povertà e poi «lo portasse rapidamente
alla liberazione».
Il sistema elettorale fu modificato e dal collegio rionale
uninominale si passò al collegio rionale proporzionale. Ogni
rione avrebbe espresso i propri delegati in proporzione al numero
dei propri abitanti, un delegato ogni 20.000 abitanti o frazioni di
più di 10.000. Così Passy, che contava 42.000
abitanti, avrebbe eletto due rappresentanti, Vaugirard, con 69.000
abitanti, tre rappresentanti, Montmartre, con 139.000 abitanti,
sette rappresentanti. In questo modo, il numero totale dei delegati
da eleggere al Consiglio della Comune ammontava a novantatré.
Ciascun delegato avrebbe dovuto ricevere almeno un ottavo dei voti
degli elettori.
Le elezioni si svolsero senza incidenti: il 26 marzo, su 485.569
elettori iscritti, votarono 229.167 parigini, quasi 100.000 in meno
rispetto alle ultime elezioni del 5 novembre 1870. La differenza fu
dovuta in parte al numero inferiore di abitanti della capitale a
causa dell'elevata mortalità e dell'esodo in provincia
verificatosi prima, durante e dopo l'assedio, in parte per un
maggiore astensionismo praticato soprattutto nei quartieri borghesi.
Nel complesso «le elezioni del 26 marzo furono regolari e
normali, alle urne si presentò il maggior numero di elettori
possibile nella situazione esistente in quel momento a Parigi e in
seno ai partiti».
La Comune
Il 28 marzo, in place Hôtel de Ville gremita di 200.000
parigini, furono resi noti i nomi degli eletti al Consiglio della
Comune. Il poeta Catulle Mendès era presente e descrisse la
scena:
«Uno a uno i battaglioni si erano allineati sulla piazza, in
bell'ordine, musica in testa. Suonavano e cantavano in coro la
Marsigliese. Quel suono commosse tutti e quel grande inno, avvilito
dal nostro torpore, ritrovò in un attimo il suo antico
splendore. Improvvisamente tuona il cannone; il canto s'ingigantisce
e uno sciame di stendardi, di baionette e di képis va avanti
e indietro, ondeggia e si raccoglie davanti al palco. Il cannone
continua a tuonare, ma lo si può sentire soltanto nelle pause
del canto. Ogni rumore si confonde in una sola acclamazione
compatta, la voce di quell'innumerevole moltitudine. E quegli uomini
avevano un solo cuore, così come avevano una voce sola
»
Due membri del Comitato centrale della Guardia parlarono dal palco
eretto di fronte al municipio. Boursier lesse la lista degli eletti,
e al canto della Marsigliese Gabriel Ranvier annunciò:
«La Comune è proclamata, in nome del popolo», e
dichiarò che il Comitato centrale trasferiva da quel momento
i suoi poteri al Consiglio della Comune, «il solo potere
riconosciuto».
Quella sera stessa il Consiglio si riunì per la prima volta.
Erano 86, perché mancava Blanqui, fatto arrestare da Thiers
il 17 marzo a Bretenoux, e perché alcuni consiglieri erano
stati eletti in più di un arrondissement. Fu dichiarata
l'incompatibilità tra il mandato della Comune e il mandato
dell'Assemblea Nazionale e seguirono le dimissioni dei consiglieri
fedeli al governo Thiers poiché, essendo in netta minoranza,
non erano in grado di condizionare l'azione del Consiglio: il primo
fu Tirard, seguito da Adam, Barré, de Bouteillet,
Brélay, Chéron, Desmaret, Ferry, Fruneau, Leroy,
Loiseau-Pinson, Marmottan, Méline, Nast, Robinet e Rochard.
Mentre il 3 aprile morirono Duval e Flourens, tra il 4 e il 12
aprile si dimisero anche i quattro seguaci di Gambetta, Goupil,
Lefèvre, Parent e Ranc, in dissenso con il decreto sugli
ostaggi. Furono tutti sostituiti nelle elezioni complementari tenute
il 16 aprile.
Riguardo alla composizione sociale degli eletti, una trentina erano
operai e artigiani, gli altri si dividevano tra professionisti,
giornalisti e impiegati. I socialisti, tra blanquisti e
proudhoniani, costituivano più della metà del
Consiglio, e tra di essi una ventina erano iscritti
all'Internazionale. Seguivano una quindicina di giacobini e il resto
non aveva una posizione politica definita. Notevole caratteristica
era la giovane età dei delegati, in gran parte nati negli
anni Trenta e Quaranta.
Il 29 marzo furono costituite dieci commissioni, corrispondenti ai
precedenti ministeri governativi, ma con un numero maggiore di
responsabili.