COMISSO, Giovanni

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DBI

di Marcello Carlino

Nacque a Treviso il 3 ott. 1895 da Antonio, rappresentante di commercio in granaglie, e da Claudia Salsa, discendente da una famiglia di alto lignaggio dissestatasi nelle lotte risorgimentali.

Nella città veneta, amata ed odiata insieme, il C. compì i primi studi, che più tardi, forse in ossequio al suo personaggio di scrittore istintivo, avrebbe rammentato con un senso di noia e di frustrazione.

A delineare il quadro di infanzia e di adolescenza dello scrittore trevigiano concorrono esperienze di segno opposto, sovente citate nelle opere della maturità: la felice immersione nel clima sonnolento e protettivo di una famiglia borghese di provincia; il vagheggiamento dei suoi riti privilegiati; l'insofferenza e l'ansia di sfuggire a quell'universo di comportamenti e di valori; una sete inappagata d'avventure, tradotta nella scoperta sensuale ed esclusiva della natura e dell'amicizia e nell'iniziazione, anche omosessuale, all'amore. Non c'è traccia, in questi anni, di un concreto apprendistato culturale. Soltanto nel ventennio tra le due guerre il C. si cimentò, e svogliatamente, con la narrativa di Nievo, di Verga, di Svevo; nel periodo della formazione, invece, egli si limitò a letture di tipo scolastico e manualistico; poeti come Rimbaud gli giunsero di seconda mano, magari orecchiati nei frequenti incontri con Arturo Martini, anch'egli di Treviso, nel locale Caffè del commercio. L'incultura letteraria del C., come spesso accade, sfociò presto, per l'assenza di una personale rielaborazione critica, in una oggettiva adesione ai principî della cultura dominante. Pascolismo e dannunzianesimo, la fede in una preminenza dei ruoli intellettuali, creduti immuni dalla compromissione con il potere, l'eccezionalità dell'esperienza poetica, fondata misticamente sulla logica della estraneità alla dinamica sociale, segnarono le prime prove del C. e innervarono, poi, tutto l'arco della sua produzione letteraria.

Le Poesie, edite a Treviso nel 1916 e le prose di quegli stessi anni, pubblicate nel 1957 da Rebellato di Padova sotto il titolo di La virtù leggendaria, erano caratterizzate, appunto, da un minuto descrittivismo e da un bisogno irrazionalistico di ritorno igienico ad un mondo libero e primitivo, che prevaleva di gran lunga sulla pietà umana per gli orrori della guerra. Fu questo il credo ideologico, un misto di interventismo e di estetismo alla D'Annunzio, con il quale il C. partecipò agli eventi bellici del primo conflitto mondiale. Che egli concepisse la guerra come occasione propizia per lo sfrenarsi di un furore vitalistico, appagante nelle sue estetiche manifestazioni, o come condizione auto-protettiva di un cameratismo spinto all'estremo, che univa in solidarietà giovani frementi alla ricerca di esperienze assolute, lo avrebbe testimoniato il libro Giorni di guerra, composto negli anni del conflitto ma pubblicato da Mondadori soltanto nel 1930.

Confrontata con le altre memorie di guerra, l'opera si distingue per l'enfasi posta sul livello tematico di un fervore giovanile che ribolle e vuole congiuntamente emergere, sublimando o, peggio, ignorando il caos disumano della realtà di trincea e le tragiche disfatte, quali quella di Caporetto.

Rientrato a Treviso, il C., come altri della sua generazione, scontò la difficoltà del reinserimento nella vita d'ogni giorno. Da una situazione siffatta e dall'idea complementare di una letteratura egoisticamente centrata sul mondo esclusivo dell'individuo, tradito dalla storia e ribelle ad ogni piatta normalizzazione, prese spunto il carattere autobiografico della narrativa dell'autore trevigiano.

Tra il 1918 e il 1919 egli fu frequentemente a Roma, anche per seguire un corso universitario destinato agli ex combattenti, e vi conobbe Onofri, De Chirico, De Pisis. Con D'Annunzio ebbe il primo esaltante contatto diretto in occasione di un suo discorso in Campidoglio. Sulla lezione del poeta vociano egli elaborò alcune prove liriche; da De Pisis mutuò un timbro di stile impressionistico; da quell'incontro rivelatore fu spinto a consolidare le già esistenti consonanze di gusto con il vate pescarese. Sicché, quando, ancora ufficiale, fu chiamato a Fiume con il suo manipolo che doveva far parte delle truppe interalleate di presidio della città, il C. ritrovò d'un tratto la sua identità. Tornava infatti a respirare l'atmosfera rivitalizzante del fronte e partecipava ad un'avventura fuori del comune, con un prim'attore d'eccezione, D'Annunzio appunto. Divergenze strategiche o politiche erano relegate in sott'ordine; quel che contava era la possibilità di sottrarsi alla società del tempo, di evadere beatamente in una città governata da un poeta, che contrabbandava l'amore in luogo della lotta di classe. Un estetizzante vivere pericolosamente e un anarchico sbrigliamento dei sensi potevano realizzarsi a Fiume. In quel fermento il C. ebbe modo di stringere rapporto d'amicizia con Guido Keller e di sperimentare, con lui, altre direzioni dell'irrazionalismo, lo yoga in particolare, movimento spiritualista di cui contribuì a stilare i manifesti. L'avventura fiumana gli fornì molteplici materiali di lavoro e gli tracciò, anche, un preciso itinerario di stile. Porto d'amore del 1924, stampato a Torino per i tipi di Vianello, fu la traduzione autobiografica di quella esperienza: rari momenti diseroicizzanti a parte, vi dominano una volontà di potenza e di piacere, una febbrile eccitazione sensuale, un abbandono panico alla natura che poggiano su un linguaggio aulicamente estenuato, esemplato sul più canonico cliché dannunziano.

I ricordi fiumani furono raccolti sulla pagina, dal C., a cavallo degli anni Venti, in un periodo di crisi e di sbandamento. Il nuovo difficile rientro nella realtà quotidiana, il sentore di un ulteriore tradimento operato sulla propria pelle e la ripulsa per la dialettica politica di quel tempo furono alla base di una convulsa e confusa attività. Il C. tentò vanamente, per il tramite di Keller, di far parte del mondo culturale genovese e vinse appena la tentazione di imbarcarsi per lidi lontani. Il delitto di Fausto Diamante, edito a Milano nel 1933, nel segno di un superomismo dannunziano fedelmente riprodotto, impaginò trasfigurandola questa tranche de vie; mentre, pubblicata nello stesso anno, sempre a Milano, Storia di un patrimonio rispolverava in ultimo le lotte contadine tra bianchi e rossi, ugualmente ricoperti di disprezzo.

La conclusione sottintesa era quella che siglava l'ideologia comissiana alle soglie della marcia su Roma: che il popolo tornasse a lavorare non occupandosi di politica o delegandola ad altri. Si trattava, in sostanza, del medesimo principio che distingueva la prassi letteraria. Al racconto e al romanzo era riservato l'accattivante rifugio nell'avventura e nel sogno, in un'esperienza privata, astratta da un rapporto diretto con la realtà e con la storia. Quando proprio era inevitabile il richiamo alla dialettica sociale, l'io narrante doveva assumere un atteggiamento moralistico di ammonimento e di censura. Nella Storia di un patrimonio l'adesione dei personaggi alle tesi socialiste, negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, era appiattita dapprima nella logica di un bieco arrivismo ed era infine punita, nello sviluppo dell'intreccio, con la dissipazione dell'eredità. Lo stile, in parallelo, si riduceva ad un puro esercizio impressionistico, svolto nel solco della normalità della lingua, con qualche riverniciatura di aulicità; le dimensioni brevi del racconto erano destinate a prevalere su quelle più lunghe e articolate del romanzo. Il C. sarebbe rimasto ai margini della politica del regime; nel suo epistolario l'unico riferimento a Mussolini è motivato da un giudizio lusinghiero del duce su un suo libro e c'è soltanto una traccia di una sua pièce drammatica che avrebbe dovuto essere rappresentata nell'ambito della propaganda ufficiale; non si ha notizia, insomma, di clamorose prese di posizione pubbliche, a sostegno del fascismo, da parte di Comisso. Ma le sue scelte tematico-espressive recavano certamente le stimmate della cultura egemone e manifestavano una indubbia correità letteraria all'ideologia fascista.

Il 1922 fu per il C. un anno di viaggi, che gli fece maturare, tuttavia, l'opportunità di un rientro nei ranghi, addomesticando l'ansia di ribellione e di fuga e potenziando, invece, i rapporti con gli ambienti culturali ed editoriali del tempo. Così, mentre riprendeva gli studi universitari, presentato da Arturo Martini egli iniziò a collaborare, nel 1923, ad alcune riviste trevigiane. Nel 1924 conseguì a Siena la laurea in legge, ma, bocciato agli esami di abilitazione, non esercitò mai la professione di avvocato. Grazie anche al successo di Porto d'amore, che ebbe recensioni da Titta Rosa e da Montale, poté frequentare assiduamente i cenacoli letterari milanesi. Nel 1926, anno della morte del padre, divenne redattore, regolarmente stipendiato, de L'Eco del Piave; cominciò a collaborare a La Tribuna; ebbe l'incarico, a Milano, di organizzare la libreria annessa alla galleria d'arte "Esame" e conobbe Angioletti, Piero Gadda, Longanesi, Raimondi, Borgese, Ojetti. In forza di questi contatti, gli si spalancarono le porte dei quotidiani e delle riviste più prestigiose dell'epoca. Risale a quel periodo, in occasione di un viaggio a Parigi, un incontro con Joyce e Svevo, al quale il narratore trevigiano avrebbe riconosciuto maturità ed espressività di stile, denunciandone sintomaticamente la trasandatezza. Nello stesso 1926 uscivano, su L'Italiano, brani de Il delitto di Fausto Diamante; Il Convegno ospitò, a partire dall'anno successivo, ampi stralci di Storia di un patrimonio. Il C.aveva raggiunto un perfetto equilibrio tra sete eroica d'avventura e amministrazione oculata della sua attività letteraria, con i profitti conseguenti. Al viaggio lungo le coste adriatiche, su un veliero di amici chioggiotti, segui, nel 1928, la pubblicazione di Gente di mare, per i tipi di Treves.

Il libro era strutturato su un sapiente descrittivismo, che incorniciava uomini e paesaggi in un campionario edulcorato di immagini. Smesso il sovrappiù dannunziano, il cliché della scrittura ossequiava altre mode vigenti, risultando perfettamente adeguato ai canoni della prosa d'arte. L'opera era tanto in linea con le direzioni di letteratura allora maggioritarie, che, nel 1929, ottenne il premio Bagutta. Il C. presentava le credenziali per quello che sarebbe stato il suo mestiere primario negli anni a venire. Di fatto gli calzava a puntino la misura della nota di viaggio, rapide impressioni di un inviato attento a non spingere troppo in là la sua analisi e pago, invece, di restare alla superficie delle cose, per poi comporle in un gustoso elzeviro.

Sin dal 1927, in un ritmo progressivo di spostamenti a Parigi, in Sicilia e in Marocco, Algeria, Olanda, Inghilterra, egli viaggio e scrisse per conto della Gazzetta del popolo. I suoi articoli, poi raccolti in Questa è Parigi (Milano 1931) e in L'Italiano errante per l'Italia (Firenze 1937), sotto il lustro non eccessivo di uno stile vivido e aggraziato riproducevano, in buona sostanza, gli stereotipi del senso comune, versione anni Trenta.

Prevalevano le descrizioni di paesaggi e di città, di costumi e di comportamenti sottratti forzosamente alla realtà sociale di cui erano espressione. Il giornalista si asteneva da qualunque notazione di carattere storico e politico; la condizione umana nel Mezzogiorno d'Italia era trasfigurata, ad esempio, nel pittoresco e nell'oleografico. Qualche minima concessione alla riflessione e al giudizio rientrava presto nell'ovvietà del luogo comune. La malcelata anglofilia della cultura italiana si esprimeva sommessamente nell'elogio di compostezza e dignità di modi e comportamenti britannici. L'attrito tradizionale con la Francia trovava spazio nella satira della presunzione gallica e nella descrizione di un pretenzioso paludamento di un diplomatico d'Oltralpe.

Il successo di tale attività pubblicistica meritò al C. l'incarico di inviato del Corriere della sera. Nel 1930, per conto del quotidiano milanese, egli si recò in Cina, in Giappone e in Russia. Ne risultarono ancora, come si evince da Cina-Giappone (Milano 1932), articoli improntati ad un sostanziale conformismo. Su una dominante tonalità visiva e bozzettistica emergevano episodicamente l'assunto di una superiorità della cultura occidentale su quella orientale, il fascino pruriginoso dell'esotismo, una strumentale panoramica sulla miseria, la costante di una tristezza immedicabile del popolo russo. Lo stereotipo dell'Estremo Oriente, come terra dell'amore senza vincoli e della totalità dell'eros, sarebbe stato poi argomento di Amori d'oriente (Milano 1948): un misto di estasi sensuale e di cattolico senso di colpa, che si esplica in attrazione e ripulsa per una realtà di estrinsecazione dell'io, fuori da ogni condizionamento morale, e che nonriesce ad evitare i limiti di una sistemazione usuale e, al fondo, libresca.

L'intensità e la risonanza nazionale delle collaborazioni al Corriere della sera affermarono pienamente il C. negli ambienti culturali italiani. Pertanto egli trovò ospitalità, per i suoi racconti, su La Fiera letteraria, Solaria, Pegaso, L'Illustrazione italiana; ebbe modo di dare alle stampe le opere a cui aveva da tempo lavorato, come Giorni di guerra, Il delitto di Fausto Diamante, Storia di un patrimonio; strinse altri rapporti, incontrando nel 1931 a Parigi, introdotto da De Pisis, il gruppo di artisti italiani che là operavano, affascinati dal movimento surrealista; si dedicò a iniziative di vario genere, come un'associazione, istituita nel 1928 e della quale faceva parte anche Bacchelli, per la conoscenza delle opere di I. Nievo.

A tratti insofferente per le oggettive limitazioni alle quali doveva soggiacere la sua vena di narratore nella scrittura giornalistica, il C. cominciò a mettere mano a Gioco d'infanzia, edito da Longanesi soltanto nel 1965. Il libro ambiva ad essere una autobiografia totale, idealmente illuminata dall'età vagheggiata di una piena liberazione istintuale.

I proventi economici ricavati dal frenetico lavoro di inviato consentirono al C., tra il 1930 e il 1932, di ristrutturare nella campagna di Zero Branco una casa colonica di proprietà della famiglia e di soggiornarvi spesso in un geloso isolamento, poi occasione autobiografica di scrittura. Il narratore trevigiano si ritagliava un'oasi esistenziale che proteggeva la sfera privata della sua esperienza e che avrebbe suffragato la linea lirico-intimistica della sua produzione futura. Mentre lo scrittore-giornalista bruciava le tappe della sua carriera, stampando a Firenze nel 1935 Avventure terrene e nel 1936 I due compagni (Milano), opere che incapparono parzialmente nella censura, l'una perché ritenuta in alcuni punti contraria al comune senso del pudore, l'altra perché troppo cruda in talune descrizioni di scene della prima guerra mondiale; mentre curava, con E. Canevari, Il gen. Tommaso Salsa e le sue campagne coloniali (Milano 1935), libro di propaganda ideologica per l'imminente avventura etiopica, e nel 1937, ad impresa conclusa, si imbarcava per l'Africa, quale inviato della Gazzetta del popolo, e ne tracciava un panorama non senzasottolineature razziste, l'uomo si concedeva pause di solitaria meditazione, avendo unici compagni gli affetti e la protezione di una vita ovattata, immersa nella natura e nel mondo contadino di Zero Branco: quasi la tentata riesumazione della felicità dell'infanzia. Lo scrittore ebbe vicini, in questi anni, Bruno, il quale era nipote del capitano del veliero di Gente di mare, e, dopo il suo abbandono ed una breve parentesi avente a protagonista una Rachele che il C. pensò di sposare, Guido. Sempre nel segno di una estraneità della letteratura ad ogni diretta problematica sociale c'a qualunque dinamica collettiva, Un inganno d'amore, concepito nel 1936, ma edito da Mondadori nel 1942, costituì la prima occasione di un aggiornamento di poetica.

Al febbrile vitalismo, comunque aleggiante nelle opere precedenti, si sostituiva gradatamente il sentimento crepuscolare di un declino dell'esistenza. La sensazione era giustificata anagraficamente e scaturiva, insieme, dalla rovina ormai addensatasi sull'Europa, con gli avvisi dell'imminente conflitto. Se sull'Osservatore politico-letterario (marzo 1938)pubblicò un saggio di sostanziale sintonia ideologico-letteraria con D'Annunzio, a cui era dedicato il numero della rivista, nella risposta ad una inchiesta su La condizione dell'arte, promossa da T. Interlandi nel 1940, e poi in un articolo apparso su Primato (15giugno 1943) il C.venne precisando ed aggiustando le sue posizioni: l'arte, legata indissolubilmente alla vita, rimaneva dimensione eterna di trasfigurazione memorabile dei fatti, ma doveva evitare le secche retoriche e inumane, alle quali anche D'Annunzio l'aveva costretta, e recuperare in pieno la verità del sentimento, oltre ogni filtro deviante di stile. La nuova poetica del narratore di Treviso si annunciava fondata sull'equivoco di una presunta neutralità ideologica del linguaggio, ma spostava il livello autobiografico della scrittura sul piano di una memoria autocosciente e riflessiva, che non rimuoveva il dramma individuale della vita né dimenticava le difficoltà di una autentica liberazione esistenziale. Il ricordo ora non si sottraeva ad un sentore di disfacimento e si copriva di malinconia.

Passata la tempesta della guerra, a cui aveva guardato in una prospettiva privatistica, sovrapponendo i suoi drammi individuali (la distruzione della casa in campagna) alla tragedia collettiva, il C. non condivise le speranze che permearono la società italiana del tempo. Scrisse, infatti, che per il peso della tradizione cattolica l'Italia sarebbe andata incontro ad una seconda Controriforma, la quale avrebbe rispolverato atteggiamenti codini e oscurantisti; aggiunse la sua sostanziale renitenza a forme e metodi, giusti i principi astratti, del comunismo e delle sue organizzazioni politiche. Restò dunque, ideologicamente e culturalmente, un isolato, non avendo certo punti in comune con i fondamenti teorici e formali del neorealismo. Basati su un'esperienza dichiaratamente soggettiva e risolti in un'atmosfera crepuscolare, Capriccio e illusione (Milano 1947) e Gioventù che muore (ibid. 1949) riformularono alcuni tratti del rapporto del C. con Guido nella storia di Mario e Ida e in quella di Adele e Guido.

Il riferimento alla realtà del fascismo e della guerra, nel romanzo del 1949, era messo in ombra dalla vicenda passionale dei protagonisti, pervasi dalla coscienza del decadere della giovinezza e quasi perseguitati da un fantasma di morte.

Benché letterariamente emarginato, lo scrittore veneto, proprio per la sua idea di un'arte istintiva, fondata sul sentimento, stilisticamente rispettosa della norma, continuo a rispondere alle aspettative del lettore medio, ciò che rende ragione del successo sicuro che gli corrispose anche nel dopoguerra. Così ebbe ancora incarichi di corrispondente, nel 1953 in Grecia per Il Messaggero, in Spagna e Germania nel 1954 e in Egitto nel 1956 per La Stampa;da queste esperienze scaturirono Approdo in Grecia (Bari 1954), e Viaggi felici (Milano 1966), che seguirono i Capricci italiani (Firenze 1952). Quest'ultimo libro, che non evita un piglio oratorio nella ricognizione, più descrittiva che analitica, su ambienti e costumi italiani, ottenne il premio Viareggio, mentre il complesso dell'attività giornalistica comissiana fu segnalato, nel 1961, dal premio Saint-Vincent.

Ugualmente ricca fu la produzione specificamente letteraria del C. tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Un gatto attraversa la strada (Milano 1954); La donna del lago (ibid. 1962), che narra fatti realmente accaduti ad Alleghe, coniugando passione amorosa e delitto; Cribol (ibid. 1964), che accoglie taluni modi stilistici neorealisti per inquadrarli in una storia dei sensi e degli affetti; Busta chiusa (ibid. 1965) e Attraverso il tempo (ibid. 1968), che risolve in una costellazione domestica di oggetti l'urto tra istinto di vita e morte, completano il nutrito repertorio delle opere, in prevalenza racconti, del C. nel dopoguerra. Ad esse non fu davvero lesinato il favore del pubblico e della critica, tanto che il volume del 1954 fu insignito, nell'anno successivo a quello della pubblicazione, del premio Strega, che l'intera produzione narrativa del C. ebbe il riconoscimento del premio Montefeltro 1964, che si tenne nella sua città natale, nel 1968, un convegno in suo onore, mentre la casa editrice Longanesi aveva dato inizio, sin dal 1960, alla ristampa dell'intero corpus delle opere di Comisso. Ma è soprattutto nei libri di tenore squisitamente autobiografico - Le mie stagioni (Milano 1951), Mio sodalizio con De Pisis (ibid. 1954), La mia casa di campagna (ibid. 1958), Diario 1951-1964 (ibid. 1969) - che la scrittura comissiana si è espressa in modo più significativo.

In essi la crisi della vecchiaia, il rosario di morti di parenti ed amici - Arturo Martini nel 1947, la madre nel 1954, De Pisis nel medesimo anno -, la sfiducia nella realtà esterna, il crollo di alcune certezze esistenziali, il sogno fallito di una casa al Circeo e lo svanire della speranza connessa di un ritorno ad un impossibile giovanile, entusiasmo sono le tracce emblematiche di un documento, umano più che letterario, di indubbia suggestione. Vi si manifesta l'ultimo sviluppo della poetica del C.: una letteratura che, senza infingimenti o sottintese prurigini estetiche, parla ossessivamente di chi la scrive e si lacera dietro il fantasma della morte e non censura i suoi strazi e le sue impotenze, gli stessi che motivarono una provvisoria sterzata comissiana verso il linguaggio della grafica e della pittura.

Il C. morì a Treviso il 21 genn. 1969.