COLAJANNI, Napoleone

 

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di Massimo Ganci

Nacque a Castrogiovanni (oggi Enna) il 28 apr. 1847 da Luigi, piccolo industriale dello zolfo, e da Concetta Falautano, proprietaria di solfatare, in una famiglia di intensi sentimenti patriottici.

L'infanzia e l'adolescenza del C. trascorsero nel culto di Garibaldi. Nella primavera del 1860, ancora ragazzo, fuggì per arruolarsi tra i "picciotti"; riconosciuto però a Villarosa da un amico di famiglia, fu da questo riportato a casa. Ripeté la fuga due anni dopo, partecipando allo scontro di Aspromonte (29 ag. 1862) nei ranghi del battaglione comandato da Menotti Garibaldi. Insieme con altri volontari, presi prigionieri dal gen. E. Pallavicini di Priola, fu confinato nell'isola di Palmaria e successivamente a Santo Stefano di Vado. Al momento della concessione dell'amnistia si trovava nel carcere di Savona: fu liberato in Sicilia, dove era stato tradotto ammanettato e in vagone cellulare. Nel 1866 si arruolò volontario nelle formazioni garibaldine e, in forza nella 3ª compagnia del battaglione dei carabinieri genovesi, partecipò agli scontri di Monte Mario (16 luglio) e di Bezzecca (21 luglio). Durante la campagna conobbe E. Pantano, con il quale strinse una fraterna amicizia che durò tutta la vita.

Terminata la guerra si recò a Genova presso un fratello, per iniziare un regolare corso di studi; conseguita la licenza liceale si iscrisse alla facoltà di medicina. A Genova prese contatto col partito repubblicano, soprattutto con F. Campanella, e sul giornale da lui diretto, Il Dovere, pubblicò il suo primo articolo. Nel 1867 ritornò a Castrogiovanni per a morte del padre. Lasciata subito la famiglia per accorrere all'appello di Garibaldi, giunse troppo tardi, dopo il fatto d'armi di Mentana, allorché la campagna dell'Agro romano si era già conclusa.

Lasciata l'università di Genova, si iscrisse a quella di Napoli. Qui nel 1869, insieme col Pantano, G. Imbriani ed altri, partecipò - e venne anche arrestato - ad una cospirazione repubblicana, i cui fini e il cuiprogramma sono ancora oscuri.

Essa si inquadra nell'attività eversiva dell'Alleanza repubblicana, l'organizzazione mazziniana che in questo periodo dette frequenti segni di attività. A Napoli aveva sede il Comitato centrale dell'Alleanza per le province meridionali, costituito da G. Nicotera, G. Asproni, L. Zuppetta, A. Castellani, C. Procaccini ed il Pantano. Gli affiliati erano alcune migliaia: tra i più attivi, il C. e G. Imbriani. Nel novembre del 1868 la decapitazione eseguita a Roma dei congiurati Monti e Tognetti - che alla vigilia di Mentana avevano fatto esplodere una mina nella caserma Serristori dell'esercito pontificio - aveva provocato a Napoli forte reazione: era stato tenuto un comizio al teatro del Fondo nel corso del quale gli oratori democratici avevano attaccato "il chierico sanguinoso e l'imbelle re" - così il Carducci aveva definito Pio IX - ed avevano proposto di contrapporre un "anticoncilio" al concilio ecumenico che si sarebbe tenuto a Roma nel 1870. Nello stesso periodo si erano avuti nelle campagne agitazioni e tumulti contro la tassa sul macinato. Tutto ciò aveva spinto il Mazzini a convocare a Lugano un convegno di attivisti dell'Alleanza, nel quale aveva proposto l'insurrezione immediata. Pur non tutti d'accordo, parecchi però condivisero la tesi del Mazzini, tra i quali il Pantano che ripartì per Napoli per dare il via all'azione diretta. Ma fu preceduto dall'iniziativa del governo, che individuò il centro dell'organizzazione eversiva in una casa di via Cirillo 53, dove il C., sotto lo pseudonimo di dr. Ernesto Massari, abitava col Pantano e l'ing. F. Calandra. Quest'ultimo e il C. furono tratti in arresto, e dalle carte sequestrate la polizia poté giungere ai nomi degli altri congiurati, tra i quali alcuni sottufficiali dell'esercito, e scoprire anche una curiosa setta segreta, denominata la "negromanzia", che si diramava soprattutto tra i custodi degli istituti di pena.

Dalle carte processuali, trovate e studiate da A. Romano (Storia del movim. social. in Italia, Milano-Roma 1954-56), risulta che la congiura di Napoli, oltre che all'Alleanza repubblicana, faceva anche capo non solo alla sezione napoletana della I Internazionale, fondata proprio in quei giorni da Stefano Caporusso, ma addirittura ad elementi filoborbonici. Né si può escludere qualche venatura bakuninista, in relazione alla permanenza a Napoli dopo il 1864 di M. Bakunin e all'influsso che questi ebbe sul gruppo "Libertà e Giustizia" costituito da S. Friscia, C. Gambuzzi e A. Dramis.

Dopo una detenzione di nove mesi, il C. poté godere dell'amnistia, concessa il 17 novembre in occasione della nascita del principe ereditario Vittorio Emanuele. Tornato agli studi, nel 1871 si laureò in medicina, imbarcandosi poi come medico su una nave diretta nell'America del Sud. Al ritorno, nel 1872, scriveva sulla Rivista partenopea un articolo, basato sulle sue osservazioni delle condizioni dei paesi dell'America meridionale, contro la teoria delle razze e contro la presunta inferiorità della razza latina.

L'argomento delle razze verrà ripreso dal C. nel 1903, nell'opera Latini e anglo-sassoni. (Razze superiori e razze inferiori) (Roma; tradotto in francese per l'editore Alcan, e in spagnolo). Vi negava la superiorità della razza anglosassone su quella latina e negava la tesi, in voga presso gli epigoni "conservatori" del darwinismo, della differenza tipologica e razziale, basata su caratteristiche somatiche arbitrariamente generalizzate.

E C. si ritirò definitivamente a Castrogiovanni, dove esercitò la professione medica e la conduzione di alcune miniere di zolfo di proprietà della madre; continuò però a sostenere e a propagandare i principi repubblicani. Nel 1875, a causa di quest'intensa propaganda, verrà proposto per il domicilio coatto, come "internazionalista", dal prefetto di Caltanissetta. La proposta non ebbe seguito perché respinta dal pretore Palmeri, un onesto e coraggioso magistrato.

Tre anni dopo, nel 1875, il C. fu tra i partecipanti al congresso repubblicano, tenuto a Roma nel teatro Argentina, che attestò il rilancio del partito, anche per il sostegno finanziario di E. Nathan mediante il quale il periodico repubblicano Il Dovere, che aveva cessato di uscire a Genova, poté pubblicarsi a Roma. Lo stesso anno avveniva l'incontro con A. Ghisleri, attraverso il quale il C. recepì l'influsso del Cattaneo, confermando quelle tendenze federalistiche con cui era già venuto in contatto a Napoli, dove erano sostenute dal gruppo Libertà e Giustizia. Collaborò alla Rivista repubblicana dello stesso Ghisleri, che lo mise in rapporto con i maggiori esponenti del repubblicanesimo e del socialismo milanese, e attraverso questi gruppi democratici milanesi il C. venne in contatto con le teorie positivistiche, che allora egemonizzavano sia la cultura conservatrice sia quella democratica. Personalità come L. Bissolati, C. Prampolini e F. Turati carteggiarono col C., che divenne uno dei maggiori esponenti italiani del socialismo positivistico ed evoluzionistico, di ispirazione darwiniana, con l'opera Il socialismo, pubblicato a Catania nel 1884, una delle prime piattaforme teoriche italiane del movimento operaio.

Sotto l'influsso del Turati, che aveva pubblicato a Milano nel 1883 un opuscolo su Il delitto e la questione sociale, in polemica con l'interpretazione deterministica del darwinismo e con le sue applicazioni in sede di antropologia criminale e di diritto penale, compiute da C. Lombroso e dalla scuola positiva di diritto penale, rappresentata in Italia dal trinomio G. Fioretti, E. Ferri e R. Garofalo, il C. tentò un'interpretazione della genesi del delitto che privilegiava i fattori sociali, rispetto a quegli ambientali ed antropologici. Riprendendo le tesi di A. Wallace, secondo il C. accanto all'egoismo, e alla lotta per l'esistenza nella società opererebbe l'istinto dell'altruismo, cui si debbono le forme associative dell'umanità, dalle primitive alle più evolute. In una società riformata, di tipo socialista, l'esigenza altruistica avrebbe avuto, ovviamente, la più ampia estrinsecazione.

Da una problematica di tipo criminologico il C. approdava dunque ad una scelta politica. Il suo socialismo, però, estraneo alle esigenze scientifiche marxiane, si mantenne più vicino al socialismo ideologico del Mazzini, con qualche apporto degli utopisti francesi, e sul piano della prassi sfociò in un riformismo di tipo democratico-radicale.

Repubblicano-socialista il C. definiva, in questi anni '80, il proprio programma e la propria milizia politica; e con questa definizione evidenziava la necessaria integrazione delle due grandi questioni del tempo: quella politica istituzionale e quella sociale. Con A. Mario, il Ghisleri e il Pantano aveva sempre sostenuto l'impossibilità della soluzione della questione sociale, se si prescindeva dalla lotta ad oltranza contro l'istituto monarchico che, in Italia, era il tessuto connettivo e la chiave di volta di una società basata sull'ingiustizia e la disuguaglianza. Furono gli anni in cui il C. entrò nella politica militante: nel 1879 fu nominato assessore nella giunta comunale di Castrogiovanni; nel 1882 fu candidato alle elezioni politiche nel collegio di Caltanissetta, e pur non eletto conseguì una notevole affermazione. Anche se le precarie condizioni di salute lo costringevano a rimanere a Castrogiovanni, chiuso nel profondo Sud, continuava a scrivere articoli politici che, negli anni 1885-86, pubblicò in periodici di orientamento democratico, come Il Fascio della democrazia. Sulle colonne di questo giornale il C. polemizzò contro le nuove convenzioni ferroviarie proposte dal Depretis, e contro l'incipiente politica coloniale della Sinistra moderata. L'anticolonialismo fu infatti uno dei temi privilegiati dal C. che ad esso dedicò un volume, Politica coloniale (Palermo 1891), dove metteva in luce l'estrema povertà delle terre eritree, assolutamente inadatte ad accogliere e nutrire le misere plebi meridionali e completamente inadeguate a fungere da mercato alla nascente industria italiana. Anche alla Camera, dove nel 1890 lo invieranno gli elettori di Caltanissetta, nonostante l'ostilità di F. Crispi, allora presidente del Consiglio, sosterrà questa linea politica con costanza.

Altro tema ricorrente del suo impegno politico fu la battaglia per il superamento del contrasto economico tra Nord e Sud, attraverso una riforma della società, ma anche dello Stato, che tenesse conto della proposta federativa e, quale programma minimo, si risolvesse almeno in una più articolata struttura istituzionale basata sul decentramento democratico. L'apporto del C. alla definizione sociopolitica della questione meridionale fu notevole, soprattutto con i volumi Settentrionali e meridionali (Roma 1908) e Nel regno della mafia (ibid. 1910).

Una delle cause dell'arretratezza del Mezzogiorno, secondo il C., era politica, e si doveva alla classe dirigente nazionale, che aveva considerato e considerava queste contrade come terra di conquista. Il Sud gli appariva nella stessa arretratezza economica del 1860; le conclusioni pessimistiche dell'inchiesta Franchetti e Sonnino, pubblicata nel 1876, erano ancora attuali per la Sicilia. Il C. le condivideva, specie laddove esse avevano rilevato e denunziato la delega da parte dello Stato dei propri poteri a coloro che "alla mancanza di ricchezza supplivano con la svegliatezza di mente e con l'astuzia". E, messa da parte la diplomazia del Franchetti e del Sonnino, il C. individuava questi gruppi di potere nel latifondo e nella mafia rurale, strettamente collegati tra loro e in stretto rapporto entrambi con l'amministrazione pubblica. Questo rapporto, al quale non si erano sottratti gli integerrimi governi della Destra storica, era divenuto prassi normale dal 1876in poi. Il circuito mafia-potere politico si era così stabilito e sarebbe durato, immutato, nel tempo. Unica speranza la riforma federalistico-autonomistica dello Stato. In ciò egli anticipava il pensiero di G. Salvemini.

Conseguì la libera docenza in statistica presso l'università di Palermo, trasferendola nel 1991 all'università di Napoli. Ma la passione politica prevalse sull'impegno scientifico. Gli amici radicali e socialisti decidevano la fondazione di un quotidiano, offrendogliene la direzione, e il C. accettava nonostante fosse stata sottoscritta solo metà delle azioni necessarie per l'avvio del giornale. Nacque così L'Isola, il cui primo numero uscì a Palermo nell'ottobre del 1891.

Siamo all'indomani delle deludenti elezioni del '90, condotte da F. Cavallotti sulla piattaforma ambiziosa del patto di Roma, con il quale il radicalismo italiano si era proposto come partito di governo. L'estrema Sinistra (dai radicali ai repubblicani, ai socialisti) ebbe una ventina di deputati: risultato fallimentare, ben lontano dai cento deputati chiesti dal Cavallotti per governare l'Italia. Tra gli eletti fu il C., il quale accettò la critica, mossa dal Turati sulle colonne della ghisleriana Cuore e critica, al velleitarismo radicale, dovuto alla chiusura di questo verso la classe lavoratrice e il socialismo. Su questa politica di convergenza democratica e socialista il C. impostò la battaglia de L'Isola, di conserva con la milanese Italia del popolo di D. Papa, anch'essa assertrice di queste istanze. In funzione delle quali, su di un comune denominatore federalista, i due giornali riuscirono a vivere per un periodo pressoché eguale. Frutto di questa linea fu, a Milano, la costituzione dell'Unione democratico-sociale, "allo scopo di conseguire con un ordinamento politico popolare l'emancipazione sociale"; ad essa aderirono socialisti come il Turati, C. Dell'Avalle e G. Croce. A Palermo si andò molto più avanti, con l'assorbimento delle forze radicali nel grande movimento politico e sindacale sorto in Sicilia nel 1892sotto la denominazione di Fasci dei lavoratori. Tra le campagne democratiche sostenute dal giornale, degna di menzione è quella per la sostituzione dell'esercito stanziale con la "nazione armata", che era stato uno dei punti programmatici del patto di Roma.

L'Isola andò avanti attraverso mille difficoltà. Esauriti nella primavera del 1892 i ricavi degli abbonamenti e delle sottoscrizioni, convinto dell'impossibilità di continuare la pubblicazione, il C. ne lasciò la direzione. Generose sottoscrizioni di amici, tra i quali Alessandro Tasca di Cutò e Andrea Ballerini, prolungarono ancora di qualche mese la vita del giornale. Frattanto il C., sopraffatto dalle difficoltà economiche (l'amministrazione delle zolfare della famiglia, ancora ricche di minerale ma finanziariamente passive, sin dal 1889 era stata ceduta ad una commissione di creditori), si dimetteva da deputato nel maggio, non riuscendo a vivere a Roma e a prendere parte ai lavori parlamentari. La Gazzetta piemontese, in questa circostanza, pubblicò un articolo nel quale il forzato ritiro del C. veniva giudicato un danno per la nazione. I concittadini allora si impegnarono a procurargli i mezzi di sussistenza, e lo rielessero plebiscitariamente.

Nella drammatica seduta del 20 dic. 1892 fu il C. a rivelare il risultato dell'inchiesta sulla Banca romana, affidata nel 1889 al senatore G. C. Alvisi e ad un funzionario del Tesoro, il Biagini (che ne aveva stesa la relazione), dal Crispi, nel cui ministero G. Giolitti deteneva il portafoglio delle Finanze.

Il documento, che metteva in evidenza i gravi illeciti compiuti dalla direzione della banca, era stato insabbiato dallo stesso Crispi, che l'aveva provocato, con la giustificazione di non creare scosse al già vacillante sistema creditizio italiano. L'Alvisi aveva però consegnato una copia della relazione Biagini a L. Wollemborg che, a sua volta, si era aperto con M. Pantaleoni, direttore del Giornale degli economisti: anche A. De Viti De Marco e U. Mazzola, componenti la redazione della rivista, furono messi a conoscenza dei fatti. Si erano però impegnati a non rivelarli senza lo assenso dell'Alvisi, alla cui morte, venuto meno il vincolo, il Wollemborg - candidato al Parlamento - impostò la campagna elettorale sulla necessità di eliminare il malcostume bancario. Una volta eletto però tacque, nonostante le sollecitazioni degli amici. Il Pantaleoni, allora, la sera del 10 dic. 1892, fece leggere la relazione Biagini al C., esortandolo a renderla pubblica, e il C. dieci giorni dopo portava i fatti a conoscenza della Camera. Costituitasi una commissione d'inchiesta di sette deputati, questa comunicò le sue conclusioni la sera del 25 nov. 1893. Parecchi punti dell'inchiesta Alvisi-Biagini furono confermati e, cosa più grave, la commissione riferì di aver trovato nel portafoglio della Banca romana cambiali in sofferenza firmate da noti uomini politici; inoltre mosse al Giolitti il rilievo di non aver reso tempestivamente pubblici i risultati dell'inchiesta, e al Crispi quello di aver nominato governatore della banca B. Tanlongo, cui risaliva la maggiore responsabilità dello sgoverno amministrativo venuto alla luce. La sera stessa della comunicazione dei risultati dell'indagine, il Giolitti rassegnava le dimissioni da presidente del Consiglio.

In Sicilia frattanto si erano diffusi i Fasci dei lavoratori, che il C. aveva salutato con simpatia e la cui azione sindacale aveva sostenuto su L'Isola, nel quadro della politica di apertura reciproca tra ceto medio e ceto operaio. Aveva però ammonito i dirigenti dei Fasci dei pericoli cui il movimento avrebbe potuto andare incontro, ove essi non avessero svolto un'azione realistica e prudente e, con rivendicazioni massimalistiche, avessero messo in allarme la classe dirigente moderata, dello Stato. Per questo ammonimento si era attirato il rancore di parecchi capi del movimento dei Fasci e del partito socialista, compreso il Turati, col quale aveva avuto una violenta polemica.

La caduta del Giolitti aveva portato al reincarico del Crispi. Egli avrebbe voluto includere il C. nel proprio governo quale ministro dell'Agricoltura, data la gravità della situazione siciliana, ma questi rifiutò in ossequio alla pregiudiziale repubblicana. Composto il ministero, e chiusa la Camera per le vacanze natalizie, scoppiarono in Sicilia i primi tumulti, causati dai rigori dell'inverno, dalla carestia, e dalla incomprensione verso i braccianti e mezzadri da parte dei proprietari terrieri, imbaldanziti dalle esagerate misure di sicurezza che il governo aveva preso. Il Crispi chiamò con urgenza il C. dalla Sicilia, e sembra che gli prospettasse una linea conciliativa verso il ceto contadino in agitazione, che avrebbe dovuto concretarsi nella sostituzione dei funzionari comunali inetti e malversatori, nell'abolizione del dazio sulla farina, nello scioglimento dei municipi là dove maggiore era la tensione. Prospettò anche una riforma agraria da realizzarsi a tempi brevi. Incaricò inoltre il C. di fare opera di pacificazione, facendo conoscere gli orientamenti del governo. Favorevolmente disposto dalle intenzioni del Crispi, il C. accettò e la sera del 31 dic. 1893 ripartì per la Sicilia.

La sera del 1º e del 2 genn. 1894 avvennero nuovi e più gravi tumulti nell'isola. Crispi, impressionato e suggestionato dalle pressioni degli esponenti più conservatori (ci fu chi consigliò di rifare contro "i secessionisti dei Fasci" la spedizione dei Mille), scavalcando il programma di pacificazione e di riforme in funzione del quale aveva mandato il C. in Sicilia, proclamò lo stato d'assedio, fece arrestare i capi del movimento dei Fasci e affidò il governo dell'isola ad un commissario militare, il generale R. Morra di Lavriano. Arrivato appena in tempo a Castrogiovanni per evitare gravi tumulti anche nel proprio collegio elettorale, il C. inviò subito uno sdegnato telegramma al Crispi, sollecitando il rispetto degli accordi presi. Cercò comunque di evitare con tutti i mezzi il peggio. Il 5 gennaio, sollecitato dagli amici di Palermo e da alcuni dirigenti dei Fasci sfuggiti all'arresto, chiese udienza al generale Morra di Lavriano e, successivamente, diramò un telegramma circolare ripreso dalla stampa, in cui invitava i lavoratori alla calma. Aprì poi una violenta polemica col Crispi, di cui è documento il suo opuscolo Consule Crispi, pubblicato a Castrogiovanni nel 1895. Gli avvenimenti siciliani del 1893-94 furono da lui narrati in due volumi, il primo dei quali, In Sicilia, apparve a Roma, e il secondo, molto più circostanziato e critico, Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause, fupubblicato da Sandron a Palermo nel 1895, con una entusiastica prefazione di Rapisardi.

Nello stesso 1895, il C. fondò la Rivista di politica e di scienze sociali, dalle cui colonne condusse una dura battaglia contro il Crispi, ormai bersaglio delle Sinistre unite che lo attaccavano sulla "questione morale".

Il Giolitti aveva consegnato alla presidenza della Camera un plico, che venne aperto da una commissione di deputati della quale fece parte anche il Cavallotti. Tra le carte la commissione trovò alcuni documenti che ledevano profondamente la dirittura morale del Crispi e della sua famiglia. Contro il presidente del Consiglio si coalizzarono tutte le Sinistre, dai repubblicani ai socialisti e ai radicali, che tennero una riunione in una sala di Montecitorio, la "sala rossa", cui parteciparono anche alcuni deputati della Destra, tra i quali A. Starrabba di Rudinì. Nella riunione fu messa a punto un'azione comune. Contro il Crispi, quindi, si concretizzava quell'alleanza delle Sinistre che era sostenuta dal C. sulle colonne de L'Isola e dal Papa su quelle de L'Italia del popolo. All'alleanza aderirono i liberoscambisti del Giornale degli economisti.

Per la sua politica antiministeriale e democratica il C. - come più tardi il Cavallotti - fu preso di mira dagli ambienti crispini. Dopo un violento attacco da parte della maggioranza nel corso della seduta del 31 luglio 1896 - il C. in un articolo sul Secolo aveva accusato il Parlamento di "servilismo" - il deputato crispino A. Casale gli inviò una lettera ingiuriosa; ne seguì un duello al Bosco di Portici, il 18 agosto.

Dopo la sconfitta di Adua il governo Crispi cadde, e gli successe il governo del Rudinì che, di tendenze autonomistiche ma anche per riportare la calma, con il r. d. del 5 apr. 1896 introduceva in Sicilia un'amministrazione decentrata, sotto un commissario civile scelto nella persona di G. Codronchi. Il provvedimento venne interpretato come un primo tentativo di trasformare la struttura dello Stato e di riprendere il discorso sull'opportunità dell'istituto regionale, interrotto dal 1860-61 con l'insabbiamento dei progetti Farini-Minghetti; di qui i dissensi e i consensi che provocò. Il C. ovviamente fu tra i consenzienti, e nel luglio 1896 fu protagonista, con G. Fortunato che si era schierato dalla parte opposta, di un appassionato e importante dibattito parlamentare sulla riforma dello Stato. Ma nel 1898 il C. si impegnò in una violenta battaglia contro il di Rudinì a seguito dei fatti di Milano. Si deve a lui una delle più violente critiche al funesto episodio (L'Italia nel 1898, Milano 1898), e in genere a quella politica di involuzione reazionaria attuata dai governi di Rudinì e Pelloux e sostenuta dalla corte.

Nel 1896 la Rivista di politica e di scienze sociali si fondeva con la Rivista popolare di A. Fratti, formando la nuova Rivista popolaredi politica,lettere e scienze sociali che il C. dirigerà sino alla morte.

Il periodo 1894-1900 segnò l'accentuarsi del distacco del C. dal socialismo italiano. Egli rifiutava l'identificazione socialismo-marxismo, e proponeva una concezione alternativa piuttosto eclettica - le cui componenti andavano dallo spiritualismo mazziniano al darwinismo sociale e al sorelismo - che esulava dai confini del dibattito riformista, pur essendo assai vicino ad esso e, in un certo senso, da esso ispirato. Non a caso la seconda edizione de Il Socialismo, pubblicata a Palermo nel 1898, fu tradotta in francese nel 1899 con lunga ed argomentata prefazione di G. Sorel. In questo periodo il C. si avvicinò al Pantaleoni e a V. Pareto - esuli dopo il 1898 in Svizzera - e a tutto il gruppo liberoscambista del Giornale degli economisti.

Tra i carteggi del C., che raccolgono lettere di uomini politici e di studiosi di tutto il mondo, le lettere del Pantaleoni e del Pareto sono particolarmente numerose. Esse attestano, tra l'altro, significative convergenze di idee e programmi politici, a volte antitetici, contro le velleità autoritarie della Corona. Su questo denominatore comune della difesa delle libertà civili e politiche, si collocarono il "collettivista" C. e i liberali Pantaleoni e Pareto, che combatterono insieme contro il Crispi, e superata la parentesi del blocco anticrispino del '96 capeggiato dal di Rudinì contro quest'ultimo e il suo successore generale Pelloux. Insieme con Edoardo Pantano il C. sarà, infatti, l'anima dell'ostruzionismo parlamentare in difesa delle libertà costituzionali dagli attacchi ad esse portati dal governo del Pelloux.

Nel 1901 si schierò a difesa del protezionismo granario in contrasto con tutta l'estrema Sinistra e con i liberoscambisti, decisi avversari sia del protezionismo che del monopolismo. Uno dei discorsi più impegnati del C. alla Camera fu quello del 20 marzo 1901 in difesa del dazio sul grano. A sostegno di questo pubblicò anche alcuni articoli su La Rivista popolare, poi raccolti nel volume Per la economia nazionale e per il dazio sul grano (Roma 1901). Nello stesso anno, per interessamento di F. S. Nitti, venne nominato da N. Nasi, allora ministro della Pubblica Istruzione, professore ordinario di statistica, in base all'art. 69 della legge Casati, e venne chiamato ad insegnare alla facoltà giuridica dell'università di Napoli. Ma la nomina non lo esimerà, qualche anno dopo, dallo schierarsi tra i più acerrimi avversari del Nasi allorché questi fu coinvolto nello scandalo per il quale venne condannato dal Senato, costituito in Alta Corte di giustizia.

Nel primo ventennio del '900, ininterrottamente rieletto dal collegio di Castrogiovanni, nonostante alcune volte si dimettesse "per questioni di principio", condusse intense battaglie parlamentari. Vanno ricordate quella del 1902 per l'istituzione dell'Ufficio e del Consiglio del lavoro, proposta insieme col Pantano; quelle del 1905 e del 1906, rispettivamente sulla questione ferroviaria e su quella finanziaria, in cui rilevò e denunziò quello che giudicava il cattivo uso fatto in Italia della libertà di sciopero e di serrata, e "l'anarchia morale" regnante nel paese, attribuendone le cause alla mancanza di sentimento nazionale; quelle del 1909 contro i metodi elettorali giolittiani, che criticò aspramente nel discorso del 29 maggio, seguito il 6 luglio da quello contro le convenzioni marittime.

Nel maggio 1908 aveva presieduto il congresso del partito repubblicano; in quell'occasione gli venne offerta la direzione del quotidiano del partito, La Regione, fondato nel 1901 dal Ghisleri, ma non accettò per non spostare la sua residenza che, da anni, aveva stabilito a Napoli.

Sia dai banchi di Montecitorio sia dalle pagine de La Rivista popolare il C. sostenne costantemente e coerentemente i temi politici e ideologici caratterizzanti l'opposizione democratica e laica, che nelle elezioni del 1904 era riuscita a raccogliere quasi duecentomila suffragi. Fu antitriplicista e irredentista, fu assertore del divorzio, e sostenitore della necessità di risolvere la questione meridionale come pregiudiziale per l'inveramento della democrazia in Italia, insieme con l'autogoverno e con l'autonomismo delle istituzioni periferiche. Fu altrettanto deciso avversario del marxismo, che concepì come l'antinomia della democrazia, e del sindacalismo rivoluzionario; criticò infatti decisamente lo sciopero generale del 1904. Si schierò però a favore dell'anarchico Ferrer per il quale chiese pubblicamente la grazia, e quando questi, nel 1907, fu fucilato, condannò il governo spagnolo e il suo sovrano, "quel miserabile regattolo che risponde al nome di Alfonso XIII". Antimilitarista, fu contro il potenziamento dell'esercito e della marina da guerra, cui anche in Italia si era dato l'avvio nel 1910, con il varo della "Dante Alighieri", prima di una serie di moderne corazzate.

Allorché si profilò la spedizione di Tripoli, nel 1911, prese una decisa posizione avversa in Parlamento come dalle colonne de La Rivista popolare. Altrettanto deciso fu nel sostenere l'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale; durante tutti gli anni del conflitto condusse una ininterrotta campagna contro i "sabotatori interni", tra i quali coinvolse aspramente i socialisti italiani. Particolarmente critico egli fu, dopo il 1917, nei confronti del bolscevismo, ricollegandosi in questa contestazione alle posizioni del Mazzini "contro la Comune di Parigi, infinitamente meno pericolosa e meno bestiale del regime bolscevico". Di qui la sua opposizione al partito comunista, che era nato nel 1921 dalla scissione socialista di Livorno, da lui definito molto drasticamente "il partito dei servi di Lenin".

L'interventismo e, finita la guerra, l'antibolscevismo attirarono sul C. l'attenzione di B. Mussolini, che divenne attento lettore de La Rivista popolare, nella quale ravvisava un foglio alleato nella lotta contro il neutralismo. "Gli amici che ho lasciato al giornale Il Popolo d'Italia non disarmeranno. Siatene certo. Io dirò loro di utilizzare la vostra Rivista ai fini della campagna che ci è comune" (lettera inedita di Mussolini al C., dell'11 sett. 1915: in Arch. Colajanni).

Nel dopoguerra il C. prese in attenta considerazione il fascismo, nel quale, come tanti altri politici e intellettuali di ogni tendenza, credette di individuare l'argine estremo contro il bolscevismo, in difesa della libertà. Per questo motivo, pur riprovando apertamente la violenza alla quale spesso i fascisti facevano ricorso, dette di questo una giustificazione politica e storica.

Nel giugno del 1921, nell'editoriale de La Rivista popolare scriveva: "Noi abbiamo difeso apertamente, senza sottointesi, senza eufemismi, senza riserve, l'azione spiegata dal fascismo nel paese; non abbiamo esitato, però, a riprovare qualche atto inconsulto e qualche non giustificabile violenza, specialmente se non provocata da una precedente violenza dei socialcomunisti". E lo stesso editoriale affermava che la XXVI legislatura, nata dalle elezioni politiche del 15 maggio 1921, era diversa dalla XXV poiché "nella nuova Camera è entrato il fermento del fascismo... una forza morale che non va apprezzata dal numero".

Nell'agosto dello stesso anno la rivista del C. plaudiva all'accordo tra socialisti e fascisti per porre fine alla guerra civile, raggiunto "mercé la premurosa e intelligentissima cooperazione del presidente della Camera, on. De Nicola". L'accordo veniva giudicato "un primo e grande passo verso la pace vera". L'unico pericolo che essa correva poteva comunque provenire dai comunisti: "da buoni discepoli di Lenin e dei bolscevici russi essi mirano sempre alla guerra civile". Agevolati in questo proposito dall'atteggiamento ambiguo del partito socialista. "Ora dove in Italia finisce il partito socialista e comincia il partito comunista? Il taglio netto non c'è; e in questa mancanza di chiara delimitazione sta il pericolo, perché i socialisti si possono nascondere sotto l'alibi del comunisti. I comunisti da soli potranno poco e rimarranno schiacciati facilmente. Tutto dipende adunque dalla sincerità dei socialisti. Noi vogliamo riconoscerla e ci auguriamo di non dovere confessare la nostra delusione".Il C. morì a Enna il 2 sett. 1921. La morte non interruppe il dialogo della Rivista popolare col fascismo. Questa continuò ad uscire sino al 1923, sotto la direzione di Carlo Bazzi, in aperta dissidenza con la linea politica del Partito repubblicano italiano.