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di Raoul Manselli
Nacque il 26 sett. 1854 a Verona da Giulio e da Laura Balladoro, in
una nobile ed antica famiglia che si fregiava del titolo comitale;
dopo gli studi medi, compiuti nella città natia, fu scolaro
all'università di Padova di due maestri insigni, quali lo
storico G. De Leva e il paleografo e diplomatista A. Gloria.
Apprese da essi una sicura perizia critica ed una vivace
sensibilità ai problemi di natura politica e documentaria.
Dal De Leva, in particolare, fu spinto ad interessarsi dei problemi
relativi all'Italia tra la fine del Medioevo e l'inizio
dell'età moderna, come si ricava dalla sua prima
pubblicazione, degna di rilievo, Fra' Girolamo Savonarola e la
costituzione veneta (in Arch. ven., VII [1874], pp. 68-79; VIII
[1875], pp. 51, 80).
Addottorato da un anno, mostrava subito quella varietà e
pluralità di interessi che resteranno uno dei tratti
cararteristici della sua fisionomia di erudito, prima ancora che di
storico: nello stesso giro di anni si interessava, infatti, di una
lapide a Villafranca e dei Dicta Catonis in un manoscritto della
Biblioteca capitolare di Verona, del giudizio di Petrarca su Pante,
di istituzioni veneziane. Si tratta di contributi particolari;
mostrano, comunque, una perizia tecnica che indica, ad un tempo,
quanto egli avesse bene appreso la lezione del suoi maestri e come
mantenesse una sua libertà di scelta di argomenti del tutto
individuale e meritevole di molto apprezzamento, se solo si tenga
presente che sono lavori di un giovane, tra i diciotto e ventidue
anni.
Negli anni successivi veniva preparando l'opera che, per molti
aspetti, fu ed è rimasta la sua più importante, la
Storia delle Signorie italiane dal 1313 al 1530 (Milano 1881):
è uno dei volumi della prima serie di quella che sarà,
poi, nelle sue varie redazioni, la Storia d'Italia scritta da una
società di professori, edita da Francesco Vallardi.
In questa prima serie è, senza dubbio, l'opera di maggiore
valore, ancora oggi apprezzabile per sicurezza d'informazione,
rigore di esposizione, capacità di cogliere i nodi politici e
diplomatici di due secoli, fra i più complessi nella storia
dei nostro paese. Certo; come ha notato Benedetto Croce, nella sua
Storia della storiografia italiana nel secolo XIX (Bari 1921, II,
pp. 180 ss.), in quest'opera si rileva facilmente quell'insistenza
moralistica che, troppe volte, turba il giudizio del C., ma,
ciò riconosciuto, va senz'altro posto in luce come egli,
ancora sotto l'influenza viva del suo maestro, ne riprenda l'arte di
racconto delle, vicende politico-diplomatiche colte nel loro
intreccio, e presentate, con accortezza, nel gioco delle reciproche
influenze e conseguenze.
Si tratta, come è ovvio, di un libro di storia politica, ma
il tessuto degli avvenimenti vi risulta da una viva, attenta
esperienza delle forze in azione. 16 vero che talvolta la massa dei
dati e delle vicende sembra travolgere la linea di racconto, ma
è anche vero che a tutt'oggi, pur con il grande progresso
degli studi per i due secoli di cui il C. si occupa, rimane, a
nostro avviso, un punto di partenza obbligato.
Il libro, che ebbe un'accoglienza molto favorevole, gli valse la
cattedra universitaria a Torino, nel 1882, dove successe ad E.
Ricotti, di cui, nella sua prolusione, tenuta il 16 nov. 1882,
iniziando il suo corso di storia moderna, dichiarò di voler
continuare l'insegnamento, animato, ad un tempo, da spirito
nazionale e da rigoroso impegno di critica storica.
Questa prolusione - uno dei pochi scritti teorici del C. -,
intitolata Imetodi e i fini nella esposizione della storia italiana
(edita nella sua Per la storia d'Italia e de' suoi conquistatori nel
Medio Evo più antico, Bologna 1895, pp. 7-56), ha importanza
perché ci consente di cogliere la concezione che aveva della
sua missione di storico e dei modi di realizzarla. Egli. dichiara,
infatti, di voler continuare la tradizione culturale della
storiografia romantica cattolica, tenendo presente soprattutto il
Balbo (è singolare che non vi compaia il nome di Carlo
Troya), ma, d'altra parte, riconosce che il clima intellettuale, nel
quale egli si trovava a vivere ed operare, esigeva, sempre
più e meglio, i fatti. Distingue perciò
nell'attività storiografica tre momenti: i primi due sono
propri dello storico, la cronaca, che raccoglie i dati a
disposizione e li dispone ordinatamente, e la storia, che questi
dati cronachistici utilizza per il racconto di vicende a più
lungo periodo, di cui, poi; studia i nessi tinificanti. Il terzo
momento è, viceversa, quello del filosofo della storia, che
dei dati storici si serve per elevarsi a sintesi universale. Di
quest'impostazione, che è piuttosto diffusa nell'epoca del
C., egli si riservò i primi due momenti, rinunciando a quello
filosofico, e promettendo "l'indagine amorosa e sincera del vero e
l'assiduità di lavoro".
Se in questa prolusione introduce, come d'obbligo, i ricordi
veronesi di Scipione Maffei e quelli piemontesi, come si diceva, del
Balbo e degli altri studiosi che lo avevano preceduto sulla
cattedra, fra i moderni non manca di preiddge posizione verso colui
il quale era effettivamente la personalità di maggior rilievo
nella storiografia italiana dell'epoca, e cioè Pasquale
Viliari. Il C. dichiara di distaccarsi, in pieno, dal suo
positivismo filosofico, apprezzandone, tuttavia, l'impegno ed il
valore di studioso; della sua attività rileva la leggera, ma
pur percepibile evoluzione metodologica che era passata, da
un'adesione al Comte ed al Mill, ad un'impostazione di critica dei
fatti, senza presupposti teorici. Questa prolusione è,
comunque, estremamente significativa perché, più che
esporre una concezione metodologica, serve a comprendere i limiti
entro i quali va collocata l'opera e l'attività del C.
stesso.
Negli anni successivi alla sua cattedra torinese, la sua biografia
va colta più nelle pubblicazioni che non nei pochissimi
eventi della sua esistenza. La sua attività di studioso si
articola in gruppi di lavori, di cui si daranno qui le indicazioni
essenziali, dopo di avere, ancora una volta, sottolineato il fatto
che l'operosità del C. si muove sempre, contemporaneamente,
su fronti diversi. Basterà, inoltre, aggiungere che egli ben
presto ebbe notevole rilievo fra gli studiosi, anche stranieri,
collaborando con l'Institut für Öster-reichische
Geschichtsforschung, poi con i Monumenta Germaniae Historica e con
la Revue historique.
Una parte di notevole rilievo della sua attività riguarda
l'edizione delle fonti, per cui va anche precisato che si
preoccupò della metodologia più opportuna per
pubblicarle, studiando norme di edizione. Ciò detto,
bisognerà citare di lui almeno alcune delle ediz.ioni di
maggior impegno, per quanto riguarda sia le fonti narrative sia
quelle documentarie. Fra le prime ha particolare importanza il
complesso delle Antiche cronache veronesi, pubblicate a Venezia nel
1890, per cui si servì della collaborazione del fratello
Francesco, ma che sono opere sue per tutto quello che riguarda il
commento storico. Non meno importanti sono i Monumenta Novaliciensa
vetustiora, in due volumi, pubblicati (1898-1901) nelle Fonti per la
storia d'Italia dell'Istituto storico italiano. Nell'ediz. di fonti
documentarie, senza tenere conto dei documenti isolati o
particolari, basterà ricordare il Codice diplomatico del
monastero di S. Colombo di Bobbio, pubblicato ancora nelle Fonti Per
la storia. d'Italia, già citate, in tre volumi, nel 1918.
Ancora fonti archivistiche sono raccolte nei due volumi Documenti
per la storia delle relazioni diplomatiche fra Verona e Mantova, nel
sec. XIII, Milano 1901, e Docc. ... nel sec. XIV, in Miscell. di
storia veneta, s. 2, XII, Venezia 1907, A parte, anche per la sua
importanza, va considerato l'ultima opera di edizione, della sua
vita e cioè Ferreto dei Ferreti Historia rerum in Italia
gestarum, di cui l'ultimo volume è postumo, ancora una volta
nelle Fonti per la storia d'Italia (1914-1918), accompagnata da
un'importante raccolta di poesie riguardanti gli Scaligeri.
Quest'insieme di edizioni, già di per sé imponente, ha
ancora maggior rilievo ed importanza se ricordiamo che si tratta di
testi ai quali il C. aggiunse sempre una serie d'indicazioni
riguardanti gli autori e le vicende che essi espongono, discutendo
questa documentazione anche dal punto di vista storicocritico.
Così, tanto per dare un esempio, i due volumi sulle Relazioni
diplomatiche costituiscono, oltre che una pubblicazione di,
documenti, anche un contributo al racconto delle vicende dei
rapporti tra le due città.
Nell'ambito di queste pubblicazioni documentarie, non si può
tacere l'interesse che il C. ebbe sempre vivacissimo per
l'epigrafia, alla quale egli rivolse la sua attenzione, con
contributi particolari, tanto numerosi, da essere praticamente
impossibile ricordarli; purtroppo sono stati, di fatto, trascurati
dagli studiosi anche perché, da un'operosità
così intensa. il C. non ricavò mai delle conclusioni
orientative generali. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un'ingente
mole di dati particolari, che finiscono per dare l'impressione di un
accumulo di materiale, episodico più che organico, e non,
com'è, in realtà, dell'utilizzazione coerente e
sistematica di una esperienza acquisita, che sembra sorretta da un
vivace interesse, non meramente di erudito curioso.
Il centro dei suoi interessi di studioso rimane, però, il
mondo germanico e i suoi rapporti con l'Italia: a questo proposito
se, come nei casi precedenti, bisogna lasciare da parte i contributi
particolari, non si possono trascurare i lavori che egli raccolse
nel volume già citato Per la storia d'Italia e de' suoi
conquistatori, dedicato al suo maestro, G. De Leva, dove, oltre alla
prolusione già ricordata, sono raccolti due ampi studi
Ildiritto famigliare considerato quale criterio per giudicare della
civiltà dei Germani antichi e Studi teodoriciani (importante
ancora oggi quello Per la leggenda di re Teodorico in Verona). Si
tratta di due lavori, che, in parte, sembrano collegarsi alla
vecchia tematica risorgimentale della condizione dei vinti Romani
sotto i Longobardi e al problema della fusione dei due popoli. In
realtà, sono anche un impegnato tentativo di affrontare il
mondo germanico come civiltà indoeuropea nel rapporto
reciproco con le altre, della stessa origine, per poi valutarne
l'apporto all'interno dell'Italia, già romana. Il problema
è trattato, di nuovo e con specifico impegno, in un gruppo di
note dal titolo: Della supposta fusione degli Italiani coi Germani
nei primi secoli del Medio Evo, in Rendiconti della Regia Accademia
nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, stor. e filos., s.
5, IX (1900; poi Roma 1901), ove la questione viene allargata anche
tenendo conto del Problema etnologico e culturale, sì da
diventare, in taluni suoi aspetti, il punto di partenza per una
storia dell'individualità nazionale italiana. I due centri
del suo discorso sono, appunto, il mondo gotico ed il mondo
longobardo, che egli affronta e discute con singolare e decisa
perizia, senza mancare, poi, negli studi particolari, di sottoporre
a critica gli aspetti anche più minuti dei problemi in
discussione.
In parte legata a Teodorico ed ai problemi del mondo gotico e
lqngobardo, in parte connessa con i suoi studi di storia delle
Signorie - e di quella Scaligera, in particolare -, in parte,
infine, emergente dall'amore della città natia, è il
suo rapido, ma incisivo e lucidissimo Compendio della storia
politica di Verona (Verona 1899), recentemente ripubblicato in
volume (Verona 1958), a cui si affiancano ben venti Note di storia
veronese, pubblicate regolarmente nell'ambito del NuovoArchivio
veneto, tra il 1892 ed il 1907, Sempre di storia veronese sono le
Briciole di storia scaligera, in tre serie (Verona 1889).
Al margine e in continuazione alla sua storia delle Signorie, vanno
collocate, oltre che alle Briciole or ora indicate, i suoi studi
relativi alla realtà ed all'azione politica di Dante e di
Petrarca, che egli seppe attentamente studiare e discutere, con
particolare riferimento agli spunti di azione e di pensiero
politico, impliciti nelle opere di questi due grandi.
Non sarebbe, però, completo il quadro, sia pur panoramico e
necessariamente sintetico, di una così vasta attività,
di studioso, se non si facesse almeno un cenno della sua opera di
informatore di storia e di cultura italiana all'estero, quale
risulta dalla sua collaborazione data per molti anni alle
Mitteilungen des Instituts für Österreichische
Geschichtsforschung e alla Revue historique, di cui si è
già fatto cenno. Addirittura mirabile è la bibliografa
storica italiana, disposta anno per anno, ad uso degli studiosi
tedeschi, negli Jahresberichte der Geschichtswissenschaft,
continuata per trentaquattro anni, dal 1878 al 1911, con una tenacia
di cui il minimo che si possa dire è chè ammirevole.
Altrettanto fece per il Nuovo Archivio veneto tra il 1890 e il 1910.
Quanto la sua operosità ed il suo impegno di studioso fossero
universalmente apprezzati lo prova il fatto che nel 1906, quando
Pasquale Villari lasciò nell'Istituto di studi superiori di
Firenze la sua cattedra di storia moderna per passare a quella di
propedeutica storica, chiamava a succedergli, appunto, il Cipolla.
Purtroppo, poco poté dare in questa sua nuova sede
perché, nel 1909, veniva colto da una emiplegia che, gli
diminuì gravemente la capacità di lavoro.
Continuò, tuttavia, con grande spirito di abnegazione il suo
dovere di professore, fin quando, nel settembre del 1917, su sua
domanda, andava a riposo, morendo pochi mesi dopo, il 2-3 novembre
dello stesso anno, nella sua villa avita di Tregnago presso Verona.
Da una così incessante e fervida attività di studioso
emerge facilmente la constatazione che egli, dedito totalmente agli
studi, poco si preoccupò di problemi politici - in questo
assai diverso dal Villari -, anche se tutta la sua opera è
percorsa da una profonda, ed intensa consapevolezza della
validità dell'impegno nazionale che aveva animato gli uomini
del Risorgimento, come, del resto, non aveva mancato di rilevare
egli stesso, nella sua prolusione torinese, e come aveva ribadito
nell'altra sua prolusione, L'origine fiorenti