Wikipedia
Per "Cinque giornate di Milano" si fa riferimento all'insurrezione
avvenuta tra il 18 e il 22 marzo 1848 nell'omonima città,
allora parte del Regno Lombardo-Veneto, che portò alla
liberazione della stessa dal dominio austriaco.
Fu uno dei moti liberal-nazionali europei del 1848-1849
nonché uno degli episodi della storia risorgimentale italiana
del XIX secolo, preludio all'inizio della prima guerra di
indipendenza: la rivolta infatti influenzò le decisioni del
re di Sardegna Carlo Alberto che dopo aver a lungo esitato,
approfittando della debolezza degli Austriaci in ritirata,
dichiarò guerra all'Impero austriaco.
Indice
1 Antefatti
1.1 Gruppi insurrezionali
2 Storia
2.1 I primi combattimenti
2.2 Il consiglio di guerra
2.3 La vittoria dei milanesi
3 La controffensiva austriaca
Antefatti
Nel 1848 Milano era capitale del Regno Lombardo-Veneto, parte
dell'Impero Austriaco. Nella città il malcontento era diffuso
da tempo, come dimostrarono nel 1846 le scene gioia seguite
all'elezione al soglio pontificio di papa Pio IX, le cui prime
decisioni politiche (come l'introduzione di una maggiore
libertà di stampa) sembrarono incarnare una svolta politica e
sociale rispetto ai papi precedenti e ai criteri della
Restaurazione. La tensione tra milanesi e austriaci (gli 8.000
soldati della guarnigione austriaca erano agli ordini
dell'ottantaduenne generale Josef Radetzky, comandante anche tutte
le truppe austriache nel Lombardo-Veneto) crebbe col passare dei
mesi: ogni gesto della parte avversaria veniva interpretato
negativamente, come una provocazione se fosse stato aggressivo (come
furono molte azioni ordinate dal poliziotto austriaco Luigi Bolza) o
come un segno di debolezza se, al contrario, i gesti risultassero di
natura pacifica e moderata.
Nel settembre 1847 fece il suo ingresso in città il nuovo
arcivescovo Carlo Bartolomeo Romilli, che sostituiva l'austriaco
Karl Kajetan von Gaisruck, i festeggiamenti per la nomina di un
arcivescovo italiano, con un insistente canto dell'inno a Pio IX
provocarono la reazione della polizia che caricò la folla a
piazza Fontana uccidendo un milanese e ferendone altri, nello stesso
periodo gli animi iniziarono ad infiammarsi dalle notizie dei moti
di ribellione calabresi e divenne di moda indossare i cappelli
tronchi conici detti alla calabrese.
Nei primi giorni del gennaio 1848 per protestare contro
l'amministrazione austriaca i milanesi decisero di non fumare
più, volendo in tal modo colpire l'entrate erariali dovute
alla tassa sul tabacco. e in tutta risposta il comando austriaco
ordinò ai soldati di andare per strada fumando ostentatamente
sigari, aggredendo i passanti spingendoli a fumar sigari. I soldati
furono anche provvisti di abbondanti razioni di acquavite e negli
alterchi coi cittadini non esitarono ad usare le daghe, al termine
di tre giorni di reazione austriaca allo sciopero si contarono 6
morti e oltre 80 feriti fra i milanesi.
La rivolta di Palermo del 12 gennaio e la conseguente decisione del
re Ferdinando II di concedere la Costituzione, a cui seguì ai
primi di febbraio la promulgazione dello Statuto Albertino e la
concessione di costituzioni nel Granducato di Toscana e nello Stato
Pontificio, fecero salire a livelli ancora più alti la
tensione a Milano. Proseguendo le manifestazioni di malcontento nel
viceream, il 22 febbraio viene promulgata in tutto il Lombardo
Veneto la Legge Stataria, che rimuoveva le garanzie per gli imputati
ai processi, e secondo l'articolo 10 "non ha luogo né ricorso
né supplica di grazia" contro la sentenza del giudice.
Tuttavia le manifestazioni proseguirono, e a Radetsky venne impedito
di utilizzare le truppe per ripristinare l'ordine causa i sanguinosi
fatti legati alla repressione dello sciopero del fumo.
I moti del 1848 toccarono anche Vienna (il 15 marzo Ferdinando I
firmò una costituzione) e Berlino, lasciando intravedere ai
milanesi che era possibile un radicale cambiamento anche nel Regno
Lombardo-Veneto. Mentre a Milano si diffondono le notizie della
concessione di alcune riforme nei diversi Stati della pensola, il
governatore Spaur e il viceré Ranieri Giuseppe si spostarono
nella più tranquilla Verona.
Gruppi insurrezionali
I milanesi ostili al dominio austriaco erano, suddivisibili in tre
gruppi ideologicamente separati per ispirazione politica e
obiettivi, spesso in disaccordo e fino al quel momento non
coordinati fra loro:
- mazziniani repubblicani, di cui i più rappresentativi
erano Attilio De Luigi, Pietro Maestri, Luciano Manara e
Giovanni Cantoni
- democratici riformisti, ostili anche al Regno di Sardegna e a
Carlo Alberto, più desiderosi di ampie e profonde riforme
che di una rivoluzione, fra questi Carlo Cattaneo, Pompeo Litta
e Giulio Terzaghi
- nobili e patrizi, aspiranti alla fusione col Piemonte, di cui
la figura di maggio rilievo era il podestà Gabrio Casati
Storia
Venerdì 17 marzo si diffuse in città la notizia delle
dimissioni di Metternich a seguito della insurrezione popolare a
Vienna. La notizia spinse a decidere di approfittare dell'occasione
per organizzare il giorno successivo una grande manifestazione
pacifica davanti il palazzo del governatore (nell'attuale Piazza
Mercanti) per richiedere alcune concessioni tese a dare maggiore
autonomia a Milano e alla Lombardia: abrogazione delle leggi
più repressive, libertà di stampa, scioglimento
dell'attuale polizia e trasferimento al comune di Milano della
responsabilità dell'ordine pubblico e istituzione di una
Guardia Civica agli ordini della municipalità.
I primi combattimenti
Il 18 marzo 1848 la manifestazione pacifica ben presto, si
trasformò in un assalto: O'Donell, il rappresentante del
governatore Spaur, venne costretto a firmare una serie di
concessioni e in tutta Milano cominciarono i combattimenti in
strada.
Acquerello di Felice Donghi del 1848 mostrante una delle barricate
erette a Milano durante i Cinque giorni
Colto alla sprovvista, Radetzky si rinchiuse con i suoi 8.000 uomini
nel Castello Sforzesco (allora poco più che un grande
quadrato senza il perimetro esterno demolito da Napoleone e separato
dalla città da uno spiazzo vuoto) e ordinò di
riprendere il palazzo del governatore sperando di catturare anche i
capi della rivolta, che invece si erano trasferiti in una casa di
Via Monte Napoleone, motivo per cui fallì anche una retata
nella sede dell'arcivescovo. Radetzky comunque non era assediato,
poteva infatti muovere i suoi uomini (saliti col tempo a
18.000/20.000) isolando la città dall'esterno, inoltre era in
possesso di quasi tutti gli edifici pubblici, delle caserme, degli
uffici di polizia e del Duomo, dal cui tetto gli Jäger
sparavano ai rivoltosi che capitavano nella loro area di tiro.
La situazione degli Austriaci non era comunque delle migliori.
Già il 19 marzo i milanesi avevano allestito circa 1.700
barricate difese anche dalle finestre e dai tetti delle abitazioni,
che a volte vennero private dei muri per creare vie di comunicazione
più veloci. La scarsità di armi da fuoco portò
i milanesi a usare i fucili esposti nei musei e ad assegnarli solo
ai tiratori più esperti. Le strade vennero dissestate e
cosparse di ferri e vetri per rendere impossibile l'azione della
cavalleria. Il 20 marzo Radetzky diede ordine a tutti i
distaccamenti sparsi per Milano di trincerarsi nel castello e di
mantenere il controllo della cinta muraria permettendo così a
Luigi Torelli e Scipione Bagaggia di salire sul Duomo per porre
simbolicamente la bandiera italiana sulla guglia della Madonnina.
Il consiglio di guerra
Manifesto con appello alla gioventù milanese emesso dal
Comitato di difesa il 20 marzo
Il 20 marzo si fondò un consiglio di guerra per iniziativa di
Enrico Cernuschi, Giulio Terzaghi, Giorgio Clerici e Carlo Cattaneo
che prese il comando effettivo delle operazioni e, la notte tra il
21 e il 22 marzo, nacque il Governo provvisorio presieduto dal
podestà Gabrio Casati (il segretario era Cesare
Correnti)[16]. La resistenza fu organizzata con intelligenza e
decisione costruendo mongolfiere per portare in sicurezza messaggi
fuori dalle mura, agli astronomi venne detto di sorvegliare il
nemico da torri e campanili, gli impiegati del catasto e gli
ingegneri vennero consultati per sapere come meglio muoversi in
città, e divennero famosi i Martinitt ("piccoli martini", dal
nome dell'orfanotrofio in cui vivevano) che funsero da portaordini.
Tra la fine del terzo giorno di lotta e l'inizio del quarto la
situazione era entrata in stallo: le truppe austriache salde sulle
loro posizioni (ma senza edifici capaci di ospitare tutti i soldati
e consci che la perdita di una sola porta avrebbe vanificato
l'assedio)[18] e i milanesi relativamente sicuri per le strade, ma a
corto di rifornimenti. Radetzky inviò quindi un'offerta di
tregua che divise il Consiglio di guerra tra moderati e democratici.
Casati e i nobili chiedevano ad alta voce l'accettazione
dell'armistizio e la chiamata in causa del re di Sardegna Carlo
Alberto (con cui già aveva parlamentato il conte Martini che
riferì al Consiglio, il 21 marzo, di aver ricevuto una
risposta interlocutoria) che aveva già radunato l'esercito a
Novara, pronto a muoversi non appena le personalità milanesi
più influenti avessero firmato una petizione a suo giudizio
necessaria per giustificare, di fronte alle diplomazie
internazionali, l'entrata delle truppe nel Lombardo-Veneto.
A detta dei moderati, l'intervento delle truppe sabaude era
necessario per sconfiggere l'esercito austriaco in una vera e
propria campagna militare (secondo loro impraticabile dagli
inesperti rivoltosi) e per prevenire eventuali degenerazioni
rivoluzionarie; alcuni proposero anche, se il futuro fosse stato
lombardo-piemontese, che il baricentro ne sarebbe stato Milano, a
scapito di Torino. Diversa era invece la posizione dei democratici,
con in testa Cattaneo: contrari ad ogni petizione e ad ogni
armistizio, erano convinti che la rivoluzione avrebbe trionfato
anche senza ricevere aiuti; un'alleanza con il Re di Sardegna
sarebbe stata possibile solo da una posizione di parità.
Alla fine prevalse il punto di vista dei democratici, l'armistizio
fu rifiutato e si tornò a combattere. Il 21 marzo il
calzolaio Pasquale Sottocorno riuscì ad incendiare la porta
del palazzo del genio in via Monte di Pietà permettendo ai
milanesi guidati da Luciano Manara, Enrico Dandolo ed Emilio
Morosini di impossessarsi della struttura. Durante l'attacco venne
ucciso Augusto Anfossi, uno dei capi militari della rivolta.
La vittoria dei milanesi
Il 22 marzo mattina le strade cittadine erano sotto il controllo
degli insorti, mentre gli Austriaci controllavano le mura spagnole
ed il Castello Sforzesco chiudendo la città in una cerchia,
tuttavia nella campagna circostante le strade erano bloccate dalla
popolazione in rivolta e agli Austriaci mancava la
possibilità di ricevere rifornimenti e rinforzi, per cui
Radetski decise di prepararsi all'abbandono della città, ma
conservando le posizioni per garantirsi una ordinata ritirata delle
sue truppe. Gli scontri proseguirono quindi con i milanesi che
attaccarono per forzare il blocco e unirsi con gli insorti della
campagna, le armi ai rivoltosi ormai non mancavano, grazie a quelle
catturate in combattimento e quelle rinvenute nelle caserme
austriache abbandonate.
Un primo attacco venne tentato la mattina contro Porta Comasina,
quindi Porta Ticinese, entrambi respinti, ebbe infine successo un
terzo assalto a Porta Tosa (in seguito per questo motivo Porta
Vittoria) guidato da Manara. La porta venne conquistata a notte
fonda sotto la luce degli incendi che divampavano nelle case
adiacenti, la bandiera tricolore venne issata sulle rovine della
porta da Francesco Pirovano, un garzone di panetteria di diciassette
anni. La conquista di Porta Tosa segnò la vittoria della
rivolta.
Porta Tosa comunque venne temporaneamente ripresa dagli
Austriaci in quanto da questa posizione iniziava la strada che
forzatamente avrebbe dovuto percorrere in ritirata per raggiungere
le fortezze del Quadrilatero, seguendo la via dell'Adda. Radetzky,
infatti, considerata anche la possibilità di rimanere
bloccato tra milanesi e piemontesi, preferì ritirarsi la
notte tra il 22 e il 23 marzo 1848 verso il "Quadrilatero" con
19 ostaggi al seguito.
L'idea vincente per assaltare le posizioni forti austriache
arrivò da Antonio Carnevali, professore di scuola militare ed
ex ufficiale della Guardia di Napoleone nella campagna di Russia,
che propose di avvicinarsi usando delle barricate mobili costituite
da fascine di tre metri di diametro, bagnate per prevenire incendi,
che i milanesi avrebbero dovuto far rotolare davanti a sé
riparandosi dai proiettili austriaci.
Nonostante l'ormai certa vittoria sul campo, sul piano della
politica Cattaneo venne sconfitto al consiglio di guerra, infatti fu
spedito a Torino un messaggero che portava la petizione con cui i
milanesi chiedevano a Carlo Alberto di entrare in Lombardia.
Terminata la battaglia nacque infine l'organo ufficiale del governo
provvisorio milanese che, in ricordo di quel giorno, ebbe come nome
Il 22 marzo. Il giornale iniziò le sue pubblicazioni il 26
marzo 1848, dalla sede di Palazzo Marino, sotto la direzione di
Carlo Tenca.
La controffensiva austriaca
Il 23 marzo, il giorno successivo alla fine dei combattimenti a
Milano, le truppe piemontesi passarono il Ticino dirigendosi verso
Milano dando inizio la prima guerra d'indipendenza.
L'esercito piemontese si mosse con estrema lentezza dando modo agli
austriaci di ritirarsi senza rilevanti perdite nel Quadrilatero,
sconfitte solo in due piccole battaglie al ponte di Goito (9 aprile)
e Pastrengo (30 aprile). Circa un mese dopo i sardo-piemontesi si
impadronirono della fortezza di Peschiera del Garda, per cercare di
liberare la quale Radetzky sconfisse i volontari toscani a Curtatone
e Montanara venendo però egli stesso fermato di nuovo a
Goito.
L'incapacità di assumere l'iniziativa da parte piemontese
dette in ogni caso modo agli austriaci di ricevere rinforzi che gli
permisero di riconquistare Vicenza, il 10 giugno,[27] e di
riprendere l'offensiva, battendo l'esercito sardo-piemontese in una
serie di scontri passati alla storia come prima battaglia di Custoza
(22-26 luglio).[28]
Il 10 giugno Carlo Alberto ricevette una delegazione guidata dal
podestà di Milano Casati, che recava l'esito trionfale del
plebiscito che sanciva l'unione della Lombardia al Regno di
Sardegna. La situazione dell'esercito sardo-piemontese era
però compromessa e il Re ordinò una ritirata verso
l'Adda e Milano, dove i piemontesi vennero accolti da una
città fredda e deserta, delusa di aver offerto una vittoria
trovandosi senza colpe in una sconfitta. Il Re, sebbene inizialmente
respinse ogni proposta di abbandonare la città, il 4 agosto
decise di porre fine alla guerra, scatenando l'ira dei milanesi che
si ammassarono attorno alla sua residenza. Questo il resoconto della
nobildonna Cristina di Belgioioso che partecipò attivamente
ai moti di Milano e in seguito alla difesa della Republica romana
dai Francesi:
« ...Una deputazione della guardia nazionale salì ad
interrogare Carlo Alberto sul motivo della capitolazione. Egli
negò, ma fu costretto a seguire, suo malgrado, quei deputati
al balcone da dove arringò al popolo, scusandosi della sua
ignoranza dei veri sentimenti dei Milanesi; e compiacendosi di
vederli così pronti alla difesa, promise solennemente di
battersi alla loro testa sino all'ultimo sangue. Qualche colpo di
fucile partì contro Carlo Alberto. Alle ultime parole del suo
discorso, il popolo sdegnato gridò: 'Se è così
lacerate la capitolazione'. Il re allora levò di tasca un
pezzo di carta , lo tenne in alto affinché il popolo lo
vedesse, e poi lo fece a pezzi.»
Nella sera i bersaglieri sgomberarono la folla e scortarono Carlo
Alberto fuori dalla città.
Il 5 agosto venne firmata la capitolazione. Il giorno dopo gli
austriaci rientrarono a Milano, da dove nel frattempo la maggior
parte dei partecipanti alla lotta di liberazione era fuggita. Come
nuovo governatore fu posto Felix Schwarzenberg.