Chauvet Costanzo

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Giornalista italiano (Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1844 - Roma 1918). Dopo aver fondato (1871) in Roma il Don Pirloncino, giornale umoristico, acquistò nel 1875 e diresse fino alla morte Il Popolo romano, quotidiano in gran parte ufficioso. Polemista talora violento, avverso ai partiti democratici, si attirò fiere inimicizie, fra cui quella di F. Cavallotti.

DBI

Alessandra Cimmino

Nato il 14 giugno 1844 a Santo Stefano Belbo (Cuneo) da Pietro Giuseppe, geometra, e Giacinta Marone, abbandonò presto scuola e famiglia fuggendo di casa tra il 1859 e il 1860; nel 1861 si arruolò nell'esercito e trascorse il primo anno di ferma a Racconigi; comandato presso il ministero della Guerra a Torino dal 1863 al 1866, nel 1867 fu trasferito ad Alessandria in qualità di furiere presso la 3a compagnia del 42º reggimento di fanteria. In Alessandria si fece notare per condurre vita brillante e dispendiosa, al di sopra dei suoi mezzi, fregiandosi per di più del titolo, evidentemente falso, di marchese di Roccabruna. Nell'invemo 1868, alcuni controlli operati sulla contabilità della compagnia, chiarivano l'ingegnoso sistema architettato dallo Ch. per rimpinguare le sue finanze: poiché al suo gruppo erano aggregati soldati di altri corpi, per la maggior parte renitenti alla leva, lo Ch. li congedava anzitempo, facendoli però figurare sempre in forza e intascando così le somme stanziate per il loro soldo e il mantenimento. Riconosciuto colpevole dal Tribunale militare di Torino con sentenza del 9 giugno 1868, fu condannato al pagamento delle 985 lire frodate allo Stato, alla rimozione dal grado e a tre anni di detenzione da scontarsi nel forte di Savona. Rilasciato dopo un anno e mezzo, rientrò come soldato semplice nell'esercito che abbandonò definitivamente il 6 marzo 1870, quando fu congedato a Genova. Di qui, in condizioni economiche assai precarie, ritornò ad Alessandria, dove, se non godeva buona fama, aveva però qualche conoscenza, grazie a cui poté entrare per la prima volta in rapporto con il mondo del giornalismo e della politica.

Iniziò infatti la collaborazione ad un foglio satirico di indirizzo democratico, Il Birichino alessandrino, e si presentò a Felice Cavallotti, cui chiese aiuto a consiglio, accennando ai suoi trascorsi militari in termini di bisogni giovanili, errori di gioventù e mostrando un nobile desiderio di riabilitarsi. Quando, poco dopo, Cavallotti lasciò Alessandria, egli lo seguì a Milano: il Birichino alessandrino, per la preponderante collaborazione dello Ch., aveva assunto un certo tono di volgare delazione a scopo di ricatto che aveva suscitato in città violente reazioni.

Nel luglio del '70 era dunque a Milano dove, sempre attraverso il Cavallotti, prese a frequentare il tempestoso ambiente giornalistico che faceva capo a Il Gazzettino rosa; qui, per la natura stessa del foglio, alimentato di garibaldinismo, Scapigliatura e violento repubblicanesimo, non era difficile l'infiltrazione di elementi ambigui, ed accanto a nomi celebri della stampa democratica e radicale, riuscirono a trovar posto un D. Besana, poi spia del governo, e, appunto, uno Chauvet. Lo Ch. venne collocato nell'amministrazione de La Gazzetta di Milano, quotidiano vicino al Gazzettino rosa e ai democratici milanesi, finché la progettata conquista di Roma non fece balenare ai suoi occhi le numerose possibilità che si prospettavano in un terreno vergine come quello della nuova capitale ad un uomo capace d'iniziativa. Si rivolse ancora al Cavallotti e a tutte le sue nuove conoscenze che organizzarono una colletta in suo favore; l'editore A. Rechiedei fornì le cinquantadue lire per il biglietto ferroviario e Raffaele Sonzogno, che partiva con le rotative al seguito, intendendo impiantare un giornale appena entrato in Roma, promise l'assunzione nel nuovo foglio, che si sarebbe chiamato La Capitale. Privo di mezzi ma anche di scrupoli, intraprendente, intrigante, intelligente, anche se fatuo e fin troppo sicuro di sé, lo Ch. non aveva ancora messo piede in Roma che già si era fatto notare: nel disordine dei primi momenti che seguirono l'ingresso degli Italiani, e millantando rapporti e influenze nell'ambiente democratico che era ben lungi dall'avere, volle approfittare del fatto che fra il 20 e il 21 settembre si era installato nel municipio di Roma un esponente di questo indirizzo, il pittore e patriota Nino Costa; la sera stessa del 20 si presentò a lui in Campidoglio, offrendosi insistentemente come intermediario fra il Costa e Cadorna, per il che venne immediatamente e senza troppi riguardi allontanato. Alla Capitale non resistette che un breve periodo; per dissidi con il Sonzogno, e pare perché fu scoperto a rubare sugli abbonamenti, se ne allontanò dopo meno di un mese. Dalla metà di novembre, in accordo con i fratelli Catufi, tipografi di fede democratica, iniziò la collaborazione ad uno scialbo trisettimanale di propaganda elettorale da questi pubblicato, il Don Pirlone figlio,vero tribuno della plebe, di cui non tardò a divenire l'autentico animatore, quindi direttore, dandogli la propria impronta; il giornale fu trasformato in un foglio satirico, violentemente anticlericale, teoricamente legato alla Sinistra, ma portato in realtà a colpire le persone piuttosto che le idee, sovente apertamente scandalistico.

Le reazioni ad una simile conduzione furono immediate, e nel dicembre '70, in seguito ad un'aspra polemica tra B. Odescalchi, il principe M. Ginnetti e lo Ch., la storia della condanna militare subita da quest'ultimo era divenuta di pubblico dominio. Lontano da Alessandria e da testimoni diretti, lo Ch. seppe tuttavia elaborare un'abile linea di difesa: sfruttando il fatto che la frode dei congedi anticipati era stata perpetrata, almeno in parte, nel quarto trimestre '67, egli fece intendere che aveva agito così per permettere ai congedati di partecipare alla campagna di Mentana; a sostegno di questa tesi pubblicò una lettera, naturalmente apocrifa, a firma del garibaldino F. Erba, e gli atti di un giurì d'onore, tenuto a Milano e risoltosi a suo favore, che non aveva mai avuto luogo. Sulla base di questi documenti ottenne che fosse convocato a Roma un nuovo giurì, autentico questo, cui parteciparono personalità particolarmente stimate e conosciute, ciò che garantì da allora e per più di dieci anni la sua onorabilità.

Lo Ch. era anche riuscito in breve tempo a intrufolarsi nei più vari ambienti, raccogliendo, direttamente o attraverso informatori, pettegolezzi, calunnie, ma anche notizie autentiche e compromettenti, e, usando di preferenza l'arma dei romanzi a chiave pubblicati in appendice al giornale, aveva portato a termine alcuni fortunati ricatti a danno di note personalità della capitale.

Con questi metodi era riuscito a raggranellare una somma sufficiente a staccarsi dai Catufi e dare inizio alla pubblicazione di un suo foglio, il Don Pirloncino, che vide la luce il 30 luglio 1871. Tuttavia il colpo grosso che doveva garantirgli una prima base economica e una certa tranquillità, lo Ch. lo realizzò nel primo trimestre del '72.

Al principio di quell'anno attraverso un'informatrice del giornale, egli era venuto a sapere dell'esistenza di una ragazza di circa sedici anni, Laura o Loretta Marconi, frutto della relazione fra una nobile signorina austriaca e il ricchissimo e potente segretario di Stato di Pio IX, cardinale G. Antonelli. Entrato in stretta amicizia con la donna che l'aveva cresciuta e che figurava quale sua madre, tale Antonietta Marconi, alla morte di costei, avvenuta il 10 marzo 1872, riuscì a farsi nominare, dal consiglio di famiglia, tutore della minorenne Laura. In questo modo egli ebbe in sua mano tutti i documenti che compromettevano il cardinale, il quale fu infatti costretto, da allora fino alla sua morte, a sborsargli periodicamente consistenti somme, oltreché ad affidargli un fondo dotale di 100.000 lire in cartelle di rendita, di cui, nel 1893, la Marconi non era riuscita ad avere che una minima parte.

In conseguenza di questo colpo fortunato, nel luglio del '73, vide la luce lo Stabilimento tipografico del Don Pirloncino, di proprietà dello Ch., che curava la pubblicazione del suo foglio ed anche quella de Il Popolo romano, quotidiano di sinistra, fondato in quello stesso anno da L. Fortis e G. Canori.

Il giornaletto dello Ch., un foglio satirico trisettimanale in quattro pagine, che sarebbe stato pubblicato fino al 2 genn. 1887, rispecchiava abbastanza fedelmente le idee e le esigenze del suo proprietario, sempre genericamente di sinistra quindi, ma completamente distaccato e anzi ormai ostile all'ambiente radicale, senza una posizione politica veramente incisiva e significante, ma apertamente desideroso di ancoraggi proficui, legati alla gestione del potere, che aprissero nuove vantaggiose sfere d'azione.Quando, sullo scorcio del 1874, il Popolo romano venne a trovarsi in cattive acque, tanto da non poter pagare le spese tipografiche, lo Ch., che lo stampava, citò i due proprietari Canori e Fortis, i quali si ritirarono in buon ordine lasciando il giornale nelle sue mani, sicché, dal 1º genn. '75, la tipografia, già del Don Pirloncino, prendeva il nome dal Popolo romano. Piùo meno a quest'epoca dovettero intensificarsi i legami di conoscenza e di collaborazione fra lo Ch. e il conte Luigi Pianciani, noto esponente democratico, sindaco di Roma dal '72 al '74, e di nuovo più tardi nell'81-82. Il Pianciani, che era stato tra i finanziatori del primo Popolo romano, continuò a mantenere con il giornale e con il nuovo proprietario ottimi rapporti, introducendo lo Ch. negli ambienti politici che più contavano, e servendosi di lui soprattutto in periodo elettorale. Il Popolo romano, ampliato e potenziato con la nuova gestione, seguiva la medesima linea politica tenuta, in tono minore, dal Don Pirloncino; divenne quindi portavoce di quel generico malcontento nei confronti del governo che faceva capo al Centro e alle frazioni meno ideologicamente impegnate e politicamente qualificate della Sinistra: erano quindi frequenti le dichiarazioni che lo ponevano al di sopra delle parti e al di fuori dei partiti, contro l'interventismo della Destra, ma anche contro l'astratto estremismo della Sinistra.

In definitiva, quando si ebbe la "rivoluzione parlamentare" del 18 marzo '76, lo Ch. era pronto e disponibile ad ogni soluzione per il suo giornale, mentre personalmente si trovava ottimamente piazzato nel mondo equivoco di affari e di ricatti che si agitava ai margini dell'ambiente politico. Non a caso, i primi approcci dello Ch. si rivolsero a Nicotera e Depretis: il suo agnosticismo ideologico lo rendeva particolarmente disponibile all'opportunità, ventilata da ambedue gli uomini politici, di dissolvere in tutto o in parte i due partiti tradizionali; inoltre tanto Depretis quanto Nicotera erano propensi a quegli ambienti che, per essere genericamente antistatalisti, finivano il più delle volte per identificarsi con gli interessi delle consorterie locali, degli affaristi e speculatori, campo preferito dell'azione dello Chauvet. Un tentativo presso il Nicotera, a mezza strada fra la proposta e il ricatto, irritò il ministro che lo respinse seccamente, conservando poi una durevole avversione per lo Chauvet.

Più proficuo doveva rivelarsi il rapporto con Depretis; nei confronti di quest'ultimo il Popolo romano tenne per qualche tempo un atteggiamento fondamentalmente favorevole senza tuttavia prendere decisamente posizione; comunque è certo che durante le elezioni del novembre '76 lo Ch. era già in grado di intervenire consistentemente. Nell'estate del '77 la tipografia e le redazioni del Don Pirloncino e del Popolo romano furono collocate a palazzo Folchi in via delle Coppelle: all'inaugurazione della nuova sede intervennero, con un gesto che venne commentato e interpretato dalle redazioni di mezza Italia, il Depretis, il ministro della Marina B. Brin e un rappresentante della real casa. Quando, nell'ottobre dello stesso anno, apparve imminente la rottura fra il presidente del Consiglio e lo Zanardelli, il Popolo romano prese decisamente posizione per il primo, tanto che cominciarono a circolare insistentemente voci che il giornale fosse diventato organo personale del Depretis, il che avvenne invece circa un mese più tardi. Da allora, e fino all'87, il giornale venne considerato il portavoce ministeriale per eccellenza, tanto che questura, prefettura, ministero dell'Interno e Popolo romano erano per i contemporanei proverbialmente sinonimi.

Il giornale fu per il Depretis uno strumento prezioso: duttile, preciso, sempre allineato alle sue necessità e alle sue opinioni; non ci fu battaglia politica, dalle convenzioni ferroviarie alla modifica della tassa sul macinato, al riarmo della marina, ai vari rimpasti ministeriali, che non lo vedesse sostenitore ed espressione del presidente del Consiglio. Durante le elezioni che si tennero in epoca depretisiana, il Popolo romano veniva distribuito gratuitamente dalle varie prefetture e lo Ch., non più solo giornalista ma agente del ministero, procurava, con mezzi più o meno leciti, finanziamenti ed appoggi, gestiva uomini e quattrini, trovando naturalmente modo di realizzare ingenti utili personali. Solo su due punti si può riscontrare una certa divergenza di opinioni fra lui e il Depretis: per lungo tempo, anche dopo l'inizio del loro sodalizio, il Popolo romano - che pure fin dal 1878 riceveva un finanziamento fisso di 4.000 lire l'anno dalla Banca romana - continuò a fare una modesta fronda alle posizioni depretisiane favorevoli all'alta banca e alla finanza internazionale, in pro' degli interessi di alcuni gruppi industriali; un perfetto allineamento su base governativa si ebbe solo dopo il 1882, quando lo Ch. divenne praticamente un diretto agente della Banca romana. Il secondo punto riguardò l'adozione dello scrutinio di lista, conformemente alla riforma elettorale dell'82, provvedimento che il Popolo romano e soprattutto lo Ch., in quanto diretto gestore di elezioni, accettarono assai di malavoglia.

Naturalmente una simile irresistibile ascesa non poteva non provocare reazioni, anche perché lo Ch., con controproducente esibizionismo, ostentava apertamente e abusava, a proposito e a sproposito, della sua influenza. Si ebbero così, tra l'81 e l'85 una serie di scandali e processi che lo videro, direttamente o indirettamente, chiamato in causa. Un primo incidente, che doveva tirarsi dietro querele e controquerele, si ebbe ai primi dell'81, durante un'elezione per il secondo collegio di Roma, quando lo Ch., per meglio sostenere il suo candidato, C. Palomba, da cui si era fatto lautamente pagare l'appoggio incondizionato del Popolo romano, non trovò di meglio che scrivere di suo pugno ai sostenitori dell'avversario del Palomba, e in particolare a O. Barberi Borghini, lettere minatorie con minacce di morte. Queste lettere andarono a finire nelle mani del direttore della Capitale, F. Dobelli, il quale aveva da poco pubblicato sul suo foglio la complicata storia delle vicende finanziarie intercorse fra il potente giornalista ministeriale e Laura Marconi Lambertini. Di qui accuse, smentite, controsmentite, che culminarono, nel primo trimestre '82, in un processo da cui lo Ch. uscì assolto per mancanza di prove, ma vide riconosciuta la propria capacità a delinquere. Neppure questo tuttavia riuscì a scalfirne la posizione, anzi la sua influenza permaneva così forte che tre anni più tardi, quando un altro editore poco scrupoloso, A. Sommaruga, tentò direttamente e attraverso le Forche caudine di P. Sbarbaro, una seria azione di disturbo nei confronti suoi e del Depretis, lo Ch. riuscì ad ottenerne la clamorosa condanna.

Neppure la morte del Depretis lo toccò; dopo un iniziale disorientamento all'avvento del Crispi, di cui temeva, come molti altri, un certo fondo di radicalismo, stabilì ottimi rapporti anche con il nuovo presidente del Consiglio. Così, sempre armeggiando fra Parlamento, giornalismo, affarismo, mantenne il suo ruolo privilegiato di giornalista ministeriale per eccellenza, anche con di Rudinì e Giolitti, offrendo e ritirando l'appoggio politico a banchieri, industriali e speculatori, gestendo illecite ingerenze governative, arricchendosi con l'aggiottaggio in Borsa e le tangenti di tutti i tipi (per fare un solo esempio basti ricordare che, su richiesta del governo la Banca romana gli staccò un assegno di un milione e mezzo sulla quota assegnata alla banca dal prestito per l'abolizione del corso forzoso). In verità lo Ch. era l'uomo adatto ad una classe politica assai spregiudicata nella gestione del potere che, dopo il '76, cercava collegamenti e mezzi di pressione su più ampi strati sociali, più numerosi interessi economici, e li trovava quasi sempre sul piano di appoggi personalistici, in un mercato di influenze, voti e quattrini, sicché egli può essere considerato non solo il fortunato imbroglione e il borioso giornalista, con il gusto dell'intrallazzo e dello scandalo che senz'altro fu, ma anche il necessario strumento di una determinata gestione politica.

Quando la corruzione si fece insopportabile per il paese e scoppiò quell'autentico processo al regime che fu lo scandalo della Banca romana, era fatale che lo Ch. ne uscisse in un modo o nell'altro professionalmente distrutto. Sul finire del 1892 il clamore suscitato dalle interrogazioni parlamentari dell'on. N. Colajanni dimostrò che era impossibile nascondere a lungo all'opinione pubblica le irregolarità di gestione della Banca romana. Il governo, sperando di salvare il credito e contemporaneamente di evitare un'inchiesta parlamentare che avrebbe coinvolto troppe personalità, vide una soluzione possibile nella fusione della Romana con la Banca toscana e la Banca nazionale.

Il Popolo romano, ormai da anni finanziato dalla Banca romana e il cui prezzo di ingaggio era giunto alla cifra di 1.500 lire mensili, dopo aver sostenuto in una serie di articoli del dicembre e dei primi di gennaio l'assoluta correttezza e la specchiata gestione del comm. P. Tanlongo, tra l'11 e il 15 dello stesso mese, cambiò repentinamente di campo riconoscendone le pesanti responsabilità. In verità questa non era che la punta dell'iceberg riguardo alla partecipazione dello Ch., allo svolgersi di tutto il complicato affaire. Non solo egli era perfettamente a conoscenza della disonesta e irregolarissima gestione della banca (circolazione clandestina, biglietti a serie doppia, svariati milioni di ammanco di cassa, contabilità, bilanci e relazioni falsificati da oltre vent'anni: episodi ad alcuni dei quali lo Ch. fu accusato di aver partecipato personalmente), ma nel medesimo periodo di tempo, nella veste di emissario del comm. G. Grillo, direttore della Banca nazionale e, sembra, anche del governo, egli aveva fatto la spola fra la Banca nazionale, il ministero dell'Interno e la direzione della Banca romana, promettendo, minacciando, lusingando, secondo il suo costume, per ottenere dal Tanlongo, di cui si diceva intimo amico, l'assenso alla fusione. Infine, poiché era necessario raggiungere una qualche soluzione prima della riapertura della Camera, lo Ch., la sera del 31 dicembre, si presentò in casa dei Tanlongo latore di un ultimatum: o addivenire alla fusione o subire l'arresto; effettivamente la conclusione fu la traduzione in carcere dell'anziano banchiere. Il processo e l'inchiesta parlamentare che seguirono, nei successivi mesi del '93, fecero emergere la pesante partecipazione dello Ch. all'intera faccenda; in particolare il 24 giugno F. Cavallotti portò all'antico conoscente e vecchio avversario un durissimo attacco in pieno Parlamento, dal quale questi poté difendersi poco e male, tanto che, alla Camera, l'opposizione prese il vezzo di insolentire il governo chiamandolo governo Chauvet. Tuttavia nelle risultanze del processo, da cui era uscita compromessa tanta parte della classe politica e del giornalismo italiano, il nome dello Ch. risultò confuso insieme con i molti altri, né gli fu addebitato altro che l'aver ricevuto dalla Banca romana un totale di 72.000 lire a pagamento delle campagne del Popolo romano. Ma agli attacchi del Cavallotti in Parlamento ne seguirono altri, ancor più feroci, principalmente sul Fanfulla che prendevano in esame, con dovizia di particolari, tutti i trascorsi dello Ch.; contemporaneamente la Marconi Lambertini riprese il processo, arenato ormai da dieci anni, a proposito della famosa dote; infine con un improvviso, anche se non completamente inatteso, coup de théâtre, alle 22,30 del 20 nov. '93 lo Ch. venne arrestato nella redazione del Popolo romano e immediatamente tradotto in carcere, mentre la polizia metteva i sigilli al suo gabinetto di lavoro e al suo studio privato. L'accusa era di falso in atto pubblico, truffa a danno dell'erario, corruzione di pubblico ufficiale, commessi in Roma negli anni 1891-92; in pratica si era trattato di una volgare truffa compiuta da una ditta novarese importatrice di riso, la ditta Pinto, con la complicità dello Ch., il quale aveva corrotto un funzionario del ministero delle Finanze.

Questa volta però lo Ch. non ebbe modo né tempo di occultare le prove né il Giolitti, anch'egli in difficoltà per gli scandali bancari, poté far molto per lui. Fu infine condannato a 5.000 lire di multa e quattro anni di reclusione, di cui non scontò che tredici mesi, dopodiché fu restituito ai suoi milioni e al suo giornale. La condanna e il carcere non riuscirono a distruggerne la posizione sociale ed economica, ma lo privarono per sempre del potere e dell'influenza di cui aveva goduto e abusato per diciassette anni.

Ritornò alla direzione del Popolo romano che mantenne fin quasi alla morte, senza occupare più un posto di vero rilievo, né nella vita politica né in quella giornalistica.

Morì a Roma il 5 febbr. 1918. In giovane età aveva sposato Clara Francia da cui ebbe una figlia.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Carte Depretis, serie I, b. 25, fasc. 91, ff. 57-61; serie IV, b. 7, fasc. 14, f. 14; Ibid., Carte Giolitti, b. 9 bis, fasc. 128; b. 8, fasc. 114, f. 71; Arch. di Stato di Roma, Carte Pianciani, serie I, b. 11, fasc. 12; Ibid., Tribunale civile e penale di Roma, b. 3900, fasc. 24344; E. Mezzabotta, Mem. di un giornalista, Roma 1887, p. 98; P. Vasili, La société de Rome, Paris 1887, p. 447; F. Cavallotti, Ch. svelato. La meravigliosa storia del marchese di Roccabruna, Milano 1893; Causa civile Lambertini - Ch. Comparsa conclusionale, Roma 1894; U. Pesci, Come siamo entrati in Roma, Milano 1895, p. 42; A. Chierici, Il quarto potere a Roma, Roma 1905, pp. 50-85; T. Guazzaroni, Quarant'anni di giornalismo romano, in Corriere d'Italia, 1º giugno 1913; N. Costa, Quel che vidi e quel che intesi, Milano 1927, p. 241; N. Quilici, Banca Romana, Milano 1935, ad Indicem; G. Squarciapino, Roma bizantina, Torino 1950, ad Indicem; P.Gerbore, Commendatori e deputati, Milano 1954, ad Indicem; A.Caracciolo, Roma capitale, Roma 1956, ad Indicem; G. Carocci, A. Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino 1956, ad Indicem; P.Pirri, Il cardinale Antonelli tra il mito e la storia, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XII (1958), p. 105-118; O. Majolo Molinari, La stampa periodica romana dell'Ottocento, Roma 1963, ad Indicem; A.Cimmino, Il Don Pirloncino di C. Ch., in Arch. della Soc. rom. di st. patria, XCIII (1970), pp. 183-202; V. Castronovo, La stampa ital. dall'Unità al fascismo, Bari 1973, ad Indicem.