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di Mario Marti
Nacque a Firenze, come risulta dalle attestazioni dantesche nel De
Vulgari Eloquentia (“Guidonis de Florentia”, II, xii, 3; e cfr.
anche I, xiii, 3); ma si ignora in quale anno.
Considerato che nel 1284 egli fu membro del Consiglio generale del
Comune e che a questo ufficio non si poteva accedere se non
all’età di venticinque anni compiuti, occorrerà
risalire per la nascita almeno al 1258, e verosimilmente a qualche
anno più su. La ricca e potente famiglia alla quale
apparteneva, di nobiltà non antica e consolidata coi proventi
della mercatura, era tradizionalmente guelfa, e suo padre,
Cavalcante de’ Cavalcanti, ne fu famoso esponente.
Fu discepolo di Brunetto Latini, secondo una incontrollabile notizia
d’ascendenza umanistica che, per i grandi fiorentini del tempo di
Dante, allora assunse quasi valore di topos biografico sulla scia di
un risaputissimo giudizio di G. Villani (Cronica, a cura di A.
Racheli, I, Trieste 1857, p. 174). E nel 1267 in una di quelle non
infrequenti cerimonie di pace fra opposte fazioni, nelle quali si
stringevano parentadi, a lui, figlio di guelfo, fu promessa Beatrice
(Bice) degli Uberti, figlia del grande Farinata ghibellino; e la
promessa fu coronata da successive nozze.
Dal matrimonio nacquero almeno due figli, dei quali si ha certa
notizia da un documento scoperto da Isidoro Del Lungo (Dino
Compagni..., II, p. 1113, nota), col quale la moglie del fu Guido
Cavalcanti, Bice, e una sua figlia, Tancia, vedova anche costei di
un Giacotto Mannelli, cedevano i loro diritti su beni che “olim
fuerunt dicti Guidonis” (Tancia non era dunque figlia di secondo
letto) “et postea devenerunt ad Andream filium et heredem ipsius
Guidonis”. Di una figlia, Tessa, invece, secondo lo stesso Del
Lungo, è assai dubbia l’identità. Un’altra traccia
lasciata nei documenti dal matrimonio del C. con Bice degli Uberti,
è stata rilevata dal Debenedetti (Lambertuccio
Frescobaldi..., p. 37). Si tratta di una vendita fatta in solido da
Guido e da Farinata di un “chasolare del chanto da la piazza degli
Uberti, il quale fue di messer Farinata”, e che da Farinata sarebbe
stato assegnato in dote alla figlia Bice per il suo matrimonio.
Nel 1280 il C. doveva aver raggiunto non solo la maggiore
età, ma anche una certa importanza rappresentativa, se egli,
“filius quondam domini Cavalcantis” (il padre Cavalcante nel 1280
era dunque già morto), figura tra i fideiussores o anche
expromissores della cosiddetta pace del cardinal Latino (cfr. Del
Lungo, II, p. 1100). Quattro anni dopo, come già detto, egli
sedeva nel Consiglio generale del Comune di Firenze, del quale erano
anche autorevoli membri Brunetto Latini e Dino Compagni. Dagli
Ordinamenti di giustizia del 1293 venne colpito come cavaliere e
appartenente a famiglia magnatizia, e quindi escluso da ogni
possibilità di accedere alle cariche comunali; né i
successivi Ordinamenti del 1295 nella loro rigida costituzione gli
offersero più questa possibilità.
Dunque non risponde a verità l’opinione comunemente accettata
che egli avesse sdegnosamente rifiutato d’iscriversi a qualcuna
delle arti (il che gli avrebbe permesso di inserirsi dal di dentro
nella vita politica e amministrativa di Firenze), anche se siffatto
atteggiamento per avventura corrisponde alla logica interna
dell’uomo (cfr. M. Barbi, G. C. e Dante di fronte al governo
popolare, in Problemi di critica dantesca, II, Firenze 1965, pp.
371-78). Così egli fu costretto a condursi, nella tumultuosa
vita fiorentina dell’ultimo decennio del sec. XIII, secondo le leggi
del prestigio familiare e della propria fazione. Documento
dell’aspra lotta fra i Cavalcanti e i Buondelmonti resta il suo
sonetto a Nerone Cavalcanti, “Novelle ti so dire, odi, Nerone”, e
vivi ricordi e giudizi della sua condotta partigiana si leggono
nella Cronica del Compagni (I, 20). Inimicissimo di Corso Donati,
capo di parte nera, il C. fu dei bianchi, capeggiati di Vieri dei
Cerchi; e Corso, che “forte lo temea, perché lo conosceva di
grande animo”, tentò di farlo assassinare durante un viaggio
che Guido aveva intrapreso per raggiungere il santuario allora
veneratissimo di San Iacopo di Compostella, in Galizia. Da parte sua
il C., in compagnia di alcuni di parte bianca e fiducioso che
costoro lo avrebbero seguito, assalì in piena città il
rivale, lanciandogli un dardo che andò a vuoto, e subito dopo
allontanandosi, per essere rimasto solo di fronte alla violenta
reazione di Corso e degli altri che lo accompagnavano. Di un’altra
aggressione alle case dei Donati si ha pure notizia, alla quale
avrebbe partecipato, subito dopo il fallimento della missione di
Matteo d’Acquasparta, il C. con altri di parte bianca (Villani,
VIII, 41), i quali però furono tutti “rincacciati e fediti
con onta e vergogna de’ Cerchi e de’ loro seguaci”; ma l’avvenimento
è fissato al dicembre del 1300, quando Guido era già
morto.
Corso Donati lo gratificava del soprannome di “Cavicchia”, per
morderne, come si continua a ripetere sulla scia di un candido
giudizio di Isidoro Del Lungo (II, p. 92 nota), la salvatichezza
filosofica e l’impuntarsi su questioni astratte, come se quel capo
di parte inclinasse alle disputazioni filosofiche e potesse muoversi
sullo stesso piano di cultura del Cavalcanti. In realtà
l’ingiuria è assai più volgarmente plebea e
sarcasticamente diffamatoria, degna in tutto di un capo violento e
beffardo com’era il fiorentino Corso Donati.
Non meraviglia dunque che il C., dopo la sanguinosa zuffa del giorno
di S. Giovanni del 1300, e nelle misure di sicurezza che ne
seguirono da parte dei Priori, fosse considerato capo
indesiderabile, e venisse colpito dal provvedimento di confino,
insieme con gli altri capi d’entrambe le parti. Dovette allora
recarsi a Sarzana, ove si ammalò (cfr. la testimonianza di
Leonardo Bruni, ricavata quasi certamente da un passo di una lettera
di Dante che egli possedette; Dante Alighieri, Opere, Firenze 1960,
p. 413), e dove, avrebbe composto la famosa ballata “Per ch’i’ no
spero di tornar giammai”, come vuole una tenace, perché
suggestiva e romantica, credenza, che tuttavia non poggia su alcun
solido fondamento.
Richiamato a Firenze, vi morì quasi subito, il 29 ag. 1300.
Al suo “pellegrinaggio” a San Iacopo di Compostella oltre che nel
citato Compagni (I, 20) si allude, piuttosto ironicamente, anche in
un sonetto del senese Nicola Muscia “Ècci venuto Guido a
Campostello?”, dov’è anche schizzato alla brava un ritratto
caricaturale di lui (“che va com’oca e cascali ’l mantello” e “par
che sia fattor de’ Rusticacci” e dove si allude alla sua
faziosità politica (“È in bando di Firenze, od
è rubello, / o dottasi che ’l popol nol ne cacci?”). Secondo
il Muscia, il viaggio sarebbe stato interrotto a Nîmes, col
pretesto della cattiva salute, e con il giustificato sdegno dello
stesso s. Iacopo; ma è probabile che il C. giungesse almeno a
Tolosa, che era una tappa obbligata sul cammino verso il santuario
della Galizia. Qui, infatti, nella chiesa della “Dorata” (la
Daurade, in riva alla Garonna), il poeta immagina il proprio
incontro con Mandetta (“Amande” o “Mandet”), la bella tolosana
“accordellata istretta”, soavemente rievocato nella ballata “Era in
penser d’amor quand’i’ trovai”. E la bellezza di Mandetta viene
certo descritta almeno nel sonetto “Una giovane donna di Tolosa”, la
quale “ne’ suoi dolci occhi” ricorda al C. la sua donna lontana.
Questa invece, posta al centro di un amore drammatico e doloroso,
non è mai nominata nelle rime del C.; e per darle un nome e
un volto (ovviamente reali di sola realtà poetica) si deve
ricorrere alla citazione dantesca nel sonetto “Guido, i’ vorrei che
tu e Lapo ed io” (v. 9: “E monna Vanna e monna Lagia poi”) e alla
narrazione del cap. XXIV della Vita Nuova, col successivo sonetto
“Io mi senti’ svegliar dentro a lo core” (v. 9: “Io vidi monna Vanna
e monna Bice”). E perciò “lo nome di questa donna era
Giovanna, salvo che per la sua bieltade... imposto l’era nome
Primavera; e così era chiamata” (XXIV, 3). Non ha invece
avuto fortuna né alcun seguito l’ipotesi, avanzata per primo
dal Renier (Monna Lagia..., pp. 330 s.) e accettata ed elaborata dal
Di Benedetto (Fra gli amori..., Napoli 1928), che un’altra donna, di
nome Lagia, fosse stata cantata dal Cavalcanti. Quanto alla Pinella,
fuggevolmente nominata nel sonetto “Ciascuna fresca e dolce
fontanella”, responsivo ad altro di Bernardo da Bologna, è
possibile cogliervi una rispondenza, almeno topica e tematica, con
la famosa ballata delle “foresette (“Era in penser d’amor quand'i'
trovai”), o, meno persuasivamente, con quella della “pasturella”
(“In un boschetto trova’ pasturella”); entrambe comunque concepite
secondo la tradizionale struttura del genere della “pastorella”
francese.
Ma nel mottetto, nelle due canzoni, nelle due stanze isolate di
canzone, nelle undici ballate e nei trentasei sonetti che,
sicuramente autentici, ci rimangono del C. non è l’amore il
solo argomento. Particolare importanza è da riconoscere alle
rime di corrispondenza, per il loro numero, per il loro tono, per i
personaggi cui i versi sono indirizzati. A prescindere da un sonetto
giocoso indirizzato a un Manetto (forse Portinari, forse Scali), che
pure è un significativo omaggio alla natura parodistica e
insieme al temperamento scolastico di siffatta poesia, ci sono gli
accesi versi contro Nerone Cavalcanti, inquadrabili nella ricordata
lotta tra le famiglie dei Cavalcanti e dei Buondelmonti, “Novelle ti
so dire, odi, Nerone”; gli altri ispirati a polemica letteraria
contro Guittone d’Arezzo, accusato di insipienza filosofica e di
incapacità espressiva “Da più a uno face un
sollegismo”; il mottetto agile e scherzoso in risposta a un sonetto
di Gianni Alfani, che si guardi dalle reti d’Amore, “Gianni, quel
Guido salute”; il già ricordato sonetto a Bernardo da
Bologna; e le rime scambiate con Guido Orlandi, ora sull’immagine
miracolosa della Madonna di Orsanmichele, circondata da una
redditizia venerazione che i frati minori condannano solo
perché quell’immagine non è nel loro convento, “Una
figura della Donna mia”; ora su di una donna nota ad entrambi, di
cui si esalta bellezza ed onestà, “La bella donna dove Amor
si mostra”; ora d’argomento polemico, rinfacciando il C. all’Orlandi
la totale ignoranza della dottrina d’Amore e l’Orlandi al C.
contraddizioni ed oscurità, “Di vil matera mi convien
parlare”. Del resto, rime indirizzarono al C. anche Dino Compagni,
Bonagiunta da Lucca, Nuccio Senese, Lapo degli Uberti, Cino da
Pistoia; ma, sopra tutte le altre, importanti sono quelle che il C.
scambiò con Dante Alighieri.
L’amicizia fra Dante e Guido sorse quando Dante inviò a tutti
i “Fedeli d’Amore” il sonetto “A ciascun’alma presa e gentil core”
(utilizzato poi all’inizio della Vita Nuova) e Guido rispose col
sonetto “Vedeste, al mio parere, onne valore”: “E questo – narra
Dante (III, 14), riferendosi al C. già chiamato “primo de li
miei amici” – fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e
me, quando egli seppe che io era quelli che li avea ciò
mandato”. Visibili, per altro, sono gli influssi del C. sulla prima
parte del giovanile libello, e su talune rime estravaganti dantesche
(per esempio, “La dispietata mente”, “Lo doloroso amor”, “E’
m’incresce di me”, ecc.; secondo il Bigongiari, La poesia di G. C.
..., p. 5, perfino sulle rime petrose); e gli affettuosi legami
d’amicizia sono anche testimoniati dal già ricordato sonetto
di Dante “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, al quale Guido
rispose con “S’io fossi quello che d’amor fu degno”, d’accenti
nostalgici e dolorosi; e dall’episodio pure qui addietro ricordato
per altra ragione dell’apparizione di Giovanna detta la Primavera
che precede Beatrice, come s. Giovanni preannunzia Cristo; onde la
paretimologia di Primavera come “prima verrà lo die che
Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele”
(Vita Nuova, XXIV, 4, e sonetto “Io mi senti’ svegliar dentro a lo
core”). Ma il C., probabilmente dopo la composizione della Vita
Nuova da parte di Dante (1293-94), ebbe ragione di lamentarsi di lui
col sonetto “I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte”. Quale fu
questa ragione? È assai difficile rispondere con la certezza
d’essere nel vero. Il Barbi (Una nuova opera..., pp. 40 s.) ha
pensato che il sonetto del C. fosse stato scritto per sollevare
Dante dall’abbattimento psicologico in cui egli sarebbe caduto dopo
la morte di Beatrice (e cfr. Vita Nuova, XXXI, 1); il D’Ovidio (La
rimenata..., pp. 202-214) che esso rispecchiasse il “traviamento” di
Dante e la “tenzone” con Forese Donati, onde l’accorato rimprovero
dell’amico; il Contini (Dante come personaggio-poeta..., pp. 35 s.)
che esso sarebbe segno di un dissidio sorto di fronte alla
sublimazione di Beatrice, al suo trasferimento sul piano
trascendente, onde anche il “disdegno” d’Inf., X, v. 63 (e cfr.
Poeti del Duecento..., II, p. 489); e proprio partendo da questo
“disdegno”, persuasivamente interpretato (il C. avrebbe disdegnato
di essere condotto a Beatrice, al contrario di Dante), il Pagliaro
(Il disdegno di Guido..., pp. 374-77) esprime l’opinione che quel
sonetto sia il documento di un allontanarsi dei due sul piano
teologico-filosofico (che è almeno per buona parte l’opinione
del Nardi).
Sono interpretazioni acute e ingegnose, delle quali nessuna scioglie
però completamente il nodo. I vv. 5-6 del sonetto del C.,
“solevanti spiacer persone molte, / tuttor fuggivi l’annoiosa
gente”, sono inesplicabili nella interpretazione del Barbi (come se
la morte di Beatrice avesse potuto costringere il poeta a immergersi
nella folla e a cercare con piacere l’annoiosa gente); né il
C., che abbiamo visto fazioso e violento, e anche scrittore di versi
giocosi, poteva assumere aggrondato atteggiamento di giudice morale
o stilistico di fronte a Dante. D’altronde, una piena proiezione di
Beatrice nella sfera del trascendente, essa stessa soggetto di
trascendenza, è nella Divina Commedia più che nella
Vita Nuova, nella quale per altro la sublimazione di lei come donna
coincide con l’episodio della Donna Gentile e con l’apertura verso i
domini del simbolo. Né, infine, sarebbe facile accordarsi col
Pagliaro che l’“annoiosa gente” costituisca un'allusione alle scuole
dei religiosi e alle dispute dei filosofanti. Tutto sommato, sembra
preferibile l’interpretazione del sonetto in senso politico,
già proposta dal Lamma, dal Rivalta e dal Pastine, pur se in
modi non del tutto solidi e coerenti. Quando a Firenze furono
promulgati i secondi Ordinamenti di giustizia (luglio 1295), il C.,
come nobile e magnate, rimase ancora del tutto escluso dal poter
accedere a qualsiasi carica politica e amministrativa; a Dante,
invece, nobile ma non magnate, si apriva la porta dell’iscrizione
alle arti. A costui si imponeva dunque una scelta: o seguire le
sorti degli aristocratici e dei magnati e rinchiudersi in una
cultura isolata dai problemi della vita, oppure scendere a
collaborare col “popolo” di Firenze nel segno della giustizia e a
questo ideale asservire la propria cultura, subordinare il proprio
destino. Dante scelse questa seconda strada; ed è facile
supporre come questa scelta dovesse spiacere all’amico magnate,
faziosamente sdegnoso, pago della sua raffinatissima letteratura.
Col sonetto “I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte” il C. esprime
all’amico la sua insoddisfazione per il fatto che egli si fosse
deciso a schierarsi col “popolo” di Firenze (con quella “gente” che
il C. considerava certo “annoiosa” e vile) invilendosi a sua volta,
e di aver abbandonatogli aristocratici ideali dello stil novo per
dedicarsi a una poesia diversa, consona però ai nuovi impegni
di azione (“Or non ardisco per la vil tua vita / far mostramento che
tuo dir mi piaccia”), alla poesia insomma non più tipicamente
stilnovistica, ma realistica o allegorica e dottrinale. In Dante
operavano già le due motivazioni più profonde e valide
del suo realismo; né la sua partecipazione alla vita politica
e amministrativa di Firenze, che proprio nel momento culminante del
priorato costrinse l’Alighieri (e con lui era l’altro amico, il
Compagni: “E io, Dino, fui uno di quelli”: I, 21) a firmare il
provvedimento di confino contro il C., era fatta per riavvicinare i
due.
È significativo che nel De Vulgari Eloquentia non il C.,
bensì Cino da Pistoia rappresenta, insieme con Dante,
l’eccellenza del volgare illustre, “tam egregium, tam extricatum,
tam perfectum et tam urbanum” (I, XVII, 3), ed è Cino, non il
C., considerato il più grande poeta d’amore nell’ambito
stilnovistico (II, 11, 9). Sicché l’“altezza d’ingegno”
attribuita dall’Alighieri al C. nel famoso episodio dell’Inferno (X,
vv. 58-60: “Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno,
/ mio figlio ov’è?”) e la vittoria riconosciuta e conclamata
del secondo Guido sul primo (il Guinizzelli) nell’altro non meno
famoso episodio del Purgatorio (XI, vv. 97-98: “Così ha tolto
l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua”), mentre Cino da
Pistoia non è mai nominato in tutto il poema, possono essere
il segno di un ripensamento e di una nuovamente consapevole
ridistribuzione di giustizia letteraria. Infine il “disdegno” del C.
d’esser condotto a Beatrice (Inf., X, v. 63), maturato nella
fantasia di un Dante tanto diverso da quello cui l’amico deluso si
rivolgeva, più di quindici anni innanzi, col sonetto di
rampogna “I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte”, bisognerà
intenderlo nella maniera più puntuale e autonoma, e senza
illusori agganci col sonetto, e coglierlo cioè nella
differenza tra il C. filosofo naturale di colore averroistico
(“Donna me prega”), del quale si parla tra le arche degli eretici (e
vi si martirizzano Cavalcante, suo padre, e Farinata, suo suocero),
e Dante, filosofo-teologo che viaggia verso la rivelazione guidato
dalla ragione.
Ciò presuppone, naturalmente, una dichiarazione in senso
averroistico della canzone più importante del C., “Donna me
prega, perch’lo voglio dire”, e certo la più discussa di
tutta la nostra letteratura. Tecnicamente essa è una
stupefacente prova di estrema abilità, con le sue stanze di
quattordici endecasillabi, legati da rima normale in punta di verso,
e con le dodici rime al mezzo di ciascuna di esse; tanto che su
centocinquantaquattro sillabe ben cinquantadue sono costrette al
legame della rima. Una vera ostentazione di tecnica difficile in un
componimento, per giunta, che vuol essere un breve trattato di
filosofia dell’amore. Il poeta, forse sollecitato da un sonetto di
Guido Orlandi, com’è diffusa opinione (“Onde si muove e donde
nasce amore?”), affronta le seguenti questioni: dove posa amore, chi
lo fa creare, quale sia la sua virtù, la sua potenza,
l’essenza e ciascun suo movimento, il piacimento da lui derivante,
la sua visibilità. Una casistica, si direbbe, tradizionale,
per una fenomenologia di ampio carattere romanzo. Ma il C. la
racchiude in un denso grumo filosofico, sulla cui natura molto si
è discusso nel corso di questo nostro secolo: dal Salvadori
(La poesia giovanile...), che crede riconoscervi un misticismo
d’ascendenza araba nel nome di Avempace, al Calcaterra (Nuove
indagini...), il quale riporta genericamente la canzone alle
analoghe discussioni poetiche fra Duecento e Trecento (il cui centro
fu Bologna); dal Vossler (Die philosophischen...), che, ammettendo
anch’egli influssi arabi, si richiama approssimativamente ad
Averroè, allo Shaw (Guido Cavalcanti’s Theory...), che crede
scorgervi elementi del pensiero di Alberto Magno e del platonismo
arabico-cristiano; dal Casella (cui risale l’incontestabile merito
della prima critica restituzione del testo della canzone,
sostanzialmente salvo anche dopo l’edizione del Favati e del
Contini), fautore di una interpretazione tomistica (La canzone
d’amore...), al Favati, il quale fa del C. un neoaristotelico (La
glossa latina...; e inoltre La canzone d’amore...), per citare
solamente i maggiori.
Strenuo e persuasivo sostenitore dell’averroismo del C. è
stato Bruno Nardi, il quale, in vari scritti, è andato sempre
meglio chiarendo e confermando il suo pensiero. L’amore, per il C.,
è un accidente che s’ingenera nell’anima sensitiva, e deriva
da un maligno influsso di Marte (causa equivoca) e da una veduta
forma (causa univoca). Questa, una volta libera dalle sue
caratteristiche individuali, per via di astrazione, prende loco e
dimoranza nell’intelletto possibile, incorruttibile ed eterno, volto
alla speculazione del vero e quindi inattaccabile da qualsiasi
sensibile eccitamento. L’amore è una passione, che viene “non
dalla potenza razionale dell’anima, cioè dall’intelletto, ma
da quella “che sente”, cioè dall’anima sensitiva, la quale
è perfezione del corpo e tale è ritenuta dagli
averroisti” (B. Nardi, Dante e la cultura medievale..., p. 119). E
come passione (tanto è potente) l’amore cagiona
l’offuscamento morale dell’uomo; non perché l’amore stesso si
opponga alla natura, ma perché toglie all’uomo la padronanza
di sé. Per l’amore, che pure “poco soggiorna”, il riso si
cambia in pianto e potente si desta la virtù irascibile di
contro alle difficoltà frapposte all’appagamento, mentre
l’uomo piomba in una fiera malinconia. Il “piacimento” è in
una consapevolezza di passione reciproca, che non si può
dissimulare, pur ammesso che l’amore non abbia colore e non abbia
figura, ma, “assiso ’n mezzo scuro, luce rade”, affinché
l’uomo consegua merito, e nasca mercede.
In questa tramatura di affermazioni sono riconoscibili taluni
principi sostanziali dell’averroismo (l’eternità e
l’incorruttibilità dell’intelletto possibile, l’anima
sensitiva come entelechia del corpo, ecc.), per i quali l’intera
canzone acquista coerenza e chiarezza; e l’acquista anche gran parte
della restante produzione poetica del C., la quale a questi
principiî si ispira. Non si spiegherebbe infatti il pessimismo
cavalcantiano, se il C. fosse stato un mistico, o un tomista o un
generico neoaristotelico. Del resto, una conferma indiretta
dell’averroismo del C. si è avuta con la pubblicazione,
curata da P. O. Kristeller (A Philosophical...) della Questio de
felicitate che Iacopo da Pistoia, un poco noto maestro dello Studio
bolognese, dedica “viro bene nato et mihi dilecto et pre aliis amico
carissimo Guidoni domini Cavalcantis de Cavalcantibus de Florentia”,
nuova testimonianza dei fervidi rapporti tra la Toscana
stilnovistica e lo Studio bolognese. Interessante la dedica al C.,
perché dall’esame della Questio l’autore risulta essere un
averroista, e talune proposizioni sembrano coincidere con quelle di
“Donna me prega” nel senso indicato dal Nardi. In tal modo anche il
famoso “disdegno” (Inf., X, v. 63) sarebbe confermato nella
peculiare direzione che è stata da noi indicata.
Con ciò non si vuol dire, né sarebbe legittimo
sostenerlo, che l’ideologia cavalcantiana sia racchiusa negli
specifici confini di un rigoroso averroismo. Essa ambisce a far
proprie, così come la poetica dello stil novo nel suo
complesso, le istanze fondamentali della cultura del tempo. Anzi gli
stilnovisti, e con loro principalmente il C., proprio per la loro
vivida e fervida cultura sentono con maggiore forza urgere dentro di
sé uno dei principi più fecondi, sotto il profilo
dell’arte, della poetica medievale: quello di visualizzare, di
rendere immaginosamente e corposamente visibile ciò che entro
di noi è invisibile, i moti della nostra anima, le spinte
della nostra volontà, perfino i nostri concetti,
trasformandoli in fantasmi di persone. Questa oggettivazione dei
sentimenti, dovuta anche alla tendenza di considerare la vita, il
mondo, l’universo alla stregua di una costante dimensione
metafisica, incide assai sensibilmente sui modi dell’arte, e in
particolare quando quell’oggettivazione trova riscontro nelle teorie
psicologiche del tempo. È il caso degli “spiriti” e
“spiritelli”, ipostasi di natura filosofica delle facoltà
vitali e dei sentimenti umani (“spirito d’amore”), ampiamente e
precisamente descritta, fra gli altri, da Alberto Magno (De sommo et
vigilia, I, 1, 7). Tutti gli stilnovisti la strumentalizzano a fini
di rappresentazione artistica, né ne mancano tracce anche nei
rimatori prestilnovisti; ma è principalmente col C. che la
fenomenologia degli “spiriti” e degli “spiritelli” viene largamente
e sistematicamente usufruita nel linguaggio poetico, ed è
particolarmente per suo tramite che quella realtà
filosofico-poetica entra definitivamente nella tecnica espressiva
del tema amoroso e vi opera addirittura per secoli.
Certo, l’ardua e solenne canzone “Donna me prega” è stata la
principale causa per cui la figura del C. ci è pervenuta
circonfusa di una luce di ammirata esaltazione. Essa infatti fu
oggetto di “esposizione” assai dotta, e utile ancora oggi, da parte
di Dino del Garbo, un grande medico e chirurgo, già discepolo
a Bologna di Taddeo d’Alderotto, e morto, “admodum senex”, a Firenze
il 30 sett. 1327. Ce n’è anche pervenuto un commento, in
verità non troppo incisivo, falsamente attribuito a Egidio
Colonna Romano; e in epoca umanistica essa fu assunta a testo del
nuovo platonismo, tendenziosamente interpretata nel cap. I
dell’orazione VII del De Amore di Marsilio Ficino. Né
meraviglia che già nel 1498 (A. E. Quaglio, Prima fortuna...,
pp. 338-341) fosse stampata la Glossa ora citata di Dino del Garbo,
e che nel secolo successivo comparissero il Comento di fra’ Paolo
del Rosso (1568) e la Sposizione di G. Frachetta (1585) intorno alla
stessa canzone, sulla quale scrissero pure Francesco dei Vieri,
detto il Verino Secondo, Iacopo Mini e altri. Del resto, anche gli
antichi cronisti, più che l’impegno e l’attività
politica, hanno sottolineato le qualità culturali e umane del
C., definito dal Compagni “nobile cavaliere... cortese e ardito, ma
sdegnoso e solitario, e intento allo studio” (I, 20), e dal Villani
“come filosofo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era
troppo tenero e stizzoso” (VIII, 42). E questo apprezzamento del C.
come filosofo ritorna nell’Epistola allo illustrissimo signore
Federigo d’Aragona, figliolo del re di Napoli (cfr. Lorenzo de’
Medici, Opere, a cura di A. Simioni, I, Bari 1939. pp. 3-8; ma
l’epistola è attribuita al Poliziano), ove egli è
presentato come “sottilissimo dialettico e filosofo del suo tempo
prestantissimo” per una sua canzone (“Donna me prega”, appunto)
“mirabilissima”, “nella quale sottilmente, questo grazioso poeta,
d’amore ogni qualità, virtù e accidente descrisse”.
Per via siffatta il C. fin dal Decameron di Giovanni Boccaccio (il
quale pure nelle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante scrive di
lui che “fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo”;
ed. a cura di G. Padoan, Milano 1965, p. 526) era entrato nel mito e
nella leggenda, essendogli stata attribuita la battuta fra le arche
di S. Reparata (Decameron, VI, 9) che il Petrarca – lo indicò
il Parodi (La miscredenza di G. C. e una fonte del Boccaccio, in
Bull. della Soc. dant. ital., n. s., XXII [1915], pp. 37-47) – aveva
messo sulla bocca di Dino da Firenze (probabilmente proprio Dino del
Garbo: Rerum memorandarum, II, 60, a cura di G. Billanovich, Firenze
1941 pp. 83 s.), come già prima era stata riferita a Federico
II e ad altri. Così accade, in modo anche più palese,
nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti, dove (nov. LXVIII) il
tradizionale topos del sempliciotto che mette in difficoltà
il grande sapiente è tradotto nel colloquio tra un fanciullo
e il C. “valentissimo uomo e filosofo” vinto dalla malizia del
bambino.
Gli studiosi moderni, ovviamente, non sono più disposti a
questo tipo di giubilazione e neanche a esaltare nel poeta
soprattutto il filosofo. La canzone “Donna me prega” è stata
piuttosto oggetto d’indagine da parte di filologi e di filosofi, che
hanno però generalmente trascurato di rapportare quel centro
ai vari punti del cerchio della poesia cavalcantiana; e d’altra
parte i critici letterari, i lettori raffinati dei versi del C.,
hanno spesso dimenticato la prospettiva storica e la trama
ideologica in cui quei versi vanno inseriti e della quale la famosa
canzone è monumento insigne, avvicinando il medievale poeta
alla moderna sensibilità. Non è stato operato per il
C. quel processo di coesiva simbiosi, per il quale più di un
motivo dello stil novo in generale fu riportato alla canzone “Al cor
gentil rempaira sempre Amore”, del Guinizzelli, o certi temi di un
certo stilnovismo dantesco furono illuminati con la presa di
posizione, psicologica e teorica, palese in “Donne ch’avete
intelletto d’amore”. Certo, il C. canta un amore doloroso e
drammatico, perché sente l’amore come ottenebrazione della
ragione e come passione tormentosa dell’anima sensitiva, onde un
intimo, sofferto pessimismo. Le sue parole sono cose che si fanno,
che prendono corpo in uno spazio vuoto ed irreale; il suo canto
nasce da una dialettica interna fra senso e ragione, fra passione e
conoscenza. E per questa via egli giunge ad un magistero d’arte e a
una potenza psicologica (“Veggio negli occhi de la donna mia”,
“Quando di morte mi convèn trar vita”, “La forte e nova mia
disaventura”, “O donna mia non vedestù, colui”, “I’ prego voi
che di dolor parlate”, ecc.) che gli fu riconosciuta nell’ambito
dello stil novo e fuori di esso. Il C. è il poeta che, pur in
linea con la tradizione, radicalmente rinnova la psicologia e la
fenomenologia dell’amore, elaborandone un nuovo sentimento e
riportandolo alle radici dell’essere. Sotto questo profilo egli non
solo può essere considerato il massimo esponente dello stil
novo in generale, ma anche il creatore del ristretto gruppo
fiorentino (Dante, Lapo, Dino, Gianni) legato in amichevole poetica
concordia. Quello il suo carattere, il suo stigma. Ma, a parte
questi valori e questa funzione universalmente riconosciutigli, la
sua poesia tocca forse i vertici più alti quando in
un’atmosfera di delicata e vitrea trasparenza i vari toni e modi di
quell’atteggiamento psicologico e stilistico si sublimano in una
intenerita pietà di sé (“Poi ch'i' no spero di tornar
giammai”): o quando si fondono con felice contrasto di luci e ombre
in risultato di chiaroscuro il tema della “paura” e quello del
“gioco” (“Era in penser d’amor quand'i' trovai”); o quando la
corposità psicologica sfuma nell’abilissimo gioco letterario
estremamente raffinato e calligrafico, che un velo appena sensibile
di ironia affranca dalla grevezza della tradizione (“In un boschetto
trovai pasturella”).
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Wikipedia
Guido Cavalcanti (Firenze, intorno al 1258 – Firenze, 29 agosto
1300) è stato un poeta italiano del Duecento.
Biografia
Guido Cavalcanti, figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque a
Firenze intorno all'anno 1258 in una nobile famiglia guelfa che nel
1260 fu travolta dalla sconfitta di Montaperti. Sei anni dopo, in
seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, i
Cavalcanti riacquistano la preminente posizione sociale e politica a
Firenze. Nel 1267 a Guido fu promessa in sposa Bice, figlia di
Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina. Da Bice, Guido
avrà i figli Tancia e Andrea.
Nel 1280 Guido è tra i firmatari della pace tra guelfi e
ghibellini e quattro anni dopo siede nel Consiglio generale al
Comune di Firenze insieme a Brunetto Latini e Dino Compagni. Secondo
lo storico Dino Compagni a questo punto avrebbe intrapreso un
pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Pellegrinaggio alquanto
misterioso, se si considera la fama di ateo e miscredente del poeta.
Il poeta minore Niccola Muscia, comunque, ce ne dà
un'importante testimonianza attraverso un sonetto. Il 24 giugno 1300
Dante Alighieri, priore di Firenze, è costretto a mandare in
esilio l'amico nonché maestro Guido con i capi delle fazioni
bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Cavalcanti si reca allora
a Sarzana e si pensa che fu allora che scrisse la celebre ballata
Perch'i' no spero di tornar giammai. Il 19 agosto gli è
revocata la condanna per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute
(ha forse contratto la malaria). Il 29 agosto muore, pochi giorni
dopo essere tornato a Firenze probabilmente di malaria che aveva
preso in esilio.
È ricordato - oltre che per i suoi componimenti - per essere
stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Lapo Gianni) nel
celebre nono sonetto delle Rime Guido, i'vorrei che tu, Lapo ed io.
Dante lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e
Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio
lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del
Decameron.
La personalità
La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal
ricordo che ne hanno lasciato gli scrittori contemporanei: dai
cronisti Dino Compagni e Giovanni Villani a novellieri come
Boccaccio e Franco Sacchetti. Si legga il ritratto di Dino Compagni:
"Un giovane gentile, figlio di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile
cavaliere, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo
studio". La diceria raccolta da Boccaccio, secondo cui Cavalcanti
professava princìpi irreligiosi ed eretici, non è
suffragata da prove concrete. Essa va riferita, piuttosto, a un
interesse per i problemi filosofici che si collega strettamente
anche alla ricerca poetica, come risulta dalla grande canzone
dottrinale Donna me prega, certamente il testo più arduo e
impegnato, anche sul piano concettuale, di tutta la poesia
stilnovistica.
Opere
I componimenti pervenutici di Cavalcanti sono 52, tra cui 36
sonetti, 11 ballate 2 canzoni, 2 stanze isolate e un mottetto.
I temi delle sue opere sono quelli cari agli stilnovisti; in
particolare la sua canzone "manifesto" Donna me prega è
incentrata sugli effetti prodotti dall'amore.
La concezione filosofica su cui egli si basa è
l'aristotelismo radicale promosso dal commentatore arabo
Averroè (il cui vero nome è Ibn Rushd), che sosteneva
la divisione dell'anima dell'essere umano in anima vegetativa (o
naturale), anima intellettuale, anima sensitiva. Dalla prima, che
aveva sede nello stomaco, alla seconda che era situata nel cervello,
alla terza che era posta nel cuore. A presiedere le funzioni delle
anime citate v'erano poi gli spiritelli. Va da sè che, avendo
le anime funzioni differenti, solo collaborando esse potevano
raggiungere il sinolo, l'armonia perfetta. Istantanea è la
deduzione che, colpendo l'amore l'anima sensitiva e squarciandola e
devastandola, si comprometteva il sinolo e ne risentiva molto
l'anima vegetativa (come si sa l'innamorato non mangia, non dorme..
ecc.ecc.) Da qui la sofferenza dell'anima intellettiva che,
destatasi per la rottura del sinolo, rimane impotente spettatrice
della devastazione. È così che l'innamorato giunge
alla morte spirituale. La donna, avvolta come da un alone mistico,
rimane così irraggiungibile e il dramma si consuma nell'animo
dell'amante.
Rispetto a Guinizzelli e a Dante si nota l'assenza della concezione
religiosa; sappiamo da Dante e Boccaccio che Cavalcanti era ateo. La
donna infatti non è tramite verso Dio e l'amore,
anziché strumento di elevazione dell'anima, è
soprattutto angoscia e sbigottimento.
Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero che può
sembrare banale, nasconde in realtà una grande sapienza
retorica. I versi di Cavalcanti possiedono una fluidità
melodica,che nasce dal ritmo degli accenti,dai tratti fonici del
lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni
sintattiche. Sappiamo inoltre che Cavalcanti, oltre che poeta, fu
anche un abile filosofo (scrive Boccaccio: "lo miglior loico che il
mondo avesse mai avuto"), ma non ci resta nulla delle sue opere in
proposito, ammesso che ne abbia effettivamente scritte.