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Annibale Caro (Civitanova Marche, 6 giugno 1507 – Frascati, 17
novembre 1566) è stato un traduttore, drammaturgo, poeta e
numismatico italiano.
Biografia
Si formò sotto la guida dell'umanista Rodolfo Iracinto, prima
di trasferirsi a Firenze per completare i suoi studi sugli scritti
antichi assieme a Benedetto Varchi.
Nel 1530 si mise al servizio di Giovanni Gaddi, dapprima a Roma e
poi a Napoli, frequentando le accademie delle Virtù e dei
Vignaioli e partecipando alla accademia della nuova poesia che si
proponeva di realizzare versi sia in lingua latina sia in lingua
italiana. Durante il suo soggiorno partenopeo conobbe pensatori
quali Bernardino Telesio e Bernardo Tasso.
Fu segretario dal 1543 di Pier Luigi Farnese, primo duca di Parma e
di Piacenza, finché questi non fu assassinato a Piacenza nel
1547. In seguito, per intercessione, dei Cardinali Ranuccio Farnese
e Alessandro Farnese, fratelli del duca, gli fu riconosciuto nel
1555 il cavalierato dell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme e,
con bolla papale, gli fu affidata la Commenda dei SS. Giovanni e
Vittore in Selva a Montefiascone.
Nel 1557 ebbe un'aspra polemica con Lodovico Castelvetro.
Rimase al servizio del cardinale Alessandro Farnese dal 1548 al
1563, al quale suggerì i soggetti per gli affreschi del
Palazzo Farnese di Caprarola. È sepolto a Roma nella chiesa
di San Lorenzo in Damaso; la tomba è ornata da un busto di
Giovanni Antonio Dosio.
Opere
Il suo esordio fu segnato da una canzone scritta in onore della Casa
di Valois, intitolata Venite all'ombra de' gran gigli d'oro, seguita
dai sonetti I Mattacchi e La Corona.
Fu autore di un libro di Rime di stampo petrarchista.
L'opera che però gli valse la maggior fama fu la sua
traduzione in endecasillabi sciolti dell'Eneide di Virgilio.
Tradusse inoltre la Poetica di Aristotele, Gli amori pastorali di
Dafni e Cloe di Longo Sofista e le Lettere a Lucilio di Lucio Anneo
Seneca.
Fu anche un bravo commediografo: la sua commedia Gli Straccioni
è un importante esempio di teatro erudito rinascimentale che
fornisce uno spaccato di Roma nel Cinquecento.
Le Lettere famigliari, costituite da circa ottocento lettere
fornirono non solo un archivio documentaristico di prim'ordine, ma
anche un'importante fonte di informazioni sulla cultura
rinascimentale. Nelle lettere vengono trattati tematiche letterarie
e religiose, di costume e avvenimenti politici e militari.
Dopo la sua morte venne pubblicata un'opera musicale a lui dedicata:
la Corona della Morte dell'illustre Signore, il Sig. Comendator
Anibal Caro, che uscì a Venezia per i tipi di Girolamo Scotto
nel 1568, venne curata da Giulio Bonagiunta da San Ginesio e fu
dedicata al nobile maceratese Giovanni Ferri.
*
DBI
di Claudio Mutini
Nacque nel 1507 a Civitanova Marche da Giambattista, speziale e
commerciante che aveva anche ricoperto qualche carica pubblica, e da
Celanzia Centofiorini di nobile famiglia.
Nella cittadina natale seguì le lezioni di un modesto maestro
di "grammatica", Rodolfo Iracinto, col quale scambiò versi in
latino di fattura scolastica; quanto alla letteratura in volgare
è probabile che i gusti del C. si orientassero, ancora in
maniera indiscriminata, e dietro la sollecitazione di letture
personali più che ottemperando a un piano di studi, verso lo
stile "comico", da un lato, colto soprattutto nei versi del
Burchiello, e dall'altro in direzione dei due grandi modelli
trecenteschi che il trionfante bembismo stava imponendo su scala
nazionale nel campo della poesia e della prosa. ècomunque a
Firenze che guarda il giovane provinciale, considerando la
città toscana come il centro più idoneo di cultura per
la professione delle lettere e la meta più prossima per
ambizioni sociali che sarebbero state irrimediabilmente deluse nella
casa paterna: sì che egli dovette accogliere con entusiasmo
l'invito rivoltogli, intorno al 1525, da monsignor Giovanni Gaddi,
di recarsi a Firenze in qualità di precettore del nipote
Lorenzo Lenzi, essendo così costretto ad abbandonare gli
studi regolari per i quali continuerà a nutrire, almeno sino
al periodo del servizio prestato sotto i Farnese, un sentimento di
nostalgia proprio dell'autodidatta: "Attendete a viver più
lietamente che si può con tanti vostri amici - scriveva al
Varchi all'indomani della morte di Giovanni Guidiccioni -, i quali
vi sono più che nipoti, e più che figliuoli, e
studiate ancora da parte mia, perché io non posso, e se lo
desidero e se me ne spasimo lo sa Iddio" (lettera del 21 marzo
1542).
A Firenze l'assidua frequentazione di Benedetto Varchi (che
servì forse da intermediario fra il Gaddi e il C.) costringe
il giovane letterato ad un sistematico tirocinio umanistico.
Apprende il buon uso del toscano direttamente dalla "lezione de li
…tre primi, Dante, Petrarca e Boccaccio"; comincia a interessarsi di
Aristotele, cui si dedicherà assiduamente intorno agli anni
'40, traducendo la Rettorica "non conaltro fine che d'intenderla, se
potea, e di farmela famigliare"; volge in italiano la prima epistola
ciceroniana Ad Quintum fratrem e parafrasa dal greco il primo
idillio di Teocrito, inaugurando quell'interpretazione dei classici
manierata e toscanamente infedele che sarà propria del
traduttore anche maturo; affronta problemi filologici ricercando e
ottenendo l'amicizia di Pier Vettori. Ma è soprattutto a
Berni che si richiama il cortigiano in questa prima fase di
attività letteraria mimandone le esperienze in numerosi
documenti epistolari, sia che riferisca di un viaggio sgradevole per
raggiungere Tolfa, dove i familiari del Gaddi erano impegnati per lo
sfruttamento delle miniere ("Il secondo dì, passando per
Sutri, vedemmo case d'incomprensibile architettura, ché le
porte de l'abitazioni erano più grandi che le abitazioni
stesse. E considerando per una via che i tetti e i palchi tutti
erano scesi a terreno, ne domandai la ragione; e fummi risposto, che
le case s'erano fuggite per gli usci": 12 ott. 1532), sia che, da
Roma, indirizzi il proprio saluto a un minuscolo eroe di quartiere,
Luigetto Castravillani, insignito di lodi ingombrantie buffonesche
per aver partecipato alla impresa di Tunisi ("0 ve', dice, che
Luigetto uscirà un tratto di etto, cortigianetto,
scrittoretto, scacchetto. Ora sì che egli sarà lui,
che vuol dire quello, che mostravate d'essere quando baldanzosamente
correvate le case e i vicinati interi di strada Giulia,
sgangheravate gli usci a le lavandare, sbravazzavate gli sbirri di
Corte Savella, e spoltronavate fino al Capitan Salvestro che non si
può dire più oltre": 1º luglio 1535).
Non vi è quasi accenno, nelle lettere del C. di questi anni,
agli avvenimenti che sconvolsero Firenze e Roma tra il 1527 e il
'30. Si direbbe che l'assunto bernesco disobblighi l'oscuro
precettore di casa Lenzi a considerare eventi per i quali si
reputava culturalmente impreparato (proprio al Vettori, come al
rappresentante di una scienza che aveva tradizionalmente
condizionato un giudizio sulla realtà, il C. confessava il
desiderio "di studiare a dilungo un par d'anni a mio modo, e valermi
de lo studiato d'un valentuomo vostro pari. Fino a ora non ci veggo
disposizione alcuna, pure, in una notte nasce il fungo": 2 febbr.
1538) e nel contempo fornisca gli strumenti per un discorso, e
quindi per un'intesa culturale, volutamente evasiva e distratta, per
un gioco di società che non impegna l'uomo quanto il
letterato e che permette, comunque, proprio per la nettezza di tale
separazione, di scorgere al di là della funzione letteraria
un potenziale inattaccabile di virtù individuali e civili.
Lo stesso Berni, in polemica con i rappresentanti più
prestigiosi della poesia contemporanea, aveva individuato il senso
dilettantistico e puramente "decorativo" della letteratura
rinascimentale facendo dire al principale interlocutore del
Dialogocontro i poeti, Giovan Battista Sanga: "Io non chiamo poeta e
non danno, se non chi fa versi solamente e tristi, e non è
buono ad altro: questi di sopra [il Pontano, il Vida, il Sannazaro,
il Bembo, il Navagero, il Molza] si sa chi sono, e se non sanno far
altro che versi, quando vogliono. Essi non fanno professione di
poeti, e se pur han fatto qualche cosa a' suoi dì, e stato
per mostrare al mondo che, oltre alle opere virtuose che appartiene
a fare ad uomo, non è impertinente con qualche cosa che abbi
men del grave ricrearsi un poco, e che sanno fare anche delle
bagatelle, per passar tempo". Ora, se l'uomo non si rispecchia
interamente nella letteratura seria, come può essere
implicato in quella comica? Il disobbligo morale, il non-valore
della scrittura berniana (che si ritorce, comunque, contro
l'individuo giudicato mediante la propria opera, e si ricompone in
tal modo una identità tragica di uomo e di scrittore) celano
per la tradizione che fa capo a Berni una assoluta moralità e
un'indiscussa riassuefazione ai valori culturali poiché
questi non vengono minimamente ipotizzati dall'attività
letteraria. Questo fu il senso della letteratura comica che il C.
intese e riferì a Berni, indipendentemente dai precursori
trecenteschi e quattrocenteschi di cui si era pure servito negli
anni del noviziato letterario. Scrivendo a Paolo Manuzio per
presentargli il giovane poeta e amico Matteo Franzesi, egli si
esprimeva in questi termini: "Ma perché conosciate ch'egli
n'è degno per sé, bisogna dirvi che oltre a l'esser
letterato e ingegnoso, è giovane molto da bene e molto
amorevole, bello scrittore, bellissimo dittatore, e ne le
composizioni a la bernesca (così si può chiamare
questo genere da l'inventore) arguto e piacevole assai, come per le
sue cose potrete vedere" (24 genn. 1538). Ed intuì inoltre
che la maniera bernesca potesse favorire una sorta di clientelismo
culturale non diverso da quello procacciato dalla letteratura di
ispirazione elevata, secondo il giudizio che su tale stile
formulerà il Lasca nella lettera (1552)premessa all'edizione
del Primolibro delle opere burlesche ("avuto in tanta stima e tenuto
in tanta reputazione, e non mica da plebei, ma da uomini nobili e da
Signori"). Con l'antologia del Lasca siamo alla consacrazione
controriformistica di un genere in cui si erano esercitati - e si
eserciteranno - i maggiori letterati dell'epoca, laddove il tributo
del C. è significativo per rstabilire il momento di
liquidazione della letteratura berniana come amoralità e
forza dissacrante dei valori di una cultura letteraria. Sotto questo
aspetto, che non è tra i secondari nel panorama di
attività del C., l'opera del letterato marchigiano lascia
scoprire un complesso di esperienze di gran lunga più
importanti di quanto non sia stata disposta ad accertare la storia
letteraria tradizionale.
Il luogo in cui si concerta la forma del bernismo è Roma, ove
il C. soggiornò pressoché stabilmente, come familiare
del Gaddi, dal 1529 al '42 (si allontanò dalla città
nel '38 per raggiungere Napoli, ove strinse rapporti considerevoli,
se non compromettenti, con il circolo filovaldesiano di Giulia
Gonzaga, e ancora nel 1539 allorché ottenne momentaneamente
l'ufficio di segretario presso Giovanni Guidiccioni; ebbe modo
così di recarsi durante la primavera del 1540 a Venezia,
incontrandovi l'Aretino e Sperone Speroni).
Roma, dopo il Sacco, è una città che ha perso
definitivamente ogni rapporto con la grande tradizione umanistica
fiorentina, in qualche modo garantita dai papi medicei, e si sta
preparando alla svolta tridentina inaugurata da Paolo III Farnese.
L'avventurismo di Benvenuto Cellini e la prudenza di Sebastiano del
Piombo rappresentano il compromesso a cui deve soddisfare il talento
artistico, mentre nel campo della poesia la grossolanità del
linguaggio costituisce l'unica forma di spregiudicatezza concessa
all'invenzione (per esempio nel Bini), quando non si assiste - anche
tra le fila dei berneschi esplicitamente più osservanti, come
il già ricordato Franzesi - ad una significativa disposizione
"interiore" verso la moralità del comportamento, appena
incrinata da una veniale oziosità letteraria ("Quanto al
didentro, son anch'io de' vostri… e, se non dico uffici e
paternostri, / lodo però che sia felice vita / schivar de'
vizi gli scogli e i mostri. / E perché l'ozio è d'essi
calamita, / bench'io mi goda dopo molti affanni / qualche riposo e
libertà gradita, / studio e procuro che li maturi anni / non
si spendano indarno…").
Tra i "morti" dell'Accademia dei Vignaioli - come Berni
definì i letterati raccolti intorno al cardinale fiorentino
allorché ebbe la disavventura di condividerne per qualche
tempo le sorti, il C. incontrò letterati mediocri (il Molza,
Luca Contile) e minimi (Gandolfo Porrino, Francesco Martelli),
diplomatici falliti come Luca Martini, cortigiani sboccati e
invadenti sul tipo dei due Benci, Francesco e Trifone, che erano
stati ritratti dal Berni in un memorabile sonetto, o semplici
perdigiorno come quel Giovanfrancesco Leoni che è
sopravvissuto a una ragionevole dimenticanza solo per essere stato
il protagonista di una "fagiolata" del Caro. Il quale
continuò a frequentare le riunioni degli accademici anche
quando, intorno al '35, si trasformarono da Vignaioli in Virtuosi
ricevendo ospitalità e favori da Claudio Tolomei.
Lo scritto più noto che il C. realizzò per questa
brigata fu il Commento di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima
Ficata del padre Siceo, cioèsopra un capitolo incredibilmente
sciatto e ovvio nelle allusioni lubriche di Francesco Maria Molza.
Basta leggere l'avvertenza che il Barbagrigia (Antonio Blado) volle
premettere al commento del C. per intendere come l'opera obbedisca a
un tentativo di restauro e, al tempo stesso, di emarginazione
dell'esperienza berniana, che può essere usufruita come forza
liberatrice dai malsani umori della fantasia: "I capricci (come
disse il Bernia) vogliono venire agli uomini a lor dispetto… E se
questi ancora si trattengono, tutti insieme abbottinandosi per
uscire in ogni modo, vanno tanto ruzzolando, disguazzando e
sgominando il cervello, la fantasia, la memoria e tutte quelle
camerelle che costoro dicono che noi abbiamo sotto la berretta, che
ci guastano tutto il capo; perciocché rimescolandolo, come
udite, lo ritornano in caos, e lo danno a saccomano all'umore…",
laddove "stampati che sono, e mandati attorno in cima d'una canna
(ché questo è quel supremo trionfo a che essi possono
giungere nella cittadinanza degli altrui pensieri), pongono termine
all'ambizion loro, e si contentano di tornare cittadini privati,
lasciando liberamente il governo del capo al padre Senno, il quale,
stando bene con esso loro, siede poi senz'altro contrasto
gonfaloniere a vita". La prosa del C. si pone, del resto, sullo
stesso piano del celebre commento berniano al capitolo sulla
Primiera, rivelandosi tuttavia il suo esatto contrario; ché
mentre per Berni l'irraggiungibilità iperbolica dell'oggetto
comico, il suo significato limite riduce la facoltà stessa di
comprendere razionalmente e la vanità del discorso finisce
per compromettere ogni tentativo di riduzione intelligibile della
realtà, il C., come tutti i berneschi, evidenzia
oggettualmente l'allusione comica dei versi ("E non è
meraviglia che s'innestino facilmente col fico certe frutte
proporzionate a lui; né manco che ci faccino bene le ghiande,
i maroni, le fave, i citriuoli, i porri, le radici, le carote, o che
in corpo li s'innestino, o che appresso li si piantino"),
privilegiando "soavità naturali, che quando t'ungono, quando
ti pungono, quando ti baciano, quando ti mordono, perchiocché
quando morbide, quando frizzanti, or ti riempiono d'una soverchia
dilettazione, or ti danno certi lachezzini appetitosi che di nuovo
t'eccitano".
Gli aspetti più interessanti dell'operetta - e anche
più vitali nella prospettiva della futura attività del
C. - sono offerti da alcune digressioni spropositatamente erudite
che fanno ripensare alla predilezione del Berni per le "anticaglie",
da certa abilità bozzettistica che si esplica abbastanza
felicemente nei ritratti del pedante, del Molza, di "ser Cecco"
Benci; talvolta il dettato del commento incespica su personaggi che
rivelano onomasticamente una consuetudine voluttuosa e
inconfessabile (Ciacco Compoppista, Leccardo Grufoloni); talaltra
l'esplicazione di un termine dà luogo a variazioni di questo
genere, autorizzate da una notevole sapienza analogica: "Ora il
poeta, che non vuol parlare a caso, rende ragione di questo
ricevere; dicendo che il fico è di materia fungosa,
cioèporosa, soffice, spugnosa, cavernosa, rimbrenciolosa, con
molte camerelle, e con molti magazzini dentro, perciocché
sendovi del grano, del vino, della carne, dell'olio e del latte in
abbondanza, come avete udito, ènecessario che vi siano
granai, cantine, carnai, fattoi e precuoi, li quali votandosi tutti
per la sua immensa liberalità, è chiaro che vi
resterebbero molti luoghi vani, se non si nempissero. La qual cosa
sarebbe contro la legge d'essa natura, che non patisce in sé
vacuo".
L'ilarità con cui la piccola accademia romana dovette
accogliere simili enunciati non disobbligò l'autore a nutrire
qualche apprensione circa la fortunata e clandestina accoglienza del
commento, temendo che il suo nome rimanesse essenzialmente legato a
una opera di dubbia esemplarità morale e letteraria.
Ancora più deludente si rivela la lettura della Diceria
composta in omaggio al naso di Giovanfrancesco Leoni, "re della
Virtù", ove è, semmai, rilevabile come il grottesco di
Berni ripieghi su un disegno meramente caricaturale ("quanto alla
corrispondenza, che tiene con gli affetti dell'anima, … l'allegrezza
si conosce nella sua piegatura; la malinconia apparisce nelle sue
grinze; la schifiltà si rappresenta nel suo niffolo; l'ira
sbuffa per le sue froge; il biasimo va in compagnia de' suoi
crocchi"). Sì che più avvincente e meglio costruita
sul piano retorico appare la lettera rivolta al medesimo personaggio
il 10 apr. 1538, imperniata su un "crescendo" che giunge
all'invocazione liturgica: "Ognuno strabilia che lo vede, ognuno
stupisce che lo sente. A tutti dà riso, a tutti desiderio.
Tutti i poeti ne cantano; tutti i prosatori ne scrivono; tutti
coloro che hanno favella ne ragionano: e non sarebbe gran fatto che
per infino le Sibille ne profetizzassero, che gli Apelli lo
dipingessero, che i Policleti lo intagliassero, e che Michelagnolo
nell'un modo o nell'altro lo immortalasse… naso perfetto, naso
principale, naso divino, naso che benedetto sia tra tutti i nasi, e
benedetta sia quella mamma che vi fece così nasuto, e
benedette tutte quelle cose che voi annasate".
Va infine ricordata, tra le prove dettate nel clima del bernismo
romano, La statua della Foia, ovvero di Santa Nafissa, che è
forse l'invenzione più felice che il C. abbia ideato in
questo periodo, non fosse altro che per la creazione di quell'idolo
spudoratamente bisessuale il quale ostenta la propria
incredibilità all'impotenza intellettiva di storici e
archeologi. Nelle poche pagine che compongono questa "baia" è
ritratto dal vivo l'ambiente ormai sfatto e decrepito della
erudizione antiquaria che era rappresentata presso i familiari del
Gaddi da Ludovico Fabbri; solo che il C. non riesce a sostenere
lungamente la propria invenzione e ripiega sul tradizionale motivo
della satira antifratesca ("…iovi voglio dire un segreto: che questa
è una santa di quelle che sono state canonizzate da' nostri
frati; ed è quella medesima che domandano Santa Nafissa,
perciocché questa dea, conosciuto il bisogno di certi
conventi di frati suoi divoti, per salute di quelli, entrò in
Nafissa monaca santissima, la quale per carità li sovvenne
tutti, e senza risparmio li lasciò fare quella piacevolezza
da tutti per l'amor di Dio"), collegando questa situazione narrativa
al tema di alcune tra le più celebri Lettere familiari (vedi
per tutte quella a Bernardo Spina del 18 ott. 1544, il cui tono
giocoso mistifica un messaggio di probabile derivazione ochiniana).
Il riferimento alle lettere non è casuale. Sulle rovine del
bernismo, inteso dal C. come uno "scrivere a la sciamannata", come
un vaniloquio che esclude istituzionalmente ogni referenza, egli
fonda la possibilità di una comunicazione valevole per il
maggior numero di uomini e di situazioni, reperisce la forma stessa
dall'epistolografia in una scrittura tenuta necessariamente al
livello "comico" dell'inessenziale, del giornaliero, dell'opinabile,
in una parola, del familiare. I critici che di volta in volta si
sono proposti di legiferare tra le lettere del C. hanno privilegiato
un gusto personale suggerendo scelte documentabili sebbene
arbitrarie e parziali. Laddove è forse possibile districare
il lungo percorso di questa esperienza centrando alcuni luoghi
ostentatamente inadempienti ("E berta e nonnulla e borra è
quello che vi scrivo ora; e se mi sapete dire a che serve questa
lettera, sarete più che indovino": a Bernardino Maffei, 10
apr. 1538), evasivi per la scelta di una metafora sfasata sul piano
del referente ("E perché il pranzo fosse saliare a fatto,
avemmo poi davanti al Duca moresche, forze d'Ercole, gagliarde,
mattaccini, e giuochi di scherma, atteggiati tutti [da gatti
selvatichi forse] dai paggi proprii di Sua Eccellenza. Ecco che
m'è venuto pur dato in una idea. è stato per esser io
rapito ora da la divinità de le cose ch'io diceva": 28 luglio
1543), o addirittura inconcludenti per l'accumulazione caotica dei
dati rappresentativi ("Vi scannonezzo quel Sandisir subito
ch'arrivo. Vi fo di quel Cialone un cencio. Troja jacet certe.E poi
vi metto messer Paris e madonna Elena, e ciò che c'è
tutto in un sacco. Oh vedete baie che son venuto a dirvi! E che
volete voi ch'io faccia? Sono questa sera in una terraccia, son
solo, non ho che fare, l'umor m'assassina, non ho altro che dirvi, e
scriver vi voglio in ogni modo": a Bernardo Spina, 12 ag. 1544), per
giungere - attraverso una lode del non scrivere, che non è
l'elogio berniano del silenzio contrapposto all'imperativo della
Scrittura, ma è polemica nei confronti di ogni contenuto
informativo, contro il pensiero e il progresso umano in generale (a
Marcantonio Piccolomini, s.d.) - fino a una serie di equazioni, il
cui primo termine è costantemente il riso e il secondo
può variare da una considerazione di ordine religioso (a
Gandolfo Porrino, 1º maggio 1538)a un dato di cronaca politica
(a Claudio Tolomei, 20 giugno 1544), dalla richiesta di un utile
personale (a Francesco Cenami, 11 giugno 1541) all'ammonimento
morale (al Porrino, 23 giugno 1543), dalla riflessione erudita alla
proposta, non completamente disinteressata, di un modello del sapere
(lettere a Silvio Antoniano del 25 ott. 1551 e del 25 genn. 1556).
Una ipotesi siffatta, verificata nelle "lettere di passatempo" di
chi ebbe a confessare una volta (a Paolo Manuzio): "quel poco di
cervello ch'io ho, mi par che stia tutto su la punta de la penna",
dà ancora una volta ragione della distanza diametrale che
separa Berni da questo suo ambiguo continuatore. Ché mentre
le lettere berniane riflettono una profonda realtà
psicologica (e sono per questo le più belle lettere del
Cinquecento, oltre al fatto che questo tipo di documenti permette di
stabilire la serietà della poesia e il suo valore drammatico
sul piano individuale e sociale), quelle del C. costituiscono un
surrogato "comico" della realtà (nel senso retoricomedievale
dell'espressione) che in tanto permette all'intellettuale di
interessarsi a un numero pressoché illimitato di argomenti in
quanto questi vengono ridotti (o minimizzati) alla dimensione del
gusto e della volubilità personale, diventano soggetti di
piacevole e disobbligante conversazione fra "uomini da bene". "Nel
resto - scriveva il C. in una notevole lettera di istruzioni
indirizzata nel 1553 ad Alfonso Campi - vi supplirà il corso
ordinario de la lingua, e spezialmente ne lo scriver famigliare, il
quale ha da esser quasi tutt'uno col parlare. Né l'altre
composizioni poi bisognano tante considerazioni che non si possono
scrivere in une lettera… E universalmente quanto a questa parte de
l'imparare, si possono veder tutti i libri del mondo, perché
ognuno insegna qualche cosa. Ma voi come gentiluomo, vi avete a
restringere a quelli che trattano di certe cose che appartengono a
la vita commune per saper ragionar de' costumi, de le consuetudini,
e de le azioni de gli uomini, e convenir con essi secondo che si
ricerca". è sulla base di questa loquela semplice e
onnicomprensiva, garantita al di fuori di ogni gravità e di
ogni dissenso, stabilita entro il cerchio di una repubblica
letteraria, che si fonda la fortuna arcadica del C.
(significatamente incentrata, sino al Leopardi e attraverso Parini e
Giordani, sulle sue prose familiari), mentre appare meno credibile
l'ipotesi di una soluzione romantica ante litteram avanzata dal C.
circa il problema della lingua: e sarebbe sufficiente a tale
riguardo riconsiderare la sua costante adesione al bembismo (anche
in sede epistolografica: vedi la lettera a Giuseppe Giova del 17
marzo 1559), la sua predilezione per la pittura manieristica (nella
lettera al Vasari del 10 maggio 1548 il C. esibisce un archetipo
letterario che dovrà essere eseguito su tela), il gusto per
le imprese informate a un rigido canone classicistico, di cui
discuteva con Gerolamo Soperchio, con Nicolò Spinelli e con
lo stesso Varchi.
La costante "umile" della cifra stilistica cariana è
riferibile anche ad alcune prove della sua esperienza
epistolografica giudicate come i più "alti" risultati
conseguiti: solo che si pensi alla celebre lettera indirizzata al
Guidiccioni nel luglio del '38 sulle fontane del palazzo Gaddi a
Roma, ove lo splendore dell'effetto d'assieme non può
prescindere dall'esame dei ritrovati tecnici atti a provocarlo e la
lingua, a livello analitico, deve rappresentarli ricorrendo a voci
specialistiche (sotto questo aspetto si potrebbe interpretare in
senso puramente artigianale l'espressione, più volte
ricorrente, di lettere scritte "col compasso in mano"), ovvero
all'altra, pure molto nota, indirizzata a Isabetta Arnolfini de'
Guidiccioni sulla morte del vescovo di Fossombrone, che dovette
interessare i contemporanei più che per il tono elevato della
commemorazione (che riproduce abbastanza pigramente alcuni luoghi
delle rime del Guidiccioni) per i particolari "realistici" che
profuse il narratore nell'intento di dissipare il dubbio
dell'avvelenamento. E spiega, infine, questa consuetudine
stilistica, alcuni tic caratteristici del C. epistolografo, come il
gioco sugli appellativi cerimoniosi ("Vostra Grazia", "Vostra
Magnificenza", o anche "Monsignore", "quasi cardinale"), allontanati
scherzosamente dall'autore per un approccio più immediato
alla modesta realtà dell'individuo; o quello tendente quasi
all'annullamento fisico del mittente - che si identifica con l'ombra
o con l'anima del destinatario: "Né solamente Sua Signoria,
ma ognuno qui mi fa cortesia per vostro rispetto, perché mi
s'è levata tra questi napolitani una nominanza ch'io sia
l'anima vostra, ed avendo voi per quel singolare uomo che siete, non
vi potendo onorar presente, onorano me di parte de gli onor vostri"
(25 maggio 1538). Il personaggio in questione è naturalmente
il Molza, consorte di disordini e di avventure letterarie, un vero
alter ego del C., che lo scrittore delle Familiari immagina e
rappresenta come autore di salacità non dissimili da quelle
inserite nel Commento di ser Agresto.
Mancò al C. delle Lettere, per sua fortuna, l'intenzione, la
vocazione al sublime, per cui appaiono più estrinseche,
rispetto allo stile delle lettere destinato a rimanere un modello,
altre e meno congeniali prove: prima fra tutte (per completare il
quadro delle attività fiorite durante il primo soggiorno
romano dello scrittore) la libera traduzione da Longo Sofista degli
Amori pastorali di Dafni e Cloe.Su di essa si esprimeva il C. con un
certo rammarico scrivendo al Varchi il 10 genn. 1538: "Della
traduzione, io ho fatto solamente una certa bozzaccia non riveduta,
né riscontrata a mio modo co'l greco, perché messer
Antonio [Allegretti] s'ha portato l'originale nella Marca. E
perché non uscendo dal greco mi tornava cosa secca, l'ho
ingrassata con di molta ciarpa e rimesso e scommesso in molti
luoghi, e per questo l'ho tutta scombiccherata. Ed aspettavo di
riavere l'autore da messer Antonio per riscontrarla una volta, ed
aggiungervi parecchie carte che si desiderano nel greco, e poi
ricopiarla e mandarlavi". In nessun caso il C. avrebbe potuto
reperire la parte mancante dell'opera nel codice laurenziano che gli
aveva offerto l'Allegretti (il ritrovamento del romanzo integrale di
Longo Sofista risale ai primi dell'Ottocento), ma il traduttore
supplì disinvoltamente alla lacuna inventando una conclusione
e interpolando peraltro il testo che aveva ricevuto sì da
renderlo più accettabile al gusto dei lettori moderni. Non
è certe lecito addebitare soltanto al C. gli scarsi scrupoli
filologici adottati tradizionalmente nel condurre una parafrasi (che
era un'opera di imitazione, di emulazione rispetto al testo
originale, più che una resa fedele di esso), e neanche si
può revocare la sua abilità di grecista (che sembra
confermata, oltre che dalle traduzioni di Aristotele e di Teocrito,
da quelle di due orazioni di Gregorio Nazianzeno e di un sennone di
s. Cipriano, scritte, come confesserà al Varchi nel '62, "ad
istanza di papa Marcello"): ciò che appare meno convincente
nell'opera del C. è un fondamentale dissesto stilistico tra
voci plebee, maldestramente usufruite per evidenziare la cornice
rusticale del testo greco, ed espressioni auliche o arcaicizzanti;
tra una sintassi che riproduce la studiata complessità del
modello boccaccesco e il tentativo di infittire le parti dialogate
per rompere la monotonia della narrazione. Ma quello che rimase
soprattutto estraneo alla volontà magniloquente del
traduttore fu l'essenzialità preziosa e leggermente rarefatta
dell'originale, quel sentore di raffinata decadenza che non poteva
essere in alcun modo riprodotta dalla pur scaltrita retorica del
Caro. Il quale, in effetti, continuò a nutrire notevoli
perplessità nei confronti dell'opera, esprimendo dei dubbi a
quanti ne richiedessero copia, e ancora nel 1554, rispondendo a una
sollecitazione del vescovo Antonio Elio che reclamava "gli Amori
pastorali tradotti", cedeva all'invito con la raccomandazione che
"li teniate poi, non essendo bene vadano attorno così
imperfetti".Nel 1543 il C. viene improvvisamente a trovarsi senza
protettori per la morte quasi simultanea del Gaddi e del
Guidiccioni, per cui pensa di offrire il suo servizio a Pier Luigi
Farnese duca di Castro, che nel 1545 ottiene la signoria di Parma e
Piacenza. Sotto l'irrequieto primogenito di Paolo III egli alterna
brevi soggiorni a Piacenza, dove viene adibito per l'amministrazione
della giustizia (una breve esperienza in tal senso aveva maturato il
C. anche in Romagna durante il governo del Guidiccioni), a faticosi
viaggi in Francia e nelle Fiandre intesi a sondare la consistenza
delle forze militari dislocate nel duello franco-spagnolo. Ma prima
di assolvere i compiti riguardanti all'ufficio di segretario, il C.
aveva soddisfatto le ambizioni letterarie del Farnese allestendo -
prima di lasciare Roma, tra il 1543 e il '44 -, una commedia
suggerita dal nuovo signore e forse realizzata in collaborazione.
Sulla stesura degli Straccioni esiste un prezioso documento
epistolare, la lettera che il C. indirizzò il 3 nov. 1548 a
Vittoria Farnese, duchessa di Urbino. Vi si legge tra l'altro: "le
rispondo quanto a la comedia, che oltre ch'ella non sia degna
d'esser recitata in cospetto de l'Eccellenze Vostre, non è
accomodata a niun altro luogo che a Roma, e per Roma fu fatta, e per
quel tempo, e d'un soggetto che allora era fresco ed a gusto del
signor Duca suo Padre bon. mem., con partecipazione del quale fu
così compilata. E le persone che vi si introducevano, e
quelle de le quali si fa menzione, non sono conosciute se non qui.
Sicché altrove riuscirebbe freddissima, ed anco impertinente,
e non so, se ancora qui fosse pur buona, essendo passata l'occasione
perché fu fatta".
L'elemento contingente, locale della commedia è costituito
dalla messa in scena di due personaggi sicuramente noti nella Roma
farnesiana: i fratelli originari di Scio Giovanni e Battista Canali
("che erano due in uno e uno in due… con quei palandrani lunghi,
lavorati di toppe sopra toppe e ricamati di refe riccio sopra
riccio; quei zazzeruti, con quei nasi torti, arcionati e pizzuti,
quegli unti bisunti che andavano per Roma sempre insieme…")
rappresentati mentre sono in lite con i banchieri Grimaldi per una
notevole fortuna. Su questa traccia, affidata alla descrizione
comica dei fratelli sciotti (che investe peraltro un piccolo stuolo
di personaggi minori: il pazzo Mirandola, i servi Pilucca e Nuta, i
"furbi" di Campo di Fiori), si sviluppano due altri motivi di
derivazione classica e romanza, incentrati sulle figure di Giuletta,
figlia di Giovanni e ritenuta uccisa dai Turchi mentre vive quasi
prigioniera in casa del fattore Marabeo sotto il nome di Agata, e di
madonna Argentina che si considera a torto vedova del cavalier
Giordano e aspira pertanto alle nozze con Gisippo (alias Tindaro)
grazie agli interessamenti di Demetrio. Dopo una serie di avventure
piuttosto farraginose, il lieto fine (gli straccioni vincono la
causa grazie al procuratore Rossello e diventano ricchi, Giuletta
sposa Gisippo e Argentina ritrova Giordano) viene sancito dalla
scoperta che i protagonisti della vicenda sono direttamente o
indirettamente imparentati: la valenza naturale rinsalda "in una
grande abbracciata" ciò che l'artificio scenico aveva tenuto
per la durata di cinque atti separato.
Scontata la freddezza di tale artificio, consistente nella prassi
dello sdoppiamento dei personaggi e nella finale agnizione, la
critica ha di volta in volta sottolineato la moralità della
commedia (nessun individuo, almeno tra i non plebei, è
naturalmente malvagio; la disavventura si giustifica su un piano di
necessità da cui gli uomini tentano di sottrarsi intuendo la
soluzione di minor danno, come fa Demetrio o Barbagrigia, simbolo
della pratica saggezza dell'autore), ovvero la spigliatezza
espressiva con cui vengono rappresentati i personaggi mmori, visti
dal C. nel vivo di una realtà urbana e ritratti con quel
tanto di simpatia che li rende non di rado dei protagonisti. In
effetti, né l'una né l'altra ipotesi riesce a
suggerire elementi diversi o rinnovatori rispetto alla
caratteristica delle precedenti prove del C.: ché la media
moralità di cui è pervasa la commedia è quella
espressa, non a caso in chiave comica, già nelle prime
lettere del periodo romano (con l'aggravante che sulla scena i
caratteri mediocri si confondono e finiscono con l'annullare il
gioco delle parti), mentre il conclamato realismo del linguaggio,
gergale e allusivo, rivela la sua origine libresca ("Io vi ricordo -
scriveva il C. a Luca Martini nel giugno 1543 -, che voi faceste
già ricolta di molti proverbi toscani, se me gli poteste
mandare, mi tornerebbero forse in qualche loco a proposito") e non
si distanzia quindi sostanzialmente dagli effetti che lo scrittore
si studiava di ottenere nelle "baie" degli anni '30. Anche nel caso
degli Straccioni il giudizio che l'autore espresse - questa volta
esplicitamente - è da ritenersi valido quanto
all'occasionalità della commedia, alla fretta e al
dilettantismo con cui venne eseguita l'opera su commissione, alla
sua vitalità esigua, limitata ad un ambiente cittadino
ché non era certo tra i più provveduti nel senso della
cultura teatrale.La morte violenta di Pier Luigi Farnese, ucciso nel
1547, colse il C. meno di sorpresa di quanto non fosse avvenuto alla
scomparsa dei precedenti mecenati: "Così era destinato!", si
lasciò sfuggire una volta per lettera, e uscito indenne da
Piacenza, riguadagnata Roma, si preparò all'ossequio di un
nuovo Farnese, il cardinale Alessandro, presso la cui corte il
letterato marchigiano dimorò dal 1548 al 1563.
V'è da sottolineare a questo punto un vago sentimento di
insufficienza che invade il Caro. Scrivendo a Ludovico Beccadelli il
14 ott. 1547 egli confessava che "la grandezza di Farnese mi
spaventa"; passato oltre un decennio, confidava a Paolo Manuzio un
senso di stanchezza e di disillusione che lo assaliva considerando i
propri studi ("Voi sapete già tanto, e avete già tanto
mostro di sapere, che siete famoso per sempre. Il cercar di sapere
ancor più, con tanto consumamento di voi, è voler
morire innanzi tempo, piuttosto che viver dopo la morte… E, se lo
fate per piacere, studiate meno, che studierete più, e ne
goderete più lungamente. Io mi sento ormai assai bene,
perché non istudio": 10 febbr. 1558). è necessario
tener presente questi riferimenti per intendere come il C. tendesse
in questi anni non tanto all'ampliamento di un orizzonte culturale
(che si arricchisce, tuttavia, per il nuovo interesse alle rime del
Bembo, di cui allestì una edizione tra il '47 e il '48, per
la conoscenza delle Storie del Varchi e delle Vite del Vasari, per
la familiarità con i petrarchisti napoletani, con Vittoria
Colonna, col Della Casa), quanto al potenziamento e alla difesa di
un mestiere letterario che la sua epoca volle soprattutto orientato
verso la forma lirica.
Le Rime del C. forniscono senza dubbio una testimonianza del
trapasso dal clima permissivo della società farnesiana (in
cui si inserisce il tributo delle rime comiche e si giustifica il
ripristino di temi cari al giovanile valdesianesimo del C., diretti,
ad esempio, contro la corruzione della Chiesa nella canzone dettata
nel 1549 per sostenere la candidatura a pontefice del cardinal
Farnese) a un più rigido ideale controriformistico cui sono
improntate le ultime rime, sia che lo scrittore contempli con
sgomento l'ineluttabile trascorrere del tempo e si raccolga
devotamente in sé per l'ultimo cammino (nella canzone "Ahi,
come pronta e lieve"), sia che, approssimandosi il pericolo della
doppia morte, si volga, con supremo atto di contrizione, alla
misericordia di Dio (sonetto "Egro e già d'anni e più
di colpe grave") con la fiducia di lasciare agli uomini un esempio
del suo infinito perdono (sonetto "Giunta o vicina è l'ora,
umana vita"). Il che ovviamente comportava un vaglio diverso dei
modelli: da Michelangelo, poniamo, come specchio di motivi legati
per tradizione alla spiritualità riformistica, al Varchi e al
Guidiccioni, che proprio quella spiritualità erano riusciti a
correggere in senso ortodosso; l'attenuazione degli spunti
più polemici, il passaggio da una rappresentazione di stile
realistico e di impegno satirico alla misura di un pacato discorso
in versi il cui esempio migliore è forse costituito dal
sonetto "Perché siano i dì vostri oscuri e mesti". Ma
è poi vero che questa offerta lirica vuole imporsi non tanto
per l'universale accettabilità dei contenuti quanto per
l'abilità tecnica con cui il maestro di stile dirige e fa sua
ogni possibile manifestazione del sapere lirico. Ed ecco che il C.
interviene a favore degli "Accademici della Nuova Poesia" dettando
versi alla maniera "barbara" del Tolomei, compone versi per musica e
fa opera di restauro imitando la lirica stilnovistica, commisura le
proprie capacità inventive alla dimensione dell'elogio e del
compianto, sopperendo ad una fondamentale inerzia intellettuale con
la fitta rete di un'intesa per le rime in cui furono coinvolti quasi
tutti i maggiori letterati dell'epoca, da Bernardo Cappello al Della
Casa, dal Rota al Di Costanzo e al Tansillo. Come le lettere anche
il discorso della poesia tende ad imporsi in quanto sapienza
astratta dalla occasionalità di un messaggio, anche elevato,
e condizionata invece alla capacità tecnica di comunicare
qualsiasi argomento. L'ostinazione retorica del C. significa in
fondo la salvaguardia di quella stessa ideologia della letteratura
per cui si era battuto il Bembo e che fonda il reale prestigio
dell'intellettuale di formazione umanistica. è su questa base
che si intende l'eccezionale aggressività del letterato
qualora venga messa in dubbio la validità degli strumenti
espressivi: la polemica fra il Castelvetro e il C. a proposito di
una maldestra canzone encomiastica che quest'ultimo aveva rivolto
alla monarchia francese ("Venite all'ombra de' gran Gigli d'oro")
riflette i medesimi motivi di un'altra celebre controversia
cinquecentesca, quella che appunto il Bembo sostenne contro Antonio
Brocardo, e più che rivelare un episodio di malcostume,
sottolineato come tale dalla critica, evidenzia i termini necessari
in cui si dibatte l'autorità nell'ambito di una
civiltà della scrittura quale fu il Rinascimento.
A un essenziale Parere sul componimento del C. e alla successiva
Dichiarazione del Castelvetro lo scrittore marchigiano contrappose
un Commento alla canzone, un'elefantiaca Apologia terminante con
alcuni componimenti in rima detti Mattaccini e una Corona di nove
sonetti ingiuriosi, in cui, tra l'altro, si accusava il rivale di
aver provocato la morte di Alberico Longo, un oscuro letterato che
si era fatto nella polemica partigiano del Caro. A sua volta
l'Apologia, che si finge come architettata e presentata da Pasquino
(professato sostenitore del Castelvetro in quanto maestro di
maldicenze), consta di tre scritti composti da sedicenti amici
romani del C., Ilrisentimento del Predella, La rimenata del Buratto,
Il sogno di ser Fedocco.
Tra queste ultime prose, sicuramente dovute alla penna del C., di
gran lunga più importante è la prima, ove lo
scrittore, respingendole accuse rivoltegli per aver male usato della
"traslazione", definisce la metafora e la metonimia in termini
parzialmente accettabili da una moderna concezione linguistica.
Così, stabiliti i gradi di approssimazione che devono
garantire i traslati rispetto al significante primario ("La prima
virtù che vogliono avere è questa, che siano simili
alle persone o alle cose che tolgono a rappresentare… La seconda
è che la similitudine non sia lontana… La terza è che
la similitudine o non passi di troppo o non arrivi di gran lunga a
quel che si vuol simigliare"), il C. determina, inchiave di edonismo
intellettualistico, il carattere selettivo della metafora,
confondendo tuttavia tra significati diversi e valori diversi di
segni similari ("Dovereste pure aver letto che questa è una
delle cagioni che fanno le metafore tanto dilettevoli; perché
in uno istante vi mostrano due cose in una, e vi fan passar con
l'intelletto dall'una nell'altra: il qual passaggio si presuppone
che si debba fare da chi legge, siccome lo fa chi scrive,
trasportando le qualità e gli effetti da parola a parola: il
qual trasportamento bisogna che si faccia alcuna volta, non solo
dalle traslate aperte alle proprie sotto intese d'un termine solo,
ma dalle traslate alle proprie e dalle traslate alla traslate,
ancora d'altri termini,che sono tutte aperte"). E su "questa
condizione… degli effetti continuati" viene intravisto il
procedimento combinatorio della metonimia ("Ma questa continuazione
così fatta o non è più metafora o è
metafora e più, poiché per altro vocabolo è
nominata Allegoria; la quale Allegoria, quando si fa, ricerca bene
quella dependenza e conformità d'effetti che voi dite"),
anche se a questo punto della trattazione l'autore è ben
lontano dal valutare le implicazioni estetiche del proprio assunto,
pronto anzi a ripiegare su una soluzione di compromesso che preclude
ogni prospettiva narrativa ("nondimeno non siamo obbligati a tirarla
più in lungo che ci vogliamo, e la possiamo scorciare e torla
anco via del tutto a nostro piacere"). In maniera analoga il C. non
aveva del tutto dimesso una concezione puramente ornamentale della
metafora, considerandola una "maschera", un addobbo decorativo
capace di conferire un tratto di decoro a pensieri volgari o
inadeguati (nel caso della canzone) rispetto ai nobili destinatari.
Meno interessante è il secondo scritto dell'Apologia, ove il
C. impartisce al rivale un'aperta lezione di conformismo ideologico
("non avete inteso dire di quel vero savio il qual, vedendo che per
una certa pioggia tutta la sua terra era impazzata e che teneva per
pazzo lui il qual solo all'asciutto era rimaso, elesse d'uscire a
bagnarsi di quella pioggia ancor egli e impazzar da vero, volendo
essere piuttosto pazzo con tutti che tenersi savio da lui solo?"),
ovvero allude in maniera molto esplicita ad un sapere eterodosso del
Castelvetro, il quale, com'è noto, sarà costretto a
fuggire dall'Italia per l'accusa di eresia: "Non avete voi inteso
che s'imparano i veleni dalla medicina? non vedete che si fa torto
alla gente con le leggi? non sapete voi medesimo alla fine che si
diventa eretico con gli Evangeli?". E del pari scadente è Il
sogno di ser Fedocco, glaciale e preoccupata "allegoria" sul nome
dell'antagonista - un castello di vetro riflette, deformandole, le
immagini di tutti coloro che vi si specchiano e lascia scorgere
all'interno le delizie più attraenti e fallaci, ché,
quando la costruzione si infrange, prolifera dalle sue rovine una
nube di insetti fastidiosi e dal fumo che esalano le rovine nasce la
figura di un uccello notturno, il barbagianni -, di cui, comunque,
bisogna tener conto come dell'invenzione più distesa del C.
prosatore, anzi dell'unica prosa fantastica, se si eccettuano alcuni
brevi spunti narrativi contenuti negli scritti berneschi e nelle
lettere, cui abbia dato vita la sua capacità "allegorizzante"
assai limitata, invero, malgrado i notevoli supporti retorici di cui
era fornita.
La notorietà conseguita dal C. nel corso dellapolemica fu
immensa. Egli riuscì a responsabilizzare in suo favore
ambienti accademici, uomini di Curia e la quasi totalità dei
letterati fiorentini (con il Varchi in testa, che non mancò
di spezzare una lancia a favore dell'amico nell'Ercolano), i quali
ravvisavano nella battaglia sostenuta dal C. in nome del
petrarchismo e della Controriforma la loro stessa causa
conservatrice e municipalistica. La critica ha implicatamente tenuto
sempre conto di tale fortuna giudicando l'Apologia un buon esempio
di satira letteraria, a parte, si intende, qualche intemperanza nei
toni polemici. In realtà, se l'opera viene considerata sul
piano delle modalità in cui si esplica l'autoritarismo, essa
rappresenta qualcosa di più di una polemica personalistica e
di un fenomeno strettamente letterario; se invece viene giudicata in
base a un rapporto personale, essa non sfugge all'impressione
canagliesca che suscita il delatore, al riparo nei più
squallidi ricettacoli della Roma farnesiana. è quasi
impossibile cogliere l'intero senso di questa minaccia prescindendo
dal tono nfrontato e bullesco in cui avrebbe potuto pronunciarla
mastro Pasquino (sotto la cui maschera i contemporanei dovevano
riconoscere i connotati del vecchio provinciale romanizzato): "Che
io non abbia poi né gambe né braccia e voi sì,
che io sia più svisato e manco nasuto di voi e voi di
più fronte e più cigliuto di me: questo non importa,
perché sono accidenti che, seguendo il nostro mistiero,
possono avvenire ancora a voi".
è anche vero che durante il servizio sotto Alessandro Farnese
più rapaci, diventano le ambizioni del letterato per godere
dei benefici assegnatigli; comiche sino al ridicolo appaiono le sue
ostentazioni di decoro (quando, nel 1551, entra a far parte del
Collegio dei cavalieri loretani, o quando, nel '55, egli ottiene la
commenda di Rodi - onde il titolo di commendatore che fregia i
frontespizi delle opere a stampa - alla quale confessava di aver
posto "il segno di tutta l'ambizione"); più astiose e grette
si fanno infine le polemiche con alcuni favoriti del cardinale
(Carlo Gualtieruzzi, Antonio Bernardi) che negli ultimi tempi
sembrano screditare il suo prestigio. Non che mancassero gli
incentivi all'orgoglio, che l'esito dell'Apologia contro uno
studioso ben altrimenti dotato di lui dovette far rinverdire, ma
erano i rapporti con Alessandro Farnese che andavano degenerando
("Il cardinale è tornato a far le sue - scriveva il C. al
vescovo di Pola nel marzo del '62 - e credo che la finiremo;
così l'avessi finita la prima volta"), per cui, dopo aver
scartato l'invito di trasferirsi presso Emanuele Filiberto, decise
nel 1563 di ritirarsi a vita privata.
A quest'epoca il C. già possedeva una casa a Roma, in via
Arenula, e una piccola tenuta fuori porta S. Giovanni. Volle ancora
farsi costruire una abitazione di diletto e di riposo, lontano dalla
città e invitante agli ozi campestri: sorse così villa
Piscina, nei pressi di Frascati, dove tuttavia il C. poté
risiedere pochi anni, ché aggravatosi un vecchio male, la
podagra, fu costretto a ritornare a Roma e qui si spense il 20 nov.
1566.
Gli ultimi anni, improntati a un ideale di ozio non soltanto
riferibile agli impegni pubblici ("Cerco al più che posso
fuggir le brighe. Studio pochissimo, in libris"), furono quasi
esclusivamente dedicati ad approntare il corpus delle rime e delle
lettere che avrebbe dovuto stampare il Manuzio, nonché alla
traduzione dell'Eneide, cuiil C. si era dapprima accostato con la
volontà di comporre un poema eroico, e che portò a
termine (deposto il progetto dell'opera originale) in un tempo
abbastanza breve se si pensa che nell'aprile del '64 erano
già stati volgarizzati i primi quattro libri e che l'intero
lavoro poté essere completato prima della morte dello
scrittore.
L'opera conclusiva del C. è anche quella in cui si rivela
maggiormente la sua superficialità in quanto i moduli
stilistici e il ritmo stesso del discorso con cui il traduttore
tenta di riproporre il testo latino non vengono esemplati sul
modello (e neanche ubbidiscono ad una reinterpretazione di esso,
secondo il procedimento umanistico della parafrasi), ma si rivelano
sempre precostituiti da una tipologia del volgare illustre -
soprattutto dantesco e petrarchesco, giusta i rilievi che sono stati
compiuti sul testo - il quale si sostituisce organicamente al
dettato virgiliano. Per cui, ad esempio, il distico virgiliano: "nec
mihi iam patriam antiquam spes ulla videndi / nec duplicis natos
exoptatumque parentem" (II, 137-38) viene reso con "Ora son qui /
privo d'ogni conforto e d'ogni speme / di mai più riveder la
patria antica, / i dolci figli e 'l desiato padre", con quel tipico
procedere per membri bipartiti che al C. non poteva essere suggerito
se non dalla forma della lirica aulica. Sotto questo aspetto la
traduzione tende ad allontanarsi più che ad approssimarsi
all'originale e rappresenta una sorta di "summa" del volgare
illustre, sperimentata piuttosto dilettantisticamente in concorrenza
con la "grammatica" e forzata entro lo spazio pressoché
onnicomprensivo del genere epico.
Non mancano notevoli omissioni, e queste riguardano di solito le
più sottili accentuazioni psicologiche dell'Eneide: "solus
hic inflexit sensus animumque labentem / impulit" afferma la Didone
virgiliana (II, 22-23), mentre il C. traduce: "…sol questi ha mosso
/ i miei sensi e il mio core". Ma più di frequente l'arbitrio
del traduttore è da ravvisarsi nel procedimento di smodata
amplificazione che tende, se non ad inventare e ad interpolare,
almeno a esplicitare i sottintesi del modello, di solito
banalizzando (il v. 1 del l. II: "Conticuere omnes intentique ora
tenebant" è risolto con il prolisso "Stavan taciti attenti e
disïosi / d'udir già tutti"), non di rado ridicolizzando
il testo virgiliano, come accade per l'immagine dolente di Giuturna
che lo scrittore latino rappresenta, in due versi, mentre, conscia
del fato ineluttabile di Turno, torna a celarsi nelle acque del
fiume (XII, 885-86), e che il C. raffigura, in sei, con l'evidenza
realistica che si addirebbe ad un suicidio per annegamento ("tantum
effata caput glauco contexit amictu / multa gemens et se fluvio dea
condidit alto" - "E così detto / grama e dolente, di ceruleo
ammanto / il capo si coverse. Indi correndo / nel suo fiume
gittossi, ove s'immerse / infino al fondo: e ne mandò,
gemendo, / invece di sospir, gorgogli a l'aura").
è un esito che non lascia dubbi sulla irrecuperabilità
del C. classicista, che appare molto simile ad altri famosi o
famigerati traduttori dai classici della storia letterana italiana.
La fortuna dell'opera, si può dire quasi fino ai nostri
giorni - con una significativa intensificazione in epoca arcadica e
neoclassica (che non investe tuttavia i giudizi limitativi
dell'Algarotti e del Foscolo) -, è da considerarsi come il
frutto di una malintesa stima per l'eloquenza e il decoro sotto cui
si nasconde la più orgogliosa sciatteria. E l'eloquenza,
anche senza decoro, ha finito per rendere famoso l'epistolografo e
il polemista, il rimatore e l'uomo di teatro accomunati sotto la
luce un po' tetra del letterato benpensante e socievole.
Opere: Del C. latinista sono stati riprodotti alcuni testi da A.
Greco (A. C.- Cultura e poesia, Roma 1950, pp. 11 ss.). La
traduzione del primo Idillio di Teocrito è stata edita a
Colle nel 1843 e riprodotta nell'edizione Le Monnier delle Opere
(Firenze 1864). La Rettorica d'Aristotele fatta in lingua toscana
fuedita a Venezia nel 1570 e ristampata sempre a Venezia nel 1732.
Il Commento di ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima Ficata di
padre Siceo fu stampato a Roma dal Blado nel 1539 (si può
leggere insieme con la commedia, la Nasea e la Statua della Foia
nella "Biblioteca rara" del Daelli, Milano 1863). Le Lettere
familiari sono state edite criticamente da A. Greco (Firenze
1957-61), alla cui introduzione si rimanda per la notizia delle
preced. ediz. Cfr. inoltre R. S. Samuels, An addition to A. C.'s
"Lettere familiari": Notes on a letter to E. B. Varchi, in
Renaissance Quarterly, XXVIII (1974), pp. 300-305. Gli amori
pastorali di Dafni e Cloe figura, con l'Apologia (stamp. per la
prima volta a Parma nel 1558) e con GliStraccioni (compresa nel
volume II di Commedie del Cinquecento, a cura di N. Borsellino,
Milano 1967), Sul primo e unico volume cifrato da V. Turri per "Gli
scrittori d'Italia" di Laterza (Bari 1912). La più ricca
raccolta di Rime del C. è quella allestita dal Manuzio
(Venezia 1569 e 1572); alcune poesie inedite (insieme con scritture
diplomatiche e con la traduzione dell'Apologiaseconda in favore
d'Arrigo II re di Francia)furono inserite da G. Cugnoni nel volume
di Prose inedite del Commendatore A. Caro, Imola 1872; Quattro
sonetti inediti di A. Caro furono pubblicati a cura di E. Canuti, in
Scritti di storia, di filosofia e d'arte, Napoli 1908. Per la
traduzione dell'Eneide (stampata a Venezia dai Giunti nel 1581) vedi
l'edizione a cura di A. Pompeati (Torino 1954). Le Due Orazioni di
Gregorio Nazianzeno teologo… e il primo Sermone di S. Cecilio
Cipriano sopra l'elemosina, fatte in lingua toscana dal Commendatore
Annibal Caro apparvero a Venezia nel 1569 e figurano fra le Opere
della citata edizione fiorentina. Si ricorda ancora del C. la
versione di dodici lettere di Seneca, edite a cura di A. Dalmistro e
S. Liberali a Treviso nel 1830.
Bibl.: Per i giudizi critici ricordati nel corso della trattazione
vedi G. Parini, Dei principi particolari delle belle lettere, in
Opere, a cura di G. Mazzoni, Milano s.d., p. 830; G. Leopardi,
Zibaldone di pensieri, I, Milano 1961, ad Indicem, e soprattutto le
pp. 1510-11(nell'edizione di Tutte le opere, a cura di F. Flora); P.
Giordani, Di un giudizio di G. Leopardi circa il C. e il Davanzati,
in G. Leopardi, Studi filologici, a cura di P. Pellegrini e P.
Giordani, Firenze 1845, pp. 455-59; F. Algarotti, Lettere di
Polianzio ad Ermogene intorno alla traduz. dell'"Eneide" del C., in
Opere, VII, Venezia 1732, lett. V; U. Foscolo, Articolo critico
intorno a due traduzioni del poema di Virgilio l'"Eneide", in Prose
letterarie, II, Firenze 1930, pp. 403-427. Sulla biogratia del C.
è ancora utile consultare la Vita che A. F. Seghezzi premise
al rediz. delle Lettere familiari, Padova 1763. Vedi inoltre: R.
Sassi, A. C. e Giovanni Guidiccioni, Fabriano 1907; F. Picco, A. C.
segretario del duca Pierluigi Farnese, in Nuova Antol., 1º ott.
1907, pp. 1-22; M. Sterzi, Studi sulla vita e le opere di A. C., in
Atti e Mem. della Deputaz. di storia patria per le Marche, n.s., V
(1909), pp. 1 ss.; VI (1910-1911), pp. 45 ss.; Id., A. C. inviato di
Pierluigi Farnese, in Giorn. stor. della lett. ital., LVIII(1911),
pp. 1-48; V. Cian, in A. Caro, Scritti scelti, a cura di E.
Spadolini, Milano 1912; F. Rizzi, A. C., Torino 1931; F. Sassi, A.
C., Milano 1934. Sulle caratteristiche del prosatore in volgare
rimane valido il giudizio di P. De Nolhac, La bibliothèque de
F. Orsini, Paris 1887, pp. 13-14. Sul C. rimatore sono da vedere B.
Croce, La lirica cinquecentesca, in Poesia popolare e poesia d'arte,
Bari 1933, pp. 278 ss.; e V. M. Villa, Stilismo di A. C., Macerata
1936. Intorno alla polemica col Castelvetro, vedi D. Capasso, Note
critiche sulla polemica tra A. C. e L. Castelvetro, Napoli 1897; C.
Trabalza, Storia della grammatica ital., Milano 1908, pp. 166 ss.;
V. Vivaldi, Una polemica del Cinquecento, Catanzaro 1930. Su Gli
Straccioni, vedi S. Stefani, A. C. in teatro, in Giorn. arcadico,
s.6, I (1906), pp. 274-811, 337-46, 393-98, 465-76; P. P. Trompeo,
Teatro in Campo de' Fiori, in Piazza Margana, Roma1942, ad Ind.;I.
Sanesi, La Commedia, Milano 1954, ad Indicem.Per la
traduzionedell'Eneide sono davedere G. Quadri, A. C. e C. Arici
nella traduzione dell'Eneide, Brescia 1884; E. Parodi, I rifacimenti
e le traduzioni ital. dell'"Eneide" di Virgilioprima del
Rinascimento, in Studi di filologia romanza, II(1887), pp. 420 ss.;
G.Mondaini, I criteri estetici e l'opera poetica di A. C.,
Torino1897; C. Trabalza, Studi e profili, Torino 1903, pp. 191 ss.;
G. B. Pellizzaro, Echi danteschi e petrarcheschi nella traduz.
dell'"Eneide" di A. C., in La Rassegna, XXXVIII(1930), pp. 1 ss.; E.
Bonora, Consensi e dissensi intorno all'"Eneide" del C., in Stile e
tradizione. Studi sulla letter. ital. dal Tre al Cinquec.,
Milano-Varese 1960, ad Ind.;G. Olivieri, L'Eneide del C., Torino
1965. Si v., infine, A. Greco, A. C. e il teatro, in Cultura e
scuola, V (1966), pp. 33 ss.; C. Dionisotti, A. C. e il
Rinascimento, ibid., pp.26 ss.; R. Ramat, Appunti su "Gli
Straccioni", in Saggi sul Rinascimento, Firenze 1969, pp. 200 ss.;
G. Ferroni, "Gli Straccioni" di A. C. e la fissazione manieristica
della realtà, in Mutazione e riscontro nel teatro di
Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma1972,
pp. 193 ss.; G. Marzot, L'idea della lingua nel Leopardi e nel C.,
in St. in mem. di L. Russo, Pisa 1974, pp. 204-219; N. Borsellino,
C. e la realtà, in Rozzi e Intronati. Esp. e forme di teatro
dal Decameròn al Candelaio, Roma1974, pp. 189 ss. Fra i
manuali è utile consultare F. Flamini, Il Cinquecento, Milano
s.d., ad Indicem;E. Bonora, Il Classicismo dal Bembo al Guarini, in
Storia della letter. ital., IV, Il Cinquecento, Milano 1965, ad
Indicem.