Carolina Invernizio
IL BACIO D'UNA MORTA.
www.liberliber.it
PARTE PRIMA
La morta viva
I.
Dal treno che arriva alle dodici da Livorno, erano scesi alla
stazione centrale di Firenze due giovani sposi, che attiravano
grandemente l’altrui attenzione. L'uomo poteva avere ventidue anni o
poco più, ed era di una bellezza delicata, quasi femminea. Dal suo
piccolo e stretto berretto da viaggio sfuggivano delle ciocche
ricciolute di capelli dorati: gli occhi aveva nerissimi e pieni di
dolcezza, la carnagione leggermente rosea, il naso affilato, la
bocca gentile, aristocratica, con due piccoli baffi; il personale
snello, vestiva in modo elegantissimo.
La sua compagna era piuttosto piccola di statura ed aveva il tipo
bruno e procace delle andaluse. Capelli nerissimi, un poco ondati
sulla fronte e che le cadevano sulle spalle in grosse trecce
ripiegate: il volto di un pallore caldo, orientale, che faceva
spiccare viepiù i suoi occhi di un celeste cupo; un paio d’occhi
brillanti, voluttuosi, pieni di un fàscino singolare, e le labbra
tumide, rosse, come un fiore di melagrano.
L'abito da viaggio, attillato, mostrava delle forme stupende, che
avrebbero fatto andar in estasi un pittore. Poteva avere sedici
anni, poteva averne venti: il sorriso era di una bambina: lo sguardo
mostrava la donna. L'uomo portava una borsa a tracolla: la giovine
teneva in mano una piccola ed elegante valigia.
Essi parevano preoccuparsi poco degli sguardi d'ammirazione che loro
rivolgevano i viaggiatori e passeggieri che si urtavano loro
dappresso. Consegnati i biglietti, uscirono cogli altri; ma quando
furono sotto la tettoia, la giovine si volse vivamente al compagno e
con una voce freschissima, melodiosa:
— Dimentichi i nostri bagagli, Alfonso! — disse.
— Li manderemo a ritirare, cara Ines, — rispose il giovane
stringendo lievemente le spalle — ora non ho tempo da perdere: sai
che oggi stesso vorrei abbracciare mia sorella. —
Un lieve sospiro sfuggì dal petto della giovine donna.
— Ah! sì — ripetè aprendo le labbra ad un sorriso delizioso — tua
sorella.... Sono gelosa di lei, perchè per lei dimentichi persino
che la tua Ines ti è vicina. —
Il giovane avrebbe voluto chiudere quelle labbra con un bacio; ma si
contentò di stringere il braccio della sua compagna e la trasse
verso un fiacchere chiuso, vicino al quale stava un uomo sciancato,
in maniche di camicia, che si affrettò ad aprire lo sportello.
La deliziosa bruna era già seduta sui guanciali della carrozza, che
il giovane parlava ancora col fiaccheraio.
— Devi condurmi molto lontano, — diceva — voglio andare alla villa
delle Torricelle, tre chilometri fuori di porta Romana. Ti darò
quanto vorrai, a patto che tu faccia correre più che sia possibile
il cavallo.
— Salga pure, signore, la servirò a dovere. —
Il giovane prese posto accanto alla sua compagna, dopo aver gettato
dei soldi all'uomo in maniche di camicia, che si affrettò di
richiudere lo sportello.
La vettura si mise in moto, ma lentamente, non potendo oltrepassare
le altre che aveva innanzi.
Il giovane pareva che fosse sulle spine, fin a che il fiacchere non
ebbe oltrepassato i cancelli della stazione e non poté prendere la
corsa.
Allora il viso di Alfonso si rasserenò alquanto; pure di quando in
quando cacciava la testa fuori dal finestrino, divorando le strade
con gli sguardi.
— Non ti pare che il cavallo vada troppo piano? — disse ad un tratto
rivolgendosi alla sua compagna.
Ines sorrise di nuovo.
— Ma no.... amico mio, tu non sei ragionevole, a me sembra invece
che corra abbastanza, e devi pensare che ha molta strada da fare. —
Il giovine cinse con un braccio la sottile vita di Ines.
— Hai ragione! — esclamò — ma se tu sapessi in quale stato d'animo
mi trovo. Ah! dopo la sua ultima lettera, io vivo in una continua
ansietà. Clara correva un gran pericolo, ed invocava il mio
soccorso. Ora è trascorso un mese, capisci, un mese dalla data di
quella lettera! E non è colpa mia se non sono venuto prima: tutto
pareva congiurare contro di me: la malattia di tuo padre, il viaggio
lungo, pericoloso. Che sarà avvenuto in questo frattempo di mia
sorella? Sai che ho scritto, ho telegrafato e non ho avuto nessuna
risposta. Ora tu comprendi la mia smania, la mia impazienza; sento
qualche cosa dentro il cuore di peso, di triste, come se mi
sovrastasse una sventura. —
Una lacrima brillava negli occhi neri di Alfonso. Ines l'asciugò con
un bacio.
— Calmati, amor mio, calmati…. — diss'ella colla sua voce
affascinante — vedrai che il Cielo avrà esaudite le nostre
preghiere; Clara starà meglio di noi. Io pure, sai, desidero di
conoscere, di abbracciare questa sorella, che occupa continuamente i
tuoi pensieri, e che mi ruba una parte del tuo amore, perchè tu
l’ami tanto….
— Oh! sì, l'amo, l'amo…. — proruppe il giovane con esaltazione — ma
non debbo io tutto a lei?... Tu conosci bene la mia triste istoria.
Io sono figlio della colpa. Mia madre dimenticando i suoi doveri, si
dètte in braccio ad un uomo, che una mattina fu trovato nel fondo di
un canale con un laccio al collo ed una ferita nel petto. Mia madre
morì di crepacuore; io fui scacciato dalla casa paterna e condannato
inesorabilmente a vivere ignorante, abbrutito, lontano dalla
società. Il marito di mia madre non mi volle riconoscer per suo: io
ho vissuto fino a dieci anni con un capraio, un essere deforme,
selvaggio, brutale, che mi dava più busse che pane, credendo così di
soddisfare al desiderio dell'uomo che mi aveva consegnato a lui. —
Ines conosceva già questi particolari della vita di Alfonso, pure
pareva ascoltarli con molto interessamento. Ella aveva appoggiata la
testa sulla spalla di lui e lo fissava intensamente coi suoi
grand'occhi di zaffiro, divenuti pensosi.
La carrozza correva ancora, ed aveva già alquanto oltrepassata la
porta Romana; era presso le Due Strade.
— Mia sorella che aveva otto anni più di me, — continuò il giovane
lentamente — veniva allevata da mio padre, come una gran signora. Io
non la conoscevo, non l'avevo veduta mai. Un giorno stavo pensieroso
sulla porta della capanna del capraio, quando mi vidi comparir
dinanzi una figura pallida, bionda, con due occhi che parevano due
stelle, un divino sorriso sulla bocca. Nella mia ignoranza, credetti
ad un'apparizione della Madonna, e stavo per inginocchiarmi dinanzi
a lei, quand'ella mi prese fra le braccia e mi baciò piangendo,
chiamandomi fratello. —
Alfonso tacque di nuovo: una lacrima cadde da' suoi occhi sulla mano
d'Ines.
In preda all’emozione del suo animo, il giovane parlava molto più
per sè, che per la sua compagna, la quale se ne stava immobile e
muta.
— Da una lettera scritta da mia madre prima di morire, e confidata
ad un vecchio servo perchè fosse consegnata a Clara quand'ella
avesse compìti i diciotto anni, mia sorella conobbe il segreto della
mia nascita, la mia triste esistenza. Mia madre mi raccomandava a
lei. «Per l'amore che io ti ho portato.... va',» diceva «ricerca tuo
fratello e proteggilo contro le sevizie di tuo padre.» Clara sotto
un'apparenza delicata, nutriva un animo forte e coraggioso. Dal
giorno che ella venne a me, la mia vita cambiò affatto. Clara comprò
coll'oro il silenzio del capraio. Cominciò lei stessa la mia
educazione, mi venne a trovare ogni giorno di nascosto, e sotto varî
travestimenti, per sfuggire alla sorveglianza di mio padre. —
Alfonso interruppe la storia, perchè il fiacchere s’era fermato. Il
giovane sporse la testa dal finestrino e si accòrse che erano in
aperta campagna; ma la strada che percorrevano era piuttosto
stretta, ripida, piena di carri che impedivano il passo. Ci vollero
alcuni minuti prima che la carrozza potesse farsi largo.
L'agitazione di Alfonso era estrema. Egli consultò l’orologio tre o
quattro volte.
— Il tempo passa, — mormorò — mio Dio.... quando arriveremo? —
Ines tentava invano coi suoi sguardi, colle sue carezze di calmarlo.
Ella attirò le mani del giovane sopra il suo cuore.
— Senti come batte, — disse con serietà — non sono meno inquieta di
te…, eppure bisogna aver pazienza: parla…. parla, amor mio, tu sai
quanto ascolto volentieri la tua storia. —
Il fiacchere aveva ripresa la corsa.
Allora il giovane quasi trovasse uno sfogo, un sollievo nel
ricordare le vicende passate, riprese:
— Quando mia sorella si accòrse che ero divenuto meno rozzo, meno
selvatico, che cominciavo a comprendere e ad apprezzare la vita,
combinò un piano di fuga per me, onde potessi recarmi in città a
compire la mia educazione. Il vecchio servitore della mia povera
madre doveva accompagnarmi. Pagammo la complicità del capraio con
altro oro. A mio padre fu dato ad intendere che io ero caduto in un
burrone, ch’ero morto, ed egli non si curò di far ricerca del mio
cadavere, nè versò una lacrima per me. Intanto io studiavo
indefessamente, ed avendo una passione particolare per il commercio
e per i viaggi, mia sorella mi raccomandò ad un ricco negoziante,
che viaggiava spesso per affari e che mi conduceva talora con sè,
perchè vedessi nuove città ed acquistassi maggiori cognizioni. Io e
Clara ci scrivevamo tutte le settimane. Un giorno la sua lettera mi
annunzia il matrimonio di mia sorella con un signore fiorentino.
«L'amo e sono amata,» mi diceva Clara nella sua lettera «mi sento
tanto felice, ma non per questo mi dimenticherò di te.» Difatti
continuò a scrivermi, a mandarmi denari, a proteggermi da lontano;
ma dopo alcuni mesi, le sue lettere dapprima piene di belle
speranze, divennero tristi, sconfortanti. «Ah! io temo pur troppo di
essermi ingannata sull'uomo che ho sposato,» mi scriveva «ho
scoperto in lui dei difetti che mi fanno paura: è debole,
menzognero, caparbio.» Sono stato sei mesi senza mai ricevere nuove
di Clara, poi una lettera listata di nero mi annunziò la morte di
mio padre, che aveva lasciata mia sorella erede di tutto il suo
ingente patrimonio. «Ma noi lo divideremo,» diceva Clara nella sua
lettera «io parto per un lungo viaggio con mio marito: quando
ritornerò spero di vederti al mio fianco.» Passarono due anni, senza
che io avessi nuove di lei: il mio vecchio servitore era morto.... e
fu allora che io venni in Ispagna.... dove ti conobbi, Ines mia....
ti amai.... e l'amor tuo.... mio angelo, fu un vero balsamo per il
mio povero cuore.
— Zitto! — esclamò la bella andalusa facendosi rossa e posando la
sua manina sulle labbra di Alfonso, che vi depose un ardente bacio —
non parliamo di me, ma di lei, così il tempo scorrerà più presto.
— Ah! ben poco mi resta a dire. Mia sorella mi scrisse che era
tornata a Firenze e mi annunziava che era madre di una gentile
bambina, alla quale aveva messo il mio nome. «Voglia il Cielo che
ella ti assomigli,» concludeva la sua lettera «io non vivo più che
per mia figlia, per te; ma le mie idee non sono più abbastanza
lucide nella mia testa, soffro troppo.» Questa lettera, se ti
ricordi, mi spaventò.... mi fece nascere mille sospetti..... e presi
la risoluzione di partir subito.
— Ma non fu l'ultima! — disse Ines con una voce debolissima, quasi
spenta.
— No, — rispose Alfonso con tono cupo.
Poi, come se parlasse fra sè e con voce rotta dall'angoscia:
— L'ultima, — esclamò — fu quella che chiedeva il mio soccorso, ed
io, che ero lontano, arrivo dopo un mese! Ella mi diceva che era
andata in campagna, mi dava il suo indirizzo. La troverò?... Suo
marito sarà con lei? Ah! quell'uomo, quel mostro, che si è
impossessato di una vita così nobile, così angelica, di un'anima
così soave, così pura, per straziarla e per torturarla.... io lo
ucciderò se occorre, per togliere quella povera e santa vittima
dalle di lui mani. —
All'accento con cui furono pronunziate queste parole, Ines trasalì,
si fece pallida e si sentì presa da un terrore involontario, e si
strinse presso all'uomo che adorava guardandolo intensamente, coi
suoi occhioni divenuti umidi.
— Alfonso non parlare così! — disse con voce commossa, soffocata —
mi fai paura. —
In quel momento il fiacchere aveva rallentata la corsa.
Alfonso si affacciò allo sportello e vide da lontano una villetta,
sul cui tetto si ergevano quattro piccole torricelle.
— Credo che siamo arrivati, — disse rivolgendosi alla compagna.
E gridò al fiaccheraio:
— Prendi la strada a destra e va' verso quel muro di cinta. —
La vettura entrò in un sentiero praticato in mezzo alla campagna e
si fermò dinanzi ad un immenso portone, da un lato del quale,
incassata nel muro, era una lastra di marmo, su cui era scritto:
Villa delle Torricelle.
— Sì.... sì, è proprio questa, — gridò Alfonso aprendo a furia lo
sportello e balzando a terra.
Ma al momento di suonare il campanello, fu preso da una violenta
commozione.
— Non so.... — disse con voce soffocata — tremo, si direbbe quasi
che ho paura.
— Ragazzo, — rispose Ines che era rimasta nella vettura — se fai
così ora, come potrai contenerti dinanzi a Clara?... —
Un melanconico sorriso sfiorò le labbra di Alfonso.
— Hai ragione! — esclamò — non è questo il momento di perdere il
sangue freddo. —
E tirò con forza la corda del campanello. Sebbene il portone fosse
lontano quasi un tiro di fucile dalla casa, nonostante si sentì
suonare.
Trascorsero cinque buoni minuti senza che comparisse alcuno.
— Che mia sorella non sia più in villa? — esclamò Alfonso che stava
sulle spine — ma pure qualcheduno ci dovrebbe essere,... è strano
questo silenzio!
— Può darsi che non abbiano sentito suonare. —
Il giovine suonò un'altra volta.
Dopo poco, un passo ineguale, pesante, si udì al di là del portone.
Alfonso sentì tutto il sangue affluirgli al cuore.
— Finalmente, — disse — sapremo qualche cosa. —
Ma invece del portone, si aperse uno sportello, ed apparve la testa
di un contadino.
— Chi suona a questo modo? — chiese bruscamente.
Ma visto il giovine che era fermo dinanzi al portone e la vettura
che aspettava, si tolse il cappello che aveva in capo ed in tono
umile:
— Chi cerca il signore? — aggiunse.
— Non è questa la villa del conte Rambaldi?
— Sissignore, ma il signor conte è partito fino da ieri sera,...
dopo i funerali. —
Alfonso fu preso da un forte terrore, e si sentì come un cupo ronzìo
nelle orecchie.
— I funerali.... — ripeté. — Dunque è morto qualcuno nella villa?
— Sissignore: è morta la signora contessa.... —
Alfonso mandò un grido terribile.
Ines balzò dal legno per correre a lui.
— Oh! — esclamò ella vivamente — non lo credere, Alfonso.... è
falso.... è falso.—
E guardò con occhio lampeggiante il contadino; ma questi, che non
capiva nulla di tutta quella scena, esclamò:
— Nossignore…. non è falso..... la signora contessa è morta l'altra
notte, e ieri ci furono i funerali. —
Alfonso mandò un sospiro, accompagnato da un altro grido di
disperazione e cadde a terra. Ines si gettò sul giovane piangendo e
chiamandolo coi più dolci nomi.
Alfonso rimaneva immobile, ghiacciato.
— Bisognerebbe portarlo in casa, signora…, — disse il fiaccheraio
che era sceso da cassetta.
Intanto il contadino aveva spalancato il portone a due battenti, e
si era avanzato al di fuori.
Dietro a lui venivano alcune donne, che guardarono, commosse, la
pietosa scena.
— Ma chi è quel signore? — chiese una di esse.
Ines la sentì, ed alzò il capo.
— Quello è mio marito, fratello della contessa Rambaldi, — rispose.
— Presto.... datemi dell'acqua, dell'aceto…. qualche cosa che possa
farlo rinvenire.
— Prima sarà meglio portarlo in casa, — propose di nuovo il
fiaccheraio.
Anche gli altri furono dello stesso parere, e con molta premura
aiutarono a sollevare quel povero corpo, che non dava più segno di
vita; indi presero in silenzio la strada della villa, seguìti da
Ines che singhiozzava come una bambina.
II.
La villa dei conti Rambaldi era in uno stato di decadimento
impossibile a descriversi. Al pianterreno, nel centro della
facciata, v’era una porta con gli scalini tutti sconnessi; la
cornice di quella porta aveva preso un colore grigiastro, ed i
battenti di noce tempestati di chiodi d’acciaio, avevano acquistato
il medesimo colore della pietra.
Al disopra della porta v’era un balcone sostenuto da due cariatidi,
e sopra a quello un enorme blasone, quasi per intiero rovinato.
Ma se la facciata della villa presentava tanti guasti, l'interno era
abbastanza fresco e delizioso: i mobili erano moderni, disposti con
un gusto squisito; le muraglie coperte di quadri dipinti da mano
maestra, i tappeti assai morbidi e ricchi.
Alfonso fu trasportato con molta circospezione in una camera a
pianterreno e posto sul letto.
— Bisognerebbe fargli respirare dei profumi, — consigliò una
contadina.
— Eccoli…. eccoli! — esclamò vivamente Ines aprendo la sua
valigietta, da cui trasse una boccia di cristallo, orlata di una
borchia d'oro piena di profumi, e la pose sotto le nari del marito.
Quasi tosto il giovine fece un leggiero movimento: i suoi occhi si
riaprirono a metà. Ines mandò un'esclamazione di gioia e sollevando
la testa adorata del suo Alfonso, la coprì di baci appassionati.
— Guardami.… guardami, amor mio..... sono io, la tua Ines. —
Le palpebre del giovine si sollevarono intieramente, ma le pupille
rimanevano velate: guardavano senza distinguere. Tuttavia quella
nube si dileguò a poco a poco: Alfonso parve che avesse una lieve
percezione di ciò che accadeva dintorno a lui; voltò il capo dalla
parte di Ines, cercando senza dubbio di raccogliere le proprie idee
e di rendersi ragione del luogo e delle persone con cui si trovava.
Bentosto le sue labbra si aprirono, e pronunziarono un nome.
— Clara.
— Egli chiama la signora contessa, — disse una contadina.
— Silenzio! — esclamò Ines con vivacità — la sua vita ritorna.…
— Sarebbe bene, signora, che ella gli facesse prendere un po' di
questo vin vecchio, — disse una contadina offrendo alla bella
andalusa una coppa piena di un liquore color d’ambra e un cucchiaio
d'argento.
— Grazie, mi proverò…. — rispose Ines.
E bagnò dapprima le labbra del giovane, poi con una delicatezza
ammirabile introdusse nella bocca di lui alcune gocce di quel
ristoro.
Il viso pallidissimo di Alfonso si colorì subito di un rossore
fuggitivo, i suoi occhi incerti si fermarono sul volto della moglie,
e sorrise.
— Ines..... mia Ines..... sei tu? Dove siamo?
— In casa di amici, càlmati, cerca di riposare. —
Ma il giovane scòrse in quel momento fra le tende della finestra la
testa del contadino che era apparsa allo sportello del portone, e la
sua memoria si ridestò.
— Mi ricordo..... mi ricordo…. — rantolò in preda ad uno spasimo che
lo scuoteva dal capo alle piante. — Clara è morta, me l'ha detto
quell'uomo, è morta!... —
E ruppe in strazianti singhiozzi.
Ines non osò turbare lo sfogo del suo dolore: piangeva con lui.
Dopo un poco, Alfonso si calmò: la crisi era passata e il giovine
cercava di riordinare le proprie idee.
Egli fece cenno al contadino di avvicinarsi.
— Raccontami tutto quanto è successo…. di che malattia è morta?...
quando?… Dimmi tutto.… ti regalerò dei denari, quanti ne vorrai. —
Il contadino voltava e rivoltava il cappello a cencio che teneva fra
le mani.
— Io so poco, signore, perchè vedevo di rado la contessa, ma mia
moglie l'ha assistita, e le può dare tutti i ragguagli che vuole.
— Che venga dunque subito tua moglie. —
Una delle contadine che era entrata nella stanza e si teneva
nascosta in un angolo, si avanzò.
— L’ho assistita io, signore, — disse rossa e confusa. — La signora
contessa da qualche tempo stava poco bene e venne quassù in campagna
per rimettersi. Noi non la riconoscevamo più, dagli anni passati:
era venuta bianca come la carta da scrivere e i suoi occhi grandi
luccicavano come cristalli. Ma aveva conservato sempre quel sorriso
così bello, che faceva piacere a vederla.
— Suo marito era qui con lei? — chiese Alfonso con
voce soffocata.
— Nossignore, non è venuto che l'altra sera, quando la signora
contessa stava male.... e dopo che il curato le aveva dato l'olio
santo. —
Alfonso si morse le labbra fino a sangue e strinse i pugni. Ines
piangeva in silenzio.
— Qual dramma è mai successo! — esclamò — qual mistero si cela nella
morte di mia sorella? Ed ella non ha lasciato nulla.... nulla che
possa fornirmi un indizio!
— Domando scusa, signore, — interruppe la contadina — la signora
contessa prima di morire, ebbe la forza di scrivere tre lettere....
e forse una di queste era diretta a vostra signoria.
— Dove sono queste lettere?
— La signora contessa mi fece giurare che io le avrei impostate
appena ella avesse chiusi gli occhi..... ed io ho adempito al
giuramento.
— Maledizione! — mormorò Alfonso fra i denti.
Ed a voce più alta:
— Dimmi, come avvenne la morte di lei?
— Ecco: Giovedì la signora contessa stava più male del solito,
nonostante volle alzarsi e fece attaccare la carrozza, dicendo che
voleva portare la sua bambina a fare una passeggiata. Salì difatti
in carrozza con la signorina e la governante, ma questa ci disse poi
che la contessa aveva dato l'ordine al cocchiere di condurle in
città, al suo palazzo, ed era smontata sola.… Un'ora dopo, quando
uscì dal palazzo per risalire in vettura, la governante fu
spaventata vedendo la signora contessa pallida come un cadavere, con
gli occhi gonfi e rossi come se avesse pianto. Invece di tornar
subito alla villa, ella si fece condurre dal notaro; anche lì smontò
sola, salì nello studio di lui e vi si fermò una mezz'ora. Il notaro
l'accompagnò egli stesso fino alla carrozza dicendo che si avesse
riguardo. La sera medesima la signora contessa andò a letto con la
febbre, ma non volle che nessuno vegliasse accanto a lei. La
governante della bambina ci disse che dopo la mezzanotte
svegliandosi, le parve di vedere la signora contessa presso il
letticciuolo della signorina; ma credette d'aver sognato. La mattina
io andai in camera della signora contessa, come mi aveva detto il
giorno prima e la vidi stesa nel letto come una morta. La chiamai:
non mi rispose. Allora corsi a chiedere aiuto. «La signora muore!»
gridai «si direbbe anzi che è morta: correte a chiamare il medico,
il curato, ed avvisate il signor conte!» Poi tornai dalla contessa e
cercai di recarle qualche soccorso, le strofinai le tempie con
l'aceto.... ed ella aperse gli occhi, mi guardò, sorrise, ma non
poteva parlare, nè fare alcun movimento. Venne il medico, poi il
prete, ma non c'era da farle nulla: la signora contessa pareva
divenuta di marmo: aveva ancora gli occhi aperti e quando le portai
la bambina da baciare, vidi una lacrima grossa grossa scorrere sul
viso della signora. Più tardi venne il signor conte: la signora
aveva chiuse le palpebre, ma respirava ancora: il signor conte la
chiamò per nome e le baciò la mano, che aveva stesa sulla coperta.
Allora vedemmo la signora scuotersi tutta..... aprire di nuovo gli
occhi e fissarli sul conte con un'espressione che non dimenticherò
mai più.... la udii mandare un grido angoscioso, e tutto fu finito.
La povera signora era morta! —
La contadina terminando il suo racconto, aveva il viso inondato di
lacrime. Ines pure piangeva.
Alfonso era in uno stato da far pietà: un singhiozzo convulso gli
straziava il petto; fra le dita increspate teneva un fazzoletto di
tela che aveva a metà lacerato.
— Morta! — esclamò — morta senza che io potessi vederla,... senza
avere avuto il suo ultimo sguardo, il suo ultimo bacio; morta
lontana da me, forse chiamandomi, forse pensando che io fossi un
fratello ingrato,... che mi fossi dimenticato di lei!... Ed è
proprio finito tutto, non è vero? Non vi è più speranza? —
Nessuno osò rispondere a quella triste e folle domanda.
Ines cercava calmarlo colle sue carezze, ma il giovane si svincolò
ad un tratto da lei, e balzando dal letto su cui era stato deposto
intieramente vestito:
— Voglio vederla!... — esclamò — sì, vederla.... almeno una volta
ancora. Dove è stata seppellita?
— Non è stata ancora seppellita, signore, — rispose la contadina —
perchè la tomba acquistata dal signor conte per la signora non è
ancora ultimata: la cassa dove hanno rinchiusa la signora è in
deposito nella cappella mortuaria dell'Antella. —
L'occhio di Alfonso scintillò.
— Potrò dunque vederla? — disse tentando di fare alcuni passi; ma
barcollò e sostenuto da Ines fu costretto a sedere sul sofà.
— Sì, tu la vedrai…. — disse la giovine accarezzandolo come un
bambino — la vedremo.… ma prima mettiti in calma..... prendi qualche
cosa che ti dia forza. —
Alfonso si passò una mano sugli occhi.
— Hai ragione...., lo voglio pur io.… perchè ho bisogno di riprender
coraggio.
— Vado subito a preparargli un cordiale, signore!… — esclamò la
contadina — ed anche lei signora ha bisogno di sostenersi. —
Due grosse lacrime scorsero sulle gote di Ines.
— Oh! per me non ci pensate; — dichiarò — ditemi piuttosto se il
fiaccheraio aspetta ancora.
— Sissignora, è là fuori; debbo licenziarlo?
— No..... oh! no..... — disse Alfonso — perchè dovrà condurci al
cimitero; ditegli che aspetti, fate entrare il legno nella rimessa,
date da mangiare al fiaccheraio, pagherò tutto, tenete. —
E trasse dalla tasca interna del soprabito una borsa di seta, che
porse alla contadina.
Questa voleva rifiutarla, ma Ines le rivolse uno sguardo così
commosso, così pieno di preghiera, che la contadina, arrossendo,
l'accettò.
Ella uscì dalla stanza, seguìta dagli altri che avevano assistito in
silenzio a tutta la scena. Alfonso ed Ines rimasero soli. Senza dire
una parola, comprendendosi con lo sguardo, i due giovani si
gettarono l'uno nelle braccia dell'altra, e per qualche minuto
mischiarono i loro singhiozzi, le loro lacrime.
— Ah! lo prevedevo! — esclamò per il primo Alfonso — sai che ne
avevo il presentimento....
— Povera Clara! — mormorò Ines con un sospiro debole come un soffio.
Ella strinse le mani del marito che ardevano.
— Ma tu hai la febbre? — disse spaventata.
— Non è nulla… sarà la fatica del viaggio precipitoso…. e con tutto,
non siamo giunti in tempo.
— Ma il tuo stato peggiorerà, se rivedrai la povera morta.
— No.... vedi, questo è il solo rimedio che mi possa guarire:
bisogna che io la veda, mi pare che ella mi chiami ancora, benché
morta: se io non dovessi baciarla, chiederle perdono di non essere
giunto in tempo, non dormirei più, impazzirei. Tu mi dici che ho la
febbre..... no; la mia mente è lucida,... pure vedo dinanzi a me la
figura di Clara.... mi sembra che ella mi chiami, che ella mi dica:
«No, non sono morta, fratello vieni, ti aspetto.» Bisogna che mi
assicuri coi miei occhi della verità, bisogna che io tocchi la sua
fronte di marmo, che io veda quei suoi dolci occhi chiusi, perchè
creda che la sua anima non sia proprio più su questa terra. Mi
sembra che anche da morta abbia qualche cosa da dirmi, da
raccomandarmi. —
Ines era spaventata di quelle parole, che attribuiva al delirio
della febbre.
— Non puoi rimettere a domani questo tuo divisamento? — mormorò
timidamente — una notte di riposo ti calmerà, ti darà più forza. —
Gli occhi di Alfonso lanciavano scintille.
— Che io aspetti a domani? E sei tu che me lo dici, Ines? Ma non sai
che se io non la rivedessi stasera, diventerei pazzo? Forse sarà
l'effetto della febbre che mi arde, del dolore che mi tormenta; ma,
ti ripeto, dovessi morire sopra la cassa che racchiude quel corpo
adorato, io la vedrò, la voglio vedere! —
Si capiva che la risoluzione del giovine era irrevocabile. Ines non
insistè.
— Ebbene.... — disse con voce soffocata — fai quanto credi, amico
mio: io non ti abbandonerò.
— Ah! tu sei il mio buon angelo,... grazie, Ines, grazie della tua
abnegazione; ma io non voglio che tu soffra, anderò solo.…
— E tu lo pensi? — disse la giovine con esplosione. — No..... io
sono forte..... non ti lascerò.... un momento; voglio veder anch'io
tua sorella.... —
Alfonso era così commosso, che non seppe rispondere.
In quel mentre tornò la contadina per avvisarli che la tavola era
pronta.
Alfonso ed Ines, preceduti dalla buona donna, passarono nella stanza
vicina; ma i due giovani non poterono inghiottire che alcuni
bocconi, perchè il dolore chiudeva loro la gola, tanto che in alcuni
momenti si sentivano soffocare. Bevvero però entrambi un bicchiere
di vino generoso, che già aveva prodotto tanto effetto sul giovane,
e che infatti fece scorrere liberamente il sangue nelle loro vene, e
infuse loro un po' di forza.
Quando Alfonso si alzò da tavola era sempre orribilmente pallido, ma
sembrava calmo.
Sorrise ad Ines, e le strinse una mano.
— Dobbiamo andare? — chiese debolmente.
— Io sono pronta, amico mio, — disse la giovane sposa.
Il fiaccheraio li aspettava. Il cavallo si era riposato ed aveva
mangiato della buona avena: lui stesso era stato servito a dovere
dai contadini, ma era rimasto così commosso dalla scena accaduta
sotto ai suoi occhi, che gli era passato l’appetito, e mangiò per
semplice compiacenza.
Nanni, così si chiamava il fiaccheraio, aveva una trentina d'anni,
era piuttosto piccolo di statura, ma nell’insieme, si poteva dire un
bel giovinotto. Ciò che lo distingueva fra gli altri, erano le sue
maniere gentili, educate.
Nanni sentì subito una viva simpatia per i due giovani viaggiatori
che aveva caricati alla stazione, e gli vennero quasi le lacrime
agli occhi quando Alfonso cadde svenuto, e quando la contadina
l'avvisò che il viaggiatore voleva recarsi all'Antella per rivedere
la povera contessa.
— Guarda che combinazione! — esclamò Nanni — io sto appunto da
quelle parti, e mio zio è il custode del cimitero. —
Ripeté questo anche ad Alfonso e ad Ines, mentre i due giovani
salivano in vettura.
— Di qui è un po' lontano, — aggiunse — e arriveremo laggiù che sarà
quasi notte; ma m'incarico io di far passare le loro signorie, e poi
se non si sentono di ritornar qui, posso offrir loro alloggio a casa
mia. Vivo con mia madre, sono povero,... ma la casetta è pulita e
non mancheranno di tutti i riguardi. —
Ines ed Alfonso furono commossi da siffatte parole dette con tanta
semplicità e schiettezza.
— Ah! come sono buoni gl'italiani! — esclamò la giovine spagnuola
con sincero entusiasmo — qual gentilezza anche nelle persone del
popolo! Grazie, amico mio, delle vostre offerte; grazie, non
mancheremo di accettarle, se farà bisogno. —
Il fiaccheraio risalì contento a cassetta, e, prese le redini,
eccitò il cavallo alla corsa.
Alfonso ed Ines erano ricaduti nei loro dolorosi pensieri.
Di tanto in tanto la giovine tentava di rivolgere qualche parola al
suo compagno, ma egli non rispondeva; si contentava di stringerle
nervosamente le mani, e di quando in quando il suo petto si
gonfiava, il sangue gli montava agli occhi, ma le lacrime non
comparivano.
E gli sarebbe stato così di sollievo il piangere!
Il viaggio parve assai lungo per i nostri due giovani; ed a mano a
mano che s’avvicinavano al cimitero, il tremito di Alfonso
aumentava, e un brivido ghiacciato gli scuoteva tutta la persona.
Le ombre della sera scendevano a poco a poco sulla terra, e nel
cielo terso e purissimo, cominciava a diffondersi il pallido e
debole chiarore della luna; al rumore della vettura, qualche porta
di casolare si schiudeva, e gli abitanti comparivano sulla soglia
per ritrarsi quasi subito.
Finalmente il cavallo cominciò a perdere della sua lesta andatura, e
dopo una mezz'ora si fermò dinanzi alla porta chiusa del cimitero.
— Ci siamo, — disse Alfonso, facendosi livido in volto.
— Coraggio, amico mio.... coraggio…. — proruppe Ines, divenuta
pallida essa pure.
— Ne avrò, non dubitare.… —
Nanni era sceso da cassetta ed aveva tirato il campanello del
custode.
— Aspettino un momento a scendere, — disse intanto ad Alfonso che
stava per aprire lo sportello — prima parlerò io con mio zio. —
Passarono cinque buoni minuti innanzi che fosse risposto.
Il fiaccheraio stava per suonare di nuovo, quando il portone si
aprì, ed un uomo in maniche di camicia si affacciò.
— Chi viene a quest’ora nel ritiro dei morti, a disturbare i vivi? —
chiese con tono brusco e malevolo.
— Sono io, zio, — rispose Nanni — vi ho condotto dei signori, che
vogliono vedere il cimitero.…
— A quest'ora è proibito,... e non posso fare eccezioni.
— Ma le farete per me:... non vi ricordate più di quello che mi
diceste, quando vi salvai il figliuolo, buscandomi una coltellata in
vece sua? —
La voce del custode prese un accento quasi commosso.
— Non lo dimentico, — rispose — ti ho detto che in qualunque
occasione tu potevi far capitale di me,... che ti avrei data anche
la vita....
— Non ti chiedo tanto,... mi basta che tu acconsenta a fare entrare
questi forestieri che ti ho portati.
— Ma che vogliono fare a quest'ora? Hanno forse qualche tomba da
visitare?
— Non una tomba, ma una morta, — disse in tono più sommesso il
fiaccheraio.
Il custode trasalì.
— Una morta?… Non ti comprendo.
— Mi comprenderai, quando ti dirò che il forestiero che ti conduco è
il fratello della contessa Rambaldi che hanno portata qui ieri
sera…. Ma via…. meno ciance.... possono entrare?
— Sai che non posso ricusarti nulla. —
Nanni si affrettò a spalancare lo sportello della vettura ed aiutò i
due giovani a scendere.
— Io aspetto qui fuori, — disse intanto — se hanno bisogno di me,
sono ai loro ordini. —
III.
La luna era salita a poco a poco sull'orizzonte, ma i suoi raggi
erano ancora troppo deboli per rischiarare la cupa ombra dei
cipressi e mandava soltanto una luce pallida, velata, misteriosa
sulle tombe di pietra e di marmo, alcune abbandonate, altre coperte
di ghirlande e di fiori.
Se qualcuna delle mie lettrici ha visitato un cimitero di notte, sa
quale triste e funebre impressione se ne riceve. Il solenne silenzio
che regna in quel luogo, sacro al riposo dei morti, i grandi alberi,
le croci mortuarie, tutto è propizio alle più folli e deliranti
visioni.
Là è la morte: davanti, di dietro, al nostro fianco, sotto i nostri
passi, sotto l'erba che calpestiamo; è impossibile sottrarsi al suo
pensiero. Anche l'uomo più forte, più scettico trema, si sente il
cuore stretto da una gelida pressione. I monumenti assumono ai
nostri occhi un aspetto strano, fantastico, bizzarro; ombre vaghe,
sfumate, sembrano librarsi dinanzi a noi, fra le tombe, nell'aria;
un sudor freddo scorre per tutto il corpo, le labbra diventano mute.
Tale impressione non mancò di provare Ines, mentre stretta al
braccio del compagno, seguiva il custode sotto i loggiati del
cimitero. Ella soffriva molto, la giovine donna, ma i suoi occhi
erano privi di lacrime, il suo volto si manteneva calmo.
Alfonso rivolgeva attorno sguardi inquieti, smarriti; sulle sue
guance erano due macchie di un rosso ardente, le labbra aveva
livide.
Ines sentiva di quando in quando scuotersi convulsivamente il
braccio del suo compagno, come se alcuni brividi l'avessero
investito. Ella lo guardava atterrita, ed egli, come se avesse
compreso quello sguardo supplichevole, pietoso, tentava un sorriso;
ma quel sorriso era così straziante, così amaro, che strappava le
lacrime.
Il custode solo si mostrava indifferente. Egli camminava senza
riguardo per le corsìe in mezzo alle tombe, agitando un mazzo di
chiavi che aveva appese alla cintola. Fatto il giro del loggiato,
volse a destra e dopo pochi passi si fermò dinanzi ad una porta di
legno scuro, che aveva nel mezzo dipinta una gran croce bianca.
Era la porta della cappella, dove era stata posta provvisoriamente
in deposito la cassa, che conteneva le spoglie della contessa
Rambaldi.
Ines si sentiva il cuore strinto come in una morsa. Alfonso trasse
fuori un fazzoletto per asciugarsi il viso, irrigato da grosse gocce
di sudore.
Il custode aveva aperta la porta.... ed era entrato per il primo. I
due giovani lo seguirono.
La cappella era debolmente illuminata da una lampada ad olio appesa
al muro, ed a quel chiarore vacillante potevasi appena discernere
una specie di tavola quadrata, su cui era posata una cassa di legno
di noce, con maniglie e borchie dorate.
— Eccola là, — disse a bassa voce il custode.
Alfonso fece un balzo come se avesse subìta una scossa elettrica e
strinse la mano di Ines con una tal forza, che ci volle tutto il
coraggio della giovine donna per non mandare un grido di dolore.
Il custode era ritornato sulla porta.
Ines guardò Alfonso temendo che egli soccombesse alle commozioni che
l'agitavano, ma il giovane teneva gli occhi fissi, spalancati sulla
cassa.
— Ella…. è là.... là.... vicino a me…. — balbettò — ma quel
coperchio mi toglie la vista del suo viso.… Clara.… io…. io voglio
vederti….— .
Ines si era avvicinata al custode e tirò fuori dalla valigietta, che
aveva portato con sè, una borsa con dei denari.
— Quest’è per voi, — disse a bassa voce — se acconsentite al
desiderio di mio marito; fategli vedere sua sorella.
— Ma io non posso,... non posso!
— Oh! non siate così crudele…. voi siete padre.... se la morte vi
rapisse un figlio diletto.... non desiderereste vederlo più e più
volte, prima che la terra ricoprisse per sempre le sue spoglie? —
Il custode s'inteneriva. Ines se ne accòrse e facendogli scorrere
destramente la borsa in mano:
— Suvvia, siate buono! — esclamò. — Dio vi ricompenserà più di
quello che io possa fare! —
Due grosse lacrime caddero sulle rozze gote del custode.
Egli si avvicinò, senza far parola, alla cassa, e cercando
dolcemente di allontanarne Alfonso:
— Aspetti, — disse — che l'apra, così potrà rivedere la sua povera
sorella. —
Oh! quanta passione, quanta ineffabile tenerezza apparve sul viso
poc’anzi impietrito del giovane, a quelle parole del custode! Sulle
guance livide gli ritornò il sangue, e gli occhi ardenti, asciutti
gli s'inondarono di pianto.
— La rivedrò…. la rivedrò.... — disse a voce sommessa, ardente,
quasi credesse di sognare.
Il custode aveva con lentezza fatte girare le viti della cassa, e
senza alcun sforzo, ne sollevò il coperchio.
Un gran velo bianco copriva il cadavere. Il custode l'alzò con una
delicatezza ed un rispetto, strani in un uomo del suo mestiere, e
scoperse la pallida e bella figura della contessa.
Alfonso ed Ines congiunsero le mani, e per qualche minuto il loro
dolore parve tacere, davanti alla serenità di quella figura, che
dormiva del sonno tranquillo, solenne della morte.
La contessa era vestita tutta di bianco: i suoi capelli sparivano
sotto una cuffia di trina, che le scendeva fino sulla fronte: al
collo aveva una croce di brillanti attaccata ad un nastro celeste.
Ella era bella di una celeste purezza, e sotto quelle trine candide,
con quel vestito bianco, pareva una vergine assopita nei pensieri
del cielo.
Il viso era pallido, dimagrato, ma non aveva quella lividezza
spaventosa, propria dei cadaveri. Nessuno, vedendola, avrebbe
creduto alle sofferenze che furono il preludio della di lei morte.
Uno sguardo sembrava scivolar fuori dalle pupille semichiuse; dalle
labbra aperte ad un principio di sorriso, sembrava uscire ancora una
parola di amore, di addio, per i suoi cari.
— Com'era bella! — mormorò Ines portandosi il fazzoletto agli occhi.
— Bella e buona, — disse Alfonso con un brivido.
E scuotendosi dall'estasi che l'aveva per un istante dominato, si
gettò piangendo su quell'adorato cadavere.
— Clara…. mia Clara.... — diceva singhiozzando — eccomi a te di
ritorno,... ma tu non mi vedi,... non odi il tuo povero fratello che
ti è vicino; tu sei morta pensando che io t'avessi dimenticata,…
morta scrivendo…. e pronunciando il mio nome…. Clara…. o mia
Clara.... —
Le lacrime gli scendevano in copia sulle guance.
— Sei pur bella!... — continuò — ma Dio solo vede ora i tuoi dolci
sorrisi.… Oh! Clara.... dimmi chi ti ha resa infelice sulla terra,
chi ti ha fatto morire così giovane?… parlami.... parlami.… sono
Alfonso, il tuo fratello che amavi tanto….—
S'interruppe con un palpito angoscioso, e le braccia indebolite gli
caddero penzoloni lungo il corpo.
Ines cercò di sorreggerlo, di trascinarlo lontano.
Ma egli si svincolò da lei. Pareva non potersi saziare di guardare
quel cadavere; egli s'ostinava a credere che colei che aveva tanto
amato non poteva essere morta, e che forse stava per risvegliarsi.
Era sì bella ancora quella morta! V’era ancora tanto fàscino in
quelle purissime forme, nella delicata posa! Possibile che l'anima
di lei, fosse svanita intieramente nello spazio, e non rimanesse
ancora in quel corpo reso inerte, un soffio di vitalità!
Le pupille di Clara non avevano il colore vitreo, appannato, oscuro,
che sogliono prendere gli occhi degli estinti.
Alfonso le guardava e gli pareva che esse ricambiassero i suoi
sguardi. Eppure quelle pupille erano immobili, come la fronte di
Clara era ghiacciata.
Ma il giovane non sapeva staccarsene.
— Ah! se Dio volesse.... se Dio volesse, — mormorava come in
delirio. — Clara.... Clara.... guardami ancora,... dammi un
bacio.... un bacio solo.... per mostrarmi che mi hai perdonato. —
Ed appoggiò le sue labbra ardenti sulle labbra della povera morta.
Ma allora gettò un grido, che risuonò lungamente in tutta la
cappella e si alzò barcollando come un ubriaco, coi capelli
scomposti, gli occhi sbarrati.
— Le sue labbra si sono mosse! — esclamò. — Ella mi ha baciato....
ella è viva.... sì, è viva! —
Ines e il custode credettero che Alfonso divenisse pazzo, e si
avvicinarono; ma appena ebbero gettato uno sguardo sul cadavere,
essi pure divennero pallidi quasi come quello.
Le labbra della morta si erano aperte ed avevano acquistato un
leggerissimo color di rosa; la luce che scivolava dalle ciglia
socchiuse di lei, si era fatta più brillante.
— Che sia viva davvero? — pensò il custode sbalordito. — Fededdina,
sarei in un bell'imbroglio!
— Sì.... è viva.... è viva, — rispose Alfonso.
E con atto subitaneo aprì l'abito della morta e le pose una mano sul
cuore. Il cuore non batteva.
Egli appoggiò allora la testa sul petto di lei, e gli parve di
sentire come una impercettibile pulsazione.
Appoggiò di nuovo le sue labbra alla bocca di Clara, e quelle labbra
ebbero un leggiero brivido.
— Bisogna levarla subito di qui! — esclamò Alfonso cercando di
dominare la sua estrema agitazione — ella non è morta.... vi ripeto,
mi ha baciato ancora! —
Un brivido di ghiaccio percorse le vene del custode.
— Ma se v'ingannaste!? — balbettò — se qualcuno venisse a
scoprire....
— Nessuno saprà nulla....
— Ma io non posso trasportare la morta in casa mia — disse il
custode esitante — ho moglie e figliuoli, ed una sola camera. —
Alfonso aveva ripreso il suo sangue freddo.
— Ascoltatemi, — disse brevemente — non ha detto vostro nipote che
abita qui vicino, in una casetta isolata?
— Sissignore.... abita una casetta solo con la madre, ma non tanto
vicino; è di là dal ponte a Ema.
— Bene, questo non importerebbe; la sua carrozza ci trasporterà.
— Ma questa cassa, che domani debbo mettere nella fossa.....
— E vorreste seppellire una donna viva?! —
Il custode chinò il capo confuso.
— Verrà qui il conte Rambaldi? — chiese Alfonso vivamente.
— Nossignore, ha dato a me l'incarico di tutto, e mi ha pagato
anticipatamente. —
Alfonso mandò un'esclamazione di gioia, mentre ricambiava un rapido
sguardo con Ines.
— Tutto va per il meglio adunque.... nessuno saprà quanto qui
succede,... voi terrete il segreto con tutti: ve lo pagherò a prezzo
d'oro; metterete nella tomba la cassa vuota.
— Ma non vedete che la signora contessa non si muove.... essa è
proprio morta, e voi siete vittima di un'allucinazione!? —
Le parole del custode erano ferme, ma la voce tremava.
— No.... non è morta.... non è morta, vi ripeto! — esclamò Alfonso
prendendo una gelida mano di Clara e inondandola di lacrime.
— E vorreste seppellirla con questo dubbio? — disse a sua volta Ines
con un singhiozzo che straziava il cuore.
Il custode commosso dalla terribile insistenza di quel dolore, e
forse forse temendo della verità di quelle supposizioni, disse:
— Ebbene, ammettiamo che non sia morta…. dove vorreste condurla?
— A casa di vostro nipote, ve l'ho detto.... egli è un bravo
giovinotto.... manterrà il segreto con tutti. —
Il custode era in una terribile alternativa.
— Oh! non mi dite di no, — aggiunse il giovane supplichevole — voi
non correte alcun pericolo, ve lo giuro, e poi se avete timore, io
vi darò tanto denaro da assicurare il vostro avvenire, quello della
vostra famiglia....
— Basta.... basta, signore.... non è già l'interesse che mi spinge a
giovarvi: ma si è perchè mi viene il dubbio che la povera signora
non sia morta.... Farò quanto vorrete.... ma segretezza.... per
segretezza.
— Sul mio onore, nessuno saprà quanto è successo, — disse Alfonso
portandosi una mano sul cuore.
— Ma se fosse morta davvero?
— Sul mio onore vi giuro che vi riporterei.... con lo stesso
mistero, il cadavere.
Il custode era vinto.
— Aspettatemi qui un momento, — disse — vado ad avvisare mio nipote.
—
Ed uscì in fretta dalla cappella.
— Dio mi ha ispirato! — esclamò Alfonso, sollevando il corpo di
Clara fra le sue braccia, e stringendolo come forsennato al seno.
Ines, rabbrividiva.
— Io temo, povero Alfonso, che tu t'illuda; le sue mani sono di
ghiaccio.
— Ma ella non è morta!
— La sua fronte è di marmo.
— Ma ella vive, ti ripeto; lo sento…. e mi pare che m'intenda, mi
pare che il cuore suo palpiti sul mio. —
Mentre così parlava, il custode ritornò insieme col fiaccheraio.
Questi era pallido in volto come un lenzuolo, ed aveva gli occhi
pieni di lacrime.
— Mio zio mi ha detto tutto.... davvero, signore, la povera morta
vive?
— Sì.... io lo spero.... lo spero, perchè Dio è buono;... ma
affrettiamoci; ella potrebbe tornare in sè e sarebbe terribile, per
lei, che si trovasse qui. —
Con molta attenzione, la povera contessa che continuava a rimanere
immobile, rigida come un cadavere, fu trasportata nella vettura. A
quell'ora la strada era deserta, e nessuno avrebbe immaginato la
scena compiuta nel cimitero.
Quando la carrozza fu partita, portando seco la giovane coppia e la
povera morta, il custode riprese la via della cappella col capo
chino e le mani incrociate dietro le reni. Egli chiedeva a sè stesso
se non aveva sognato.
— Che la morta sia viva davvero?... — mormorava — oh! sarebbe
strana,... ma sarebbe anche più orribile a pensare che se non era
quel signore, suo fratello, la povera contessa domani sarebbe stata
sepolta viva. Brr.... mi vengono i sudori freddi nel pensarci. Del
resto nessuno saprà mai questo segreto.... Al conte poco importa di
sua moglie, tanto è vero che ha lasciato a me la cura di tutto....
quel conte mi sembra un poco di buono, e mi ha fatto una brutta
impressione la prima volta che l’ho visto.... Gridò, perchè la tomba
non era ancora preparata: che volesse proprio seppellir viva la
moglie?... uhm! non sarebbe difficile.... ed io sarei stato il
complice di un assassinio? Ah! il fratello della signora contessa,
quello ha davvero il viso di galantuomo, e ci si può fidare di
lui.... Ma che cosa sono tutte quelle ombre che vedo stanotte?...
Non so perchè mi tremano le gambe, ed ho degli scrupoli. Che qualche
volta senza volerlo, io abbia seppellite delle persone ancora vive?
—
Egli diceva tutto ciò fra sè, mentre si guardava attorno molto
sconsolato. Tonino era sempre stato un uomo forte e positivo, non
aveva mai creduto agli spettri, ma in quella notte si sentiva
agitato da brividi strani. Gli pareva di veder proiettarsi delle
ombre sulle bianche pietre, gli pareva veder aprirsi delle tombe ed
uscirne dei fantasmi avvolti nel lenzuolo funebre e che tendevano
verso di lui le braccia, dicendo con una voce che non aveva nulla di
umano: .
— Anche noi ci seppellisti vivi. —
E qui mi si permetta una breve digressione.
Non è raro il caso che una persona venga seppellita come morta,
mentre di morta non ha che l'apparenza. Avrei molti e molti esempî
da citare, ma ne basti uno solo a dimostrare che non bisogna aver
troppa furia nel seppellire i cadaveri, specialmente quando la loro
morte è avvenuta improvvisamente, non bastando talvolta la
constatazione del medico. Quanti medici, ed anche celebri, si sono
ingannati ed hanno fatto seppellire dei morti ancora vivi! Oh! se
tutte le tombe potessero dischiudersi,... se potessero parlare! Ma
le tombe sono mute, e la terra ricopre i più orribili misteri.
In una città d'Italia era morta improvvisamente per sincope una
giovane bellissima, sposa da un anno ad un ricchissimo industriale,
che l'amava perdutamente.
Egli stesso volle comporre la cara spoglia nella cassa mortuaria, e
nel vedere quelle sembianze così serene, così pure, che la morte non
aveva alterate, pareva non sapesse staccarsene e diceva che era
impossibile che quella bella, splendida creatura, la quale due
giorni prima era tuttora piena di vita e di salute, fosse ridotta in
poche ore cadavere.
Ma i medici avevano constatata la morte, ne avevano autorizzata la
sepoltura. Il marito aveva vegliato per le intere quarant’otto ore
regolamentari vicino al corpo della defunta, illudendosi sempre,
persuaso che ella dovesse da un momento all'altro svegliarsi. Ma
quando giunsero gli amici, i parenti che erano venuti per
accompagnare il feretro ed egli fu tratto fuori dalla stanza
mortuaria, comprese pur troppo che tutto era finito, e per sempre.
La madre della giovine defunta si trovava allora in viaggio: al suo
ritorno seppe della morte improvvisa della figlia, e per poco non
perdette la ragione.
Calmata alquanto, non ebbe più che un pensiero: rivedere una volta
ancora il cadavere della figlia adorata, che non aveva potuto
abbracciar viva. Il desiderio della povera madre fu condiviso dal
marito della defunta. Ma per ottenere il consenso di rivedere la
povera morta, bisognava un cambiamento di sepoltura. L'industriale
acquistò una cappella apposita onde far esumare il corpo della
moglie.
Prima di trasportare un morto da una tomba all'altra, bisogna farne
la ricognizione in presenza dei membri della famiglia e di un
funzionario, destinato a tal uopo dal Comune. Giunse il giorno
stabilito per l'esumazione, e nel cimitero si trovarono raccolti la
povera madre, lo sventurato genero ed alcuni parenti, che avevano
voluto seguirli.
Appena giunsero alla tomba della giovane sposa, il custode ne aveva
già levati i vasi di rose, di giacinti e di viole, di cui il marito
l'aveva fatta circondare. Amava tanto i fiori la povera morta! Anche
la lastra di marmo era stata sollevata, ma la terra non era ancora
scavata.
Quando i becchini si misero all'opera, la povera madre si strinse
involontariamente al braccio dell'industriale che non era meno
pallido e tremante di lei.
D'improvviso una zappa battè contro il legno della cassa. A quel
sordo rumore, la madre stette per svenire: gli amici la sostennero e
vollero trarla di là.
— No.... no, lasciatemi…. — diss'ella — lasciatemi.... voglio
vederla. —
L'industriale, benché commosso profondamente, cercava di mostrarsi
calmo: un leggiero tremito nelle guance e nelle labbra erano i soli
segni visibili della sua commozione.
Finalmente la cassa fu scoperta e sollevata dalla fossa; il
funzionario si era avvicinato.
— Aprite, — disse ai becchini.
L'umidità della terra aveva arrugginite alquanto le viti e non senza
sforzi essi poterono sollevare il coperchio della cassa.
Ma allora un grido di orrore uscì da tutte le bocche.
La giovine sposa era stata sepolta viva!
Si vedevano ancora le tracce della lotta della sventurata, che
svegliatasi nella cassa e sentendosi soffocare, aveva tentato con
sforzi orribili di sollevarsi ed uscire.
Lo spettacolo era orrendo a vedersi: terribile a narrarsi.
Figuratevi quale doveva essere stata la disperazione, il terrore
della povera donna a trovarsi sepolta viva: ella avrà sofferto mille
morti per una sola. Quante grida, quanti gemiti non avrà mandato, ma
che la terra, che pesava inesorabile su di lei, non trasmetteva ai
viventi!
Il volto del cadavere portava le tracce di tutte le torture, di
tutte le sofferenze provate dalla disgraziata; in una mano aveva
ancora stretta una ciocca di capelli, strappata in un dolore
supremo; l'altra mano vicino alle labbra, era per metà morsicata.
La madre della morta a quell'orribile spettacolo cadde fulminata. Le
vennero prestati pronti soccorsi, ma furono inutili, perchè essa
avea cessato di vivere!
L'industriale divenne pazzo, e nella sua pazzia si vedeva sempre
davanti agli occhi il cadavere della moglie che sembrava
minacciarlo, che sembrava dirgli:
— Perchè mi hai lasciata seppellir viva? —
E chiudeva gli occhi, si turava le orecchie, ma quel fantasma lo
perseguitava anche nelle tenebre; egli lo vedeva sempre dinanzi a
sè, lo sentiva, ed allora mandava grida furiose, suoni rauchi,
inarticolati; si dibatteva, si contorceva, tanto che erano costretti
a mettergli la camicia di forza.
E questo caso di sepolti vivi non è il solo conosciuto, il solo
venuto alla luce; chi sa quanti la terra ne ricopre!
Ma ripigliamo il filo del nostro racconto.
IV
La casetta del fiaccheraio era a capo di una straducola stretta e
senza uscita, lontana dall’abitato.
Sul davanti v’era la rimessa e la stalla. Dalla porta della rimessa
si entrava in casa. Due stanzette a pianterreno che davano
sull'orto, tre altre stanzette al primo piano formavano tutta la
casa. I contadini dicevano, ridendo, che la casa di Nanni scappava
tutta dalla porta della rimessa.
Il fiaccheraio amava quella casetta che il suo defunto padre aveva
acquistata insieme ad un piccolo podere, dove Nanni era nato, era
cresciuto, e viveva tranquillo insieme alla madre, una vecchietta
pulita, rubizza, tutta amore per la casa ed il figliuolo.
Quando Nanni aveva lavata e tirata la vettura in un angolo della
rimessa, quando aveva ripulito e dato da mangiare al cavallo, da
fiaccheraio diveniva contadino, e l'orto di casa, formato da una
lunga striscia di terreno separata nel mezzo di un stretto viale,
era stato da lui disposto e coltivato. Lungo l'orto, fra le quattro
siepi, v’era un tale allettamento di riposo, un silenzio pieno d'un
ronzìo d'insetti, che piaceva ed affascinava.
La vecchia Sandra, così si chiamava la madre di Nanni, aspettava
ogni sera il ritorno del figlio con una tenerezza sempre nuova. Si
compiaceva di ammannirgli la cena che più l'allettava, poi
l'aspettava alla finestra, filando e ponendo mente a tutti i rumori
di ruote che si udivano da lontano.
Quella sera in cui era successa la scena del cimitero, la vecchia
Sandra si mostrava un po' inquieta, perchè non vedeva tornar Nanni
all'ora solita.
— Qualcheduno l'ha trattenuto; gli sarà capitato di fare uno spaccio
lontano; — pensava — ma è così strano che egli ritardi! So che più
volte ha perduto dei buoni guadagni, pur di essere a casa al
tramonto. Ma oggi il sole è già sceso da un pezzo.... la luna
comincia a brillare e Nanni non si vede. —
Passò due ore agitatissima. Già mille presentimenti cominciavano a
turbare l'animo della vecchia, che con le lacrime agli occhi se ne
stava in fondo al vicoletto, guardando fissa la strada maestra,
mentre colle dita convulse sgranava, inconscia, il rosario, quando
le parve vedere un punto nero venir da lontano e sentì lo scoppio
della frusta, che le annunziava l'arrivo del figliuolo.
— Che Dio sia benedetto e la Vergine santissima! — mormorò la
vecchia. — Eccolo finalmente: lo voglio un po' sgridare, stasera. —
Intanto la vettura si avvicinava, andando al passo. Nanni scòrse da
lungi la madre e le fece un segno amichevole.
— Ah! credevo che tu non tornassi più, — disse la vecchia.
— Zitta.... mamma, zitta.... e corri subito a preparar una camera.
Ti conduco due forestieri.... e una povera signora.... che è
svenuta. —
Egli non osava dire la verità alla vecchia, per non spaventarla. La
povera donna, sebbene sorpresa, corse a spalancare la porta della
rimessa e salì lesta la scaletta che conduceva al piano superiore,
per eseguire gli ordini del figlio.
Quando la carrozza si fermò, Nanni fu lesto a balzare di cassetta ed
aprire lo sportello. Ne scese prima Ines, poi il fiaccheraio aiutò
Alfonso a trarre di carrozza la povera morta.
— Chê!… è sempre diaccia, — disse Nanni con un brivido.
E, crollando impercettibilmente la testa, parve che dicesse fra sè:
— Temo che quel povero signore si sia ingannato. —
Con molto riguardo, Alfonso ed il fiaccheraio sollevarono quel corpo
irrigidito, e adagio adagio lo trasportarono di sopra, seguiti da
Ines, che si sorreggeva a stento.
La vecchia Sandra aveva già preparato il letto in una stanza
meschinamente mobiliata, ma dove spirava una certa aria di pulizia e
di freschezza, che allargava il cuore e faceva piacere a vederla.
Appena la contessa fu deposta sul letto e la vecchia poté mirarla in
viso, mandò un lieve grido.
— Ma questa signora è morta!... — balbettò.
— No, — disse Alfonso rialzandosi livido in volto — non me lo
dite.... non parlate così: si sveglierà, vedrete…. —
Ines e Nanni si scambiarono uno sguardo doloroso.
— Mia sorella è stata colpita da una profonda catalessi.... lo
giurerei; — continuò Alfonso — ma questo stato di morte apparente
passerà presto.... accertatevene.... Ella non può parlare, non può
muoversi, ma ci vede, ci ascolta....
La vecchia Sandra rabbrividì.
Intanto anche la povera Ines impallidiva a vista d'occhio, e fu
costretta di abbandonarsi sopra una sedia. La fatica del viaggio, le
emozioni della giornata, l'avevano affranta.
Alfonso dimenticò per un momento sua sorella.
— Ines, mia Ines! — esclamò inginocchiandosi
dinanzi a lei e cingendole con un braccio la vita — tu non ti senti
male, è vero? Guardami, amor mio, guardami con quei tuoi occhi
belli.... dimmi che mi perdoni.... per quanto ti ho fatto soffrire!…
—
Ines schiuse le labbra ad un angelico sorriso.
— Io non ho nulla da perdonarti, amico mio.... ma che vuoi? Sono
donna, e sono debole.... mi sento tanto stanca… vorrei dormire. —
I suoi occhi si chiudevano infatti; e la sua testa si abbandonava
sulle spalle d'Alfonso, che la coprì di baci.
— Povera signora, ha tanto sonno!… — disse la vecchia Sandra con
accento di tenera compassione — venga con me, la porterò di là che
v’è un altro letto.... e potrà riposare tranquilla.
— Sì, sì.... vai con questa buona donna, — sussurrò Alfonso, con
tenerezza ed ansietà insieme.
— Ma io non vorrei lasciarti solo....
— Oh! non dubitare, se accadesse qualche cosa di nuovo, ti
sveglierei.
— Me lo prometti?
— Te lo giuro.
— Allora vado, — disse la giovane donna alzandosi faticosamente
dalla sedia — perchè non ne posso più. Mi permetti che io pure dia
un bacio a tua sorella?
— E me lo chiedi? —
Ines in preda ad un'invincibile emozione, si avvicinò al letto dove
giaceva la bella contessa, e, chinandosi su di lei, le sfiorò la
gelida fronte con un bacio. Poi, asciugandosi una lacrima, seguì in
silenzio la Sandra.
Alfonso e Nanni rimasero soli.
Il fiaccheraio non sapeva neppur lui staccarsi dalla stanza, dov'era
stata deposta la morta. Egli diceva fra sè che il dolore doveva aver
fatto impazzire il pover uomo, per renderlo così ostinato a credere
che la povera contessa vivesse ancora.
— Amico, — gli disse Alfonso, volgendosi a lui con tono familiare —
puoi andartene: io desidero di rimaner qui solo, con la mia diletta
sorella.... Oh! stai certo, che qualunque cosa avvenga, non
dimenticherò mai quanto hai fatto per me.
— Oh! Signore, non parlate così.... perchè mi fate male; vi giuro
che non ho mai reso un servigio più di cuore.... e non domando altra
soddisfazione che quella di veder effettuarsi il miracolo.... che
voi sperate.
— Sì effettuerà.... io ho fiducia in Dio! — esclamò Alfonso
sollevando la pallida fronte con un atto di sublime convinzione.
Il fiaccheraio chinò la testa rispettoso.
— Io vado, signore.... giacché lo desiderate; — balbettò — ma
ricordatevi che sarò sempre pronto ad ogni vostra chiamata. —
Nanni uscì dalla stanza, dopo aver gettato un altro sguardo furtivo
sul cadavere della contessa.
Quando l'uscio fu chiuso dietro di lui, Alfonso prese il lume, e,
avvicinatosi al letto, si mise a contemplare intensamente il volto
della morta.
Quel volto continuava a rimaner calmo, ma sembrava che un sorriso
l'irradiasse tutto.
Alfonso posò il lume, e colle mani giunte, gli occhi fissi su quel
volto adorato, proruppe:
— Ah! Sì, Clara.... tu sei viva.... tu mi ascolti, non è vero? tu mi
senti.... la tua anima mi appare sul tuo dolce viso.... mi sembra
che tu mi guardi, che tu mi dica: fratello, fra poco io mi
sveglierò,... fra poco le mie labbra potranno pronunciare il tuo
nome, i miei occhi ti vedranno…. Non è vero che Dio farà questo
miracolo? —
E continuava a baciarla.
Ad un tratto gli sorse come un'improvvisa idea. Egli trasse da un
astuccio un piccolo coltello affilatissimo e sollevata una manica
dell'abito bianco della contessa, ne mise a nudo il bellissimo
braccio, e col sudore alla fronte, coll'ansia in cuore, le inflisse
nella pelle bianchissima una lieve ferita. Quasi subito in quel
braccio che pareva di marmo apparve una piccola macchia rossiccia,
una macchia di sangue, e un lieve fremito sembrò scuotere il corpo
della morta.
Alfonso provò una tale sensazione, di cui nessuna parola sarebbe
stata valevole a renderne l'assordante violenza. Dunque egli non si
era ingannato! La morta era ancora viva: la carne continuava a
rimanere fredda, ma un sordo fluido pareva scaturirne ad ondate,
agitarla. Sì, l'anima doveva palpitare sotto quelle membra
agghiacciate: lo spirito non era diviso dalla materia. Alfonso per
la prima volta ebbe coscienza dei due principî che compongono l'ente
di una creatura umana.
Egli capì che quel corpo era sotto l'influsso di una catalessi
potente, ma l'anima non si era involata: e quando il torpore che
agghiacciava le membra si fosse dissipato, il corpo avrebbe ripreso
la sua elasticità e la sua forza. Clara sarebbe vissuta ancora.
Ma quella catalessi era naturale, oppure era stata prodotta da
qualche narcotico, da qualche potente veleno? Questo dubbio
squarciava l'anima del giovane.
— Avrei bisogno di un medico.... ma a quest'ora e in questi luoghi
dove trovarlo? Eppoi voglio che tutti ignorino quanto succede qui;
ella si desterà.... ne sono sicuro.... se provassi a farle
inghiottire poche gocce d'etere; perchè non ci ho pensato prima? —
Egli aprì la valigetta che Ines aveva depositata sul tavolino e ne
trasse una piccola boccia azzurra, col tappo smerigliato, e la sturò
con precauzione, mentre si chinava sul capezzale dove riposava la
testa di Clara.
Le labbra della contessa erano semiaperte, e i denti erano
leggermente dischiusi. Da quella lievissima apertura, Alfonso versò,
adagio adagio, alcune gocce di etere.
Il corpo della contessa ebbe un altro leggiero sussulto.
Alfonso si alzò per asciugarsi il sudore che gli colava dalla
fronte, e depose la boccetta sul tavolino. Poi il suo inquieto
sguardo si posò di nuovo sul volto della morta, e le sue mani
strinsero una mano di Clara.
— Sorella.... sorella mia.... svegliati,... se tu sapessi come io
soffro! —
Le labbra della contessa parvero agitarsi, ed un lieve calore sembrò
si diffondesse nella mano che Alfonso teneva fra le sue.
Il giovane aveva gli occhi pieni di lacrime. Egli coprì di baci
quella fronte che sembrava rischiararsi, illuminarsi, dando a vedere
una vaga estasi.
Passarono altri cinque minuti, poi il corpo della contessa subì una
nuova scossa, e la bocca, schiudendosi, parve pronunziare un nome.
— Alfonso.... —
Il giovane mandò un grido.
— Vive.... vive.... ella mi ha chiamato.... Clara, mia Clara.... ah!
io temo d'impazzire.... sei tu, non è vero.... sei tu.... che hai
parlato?... Rispondi.... io sono qui vicino a te. —
Le palpebre della contessa si sollevarono a poco a poco; ma i suoi
occhi, spalancandosi, parevano senza sguardo.
— Lilia…. — mormorò con una voce tuttavia debolissima, ma un po' più
chiara.
Alfonso non sapeva più frenarsi.
— Tu m'intendi.... non è vero? Clara, ti risvegli.... Lilia....
questo è forse il nome di tua figlia,.... di mia nipote? Sì, tu ti
sei scossa.... il calore ritorna al tuo corpo.... i polsi
battono.... Oh! grazie, mio Dio, grazie di tanta felicità che mi
accordate! —
La morta sembrava infatti rinvenire, e svegliarsi. Si sarebbe detto
un incantesimo rotto all'improvviso.
Sotto i baci e le parole del fratello, nel marmo ritornava il calore
e la vita.
Le labbra di Clara balbettavano:
— Questo è un sogno, e che sogno! Io vedo il suo volto sardonico....
egli mi stringe.... mi agghiaccia coi suoi sguardi.... sento l'alito
ardente del demonio.... i baci santi di Lilia.
— Ella non s’è ancora svegliata bene, — mormorò Alfonso, le cui
guance si erano fatte pallidissime — ella delira ancora. —
Clara continuava:
— Fratello.... perchè non sei qui a salvarmi?... vedi.... vedi,
quella donna.... che mi deride.... m'insulta.... scaccia me.... dal
mio palazzo.... me.... contessa Rambaldi.... e lui.... non sa
difendermi.... sogghigna.... ah! —
L'attenzione di Alfonso si faceva sempre maggiore.
— Dio… qual dramma intravedo!… — esclamò. — Oh! è orribile…. quello
che ella dice…. ma se la sua ragione non ritornasse.... se io non
potessi saper tutto? —
La contessa fece un altro movimento come se volesse sollevarsi, e si
portò una mano al seno.
— Cos'è questo freddo che sento qui, — balbettò — mi par di
morire.... di soffocare.... dove sono?... dove mi hanno
rinchiusa.... come è tutto nero.... tutto buio.... intorno a me.…
chi pone le mani sul mio petto.... e mi schiaccia?... Aria….
aria.... pietà.... io soffoco.... io muoio.... —
Erasi alzata quasi a metà: ricadde sfinita.
Alfonso si passò le dita sulla fronte ardente.
— Dio mio, — mormorò — Dio mio, cosa fare?... Clara, mia dolce
Clara! —
Quella voce fece trasalire un'altra volta il corpo della contessa:
pareva che ella facesse sforzi sovrumani per scuotere il torpore che
la teneva avvinta e che tutta l'invadeva.
— Chi mi chiama? — sussurrò — qual voce è questa?... io l'ho già
sentita:… è forse la voce di Alfonso? Ma no.… egli è lontano.…
lontano.... e non sa che io muoio.… non ho nessuno che mi difenda;
quell'uomo m'insulta…. mi calpesta.... è un'infamia; andrò dal
notaro, voglio porre in salvo le sostanze di mia figlia…. no.... non
firmerò quell'atto.... aiuto.... Salvami, Alfonso…. egli mi
uccide.... non lo vedi?... mi uccide! —
Alfonso strinse fra le braccia quel corpo adorato, coprendone il
volto di baci e di lacrime: i singulti lo soffocavano.
Eppure in fondo all'anima, egli sentiva come una gioia strana,
infinita. Sua sorella viveva ancora, egli era arrivato in tempo a
salvarla: egli l'avrebbe vendicata!
Clara non parlava più, pareva sfinita. Ma il calore era ritornato
nel suo corpo e dei brevi sospiri le uscivano dalle sue labbra
socchiuse: le palpebre però si erano riabbassate.
— Bisognerebbe farle prendere qualche cordiale, da tre giorni non
mangia.... non beve…. — esclamò Alfonso.
L'adagiò di nuovo con cautela sul guanciale e corse fuori dalla
stanza.
Nanni sonnecchiava sopra una seggiola nella stanza vicina.
Alfonso lo scosse e Nanni balzò subito in piedi.
— Ebbene… signore?
— Ella è viva.... ella è viva! — esclamò Alfonso, mentre il viso gli
s'irradiava di gioia. — Ma silenzio.... che non si desti mia
moglie;... tu mi aiuterai;... la poveretta ha bisogno di prender
qualche cosa.
— C’è del vin santo, signore.
— Bene.... e ci saranno anche delle uova?
— Sicuro....
— Allora, frulla presto un uovo, e portamelo col vin santo.
— Subito, signore. —
Alfonso tornò nella stanza della sorella, e dopo cinque minuti
ricomparve il fiaccheraio col cordiale preparato.
Egli si avvicinò con viva commozione al letto, dove giaceva la
contessa, e poco mancò non mandasse un grido di stupore.
Clara pareva che dormisse ancora, ma una nube di una rosea
trasparenza si era mischiata alla cadaverica bianchezza della fronte
e delle guance: dalle labbra semichiuse usciva un breve respiro;
lievi contrazioni le scuotevano il corpo gentile e le sollevavano ad
intervalli il candido seno. Mentre Alfonso levava di mano al
fiaccheraio il bicchiere, questi si tergeva una lacrima.
— E pensare, — balbettò — che senza di lei, questa povera
signora.... oh! è orribile!
— Taci, taci, che ella potrebbe udirci, e deve ignorare tutto,
capisci; del resto potrebbe morire dallo spavento.... aiutami a
sollevarla, così! —
Alfonso appressò gentilmente alle labbra di Clara il bicchiere,
mormorando:
— Bevi.... bevi.... sorella mia. —
Parve che la contessa l'intendesse, perchè obbedì macchinalmente.
Quasi tosto ella si scosse ed aprì gli occhi; e nello sguardo che
rivolse attorno parve rifulgere un raggio d'intelligenza.
Le tenebre del suo cervello si rischiaravano.
— Dove sono? — balbettò.
— Fra le mie braccia, Clara, — disse con voce commossa Alfonso.
Quella voce parve penetrare nel cuore della contessa. Ella fece uno
sforzo per sollevarsi; guardò intensamente l'uomo che le parlava, e
poi cacciò un grido acutissimo; era un grido di gioia delirante, ed
un singulto le sfuggì dal petto.
— Tu.... tu, Alfonso.... fratel mio! — balbettò con un'espressione,
impossibile a descriversi.
Ma quella gioia era troppo grande, dopo quanto la poveretta aveva
sofferto. Il leggiero colore ricomparso sulle sue guance si dileguò
di nuovo, gli occhi le si chiusero, il capo si piegò sul braccio del
fratello che fu pronto a sorreggerla. Ma dopo pochi minuti secondi,
un vaghissimo sorriso sfiorò le labbra di Clara.
— Sono in paradiso, — balbettò a mani giunte. — Dio che ho pregato
tanto, mi ha esaudita.... tu sei vicino a me.... sei venuto in mio
aiuto. —
Ella aprì di nuovo gli occhi, sollevandosi sui guanciali sostenuta
dal fratello, e, con un gesto pieno di tenerezza quasi infantile,
prese fra le sue mani delicate, la testa pallida di lui, e lo mirò a
lungo.
Il volto di Alfonso si era alquanto colorito, e ciò dissimulava
perfettamente, alla luce della candela, le sofferenze patite.
— Sei tu.... proprio, tu.... non è un sogno il mio.... è vero?
Parlami, che io oda la tua voce.
— Sì, sono io.... tuo fratello.... che ti adora.... e non ti lascerà
mai, mai più! — rispose Alfonso, rispondendo coi baci alle deliziose
carezze della misera donna.
Il fiaccheraio colle lacrime agli occhi era uscito pian piano dalla
stanza.
Fratello e sorella erano soli. La luce delle candele rischiarava a
mala pena la stanzetta; Clara, tutta assorta nella contemplazione di
Alfonso, non aveva badato nè a sè, nè al luogo dove si trovava; ma,
svincolatasi un momento dal collo del fratello, notò con sorpresa
l'abito bianco che indossava e la misera stanzetta dove si
trovavano.
— Ma io sogno: — ripeté — dove sono dunque?... perchè ho addosso
quest'abito bianco? —
Un brivido percorse le vene di Alfonso a quella domanda. Eppure
bisognava che rispondesse.
— Sei in casa di buona gente.... dove io ti ho portata, Clara; ma
non ci pensare.... sei stanca, hai bisogno di dormir dell’altro. —
La contessa si portò le mani alla fronte.
— Dormire? — ripeté — mi pare d'aver dormito tanto.... E la mia
Lilia.... dov'è?
— La vedrai.... ora riposa; — disse Alfonso sempre più imbarazzato —
io sono qui vicino a te, non devi temer di nulla. —
La contessa era molto abbattuta, pure si capiva che faceva degli
sforzi sovrumani per rischiarare le idee e le vaghe tenebre che
ancora offuscavano il suo cervello.
— Non so.... la memoria non torna.... non capisco nulla di quello
che succede, — mormorò con un sorriso straziante. — Alfonso, tu sei
proprio qui vicino a me…. non è vero? Dammi le tue mani, posa qui il
tuo capo vicino al mio, mi sento la testa pesa, come se avessi
sonno: eppure, ho dormito molto; non è vero che ho dormito troppo?
— No, — sussurrò pian piano Alfonso, osservando avidamente quella
figura adorata, che poche ore prima aveva abbracciata cadavere — tu
hai bisogno ancora di riposo; chiudi gli occhi, e dammi le tue mani:
io sono vicino a te, e, te lo ripeto, non ti lascerò mai più! —
Un sorriso d'angelo rischiarava i lineamenti di Clara, il suo
pensiero non era ancora ben chiaro: ella si sentiva estenuata, ma
felice. Articolò dei brevi lamenti, e stese innanzi le braccia che
tremavano.
— Sì, dormirò.... e tu non mi lascerai, Alfonso, — disse mentre
infatti richiudeva gli occhi, appoggiando una guancia alla guancia
del fratello, che aveva posata la testa vicino alla sua.
I dolori lungamente sofferti, quel po' di torpore che ancora le era
rimasto, e l'emozione provata all'improvvisa vista di Alfonso, tutto
contribuiva alla spossatezza fisica da cui era ripresa di nuovo
Clara, sebbene ormai la vita fosse in lei completamente ritornata.
V.
Clara, rinvenuta dalla sua profonda catalessi, non era però fuori di
pericolo.
Il giorno dipoi, appena che si fu ridestata, pareva non ricordarsi
di nulla, nè di riconoscere le persone che l'attorniavano. Era in
uno stato di prostrazione suprema.
— Qui ci vuole un medico, — aveva detto Alfonso, che si sentiva di
nuovo assalire dallo scoraggiamento.
— Tu potresti andare a chiamare il dottor Moro, — disse la Sandra a
suo figlio.
— Chi è costui?
— Un vecchio signore, che vive come un eremita in una villetta di
sua proprietà, poco distante. Per molti anni si dice che abbia
esercitata la medicina, poi si è ritirato ad un tratto dal mondo, è
venuto quassù, dove vive solo con un vecchio servitore, e non riceve
nessuno; ma se qualche povero diavolo dei dintorni ha bisogno di
lui, non si fa pregare d’andarlo a vedere, e vi so dire io che ha
fatto di molti miracoli.
— Allora andate a chiamarlo subito! — esclamò Alfonso — ditegli che
una forestiera che si trovava in viaggio è caduta ammalata nella
vostra casupola, che ha bisogno delle sue pronte cure, ditegli che
saprò ricompensarlo di tutti i suoi disturbi. —
Nanni se ne andò correndo. Ines ed Alfonso si erano posti al
capezzale di Clara, mentre la vecchia Sandra si affaccendava a
ripulire, a riordinare dappertutto.
La casetta del fiaccheraio era fornita degli oggetti più necessari,
tuttavia mancavano molte cose, ed Alfonso avrebbe voluto trasportare
la sorella in una villetta, dove fossero tutti i comodi; ma alla
prima parola che disse, Ines fu di parere contrario.
— Qui siamo in luogo tranquillo, isolato, sicuro.... — rispos’ella.
— Se qualcosa manca, puoi farlo venire da Firenze, ma non mi sembra
prudente trasportare altrove la povera Clara. Eppoi la Provvidenza
volle che c'incontrassimo in gente fidata, segreta, piena di
premure: e nel caso in cui ci troviamo, questa casupola ci serve a
meraviglia, giacché non desteremo la curiosità del vicinato, e Clara
avrà un rifugio sicuro. Oh! ringraziamo la Provvidenza di averci
condotti qua! —
Alfonso capì che Ines aveva ragione. La bellissima e giovane
spagnuola era diventata un’attiva infermiera. Ella infondeva
coraggio al marito, coi suoi amabili sorrisi, colle sue confortanti
parole e quando i suoi grand'occhi melanconici si rivolgevano
sull'ammalata, quello sguardo triste e soave aveva una grazia, un
incanto che commoveva.
Il dottor Moro venne. Era un uomo di una sessantina d'anni, bruno di
viso, colla fisonomia impassibile e dura, con capelli e le fedine
bianche come la neve.
Alfonso gli era andato incontro con premura; Ines si era alzata. Il
vecchio, avanzandosi, incontrò i suoi sguardi negli sguardi della
giovine spagnuola e parve come colpito. Un po' di sangue gli salì
alle gote, e le sue labbra tremarono convulse. Ma rimettendosi
tosto, riprese la prima espressione, e chinatosi sul letto
dell'ammalata cominciò ad esaminarla attentamente e minutamente.
— Non è cosa grave, — disse ad un tratto alzandosi. — La signora è
colpita da una febbre nervosa. Deve aver subìta qualche grande
emozione. —
Alfonso e Ines si scambiarono un rapido sguardo, che non fu
osservato dal medico.
— Nessun'altra emozione, — rispose con voce franca Alfonso — che i
disturbi e gli strapazzi di un lungo viaggio.
— Essa è vostra moglie?
— No.... è mia sorella: mia moglie.... è questa. —
Ed additò Ines che si era posta al fianco di lui.
Il medico trasalì di nuovo guardandola, e per un minuto parve non
ricordarsi neppur più dell'ammalata.
— Ebbene, dottore, la guarirete? — esclamò Alfonso, con voce
supplichevole.
Il medico si scosse.
— Certamente, — rispose in tono burbero.
— In breve tempo?
— In due o tre giorni,... ma vi raccomando la massima quiete intorno
a lei. A tutte l’ore voi le darete una cucchiaiata del calmante che
vi ordinerò. Se dorme, lasciatela dormire, e quando è sveglia,
cercate di farle prendere dei cordiali per sostenerla. Domattina
ritornerò. —
E senza voler ascoltare ringraziamenti, senza neppur più volger il
capo, lo strano dottore se ne andò.
Clara rimase assopita per molta parte del giorno, ingoiando
macchinalmente quanto le porgevano. Verso sera tornò a delirare, ma
nel suo stesso delirio avea una specie di lucidità, che sembrava
regolare le sue parole.
Alfonso ed Ines sentivano molti discorsi incoerenti uscire da quelle
pallide labbra, ma erano discorsi che non offrivano un senso chiaro,
e se qualche volta Alfonso con voce tremula, cercava di provocare
qualche spiegazione, l'ammalata si arrestava pensosa, lo guardava un
istante come sbalordita, poi tornava ad assopirsi, e in quel sopore
ridiventava affatto muta.
Il custode del cimitero non aveva mancato il giorno dipoi di recarsi
in casa di Nanni per sapere com'era andata, e quando sentì dire che
la morta era proprio viva, mancò poco che il pover uomo non
divenisse pazzo. Dunque se quel giovane non arrivava in tempo, egli
avrebbe sepolta viva una donna!
— Oh! è finita, — esclamò — non vo' più saperne di seppellire i
morti, non voglio rimorsi sulla coscienza:... appena messa al posto
la cassa vuota della contessa, dò le mie dimissioni; da ieri notte
io sono divenuto un altro; non potrei più dormire tranquillo, nel
camposanto;... no.... preferisco di tornare a far il contadino come
prima.
— Direte che avete avuto un’eredità.... — aveva aggiunto
Alfonso al custode — io assicurerò la vostra esistenza e quella
della vostra famiglia.... Non avrete più bisogno di lavorare. Solo
dovete giurarmi che nessuno saprà mai dalla vostra bocca quello che
è successo.
— Oh! non ho alcun desiderio di parlare, state sicuro,... sarò muto
come una tomba, anzi più di una tomba, perchè ora anche i morti
parlano: ho l'idea di acquistarmi un poderino con una casetta, in
vendita qui poco distante.
— Acquistatela, io ne pagherò il prezzo,... vi debbo troppo, perchè
non debba assicurare la vostra felicità. —
Il custode del cimitero se n’era andato via colle lacrime agli
occhi.
Ora bisognava rassicurare i contadini della villa Rambaldi, che
dovevano star in pensiero non vedendo tornare i viaggiatori.
Il bravo Nanni s'incaricò della faccenda. Passando dalla villa per
andare in città, vi si fermò un istante. I contadini, riconosciuto
il fiaccheraio e la carrozza, erano accorsi tutti sul portone, e
guardarono curiosamente dai finestrini della vettura. Ma videro
subito che l'interno della carrozza era vuoto.
— Ebbene.... e i forestieri? — gridò la moglie del giardiniere —
dove li avete lasciati? Hanno passata la nottata al cimitero? Sono
ancora là?
— Se continuate ancora a farmi delle domande, non riuscirò a
rispondervi! — esclamò il fiaccheraio con un sorriso — i forestieri
a quest'ora sono in viaggio.
— Come?... Non hanno veduta la contessa?
— L'hanno veduta.... sì....
— L'avete veduta anche voi? — esclamarono le altre contadine piene
di curiosità.
Il fiaccheraio abbassò il capo affermativamente.
— L'era sfigurata, non è vero?
— Io non conoscevo la signora contessa da viva, ma vi assicuro che
non ho mai veduto un viso più bello di quello. Pareva che dormisse.
— Povera signora!... A suo fratello è venuto nuovamente male?
— Non vi dico la scena,... l'abbiamo dovuto togliere davanti alla
morta e metterlo nella carrozza. Allora la moglie del giovane m’ha
ordinato di condurli subito alla stazione.
— Quella è una donna forte....
— E giovane, e bella; se ne vedon pochi, di que’ tipi lì.
— Sono partiti dunque? Peccato!... li avremmo riveduti volentieri:
dovevano essere tanto buoni,... niente superbi e molto generosi. —
Nanni era commosso alla ingenua dichiarazione di quei contadini,
tanto più che egli pure provava per Alfonso e Ines una simpatia
vivissima.
— Oh! sì, — esclamò — erano buoni e generosi, e partendo non si sono
dimenticati di voi e delle cure che avete loro usate nei pochi
momenti che ieri si fermarono qui;... e m'hanno detto di
ringraziarvi e di consegnare alla moglie del giardiniere questa
borsa con delle monete, perchè le distribuisca fra di voi. —
La contadina prese arrossendo la borsa e con le lacrime agli occhi.
— Oh! che generosi signori, non assomigliano certo al signor conte.
— A proposito del signor conte, — disse Nanni con aria indifferente
— quei forestieri mi hanno pregato che vi raccomandassi, nel caso
che il signor conte venisse alla villa, di non parlare affatto di
loro.
— Oh! non ne parleremo davvero.
— Non c'è pericolo....
— Eppoi il signor conte non verrà, statene certo....
— Non verrà? — disse Nanni, che avrebbe voluto saper qualche cosa da
riferire ad Alfonso — come potete saperlo?...
— Sicuro che lo so! — disse la moglie del giardiniere — mio marito è
andato stamani per tempo al palazzo, e il maggiordomo ha detto che
il signor conte è partito.... con sua figlia e.... —
La contadina si fermò confusa.
Nanni si sentì pungere dalla curiosità.
— Ebbene, perchè non terminate?
— Ah! tanto a voi possiamo dirlo! Il signor conte è partito colla
ganza per Parigi. —
Il fiaccheraio si scosse.
— O che il signor conte ha una ganza? — chiese con voce alterata.
— Lo sapeva tutto Firenze! gli era proprio uno scandalo…. e se la
signora contessa è morta,... basta.... acqua in bocca!
— Ma la contessa non ha lasciato anche una bambina, avete detto?
— Sicuro.... e l'è col babbo;... povera creatura, purché non
facciano morire anche lei; basta, da un canto sarebbe quasi meglio
che quell’angioletto andasse a raggiungere la mamma in Cielo. —
Il fiaccheraio non rispose, nè chiese altro, perchè si sentiva un
tal gruppo alla gola, come se soffocasse. Salutati pertanto quei
buoni contadini, riprese la via di Firenze, mormorando fra sè:
— E dovrò raccontare tutto quello che ho sentito, al signor Alfonso?
Povero giovine, in che mani era caduta sua sorella! Quel conte deve
essere un gran cattivo soggetto: con una moglie che ha un viso da
madonnina e che tutti dicono una santa, tenere una ganza! Ed ora
sono certo che è felice di essersi sbarazzato dalla moglie, che
crede sepolta, e se ne viaggia tranquillo. Chissà che non sposi
anche quella donna! Mondo birbone, darebbe una buona mamma alla
figliuola! Io non so come rigirarmi: se dico al signor Alfonso tutto
quello che ho saputo, c'è da vederlo soffrire Dio sa quanto: se sto
zitto, potrebbe succedere qualche guaio. Io non so quale idea
abbiano: se la contessa vorrà farsi riconoscere o passar per morta;
ma c'è la bambina.... e se la contessa le vuol bene, non può
lasciarla in mano di quella donna. Io sono in un grande impiccio,...
basta, chissà che strada facendo non mi venga qualche buona idea: ne
ringrazierei di cuore la Provvidenza. —
Alzò in aria la frusta; ed il cavallo, che era andato fino allora al
passo, si mise a trottare allegramente.
VI.
Erano passati cinque giorni d'angoscia e d'ansietà mortale per gli
abitanti della casetta del fiaccheraio, poiché, malgrado le cure del
medico, la contessa non aveva dato segno di miglioramento.
Ma la mattina del sesto giorno, il volto impassibile del dottor Moro
si era animato. Dopo aver visitata l'ammalata, che pareva dormisse
placidamente, dopo aver appoggiato l'orecchio sul petto di lei, si
era alzato all'improvviso, e con voce alquanto commossa:
— La signora è salva, — disse — è guarita. —
Alfonso, nell'impeto della gioia, si slanciò al collo del medico:
Ines gli prese una mano e la portò con effusione alle sue labbra.
— Ah! lo dobbiamo a voi, dottore.... grazie.... grazie! —
Il dottor Moro si svincolò pian piano da Alfonso, e ritrasse con un
tremito la mano dalla mano d'Ines.
— Dovete ringraziare Iddio, — mormorò bruscamente — io non sono che
un umile suo strumento... Addio, signori; quando l'ammalata si
sveglierà, non avrà più bisogno di me.
— Voi non tornerete più?
— Che debbo tornare a fare? Il mio cómpito è finito....
— Oh! non ci lascerete così, — disse vivamente Alfonso — io vi devo
la vita di mia sorella, dovete promettermi di ritornare; ora non
siete più soltanto un medico per noi, ma un amico.
— Sì, un amico; — ripeté Ines con la voce commossa, melodiosa,
fissando i suoi occhi supplichevoli sul dottor Moro — voi non volete
dunque che vi si mostri tutta la profonda gratitudine che sentiamo
per voi?... —
Il dottore sembrò che provasse un accesso di malumore.
— E che m'importa della vostra gratitudine! — esclamò alzando le
spalle. — Forse che vi sono ancora dei cuori grati a questo mondo? —
Alfonso, colpito, indietreggiò di un passo; Ines divenne
pallidissima.
Il medico se ne accòrse ed il suo sembiante cangiò a un tratto.
— Perdonate, signore, le mie inconsiderate parole, — balbettò — io
non sapevo quello che dicevo; sì, credo alla vostra riconoscenza, e
per mostrarvelo tornerò a vedervi, ve lo prometto. —
Il volto di Alfonso si fece raggiante. Ines sentì empirsi gli occhi
di lacrime.
— Ah! voi siete buono! — esclamò con ingenua riconoscenza — io
l'avevo indovinato, malgrado le vostre brusche parole. —
Il medico abbassò la testa e soffocò un sospiro.
— A rivederci, — balbettò — a rivederci a presto, amici miei; ve ne
prego, non turbate il riposo dell'ammalata, lasciate che si svegli
naturalmente. —
Il dottor Moro uscì, ed Alfonso e sua moglie si gettarono in
ginocchio e pregarono insieme. Quanta fede, quanta speranza, quanta
ingenuità in quei due giovani cuori!
— Ella è salva, è guarita, — mormorò Ines stringendosi con tenerezza
ad Alfonso, e porgendo al giovine le sue labbra lievemente
impallidite per le tante emozioni sofferte.
Il giovine la baciò con passione.
— Sì, ella è salva, è guarita, — ripeté commosso. — Come sono
felice, Ines! —
I due giovani si alzarono, e tenendosi abbracciati e trattenendo il
respiro, si posero a contemplare l'angelica creatura che dormiva
placidamente.
Ines, nell'aiutare la Sandra a spogliarla, aveva tolto la cuffietta
bianca che cingeva la fronte della contessa come una benda, e che
ricordava troppo la morte. Ed ora quella fronte appariva in tutta la
sua purezza, i capelli dorati le cadevano in vago disordine sul
guanciale, inondando come di un'aureola quel viso smunto, patito, ma
sempre bello, di una bellezza adorabile. Certo che se quelle guance
fossero state un po' più piene, più tondeggianti, se il colorito
fosse stato meno pallido, Clara avrebbe acquistato, coi suoi
lineamenti perfetti, una maggiore attrattiva materiale, ma avrebbe
perduta forse la bellezza della sua commovente fisonomia, veramente
ideale. Ella dormiva tranquilla, e, dalle sue labbra mezz’aperte,
esalava un alito puro come quello di un fanciullo.
— Come è bella! — sussurrò ingenuamente Ines all'orecchio di Alfonso
— ella ti somiglia molto, mio caro....
— Oh! — rispose Alfonso, abbracciando con tenerezza la sua compagna
— vorrei somigliarla davvero, mia cara.... E dire che suo marito....
— Taci! — l'interruppe Ines ponendogli vezzosamente sulla bocca la
sua piccola mano — ella si muove.... sta per svegliarsi; è meglio
che prima veda te solo. —
E, svincolandosi dal marito, la giovane e vezzosa spagnuola, si
nascose dietro le spalle di lui, pronta a mostrarsi quando egli
l'avrebbe avvisata.
La contessa aveva fatto un leggero movimento; un po' di sangue le
salì alle gote, il suo respiro diventò irregolare e confuso. Stese
innanzi le braccia, ed Alfonso si chinò sopra lei, e la sua bocca
toccò la bocca della sorella.
Questa trasalì tutta, aperse gli occhi e lo guardò avidamente.
— Il mio sogno! — esclamò — il mio bel sogno, io ti vedevo: Alfonso,
fratello mio, sei tu, non è vero?
— Sì, sono io, mia diletta, — rispose il giovane versando una
lacrima di tenerezza — come ti senti?
— Sono forse stata malata? — chiese la contessa, con adorabile
ingenuità — non lo ricordo, mi par di avere fatto un sogno lungo
lungo,... dapprima molto brutto, ma poi molto lieto. Vuoi che te lo
racconti?
— Parla, sorella mia, parla.... se tu sapessi come mi fa bene la tua
voce. Tu non soffri più, non è vero?
— Soffrire?... Si può forse soffrire quando si è felici? Senti, io
sognavo d'essere in un giardino delizioso, molto delizioso, in tua
compagnia, e con quella di un'adorabile fanciulla che tu amavi,... e
doveva essere la tua sposa. —
Ines non poté frenare un lieve grido. Per fortuna Clara non lo
intese. Anche Alfonso sussultò, ma non interruppe la sorella.
— Infine, — continuò Clara — davanti a noi sul tappeto erboso si
baloccava una vezzosa bambina, la mia Lilia. A proposito, — aggiunse
sollevandosi sui guanciali, sostenuta da Alfonso — dov'è la mia
Lilia? Perchè non viene a dare il solito bacio alla mamma? —
Ma guardatasi attorno, soggiunse con stupore:
— Dove sono? Io non mi trovo a casa mia.... Sogno forse, o sei stato
tu, Alfonso, che mi hai portata qui? —
Il giovane stette qualche minuto prima di rispondere.
— La mia testa è un po' debole, — aggiunse Clara col suo angelico
sorriso — io ho dormito troppo, non è vero? Vedo ancora gli oggetti
confusi. Lascia che io ti guardi bene, Alfonso, fratello mio, ora ti
sei fatto uomo, sono tanti anni che non t'ho veduto, ma ti riconosco
sempre,... abbracciami.... baciami ancora, perchè io sia convinta
che sei proprio tu. —
E lo contemplava con occhio ansioso, pieno di tenerezza, come una
madre che contempla un figlio adorato, ed era così commossa, che non
poteva pronunziare una sola parola. Anche Alfonso, colorito in volto
per l'allegrezza, esaminava la sorella con una tenera avidità.
Finalmente Clara strinse di nuovo il fratello al suo seno, e con
voce tremula disse:
— Lascia che io ti abbracci ancora una volta con tutta sicurezza di
cuore;... se tu sapessi quante volte ti ho invocato, Alfonso mio,
quante volte ti ho chiamato in mio soccorso! —
E come scossa da un improvviso ricordo, si ritrasse alquanto dal
fratello, e passandosi una mano sulla fronte:
— Mi pare che io abbia corso un pericolo, — disse con una voce
soavemente commossa — ma non rammento quale...; ho il cervello
ancora così vuoto,... eppure.... —
Clara impallidì ad un tratto: il suo occhio ridivenne fisso, il
labbro scolorito, le tempia tremolanti sotto le ciocche disciolte
dei lunghi capelli biondi. Seduta sul letto, sostenuta da Alfonso,
tremava tutta, ed il suo sguardo si arretrava da qualche visione che
le faceva orrore.
— Lo ricordo.... lo ricordo! — esclamò — sono andata da lui, era
l'ultimo colpo che voleva tentare. Mi ricevette con gentilezza: ci
parlammo un istante come amici, egli trasse una carta che io dovevo
firmare, ma Dio m'ispirò; gettai un'occhiata sulla carta: l'infame,
dopo aver spogliata la madre, voleva spogliare anche la figlia.
Vedi, egli mi prese per la vita, mi strinse da soffocarmi, voleva
obbligarmi a firmare, io resistetti, entrò la sua amante, oh! è
orribile, non ricordo più bene, so che mi sentii venir meno, mi fu
dato a bere un bicchiere d'acqua, ma aveva un tal sapore, che lo
respinsi appena ne ebbi ingoiato qualche sorso, poi fuggii da quel
palazzo, andai dal notaro; quando tornai a casa ero rifinita, mi
sentivo morire.... ebbi appena tempo di scrivere tre lettere, una
diretta a te, e poi.... ah! non ricordo più nulla. —
Clara cercava di superare la stanchezza e lo scoraggiamento: si
stringeva colle mani in atto convulso la testa, e spossata, rifinita
cadde sul letto.
— Parla tu, Alfonso, dimmi come sei venuto da me, e prima di tutto,
rassicurami: mia figlia, la mia Lilia è salva?
Alfonso ebbe il coraggio di mentire.
— Sì.... è salva; — disse — non temere per lei.... ci sono io.
— Ah! sì, tu che mi proteggerai,... ora non ho più paura, ma dimmi
in qual modo mi trovo qui.... non temere.... ascolterò tutto....
sono forte, sai! —
E sorrideva in modo così commovente, che le lacrime spuntarono sugli
occhi di Alfonso.
Ines, tutta rannicchiata sulla seggiola dietro a suo marito, non
perdeva una parola della contessa. Come sentiva d'amare
quell'angelica creatura, perchè si capiva che aveva dovuto soffrir
tanto nella vita!
— Io ti dirò tutto, — disse Alfonso a voce bassa, tremante — ma tu
pure non devi nascondermi nulla; non ora, cara.... no, tu non sei
abbastanza in forze.... lascia parlare a me solo. —
Clara avea lasciata cadere la testa sul guanciale, ma volgeva gli
occhi sul fratello, ansiosa di sentire quanto egli stava per dirle.
— Prima di tutto, devi perdonarmi.... se dopo la tua lettera tardai
tanto a venire, ma non fu colpa mia. Tu sai che mi trovavo nella
Spagna.... il padre di mia moglie era ammalato....
— Tu hai preso moglie, Alfonso.... e non mi hai detto mai nulla?
— Non te lo scrissi, Clara mia? Non ti mandai la partecipazione del
mio matrimonio?
— Io non ho ricevuto nulla, te lo giuro; ma ora dove si trova tua
moglie?
— Qui.... vicino a me....
— Qui? — ripeté la contessa congiungendo le mani — e non la chiami,
che io l'abbracci?... avrò dunque anche una sorella?... Come le
vorrò bene! —
Ines, commossa a così affettuose parole, scoppiò in pianto.
Alfonso si rivolse, la sollevò fra le sue braccia e la scoperse agli
occhi della contessa.
Questa mandò un lieve grido, si sollevò di nuovo sul letto, e stese
le braccia all'avvenente spagnuola, che vi si gettò con trasporto, e
le due teste, una bruna e l’altra bionda, si confusero per un
istante insieme; e nella stanza si udì un rumore di baci.
— Ora lascia che io ti guardi, sorella mia, — disse Clara,
sollevando colle sue manine pallidissime, affilate, la bruna testa
di Ines, che aveva tuttavia dell'infantile per il candore, la grazia
ingenua, l'incanto proprio della sua età. — Sei bella.... sei
meravigliosamente bella.... Fratello mio, te ne faccio i miei più
sinceri complimenti. —
Alfonso arrossì dal piacere e Ines, dalla confusione.
— Tu mi vorrai un po' di bene, non è vero? — aggiunse Clara, con una
ingenuità commovente — mi amerete tutti e due.... non sarete gelosi
di questa povera e debole creatura....
— Io vi amerò tanto, tanto.... — esclamò Ines — come vi ama il mio
Alfonso, che tanto mi ha parlato di voi, del quale siete stata
sempre la prima aspirazione, il primo pensiero. —
Un raggio di sublime felicità irradiava la fronte della contessa.
— Dio è buono, — mormorò — come mi sento lieta: se avessi qui la mia
Lilia, il mio sogno si sarebbe avverato. Ma ella è in salvo, mi hai
detto, Alfonso, tu anderai a prenderla, e la porterai da noi, non è
vero? —
Alfonso ed Ines si scambiarono una dolorosa occhiata, ma per fortuna
Clara, immersa nell'estasi del momento, non se ne avvide.
— Ora, dimmi, dove siamo? Come mai io sono venuta qui? Mi trovo a
casa tua?
— No.... cara,... sei in luogo sicuro, in casa di buonissima gente,
— rispose Alfonso con dolcezza.
— E perchè mi avete trasportata lontano da mia figlia? Dimmi tutto,
Alfonso, io posso ascoltarti senza timore,... eppoi, se anche ci
fosse stato un pericolo, ora non mi spaventa più.... sono nelle
vostre braccia. —
E si tacque; e il suo sembiante si rischiarò tutto; ella teneva
nelle sue mani, quelle di Alfonso e di Ines.
Ormai il giovane non poteva più celare la verità, anzi era meglio
rischiarare la situazione.
Clara era dunque fuor di pericolo, lei stessa lo diceva, e quello
che egli le avesse rivelato non le avrebbe fatto male.
Alfonso strinse dolcemente la mano della sorella, e con voce
commossa cominciò:
— Come ti dissi, appena ricevuta la tua lettera volevo correre in
tuo soccorso e mia moglie stessa m'incitava, sebbene avesse il padre
gravemente malato.
— Che buona fanciulla! — esclamò Clara, volgendo uno sguardo di
gratitudine ad Ines.
— Fortunatamente il pover uomo, cominciò a star meglio, e allora io
ed Ines decidemmo di partire insieme. Ma pareva che la fatalità
fosse sui nostri passi; il viaggio fu cattivo, ci accaddero mille
vicende; fatto sta che quando giungemmo a Firenze, erano trascorsi
due mesi dalla data della tua lettera. —
Il viso gentile di Clara si rattristava alquanto.
— Dio ha voluto così; — mormorò — continua, fratello mio.
— Tu mi scrivevi che andavi in campagna per rimetterti in salute, e
così, appena giunti a Firenze, io ed Ines ci facemmo condurre
direttamente alla tua villa. —
Alfonso si fermò un momento esitante: le guance d'Ines divennero
pallide.
Solo la contessa Clara rimaneva calma.
— Ed io non mi trovavo a ricevervi, — disse con ingenuità — eppure
non mi sono mossa dalla villa,... ma perchè non continui e abbassi
gli occhi? Hai dunque qualche cosa di così orribile a raccontarmi?
Guardami, io sorrido, io non temo,... dimmi tutto.
Alfonso ebbe freddo al cuore, ma Ines lo incoraggiò con lo sguardo.
— Ebbene sì.... a che pro nascondertelo.... tanto bisogna che tu lo
sappia.... eppoi ora noi siamo uniti.... e tu avevi ragione di dire:
il pericolo è passato. —
La contessa fu presa da un'ardente curiosità.
— Parla.... dunque, parla.
— Ebbene quando noi giungemmo alla villa, ci dissero che tu eri
morta il giorno prima. —
Clara rabbrividì e guardò il fratello con aria spaventata. Parlava
sul serio? Ma sì, perchè egli doveva permettersi di scherzare in
quel momento?
— Morta.... io morta! — esclamò — ripetilo, perchè, in verità, mi
par di sognare.
— Sì.... Clara mia.... ci dissero che tu eri morta ed eri stata
portata al cimitero. —
La contessa mandò un grido d’orrore.
— Al cimitero?... Mi avevano dunque seppellita? — esclamò.
— No.... non eri sepolta, — rispose Alfonso con imbarazzo — ma
dovevi esserlo il giorno seguente. Io non potevo persuadermi che tu
fossi morta, senza che io ti vedessi, senza averti dato l'ultimo
bacio, l'estremo addio.... senza averti chiesto perdono di aver
tardato a venire in tuo aiuto.
— Povero e caro fratello, indovino il resto!... — disse la contessa
con un sorriso straziante — tu volesti vedermi ancora una volta, e
hai impedito che si commettesse un orribile delitto, che io venissi
sepolta viva.... Sepolta viva, Dio mio.... Dio mio.... egli era
giunto fino a questo! —
All'udire tali parole, la fronte di Alfonso si bagnò di un sudor
freddo; pure non osava d’interrogare la sorella.
— E allora quello che io avevo creduto un sogno.... era una realtà;
— disse Clara — mi pareva sai.... di sentirmi trasportare in uno
spazio tenebroso ed infinito.... mi pareva di aver visto degli
uomini incappati di nero.... prendermi.... depormi in una cassa,...
ma io rimanevo senza volontà, senza resistenza, senza terrore....
Ah! fratello mio.... dunque a te.... a te solo devo la vita;… ma
temo che il conte sappia che la morta è risuscitata....
— Il conte per ora non sa nulla. Io ho comprato il silenzio del
custode del cimitero, e i contadini mi credono partito; io ti
trasportai qui nella casetta di un fiaccheraio, il quale manterrà il
segreto con tutti. Ho creduto bene di far così, perchè non sapevo se
a te conveniva passar per morta o rivivere, perchè volevo, prima di
prendere un partito, conoscere la tua storia, sapere i pericoli che
hai corsi, quelli che ancora puoi correre.... insomma.... tutto. —
Alfonso non si era avvisto del pallore improvviso che aveva cosparso
i lineamenti della sorella, perchè questa, con uno sforzo violento,
si era rimessa in calma e rispondeva:
— Sì.... non ti nasconderò nulla, fratello mio.... nè a te, nè a
quella cara creatura che ti appartiene. Oh! amala molto, Alfonso, se
tu sapessi che cosa vuol dire per una donna perdere la fede, l'amore
per il marito.... —
E come ravvedendosi, aggiunse con un sorriso:
— Dove si trova questa casetta?
— In una campagna isolata; all'infuori del fiaccheraio che mi
condusse al cimitero ed è stato presente alla tua resurrezione, gli
altri ti credono una forestiera caduta malata.... in viaggio. —
Indi Alfonso con brevi parole raccontò quanto Nanni aveva fatto per
lui, la bontà di quella buona gente, le cure che le avea prodigate
quel medico strano, che si chiamava il dottor Moro.
Clara ascoltava ogni particolarità con un’attenzione sempre più
crescente, e si capiva che mille pensieri doveano agitarle il
cervello.
— Dio è buono.... — mormorò di nuovo tristamente — ed io che avevo
quasi dubitato di Lui! Ma Egli mi ha perdonato, perchè tu sei vicino
a me. —
Tacque, e in un lungo bacio scambiato con Ines ed Alfonso, ella
parve dimenticare il passato e si ridestò in lei la soave e vivace
speranza di vivere ancora.
Quelle due buone e sante creature erano venute a salvarla: ed ella
ringraziava Dio, perchè avea permesso che apparisse morta per gli
altri, così d'ora innanzi non sarebbe vissuta che per suo fratello,
per sua figlia, per Ines, dimenticando le scene di violenza e di
sangue alle quali era stata presente.
Una lieta casetta, una placida solitudine avrebbe accolti, riuniti
quei cuori felici. Clara rise con gioia quasi fanciullesca al
ridente quadro che le appariva dinanzi: ella si beava in mille
visioni di felicità.
— Non parlarmi più del passato! — esclamò — voi siete qui, ed io non
ricordo più nulla. Tu, Alfonso, mi recherai la mia bambina; ella non
sa ancora che cosa significa la parola morta, riconoscerà la sua
mamma, mi bacerà, starà qui con noi, sempre. E se tu, Ines, sorella
mia, avrai un bel maschietto.... noi uniremo insieme i nostri
figliuoli, dopo averli allevati in una vita semplice, modesta,
accarezzata dai più puri affetti. Non torneremo più in città.
Lontani, lontani dal frastuono del mondo, i nostri sogni saranno
lieti, al nostro risvegliarsi l'universo ci parrà mille volte più
bello. Sorridete con me:... oh! se avessi qui subito la mia
Lilia,... ma tu me la porterai, non è vero? —
Clara si era di nuovo sollevata: il suo viso raggiava di felicità,
le sue chiome, snodandosi, le coprivano il petto, che si sollevava
ad intervalli con dolcissimi palpiti. Sarebbe stata crudeltà
troncare siffatta gioia, e nè Ines, nè Alfonso ne ebbero il
pensiero.
— Sì, noi non ci lasceremo mai più! — disse il giovine stringendosi
al petto la sorella, mentre la spagnuola si asciugava furtivamente
una lacrima.
La Sandra, entrando con un cordiale, si fermò sulla soglia attonita
e commossa a quella scena.
VII.
Otto giorni dopo, Clara, avvolta in una lunga veste di cachemire
bianco, sedeva su di una poltrona presso la finestra, che guardava
nell'orto del fiaccheraio.
La casetta di Nanni pareva trasformata. Egli, colla madre, si era
ritirato nelle stanze a terreno, ed aveva lasciate quelle del primo
piano a disposizione dei forestieri.
Alfonso si era deciso di non muoversi da quella casetta, dove poteva
essere informato di quanto succedeva a Firenze, giacché Nanni gliene
portava le novità, e dove avrebbe avute tutte le cure, senza destare
la curiosità di alcuno.
Quei pochi che bazzicavano in casa, compreso il medico, credevano
che si trattasse di forestieri, che per loro capriccio, od anche
attratti dal bel panorama e dalla solitudine di quel luogo,
volessero passar ivi i mesi d'estate.
Alfonso avea fatti ritirare i bagagli dalla stazione, poi aveva
acquistati dei mobili leggiadri, e coll'aiuto di un tappezziere,
amico di Nanni, in pochi giorni la casetta del fiaccheraio si era
trasformata in un piccolo paradiso, dove non mancava nulla delle
necessità della vita.
Una svelta contadina dei dintorni faceva da cameriera: la Sandra,
che era stata in gioventù un'abile cuoca, s'incaricava della cucina,
e il buon Nanni, alla sera, tornando colla vettura, portava le
compre ordinate, ed era divenuto un buon credenziere.
La vita quindi sarebbe scorsa dolcemente in quell'angolo solitario,
dove non giungevano i rumori della città, se la contessa Clara non
avesse tremato per la figliuola. Ormai non le potevano più
nascondere la verità: ella sapeva che Lilia era con suo padre, e
sebbene Nanni, ad istigazione di Alfonso, le portasse ogni giorno
buone nuove della fanciulla, la quale, come sappiamo, non era più in
Firenze, la contessa rimaneva agitata e desiderava che le
ritornassero completamente le forze per vedere la figlia adorata,
quand'anche avesse dovuto travestirsi o contentarsi di osservarla
dalla portiera della carrozza.
Clara, come abbiamo detto, era alzata e sedeva presso la finestra.
Era assai pallida, e nei di lei occhi si leggeva una profonda
melanconia. Le trecce magnifiche della sua chioma aveva aggruppate
di dietro al capo con vago disordine. La veste di cachemire celava
le forme gentili del suo corpo, e lasciava scoperto un breve e
grazioso piedino, calzato da una pianella di velluto che posava
sopra un cuscino ricamato.
Ines sedeva su uno sgabello e pareva intenta a cucire una graziosa
cuffietta; ma di quando in quando i suoi grand'occhi, così belli,
così affascinanti, si volgevano sulla diletta cognata.
— Alfonso ritarda.... — disse dopo un breve silenzio la contessa. —
Chi sa quali ostacoli avrà dovuto incontrare per vedere mia figlia,
la mia piccola Lilia.... Se tu sapessi, Ines cara, come è bella....
e come già balbetta nel suo gergo infantile, i più vezzosi nomi! —
Ines ascoltava anelante. Anch'ella sarebbe in breve divenuta madre,
e il pensiero della creaturina che le palpitava in seno, le faceva
comprendere viepiù le torture, gli affanni della povera contessa.
— Chi le parlerà adesso della sua mamma? — continuò Clara, mentre
una lacrima scendeva furtiva sulla guancia — forse gli angioli, ed
in sogno ella mi manderà colle manine i suoi più caldi baci. —
La contessa si tacque, perchè aveva il cuore pieno, e soffriva
troppo.
Ines sospirò senza osare di turbare quel silenzio.
— Il nome di Lilia è bello, non è vero? — disse dopo un momento la
contessa con un accento che pareva una carezza.
— Sì, è molto bello! — esclamò Ines con entusiasmo.
Clara aveva chinato il capo, ma un sorriso sfiorava questa volta le
sue labbra.
— Il suo vero nome però, — disse — è Alfonsina.... un nome, se
vogliamo, più gentile, che ricorda il mio caro fratello.
— E, dite…. perchè glielo avete cambiato? — chiese ingenuamente
Ines.
La fronte della contessa si offuscò.
— Oh! è tutta una storia.... — disse.
— Potete raccontarmela?
— Sì, mia cara,... tanto più che Alfonso non è qui, soffrirebbe
troppo. —
E dopo un momento di silenzio, disse:
— Mio marito, come tutti, ignorava che io avessi un fratello:
Alfonso deve avertelo detto.
— Oh! sì, so tutto quanto lo riguarda e quello che avete fatto per
vostro fratello.
— Oh! avrei dovuto fare molto più.... ma non è la volontà che mi
mancava. Io e Alfonso, — continuò — ci scrivevamo di nascosto come
due amanti: egli firmava le sue lettere col suo semplice nome. Una
di queste lettere cadde in mano a mio marito. —
Ines rabbrividì, perchè intravide che la contessa stava per farle
una dolorosa rivelazione.
Clara, infatti era diventata pallidissima.
— Mi ricorderò sempre la scena di quel giorno. Egli credette che
quella lettera fosse di un amante. Invano io gli giurai sul capo di
nostra figlia che si trattava di un fratello; ho avuto con mio
marito una lunga, sgradevole discussione.... e malgrado le mie
lacrime, le mie preghiere, le mie affermazioni, egli non volle
credermi.... e giunse fino al punto di dubitare della paternità
della sua creatura. —
Sulle guance della contessa un rosso ardente aveva sostituito il
pallore di poco prima; i suoi grand'occhi azzurri, sfavillarono
alquanto; il suo seno si sollevò con un profondo sospiro. Vinta
dall'emozione, contro la quale si sforzava invano di combattere,
Clara fu costretta ad interrompersi per un istante.
Ines aveva lasciato cadere il lavoro sulle ginocchia e fissava la
contessa con uno sguardo pieno di attenzione e riverenza. Quella
rassegnata espressione di dolore che faceva apparire anco più bella
la fisonomia angelica di Clara, quel raggio di una viva e profonda
tenerezza che usciva dai suoi occhi, le ispiravano un sentimento
pietoso, una gentile riverenza verso la sventurata.
— Povera martire! — mormorò fra sè.
La contessa, come se indovinasse quello che passava nell'animo della
cognata, le accarezzò con affetto materno la bruna testina, e con un
sorriso melanconico:
— Ah! – disse — che tu non debba mai provare, angelo mio,
l'indifferenza, l'odio atroce, crudele, d'una persona che si ama ed
alla quale non hai mai fatto che del bene. Invano, ti ripeto, io
raccontai a mio marito la storia d'Alfonso: non mi credette.... ma
Dio conosceva la mia innocenza, ed a Lui ogni giorno rivolgevo la
mia calda orazione. Quando ero sola con mia figlia, mi compiacevo di
chiamarla col nome dolce di Alfonsina: ritrovavo nei lineamenti di
lei qualche cosa di quelli di mio fratello; in presenza però di mio
marito e degli altri, le davo il nome di Lilia, perchè il primo non
rimanesse profanato e non divenisse oggetto di risa e di scherno.
Così le rimase il nome di Lilia.
Ines pendeva dalle labbra di Clara che parlava con dolcezza, ma
quasi sottovoce, e il suono melodioso delle sue parole sembrava
dileguarsi fra le pareti della stanzetta.
— Ed ora dove si troverà mia figlia, il mio angiolo carissimo? —
continuò. — Com'è bella! Se tu la vedessi, Ines! Io mi alzavo ogni
notte tre o quattro volte, per andare a spiare il suo sonno
innocente.... e la baciavo lieve lieve per non disturbarla. La
mattina ero sempre lì, al suo svegliarsi, per averne il primo
sorriso.... il primo bacio. E tutto il giorno, io lo passavo con
lei; con lei dimenticavo i miei dolori, le altrui perversità, il
mondo intiero. E ora invano ella chiamerà la mamma. La mamma è
lontana.... e quando crescerà, le diranno che è morta! Dio.... Dio
mio, se non dovessi più rivederla! —
Ella sospese il suo dire. Aveva il volto cosparso di lacrime.
— Sì.... la rivedrete in breve.... Alfonso ve l'ha promesso, — disse
Ines chinandosi, per baciare la mano della contessa.
— Io spero tutto da mio fratello, — rispose Clara — egli dice bene:
io ormai per il mondo, per la società, sono morta. E poi a che pro
ricomparire...? Io non lo farò che quando sarà necessario, ma prima
voglio che Alfonso conosca tutta la mia storia.
— E quando ce la racconterete? — disse con prontezza Ines.
La contessa ebbe un dolce sorriso.
— Cara figliuola, io veggo la curiosità nei tuoi occhi, come sento
il bisogno di dare sfogo alla piena degli affetti che mi agitano
l'anima. Oggi vi dirò tutto,... ma è una storia molto triste la mia,
e temo nello stato in cui ti trovi....
— Oh! non temete.... sarò forte, ed imparerò da voi come si
sopportano i dolori della vita. Dio finora è stato buono con me, non
mi ha conceduto che della felicità. Figlia, fui adorata dai miei
genitori, fanciulla fui amata da Alfonso.... ed ora all'amore di
lui, unirò la più grande delle felicità; quella d'esser madre. —
La giovane spagnuola si tacque come vergognosa d'aver mostrata la
sua gioia a quella povera disgraziata.
La contessa teneva chinata la testa e non rispondeva. Davanti alla
sua mente apparivano mille e mille immagini del passato, evocate
dalla parola dolce e melodiosa d’Ines.
Anch'ella era stata fanciulla lieta, anch'ella era stata amata con
passione, con delirio, anch'ella si era sentita madre felice.... ma
con quante lacrime, quante torture aveva scontate quelle gioie così
rapide, così passeggiere!
Il silenzio delle due donne fu interrotto da un lieve bussare
all'uscio della stanza.
— Avanti, — disse Ines.
Era la contadinotta che serviva da cameriera, una brunetta piccante,
dal fare oltremodo spigliato.
— Ho veduto dal viottolo la carrozza di Nanni, e sono venuta ad
avvisare subito le signore.
Ines balzò in piedi. Anche Clara fece per alzarsi, ma era troppo
debole e ricadde di nuovo sulla poltrona, mentre gli occhi si
fissavano ansiosi verso l'uscio.
Nel vedere entrare Alfonso, un sorriso di gioia le si dipinse sul
viso.
Intanto Ines esclamava:
— Ah! finalmente sei arrivato; eri atteso con impazienza; vieni a
consolare Clara, che ti aspetta con ansia. —
Alfonso baciò le labbra di sua moglie, poi si avvicinò alla sorella,
e le prese una mano che strinse fra le sue.
— Ebbene.... l'hai veduta? — chiese la contessa con un fremito,
fissandolo in viso.
— Sì.... l'ho veduta, calmati, ti dirò tutto! — esclamò Alfonso
sedendo vicino alla sorella.
Ines riprese il suo posto sullo sgabello.
La contadina si era prudentemente ritirata, ed aveva richiuso
l'uscio.
— Ah! lascia che io ti guardi, mi sembra che tu abbia portato con te
qualche cosa della mia Lilia, — disse Clara con un sorriso divino —
dimmi, l'hai baciata per me? Come hai fatto a vederla? —
Alfonso faceva degli sforzi penosi per contenersi. A lui toccava
mentire, mentir sempre, per consolare quella povera e fragile
creatura, per ridarle la speranza. Se la contessa avesse saputo che
la figlia era molto lontano da Firenze, sarebbe morta davvero dal
dolore. Bisognava quindi prepararla a poco a poco alla crudele
verità, aspettare che ella fosse intieramente ristabilita, per
vedere qual partito vi fosse da prendere.
Alfonso, nella sua gita a Firenze, non aveva ottenuto di saper altro
se non che il conte era in quel momento a Parigi.
Se Clara non fosse stata ancora così debole, egli sarebbe partito
subito, ma prima bisognava che conoscesse tutta la storia di sua
sorella, bisognava che sapesse con qual uomo aveva a fare, se si
doveva prendere coll'astuzia, coll'inganno, o colla forza!
Ines conosceva tutti i più intimi pensieri del suo diletto, e
soffriva al pari di lui, benché cercasse d'infondergli coraggio col
suo affascinante sorriso, con la sua melodiosa voce.
— Ho potuto vederla, — rispose Alfonso alla domanda della sorella —
perchè è uscita con la governante, l'ho avvicinata con un pretesto,
ho detto a quella donna che ero un pittore e che ero rimasto colpito
dalla bellezza della bambina che teneva con sè,... che non potevo a
meno di fermarla per darle un bacio.
— L'hai baciata?... l'hai baciata? — esclamò la contessa col volto
cosparso di lacrime. — ah! rendimi quel bacio.... è di mia figlia. —
E come delirante gettò le braccia al collo del fratello e posò le
sue labbra pallide, frementi, sulle labbra di lui, come se con quel
bacio avesse potuto rapir qualche atomo della sua creatura. Povera
madre! Chi avrebbe pensato a disingannarla?
Calmata quella commozione, il sorriso era ritornato sulle labbra
della contessa; un sorriso bello e sereno.
— Ella ti ha porte le sue piccole braccia, non è vero? Ti ha
sorriso? Era pallido il mio angioletto?
— No.... ti ripeto, stava benissimo, e la governante mi assicurò che
non le mancava nulla.
La contessa si fece un po' triste.
— Ma le manco io.... sua madre.... di cui forse nessuno ricorda più
il nome! — esclamò. — Ed anche la mia bambina mi ha dimenticata. Ma
a quell'età si può avere una ricordanza? A quell'età si sorride a
tutti, si chiama tutti col dolce nome di mamma.... e forse.... —
Impallidì e non poté frenare un singulto. Alfonso, commosso, le
strinse le mani. Ines la guardò coi suoi begli occhioni
appassionati.
— Vedrete, — diss'ella — che presto avrete qui.... la piccola
Lilia,... non è vero, Alfonso mio? Voi stessa mi dicevate che non
bisognava disperare della bontà di Dio.
— Hai ragione, Ines, hai ragione.... e ne ho una prova, della bontà
divina, giacché voi siete qui vicini a me, miei angeli consolatori,
che dopo avermi salvata la vita, mi mostrate ancora la felicità....
— Ma io debbo mantenere la mia promessa, — aggiunse dopo un minuto —
è venuta l'ora di raccontarti i casi della mia vita, che tu ignori.
—
Alfonso provò un palpito di cuore.
— Non temi che ti faccia male? Sei ancora così debole!
— Ma voi siete qui vicino a me per sostenermi. Ines, dammi anche la
tua manina sai,... tenetevi stretti a me, i vostri visi
m'infonderanno il coraggio, se stesse per mancarmi. —
Ella chinò alquanto il capo; quindi, fissando sul fratello e su Ines
uno sguardo di paradiso, cominciò la sua narrazione, che noi
racconteremo senza le interruzioni, che lo stato di debolezza della
contessa rendeva indispensabili, completandola con la storia della
giovinezza di Clara e di Alfonso, intrecciata da tanti episodî
drammatici e commoventi.
PARTE SECONDA
Il romanzo di Clara
I.
Noi sappiamo che Clara sola era stata considerata come figlia da suo
padre, il conte Rolando Vergani, e questi aveva riconcentrato su di
lei tutto l'affetto esaltato, che aveva un giorno sentito per la
moglie colpevole.
Il conte aveva l'aspetto burbero, imperioso, la voce aspra,
sibilante, tanto che i servi tremavano dinanzi a lui; non vi era che
Clara che potesse ammansire, ridurre, quel carattere inasprito da un
violento disinganno. Quando la gentile creatura sedeva al fianco del
padre, la modulazione della voce di lui si raddolciva, senza che
egli neppure se ne accorgesse. L'amava e la benediva, persuaso di
ripeterlo venti volte al giorno; ma, in realtà, di rado parlava,
perchè era un uomo di pochissime parole.
La morte della moglie aveva cresciuto la sua misantropia e reso
ancora più burbero il suo carattere. Guai a chi gli ricordava la
consorte perduta, o che facesse una lontana allusione a lei!
Finché Clara fu fanciulletta, ella non comprese, nè immaginò nulla
del triste dramma, che si era compiuto nella sua famiglia. La morte
della madre l'aveva un po' colpita ed aveva sparso sul volto della
piccina un velo di melanconia, che sempre le rimase; ma quel tenue
velo non la rendeva che più affascinante.
Clara era dotata di un temperamento nervoso, impressionabilissimo.
Una tale sensibilità, spesso eccessiva, fu quella che doveva più
tardi recare una trista influenza nella sua vita.
La sua educazione non fu difficile a compirsi, perchè ella era
sveglia, intelligente, vogliosissima d'imparare. La sua governante,
che era cattolica fervente, le trasfuse la sua fede, il suo ardore
nelle preghiere, e l'idea di tutto ciò che vi è di buono e di nobile
nel mondo.
Le ricchezze, da cui era circondata, non avevano il potere
d'inorgoglire la sua vergine anima; e nelle preghiere che ogni sera
si volgevano al Cielo dai rozzi abituri, che circondavano la
grandiosa villa del conte, si sarebbe sempre sentito pronunziare il
nome adorato di Clara.
Quante volte la contessina, accompagnata dalla governante, si recava
nei meschini tugurî, dove una famigliuola aspettava il suo soccorso
per togliersi la fame, o un ammalato povero, domandava per
compassione quei servigî, che non si possono comprare col denaro!
Con quanta premura la giovinetta si affrettava in ogni luogo, dove
sapeva che v’erano persone che avevano bisogno di lei! Con quanta
gentilezza, con quale soave sorriso parlava loro, li consolava, li
confortava ad attendere con pazienza la guarigione, oppure disporsi
religiosamente alla morte.
Una volta che la contessina Clara dovette stare a letto per una
febbre gagliarda che la colpì a causa di uno strapazzo, inquantoché
aveva voluto assistere una notte intiera una fanciulla moribonda,
che si dava alla disperazione e rifiutava aiuti umani e religiosi, e
solo si calmò alle parole, ai conforti di Clara, e spirò
benedicendola, col sorriso sulle labbra, il paese rimase
profondamente rattristato. Buoni e cattivi, ricchi e poveri,
trassero in folla alla villa del conte per avere notizie della
salute di Clara: la costernazione fu generale, nè cessarono i
singhiozzi ed i pianti finché durò la malattia.
L'infermità dell'angelica creatura era ritenuta come una sventura
pubblica, e non vi era rozza immaginetta collocata sul muro o negli
alberi in campagna, che non avesse acceso un lume dinanzi, e intorno
alla quale non si radunassero a pregare, perchè la nobile fanciulla
ricuperasse la salute.
E quando Clara fu riveduta in giardino, appoggiata al braccio della
governante, avvolta in un abito bianco con un leggier velo attorno
al volto ancora languido e abbattuto, fu uno scoppio di grida
entusiastiche di gioia, di riconoscenza, e un segno della gioia
generale fu un voto per grazia ottenuta, che venne appeso all'altare
di Maria, nella chiesa del villaggio.
Clara era giunta ai diciotto anni, senza ancora conoscer nulla del
libro della vita. La sua esistenza solitaria, casta, e quasi
claustrale, non era animata che da due nobili passioni: l'amore per
il padre, e l'amore per il prossimo. Ah! se suo padre fosse stato
meno stravagante, ella si sarebbe sentita felice in quel recondito
angolo di terra, che non avea quasi mai abbandonato, e dove la vita
scorreva in mezzo a sentimenti delicati, teneri, deliziosi!
Una sera Clara stava nella sua camera verginale, la cui finestra si
apriva sul giardino, quando un lieve bussare all'uscio della stanza,
la fece trasalire. La governante non poteva essere, perchè era
andata a letto da un pezzo. Che il padre, il quale nel giorno ella
avea visto più turbato del solito, venisse da lei, a cercare un
istante di sollievo o di conforto?
Con le guance lievemente colorate, gli occhi animati, ella corse ad
aprire e si trovò dinanzi un vecchio servo, il solo che il conte non
avesse rimandato dopo la morte della moglie.
Nemmo, così chiamavano il vecchio, avea visto nascere Clara, l'avea
portata fra le braccia ed avea pianto con lei la morte della
contessa. Anzi si era notato che dopo questa morte, Nemmo era
divenuto triste, nessun sorriso era più ricomparso sulle sue labbra
e spesso si assentava dalla villa senza alcuna ragione, restando
lontano fin due o tre giorni, e quando tornava era più conturbato
che mai.
Clara voleva molto bene al vecchio Nemmo, e lo trattava con
familiarità, come se fosse stato suo padre; dinanzi a lui, essa si
sentiva più franca, più espansiva.
— Tu, Nemmo, a quest'ora? — esclamò con sorpresa la giovinetta,
quando vide il vecchio servo. — Hai qualche cosa di grave da dirmi?
Il babbo sta male?
— No, il signor conte sta benissimo e riposa, ma voi avete
indovinato: ho qualche cosa di grave da confidarvi. —
Clara, turbata, introdusse il vecchio in camera.
Nemmo chiuse l'uscio con circospezione, anzi vi mise anche il
paletto, e rivolgendosi alla fanciulla, che lo guardava stupita,
disse:
— Nel caso che alcuno venisse per qualsiasi ragione a disturbarci,
nel tempo che voi metterete ad aprire, io me ne uscirò dalla
finestra: nessuno deve sapere che sono venuto da voi, perchè se il
signor conte lo risapesse, io sarei allontanato e non potrei più
servirvi. —
Questo preambolo sconcertò Clara. Ella porse una seggiola al vecchio
servitore e con voce leggermente tremula:
— Siedi, — gli disse — se devi parlarmi a lungo. —
Nemmo obbedì.
— Ora dimmi presto tutto, perchè non puoi immaginarti come mi batte
il cuore, senti. —
E la candida fanciulla, che si era seduta presso il vecchio, prese
con ingenuità la mano di lui, e la tenne per un istante sopra il
cuore, che batteva a colpi precipitosi.
— Oh! non tremate così, signorina, — le disse allora il servitore —
non vi è nulla che debba spaventarvi. —
Indi con voce che si fece commossa, continuò:
— Voi sapete, Clara, se io ho voluto bene a vostra madre, che ho
conosciuto anche lei bambina come voi.
— Oh! sì, — rispose la fanciulla congiungendo le manine — e mio
padre apprezzava assai la tua venerazione per la mamma, perchè volle
che tu rimanessi qui, anche dopo la morte di lei.
— Vostro padre, — rispose il vecchio gravemente — mi aveva
congedato.
— Davvero?…
— Non ho nessuna ragione di mentire, signorina. Sì, il conte voleva
allontanarmi come gli altri, ma vostra madre mi aveva affidata una
santa missione, ed io giurai a me stesso, che non vi avrei
abbandonata. Perciò risposi al conte che egli era padrone di
scacciarmi, ma io non mi sarei mai mosso da questi dintorni, perchè
la contessa al letto di morte mi aveva così ordinato; epperò sono
rimasto. —
Clara ascoltava con sorpresa sempre crescente.
— Mia madre ti aveva affidata una missione, hai detto, e tu l'hai
compiuta?
— Sto per adempirla, — disse il vecchio, traendo da una tasca
interna del vestito una lettera con dei suggelli neri, ancora
intatti, e colla sopraccarta alquanto sbiadita dal tempo. — «Quando
mia figlia avrà diciotto anni, se ella si sarà conservata l'angelo
che è ora,» — mi disse vostra madre — «tu le consegnerai questa
lettera, e le dirai che sua madre morente, la supplica ad adempire
quanto le chiede.» —
Un tremito nervoso agitava le mani di Clara, mentre prendeva la
lettera.
— Mia madre mi supplica? — disse con le lacrime agli occhi — vi è
dunque qualche cosa di così grave in questa lettera? —
Ruppe i suggelli febbrilmente, e aperse il foglio con un palpito di
cuore. La lettera era così concepita:
«Mia adorata figlia,
« Nell'ora in cui ti scrivo, tu sei ancora una bambina e non
potresti comprendere ciò che sta per svelarti tua madre morente.
« Ma il giorno in cui questa lettera ti sarà consegnata e l'aprirai,
tu conoscerai già tanto della vita, da capire, senza troppe
spiegazioni, i martirî della tua povera madre, e adempirai al sacro
dovere che ella t'impone.
«V’è nel mondo un fanciullo al quale tu sei legata con vincoli di
sangue, un fanciullo che ha otto anni meno di te.... ed è tuo
fratello.»
Clara, a questo punto, s'interruppe e guardò in volto Nemmo.
— Io ho un fratello! — esclamò — un fratello? E perchè non è con me?
Parla, Nemmo, parla, perchè tu non mi hai mai detto nulla?
— Non potevo, signorina,... vostra madre mi aveva imposto di non
parlarvi di vostro fratello, fino a che non aveste compiuto
diciott’anni....
— Però tu sai dov'egli si trova?
— Sì.... lo so, signorina, ma finite di leggere la lettera. —
Clara si asciugò le lacrime, che le facevano velo agli occhi e
proseguì:
«Tuo fratello è un povero innocente, che tuo padre ha voluto punire.
Ed io sola fui la colpevole della sua nascita.
«Se tuo padre sospettasse che tu sai la storia di tuo fratello,
sarebbe capace d'uccidere quella povera creatura, come si è
macchiato le mani di un altro orribile delitto.»
Clara si fermò di nuovo con un gesto di terrore.
— Dio mio.... è vero?... Un padre così buono, così affettuoso con
me;… ma no.... non è possibile.
— Pensate, signorina, che vostra madre vi ha scritto poche ore prima
di spirare, e non aveva ragione di mentire. —
Clara abbassò il capo.
— Ma perchè, tutto l'affetto di mio padre per me e tanto odio contro
mio fratello?… — disse dopo alcuni minuti di silenzio, rialzando il
pallido volto.
Nemmo la guardò fisso negli occhi.
— Egli sospettava che il fanciullo non fosse suo, — disse
lentamente.
Clara era troppo candida per capire.
— Non era figlio di mia madre? — balbettò.
— Sì.... signorina,... ma vi prego, continuate a leggere. —
Clara ubbidì. La lettera diceva:
«Tuo padre ha allontanato il tuo povero fratello, l'ha fatto passar
per morto, e così gli ha tolto il nome e le ricchezze; ma tuo
fratello vive: e lo stesso sangue corre nelle vostre vene. Vorrai tu
abbandonarlo ad una sorte crudele? Vorrai tu che egli viva
diseredato dalla famiglia, in balìa di un carnefice?
«Clara, tua madre morente ti prega a mani giunte, per l'amore che
ella ti ha portato, di aver pietà di suo figlio. Va', ricercalo,
proteggilo, io pregherò in Cielo per te. Clara, non respingere il
desiderio della tua povera madre, che non ha più speranza che in te
sola.
«Tuo fratello si chiama Alfonso. Nemmo, quel generoso ed affezionato
servitore, saprà dirti dove si trova. Sii per il povero diseredato
una madre: difendilo da ogni persecuzione, e soprattutto cerca di
sottrarlo all'odio di suo padre. Io ti benedirò dal Cielo, come ti
benedico in questo supremo momento, in cui sto per lasciare il
mondo, dove ho tanto sofferto ed ho espiato tanto.
«La tua sventurata madre.»
Clara avea finito di leggere, e colla testa chinata sul petto,
piangeva a calde lacrime e copriva di baci quel foglio adorato.
— Madre mia, che mi vedi dal Cielo, — esclamò congiungendo le mani —
ti giuro che adempirò fino all'ultimo il sacro dovere che tu
m'imponi! Sorridi e prega per me: tuo figlio sarà il mio, io sarò
una madre per mio fratello.... te lo giuro!
— Signorina, — esclamò Nemmo vivamente commosso — la vostra santa
madre avea ragione di non dubitare della vostra bell'anima! —
La fanciulla cercò di asciugarsi le lacrime, che continuavano a
scorrerle sul viso.
— Tu sai, dunque, dove si trova mio fratello?
— Sì, signorina, — rispose Nemmo asciugandosi egli pure una lacrima.
— Egli è molto lontano di qui?
— No, signorina, cinque leghe al più; ma bisogna recarvisi per una
strada impraticabile.
— E con chi vive mio fratello?
— Con un misero capraio, un uomo della peggior specie; il fanciullo
passa per suo figlio;... è mal nutrito, e gli tocca di condurre al
pascolo le capre sulla montagna.
— Ed è mio fratello? — esclamò Clara con esplosione — oh! mio Dio,
mio Dio!… — Poi cercando di rinfrancarsi: — Domattina andremo subito
da lui, e tu mi accompagnerai.
— Sentite, signorina, sarà meglio rimettere la gita al dopopranzo,
perchè allora il signor conte si ritira nelle sue stanze, e non si
vede più fino a sera.
— Hai ragione.... del resto troveremo un pretesto per la nostra
scappata.... un ammalato lontano.... Oh! come
aspetto domani:… caro, caro fratello.... quanto l'amerò.... Somiglia
mia madre?
— Sì; è tutto il suo ritratto.
— Come sono impaziente di vederlo, di abbracciarlo!... E poi fra me
e te concerteremo un piano di fuga: mio fratello non deve viver su’
monti, ma deve avere il suo posto in società; se mio padre lo
respinge, io ne farò le veci. Madre mia, aiutami tu dal Cielo dove
sei, dammi coraggio, perchè io possa adempire come si deve la tua
sacra missione! —
Così parlando, Clara aveva drizzata la sua persona flessibile e
snella come una giovine palma, il suo sguardo dolce e profondo
pareva perdersi nello spazio; come se la sua anima si fosse unita in
colloquio con un'altra anima, sulle sue labbra irraggiava un dolce
sorriso.
Nemmo non poteva staccare gli occhi da quell'angelica testa.
— Ah! voi siete buona, — mormorò — buona come gli angioli del cielo.
Come vostra madre deve sorridere, come deve essere felice in questo
momento!
— Lo credi? — esclamò Clara stringendo la mano del vecchio; e
ritornando un po' triste: — Dimmi, — balbettò — la mia povera mamma
ha perdonato al babbo?
— Oh! sì; ma lui fu inesorabile.
— Eppure non è cattivo il babbo, no....
— Che volete dire?
— Egli ha molto, troppo affetto per me....
— Dite il vero.
— E se io approfittando di questa sua adorazione, intercedessi per
mio fratello?
Nemmo trasalì.
— Guardatevene bene: sarebbe una sventura per quell'innocente; so
quello che dico! —
Clara non insistè. Pochi minuti dopo il vecchio servitore usciva da
quella camera. La fanciulla non pensò più a coricarsi. Rilesse
cinque o sei volte la preziosa lettera di sua madre, poi si
abbandonò alle penose meditazioni che le suscitava il racconto di
Nemmo.
Suo padre era colpevole di un delitto? Suo padre cacciava senza
alcun rimorso un figliuolo dalla casa paterna, gli toglieva il nome,
lo diseredava?
— Ah! io non devo erigermi a giudice di mio padre, — mormorò — ma
soffro, oh! soffro tanto, nel veder distruggere le più sante
illusioni della mia vita; e per calmare quest'atroce tortura, non mi
resta che di adempire il legato della mia povera e santa mamma. —
Tutta intera la notte trascorse per la fanciulla in desolanti
pensieri. All'alba aprì la finestra, per esporre la sua fronte
pallida e ardente alle fresche aure del mattino.
La natura riposava ancora: il tempo era sereno: un lieve venticello
chinava la cima degli alberi; il parco, il giardino erano immersi
nel silenzio e nel mistero.
Gli sguardi della fanciulla si spinsero lontan lontano, dove erano
le montagne.
— Forse è là mio fratello, — mormorò con emozione — oggi lo
vedrò.... povero fanciullo, ma che dirà vedendomi...? Non avrà paura
di me...? No, io gli dirò che sono sua sorella, lo abbraccerò, lo
bacerò.... gli parlerò di nostra madre. —
Ella si ritrasse dalla finestra e per il timore che la governante si
accorgesse di quella notte passata in piedi, disfece il letto, si
arruffò alquanto le trecce ed indossò l'abito da mattina.
Ma era pallida in volto e i suoi occhi rimanevano un po' tristi.
Quando scese a far colazione, ella si era già rimessa ed il conte
non si accòrse della emozione che l'aveva agitata durante tutta la
notte.
Clara baciò il padre col solito affetto, e sedette accanto a lui.
— Hai dormito bene, mia cara? — le chiese il conte.
Clara trasalì.
— Benissimo, babbo.... ed ho fatti tanti bei sogni!
— Soliti sogni di paradiso,... sono fatti per te.
— Oh! no.... babbo, non ho sognato degli angeli, — disse Clara dopo
una lunga pausa — ho sognato d'avere un fratellino, un bel
fratellino, che facevo ballare sulle mie ginocchia. —
Il ciglio del conte si aggrottò. Egli divenne livido in volto e
fissò due occhi terribili, sanguigni sulla figlia, come se dal
sembiante volesse leggerle nell'anima.
Ma Clara rimaneva calma e serena; i suoi occhi celesti si rivolsero
affettuosi al padre, mentre le sue labbra mormoravano:
— Che hai, babbo? Ti senti male? —
La voce della figlia lo calmò come per incanto.
— Sono pazzo, — disse fra sè — Clara non ha proprio che sognato! —
E cercando di sorridere, servì egli stesso a Clara un piatto di
fragole.
— Non ho nulla, — disse — non ricordo di che parlavi.
— Ti raccontavo un sogno.
— Lascia stare i sogni, che sono tutti menzogneri.... Come potresti
tu avere un fratellino, se la mamma è morta? —
La giovinetta, malgrado l'impero che aveva su sè stessa, arrossì e
impallidì a vicenda.
— Eppure, — disse con ingenuità — vedi, mi sarebbe parso così bello
avere un fratellino o una sorellina che dividesse i miei studî, i
miei svaghi. Tu sei buono, caro babbo,... ma stai così poco con
me....
— Non c’è la governante? Ella ti ama con tutto il cuore ed è
un'amica savia che sa guidare la tua ragione, insegnarti tutto ciò
che è bello e buono. Non ti basta? —
Clara taceva, ed un sospiro le gonfiava il petto. Ella capiva che
era inutile continuare su quell’argomento: il conte non voleva
comprenderla, ed al lampo che era scaturito negli occhi di lui,
comprese che Nemmo aveva ragione, che se il padre avesse saputo ciò
che ella aveva scoperto del fratello, il povero fanciullo sarebbe
stato perduto.
Il conte e Clara continuarono a far colazione in silenzio, ma il
sospetto non si era dileguato dall'anima di Rolando, e quand'ebbe
finito:
— Oggi non sei del tuo solito umore, Clara mia! — esclamò egli ad un
tratto. — Guardami, mia cara.... —
La giovinetta alzò la testa per obbedire: in questo moto, il di lei
sguardo incontrò di nuovo quello di suo padre. Ella trasalì senza
volerlo, perchè ricordò le parole di Nemmo; ma rimettendosi tosto,
schiuse le labbra ad un delizioso sorriso.
— Sono sempre la stessa, babbo, — disse quasi lietamente la
fanciulla.
— Mi ami tu molto?
— E me lo chiedi? Se sono così felice, non lo debbo forse a te?
— Grazie delle tue parole.... ora lasciami; ho bisogno di esser
solo. —
Clara uscì dal salotto dopo aver dato al padre un altro bacio. La
sua anima così nobile, così pura, non avrebbe mai potuto odiarlo.
II.
Nel pomeriggio, approfittando del sonno del genitore, e dopo aver
trovata una scusa colla governante, Clara, in compagnia del fido
Nemmo, si mise in cammino per andar dal fratello.
La strada era assai malagevole e sassosa; ma la fanciulla, animata
dall'amore e dal dovere, non ci badava, e camminava con tanta
leggerezza, che i suoi piedini parevano appena sfiorassero il suolo.
La brezza agitava le foglie con lieto mormorìo: il cielo era
splendido, delizioso. Larghi tratti di terreno incolto, variati da
una lussureggiante verdura, si stendevano dinanzi alla fanciulla: di
quando in quando una capra selvatica si affacciava sul ciglione di
uno scoglio o si udiva lo stridìo di un uccello di rapina nascosto
in una tana, in mezzo alle rupi. Erano questi i soli indizî di vita,
poiché da quella parte non s'incontrava anima viva nè abitazione
alcuna.
Nemmo se ne stava silenzioso, e Clara, tutta intenta ad osservare
quei luoghi così tristi, non diceva una parola; ma di quando in
quando si asciugava una lacrima, che le scendeva furtivamente sulle
guance.
— Siete stanca, non è vero, signorina? — le chiese Nemmo ad un
tratto. — Volete riposarvi un poco?
— No.... no.... il camminare non mi reca fastidio; tu sai, Nemmo,
che spesso faccio varî chilometri a piedi senza mai stancarmi!
— Oh! lo so, signorina, che quando avete da compire un'opera buona,
non vi è nessun ostacolo che vi trattenga. Oh! se tutte le donne
fossero come voi, la terra diventerebbe un paradiso. —
Le guance di Clara si fecero di fuoco.
— Taci, mio buon Nemmo, — disse — mi farai arrossire. Parliamo
piuttosto del povero innocente che andiamo a trovare. Pensi tu che a
quest'ora sarà nella sua capanna?
— Lo credo, anzi.
Come vorrei avere le ali per arrivare più presto;... egli non avrà
paura di me, non è vero?
— Come si può aver paura degli angeli?
— Taci, adulatore; per fortuna nessuno ti sente all'infuori di
me.... ora dunque tu m'insegnerai la capanna dove egli si trova;
quando saremo vicini, ti nasconderai per non essere veduto.... ed
entrerò io sola.
— Piuttosto facciamo in un altro modo, signorina. Io anderò innanzi
per parlare col capraio e consegnargli dell'acquavite e del tabacco
di cui è ghiotto. Mentre m'intratterrò con lui e gli dirò i miei
patti, voi resterete libera con vostro fratello.
— Oh! sì, sì.... dici bene! — esclamò Clara raggiante in viso. —
Quanto sei buono, Nemmo!
— E si può essere diversamente, vicino a voi? — rispose il vecchio
mestamente. — Ma perdoni, signorina, — aggiunse rallentando il passo
— forse io vado troppo lesto.
— Troppo lesto? No, no, mio buon Nemmo, non sarà mai troppo: fai
pure, mi sento in vena di starti dietro.
— Vede, prendendo quella scorciatoia, in mezzo a quei maggesi, fra
un quarto d'ora ci saremo.
— Ebbene, prendiamola; la via più corta è per me la migliore. —
S'inoltrarono in silenzio da quella parte, ed era commovente e
delizioso al tempo stesso di veder la fanciulla attraversare con
passo rapido e sicuro dei punti pericolosissimi e assai malagevoli.
D'improvviso le ferì l'orecchio un canto che pareva una nenia
dolcissima.
— Senti, Nemmo? — diss'ella fermandosi ad un tratto.
— Sì, signorina,... è vostro fratello che canta. —
La fanciulla si portò le mani sul cuore, che le batteva forte.
— Siamo dunque vicini? — mormorò con voce soffocata.
— Un centinaio di passi. Vedete laggiù quella capanna?... E, lo
vedete, il fanciullo è lì seduto vicino alla porta. —
Clara non poteva rispondere, tante erano le emozioni che
l'agitavano.
— Venite da questa parte, — le disse Nemmo — e nascondetevi dietro
quel cespuglio: di lì potrete guardarlo con tutto il vostro comodo,
mentre io m'inoltro. Non vi movete fino a quando non sarò entrato
nella capanna. —
Clara gli rispose con un cenno affermativo del capo, e si rannicchiò
nel luogo additatole dalla sua guida. Nemmo aveva ragione: Clara
vedeva benissimo il fratello.
Alfonso era seduto sopra una pietra, vicino alla capanna e cantava
una dolce canzone, la cui melodia era incomprensibile a lui stesso.
Il sole ardente gli aveva abbronzata la pelle, ma i capelli si
conservavano biondi, e gli occhi avevano il color del cielo. Però
nello sguardo di Alfonso v’era una timidezza che temprava lo
splendore delle sue pupille e nell'insieme aveva qualche cosa di
bizzarro, di selvaggio e di seducente al tempo stesso.
Le di lui forme delicate avevano dei contorni graziosi, e tutto in
quel piccolo essere gracile, la giovinetta ritrovava sua madre, la
cui immagine le stava sempre fissa nella mente, sebbene fosse
passata nella sua esistenza al pari di una meteora, lasciando dietro
a sè il vuoto, lo sconforto, la solitudine. Clara non poteva
staccare gli occhi da quella bella testa di fanciullo, e la pietà e
l'affetto che provava, colorivano le di lei guance e le facevano
scorrere con maggior rapidità il sangue nelle vene.
Intanto Nemmo si era avvicinato alla capanna. La fisonomia di
Alfonso, che avea un'impronta di sofferenza e di tristezza, si animò
all'avvicinarsi del vecchio servitore: brillò un lampo nella sua
pupilla, ed alzando le piccole braccia, battè le mani dal contento.
Alcune parole furono scambiate tra il fanciullo e il vecchio; ma
Clara non poté udirle; solo vide il suo fido chinarsi e baciare
Alfonso, poi, alzatosi, sparir tosto nella capanna.
Alfonso gli tenne dietro con lo sguardo, poscia la sua graziosa
faccia ridivenne triste, e la nascose nelle palme della mano, che
avea abbandonate sulle ginocchia.
Clara non potendo più resistere si tolse dal suo nascondiglio e a
passi rapidi e leggeri si avvicinò al fratello, battendogli
lievemente su di una spalla.
Il povero fanciullo trasalì, alzò la testa, fece per gettare un
grido, ma veduta quella giovine che gli stava dinanzi, rimase a
bocca aperta, colle mani giunte e gli occhi spalancati, estatici su
lei.
Alfonso l'avea detto più tardi ad Ines. Vissuto sempre in quel luogo
selvaggio, lontano dall'abitato, nell'ingenuità della sua anima,
egli credette dapprima all'apparizione della Madonna. Una sera che
il capraio non avea bevuto acquavite, ed era di buon umore, gli avea
raccontata la storia della Madonna apparsa ad un piccolo capraio,
che poi divenne un santo. Qual meraviglia se la Madonna si fosse
ricordata di lui, che sempre la pregava, quando le stelle
scintillavano in cielo, perchè gli aveano detto che dietro a quelle
stelle, la Madonna sedeva su di un trono dorato, con attorno tanti
piccoli bambini!
E forse, mentre egli avea nascosta la testina fra le mani, la
Madonna era discesa senza che la vedesse, ed ora era venuta dinanzi
a lui.
— Alfonso.... — mormorò a voce bassa Clara, la quale non era meno
commossa del fratello.
Questi continuava a rimanere immobile e in silenzio.
Clara sedette vicino a lui, e lo cinse colle sue braccia.
— Alfonso, — ripeté di nuovo con voce tremante.
— Che volete da me, signora? — chiese l'innocente fanciullo —
parlate ed io sono pronto a tutto. Come siete bella, signora, e come
la vostra voce è melodiosa.... la sento qui nel cuore.
—Come io sento la tua, Alfonso, fratello mio! — esclamò Clara non
potendosi più contenere.
E stringendo al suo seno la testa del fanciullo, la coprì di baci.
Alfonso dapprima impallidì: le parole di Clara l'avevano sconvolto.
Gli sembrava che si aprisse davanti a lui un mondo nuovo, gli pareva
di sognare. Chiuse gli occhi, poi li riaprì: la dolce visione era
sempre vicino a lui, lo stringeva fra le braccia, lo copriva di baci
e lacrime.
— Non siete voi dunque la Madonna.... signora? — balbettò.
— No, sono una creatura mortale come te, sono tua sorella.... e
soltanto ieri ho saputo che tu vivevi.... Chiamami Clara, come io ti
chiamo Alfonso; dimmi che mi amerai, come io sento di amarti!... —
Il fanciullo alzò uno sguardo puro e profondo sulla sorella.
— Voi siete bella.... non volete ingannarmi.... non è vero? –
balbettò. — Vedete, ne soffrirei troppo, più di quando il capraio mi
picchia. —
Clara gettò un grido di angoscia.
— Oh! povero Alfonso, ti picchia spesso?
— No.... oh! no, signora,... io ora non mi ricordo più nulla; sono
tanto felice,... sentite come mi batte il cuore?... oh! voi non mi
lascerete più: mai più! —
Mentre Alfonso parlava, Clara diventava sempre più pallida, ed i
palpiti precipitati del cuore le sollevavano il vestito. Doveva
rivelare al fratello per qual motivo era lì, e come essa non potesse
star vicino a lui, perchè nessuno doveva sapere i legami che li
univano? La povera fanciulla era perplessa, titubante.
Alfonso la guardava sempre; i capelli di lui accarezzavano la
guancia ardente di lei. Vedendo la madonnina farsi triste, anche i
suoi occhi si empirono di lacrime.
— Vi ho forse offesa, signora? — disse a voce bassa.
— No, mio caro, no.... — rispose Clara con accento sempre più
commosso. — Come potevi offendermi, tu, povero ed innocente
fanciullo! Tu mi chiedevi che io non ti lasciassi mai più, ed io
esitavo a risponderti, perchè fra poco dovremo separarci. —
Un singhiozzo sollevò il petto del fanciullo.
— Oh! non mi lasciate, — balbettò — non mi lasciate.
— Non piangere così, o farai piangere anche me:... sì, fra poco ti
lascerò, ma tornerò domani,... tornerò tutti i giorni. —
Il viso del fanciullo raggiò dal contento.
— Tornerete, tornerete.... — balbettò — è proprio vero?
Sì.... ma tu devi darmi del tu come io faccio con te: te lo ripeto,
sono tua sorella.... Sai tu cosa vuol dire sorella?
— No, — balbettò con soavità — se tu non me lo spieghi. —
Clara baciò con veemenza il fanciullo.
— Vuol dire che io ho avuto la stessa mamma, che hai avuta tu. —
Il fanciullo spalancava i suoi begli occhioni sulla sorella.
— E quell'uomo che mi batte sempre, che è così cattivo, è pure il
tuo babbo? —
Clara divenne color scarlatto.
— No, caro, no.... quell'uomo non è neppure il tuo babbo.
— E allora perchè io sto con lui? Perchè non posso venire con te? —
Tutte quelle domande imbarazzavano la candida fanciulla.
— Ascoltami: — disse — mi vuoi bene?
— Oh! tanto, tanto.
— E se dovessero allontanarmi per sempre da te, ti dispiacerebbe...?
— Non me lo dire! — esclamò il poverino ridivenuto tremante, e
stringendosi impaurito al seno della sorella — se non ti vedessi
più, io morrei.
— No, caro Alfonso, tu vivrai per me; solo non dovrai per ora
moverti di qui,... perchè se io ti conducessi con me, ci
separerebbero subito subito, e allora non ci vedremmo mai più.
— Oh! io starò sempre qui, mi lascerò battere senza lagnarmi, purché
tu venga a trovarmi.
— Quell'uomo non ti batterà più, sta’ sicuro. —
Alfonso rimase un po' pensieroso.
— Tu abiti lontano, molto lontano da me? — disse.
— Sì,... non puoi vedere di qui la mia casa.
— La tua casa è grande come la mia?
— No; è più grande e più bella,... ma un giorno ne avrai anche tu
una come la mia, ed allora vivremo sempre insieme. —
Alfonso fissava su di lei i suoi occhi azzurri, e pareva rapito da
quelle parole.
La conversazione di Clara ed Alfonso durò un'altra mezz'ora; e
quando fu il momento di separarsi, il fanciullo cominciò a piangere
e non sapeva staccarsi dalle braccia della sorella.
Clara era commossa, pure bisognava farsi forza.
— Ci rivedremo domani, Alfonso mio, te lo prometto; — diceva
baciando e ribaciando le umide guance del fanciullo — non piangere
così, perchè fai soffrire anche me.
— No, non piango più.... ma tu verrai, verrai?
— Te lo giuro: ti fidi di me e di Nemmo?
— Oh! sì, sì!... — esclamò il ragazzo baciando ancora una volta
quella sorella adorata, che egli s'ostinava a credere discesa dal
cielo.
E per vederla più lungamente, l'accompagnò fino al viottolo; poi
salito come uno scoiattolo sopra un albero altissimo, non si mosse
di là finché poté scorgere un punto bianco che gl'indicava la divina
fanciulla.
Poi scese triste triste, e ritornando alla capanna, si gettò in
silenzio sulla stoia che gli serviva da letto e si addormentò,
ripetendo più volte:
— Mia sorella! mia sorella! —
III.
Clara mantenne la parola. Senza mettere a parte la governante del
suo segreto, le fece capire ch'ella aveva trovato nella povera
capanna di un capraio, un ragazzo, che Nemmo le disse essere un
orfano abbandonato ad un uomo inumano, che presa da simpatia e pietà
per il poveretto, ella si era decisa a vegliare su di lui, a
insegnargli le prime nozioni della vita, la prima educazione della
mente e del cuore, riservandosi più tardi di toglierlo da
quell'ambiente selvaggio, e procurargli un'istruzione migliore, un
avvenire più nobile e sicuro.
La governante approvò quanto Clara aveva deciso, e le promise di
serbare il segreto di tutto ciò col conte.
Clara si recava quasi ogni giorno alla capanna del capraio, e il più
delle volte in compagnia di Nemmo.
Fino all'ingresso della foresta andavano a cavallo; a quel punto
Clara scendeva sola, e legava il cavallo ad un albero. Nemmo tornava
alla villa per non dare alcun sospetto, e due ore appresso, tornava
a riprendere la diletta padroncina.
Del resto, ogni precauzione rispetto al conte era affatto inutile,
perchè egli diveniva ogni giorno più misantropo. Di rado si moveva
di camera sua, e pareva quasi facesse un grande sforzo per scendere
in sala, all'ora dei pasti.
Clara si recava ella stessa ogni giorno a passare un'ora in camera
di suo padre, mostrandosi allegra, carezzevole, e senza far mai
alcuna allusione sui discorsi tenuti un giorno riguardo a suo
fratello.
In Alfonso si era in breve compiuta una vera trasformazione. Non era
più il ragazzo selvaggio, incolto, che credeva non esistere nel
mondo che i dintorni della sua capanna, altro cielo all'infuori di
quello che vedeva sul suo capo.
In pochi mesi, Clara l'aveva trasformato in un ragazzo intelligente,
in un essere che cominciava a comprendere lo scopo e la nobiltà
della vita. Lo spirito eletto ed aristocratico del fanciullo si
risvegliava: in quella giovanissima età, nella quale le istintive
impressioni non sono moderate dalla riflessione, Alfonso sentiva il
bisogno di vedere le cose rivestite con grazia e con fasto di colori
vaghi e vivaci.
Anche il suo fisico si era cambiato notevolmente.
Con miglior cura della persona ed un miglior nutrimento, il suo
personale aveva acquistato più elasticità, più eleganza; nella sua
fisonomia fresca, giovanile, v’era continuamente il sorriso, quel
sorriso di grazia e di gentilezza, che non si cancella, neppure
nella più tarda età.
Clara andava orgogliosa di suo fratello, del suo allievo: Alfonso
adorava quell'angelo che Dio gli aveva mandato, e spesse volte
rimaneva delle ore intiere estatico ai piedi di lei, divorandola con
lo sguardo, sorbendo per così dire ogni parola, ogni atto, ogni
sorriso di lei.
Come erano felici le due creature in quell’appartato angolo di
terra, dove trascorrevano ore e ore in uno scambio di sentimenti
delicati, deliziosi, teneri!
Clara, un po’ per volta, avea messo a parte il fratello della
verità; gli avea detto il legato lasciatole dalla madre, ma avea
cercato di palliare le colpe del padre.
Il fanciullo comprese più di quanto la sorella gli avea spiegato, e
quando ella con voce commossa gli avea detto che invano si sarebbe
tentato di placare il padre e d'indurlo a riprendere con sè il
figliuolo, Alfonso le avea gettate le braccia al collo, e con voce
soave:
— Non affannarti, sorella mia, — le disse — io porterò il nome di
Nemmo; egli me l'ha promesso, e quel nome non mi sarà meno caro nè
meno prezioso. Io perdono a mio padre, e darei volentieri la vita
per lui, se fosse necessario.... ma giacché egli mi respinge,
giacché mi vuol morto, così sia!... il tuo amore mi tien luogo di
tutto, e di tutti. —
E siccome Clara rimaneva triste:
— Non vedi come siamo felici! — continuava con una dolcezza
affascinante. — Guarda: in questo momento sotto l'ombra di
quest’albero, dove mi arrampico sovente per poterti vedere da
lontano quando vieni da me, con la testa appoggiata sulla tua
spalla, guardando là in fondo fra quei raggi dorati la mia
capannuccia, provo una tal delizia, da augurarmi di rimaner così un
secolo intero. Ah! sono tanto, tanto felice vicino a te, mia adorata
sorella.... —
Clara, vinta da una deliziosa commozione, copriva allora di baci la
fronte del suo Alfonso, per il quale sentiva proprio la tenerezza di
una madre.
Ma quella vita non potea durare. Alfonso aveva bisogno di acquistare
cognizioni più serie di quelle che la buona fanciulla potesse
impartirgli, bisognava che vedesse un po' di mondo, che vivesse in
società.
Il giorno che ella intrattenne di ciò suo fratello, il poverino ne
pianse.
— Dovremo adunque lasciarci? — chiese singhiozzando.
— Sì; è necessario per te e per me. Non mi hai detto che volevi
renderti un giorno degno della mamma?
— E di te, ma mi sembra impossibile potermi separarmi da te.
— Noi ci scriveremo spesso, Alfonso, e poi tu non parti solo,...
avrai teco l'uomo affezionato, che ti farà da padre: il buon Nemmo.
—
E rialzando la bella testa del fratello e baciando quel viso turbato
e commosso:
— Credi che io non soffra al pari di te per questa separazione? —
aggiunse — ma penso che ti farai uomo.... penso che io dovrò render
conto di te a nostra madre. Che mi direbbe se io ti lasciassi
crescere presso un capraio, se io non cercassi di assicurarti in
società il posto che ti conviene? Tu non conosci per ora, caro
innocente, altra gioia che quella di avermi vicina; ma anche lontano
da me, troverai altre gioie non meno pure, e più di tutto la
soddisfazione di rendermi contenta coi tuoi studî, coi tuoi
lavori....
— Ah! questa è la sola cosa che mi decide! — esclamò Alfonso. — Per
me, credilo, non v’è altra gioia nella vita.... io che non ho
conosciuto la mamma. —
Ma egli si pentì delle sue parole, perchè vide le labbra di Clara
tremare leggermente e il suo volto farsi mesto.
— Sono cattivo, — aggiunse a voce bassa — ti faccio soffrire senza
volerlo, cara sorella. — Clara baciò mille volte il fratello,
guardandolo con orgoglio e tenerezza materna.
— No.... tu sei buono! — esclamò — e diverrai grande, forte,
intelligente, sarai la mia gioia, il mio orgoglio: sulla tua fronte
risplenderanno un giorno tutte le glorie dell'arte e del pensiero.
Da lontano io veglierò sempre su di te, accorrerò ad un tuo cenno,
ogni qualvolta vi sia il bisogno. —
Avevano già fatti tutti i preparativi per la fuga di Alfonso, che
sarebbe partito in compagnia di Nemmo, ed a furia di denari e di
lusinghe avevano comprata la complicità del capraio.
La prima sera della partenza, Clara si era ritirata più presto del
solito in camera sua per abbandonarsi alle proprie riflessioni, in
quell'istante assai dolorose.
Con gli occhi gonfi di lacrime, ella stava sul balcone guardando
lontan lontano da quella parte in cui si trovava la capanna, dove
Alfonso avrebbe passata l'ultima notte.
Sul balcone che prospettava nel giardino, fiorivano leggiadrissimi
fiori e piante rampicanti, che ricoprivano vagamente la balaustrata
con ciocche di fiori, e mandavano all'intorno un profumo inebriante.
Un silenzio solenne regnava nella villetta e nella campagna: la
fitta oscurità della notte impediva di vedere a pochi passi di
distanza.
Il cielo era sereno: mille stelle scintillavano in quell'azzurro
cupo, ma senza rischiarare la terra: la luna non si era ancora
levata.
Clara teneva i gomiti appoggiati alla balaustrata e con una delle
bianche e affusolate mani sosteneva la bionda testa. Non si poteva
vederle il viso, ma dai sospiri frequenti che le sollevavano il
petto, si capiva l'affanno che le pesava sul cuore.
A un tratto le parve sentire scricchiolare la ghiaia del giardino e
come un'ombra apparire e sparire in mezzo agli alberi. Ella si
sporse per guardare, ma in cotesto momento nessun passo turbava la
quiete di quel recinto.
— Mi sono ingannata; — mormorò fra sè — è meglio che vada a letto,
domani devo alzarmi all'alba, per salutare ancora una volta
Alfonso.... Oh! fratel mio, perchè non posso averti qui vicino a me?
— Clara! — sussurrò in quell'istante una voce, che pareva partire di
sotto al balcone.
La fanciulla si scosse a un tratto, come persona che si svegli dal
sonno.
Aveva sognato o sentito bene?... Cercò con lo sguardo di vedere
attraverso il fogliame, ma non si era ancora spinta fuori, che la
stessa voce ripeté di nuovo, come un leggiero sospiro:
— Clara.... sorella mia....
— Alfonso! — disse la giovinetta trasalendo.
Non aveva ancora finito di pronunciarne il nome, che il giovinetto,
agile come uno scoiattolo, si arrampicava tra i ferri del balcone
aiutandosi colle mani e colle braccia, e prima che sapesse dire in
qual modo, si trovò stretto al seno della sorella, nella piccola ed
elegante stanzetta di lei.
— Tu!... tu, Alfonso? — sussurrava Clara fra un diluvio di baci —
oh! che imprudente.... come hai osato di venir qui?... Come
conoscevi la strada?
— Oh! sono molte notti che vengo a passeggiare nel tuo giardino, e
torno sempre alla mia capanna, senza vederti; ma stanotte avevo
pensato di passarla sotto il tuo balcone a costo di essere preso e
scacciato come un furfante. —
Clara premé colle sue manine la testa del fratello, e mentre gli
ripeteva che era stato imprudente, molto imprudente, in fondo al
cuore, ella era felice, e ringraziava Iddio dei dolci istanti che le
procurava.
Ella fece sedere il fratello su di un basso divano, pregandolo di
non muoversi; poi corse a chiudere l'uscio di camera a doppio giro:
chiuse anche la vetrata che dava sul balcone, poi tornò a sedere
accanto al fratello, e lo strinse di nuovo fra le braccia.
Il fanciullo si guardava attorno con sorpresa ed ammirazione.
—Come è tutto bello qui! — esclamò con ingenuità.
Clara si fece seria.
— Forse è un rimprovero che mi fai? — disse fissando in viso il
fratello.
— Un rimprovero? — rispose Alfonso con meraviglia. — Un rimprovero a
te, cara sorella? Sarebbe peggio che offendere la Madonna che ha
voluto mandarti da me,... e tu sei la mia Madonna. —
Il viso gentile di Clara si rischiarò.
— Ah! i tuoi pensieri sono nobili e puri come la tua anima, — disse
la giovinetta — e ti conserverai sempre così.... non è vero? Me lo
prometti?
— Oh! sì.... sì, perchè io voglio essere degno di te.
— Caro fratello, tu trovi bella questa mia stanzetta: fra non molto
ne avrai tu pure una eguale. Ho dato a Nemmo gli ordini in
proposito.
— Avrò una stanzetta come la tua? — disse il fanciullo con
esplosione — avrò anch'io tanti libri, come hai tu?
— Ne avrai molti di più, Alfonso,... ma guarda se qui dentro vi è
qualche cosa che ti piaccia: io te la regalo. —
Alfonso guardò timidamente attorno, poi volgendosi alla diletta
sorella:
— Dimmi: qual è la cosa che tu tocchi più di sovente? — chiese.
La fanciulla aveva le lacrime agli occhi.
— Questo libriccino di preghiere; — disse togliendolo dal tavolino —
ma non ha alcun valore materiale.
— Oh! dammelo.... dammelo, — rispose il fanciullo con trasporto,
prendendo il libriccino e portandolo con rispetto alle labbra — tu
dici che non ha alcun valore? Ma questo libro è un tesoro per me; tu
l'hai toccato; quando lo leggerò, mi parrà di vedere in ogni foglio
la tua immagine diletta.... ma perchè piangi?
— Piango, — proruppe con voce commossa Clara — perchè il mio cuore è
troppo pieno di gioia, perchè mi sento felice, perchè tutti i
desiderî, le speranze della mia fanciullezza mi si affollano come
per incanto alla mente.… ora che ti sento parlare, ora che sei
accanto a me,… piango di ebbrezza nel sentirmi da te tanto amata.
— Adorata, vuoi dire! — esclamò pian piano Alfonso, intrecciando le
braccia al collo di Clara, e accostando la sua guancia alla guancia
di lei. — Dio è buono, perchè m’ha concesso che passassi queste ore
con te.... e quando mi troverò solo, lontano, pensando a questi
momenti, sentirò raddoppiarmi il coraggio, studierò con ardore, come
se tu fossi vicina a me in persona, come sarai in ispirito. Noi non
saremo mai del tutto divisi, non è vero?
— No, mai.... mio diletto: le nostre anime saranno sempre unite. Tu
non mi nasconderai nulla di quanto ti succederà, mi farai parte dei
tuoi progressi, dei tuoi lavori; io ti manifesterò i miei pensieri,
ti racconterò tutto quanto mi succede. —
La fanciulla s'interruppe. Si era alzato un po' di vento, che
passava, sibilando, fra le piante del giardino.
Clara fece un movimento improvviso.
— Non hai sentito? — chiese a voce bassa al fratello.
— Sì, è il vento che scuote i rami degli alberi: ma che m'importa?
Io sono qui accanto a te.
— E non tornerai alla capanna che quando spunterà l'alba. A
quest'ora le strade son pericolose. —
Il fanciullo sorrise, scotendo la leggiadra testa.
— Il pericolo non mi spaventa, e io non voglio lasciarti ancora,...
sono le ultime ore che passiamo insieme; ma tu hai bisogno di
riposo, sorella mia,... vai un po’ sul letto, io veglierò accanto a
te.
— No, — rispose con voce ferma Clara — io non potrei dormire
stanotte: piuttosto preghiamo insieme che il tuo viaggio sia felice,
e che l'anima della nostra cara mamma vegli dal Cielo su di noi.
— Insegnami tu le parole che debbo dire! — esclamò il fanciullo
inginocchiandosi davanti alla sorella e congiungendo le mani.
Quelle due anime pure, candide, pregarono lungo tempo con fede
sincera, la mente tutta rivolta alla sventurata donna, che avea
lasciata così presto la vita!
Il resto della notte, Clara ed Alfonso, la passarono in altri
affettuosi colloquî.
Il fanciullo volle visitare minutamente ogni oggetto della camera
per portarne seco il pensiero, il ricordo, poi guardò a lungo la
sorella.
— La tua immagine non mi lascierà mai, mai; — disse — io ti chiamerò
ad ogni momento a voce bassa, come se tu dovessi rispondermi.
Pregherò sulle pagine del tuo libro.... mi farò ripetere da Nemmo
tutto quello che sa di te, della tua infanzia.... insomma non ci
sarà un minuto, benché lontano, in cui io non pensi, non sia vicino
a te con l’anima mia! —
Clara piangeva di commozione, e per asciugarsi gli occhi, trasse un
fazzoletto da lei stessa ricamato.
Quel fazzoletto aveva il soave profumo della violetta, il profumo
che alla fanciulla piaceva tanto, che ne parevano impregnati i suoi
abiti, i suoi capelli d'oro.
Alfonso lasciò che la sorella si asciugasse gli occhi, poi le tolse
il fazzoletto, ne aspirò il profumo, lo baciò a lungo, e se lo
nascose nella giacchetta.
— Anche questo fazzoletto non mi lascierà più, — mormorò — è
un'altra cara reliquia.... quando lo porterò alle labbra, chiudendo
gli occhi, mi parrà che tu mi sia vicina. —
L'alba cominciava a rischiarare l'orizzonte, che fratello e sorella
ancora si tenevano abbracciati.
Fu prima Clara a scuotersi, e scostandosi dal fratello, con voce
tremante, disse:
— Bisogna lasciarci.... è necessario; vedi che il sole sta per
spuntare, fra poco anche gli altri saranno alzati, e potrebbero
trovarti.
— Un bacio ancora, diletta sorella,... io ti scriverò appena
arrivato in città e tu mi risponderai, non è vero?
— Sì, sì.... —
Si guardarono a lungo un'ultima volta, si baciarono ancora con
effusione, con frenesia; poi, Alfonso, volendo celare alla sorella
le lacrime che gl'inondavano le guance, si staccò improvvisamente da
lei; ed aperto il balcone, in un salto fu in giardino. Clara si
appoggiò alla balaustrata e gli mandò un bacio sulla punta delle
piccole dita.
— Addio, Alfonso, addio!
— No, arrivederci, sorella mia. —
E sventolò il fazzoletto di Clara che avea tolto di tasca; poi,
internandosi precipitoso in mezzo alle piante, sparì dalla vista
della fanciulla. Ella entrò in camera, sedette sulla poltrona,
appoggiò il viso alle mani e pianse.
Pochi momenti dopo, Nemmo veniva a bussare pian piano alla stanza di
Clara, per ricevere gli ultimi ordini della padroncina e darle il
suo addio.
Clara gli avea già consegnato un portafoglio ben fornito di denari,
quanti ne potevano abbisognare per il giovinetto. Essa raccomandò a
mani giunte a quell'uomo, che ormai considerava come padre, il suo
diletto fratello.
— Credi che ora, la mamma, sarà contenta di me?
— Vostra madre vi benedirà dal Cielo, come io, povero vecchio, vi
benedico in questo momento per lei. —
Ella baciò quel degno e fido servitore, come avrebbe baciato suo
padre.
— Verrò colla mia governante fino al viottolo, dove tu passerai con
Alfonso, per rivederlo un’altra volta, non è vero?
— Sì, signorina; ma non commettete delle imprudenze, ve ne prego.
— Non temere, saprò celare le mie lacrime, le angosce del cuore; la
mia governante, lo sai, crede Alfonso un povero orfano, del quale io
mi prendo cura.
— Lo so, lo so.... cara fanciulla, ed ora che ci penso, farete bene
ad uscire, perchè durante la vostra assenza, il capraio verrà qui
per ripetere al signor conte quanto gli abbiamo insegnato. —
La fanciulla impallidì.
— Ah! io vorrei esser presente a quel colloquio, vorrei vedere
l'effetto che produrrà in mio padre l'annunzio della perdita di mio
fratello.
—Non temete, se egli soffrirà, ve ne accorgerete al vostro ritorno.
—
La fanciulla trasalì.
— Oh, se fosse vero! — esclamò — allora potrei tentare una volta
ancora.... —
Il servitore l'interruppe.
— Abbiate riguardo, ve ne prego.... perchè ne andrebbe di mezzo
vostro fratello....
— Oh! non dubitare; — rispose mestamente la giovinetta — tu sai che
sacrificherei la vita per risparmiare una lacrima, un dispiacere al
mio Alfonso.
— So che siete un angelo,... ma io vado, signorina, si fa tardi....
ed Alfonso mi aspetterà con impazienza....
— Addio, mio buon Nemmo.... addio, — disse ancora Clara stringendo
la mano al vecchio — che Dio ti accompagni! —
Nemmo uscì e la fanciulla, dopo una breve ed ardente preghiera,
corse a destare la governante, perchè si preparasse per uscire.
IV.
Mentre Clara in compagnia della governante si recava a vedere ed a
salutare ancora una volta l'adorato fratello, un uomo in abito da
capraio si faceva annunziare al conte.
Quest'uomo, brutto e deforme, destava un senso di ribrezzo al primo
vederlo. Era basso di statura, con un paio di spalle larghissime,
capelli lunghi, cresputi, incolti, con gli occhi torbidi, sanguigni,
il naso schiacciato, i labbri sporgenti, le gote quasi interamente
nascoste da peli ispidissimi e folti, l'accento breve e rauco.
Il cameriere del conte, appena lo vide, voleva rimandarlo dicendo
che il suo padrone non riceveva alcuno.
— Dite al signor conte che c'è il capraio Ronco, che ha bisogno di
parlargli, e vedrete che mi riceverà subito. —
Il domestico rise e si strinse nelle spalle.
Allora il capraio alzò la voce.
— Andate, vi ripeto, ad annunziarmi, o vi faccio scacciare dal
vostro padrone! —
In queste parole, nel loro accento, v’era un'autorità così
minacciosa, che un servo timido ne sarebbe rimasto spaventato. Ma il
cameriere del conte si contentò di ridere di nuovo, e preso il
capraio per un braccio fece l'atto di cacciarlo dall'anticamera.
In quel mentre si aperse la porta di una sala ed apparve il conte in
abito da mattina.
— Che fai, Giacomo? — disse al servo in tono imperioso.
— Signor conte, scaccio quest'insolente che voleva entrare per
forza, dicendo che deve parlarvi. —
Il conte, che non aveva ancor veduto il capraio, trasalì e le sue
ciglia si aggrottarono, ma poi impose:
— Lascia subito quell'uomo, e tu, Ronco, seguimi nel mio studio. —
Nell'occhio torvo del capraio vi fu una scintilla di gioia. Il
cameriere, invece, rimase stordito e mortificato, tanto che il suo
sguardo non poté distogliersi per qualche minuto dalla porta, dietro
la quale era sparito il suo padrone, con quell'individuo ignobile e
selvaggio.
Appena fu nello studio, il conte chiuse a chiave la porta.
— Ebbene, che sei venuto a fare? — chiese con collera, a stento
repressa. — Eppure t'avevo proibito di mettere il piede qui
dentro....
— Credete, signor conte, che senza un grave motivo, non sarei
venuto.
— E qual'è questo motivo? Rispondi, rispondi subito. —
Il capraio stette un momento come sbalordito, rigirando il cappello
fra le mani.
Il conte battè i piedi con impazienza.
— Signor conte, debbo annunziarvi una disgrazia. —
Il gentiluomo, malgrado l'impero che aveva su sè stesso, impallidì,
ed i suoi sguardi penetranti si fissarono sul capraio.
— Spiègati insomma, — gridò con ansia.
— Si tratta, signor conte, del ragazzo.
— Ebbene, che gli è accaduto?... parla, in nome di Dio, parla.
— Voi sapete quanto fosse vivace e imprudente. Ieri aveva smarrita
una capra.... io l'avevo gridato un po' troppo e gl'ingiunsi
d'andarla a ricercare. Si faceva già buio....
— Lascia le parole inutili, e vieni alla conclusione.
— La conclusione si è che il ragazzo deve essere caduto in un
profondo burrone, e forse morto, mentre andava a cercare la capra
smarrita. —
Il conte impallidì di nuovo.
— Dunque è morto? — balbettò.
— Come posso saperlo?... Fin dalle quattro di stamani giro in cerca
del suo corpo e non l'ho ancora trovato.... e forse non si troverà.
—
Gli occhi del conte s'accesero.
— Ed allora come puoi asserire ch'egli sia perito in un burrone?
— Perchè mi disse un contadino che ha veduto il mio figliuolo, — ed
il capraio pronunciò queste parole come se volesse sottolinearle —
arrampicarsi sulle rocce, ed era giunto in un sentiero che dà sopra
un precipizio fondo, dove scorre un'acqua nera e puzzolente. Il
contadino gli gridò da lontano che si fermasse, ma il fanciullo non
lo udì o non volle dargli ascolto; fatto sta, che dopo un poco, il
contadino lo vide agitare le braccia, come se cercasse un
sostegno.... sentì un grand’urlo.... poi lo vide sparire nel buio
del precipizio. —
Il conte rimase qualche minuto col viso nascosto fra le mani.
Per quanto il tradimento della moglie avesse pervertito l'animo di
quell'uomo, egli non poteva a meno di pensare che quel fanciullo era
innocente, e fremeva a quella morte alla quale egli avea
contribuito.
— Io non volevo sopprimerlo.... è il caso che ha fatto tutto; perchè
mi rivolterei contro il destino? Forse è meglio così, il fanciullo
crescendo poteva un giorno saper tutto, poteva venire a chiedermi
conto di sua madre e vendicare l'uccisione del padre suo; forse è
meglio così! —
Dopo questo monologo, fatto nel suo interno, il gentiluomo alzò la
testa che appariva di una tranquillità terribile.
Il capraio non osava di parlare.
— Giurami che nessuno saprà mai nulla di tutto ciò, — disse il conte
— o faccio cadere su di te la colpa del fanciullo: ti accuso davanti
a tutti, d'averlo tu stesso gettato nel burrone. —
Il capraio rabbrividì.
— Giuro che non parlerò, signor conte. —
Il conte l'osservava, pallido, con le labbra strette, ma tranquillo
e impassibile.
— Sta bene; — disse alzandosi — ora mi condurrai nel punto dove il
fanciullo è caduto. —
Il capraio si sentì piegare le gambe. Egli non sapeva se Alfonso
fosse partito. E se il caso avesse fatto incontrare il fanciullo in
compagnia di Nemmo e della contessina? Tutto sarebbe stato perduto,
il capraio avrebbe pagato colla vita il suo tradimento.
Egli sapeva che il gentiluomo non perdonava.
Il conte vide l'esitanza del capraio, ed aggrottò le ciglia.
— Ebbene, non hai capito? — esclamò con tono brusco e lo sguardo
scintillante — conducimi dove tuo figlio è scomparso. —
Il disgraziato era in una terribile condizione. O doveva confessare
addirittura che aveva mentito, o porsi al rischio d'incontrare
Alfonso. Scelse quest'ultimo mezzo, invocando il demonio in suo
aiuto, e dicendo a sè stesso che in tutti i casi, nell'aperta
campagna, al primo sintomo di un pericolo, egli si sarebbe salvato
colla fuga dalla collera del gentiluomo.
— Andiamo, signor conte, — balbettò.
— Perchè esitavi tanto?
— Perchè le strade sono orribili.... e temevo per voi.
— Sceglieremo la via migliore; avanti! —
Egli prese il cappello ed uscì dalla villa in compagnia del capraio.
La mattina era splendida, fresca, chiara: gli uccelli cantavano
sugli alberi, il sentiero che i due uomini seguivano, sparso d'erbe
montanine freschissime, portava alle narici un profumo delicato e
silvestre.
Il capraio andava innanzi, fissando acutamente gli sguardi; il conte
camminava pauroso, e pareva guardar fisso la sua ombra, che si
allungava dinanzi a lui.
Quali pensieri attraversassero in quel momento l'animo del
gentiluomo sarebbe impossibile ridire. Forse il conte ricordava il
passato, quando egli avea condotto in quei luoghi la giovane e
leggiadra sposa che avea scelta per compagna e che amava come sanno
amare gli uomini di tempra energica come la sua. La contessa era
quasi una bambina in confronto di lui; e ancora essa non conosceva
nulla della vita, e forse dell'amore; egli si compiaceva di
quell'anima ingenua, di quella fede semplice, che gli mostrava un
orizzonte nuovo, un mondo delizioso.
Come sembrava felice la giovine contessa di trovarsi in quella
campagna isolata, vedersi circondata dall'adorazione del conte,
dall'affetto dei contadini!
Oh! allora nell'anima di lei non v’era un pensiero che non fosse per
suo marito, e quando gli diede il primo pegno del loro affetto,
un’adorata bambina, cui posero nome Clara, quale felicità per la
giovane madre, quale ebbrezza per il conte, che non viveva che per
sua moglie e la sua figliuola!
Ma quel sogno delizioso non durò a lungo, quelle felicità svanirono
presto. Ah! chiunque gli avesse detto che la contessa avrebbe un
giorno mancato ai proprî doveri, egli l'avrebbe calpestato sotto i
suoi piedi come il più vile dei mentitori. Eppure tutto ciò era
accaduto! Ah! sì, era poco, assai poco quello che aveva fatto
soffrire alla contessa, in confronto di quello che aveva sofferto
lui, e soffriva ancora!
Dunque, egli avea il diritto di uccidere come un cane l'uomo
che avea macchiato l'onor suo, che gli avea dato un figlio
illegittimo, che avrebbe necessariamente portato il suo nome, goduto
le sue ricchezze, a scapito della vera erede; ma quel diritto, di
cui il conte si era valso così largamente, avea forse rimarginate le
ferite del suo cuore esulcerato?
La contessa aveva molto sofferto, aveva espiato come una martire,
come una santa, la sua colpa, aspettando rassegnata la morte come
un'amica che venisse a liberarla da tanti mali; ma che cos'erano
state quelle sofferenze in confronto delle torture che il conte
aveva provate nel veder in un attimo distrutte tutte le illusioni
della vita?!
Il suo nome fu salvo da uno scandalo, il figlio della colpa era
sparito, era morto; ma il suo cuore, oh! il suo cuore sanguinava
sempre, e il conte non trovava riposo nè giorno, nè notte.
Ora avrebbe provato rimorso e dolore, perchè il destino aveva tolto
di mezzo la creatura che gli ricordava il suo disonore, il
tradimento della donna amata?
Ah! sarebbe stato ridicolo, sarebbe stata pazzìa!
Così pensava il conte, mentre seguiva macchinalmente le orme del
capraio, che si avventurava nel sentiero che correva intorno intorno
al precipizio, il cui fondo aveva quasi la forma di un imbuto.
Ad un tratto Ronco si rivolse.
— Bisogna andar piano.... con cautela, signor conte, strisciare come
le lucertole, se volete arrivare alla bocca del precipizio.
— Tuo figlio è caduto di lassù?
— Sì, signor conte. —
Il mariuolo, come sappiamo, mentiva audacemente; egli aveva fatto
prendere al conte una strada traversa, lontana da quella che
avrebbero percorso Clara ed Alfonso. Ormai il capraio non temeva più
e rideva fra sè del tranello teso al conte e nel quale era così bene
inciampato.
— Avanti, avanti, io non temo nulla, — disse il gentiluomo con voce
soffocata, perchè provava un imperioso bisogno di vedere il luogo, e
misurare l'altezza dove il ragazzo era caduto.
Erano giunti proprio alla cima di quella roccia cretosa, e guardando
in giù, il conte si sentì come preso dalla vertigine. Il cielo era
di un bell'azzurro; ed il sole mandava i suoi raggi nel fondo del
precipizio, in cui si vedeva un'acqua nera, stagnante e melmosa.
Alcuni corvi salivano, scendevano e si aggiravano sul cupo baratro.
— E di qui il contadino lo vide cadere?
— Sì, signor conte, e sembra che i corvi sentano l'odore del
cadavere. —
Il conte trasalì per tutte le membra.
Egli guardava quel precipizio che sembrava attirarlo, quell'acqua
nera che l'affascinava, e rimase per qualche istante immobile, coi
capelli irti, la gola secca, non sapendo più perchè era venuto.
Il capraio, pochi passi distante, lo guardava con un maligno e
diabolico sorriso. Vi fu un momento in cui gli venne quasi il
pensiero, pensiero infernale, di spingere il conte nel precipizio.
Sarebbe bastato il più piccolo urto per farlo cadere, e il conte si
sarebbe sfracellato il cranio fra quelle rocce, senza poter
denunziare il suo assassino.
Ronco provava un'orribile tentazione, tanto orribile, che fece un
passo innanzi, coll'animo deliberato di compire il nefando
assassinio; ma in quel momento il conte si voltò, e l'ignobile
capraio ebbe appena il tempo di rimettersi.
— Non vi è nessun sentiero dal quale si possa discendere fino in
fondo? — chiese il conte.
Il capraio guardò meravigliato il gentiluomo.
— Sì, signor conte, — rispose — che vorreste fare?
— Voglio scandagliare quell'acqua.
— Ma quell'acqua è profondissima; se voi provaste a gettarvi una
pietra, non sentireste il rumore della caduta. Quell'acqua non conta
i suoi morti, nè rende i suoi cadaveri.
— Non importa, voglio vedere, — disse con gesto brutale e risoluto
il conte.
Il capraio si strinse nelle spalle, e cominciò a scendere per uno
stretto sentiero, che pareva incavato nel sasso.
Il conte lo seguì, sordo alle grida dei corvi, che continuavano a
svolazzare dinanzi e sopra a lui.
Giunsero con molto stento fino al fondo della spelonca.
— Dammi il bastone, — disse il conte al capraio.
— Che volete farne, signor conte? — rispose Ronco porgendogli la sua
canna ritorta alla cima.
— Lo vedrai. —
Egli si tolse la cinghia che gli stringeva i calzoni e ne legò un
capo al bastone; poi l'immerse nell'acqua melmosa.
Ronco assisteva alla strana operazione, ridendo fra sè.
Parve che il bastone del capraio andasse a battere in un corpo duro.
— Fosse mai il cadavere di Alfonso?… — pensò il gentiluomo con un
tremito.
E ritirato alla lesta il bastone, tolse di tasca un coltello da
caccia e cercò di fermarlo con alcuni selci in fondo alla canna.
Poi la fece ridiscendere lentamente nell'acqua. Ma questa volta non
incontrò che il vuoto, e per quanto scandagliasse, si capiva che non
era possibile di arrivare a toccar il fondo. L'oggetto contro il
quale aveva urtato, non doveva essere che un frammento di scoglio, e
ogni altra indagine sarebbe stata inutile.
Se il cadavere d'Alfonso era là, certo non sarebbe più tornato a
galla, nè si sarebbe ritrovato mai più.
Ma se il capraio avesse mentito?
Se il contadino si fosse ingannato? Se il fanciullo, invece di
essere caduto lì dentro, fosse fuggito per sottrarsi alle sevizie
bestiali di Ronco?
Per un istante il gentiluomo si sentì battere il cuore, ma quasi
subito gli ritornò quella meravigliosa freddezza d'animo, di cui
avea dato prova tanto spesso. E allora un sorriso amaro e convulso,
increspò le sue pallide labbra.
— Ebbene.... quand'anche il fanciullo non fosse morto, — mormorò —
che importa a me? Quand'anche fosse fuggito, se ne sarebbero perdute
le tracce. Eppoi conosce il fanciullo il suo nome e la sua storia?
Non vi è che Ronco che possa parlare.... ma se il fanciullo è
sfuggito dalle mani di costui, certo non tornerà più, e quest'uomo
ho sempre modo di farlo tacere. —
Così rassicurato, il conte tolse la cinghia ed il coltello infisso
nel bastone, poi fatto un cenno a Ronco, riprese in silenzio quella
specie di via da capre, che serpeggiava sui fianchi dell'abisso e
saliva a spirale.
Quando il conte si trovò lontano da quel luogo sinistro, parve che
respirasse più liberamente, e si rivolse al capraio.
— Tu puoi tornare alla tua capanna, — disse bruscamente.
Ronco fece un'orribile smorfia.
—Ora son solo a guardare le mie capre, — rispose lentamente — e la
fatica è troppa.... bisognerà che trovi qualche altro ragazzo, e mi
toccherà dargli un buon salario.... Ah! è stata una disgrazia per
me, la morte di mio figlio. —
Negli occhi del conte passò un lampo di collera, le sue labbra si
raggrinzarono, ma non disse una parola; e tolta di tasca una borsa
la gettò al capraio, che la colse al volo, mentre un sogghigno
sinistro gli faceva spalancare l’enorme bocca.
— Oh! signor conte.... la mia gratitudine....
— Levamiti dai piedi subito, e non venire mai più alla villa.... è
un consiglio che ti do per bene tuo; ed ora vattene, che già troppo
ho sofferta la tua ignobile presenza! —
Il capraio si affrettò ad ubbidire, ma se il conte l'avesse seguito
un istante, si sarebbe spaventato alla vista di quel volto orribile,
contraffatto dalla collera.
— Ah! perchè ora non avete, signor conte, più bisogno di me,... mi
scacciate come un cane! — esclamava fra i denti. — Ah! voi avete
creduto alla mia storiella, ma un giorno mio figlio vi comparirà
dinanzi, e chiederà conto di quello che ne avete fatto.... e allora
se vorrete sbarazzarvi di lui, dovrete rivolgervi a me.... io mi
farò pagare, e vi costerà caro.... Ah! ah! ah! —
Il conte, senza nemmeno volgere il capo, si dirigeva verso la villa,
cercando invano di scacciare i truci pensieri che gli si agitavano
in mente.
Eppure la morte o la scomparsa di quel ragazzo, che gli ricordava un
passato così doloroso, avrebbero dovuto renderlo tranquillo e
sicuro!
V.
Nel momento stesso che il conte lasciava la villa per recarsi con
Ronco al precipizio, Clara ed Alfonso si scambiavano i loro ultimi
addii. Avevano le lacrime in cuore, ma i loro occhi rimasero
asciutti e cercavano di sorridere per darsi forza scambievolmente, e
per togliere ogni sospetto dall'animo della governante.
Ma quando fu il momento di dividersi, Clara non poté contenersi:
aprì le braccia al fratello e per qualche minuto lo tenne stretto al
cuore.
— Sii buono, — gli sussurrò pian piano con un bacio ardente — pensa
a me che ti adoro.... e scrivimi presto. Addio.
— Addio, — ripeté mestamente Alfonso, rivolgendo altrove la testa
perchè il cuore quasi gli scoppiava — addio!… —
E presa la mano di Nemmo, si avviò con lui pel sentiero opposto a
quello che prendeva la fanciulla.
— Ora potete piangere liberamente, — disse con voce commossa il
vecchio servitore — vostra sorella non può più vedervi. —
Alfonso alzò i suoi occhi molli di lacrime verso Nemmo.
— Ma noi parleremo sempre di lei, non è vero?
— Sempre.
— Se tu sentissi, — continuò il fanciullo con voce fioca — cosa
provo qui dentro al petto…. —
Nemmo sospirò, e, accarezzando le guance di Alfonso, disse:
— Lì dentro avete un cuore, e questo vi parla di Clara, che
lasciate: ecco perchè soffre. Ma voi rivedrete presto vostra
sorella, sarete degno di lei, ed allora quel dolore si cangierà in
tanta gioia.
— Nemmo, credi tu che mia sorella mi amerà sempre, che mi vorrà
sempre bene?
— Sì.... se sarete buono.
— Che cosa dovrò fare per esser buono?
— Studiar molto, ed obbedire.
— Oh! questo mi sarà facile vicino a te, e pensando a lei. —
Mentre Alfonso cercava di calmare il suo dolore così parlando, Clara
tornava pensierosa alla villa. Ella chiese tosto del padre, e seppe
che era uscito in compagnia del capraio, ma che era tornato da pochi
minuti e si era chiuso in camera, dicendo che non voleva veder
nessuno.
Il cuore della fanciulla palpitò. Suo padre era dunque rimasto
colpito alla notizia della morte di Alfonso? Ma perchè era uscito
col capraio? Dov’era andato? Ella avrebbe voluto almeno vedere il
volto di suo padre. Ma come fare?
Dopo alcuni minuti d'esitazione, Clara si levò il cappellino ed i
guanti, e andò a battere all'uscio della camera del padre. Dapprima
non ebbe risposta. Bussò di nuovo, ed allora la voce brusca del
conte si fece sentire.
— Ho detto che non voglio ricevere alcuno!
— Sono io, caro babbo, — rispose Clara con accento melodioso.
Il conte venne ad aprire.
— Ah! sei tu, bambina..., entra pure, ma stamani non ho voglia di
discorrere. —
Clara gli gettò le braccia al collo e lo baciò con affetto. Il conte
si scosse tutto.
— Ti senti forse male, caro babbo? — disse la fanciulla guardandolo
fisso. — Mi sembri un po' pallido.
— No.... sto benissimo.... non sono mai stato così bene. —
Clara tremò, e le sue braccia si sciolsero dal collo del padre. Ma
quell'uomo che ella, fino da bambina, aveva adorato, che a lei era
sempre apparso così buono, così grande, non avea dunque un cuore! La
notizia della morte d'Alfonso, invece di suscitargli un rimorso, di
fargli versare una lacrima, lo trovava impassibile, anzi il conte
asseriva di non essersi mai sentito così bene in salute.
Il conte non si accòrse del repentino movimento di Clara.
Egli si era lasciato cadere sopra una poltrona.
— Sei stata alla passeggiata stamani? — chiese dopo un minuto di
silenzio.
— Sì, babbo.
— A cavallo o a piedi?
— A piedi.
— Sei stata a visitare i tuoi poveri?
— Sì.... e mi sono allontanata alquanto dalla villa, — disse Clara
fissando di nuovo il viso del padre — perchè mi hanno detto che un
contadino lontano abbisognava dei miei soccorsi.
— Tu sei proprio l'angelo di questi dintorni!
— Oh! non dir così, babbo, o mi farai arrossire. Sono andata dunque
in cerca del disgraziato, che ho trovato in una lurida capanna; e
mentre colla mia governante cercavo di sollevarlo da un vero canile,
dove giaceva sdraiato colla febbre, entrò in fretta e furia un altro
contadino. —
Fin qui non ci era nulla di strano nel racconto della fanciulla, e
il conte vi poneva poca attenzione. Ma Clara proseguì:
— Quell'uomo ci raccontò di una terribile disgrazia che era
accaduta. Figurati, babbo, che un povero ragazzetto.... figliuolo di
un capraio.... —
Il conte sollevò con impeto la testa.
— Ebbene! che cos'è avvenuto a questo capraio?
— Il poveretto è caduto in un precipizio.... —
Ella si fermò non togliendogli mai gli occhi da dosso.
— Ah! — rispose semplicemente.
Quest'esclamazione fu tutto; il padre non impallidì, nè mostrò la
minima commozione.
Clara si sentì stringere il cuore.
— Non ti spaventa, babbo, — disse con voce tremula, commossa —
l'idea di quel fanciullo, morto così miseramente?
— Sono cose, mia cara, che accadono agl'imprudenti, che osano
avventarsi attorno a un precipizio.
— Ma è una disgrazia spaventevole; forse il povero fanciullo non
sapeva di andare incontro alla morte: io ho voluto vedere il luogo
dove egli è caduto.
— Tu?... tu? — disse il conte con esplosione, in due toni diversi.
E questa volta il conte impallidì ed abbracciò con atto convulso la
fanciulla.
— Imprudente,... non pensavi al pericolo che correvi? —
Clara guardò il padre candidamente, coi suoi begli occhi ancora
umidi.
— No, babbo…. in quel momento non pensavo che al povero fanciullo. —
Il conte ebbe un impeto di rabbia.
— Al diavolo anche lui! — esclamò.
Ma vedendo la fanciulla a quelle parole farsi livida ed in procinto
di svenire:
— Ebbene, che hai ora?
— Oh!... babbo.... mi hai fatto tanto male....
— Io!... Io!... In qual modo?
— Parlando così, di quello sventurato. —
La fanciulla scoppiò in lacrime, nascondendo la bionda testa sul
petto del conte.
Questi ammutolì dinanzi a quel dolore sincero, e lasciò che la
poveretta sfogasse il suo pianto. Poi cercò di tranquillarla, ma non
ci riusciva. La sua voce era brusca, e la povera fanciulla era stata
ferita dolorosamente al cuore.
— Ma infine,... tu non lo conoscevi.... quel fanciullo…. — esclamò
con atto d'impazienza il conte.
— No.... babbo,... ma penso che forse egli aveva in casa una mamma
che l'aspettava....
— Ma no, era un orfano....
— Come, tu lo conoscevi? — esclamò Clara fingendo mirabilmente la
sorpresa, ed aggiunse con voce tremante: — Fors'anche gli avevi
parlato?
— Non lo conoscevo, e non gli ho mai parlato; ma tralascia, te ne
prego, questo discorso che mi agita, perchè penso alla tua
imprudenza e al pericolo che hai corso.
— Ma ora è passato… — rispose Clara, cercando invano di sorridere.
— E non tornerai più, non è vero? Me lo prometti? —
V’era tanto strazio in quelle parole, che la fanciulla abbassò il
capo.
— Sì, te lo prometto.... babbo....
— Oh! mio angelo, solo conforto della mia vita! — esclamò il conte
con esplosione, coprendo di baci frenetici quel viso di madonnina,
che gli si piegava sul petto.
Una mezz'ora dopo, Clara ritornava pallida e mesta nella sua stanza.
— Egli odia ancora quel fanciullo, benché lo creda morto, — mormorò.
— Dio.... Dio se egli sapesse che è vivo, libero e salvo per cagion
mia! Alfonso.... tu non hai che me sola al mondo.... che ti ami....
e nostra madre ci sosterrà dal Cielo.... O madre mia.... prega tu,
povera martire, il buon Dio, perchè cangi il cuore del babbo....
perchè nulla succeda ad Alfonso, al fratello mio, che tanto mi
raccomandasti e che io amo tanto.... —
Passarono dei tristi giorni per Clara dopo la partenza del fratello.
Il conte era divenuto ancor più taciturno.
Egli aveva fatto nascostamente ricercare il cadavere di Alfonso, ma
le ricerche riuscirono vane.
Clara non aveva altro conforto che nelle lettere che riceveva da
Alfonso e in quelle di Nemmo, il quale mostrava una vera
soddisfazione nel raccontare i progressi di Alfonso, le eccellenti
doti del fanciullo, che lo facevano amare dai maestri, dagli
scolari, da quanti, infine, avevano la fortuna di avvicinarlo.
Nemmo prima di partire aveva scritto un biglietto laconico al conte,
dicendogli che si sentiva stanco di stare al suo servizio, che Clara
non aveva più bisogno di lui, e che gli piaceva di viaggiare.
— Era un vecchio bisbetico ed un testimonio importuno! — esclamò il
conte appena letto quel laconico biglietto. — Ringrazio il Cielo
d'avermene liberato. —
Clara soffriva per la lontananza di Alfonso.
Egli ormai occupava tutte le sue ore, ed ella l'aveva amato con
quella intensità, con quella pazienza devota, colla quale sanno
amare le sorelle: da lui aveva avuto tante soddisfazioni di cuore,
di orgoglio. Di un fanciullo selvaggio, ella ne aveva fatto un
essere nobile, educato, buono. Alfonso le apparteneva tutto intiero,
era opera sua. Allorché, per lunghe ore, la fanciulla se ne stava
abbattuta e silenziosa sotto la finestra della camera sua, senza
prender parte a’ suoi favoriti divaghi, come le passeggiate a
cavallo, le corse nel giardino, senza toccar più il pianoforte, i
pennelli del disegno, i libri che prediligeva, ella parlava
coll'anima al suo Alfonso, gli raccontava le sue tristezze, le sue
noie, i suoi sconforti, e ne provava un vero sollievo.
VI.
Una mattina, Clara desiderò di rivedere quei luoghi dove aveva
passate tante ore felici con Alfonso. Si fece sellare il suo bel
morello, e senza neppure avvisare la governante, si mise in cammino.
Ella partì al trotto e per qualche momento le parve una delizia
sentirsi trasportata dal suo bel destriero, mentre il vento le
accarezzava la fronte, e sollevava le ciocche della sua bionda
capigliatura.
Ma poi abbandonò quasi le redini sul collo del cavallo, che si mise
al passo, mentre Clara ricadeva nelle sue riflessioni.
Giunta al luogo dov'era solita lasciare la sua cavalcatura per
inoltrarsi nello scabroso sentiero che conduceva alla capanna del
capraio, mentre stava per fermare il suo cavallo e scenderne, il
destriero parve spaventato dalla vista di una specie d'ombrello che
era appeso ad un albero, e prima che Clara potesse prevederlo, il
cavallo si slanciò per una rapida discesa, in fondo alla quale la
strada avea una svolta abbastanza improvvisa. La svolta dominava un
burrone: pochi passi ancora, e la fanciulla sarebbe stata perduta.
Ella non mandò un grido, nè un lamento: chiuse gli occhi, ed il suo
pensiero corse alla madre, con una semplice e sublime invocazione.
— Salvatemi voi, madre mia,... non per me, ma per Alfonso! —
Improvvisamente si udì un colpo di pistola; il cavallo stramazzò, e
la fanciulla vi sarebbe caduta sotto, se un giovane, pronto come il
lampo, non l'avesse sollevata a tempo fra le sue braccia. Clara era
svenuta.
Il cavallo era caduto a due metri dalla svolta; il giovane era
arrivato a tempo, e con una non comune abilità, e con una prodigiosa
freddezza d'animo, veduto il pericolo della fanciulla, avea esploso
una palla contro il cavallo e gli aveva rotta la testa.
Era un bel giovane, di forse venticinque anni, la cui fisonomia
indicava la nobiltà, la schiettezza d'animo. Era vestito all’ultima
moda; il suo cappello di campagna, leggermente inclinato sopra un
orecchio, mostrava i capelli nerissimi, lucidi, che facevano un
mirabile contrasto col viso bianco come l’alabastro. I suoi occhi
aveano un misto singolare di dolcezza e di fierezza ad un tempo: il
labbro aveva adorno da due piccoli baffetti.
Trovandosi fra le braccia Clara, una fanciulla ammirabilmente bella,
le sue guance si colorirono, e i suoi occhi mandarono un lampo. Egli
era rimasto come stordito, affascinato.
— Chi può essere? — balbettò. — Qual fortunata combinazione è stata
oggi la mia! Se avessi dato retta a quel pazzo di Arturo e avessi
passata tutta la mattina a letto, non mi sarebbe capitata davvero
quest’avventura! Ma, Dio mio,… ella non rinviene? Che devo fare?…
Almeno vi fosse un po' d'acqua qui vicino. —
Egli adagiò sull'erba, con tutta la delicatezza immaginabile, la
fanciulla svenuta; poi corse in cerca di un po' d'acqua e la trovò
non molto lungi.
Quando tornò col cappello pieno, Clara cominciava ad aprire gli
occhi. Il giovane le spruzzò alcune gocce d'acqua sul viso.
A quel contatto refrigerante, la fanciulla si scosse tutta; un lieve
colorito si sparse sulle sue pallide guance, i suoi occhi si
riaprirono intieramente. Ma veduto il giovane, che inginocchiato
vicino a lei pareva contemplarla in estasi, ella divenne color
fuoco, il cuore le balzò forte forte, la sua mano tremò e
sollevandosi sull'erba:
— Dove sono? — chiese con voce tremante.
— Siete in salvo, signorina; — rispose il giovane non meno commosso
— il vostro cavallo correva a precipizio, vi trascinava in un
burrone, ed io non avevo altro mezzo, per salvarvi, che quello di
uccidere l'ombroso animale. —
Clara ricordava tutto; voleva parlare, e le parole le mancarono per
esprimere quello che provava il di lei cuore.
Finalmente stese tremando la sua manina al giovane.
— Grazie, — disse con accento sommesso e tronco, ma che scendeva
all'anima — grazie, non soltanto per me, ma anche per mio padre…. —
Ella pensava in quel momento al terrore che aveva provato il conte
il giorno in cui gli aveva detto essersi avventurata al precipizio,
dov'egli credeva fosse perito Alfonso, e diceva a sè stessa che se
ella fosse morta, suo padre non avrebbe tardato a seguirla.
La voce di Clara passò nell'anima del giovine come le note di un
canto divino.
— Signorina, — rispose soavemente — io ho fatto quello che chiunque
altro al mio posto avrebbe fatto, nè mi dovete alcun ringraziamento.
Sarei io, anzi, che dovrei ringraziarvi della felicità che mi avete
procurato. —
Clara non arrossì, perchè non comprese. Il suo dolce volto di
fanciulla tanto soave, tanto bello, era tornato sorridente.
Sebbene Clara avesse compìto ventidue anni, era sempre bambina per
l'ingenuità, l'innocenza. La sua infanzia non era stata come quella
delle altre fanciulle; ed aveva mantenuto nella sua natura qualche
cosa di timido e di semplice che affascinava. Era bambina per il
cuore, e dell'amore ne ignorava persino il nome.
Non così poteva dirsi del giovane che il caso le aveva fatto
incontrare. Si chiamava il conte Guido Rambaldi. Rimasto orfano in
tenera età, sotto la tutela di un ricchissimo ma scapestrato
patrizio fiorentino, Guido seguì presto l'esempio del tutore,
slanciandosi nel vortice del mondo, ed abbandonandosi sfrenatamente
a tutte le passioni più impetuose, profondendo denari, salute,
giovinezza. Ora si trovava stanco, annoiato di sè stesso, nè sapeva
più in qual modo impiegare il tempo e le poche ricchezze che gli
erano rimaste.
Clara si era alzata, ma si sentiva molto debole e mal si reggeva in
piedi.
— Mi dispiace, — le disse il giovane — di non avere una cavalcatura
pronta da mettere a vostra disposizione. Ma io sono soltanto di
passaggio in questi luoghi. Sono ospite alla villa del marchese
Ferrati, mio buon amico.
— Che ha una sorella,... non è vero? — chiese Clara con vivacità.
— Si, signorina, una sorella che deve maritarsi fra qualche giorno
con un nobile portoghese. Ma io vi trattengo qui in chiacchiere,
invece di offrirvi il mio braccio, per accompagnarvi fino a casa. Me
lo permettete?
— Oh! sì,... perchè desidero che mio padre sappia quanto avete fatto
per me. —
E rivolgendo un ultimo sguardo al suo bel cavallo, che giaceva
stecchito poco lontano, esclamò:
— Povero Morgan, era così docile, così ubbidiente, e se non fosse
stato per un ombrello....
— Un ombrello attaccato ad un albero?
— Sì.
— L'ho veduto anch'io, e credo sia di un vecchio pittore, che ho
incontrato prima di vedervi.
— Quel pittore non ne ha nessuna colpa; pure, credetelo, signore,
sono dispiacentissima di veder là morto il mio cavallo favorito. —
Per distoglierla da quella dolorosa contemplazione, Guido le offrì
di nuovo il braccio, che la fanciulla accettò.
Strada facendo, il giovane le disse il suo nome, le parlò della sua
infanzia, di sua madre, che aveva appena conosciuta, e non si
accorgeva che con quel tono sommesso, appassionato, con quei
discorsi, faceva vibrare mille corde nell'animo dell'innocente
giovinetta.
La fiducia e l'amore sono i due principali elementi della donna.
Posandosi più facilmente sopra le apparenze e le impressioni, ella è
esposta più dell'uomo a prendere abbaglio. Quando la giovinetta
comincia ad amare, crede all'eternità degli affetti, all'immortale
unione delle anime, al continuo accrescimento di benevolenza, finché
il disinganno non le sfronda ad una ad una tutte le sue illusioni.
Clara ascoltava il giovine come si ascolta una voce deliziosa, e non
capiva perchè il palpito del suo cuore era più frequente, perchè il
suo braccio tremasse ogni qualvolta Guido, per sostenerla, se lo
stringeva al petto.
Dal canto suo, il conte Rambaldi, al contatto di quella giovinetta
che gli sorrideva con tanta innocenza, provava delle sensazioni
strane, qualche cosa di soave, come non avea provato mai.
Il suo cuore cantava fra sè l'inno di amore, quella divina melodia,
che egli, nella sua vita avventurosa, non avea mai pregustata.
Erano distanti pochi passi dalla villa della fanciulla, quand'ella
vide, sulla soglia del cancello, suo padre. Clara lasciò il braccio
del giovane, e con uno slancio fu vicino al conte, che l'accolse fra
le braccia.
— Oh! se tu sapessi, babbo, che pericolo ho corso, stamani....
— Di nuovo? O imprudente fanciulla! Ma dov'è il tuo cavallo?...
— Il mio cavallo è morto....
— Morto?…
— Sì, l'ha ucciso quel signore per salvarmi la vita…. tu devi a lui
solo, se mi stringi fra le braccia, e mi vedi ancor viva. —
Il conte non capiva nulla di quelle frasi interrotte: ma Guido
Rambaldi, avvicinandosi, dopo un inchino che mostrava il perfetto
gentiluomo, raccontò quant'era avvenuto, e si presentò da sè stesso.
Il conte l'avea ascoltato con ansia e sgomento.
Egli non si saziava di baciare la sua creatura, che il coraggio e il
sangue freddo del giovane avevano salvata, e teneva con una mano
quella di Guido, stringendola con moto convulso.
— Signor Rambaldi, — gli disse — io non dimenticherò mai quanto
avete fatto per me; salvando mia figlia, mi avete salvato più della
vita.
— Non ho fatto che il mio dovere, signor conte.
— Vi sono dei doveri che nulla basta a ricompensare. Signor conte,
voi mi dite che siete orfano e solo su questa terra;... volete
divenire mio figlio, fratello della mia Clara? —
La fanciulla col viso soffuso di ardente rossore nascose il suo
volto sul petto del padre. Fors'ella corse col pensiero ad Alfonso,
e Guido Rambaldi piegò un ginocchio dinanzi al vecchio.
— Signore, — disse con voce commossa — la mia vita vale ben poco, ma
da questo momento essa è per voi. —
VII.
Un mese dopo questa scena, ritroviamo Clara e Guido sotto un
delizioso boschetto, nel giardino della villa.
Clara era seduta sopra una panchina di muschio: Guido le era ai
piedi.
— Clara, — diceva egli con voce armoniosa — io ho comunicato a
vostro padre la risoluzione dalla quale deve dipendere la felicità
di tutta la mia vita. Vostro padre mi approva, ma io attendo una
parola dalle vostre labbra che mi dia animo, che mi accerti che non
ho sperato invano. Clara, consentite voi a divenire mia moglie?... —
La fanciulla teneva la testa china, nè si poteva intendere quello
che le turbinava nell'animo.
Guido continuava:
— Clara.... guardatemi in viso, un momento solo, io voglio leggere
il mio destino nei vostri occhi, che non sanno mentire. Clara, mi
amate voi?...
— Se l'agitazione che prova in quest'istante l’anima mia, se la
dolcezza che m'inonda il cuore, si chiama amore.... sì, Guido.... io
vi amo! — rispose la fanciulla in tuono sommesso, ma fermo.
Guido Rambaldi congiunse le mani, estatico.
— Ah! non potete credere, Clara, quanto bene mi facciano queste
vostre parole. Anch'io, finora, al pari di voi, non avevo conosciuto
l'amore;... dal giorno che vi ho veduta, la mia vita non dipese più
che da una sola speranza: quella di farmi amare da voi, quella di
farvi mia moglie. Ero così infelice, prima di conoscervi!...
— E non lo siete più?...
— Oh! no, dal giorno che vi vidi sorridere.... —
Clara non parve offesa. Sul divino sembiante le si vedeva dipinta
tutta la calma del suo candore. Guido la contemplava deliziosamente.
Ella alzò le ciglia: una lacrima le corse sulle guance, e pensava al
fratello:
— Guido mi farebbe egli forse dimenticare mio fratello?... Debbo io
confidare a questo giovane così devoto, che mi ama tanto, la storia
di Alfonso? Egli perdonerebbe? chi lo sa? permetterebbe che Alfonso
fosse vicino a noi.... —
Ma dicendogli questo, ella avrebbe dovuto confessare la colpa
di sua madre; di quella creatura soave e venerata, l'idolo della sua
infanzia, l'angelo che vegliava su di lei. Avrebbe dovuto dirgli le
colpe di suo padre, che Guido stimava al pari di lei, che sapeva
buono, di cui ignorava il triste passato?
Oh! a costo di tutto bisognava tacere, per non infrangere davanti
agli occhi di Guido quei due idoli così adorati.
Era un pezzo che la fanciulla taceva, e che il giovane conte
Rambaldi non ardiva turbare, con una mossa o con una parola, quel
silenzio delizioso.
Guido non poteva immaginare quanto agitava l'animo di Clara; egli la
vedeva turbata ed attribuiva quel turbamento alle emozioni che una
fanciulla pura ed innocente prova sempre trovandosi vicino alla
persona che ama.
Ed egli si sentiva amato! sì.... ne era persuaso, e guardava senza
saziarsi quell'angelica fanciulla, che il destino gli avea fatto
incontrare, e giurava in cuor suo di renderla una moglie
felicissima!
Quanti sono i giuramenti che si fanno così ogni giorno! Un giovane
s'imbatte in una fanciulla bella, intelligente, e l'ama, e crede ed
è convinto nel suo cuore di non amare che lei, che lei sola, di
amarla per tutta la vita. Il giuramento che fa davanti all'altare è
sincero, le proteste d'amore che rivolge alla donna fatta sua, sono
veritiere: egli è persuaso di non cangiar mai, e la fanciulla crede,
è fidente. Nello sposo che Dio le ha destinato, che ella ama, trova
il paradiso, sogna la felicità, le sembra che niuna nube debba mai
apparire sull'orizzonte di quel bel cielo.
Si amano, sono uniti: il mondo è tutto per loro. Ma a poco a poco
l'abitudine uccide quell'amore violento, appassionato; la moglie ha
nuove occupazioni, nuovi affetti: i figli. Il marito o s'ingolfa
negli affari o per calmare la noia che comincia ad assediarlo,
ritorna all'antica vita, rivede gli amici abbandonati, trova delle
maggiori sensazioni, una maggior voluttà nei piaceri, che per
l’innanzi gli facevano nausea.
Eppure egli ama sempre la moglie e gli sembra di non amare alcuno
più di lei; ma le sue manifestazioni si fanno così fredde, che la
moglie finisce per credersi ingannata, di aver dato a lui tanta
gioia e tanta felicità, e di riceverne in cambio lacrime e amarezze.
Forse è ingiusta; ma chi ama teme, e invano cerca nascondere sotto
un sembiante sereno le ansie del cuore, invano procura di frenare i
trasporti in presenza del marito.
E il marito, che credeva di trovare nel santuario della casa la pace
e la quiete, comincia a sentirsi turbato, inasprito; alle tristezze
senza ragione della moglie, si sente offeso nel suo orgoglio, nel
suo cuore, e dice a sè stesso:
— Ebbene, che le manca per agire così? Qual cosa vi è ancora che io
non le abbia dato?... Non ho tutto sacrificato per lei? Di che si
lamenta? —
Egli non si accorge che il suo cuore è cambiato, che il fàscino
potente che l'aveva avvinto, ha dato luogo ad una calma infinita dei
sensi e dello spirito, che i suoi sentimenti, senza essere mutati,
hanno subìto una nuova fase.
Ed ecco perchè la vita di molti sposi diventa difficile, la loro
convivenza poco lieta.
Il conte Rambaldi era sincero quando giurava a Clara di amarla, di
adorarla, di non avere altro pensiero all'infuori di lei, e che ella
sarebbe stata la felicità di tutta la sua vita? Sì, egli era
convinto di quello che diceva, egli era persuaso che avrebbe reso
felice quella creatura, che con tanta fiducia si appoggiava al suo
cuore, che gli dava tutta sè stessa; egli era sicuro di non amar mai
altra donna all'infuori di lei, perchè nessuna avrebbe trovata che
fosse più bella, più pura, più angelica di Clara.
Quanti uomini pensano così la vigilia di prendere in moglie la
fanciulla che amano, e che da lungo tempo desiderano, anelano di
possedere!
L'amore felice sembrava allora illuminare coi suoi dolci incanti
Clara e Guido, che si erano promessi un’eterna tenerezza con la
maggiore sincerità.
Era sì completa la gioia di Clara, che non poté a meno di sfogarsi
col fratello, e gli scrisse una lunga lettera piena di buone parole,
parlandogli di Guido, annoverandone le doti, facendolo apparire agli
occhi del giovinetto un eroe, un miracolo di bontà, di dignità,
qualche cosa di superiore a tutti gli altri.
E strano.... Alfonso leggendo quella lettera della sorella aveva
pianto, e senza sapere il perchè aveva provato subito una istintiva
antipatia verso quel giovane, che gli rubava il cuore della sua
Clara. Non già che egli dubitasse che la fanciulla l’avrebbe
dimenticato. No, era troppo sicuro di lei, ma tant’è: Alfonso
provava gelosia, rabbia, contro quell'intruso, e sfogò il suo
rammarico con Nemmo, che non poteva dargli ragione.
— Ah! voi dovreste esser lieto della felicità di Clara; — gli disse
con dolcezza il buon vecchio — la cara fanciulla aveva bisogno di un
cuore che la comprendesse, di un braccio forte, leale, su cui
appoggiarsi. —
Alfonso divenne pallido.
— Ed io non le bastavo? — mormorò. — Vedi.... io sento che non potrò
amare nessuno al mondo più di lei.
— Voi siete ancora un ragazzo: quando comprenderete la vita, vedrete
che vi sono dei sentimenti diversi di quelli che si provano per un
fratello od una sorella. —
Alfonso spalancava i suoi begli occhioni celesti.
— E vorresti forse dirmi che si possono amare due persone in modo
diverso? Il cuore non è sempre lo stesso? E quando si è dato a
qualcuno, sia un parente od un estraneo, si può ancora toglierlo per
offrirlo ad un altro? —
Nemmo scosse la bianca testa.
— Voi non mi comprendete, Alfonso; — disse — il cuore di Clara non è
cambiato, è sempre vostro; ma ciò non le impedisce di amare
castamente un altro. Sentite, voi stesso che mi parlate così, voi
che amate tanto vostra sorella,... non provate altresì un po’ di
affezione per me?
— Oh! sì, io ti amo molto, tu sei buono, mi parli di lei, ma non è
la stessa cosa, forse non so spiegarmi....
— Più tardi, caro ragazzo, avrete la spiegazione di questo enigma,
ora dovete pensare a scrivere a vostra sorella, e dirle che
partecipate alla sua gioia. —
Una lacrima rigò le guance di Alfonso.
— Sì, le scriverò quello che vuoi, ella lo merita, è buona; ma a
lui.... no! Quel giovane io non posso amarlo,... sebbene non lo
conosca neppure, mi figuro che sia brutto, cattivo.... —
Queste idee fecero sorridere Nemmo.
— Se così fosse, credete che vostra sorella, che è un angelo,
l'avrebbe amato?
— Hai ragione, io sono pazzo, ma che vuoi?... Quel conte Guido mi fa
rabbia....
— Moderate i vostri trasporti; se vostra sorella vi vedesse, le
fareste molto male.
— Lo credi?
— Ne sono sicuro.
— Oh! non le dir nulla, sai; sì, sì, sono contento.... che ella
sposi quel giovane che ama, sono contento che ella sia felice.... lo
sono... ma.... —
Il povero fanciullo s'interruppe perchè piangeva.
Nemmo provò un vivo sentimento di compassione, ma non osò di turbare
quell'improvviso sfogo di dolore.
E fece bene. Alfonso a poco a poco si calmò, e sorrise di nuovo.
— Sono cattivo, non è vero? — disse — piango senza ragione, ma
sentivo un peso qui, ora però sto meglio; scriverò a Clara. —
E si mise a scrivere, ma non ci riusciva. Strappò cinque o sei
fogli, e finalmente riuscì a mettere insieme una lettera affettuosa,
ma dalla quale un attento osservatore avrebbe scoperto l'agitazione,
lo stato febbrile dell'animo di chi l'aveva scritta.
La notte Alfonso fece un sogno cattivo.
Sognò che gli portavano via Clara e le parve che essa gli stendesse
le mani supplicandolo a salvarla, a toglierla dalle braccia di
quell’uomo.
Egli correva,... correva affannoso e non riusciva a raggiungerla.
E Clara gli stendeva le braccia, lo chiamava, invocava il suo aiuto.
L'uomo che la stringeva era alto, vigoroso, bellissimo; ma aveva lo
sguardo maligno, il sorriso sardonico e pareva compiacersi di
trascinare seco la povera vittima.
E Alfonso nel suo sogno correva.... correva sempre e gli pareva di
gridare:
— Scellerato.... lasciala,... è mia sorella.... Clara, Clara, io ti
salverò o morirò con te. —
Ma prima che potesse raggiungerla, il povero fanciullo inciampò....
cadde.... e nella caduta si svegliò.
Allora con sua sorpresa, e diciamolo pure con soddisfazione, si
trovò coricato nel suo letticciuolo, in una piccola cameretta,
ammobiliata sul gusto di quella di Clara, perchè tutto gli
ricordasse la sorella.
— Ho sognato dunque, ho avuto un incubo! — esclamò. — Clara a
quest'ora dorme felice, vagheggiando un'immagine che è la mia.
Decisamente quella notizia mi ha dato la febbre. —
Il povero fanciullo tentò di sorridere, riprendendo la sua calma; ma
quel sogno cattivo, quelle spaventevoli visioni lo lasciarono
pallido, preoccupato.
Aveva forse l'innocente fanciullo avuto un presentimento di quello
che sarebbe successo? Si era squarciato dinanzi a lui una parte del
velo che copriva l'avvenire della diletta sorella?
Sono misteri dell'anima, ai quali è impossibile trovare una
spiegazione!
VIII.
Il matrimonio di Clara venne celebrato nella chiesa del villaggio,
dove la fanciulla era stata battezzata, dov'era stata benedetta la
salma di sua madre e dove aveva fatta la sua prima comunione. Tutto
il villaggio era in festa.
La chiesuola conteneva a stento la folla accorsa ad offrire un nuovo
attestato di affetto, di ammirazione, di simpatia all'angelo che
tutti conoscevano ed amavano.
Molti dei villeggianti vicini erano stati invitati. Anche il
piazzale della chiesuola era pieno zeppo di contadini, vestiti del
loro più bell'abito da festa, con fiori sul cappello, e fiori in
mano, da gettare sul passaggio della giovane sposa.
Quando Clara comparve al braccio di suo padre, un evviva
entusiastico proruppe da quella folla, che faceva ala al suo
passaggio.
I fiori coprivano il suolo, dove ella poneva il suo piedino.
Clara, vestita di bianco, pareva un'apparizione, un vero angiolo
disceso dal cielo. La sua soave bellezza attraeva tutti gli sguardi
e tutti i cuori. Il suo sguardo commosso si fermava con
riconoscenza, con affetto, sui molti amici che le sorridevano.
Il conte, sebbene più pallido del solito, si mostrava orgoglioso
delle testimonianze d'affetto rivolte alla sua creatura, e per la
prima volta un sorriso gli schiudeva il labbro sdegnoso e una
lacrima gl’inumidiva gli occhi.
Guido Rambaldi, in compagnia di un amico, veniva dietro al conte ed
alla sposa.
Il giovane mostrava sul volto tutta la felicità del suo animo, e i
suoi occhi si posavano con tanta tenerezza, con tanta passione verso
la giovinetta, che camminava dinanzi a lui, e che sarebbe stata in
breve la compagna di tutta la sua vita, sì che la gente mormorava:
— Come l'ama! Come sembra buono!
— Oh! certo, egli renderà felice quella cara creatura: sarà una
coppia invidiabile, da mostrarsi a dito. Tutti e due belli, giovani,
buoni e amanti. —
Quando la fanciulla si trovò nel tempio vicino all'uomo che il suo
cuore aveva prescelto, provò un istante di commozione.
Ma appena il ministro di Dio le rivolse le sacramentali parole, che
le mostravano come da quel momento appartenesse tutta intiera a
Guido, con una catena santissima, con un giuramento di amore e di
fedeltà eterna, un sorriso divino rischiarò le sembianze della
fanciulla, e non mai giuramento uscì da cuore più puro, più tenero,
più sincero!
Clara pronunziò il solenne sì con voce ferma, ricambiando uno
sguardo d'amore all'uomo che le dava il suo nome e il cui volto
raggiava in quel momento della felicità più completa.
Quando Clara traversò di nuovo la folla al braccio di suo marito,
nuovi augurî di felicità e grida di ammirazione si sollevarono al di
lei passaggio.
Uscendo dal tempio, Guido sentì il braccio della fanciulla tremare
accanto al suo. La guardò sorpresa e la vide pallida.
— Che cos'hai? — le sussurrò pian piano.
Ella fissò su lui i suoi begli occhi pieni di candore.
— Perchè mi fai questa domanda?
— Perchè ho sentito il tuo braccio tremare, e mi sembri un po'
pallida.
— Non ho nulla, te l'assicuro. —
Clara in quel momento mentiva.
Fra la folla che si agglomerava alla porta della chiesa, ella aveva
scorto Ronco il capraio, che cogli occhi fissi su di lei e colla
mano alzata come per salutare, le faceva invece un piccolo cenno.
Quel cenno voleva dire che egli doveva parlarle.
Ma come fare? Era forse possibile sottrarsi agl'invitati, a Guido?
Nella villa del conte era preparato un banchetto splendidissimo: le
gallerie, le sale, erano piene di invitati.
Gli sposi passarono in mezzo a quell'onda di persone, sorridendo a
tutti, avendo una parola per tutti. Ma in fondo all'animo, Clara era
preoccupata.
— Aspettami, — disse ella ad un tratto staccandosi dal braccio di
Guido.
— Dove vai? — chiese il conte che era dietro di loro.
Ella sorrise con aria infantile.
— Vado a deporre il mio velo e la mia corona, e torno subito qui.
— Non ti far aspettar troppo, — disse Guido, baciando la manina
inguantata di Clara.
Questa sfuggì con un piccolo grido, ed entrò nella sua camera da
giovinetta, che avrebbe dovuto abbandonare per sempre.
La governante l'aveva seguìta.
— Volete che vi aiuti? — disse alla sposina.
— No.... piuttosto fammi un piacere.... sono entrata qui con un
pretesto.... perchè Guido non sospettasse di nulla. —
La governante guardò la fanciulla stupita.
— Che volete dire? — chiese con tono quasi severo.
Allora Clara le raccontò quanto aveva veduto uscendo di chiesa.
— Quell'uomo vuol parlarmi, non v’è dubbio.
— Ma vi pare conveniente di ricevere un capraio in questo
momento?... Se vostro padre se ne accorgesse?... Lasciate che gli
parli io.... —
La fanciulla trasalì.
— No.... no; — disse — Ronco deve aver qualche cosa d'importante da
confidare a me sola,... te ne prego.... cerca di farlo venir qui,
senza che alcuno se ne avveda, e lasciami un momento sola con lui: è
l'ultimo favore che ti chiedo.... tu che mi hai amata tanto e che
sei stata per me una seconda madre. —
La governante era commossa, nè seppe resistere. Mentre la fanciulla
si toglieva da sè stessa il velo, i fiori ed i guanti, la vecchia
uscì cautamente, e dopo pochi minuti ritornò furtiva in compagnia
del capraio, il quale, prevedendo quello che sarebbe successo, avea
seguìto gli sposi alla villa e si era introdotto in mezzo agli altri
nel giardino.
— Cinque minuti soli, perchè vostro padre e il vostro sposo
potrebbero chiedere di voi, — disse la governante a Clara — io
vigilerò alla porta della stanza.
— Grazie.... grazie. —
Appena la vecchia fu uscita, la fisonomia della fanciulla cambiò
d'espressione.
— Parla, che vuoi da me? — disse in tono quasi brusco al capraio — e
sbrigati, perchè ho pochi minuti da concederti. —
Ronco, che nell'entrare si mostrava imbarazzato, rialzò subito la
testa.
— In due parole mi sbrigo, signora. Oggi voi partite, non è vero?
— Sì,... vado con mio marito a passare alcuni mesi lontano di qui,
ma ritornerò.
— Io non ho tempo d'aspettare: mi ci vuol del denaro. —
Il modo brutale con cui disse queste parole, fece salire il rossore
sulle gote della giovine sposa.
— Del denaro? — ripetè macchinalmente.
— Sì,... non mi avete ancora capito.... del denaro.... Che credete
con pochi scudi d'aver saldato il vostro debito? Per causa vostra,
il vostro signor padre mi ha scacciato, minacciandomi di denunziarmi
come assassino del fanciullo.... ah! ah! ah! —
Clara si coperse di un pallore mortale. Ebbe paura di quell'uomo, e
stava per chieder aiuto, soccorso. Ma il pensiero di ciò che sarebbe
avvenuto, la ritenne. Ella fece sopra di sè uno sforzo sovrumano.
— Ebbene ti darò del denaro, tutto quello che ho qui; — disse
aprendo con moto febbrile un'elegante cassetta intarsiata, dove
soleva tenere le lettere del fratello; e prendendo una borsa piena
d'oro, che giaceva in un canto: — tieni, in questo momento non ho di
più. —
Il capraio prese la borsa continuando a sogghignare.
— Tornerò quando sarà finita la vostra luna di miele; — disse — ma
badate che se ritardaste troppo.... verrei a cercarvi,... o vi
scriverei. —
Clara si sentì venir meno. Il terrore, il disprezzo, il disgusto per
quell'uomo, l'avevano atterrita.
Avrebbe voluto fuggire e nondimeno rimaneva inchiodata al suo posto,
come l'allodola affascinata dalla vipera.
— Quel caro ragazzo mi serviva.... — continuò Ronco — ora mi tocca a
spendere per tenere un garzone,... basta, vi lascio, signorina….
— Sì.... vattene.… vattene.
— Ah! mi scacciate anche voi, come vostro padre? Se io raccontassi a
lui e al vostro sposo, la storia di Alfonso....
— Ah! per pietà.... te ne supplico, taci! — esclamò Clara i cui
lineamenti si alteravano sempre più. — Ti manderò quanto vorrai,...
ma lasciami. —
In quel momento si udì bussare alla porta, e la voce della
governante, che diceva:
— Signorina.... c’è il vostro sposo.... —
Era dietro alla porta che l'aspettava! E ora, come fare uscire il
capraio? Dalla parte del giardino era impossibile, perchè pieno di
invitati.
Come spiegare la presenza di quell'essere ignobile, chiuso con lei,
nella sua camera verginale?
Ronco stesso, malgrado volesse far pompa d'indifferenza, era
agitato.
— Da che parte devo passare? — disse.
— Aspetta…. nasconditi lì.... dietro al mio letto, quando sarò
uscita.… la mia governante ti condurrà fuori. —
Fu picchiato di nuovo alla porta, e questa volta alla voce della
governante si unì quella di Guido.
— Clara, amor mio.... che fai? —
La giovine sposa di un balzo fu all’uscio, l'aprì, e si gettò fra le
braccia del marito.
— Eccomi, Guido, eccomi!... — esclamò senza guardarlo in viso —
andiamo di là, gl'invitati ci aspettano. —
Egli le sollevò la bella testa per contemplarla, e gettò un grido.
— Che cos'hai? — chiese trepidante.
— Nulla, mio diletto, nulla, il caldo della chiesa, i profumi.... i
lumi.… mi avevano fatto un po' male,... la testa mi ardeva.… ma ora
è passato tutto. —
E cercò di trascinarlo verso il salone.
Ma Guido si oppose, e con dolcezza, sostenendo la giovine per la
vita, la trasse presso un'invetriata a colori, dalla quale si
scendeva nella serra.
Quel luogo in quel momento era deserto.
Clara tremò come se suo marito stesse per farle qualche domanda,
alla quale essa non poteva rispondere, e cercando di prevenirlo,
disse:
— Il babbo ci aspetta di là, la tavola è pronta.... e gl'invitati
saranno impazienti.
— Lasciamoli impazientire! — rispose Guido gaiamente. — Forse ti
dispiace di restar qui con me? —
Ella levò sopra di lui i begli occhi splendenti, dallo sguardo puro
e candido come quello di un fanciullo.
— Guido, tu non pensi a ciò che dici! —
Egli la baciò con passione.
— O mia diletta, io temo.... temo sempre che la mia felicità sia un
sogno.... Parlami.... dimmi: non sei pentita d'avermi fatto il dono
della tua giovinezza, della tua purità, di tutto il tuo avvenire?...
—
Clara gli cinse il collo colle sue ammirabili braccia e con voce che
parve una carezza:
— Ti amo, Guido! — gli sussurrò sulle labbra.
— Grazie, mia cara, grazie. Ah! tu non sai qual bene mi faccia
questa soave parola pronunziata da te, qual'ebbrezza io provi nel
sentirti palpitante fra le mie braccia. Io ti adoro, Clara, sposa
mia, ti venero come una santa, mentre ti desidero, mentre sento il
mio sangue accendersi, ardere le mie vene. Clara, l'amor mio per te
è un culto formato di rispetto e di entusiasmo; tu sarai l'angelo
della mia vita: vicino a te non invidierò nemmeno il paradiso....
Clara, ti amo, ti amo come un pazzo, e sono il tuo legittimo
marito.... —
Guido la stringeva con forza, senza che ella opponesse alcuna
resistenza: l'ebbrezza di lui passava nell'anima di lei che provava
delle sensazioni nuove, sconosciute. Ella chiudeva gli occhi mentre
le sue labbra ricambiavano i baci infuocati di Guido.
Erano soli in quella serra deliziosa, ingombra di piante rarissime,
in mezzo ai fiori, che empivano quel luogo di profumi acuti e
inebrianti.
— Tu mi hai dato il tuo pensiero, la tua anima, — continuava Guido —
tu sei mia per tutta l'eternità.
— Sì, sempre, sempre....
— Io prego Dio che mi faccia morire prima di te.
— No, morremo insieme. —
La voce sonora del conte richiamò Guido e la giovane sposa alla
realtà.
Il conte li andava cercando dappertutto. Finalmente li scòrse dalla
vetrata, e scese egli pure nella serra.
— Ah! ragazzi, — esclamò con un tono che voleva parer burbero, ma
tradiva un immenso affetto — voi fuggite senza dirci nulla,... e
lasciate che io corra a cercarvi a costo di vedermi messo in
ridicolo da tutti i convitati. Andiamo, che fate qui? Avete del
tempo, ragazzi miei, davanti a voi: ancora non siete liberi,
gl’invitati vi aspettano. —
Guido e Clara ascoltarono quella specie di rabbuffo, tenendosi le
mani strette, unite, scambiandosi degli sguardi e dei sorrisi
d'amore.
E quando il conte ebbe finito, la giovine coppia cadde in ginocchio
davanti a quell'uomo, che faceva tremare tutti i paesani dei
contorni, e con voce commossa esclamarono insieme:
— Babbo, benediteci! —
. . .
. . .
. . .
. . .
.
In quel momento stesso, Ronco tornava alla sua capanna, portando
seco non solo la borsa che Clara gli aveva generosamente donata, ma
altresì la cassetta che conteneva le lettere di Alfonso e di Nemmo,
nonché alcuni gioielli che avevano appartenuti alla madre di Clara,
cassetta che egli pensò bene di rubare, mentre la giovine sposa
usciva dalla sua cameretta, lasciandolo un momento solo.
La vecchia governante non si era accorta di nulla, perchè l'audace
mariuolo avea fatta sparire la cassetta sotto la pelle di montone,
che gli copriva le spalle.
IX.
I primi mesi del matrimonio di Clara passarono rapidi come un sogno.
La fanciulla non credeva che ci potesse essere tanta felicità nella
terra, ed accarezzava con ebbrezza i più splendidi sogni
dell'avvenire.
Dopo aver trascorsa la luna di miele nella villa del conte Rambaldi,
Guido pensò di condurre la giovane sposa a Parigi.
Clara non avea potuto scrivere che una sola volta al fratello, ma
non mancava di occuparsi di lui, e siccome Nemmo le avea fatto
sapere che il giovinetto aveva molta passione per il commercio e per
i viaggi, la fanciulla lo raccomandò ad un negoziante, il quale a
sua volta le fece promessa di risguardare il fanciullo come suo
figlio.
Ella era tranquilla sull'avvenire di Alfonso; e sebbene si sentisse
in fondo al cuore molto dispiacente per dover vivere separata da
lui, ella non perdeva la speranza di presto rivederlo e stringerlo
fra le sue braccia.
A Parigi, i due giovani sposi vissero una vita, come Clara avrebbe
desiderato di condurre eternamente. Non cercarono di far amicizie,
ed avevano preso in affitto un elegante appartamento nel sobborgo
più aristocratico.
I due sposi si alzavano assai presto al mattino, per visitare quanto
di bello, di grandioso in fatto di arte, racchiude la capitale della
Francia.
Dopo la colazione, si facevano condurre, con una carrozza di
rimessa, al Bosco di Boulogne. Là essi scendevano, passeggiavano nei
viali meno frequentati, parlandosi piuttosto per intendersi, che per
discorrere, ed accarezzandosi quando credevano di non essere
osservati.
Alcuni, vedendo passare quella giovane coppia, ammirabile per
bellezza, si fermavano commossi e la seguivano con lo sguardo. Tutti
i movimenti dei due giovani palesavano due cuori trasportati dalla
più viva passione.
Dopo aver passeggiato alcune ore, risalivano in carrozza col sorriso
sulle labbra e la felicità negli occhi, e questa felicità li
accompagnava nella loro ricca dimora, in mezzo alle più care soavità
dell'amore, dimentichi del mondo intero.
A pranzo faceano onore alle squisite vivande apprestate loro da un
abilissimo cuoco: dopo pranzo scendevano in un gabinetto ridotto a
serra.
Clara colle sue piccole dita rotolava ella stessa le sigarette per
il suo Guido, gliele accendeva, e il conte la ricompensava con
lunghi baci, con parole così soavi, che Clara sentiva battere a
colpi precipitosi il suo cuore, tanto espansivo e tanto amante.
La sera, chiusi in un palchetto dell'Opéra, i due sposi godevano lo
spettacolo, e rientrando alla loro abitazione, parlavano delle gioie
presenti, delle allegre rimembranze del passato, e dell'ebbrezza che
li aspettava nell'avvenire.
In quei giorni, i parigini perdevano il capo dietro una ballerina
dell'Opéra, una giavanese dagli occhi nerissimi, dal volto
abbronzato, dalle labbra frementi di passione, la cui potenza di
attrazione si diceva irresistibile, tanto che persino il conte C***,
uno dei più noti puritani, si era fatto saltare le cervella per
quell'ammaliatrice, non essendo giunto, malgrado tutte le sue
ricchezze, a commoverne il cuore e farsi aprire la porta di casa.
Guido e Clara avevano pur essi ammirata l'affascinante ballerina; ma
erano tanto assorti nel loro amore, che la maliarda non poteva
produrre alcun effetto sopra i due giovani sposi.
Un giorno, dopo colazione, mentre la carrozza era già preparata per
condurre gli sposi al Bosco, Clara fu colta da una specie di
svenimento. Ritornò quasi subito in sè, ma a Guido parve imprudenza
condurla alla passeggiata e diè ordine che si staccassero i cavalli.
— Ma perchè tu vuoi rinunziare a recarti al Bosco? — gli disse Clara
con il suo angelico sorriso.
— Che cosa ci farei senza di te,... angiolo mio.... no,... no, non
voglio lasciarti.
— Ed io desidero invece che tu ci vada, tu non hai più nulla da
temere per me. Indovino forse la causa di questi svenimenti, —
aggiunse arrossendo e nascondendo il suo leggiadro viso sulla spalla
di Guido.
Questi comprese, e mandò un grido di gioia.
— Sarebbe vero?
— M'inganno forse....
— No.... non t'inganni,... questi sintomi mi provano che hai
indovinato. Tu sarai madre.... io avrò un figlio,... tuo.... tuo....
oh! quanto lo ameremo.
— Io stessa l'allatterò.
— Sì.... non lo lasceremo nelle mani di estranei, io sono certo che
ti somiglierà.
— Io vorrei che avesse invece il tuo volto.
— No,... perchè allora non sarebbe bello.... ed io voglio che il
nostro bambino sia bellissimo.... —
E nell'ebbrezza della sua gioia, Guido si stringeva al seno la
giovane sposa, la copriva di baci ardenti, dimenticando in quel
momento e la sua passeggiata e il mondo intiero.
Ma Clara, che avea divisato di scrivere in quel giorno a suo
fratello, del quale non avea notizie da lungo tempo, ed a suo padre,
che aspettava con ansia il ritorno della figlia adorata, si rivolse
a Guido e con voce carezzevole:
— Vedi dunque, mio caro, — gli disse — che ho bisogno di riposo....
e di solitudine; è forse un capriccio che devo al mio stato
interessante, perchè tu sai quanto mi dispiaccia separarmi da te,
sia pure per un minuto solo.
— Io non voglio lasciarti.
— Sì, mio caro.... tu anderai alla solita passeggiata, farai a piedi
i viali che percorriamo ogni giorno, ed io stesa qui, sulla
poltrona, ti seguirò col pensiero, sorriderò alle tue dolci parole,
ti vedrò come se ti fossi vicina, e al tuo ritorno mi racconterai
tutte le impressioni.... tutte, sai.... ed io sarò tanto felice,
pensando soltanto a te. —
Guido la baciò di nuovo.
— Vuoi dunque proprio che io vada?
— Ma sì....
— Mi permetti però di tornare più presto del solito?
— Oh! in quanto a ciò, non ho osservazioni da fare! — esclamò la
giovine sposa con grazia incantevole e con un sorriso divino sulle
labbra.
— A rivederci dunque a presto.... mia cara.
— Verrò alla finestra per vederti andar via. —
Difatti, quando la vettura uscì dal vestibolo, Guido, alzando il
capo, vide la bionda testa di Clara, apparire in mezzo alle
persiane. Egli le inviò un bacio sulla punta delle dita, e tenne gli
occhi fissi su quella divina apparizione, finché la svolta della
strada gliela tolse.
Allora si sdraiò sui morbidi cuscini della vettura e con accento
d'uomo soddisfatto, felice, mormorò:
— Quant'è cara,... quant’è bella! nessuno al certo può starle al
pari. Candida, intelligente, amante, è la più divina delle creature,
ed è mia,... tutta mia.... —
Così assorto in questi dolci pensieri, Guido era giunto al Bosco.
Fece fermare la vettura al solito luogo, e s’inoltrò tutto solo nei
viali dove era solito di passeggiare con Clara.
Camminando e fantasticando, egli si era internato nel folto del
Bosco, quando d'improvviso un grido lontano, sordo, soffocato,
arrivò fino a lui. Pareva la voce di una donna che implorasse
soccorso. Allora Guido si slanciò dalla parte donde gli parve che
venisse la voce, e vide una giovine donna, vestita con un elegante
abito da passeggio, che si dibatteva, trattenuta da un signore di
mezza età, che parea volesse forzarla a seguirlo.
Alla vista del giovane che si avanzava, la signora riprese coraggio,
ma l'uomo continuava a trascinarla.
— Lasciatela, — disse Guido con voce sdegnata, cercando di separare
quello strano gruppo.
— Chi siete voi che venite a mischiarvi nei fatti miei, senza essere
chiamato? — esclamò il signore, rosso fino alle orecchie. — Non
sapete con chi avete a fare? —
Così dicendo, abbandonò il braccio della giovane donna, che parve
rassicurata, perchè il suo volto prese un'espressione sorridente,
quasi sardonica, mentre le pupille scintillanti andavano dall'uno
all'altro dei due uomini.
Guido avea rialzata la testa con una mossa piena d'alterezza.
— Vedo bene che ho da fare con un uomo poco educato, — dichiarò —
perchè vuole obbligare una signora a seguirlo con la forza! —
Lo strano individuo, invece di mostrarsi offeso, diede in uno
scoppio di risa impertinenti.
— Una signora? Siete dunque forestiero, per non conoscere la bella
Nara.... e mi pare che non occorra tante cerimonie per lei, e se
volevo condurla meco, ne avevo il diritto. —
La giovane donna che avea chiamata Nara e che era la ballerina che
facea perdere la testa a tutti i frequentatori dell’Opéra, a quelle
parole insultanti, divenne pallidissima ed i suoi occhi brillarono
come carboni ardenti. Ella aprì la bocca per parlare, ma Guido la
prevenne.
— Niuno ha il diritto d'insultare una donna qualunque essa sia, ed
io difenderò costei dalle vostre violenze! — E volgendosi alla
ballerina: — Voi non volete seguire il signore? — chiese con l'aria
grave e compìta di gentiluomo.
— No.... oh! no, — proruppe Nara, con esaltazione — Io l'odio,
costui, benché sia un duca. Il suo titolo, il suo oro, gli devono
dare il diritto d'insultarmi, di possedermi, ditelo voi! No, io non
lo seguirò; gli ho fatto chiudere due volte la porta di casa mia, ed
è sempre tornato; ha scommesso con i suoi amici che io sarei sua.
Sua.... io?... Ah! preferirei di gettarmi nella Senna, con una
pietra al collo. —
Il duca fremeva: Guido rimaneva in silenzio: tutto il corpo di Nara
pareva fremere, gli occhi di lei mandavano fiamme, le narici
sussultavano.
— Oggi mi ha seguìta, — aggiunse — mi ha spiato: io ho lasciata la
carrozza per passeggiare in questi viali deserti, amo la solitudine,
amo il verde.... non sapevo che costui aspettasse un'occasione per
sorprendermi.... lo credevo un gentiluomo, e non è che un
mascalzone.... e se voi non foste giunto, mi avrebbe usata violenza.
Perciò, chiunque voi siate, signore, abbiatevi la mia gratitudine,
la mia riconoscenza. —
Il duca non aveva interrotta una sol volta la ballerina: si era
contentato di sogghignare; ma quando vide Nara attaccarsi al braccio
di Guido, divenne violetto, ed i suoi occhi s'iniettarono di sangue.
— Ah! l'intendete così, e sta bene;... ma il vostro protettore la
pagherà per voi. Con me non si scherza. —
Forse Guido in fondo al cuore già si pentiva di essersi intromesso
fra quei due, perchè pensava alle conseguenze che potevano avvenire;
ma era troppo gentiluomo per ritirarsi, e le insolenze del duca non
fecero che irritarlo.
— Credete forse di farmi paura? — esclamò.
— Lo vedrete domani, quando ritornerete qui con due testimonî. —
Guido trasalì, perchè pensò alla sua sposa adorata.
— Con due testimonî! — ripetè macchinalmente.
— Sì,... ricusereste forse di battervi? Eppure all'abito mi sembrate
un gentiluomo!
— E lo sono, signore! — esclamò Guido viepiù irritato, togliendo
dalla tasca interna del soprabito un portafoglio, da cui levò un
biglietto di visita, sormontato da una corona da conte. Egli lo
porse con un movimento di freddo disprezzo al duca.
Questi vi gettò un'occhiata e sorrise di nuovo.
— Ah! il signore è italiano? — disse con accento beffardo.
— E me ne vanto! — rispose alteramente Guido.
— Gl'italiani si fanno spesso paladini delle donne.
— Insegnano così l'educazione ai francesi. —
Il duca divenne livido, e porgendo il suo biglietto a Guido:
— A domani, signore, — disse facendo l'atto di allontanarsi.
— Un momento, duca! — esclamò Guido, cercando di frenare la sua
interna irritazione. — Sul mio biglietto non vi è indirizzo: vi darò
quello del marchese di Chârtre, mio amico e mio padrino, poiché io
sono a Parigi di passaggio, e non vi ho domicilio. —
Il conte Rambaldi mentiva, ma egli pensava alla sua giovine sposa.
— Invierete dunque i vostri padrini a casa del marchese....
— Lo conosco, — disse con un inchino il duca.
— Meglio così: da lui avrete maggiori informazioni sul mio conto. —
I due gentiluomini, dopo un nuovo freddo saluto, si divisero.
Nara che avea assistito a quella scena, impassibile all'aspetto,
appena il duca si fu allontanato, con voce commossa, congiungendo le
mani:
— Ed è per me, per me, signore, — esclamò — che arrischiate la
vostra vita?
— Quell'uomo ha insultata la mia patria!...
— Mio Dio,... signore, risparmiatemi un rimorso!...
— Non crediate già che io voglia ritirarmi dinanzi ad una partita
d'onore; — rispose seccamente Guido — ma adesso, che non avete più
nulla a temere da quell'uomo, permettete che io vi lasci. —
Nara lo fissava coi suoi occhi umidi, divenuti languidi, velati,
morenti, mentre le sue labbra vermiglie esalavano un sospiro
infocato, lasciando vedere il bianco smalto dei suoi denti.
— Non vi rivedrò dunque più, o signore? —
Guido suo malgrado si sentiva turbato.
— Sono qui di passaggio.... ve l'ho detto.
— Ma se domani doveste restar ferito per cagion mia, io diventerei
pazza.
— Calmatevi, non avete nulla da temere per me; e poi dite a voi
stessa, che io mi batto per difendere l'onore della mia patria. Così
sarete tranquilla....
— Ah! no.... non potrò esserlo, no! Dio mio, come fare a impedire
questo duello!
— Spero che non lo farete, signora, del resto mi rimprovererei molto
d'avervi salvata, — disse Guido con un sangue freddo ammirabile.
— Ah! ditemi almeno che non mi disprezzate, che non sono indegna di
stringere la vostra mano. —
Guido era agitatissimo.
— Eccovela, signora, — mormorò facendosi alternativamente rosso e
pallido, mentre Nara, dopo aver stretto con effusione quella mano
che il conte le tendeva, fece l'atto di portarla alle labbra.
Egli si svincolò quasi bruscamente da quella stretta.
— A rivederci, signora, — disse.
Senza alzare gli occhi sulla giovane, si allontanò in fretta, e
pochi minuti dopo raggiungeva la sua carrozza. Il cocchiere aveva
rivolti i cavalli verso la strada che conduceva direttamente a casa.
Ma il conte diede un nuovo ordine.
— Al palazzo del marchese di Chârtre, — disse.
X.
Ci volle a Guido del bello e del buono, per non mostrare dinanzi a
Nara la sua agitazione, e, diciamolo pure, la sua collera.
Per un momento fu dolentissimo di aver ceduto alla violenza del suo
carattere, di aver provocato ed accettato un duello col duca.
Egli pensava a Clara; a Clara che, piena di fiducia e di amore,
l'aspettava, ed alla quale aveva promesso di tornare a casa più
presto del solito.
Come nasconderle il caso che gli era successo?
Nello stato in cui la giovine sposa si trovava, sarebbe stato un
colpo terribile la notizia ch’egli si sarebbe battuto al duello.
Guido malediva l'incontro di Nara.
— Non avrei dovuto perdermi per una persona come quella; ma io non
ho difesa la ballerina, ho difesa la donna. Potevo lasciarla così
impunemente insultare? Maledizione sul duca! —
Guido stentava a frenare la rabbia e il dispetto che lo rodevano e
non si calmò che quando la carrozza giunse alla porta del palazzo
del marchese di Chârtre.
Per fortuna il marchese era in casa. Appena gli fu annunziato il
conte Guido Rambaldi, mandò un'esclamazione.
— Fatelo passare subito, — ordinò.
E appena il giovane fu entrato nel salotto, gli corse incontro, e
gli strinse le mani con affetto.
— Finalmente! — disse — credevo che tu ti fossi dimenticato del tuo
vecchio amico. Gli sposi sono sempre egoisti.
— Non hai voluto che ti presentassi a mia moglie.... — rispose Guido
colpito da tutta quella affettuosità.
— Che vuoi? io mi conosco, ho veduto una volta sola tua moglie con
te al Bosco,... e mi ha stupito. Che angelo! Che creatura divina!
Lascia che te ne faccia i miei complimenti, amico, ed ascolta un mio
consiglio: non presentarle mai nessuno dei tuoi amici, anche i più
sinceri ed i più affezionati come io sono verso di te, perchè
accanto a quella splendida creatura, ci sarebbe da dimenticare anche
l'amicizia. —
Guido non poté a meno di sorridere.
— Sei sempre lo stesso caposcarico; — disse — eppure io mi fido
tanto di te, che stasera stessa ti presenterò a mia moglie. —
Il marchese divenne pallido e commosso.
— No, te ne prego, no....
— Ma non capisci che ho bisogno di te?
— Come sarebbe a dire? — esclamò il marchese spalancando gli occhi
dalla meraviglia.
— Sediamoci, te ne prego.... e ti dirò tutto. —
E Guido con voce alterata raccontò quanto gli era successo al Bosco.
Il marchese era divenuto serio.
— Battersi per quella donna? — mormorò come parlando a sè stesso.
— Non è per Nara che mi batto, ma per difendere l'onore della mia
patria, che il duca ha insultato. —
Il marchese continuava a rimaner triste.
— Non importa, non avrei voluto veder immischiata
quella donna nel tuo duello col duca.
— Basta, ora il male è fatto, e non c'è rimedio. —
Il viso di Guido si rischiarò.
— Accetti dunque d'essere mio padrino?
— Se accetto!... ma io son tuo, anima e corpo.
— Grazie, Silvano; non speravo meno da te. —
Il marchese corrispose alla stretta dell'amico.
— Ma come nascondere la verità a tua moglie? — disse dopo alcuni
minuti di silenzio.
Guido era pallido e tremava da capo a piedi.
— Eppure è necessario, — mormorò. — Clara è di una sensibilità
straordinaria, e nello stato in cui si trova, la notizia del mio
duello forse le sarebbe fatale.
— Povera donna! — mormorò commosso il marchese.
Guido chinò il capo per celare una lacrima.
— E dire che in causa di quella sciagurata.… — aggiunse il marchese.
Guido alzò con veemenza il capo.
— Tu pure? — esclamò. — Ma la voce pubblica dice che Nara finora si
è conservata onesta, che è sempre degna del rispetto di tutti!
— E lo credi, tu? — disse il marchese con esplosione. — Nara è una
donna scaltra, più scaltra di un demonio, e quella virtù feroce che
affetta, non fa che renderla maggiormente terribile. Io solo l'ho
conosciuta, io solo so qual'anima perversa si celi sotto il suo viso
di sfinge. Senti: tutto l'oro da cui Nara viene coperta, tutti gli
omaggi da cui è circondata, e quel rispetto che alcuni le portano,
non valgono a purificare un'anima, un corpo, che per sedici anni è
stato trascinato in tutte le brutture del vizio e della miseria. —
Guido guardò il marchese con spavento.
— Tu conosci la storia di Nara? — esclamò.
Il marchese, che si era appoggiato col gomito ad un elegante
tavolino, reggendosi colle mani la fronte imperlata da gocce di
freddo sudore, ebbe un riso convulso.
— Sì, la conosco, — mormorò — e non te la voglio nascondere. Bisogna
che tu sappia per quale spregevole creatura stai per sacrificare la
tua vita, e forse quella della tua nobile ed eletta consorte, che
tanto ti rende felice. —
Guido non ebbe il coraggio di rispondere.
Il marchese, con una calma glaciale che rendeva le sue parole più
terribili, pungenti, continuò:
XI.
— Circa dieci anni fa, io mi trovavo con mio padre a Giava che, come
sai, è una delle più grandi isole dell'arcipelago della Sonda. Mio
padre era stato chiamato colà per raccogliere l'eredità di un suo
parente, governatore, e siccome sapeva che io ero appassionato per i
viaggi, mi condusse volentieri con sè.
«Ma non appena arrivati, mio padre fu quasi pentito della sua
condiscendenza, perchè seppe che il clima di quei posti era malsano
e pestilenziale per gli europei.
«Io non ci pensavo. Ero così felice di ammirare quelle foreste, dove
le piante inerpicandosi s'incontrano cogli alberi d'immensa altezza,
di vedere da vicino il turrennapi, il kabab, il bambù, il rambuton,
tante piante preziose, che in quel luogo vegetano gagliardamente, in
quantità prodigiosa!
«Mentre mio padre si occupava a liquidare in fretta e in furia i
suoi affari, io amavo di visitare l'interno dell'isola.
«Un giorno, passando dinanzi ad una capanna di giavanesi, che sono
fabbricate di bambù intonacate di terra, alte tre o quattro piedi
dal suolo, vidi dinanzi alla porta due fanciulle di otto o nove anni
affatto nude, una della quali sdraiata in terra colla faccia
rivolta, gemeva sordamente, sotto alcuni colpi di spilli di legno,
con cui la compagna si dilettava di trafiggerle la schiena.
«Preso da compassione per la vittima, e di collera per la piccola
carnefice, le strappai dalle mani gli spilli e con voce severa:
« — Che fai? — dissi indignato — non vedi che la tua sorella ne
soffre? —
«La fanciulla alzò gli occhi, e mi guardò con uno sguardo strano,
poi ridendo fortemente, fino a mostrare una fila di denti bianchi
come le perle, con accento francese, mi rispose:
« — A che t'immischi, straniero?... Vattene pei fatti tuoi, io sono
padrona di fare a mia sorella, quello che mi piace. —
«Ed aggiungendo le parole ai fatti, presa colle sue manine la testa
della vittima, cominciò a batterla contro una pietra.
«Inorridito a quella vista, strappai di mano alla disgraziata la
sorellina innocente, dopo avere applicato due sonori ceffoni alla
sua spietata carnefice.»
— E facesti bene! — esclamò Guido interrompendo l'amico.
— Tu hai già indovinato, non è vero, che quel piccolo demonio era
Nara.... —
Guido trasalì.
— No, t'inganni! — esclamò.
Il marchese sorrise amaramente.
— Ascoltami e vedrai, — disse lentamente. — Quando io ebbi punita
l'insolente, ella non si rivoltò nè pianse, ma mi gettò uno sguardo
così pregno d'odio, che ne rabbrividisco ancora.
«La vittima intanto si avviticchiava alle mie gambe. Io sedetti
sopra un sasso vicino alla capanna, e presi la fanciulla sulle
ginocchia, mentre Nara a pochi passi, colle braccia incrociate sul
petto, che cominciava appena a svilupparsi, colle gambe
attorcigliate, mi guardava in aria di sfida!
« — Parli tu pure francese, carina? — dissi alla bimbetta.
« — Sissignore, perchè il babbo è francese; lui però non vuol bene
che a Nara.
« — E chi è Nara?
« — Quella là! — mi disse indicando col ditino la fanciulla.
« — E la tua mamma non ti difende?
« — La mamma non l'ho più; è lassù nel cielo, dove vorrei andarci
anch'io. —
«E sì dicendo, mi gettò le braccia al collo, con un'espressione che
non dimenticherò mai più.
« — Ecco perchè mi lascio battere da Nara, — disse.
«Io guardavo quella gracile creatura, nuda al pari della sorella e
di tutti i fanciulli di Giava fino all'età di dieci anni, e non
potevo a meno di sentire per lei una profonda pietà, una viva
ammirazione. Aggiungi che era anche più bella di Nara, e tu hai
visto quale affascinante creatura sia quella ballerina.»
— Non l'ho osservata, — disse francamente Guido.
Il marchese di Chârtre si mise a ridere.
— Certo se tu dovessi fare un paragone fra Nara e tua moglie, quella
ballerina ti parrebbe un mostro; ma continuo:
«Quella fanciullina dunque, sebbene appassita innanzi il tempo, era
qualche cosa di carino, d'ingenuamente bello. I suoi capelli
ondulati e leggermente lanosi erano scomposti, arruffati, pieni di
polvere; ma se una madre ne avesse avuto cura, quella capigliatura
poteva diventare stupenda; lo sguardo avea dolce, profondo, la pelle
leggermente bruna, di una squisita morbidezza, le forme gracili, ma
ammirabili; le labbra rosse che facevano viepiù spiccare una fila di
denti piccoli, uniti, bianchissimi, come tanti grani di riso.
«Nara avea le forme più sviluppate, era bella, ma le sue labbra
serrate dalla rabbia, il suo visino contratto, la facevano in quel
momento apparire ai miei occhi bruttissima.
« — Straniero, — mi disse con un ironico sorriso — fin quando fai
conto di startene qui ad ascoltare le nenie di quel piccolo
serpente? —
«Così chiamava la sorella.
«Io la fissai seriamente in viso.
« — Finché non torni tuo padre — risposi colla stessa ironia — e non
abbia il diritto di condur meco questa povera vittima. —
«Nara si morse le labbra dalla rabbia e i suoi occhi ebbero un lampo
sinistro.
« — Ah! la faccenda sta così! — disse battendo un piede. — E se io
non volessi che mia sorella ti seguisse?
« — Farei a meno del tuo permesso, — risposi sorridendo.
«La piccina si stringeva a me, e due lacrime le scorrevano sulle
guance.
«— Tu mi condurrai lontano di qui? — mi disse.
«— Sì, lontano lontano, in una città grande, dove le sorelle non
battono le sorelle, dove i piccoli mostri, come Nara, vengono
rinchiusi e corretti colla frusta. —
«Nara sembrava dolorosamente umiliata, e con un accento pieno d'odio
e con una durezza indicibile:
«— Me la pagherai cara, straniero! — esclamò.
«Io feci mostra di non intenderla, e continuando a baciare la
piccina, aggiunsi:
«— Tu avrai delle ricche vesti, delle perle da metterti al collo,
delle belle bambole per baloccarti. —
«A queste promesse, per lei favolose, la fanciullina dimenticando i
proprî dolori mi guardava coi suoi occhioni lacrimosi e la sua
fisonomia si rischiarava dal piacere, le sue manine battevano
gaiamente l'una contro l'altra.
« — Tu sei l'angelo custode che mi diceva la mamma, — balbettò —
l'angelo che ogni anno conduce seco i fanciulli buoni, ed io sono
stata buona, non è vero? Oh! mi lascerei picchiare ancora, senza più
lamentarmi. —
«In quel momento Nara aveva cambiato espressione, il suo viso era
divenuto quasi dolce e finì col piangere a calde lacrime. I suoi
singhiozzi commossero la fanciullina che io avevo fra le braccia.
Ella guardò prima me, poi la sorella, e finì per sfuggirmi dalle
braccia, per correre a lei.
« — Perchè piangi, Nara? — le disse gettandole le braccia al collo.
« — Perchè ti ho fatto male.
« — Ma non lo ricordo più, io; suvvia, stai allegra.... se quel buon
signore mi conduce con sè,... io ti manderò tutti i regali che mi
darà.
« — No, resta con me,... non ti picchierò più! —
«La fanciulla mi guardava indecisa.
«— Faremo quello che dirà il babbo! — esclamò. — Infine, tu sai che
egli dice sempre ch’io gli sono d'impiccio. —
«Non ti so dire quanto fossi commosso; ma siccome il padre della
fanciulla non tornava, ed il mio mi aspettava, dissi alle bambine
che la mattina dopo sarei tornato a combinare ogni cosa, e intanto
che avvisassero di me il loro babbo.
«— Condurresti anche me, con te? — mi disse con franchezza Nara,
guardandomi coi suoi occhi scintillanti.
«— No, — risposi — perchè tu hai un padre che ti ama. —
«E baciata di nuovo la mia piccola protetta, lasciai le due bambine.
«Quando riferii a mio padre quello che volevo fare, egli mi approvò
intieramente, sicché la mattina dopo fui alla capanna del francese.
«La porta era aperta. Chiamai: nessuno rispose. M'inoltrai e il mio
piede inciampò tosto in un oggetto molle, che l'oscurità mi impediva
di vedere che cosa fosse. Mi abbassai e sentii un non so che di
freddo e di viscoso che mi fece orrore; nonostante capii che si
trattava di un corpo e lo trassi fuori dalla capanna per vederlo.
Figurati, Guido, come io rimanessi, quando mi vidi dinanzi la
fanciulla che avevo difesa, colla faccia coperta di ferite, che
mandavano ancora spruzzi di sangue nerastro.» —
Guido impallidì a quel racconto, e si sentì freddo in fondo al
cuore.
— Chi l'avea conciata a quel modo? — mormorò.
— Chi?... quel serpente di Nara. La fanciullina non era ancora
morta,... ma spirò fra le mie braccia, dopo avermi guardato fisso un
istante ed aver balbettato colla sua bocchina sorridente ancora del
sorriso della martire: «Nara.... è stata Nara.... Vado a ritrovare
la mamma.» —
Il marchese di Chârtre, malgrado la sua apparente noncuranza, doveva
avere un cuor d'oro, perchè evocando quei ricordi, le lacrime gli
facevano velo agli occhi.
— E Nara....? — chiese Guido con curiosità.
— La malvagia creaturina era sparita con suo padre e fu impossibile,
allora, di ritrovarne le tracce.
— Ma credi proprio d'aver riconosciuto in lei la ballerina
dell'Opéra?
— Se lo credo? Io l'avevo già incontrata in un viaggio in Italia.
Anche lei mi riconobbe, ed il giorno seguente ebbe l'audacia di
presentarsi al mio albergo.
«Malgrado la perfezione notevole che avevano acquistati i suoi
lineamenti, nella sua fisonomia io vi lessi l'ipocrisia, tutti i
sentimenti feroci, che mi avevano già colpiti.
«Non ti ripeto la nostra conversazione. Ella giurò che non aveva
uccisa la sorella, pianse, anzi, ricordandola, ma io stetti in
guardia. Ella tentò tutti i mezzi per sedurmi; ma lungi dall'essere
sensibile all'abbagliante bellezza di lei, non potevo trattenere un
fremito d'avversione, fiutai in lei una donna pericolosa, e finii
col metterla alla porta. Al punto di uscire, Nara mi rivolse con
accento pungente una parola di minaccia. Ma io sorrisi e crollai le
spalle; però, ti confesso, che l'espressione di odio profondo che
vidi apparire sul volto di quella giovine, la ricordo ancora
benissimo.»
— Ed a Parigi ti sei trovato con lei?
— No.... la prima sera che posi piede all'Opéra, la rividi con
quelle pupille così brillanti e così false, e mi corse di nuovo un
gelo nelle vene. Ecco perchè fremo ancora, pensando che tu ti batti
per quella donna.
— Ma assicurati di no,... se il duca non avesse insultato il mio
paese....
— E sia; ma ti ripeto: guai a quell'uomo che s'incontra in uno di
quegli esseri!
— Io non la rivedrò più.
— Tu,... ma lei? Insomma ora la cosa è fatta, e non c'è altro
rimedio che star pronti; stasera dunque verrò da te.
— Sì; trova una scusa qualunque, perchè Clara non si accorga del mio
duello. Povera Clara, di cui in questo momento io sono l'unico
appoggio, l'unica gioia! Se io morissi?
— Scaccia questi pensieri dalla mente! —
Guido gli strinse la mano.
— Se io morissi, promettimi di proteggerla.
— Non si domanda nemmeno!... ma via, calmati, non sei un ragazzo: se
torni a casa con quel viso, spaventerai tua moglie, poverina....
— Hai ragione: sorrido.... io vado.... tu penserai a tutto.
— A tutto; te lo prometto.
— Dunque ti lascio, ci rivedremo stasera.
— A stasera, Guido, e ti ripeto: calma e sangue freddo.
— Ne avrò, non dubitare. —
Un quarto d'ora dopo, Guido abbracciava Clara, già inquieta per
l'assenza prolungata di suo marito, e gliene fece dolci rimproveri.
Ma il giovane le disse che aveva incontrato un amico, il quale,
anzi, l'aveva invitato per una partita di piacere la mattina
seguente.
— E tu hai accettato? — chiese Clara un po' inquieta.
— No, ho detto che non potevo, nè volevo lasciarti, — rispose Guido
baciandola.
Clara però si accòrse che il giovane era preoccupato, che a tavola
mangiava con sforzo, e quando sorrideva, quei sorrisi prendevano
l'apparenza di una smorfia.
— Che avrà mai? — disse fra sè Clara. — Sarebbe stato meglio che non
fosse uscito solo.... —
Ma, nella sua timidezza, la giovine sposa non ardiva di fargli altre
domande.
Verso sera, mentre i due sposi erano nel loro salotto, guardandosi
più di quello che si parlassero, fu annunziato il marchese di
Chârtre.
Malgrado l'impero che aveva su sè stesso, Guido impallidì: Clara se
ne accòrse; ma siccome il domestico stava in piedi, sostenuto, ad
attendere gli ordini, la giovine sposa, con la sua voce incantevole
ma un po' tremula, si rivolse al marito:
— Ebbene.... hai sentito? Il marchese di Chârtre chiede il permesso
di una visita.
— Ti rincresce, Clara, a riceverlo?
— Perchè? Egli è tuo amico.... —
E rivoltosi al servo:
— Fatelo passare,— aggiunse.
Due minuti dopo, il marchese entrava in quel grazioso salotto. La
sua fisonomia, per il solito così gioviale, aveva una tinta
melanconica.
Guido gli strinse convulsamente le mani, mentre lo presentava alla
moglie.
Il marchese di Chârtre, che per la prima volta vedeva proprio da
vicino Clara, ne rimase talmente affascinato, che per alcuni minuti
perdette la parola.
Egli fissò per un istante quel viso così puro, così nobile, così
bello, poi volse con tristezza il capo, mentre sedeva vicino
all'amico suo.
— Il mio Guido mi ha parlato sovente di voi, come del suo più caro
amico, — aveva detto Clara, mentre porgeva la mano al marchese.
— Il mio amico è troppo buono, ma un po' egoista. Del resto non si
può a meno di diventarlo, vicino ad una giovine e bella sposa,... ed
io gli perdono di cuore,... ad un patto.
— E quale? — chiese Guido sforzandosi a sorridere.
— Che ti lasci rapire almeno una volta dagli amici,... ingrato, che
da tanto tempo che ti trovi a Parigi, è oggi il primo giorno che ci
vediamo. —
E volgendosi a Clara:
— Per domattina, — disse — avevo combinato di fare una gita di
piacere ad un mio castello, e mi ero permesso d’invitare vostro
marito. Egli ricusò col pretesto di non lasciarvi sola. Ma dico io:
non potreste accompagnarlo?... —
Guido guardò l'amico con spavento. Perchè quella proposta? Se Clara
avesse accettato, tutto sarebbe perduto.
Ma Clara, che si sentiva indisposta e che temeva lo strapazzo per la
creatura che cominciava a palpitarle nel seno, rifiutò con
gentilezza l'invito.
— Non intendo però, — aggiunse — che Guido debba privarsi d'una
festa in vostra compagnia.....
— Oh! non ci anderò,... no,... non voglio lasciarti.
— Neppure per farmi piacere? — disse Clara, che le sembrò di leggere
negli occhi di Guido il desiderio di quella gita.
Ma egli nonostante fingeva rifiutare, esclamando con accento di
rimprovero:
— E tu puoi rimanere senza di me.... tu, Clara? —
Ella sorrise stendendo la piccola mano al marito.
— Io sì, — rispose — perchè penserò che tu ti diverti,... e sebbene
distesa su questa poltrona, ti seguirò col cuore, ti sarò vicina col
pensiero.... —
Guido le chiuse la bocca leggiadra con un bacio.
Il marchese di Chârtre sussultò.
— Se sapesse tutto!... — disse fra sè. — Povera donna! —
Ma cercando di frenare la sua emozione, disse invece:
— Dunque posso sperare d'averti con me?
— Ella lo vuole, — mormorò Guido, indicando scherzosamente Clara.
— A un ordine così gentile non si può a meno di obbedire. Del resto,
signora contessa, state certa che Guido non rimarrà lungo tempo
lontano da voi,... e vi giuro che non avrei insistito nel mio
invito.... se....
— Ebbene?
— Se non si trattasse di una scommessa, di una partita d'amici, in
cui Guido dovrà dare il suo parere. —
Siccome il marchese di Chârtre cominciava ad imbrogliarsi
maledettamente, per togliersi dall’imbarazzo, si alzò.
— A domattina dunque, Guido: verrò a prenderti colla mia carrozza
alle sei.
— Sta bene,... a domani. —
Il marchese tenne un momento la mano di Clara fra le sue, e poi, per
un impeto irresistibile, la portò alle labbra.
— Arrivederci, contessa, — mormorò commosso.
— Arrivederci, marchese; vi raccomando il mio Guido.
— Non dubitate. —
I due amici uscirono insieme dal salotto, mentre Clara, appoggiando
la testa alla spalliera della poltrona, diceva fra sè:
— Quell'uomo ha uno sguardo franco, leale: tuttavia, non so il
perchè, la sua presenza mi ha molto agitata. Qual'idea di condurre
Guido al suo castello? Ebbene, diventerei ora egoista? Che egli si
diverta, caro Guido: mi ama tanto! —
XII.
In quella notte, dopo che Clara si fu placidamente addormentata,
Guido scrisse alcune lettere, che chiuse in un plico, coll'indirizzo
del marchese di Chârtre. Poi rimase per lunghe ore silenzioso,
triste, oppresso al tavolino. Suo malgrado la storia di Nara gli
ritornava alla mente ed egli pensava a lei.
— Un cuore così malvagio, con un viso così bello? Non par possibile!
Eppure Nara si mostrava commossa, agitata agli insulti del duca,...
i suoi occhi erano pieni di lacrime sincere. Il mio amico s'inganna
certamente! Del resto, io non la vedrò più quella maliarda creatura.
Che m'importa di lei? Forse è per lei che io vado ad esporre la mia
vita? —
Si alzò, passò in camera della moglie, e stette lungamente a
considerare l'angelica creatura, che dormiva di un sonno tranquillo,
sorridendo. Il grazioso viso di Clara, di un colorito così delicato,
spiccava sotto i bianchi merletti della piccola cuffia da notte, da
cui sfuggivano in vago disordine i riccioli della sua dorata
capigliatura.
Guido non poté frenarsi e la baciò sulle labbra socchiuse. Clara
trasalì; i suoi occhi si aprirono, e veduto il giovine curvo su di
lei, arrossì dal piacere.
— Ah! sei tu, — mormorò — io ti sognavo.
— Mi ami molto?
— Oh! tanto, Guido mio.... e per sempre. —
Guido non dormì neppure un'ora quella notte. E la mattina, quando si
alzò, era pallido come un fantasma. Non volle più baciare la moglie
per non svegliarla, ed uscì in punta di piedi dalla stanza.
Un quarto d'ora dopo, il marchese di Chârtre veniva a prenderlo
insieme al visconte Ballaud, l'altro padrino. Guido aveva finito
allor allora di vestirsi.
Dopo una presentazione col visconte, il marchese esclamò:
— Abbiamo scelta la spada!
— Benissimo, — disse Guido.
— Ne ho un paio nuove in carrozza. Sei pronto?
— Sì.
— Mi sembri un po' pallido....
— Ho dormito poco. A proposito, prima di uscire, ti faccio una
raccomandazione.
— Parla.
— In caso che io rimanessi ferito,... morto....
— Ma che cosa dici?!
— Ammettiamo il caso: ricordati che in tasca del mio soprabito vi è
un plico che tu solo, mio buon amico, dovrai aprire.
— E sia,... ma ogni cosa andrà bene.... vedrai.
— Certo, — disse il visconte.
— E darai una lezione al duca.
— Che ne ha bisogno... — aggiunse il visconte.
— Andiamo, il tempo stringe. —
Pochi minuti dopo, la carrozza del marchese correva verso il Bosco,
e dopo aver fatto il giro del lago, lasciava scendere i due giovani
presso un boschetto, al di là del quale v’era una spianata, che
avrebbe servito mirabilmente per i nostri duellanti.
Il cielo era splendido in quella mattina, e il luogo affatto
deserto. Essi erano arrivati per i primi, e mentre Guido passeggiava
distratto, aspettando, i due padrini osservavano il luogo.
— Questo è un gioiello di terreno! — esclamò il marchese. — Vien
proprio voglia di battersi.... quasi quasi invidio Guido. —
Il visconte sorrise.
Intanto un'altra elegante carrozza si fermava al limitare del Bosco,
e ne scendeva il duca coi suoi padrini ed un medico.
— Abbreviate i preliminari, — disse Guido al marchese — ho fretta di
finirla. —
I due avversarî si scambiarono un saluto con perfetta cortesia e
disinvoltura, mentre i padrini si consultavano fra loro, e traevano
fuori le spade.
— Il conte Guido è stato insultato dal duca e spetta a lui la scelta
delle armi, — disse il marchese.
— Vi ringrazio, — esclamò Guido — per me qualunque arma è
indifferente.
— Sono del vostro parere, — disse freddamente il duca. —
— Allora, avanti la spada.
— Sia pure la spada. —
Pochi minuti dopo, i ferri dei due avversarî s'incrociavano. Guido
era più giovane, più svelto del duca; ma questi aveva un vantaggio
su di lui: la freddezza di animo. Mentre il giovine italiano era
eccitato, pallido tanto che gli tremavano le labbra, il francese
pareva si divertisse a scherzare, ed un sorriso gli sfiorava le
labbra. Egli non faceva che parare i colpi dell'avversario. Due o
tre volte Guido nella sua rabbia, nella sua eccitazione, si distese
impetuosamente, ed il duca parò senza rispondere.
Il marchese di Chârtre seguìva con ansia tremenda quel duello, e il
cuore gli balzava in petto in modo da spezzarsi.
— Ahimè, povero Guido, — mormorava — egli è perduto, se continua
così; infame quella donna che ha spinto due gentiluomini a battersi,
portando la disperazione nel cuore di una giovine sposa, che a
quest'ora dorme felice, sognando il suo Guido in mezzo al
divertimento! —
E i ferri continuavano ad incrociarsi. Guido era stato preso come da
una vertigine, incontrando sempre l'arme dell’avversario salda,
irremovibile, come una sbarra d'acciaio: si distese di nuovo con
impeto, e trovando libero il passo la sua spada strisciò sulla
spalla del duca, e gli tinse la camicia di sangue.
I testimonî volevano far cessare il duello, dichiarando che l'onore
era soddisfatto; ma in quel momento il duca scòrse in una specie di
boschetto, al di là della spianata, due occhi di fuoco fissi su di
lui, e riconobbe gli occhi di Nara. L'idea che quella donna lo
spiasse e si ridesse forse di lui, eccitò il suo orgoglio, la sua
rabbia.
— Io posso continuare, — esclamò — non è che una semplice
scalfittura la mia.... e non credo che il conte si tenga soddisfatto
per così semplice vittoria! —
Guido sentì l'acerba puntura, la nuova sfida, ed un rossore
improvviso gli salì alle guance.
— In guardia! — gridò furibondo, mentre il marchese di Chârtre
crollava il capo con amarezza.
Il gentiluomo non si era accorto della presenza di Nara, perchè le
voltava le spalle e poi, era così ben nascosta, che solo l'occhio
del duca poteva vederla, e il suo occhio non abbandonò più quel
punto. Così il combattimento ricominciò infuriato, accanito, alla
cieca.
Ora il duca non si contentava più soltanto di parare: la sua spada
volteggiava con movimenti rapidi, che abbagliavano. Egli voleva
trionfare dinanzi a lei, dinanzi a Nara.
I padrini gridarono due volte di smettere, perchè capivano che il
duello sarebbe finito male, ma i due avversarî non ascoltarono la
loro voce.
Il marchese di Chârtre aveva la morte nell'anima, e non faceva che
mormorare:
— Povera Clara,... povera Clara! —
Ma ad un tratto mandò un grido di angoscia, a cui rispose un altro
più acuto e straziante.
Guido aveva fallita una bòtta. Il duca era disteso, ed il giovine
italiano, colpito al petto, lasciò sfuggirsi di mano la spada e
cadde mormorando:
— Chârtre,... ricordati della promessa. Oh! Clara mia! —
E svenne.
Nara in un balzo fu vicino a quel corpo inanimato e vi si precipitò
sopra, coprendolo di baci e lacrime.
Il duca fremette: gli altri ammutolirono a quella scena. Solo
Chârtre, accecato dalla rabbia per l’impudenza di quella donna, la
prese per la vita e con voce sorda:
— Disgraziata, — esclamò — che venite a spargere lacrime di
coccodrillo sulla vostra vittima, toglietevi da questo luogo e siate
maledetta! —
Nara si rivolse come una vipera, e schiacciando il marchese con uno
sguardo pregno d’odio, balbettò con voce rauca:
— Voi?... Sempre voi sul mio cammino? Siete dunque stanco della
vita?
— No, mia cara, — rispose il marchese con accento ironico — ma la
darò volentieri per salvare quella di un amico. —
Mentre Nara continuava a dibattersi piangendo, singhiozzando come un
fanciullo, il medico si era inginocchiato presso il ferito, e dopo
un minuto di esame, disse:
— Non è nulla, il povero giovane è svenuto in causa di una violenta
sensazione, per avere la spada sfiorato uno dei tèndini più
delicati; ma non vi è nessun pericolo. —
Sul volto di Nara passò come un lampo di gioia: i suoi occhi pieni
di lacrime scintillarono come brillanti.
Colla punta delle dita affusolate, inviò un lungo bacio, verso la
direzione del giovane ferito; poi, svincolatasi bruscamente dalla
stretta del marchese e lanciando a questi un'occhiata di sfida, al
duca uno sguardo di disprezzo, si allontanò come una freccia,
mormorando:
— Oh! lo ritroverò,... egli è ferito leggermente: ora quell'uomo mi
appartiene,... ha versato il suo sangue per me.... ed io l'amo....
l'amo! —
Tutto ciò ebbe la durata di un lampo.
Il duca, da perfetto gentiluomo, espresse al marchese il dispiacere
che provava per aver ferito il nobile giovane, e chiese il permesso
di recarsi a visitarlo.
— Provo un vero rimorso che ciò sia accaduto in causa di quella
maledetta creatura, che mi aveva fatto perdere la testa.... —
aggiunse.
— E il vostro rimorso sarebbe maggiore, quando conosceste la giovine
sposa del povero mio amico, che crede il marito in mezzo ai
divertimenti. —
Il duca chinò il capo confuso.
Intanto, coll'aiuto degli altri padrini e del medico, Guido fu
trasportato nella carrozza del marchese di Chârtre.
— Al mio palazzo, — ordinò questi al cocchiere.
Un'ora dopo, Guido per le cure premurose del medico e dell'amico si
era rinvenuto e chiedeva sbalordito al marchese quanto era successo.
Il gentiluomo si guardò bene di fargli sapere che Nara era stata
presente al duello; riferì però le parole concilianti del duca, e la
prognosi del dottore circa la ferita.
— Infatti, — disse Guido — io mi sento benissimo, e credo sarà
meglio che torni a casa, dove la mia povera Clara mi aspetta
ansiosa.
— Ma in qual modo si spiegherà la tua ferita? E poi sarebbe
un'imprudenza, poiché non hai febbre, il muoverti di qui.
— E ti sembra possibile che io possa star tranquillo pensando a
Clara? —
Il marchese era divenuto pensieroso.
— Piuttosto, vedi.... anderò io ad avvisarla che tu sei qui, e la
condurrò al mio palazzo, — disse vivamente.
Guido per tutta risposta balzò dal letto.
— Ci sarebbe da far morire quella cara creatura dallo spavento;
no.... no.... io non sento che una bruciatura qui.... al petto,... e
nulla più.... Eppoi la mia presenza basterà ad assicurare Clara; le
dirò che sono caduto, che mi sono involontariamente ferito, e
vedendomi sorridere, non avrà più timore per me. A proposito, ora mi
sembra torni inutile il plico che tu dovevi ritirare: l'hai tolto
dal mio soprabito?
— Sì, eccolo qua.... —
Guido, esaminandolo, cacciò un grido.
— E poi si dice che non c'è una Provvidenza! — esclamò. — Clara deve
avere pregato per me.
— Per qual ragione? — chiese il marchese sbalordito.
— Guarda.... questo plico è forato proprio nel mezzo dalla punta
della spada ed ha ammorzato il colpo.... del resto per me sarebbe
stata finita. —
Il marchese di Chârtre sorrise.
— Hai dunque proprio deciso, così debole e pallido come sei, di
tornare a casa?
— Sì, ti ripeto,... non sarò tranquillo che vicino a Clara. —
Il marchese di Chârtre, trovando giusta l'apprensione dell'amico,
ordinò la carrozza.
Mezz'ora dopo, questa si fermava davanti al palazzo dove abitava il
conte; ma Guido, appoggiato al braccio dell'amico, non era arrivato
a metà dello scalone, che Clara gli si faceva incontro pallida come
una morta, coi capelli sciolti, gli occhi lacrimosi, tenendo in mano
una lettera.
Che cos'era avvenuto?
XIII.
Mentre Guido era lontano, Clara aveva ricevuta una lettera da casa,
nella quale le si annunziava che il padre era gravemente ammalato, e
desiderava vederla prima di morire.
— Bisogna partir subito subito, amico mio, — disse ella gettandosi
al collo del marito, dopo avergli dato in tronchi accenti la trista
notizia.
Guido era divenuto pallido e barcollava. Il marchese di Chârtre se
ne accòrse e fu pronto a sostenerlo, prima che il giovane svenisse.
Clara a quella vista divenne bianca come un lenzuolo: i suoi occhi
azzurri si empirono di lacrime.
— Oh! quanto sono imprudente, — esclamò — non dovevo dare
all'improvviso questa notizia a Guido, ma non ho pensato che a mio
padre! —
In quell'istante si accòrse di alcune macchie di sangue che erano
nella camicia di Guido, e gettò un grido.
— Dio mio.... egli è ferito....
— Non è nulla, — esclamò il marchese di Chârtre.
— Non è nulla, — ripetè Guido, sforzandosi a restar in piedi — una
lieve graffiatura.... sì, bisogna partir subito.... —
Ma egli vacillava. Il marchese lo sostenne e lo trascinò fin sul
divano del salotto, dove lo depose.
Clara era caduta in ginocchio presso il marito.
— Ferito? — balbettava – ferito,... ma come? quando?
— Calmatevi, signora contessa, — disse con aria grave il marchese —
è una cosa da nulla,... un'imprudenza di Guido.... scendendo da
cavallo;... ma vi ripeto.... non avete nessuna ragione di
impressionarvi.
— Ci vuole però un medico,... presto, un medico.
— Il medico l'ha già visitato e l’ha fasciato: Guido non ha bisogno
che di un po' di riposo,... io non volevo lasciarlo muovere da casa
mia, ma egli ha voluto venir qui;... era inquieto per voi.... —
Clara posò la sua bionda testa vicina a quella di Guido che si era
rianimato, e lesse negli occhi di lui tanta tenerezza, tanta ansia,
che ne fu tocca fino alle lacrime.
— Noi partiremo fra poco, non è vero? — mormorò Guido.
— Ah! no; manderemo un telegramma a casa per dire che sei ferito.
— E vorresti spaventare il babbo?... No.... stasera noi
partiremo,... io riposerò tutto il giorno qui, vicino a te.... mi
sento già meglio, sai....
— Oh! Guido mio.... —
Il marchese, che assisteva a quella scena, era commosso e confuso.
— Tornerò più tardi a vederti, — diss'egli a Guido stringendogli la
mano — condurrò meco il medico, e se lui assicura che non sarà
un’imprudenza metterti in viaggio....
— Oh! assicurati di no,... eppoi starei peggio, se non partissi....
Vedrei Clara piangente all'idea di suo padre malato.... e ne
proverei tal rimorso, che mi farebbe star peggio. —
Clara, incapace di pronunziare una parola, nascose la sua testolina
sul divano, e pianse lungamente in silenzio.
Il marchese uscì dal salotto profondamente rattristato; ma non senza
rivolgere a Guido uno sguardo d'intelligenza che voleva dire:
— Abbi riguardo per lei,... ma non commettere imprudenze: sarebbe
male per tutt’e due. —
XIV.
Il conte, dopo la partenza dei due giovani sposi, non si era più
mosso dalla sua villa, dove passava le giornate in una completa
solitudine. Egli non usciva più che quando la notte aveva ricoperto
della sua ombra la terra, e vagava come un fantasma per il giardino,
per i campi, spaventando i contadini che s'imbattevano in lui.
Soffriva d’insonnia. Le sue notti erano agitate, e più di una volta
il sole cominciava ad apparire sull'orizzonte, ch’egli si trovava
sempre nel parco o nel giardino della villa. Allora si rifugiava
nella sua camera e vi si chiudeva dentro, non aprendo che dietro le
reiterate istanze del cameriere, che gli portava da mangiare.
In un mese, il conte era invecchiato di dieci anni. Un giorno era
uscito dalla villa, malgrado la pioggia che imperversava, e malgrado
il temporale che scoppiava con violenza. Quando tornò, era a testa
nuda, colla fronte infiammata, in preda ad una specie di delirio. Si
mise a letto e gli si manifestò una febbre violentissima: il medico,
chiamato subito, disse che si trattava di una congestione cerebrale
e dava poche speranze di vita. Fu allora che il cameriere fidato del
conte scrisse a Parigi per avvisare i giovani sposi.
Il conte, nel suo delirio, chiamava ora la figlia, ora il capraio
Ronco.
— L'infame, — diceva — ha svelato tutto,... sì, ella sa tutto,...
quelle lettere rubate da lui nella stanza di Clara, sono scritte da
Alfonso,... ella sa che è suo fratello.… Maledizione!... —
Il giorno stesso che il conte era venuto a casa in preda alla
febbre, il capraio fu trovato morto, in fondo ad un burrone. Si
credette a una disgrazia, si disse che forse il pover uomo, colto
dal temporale, aveva smarrita la strada ed aveva posto il piede in
fallo; i contadini, che lo trovarono pesto e irriconoscibile giù nel
burrone, lo portarono sopra una barella fino al cimitero, dove
adempiute le formalità di rito venne sepolto e non se ne parlò più.
Il conte intanto peggiorava, ed i medici assicurarono, una mattina,
che il nobile ammalato non avrebbe trovata sera. Infatti, sui tratti
sfigurati di lui, v’erano i segni evidenti di una prossima fine.
Un telegramma giunto da Parigi avvertiva che Guido e Clara s’eran
messi in viaggio, e due giorni dopo la giovine sposa si trovava al
capezzale del padre, mentre Guido, per lo strapazzo sofferto, era
arrivato alla villa in uno stato da far pietà, ed il medico che lo
visitò lo fece coricar subito e gli proibì di uscir di camera.
Clara, divisa tra l'affetto del marito e l'angoscia di vedere il
padre in uno stato che faceva presagire la morte vicina, versava
abbondanti lacrime e singhiozzava tanto, da destar compassione.
Il conte rimaneva insensibile a quanto gli accadeva sotto gli occhi:
la sua respirazione si faceva più penosa, ed alcune grida sfuggivano
di tempo in tempo dal suo petto oppresso: il rantolo stava per
incominciare.
Clara sentì un gelo correre per tutte le membra. Ad un tratto le
parve che l'ammalato facesse uno sforzo per sollevarsi, ed aprendo
gli occhi, li girò attorno alla camera, fissandoli poi sopra la
figliuola.
— Babbo mio! — esclamò questa, stendendogli le braccia.
Ma egli cacciò un grido e allungò le mani come se volesse sfuggire
ad un'apparizione.
— Indietro!... non mi toccare.... vieni a deridermi.... tuo
figlio.... il figlio della tua colpa.... è morto.... io.... io l’ho
ucciso,... è sepolto là.... in fondo al burrone.
— Padre mio.... — singhiozzava Clara — guardatemi, sono io....
vostra figlia.
— Sì.... ho una figlia.... e quello è mio sangue,... ma io le devo
far orrore.... ella sa.... che Alfonso è suo fratello,... che io
l'uccisi.... che ho buttato anche Ronco nel burrone. —
Clara, a tutte quelle spaventose rivelazioni, tremava come una
foglia.
— No.... Alfonso vive,... padre mio,... rassicurati.... egli
vive,... io l’ho salvato! —
L'occhio del conte lampeggiò: un grido straziante gli uscì dal
petto; guardò fisso, con cupo terrore, sua figlia, fece uno sforzo
come se volesse parlare, ma una schiuma sanguinosa gli apparve sulle
labbra, mandò un rantolo penoso, e ricadde sul letto.
Era morto!
Pochi giorni dopo questa scena pietosa, quando il conte fu
sotterrato nella cappella del castello, il notaro, aprendo il
testamento, annunziò, com'era da aspettarsi, che Clara era la sola
erede delle immense ricchezze del gentiluomo.
— Mio fratello non avrà dunque nè nome, nè fortuna? — disse la
giovane sposa. — Ah! io riparerò all'ingiustizia di mio padre;...
bisogna che la metà delle mie ricchezze sia di Alfonso.
La morte del conte, se aveva cagionato alla giovine donna un dolore
immenso, questo fu nei primi giorni sopito dal pericolo che correva
la vita di Guido.
Difatti per più di una settimana si temette di perderlo, e non fu
che dopo lunghe cure che poté riaversi. La prima volta che la febbre
cessò, egli vide un viso pallido, che si chinava sul suo: la buona
fata che l'aveva salvato, sua moglie, Clara.
— Dimmi, sono stato molto malato? — egli chiese con debole sorriso.
— Molto, amico mio,... ma ora tutto è passato.
— E tuo padre?… —
Clara abbassò le palpebre e due lacrime cocenti caddero sulla fronte
di Guido. Egli comprese e non chiese altro, ma strinse al petto
quella delicata creatura, e con voce commossa, mormorò:
— Ti resto io ancora: io che t'amo tanto! —
Un lieve sorriso increspò le labbra scolorite di Clara. Ella avrebbe
voluto anche in quel momento dirgli:
— Mi rimane anche un fratello. —
Ma non ne ebbe il coraggio; e questo fu più tardi la perdita della
generosa donna.
Mentre Guido era ancora in convalescenza, un giorno che Clara se ne
stava pensosa in camera sua, venne un domestico ad annunziarle che
un giovine vestito di nero, chiedeva di parlarle.
Clara, senza avvisare il marito che riposava tranquillo, passò in
salotto e mancò poco non si tradisse in presenza del servo,
riconoscendo nel giovinetto suo fratello Alfonso.
Egli, che si vedeva guardato dal servitore, s'inchinò con rispetto
dinanzi a Clara.
— Vengo, signora, apportatore di una notizia del vecchio servo che
voi conoscevate: del povero Nemmo,... perdonate quindi il mio
disturbo. —
Clara non aveva più forza di parlare: con un gesto indicò una
poltrona al giovinetto, poi fece segno al servo di uscire dal
salotto.
Appena la portiera ricadde, Clara vide prostrato dinanzi a sè il
fratello.
Per qualche minuto si baciarono convulsivamente, senza un accento,
una parola; poi Clara, come ridestatasi, afferrò la bella testa di
Alfonso, e si mise a contemplarla avidamente.
— Tu.... sei proprio tu.... Alfonso mio?
— Io, Clara, che prima di partire per un lungo viaggio, che durerà
qualche anno, ho voluto vederti.
— Come ti sei fatto grande.... bello.... ma perchè quest'abito nero?
— Perchè è morto nostro padre....
— Ah! tu lo sai? — esclamò Clara baciando commossa il giovane.
— Sì, e sarei venuto subito, se in quel frattempo....
— Ebbene?
— Anche il mio secondo padre, il fedel Nemmo.... —
Alfonso non poté proseguire; piangeva a calde lacrime, che gli
scorrevano sulle guance.
Clara si era fatta pallidissima.
— Morto.... morto anche lui?... E ora tu sei solo?
— No.... il negoziante al quale mi raccomandasti, mi ama come un
figlio. —
Clara stette qualche minuto senza aver la forza di rispondere.
— Non potrò mai dimenticare il povero Nemmo. Egli è morto col
sorriso sulle labbra, benedicendomi, benedicendo te....
— Uomo generoso!
— Ma tu… tu sei felice, Clara?... Io ti trovo pallida....
dimagrata....
— Ho pianto molto,... ora però dimentico qualunque dolore. Tu mi
chiedi se sono felice? Una donna è sempre tale, quand’è amata come
sono io dal mio Guido.
— Come vorrei conoscerlo,... chiamarlo fratello! —
Clara abbassò tristamente il capo, e si mise a piangere.
Alfonso, sorpreso, inquieto, le chiese la ragione di quelle lacrime.
— Ah! — diss'ella — tu sei buono, generoso,... ma io....
— Tu sei un angelo!
— No.... sono una donna, una debolissima donna, perchè non ho mai
avuto il coraggio di confessare a Guido la tua storia. —
La voce d'Alfonso, mentre interrompeva la sorella, prese alcun che
di sostenuto e di mesto.
— Hai fatto bene, Clara, così la memoria di nostra madre continuerà
ad essere circondata dal rispetto, dall'amore, e quella di nostro
padre dal rimpianto. Che importa a me, se il conte non mi ha voluto
riconoscere?... quando tu mi rimani, cara sorella, quando tutto
l'affetto che avrei portato a mia madre l'ho riconcentrato in te....
— Ma intanto agli occhi del mondo, io sono la sola erede delle
ricchezze di nostro padre. —
Alfonso arrossì, e poi sorrise.
— Che importano a me le ricchezze? — esclamò. — Il tesoro più grande
che io possieda, è l'amor tuo. Non debbo a te, se io non sono più il
selvaggio fanciullo di una volta? Ah! io mi contento del nome del
povero Nemmo, dell'amor tuo;... che questo non mi manchi ed io sarò
la creatura più felice, più orgogliosa della terra. —
A tanti nobili sentimenti, espressi con una semplicità proprio
commovente, il cuore di Clara si dilatò subito, le sue ciglia si
inumidirono ancora, ma questa volta, di gioia. E con una mossa
fanciullesca, impetuosa, strinse il giovinetto fra le braccia e
divorandolo dai baci:
— Mio fratello! — esclamò.
Quelle due parole compendiarono tutto l'affetto, tutto l'orgoglio e
la felicità della giovine contessa.
Poi, dopo alcuni minuti di un eloquente silenzio, Clara con mesto
sorriso, passando la sua manina nei capelli fini, ricciuti, biondi
di Alfonso, esclamò:
— Ah! ora non desidero più che una cosa sola! che la creatura che io
porto in seno, ti rassomigli: essa porterà il tuo nome ed io
pregherò Dio che le dia anche la tua fisonomia.
— Cara sorella!
— Tu parti oggi stesso, mi hai detto: anderai lontano, lasciandomi
di nuovo sola.
— Hai il tuo Guido.…
— Sì,... egli è buono, ma l'amore che provo per lui, è molto diverso
dal sentimento che provo per te. Io vorrei avervi tutt’e due vicino
a me.
— Chissà che un giorno ciò non accada; — disse con dolcezza Alfonso
— ma ora io devo compiere il mio dovere.
— Io sono ricca,... la metà della mia sostanza è tua.
— Permettimi che io la rifiuti.
— Perchè? Non vuoi dunque che io ti aiuti?
— E non mi hai aiutato! — rispose il giovinetto commosso nel vedere
la mestizia con cui Clara aveva accolte le sue parole. — Ora debbo
saper viver col frutto del mio lavoro. Il negoziante al quale mi
affidasti, è un padre per me: io ho preso passione per il commercio,
per i viaggi, ed ho una cointeressanza negli utili del mio
principale. Non ho casa, non ho patria; ma dove splende il sole,
dove tutto è armonia, amore, ivi è la mia patria, la casa mia.
Allora mi figuro d'essere vicino a te, di farti ammirare le bellezze
della natura,... sogno.... sono felice. Oh! lasciami così nelle mie
dolci illusioni, che mi fanno tanto bene; confortami colle tue
lettere: è tutto ciò che voglio, che chiedo da te.
— Mio fratello! — rispose Clara con uno slancio di passione,
baciando di nuovo quella bionda testa che si abbandonava volentieri
alle carezze deliziose di lei.
E quando venne il momento in cui dovettero di nuovo separarsi,
piansero lungamente insieme. Ma dovettero frenare la loro commozione
all'entrata di un servitore, che veniva a cercar Clara da parte di
Guido.
La giovine sposa si affrettò ad asciugarsi le lacrime: Alfonso
riprese la sua attitudine rispettosa. Ma il cameriere ebbe un
sorriso strano sulle labbra: forse credette d'aver sorpreso il
segreto di due amanti e disse fra sè che quella scoperta un giorno
forse gli avrebbe servito.
— Grazie, Alfonso, — disse Clara — grazie di
tutte le nuove che mi avete date. Promettetemi di ritornar presto a
vedermi.
Ve lo prometto, signora contessa, — disse Alfonso stringendo la mano
della sorella.
Poi si separarono rapidamente per nascondere l’uno e l’altra le
proprie emozioni.
XV.
Tre mesi dopo, Clara e suo marito avevano preso stabile dimora a
Firenze, dove il conte Rambaldi possedeva una graziosa palazzina con
tutti i comodi, in una delle strade più ampie e più belle della
città.
La gravidanza di Clara era quasi al termine, e a mano a mano che la
giovine donna stava per diventar madre, la sua bellezza si faceva
sempre più angelica, ideale.
Guido, a Firenze, aveva incontrato gli antichi amici, e riprese, un
po’ per volta, le abitudini del passato. Non già che amasse meno
Clara, ché anzi lontano da lei non aveva altro desiderio che di
tornare a rivederla, a coprirla di baci e di carezze; ma certamente
non avrebbe più continuato a passare tutte le ore ai piedi di lei,
perchè avrebbe finito collo stancarsene, coll'esserne annoiato,
mentre, dopo due o tre ore di lontananza, gli sembrava di ritrovare
sua moglie più bella, e le ingenue manifestazioni di lei gli
parevano più saporite e gustose.
Clara, sebbene amasse alla follìa il marito, non mancava di
saviezza: era la prima ad incitarlo a svagarsi, a frequentare di
nuovo la società, dov'ella non si trovava in grado d'andare. E
mentre Guido era lontano, ella, sdraiata sulla poltrona, faceva
mille sogni deliziosi sulla creatura che sarebbe venuta presto al
mondo, pensava già all'avvenire di lei, ed al nome di suo figlio
aggiungeva sempre il nome di suo fratello Alfonso.
Si avvicinava intanto l'inverno, ed una sera, per l'apertura della
Pergola, Guido manifestò a Clara il desiderio di andare al teatro:
la morte recente del suocero a lui non glielo impediva, ma gli
rincresceva di lasciar sola la sua diletta compagna.
Questa però, gentilmente, lo spingeva a recarvisi.
— Va' tu.... e divertiti, — disse.
— Sarei capace di rimanere a tenerti compagnia.
— Ma no.... mio caro,... non voglio un sacrifizio da te.
— E ti sembra un sacrifizio seder qui alle tue ginocchia,
guardandoti, parlando di nostro figlio, perchè tu presto mi
regalerai un figlio, non è vero? —
Clara sorrise.
— E se fosse una bambina,... forse l'ameresti meno?
— No.... oh! no,... ma un figlio, sai, un erede maschio.... a cui
lasciare il mio nome,... è cosa attraente e mi fa fantasticare. —
Clara sorrideva sempre.
— Guarderò di contentarti, però se fosse una bambina tu non saresti
in collera con me, non è vero?
— No davvero, caro angelo!... — esclamò Guido baciandola con
passione — abbiamo tempo di avere altri figliuoli! —
Clara nascose il viso sulla spalla del marito. Per un minuto nessuno
dei due parlò; ma l’orologio di sala suonò le ore, e scosse la
giovine madre.
— Son già le nove, — disse — è ora ch’io vada a letto e tu al
teatro.
— Ma lo vuoi proprio?
— Sicuro che lo voglio, tu hai bisogno, mio caro Guido, di svagarti.
—
Il giovine non resistè a quelle istanze, tanto più che aveva
desiderio di vedere il nuovo ballo, del quale se ne diceva
mirabilia.
Però, baciata di nuovo la moglie, salì in una vettura che lo
condusse alla Pergola, nel momento appunto che il primo atto
dell'opera Don Sebastiano era finito.
Invece di recarsi nel suo palco, Guido andò in un palco del
proscenio, dove gli amici lo accolsero con gioia.
— Sei venuto un po' in ritardo, — dissero.
— Sempre in tempo per il ballo, — rispose Guido ridendo.
— Ah! desideri dunque ammirare questa nuova stella della danza di
cui tutti parlano e che nessuno ha potuto ancor vedere? Figurati che
il visconte di Barga ha promesso all'impresario una somma
considerevole, se gli lasciava mettere piede sulla scena, durante le
prove!
— Ebbene?
— Niente, caro mio: mistero completo.
— Zitto! si alza il sipario: siamo al secondo atto dell'opera;
fortuna che dopo ci sarà subito il ballo, del resto c'è da
morire,... dal desiderio. —
Guido sorrideva ascoltando quei discorsi ed intanto il suo sguardo
distratto si portava sul teatro, che quella sera era pieno.
Quell'aria calda, molle, voluttuosa, la vista delle belle testoline
che primeggiavano nei palchetti, la musica deliziosa, lo gettava suo
malgrado in una specie d'ebbrezza. Intorno a lui vedeva una
moltitudine di visi femminili, che sorridevano, ondeggiavano, si
abbassavano, accendendo ai fuochi della lumiera la scintilla
provocatrice dei loro sguardi: tutto brillava in quel quadro: tutto
pareva splendere, rifulgere, sorridere.
E Guido, senza sapere il perchè, si sentiva il cuore commosso,
mentre la testa gli ardeva: non sentiva i discorsi degli amici, ma
provava un fàscino strano, come se fosse la prima volta che
assistesse ad uno spettacolo.
Passò il secondo atto del Don Sebastiano: negli intervalli, gli
amici si misero a ridere e a scherzare sul contegno e la posa seria
di Guido; poi tutto ad un tratto il cicaleggio s'interruppe, tutti i
binoccoli si puntarono agli accordi dell'orchestra, all'alzarsi
della tela per il ballo. Nel primo quadro, la ballerina non apparve;
ma dopo un rapido cambiamento di scena, che mostrò una reggia di
fate, si vide la regina del soggiorno, scendere dal suo piedistallo,
per disporsi a ballare.
Ed allora una lieve esclamazione uscì dal petto di Guido, perchè
nella ballerina misteriosa che aveva fatto accorrere tanta folla al
teatro, egli aveva riconosciuta Nara; Nara, più bella che mai, nella
sua maglia color carnicino, che faceva spiccare il contorno delle
sue gambe statuarie, del suo busto perfetto, affascinante, con
quelle nere trecce a metà disciolte, con quel viso bruno, su cui
spiccavano le labbra di un rosso vivace ed i grand'occhi, quegli
occhi così carezzevoli e così diabolici al tempo stesso, quegli
occhi che suscitavano mille fremiti, mille immaginazioni, che
producevano un effetto pronto, fulminante.
L'apparizione di Nara cagionò nel pubblico una profonda sensazione,
che subito trascese in entusiasmo. Nara non era soltanto bella da
inebriare; ma ballava come poche celebrità sapevano ballare: il suo
corpo si piegava mollemente, i suoi piedini parevano sollevarsi dal
suolo, e nelle sue mosse, nei suoi abbandoni v’era tanta grazia, nel
suo sorriso tanta malìa, che gli applausi scoppiarono frenetici,
insistenti, tanto che fino dal primo giro ch’ella fece sopra sè
stessa, si volle la replica.
Anche nel palco dov’era Guido, Nara avea suscitato in tutti un vero
delirio.
—.... è sorprendente,... è sublime.
— Io sarei capace di dannarmi, per lei!
— Tutti i miei tesori per un bacio da quelle labbra!
— Il mio cavallo favorito per un suo sguardo! —
Ed applaudivano con furore.
Guido solo rimaneva, all'apparenza, freddo, insensibile. Ma la vista
di Nara aveva prodotto nella sua anima una potente impressione, che
i discorsi degli amici finirono d’aumentare. Qual gloria per lui, se
in faccia a tutti coloro che si sarebbero dannati per quella
creatura, avesse mostrato che gli sarebbe bastato un gesto, uno
sguardo,... perchè quella donna così bella, così indifferente a
tanti omaggi, sarebbe a lui appartenuta!
Proprio in quel punto, lo sguardo di Nara s'incrociò col suo. Allora
avvenne come un colpo di scena. La ballerina vacillò, diè un grido,
stese la braccia verso la direzione del palco di Guido, e cadde
svenuta.
Tutto questo avvenne in così breve tempo, che il pubblico se ne
accòrse solo quando vide venire dalle quinte una quantità di gente
per sollevare la bella svenuta.
Allora si fece un vivo movimento nel pubblico affollato. Dai palchi,
la gente si sporgeva fuori, in platea si erano alzati tutti in
piedi. Nel palco di proscenio si rideva, s’interpretava in mille
guise l'improvviso svenimento della leggiadra creatura.
Guido si era eclissato.
Il ballo, interrotto per un istante, fu ripreso, perchè il direttore
di scena venne ad annunziare che la ballerina sarebbe in breve
ricomparsa; aveva avuto una lieve mancanza. Difatti di lì a poco
riapparve più bella che mai, e allora dalle file compatte degli
spettatori, uscì un applauso fragoroso, che rintronò per tutto il
teatro.
Nara ringraziò commossa, ma i suoi sguardi si riportarono tosto al
palco di proscenio. Ella impallidì vedendo che il conte Rambaldi non
vi era più, ma nessuno si accòrse del pallore di lei, dei suoi
brividi. Ella danzò con una specie di febbre, ed il suo trionfo di
ballerina e di donna fu completo.
Appena finito il ballo, Nara, senza spogliarsi, si avvolse in un
ampio mantello di pelliccia, e seguìta da una fida cameriera, uscì
dal teatro dalla porta degli attori.
Molti giovani erano ad aspettarla per vederla da vicino, prima che
montasse in carrozza.
Ella si tirò il cappuccio sugli occhi e mentre metteva il piede sul
predellino della vettura, mancò poco non mandasse un grido soffocato
e non cadesse sul selciato della strada. Nell'interno della carrozza
v’era il conte Guido.
Nara fece violenza su sè stessa, salì, sedette presso di lui, e poi
fece salire la cameriera, stringendole la mano per avvertirla e
raccomandarle il silenzio.
Ma appena la carrozza si slanciò di corsa, Nara prese vivamente una
mano di Guido.
— Voi.... voi qui.... signore?
— Io, Nara,... che non sapevo come parlarvi, come mostrarvi il
dispiacere, che mi ha procurato il vostro improvviso svenimento.
Perdonate il mio ardire....
— Oh! signore.... non parlate così: non avete voi arrischiato un
giorno la vostra vita per me? Ah! se io mi sono svenuta, voi solo
sapete il perchè: era l'emozione di vedervi dopo tanto tempo che non
ho saputo nulla di voi, per quante ricerche io abbia fatte. —
Il cuore di Guido palpitò.
— Voi avete ricercato di me, Nara?
— Oh! sì.... — rispose ella con voce debole e tremante — ero
presente quando vi batteste col duca, vi vidi cadere a terra ferito.
— Voi.... voi.... eravate là!?
— Sì, io.... vedete, se voi foste morto, io sarei morta con voi! —
esclamò con ingenuità — ma il chirurgo assicurò che la vostra ferita
era leggiera.
— Infatti il giorno stesso, potei partire per Firenze.
— Fu per questo che io vi ho cercato inutilmente per tutta
Parigi,... e che il marchese di Chârtre si rideva di me. —
Un lampo brillò negli occhi della ballerina, lampo sinistro, che
Guido non poté osservare.
Il giovane conte capiva che la sua condotta non era delle più
lodevoli, capiva che aveva fatto male a seguire quella donna, si
ricordava le parole del marchese, ma ormai l'orgoglio di vincerla su
tutti gli altri, il fàscino che emanava da quella leggiadra
creatura, tutto si era riunito per sconvolgergli il cervello, per
fargli dimenticare che a casa, in quell'istante stesso, una donna
pura, una donna casta, tutta sua, sognava di lui, faceva mille
disegni sull'avvenire.
La carrozza si fermò dinanzi alla casa dove Nara abitava. Ella salì
con Guido, e appena entrata nel suo gabinetto, congedò la cameriera,
e gettando il mantello e il cappuccio da un lato, si mostrò a Guido
nel provocante costume che aveva in teatro, all'ultima scena del
ballo.
Ma in quel gabinetto, illuminato da una luce blanda, misteriosa, la
giovine acquistava mille seduzioni che sulla scena non aveva. La
maglia color carnicino faceva spiccare il contorno delle sue gambe
modellate stupendamente: le sue braccia, il suo petto nudo,
sembravano ancor più sorprendenti sotto il contrasto del suo
corsetto di seta rossa e argento. Nella splendida capigliatura nera,
era intrecciato un semplice ramo di mughetti: i suoi occhi
brillavano più dei brillanti ch’ella portava agli orecchi.
Guido sentiva il sangue salire a fiotti al cervello.
— Voi cenerete con me, — disse Nara con un sorriso inebriante.
Guido, incapace di proferire parola, accennò di sì col capo.
Nara suonò con violenza il campanello.
— Stanotte ceno in questo gabinetto, — disse alla cameriera accorsa
— cinque minuti di tempo per preparare ogni cosa! —
E mentre la cameriera usciva:
— Io intanto,... se permettete andrò a vestirmi.
— No, rimanete così,... siete tanto bella! — esclamò Guido.
Nelle pupille languide di Nara. brillò un raggio di contento: i
palpiti del suo cuore, le sollevavano a sbalzi il petto.
Ella si sdraiò sulla pelle di tigre che v’era presso l'ottomana,
dove Guido si era seduto, e rivolse su di lui le pupille languide,
umide, tendendogli le mani, che egli strinse fra le sue.
— Chi me l'avrebbe detto, — esclamò Nara — che avrei avuto a Firenze
tanta felicità! Vi ho ricercato tanto, Guido! —
Bisognava essere stupidi per non comprendere la passione ardente,
che si covava nell'animo di quell'ammaliante creatura; bisognava
esser folli per respingerla.
Guido non era nè l'uno, nè l'altro: quella donna gli dava le
vertigini, quella donna l'ammaliava. Egli subiva l'impero di tante
attrattive, e tutto il suo essere si slanciava verso l'incantatrice
ballerina, che gli poneva nel cuore de’ fremiti ignoti.
L'immagine di Clara impallidiva al confronto di quell'ardente
creatura.
L'amore timido, pudico, della giovane contessa, si ritraeva dinanzi
alla passione fulminante di Nara.
Presto la cena fu pronta; i due giovani vi fecero onore. Tuffarono
insieme le labbra nello stesso bicchiere, ed i vini e i liquori, di
cui entrambi abusarono, finirono per dar loro l'ebbrezza, per far
dimenticare a Guido ogni altra creatura che non fosse quella che gli
stava dinanzi.
— Tu mi ami, Nara.... mi ami....? — mormorò.
— Se ti amo?... Ma dal primo momento che ti vidi, la mia anima fu
tua.... Malgrado la vita agitata che ho finora condotto, il mio
corpo è puro come quello della fanciulla, che non si stacca mai dal
fianco della madre, che è protetta da un'affezione santa e leale. Si
è che io giurai a me stessa di non cedere che all'uomo che avessi
amato, di non appartenere che a colui a cui avrei dato tutto il mio
cuore. E quest'uomo sei tu! Io sono tua, Guido, tua.... perchè ti
amo, ti amerò sempre!... —
XVI.
Finì la notte, venne il giorno, e Guido non tornò al palazzo. Clara,
per la prima volta dopo il suo matrimonio, si svegliò senza un bacio
del suo Guido. Eppure non ebbe una sola parola di rimprovero per
lui, e quando lo vide, all'ora della colazione, pallido,
febbricitante, non ebbe che un'idea.
— Guido.... mio Guido.... tu sei malato. —
Il giovane colpevole diventò di fuoco.
— T'inganni, diletta mia.... — mormorò — è un po' di stanchezza....
— Lo so che non sei andato a letto. Forse i tuoi amici....
— Sì, i miei amici, dopo il teatro, mi trassero con loro a cena, poi
al Club dove giuocai; e siccome vincevo.... non sarebbe stato
conveniente di alzarsi. —
Clara ricacciò un sospiro in fondo al petto. A lei dispiaceva che il
giovine passasse in tal modo le notti, ma non ebbe il minimo
sospetto della verità: credeva ciecamente in lui, nel suo amore.
Sicché con una carezza, che mise i brividi del rimorso nel cuore di
Guido, disse con tenerezza:
— Un'altra volta non ti lascerai più trascinare così; penserai a
me.... che rimango triste tutto il giorno se mi sveglio e non ti
vedo piegato sul mio capezzale, quasi intento a vedermi dormire, a
contare i miei sospiri, che sono tutti, tutti tuoi.... —
Guido non rispondeva.
— Ho forse torto, non è vero? — continuò la leggiadra creatura — ma
mi ci hai abituata.... la colpa è tutta tua. —
Guido la baciò per nasconderle la sua emozione.
— Ed ora raccontami che cosa hai veduto di bello al teatro. Ti è
piaciuto il ballo e la nuova ballerina? —
Guido sussultò, ma sua moglie parlava con tanta ingenuità, che
riprese tosto il suo sangue freddo.
— A dirti il vero, — rispose — ci badai poco, perchè rimasi quasi
tutto il tempo del ballo nel foyer a discorrere con un vecchio
amico, ed a pensare a te. —
Gli occhi celesti di Clara espressero una gioia innocente.
— Ed io quasi quasi pensavo, che il ballo ti facesse dimenticare la
tua Clara. Ah! non saprò perdonarmelo! —
Guido era sulle spine: per fortuna la colazione era finita, e dopo
un nuovo bacio a sua moglie, con la scusa di riposarsi, egli si
ritirò nella sua camera.
Sentiva vergogna, rimorso, d'ingannare così l'angelica creatura che
gli affidava la sua vita, ma ormai l'immagine di Nara gli si era
fissa nell'anima, nel cervello. La rivedeva in quella posa
inebriante, appassionata, sulla pelle di tigre, mentre volgeva a lui
gli occhi languidi, voluttuosi, mentre gli ripeteva con quelle
labbra, che parevano fatte apposta per dar de’ baci: «Io sono tua,
Guido, tua.... perchè ti amo, ti amerò sempre!...»
— Ella mi ha stregato; — si ripeteva Guido — ma io non la vedrò più.
—
Ma eran sempre le stesse parole; perchè quando un uomo è colpito da
una passione sensuale, nonostante tutti gli sforzi per svincolarsene
non ci riesce, e fa precisamente il contrario di quello che dice.
Difatti la sera stessa, Guido era di nuovo ai piedi di Nara. Per
tutto il tempo del ballo, rimase nascosto nell'ombra del palchetto,
dove gli occhi della ballerina andavano a ricercarlo. E prima che
ella uscisse, secondo l'accordo, si era appiattito di nuovo nella
vettura di lei, che li trasportò a casa.
Guido trovò in Nara tutta la ingenuità della bambina, tutta l'acre
voluttà della donna appassionata. Il suo amore per il giovane
sembrava profondo, senza interesse, senza scopo.
— Non voglio che amarti ed essere amata da te, — gli diceva — il
resto per me è nulla! —
Che le importavano gli omaggi degli altri? Ella non vedeva che il
suo Guido, non sentiva che lui.
Pure, alcune notti dopo il suo incontro col giovane, tornata a casa
con lui, ella si mostrò per qualche minuto nervosa, agitata, e finì
per dare in uno scoppio di pianto.
Guido cercava invano di sapere la ragione di quelle lacrime
improvvise.
— Tu mi ami, Guido, — ella ripeteva — ami me sola?
— Ma sì,... te l'ho già detto,... lo sai....
— I tuoi baci, il tuo cuore sono dunque tutti per me.
— E ne dubiti? —
Gli occhi di Nara scintillarono.
— Guido,... dimmi la verità!...
— Io non ti comprendo.
— Dimmi: è vero.... che hai moglie? —
Il giovane sussultò.
— Sì.... — rispose — ma che t'importa?
— Che m'importa?... — gridò Nara. — Ma io sono gelosa di lei,... di
quella donna che dicono di una bellezza adorabile. Tua moglie dunque
è bella, Guido?
— Non quanto te,... Nara.
— Questo non è rispondere; ma io la conoscerò. —
Un vivo rossore salì alle guance di Guido.
— Tu non farai questo, Nara.... —
Gli occhi della ballerina ebbero un lampo selvaggio.
— Perchè no! — rispose.
— Perchè allora non crederei più al tuo amore per me. Che t'importa
di mia moglie,... quando io amo te sola?
— Giuralo, Guido!
— Te lo giuro. —
XVII.
La ballerina parve convinta, ma in cuor suo già rimuginava mille
strani pensieri di vendetta verso l'innocente, che intanto soffriva
per la freddezza del marito perchè non sapeva a qual ragione
attribuirla.
Guido però parve tornare a lei, quando la giovine fu madre. Oh! la
dolce ebbrezza di Clara, quando potè stringere fra le sue braccia la
sua bambina, la sua creatura.
— Ella assomiglia tutta a te! — diceva con ingenuità a Guido.
— No.... ha il tuo viso d'angelo.
— Tu l'amerai lo stesso, sebbene sia una bambina, non è vero?
— Oh! sì.... la chiameremo Lilia.
— Io vorrei chiamarla Alfonsina.
— Ebbene, la battezzerai col nome che più ti piace,... ma io
preferisco chiamarla Lilia. —
Così la piccola creatura ebbe due nomi.
Nei primi giorni, Guido si mostrò molto premuroso con la giovane
madre e molto tenero verso la piccina; ma a poco a poco cominciò ad
allontanarsi di nuovo da casa, e passava tutte le sue giornate, le
sue notti, ai piedi di Nara, la quale però non si mostrava ancora
abbastanza soddisfatta. Nara si era fatto un alleato nel servitore
di fiducia di Guido. Da lui seppe come Clara fosse divenuta madre,
con lui concertò i mezzi per perdere quell’innocente creatura.
Come sappiamo, il cameriere di Guido aveva sospettato un giorno del
fratello di Clara, credendolo un amante della giovine sposa. Li
aveva sorpresi quasi abbracciati, e fino d'allora aveva pensato al
mezzo di trar profitto della scoperta.
Una mattina, Clara sedeva accanto alla culla della sua bambina, e in
quel visino d'angelo, che sorrideva anche nel sonno, cercava di
soffocare i tormenti del cuore.
Ormai ella non aveva dubbî. Il suo Guido, non l'amava più, e si
mostrava verso di lei di una freddezza crudele. Alle sue tante
lacrime, rispondeva con una scrollata di spalle e con un sorriso
sardonico. Nei primi tempi, la povera creatura fu persuasa che Guido
fosse in collera con lei perchè aveva fatta una bambina; ma quando
vide che sfuggiva i suoi baci, che passava le notti lontano da casa,
sentì istintivamente che il cuore di Guido aveva cessato di essere
suo.
Eppure nessun lamento uscì dalle angeliche labbra di Clara: la sua
disperazione fu muta, senza lagnanze, nè preghiere.
Oh! se almeno Alfonso fosse stato vicino a lei! Sul capo biondo
della sua bambina, ella ripeteva il nome del fratello amato.
Anche in quella mattina che noi la vediamo vicino alla culla di
Lilia, la giovane madre aveva invocato Alfonso.
— Se egli fosse qui, le mie lacrime si asciugherebbero.... egli
saprebbe consolarmi, povero Alfonso! Ma a chi devo io confidarmi?
Devo far vedere la ferita del mio cuore a gente che non mi
comprenderebbe, o si riderebbe di me? —
Ella teneva la fronte chinata sul seno, e nell'amarezza del suo
sorriso aveva qualche cosa d'orgoglio.
Ma ad un tratto si scosse, perchè aveva sentito aprirsi la porta di
camera sua e qualcuno entrare nella stanza.
Clara si voltò, ma il grido di gioia che stava per sfuggirle dal
labbro si estinse alla vista di Guido pallidissimo, col viso
contratto, che si avanzava con una lettera fra le mani.
Un cupo presentimento strinse il cuore di Clara.
Guido si avvicinò a lei e senza preamboli:
— Questa lettera, — esclamò — è indirizzata a voi, signora!
— Sì, — rispose la giovane madre con voce calma — questa lettera è
di mio fratello! —
Uno scoppio di risa insultanti risuonò lugubremente per la stanza.
— Vostro fratello?... E da quando in qua, signora, avete un fratello
che vi scrive: Mia adorata Clara.... e si firma semplicemente,
Alfonso? —
Clara divenne vermiglia: alzò gli occhi in cui era una decorosa
sostenutezza, e rispose dolcemente:
— Guido, io non ho avuto che un torto, quello di non averti detto
mai nulla di lui. Ma se si fosse trattato soltanto di me, non avrei
esitato; ma volevo salvo l'onore di mia madre,... il rispetto al
padre mio. —
Guido alzò con disprezzo le spalle.
— Che fandonie mi andate raccontando! — esclamò inarcando le
sopracciglia. — Credete che io vi presti fede? —
Clara si coprì il volto con le mani e per qualche minuto le uscirono
dal petto de’ singulti strazianti; indi questi cessarono, ed ella
alzò un'altra volta il capo, fissando i suoi occhi ancora umidi,
candidi come quelli di un fanciullo, in volto al marito.
— Guido, — diss'ella con voce supplichevole e commossa — ho io mai
mentito con te? Io non ho qui prove per dimostrarti che quanto ti
dico è la pura verità; ma in nome di quest'innocente, ti giuro,
Guido, che Alfonso è mio fratello. —
Guido fece un urlo di rabbia, torcendo la lettera in mano.
— Quell'innocente? — esclamò non comprendendo la terribile portata
delle sue parole. — E chi mi dice che cotesta creatura, a cui
ponesti il nome di lui, sia mia! —
A quell'atroce insulto, la madre si drizzò fiera, terribile, dinanzi
alla culla della figlia.
— Uscite, signore, — esclamò con un'alterigia che una regina
oltraggiata non ebbe mai sulla sua fronte — perchè dopo le parole
che avete pronunziate, mi sembra impossibile che il soffitto non
debba crollare sul vostro capo, e che questo angelo non sorga per
maledirvi! —
Nella sua esasperazione, Guido non comprendeva più nulla. Aveva gli
occhi iniettati di sangue, la spuma alle labbra. Fece due passi
innanzi e disse con voce sorda, minacciosa, furente:
— Queste sono parole, parole, parole, ma il mio servo fu testimone
del tuo disonore; egli potrebbe riferire che mentre soffrivo in
letto per la mia ferita.... tu, nelle braccia di un altro, tu, la
femmina pudica, ti beavi d'amore, tu non avevi vergogna d'insultarmi
sotto lo stesso mio tetto. E quell'uomo che tu baciavi, era tuo
fratello.... di' la verità: era tuo fratello? —
E dètte in uno scoppio di risa.
Clara era divenuta un po' più pallida, ma rimase ritta dinanzi a lui
e lo stesso di lei silenzio era spaventevole. Non una lacrima le
bagnava le palpebre, nè un sospiro le usciva dal seno, ma il suo
sguardo, fisso sul marito, era colmo di disprezzo; quello sguardo
l'annientava.
— Alfonso è mio fratello, — disse infine sordamente — e se io ho un
torto, è quello di non avervelo mai confidato. Guardate quell'angelo
che sorride nella sua innocenza, mentre voi insultate sua madre, ed
osate ancora ripetere, che quella creatura non è vostra!
— Sì, lo ripeto! — disse Guido animato da un pensiero diabolico.
Un momento Clara vacillò sotto il colpo di quell'ingiuria
scagliatale in viso per la seconda volta, ma cercando contenersi,
esclamò con voce sinistra:
— Voi siete un vile, perchè continuate ad insultare una debole
creatura che non può difendersi! Ma Dio saprà un giorno toccarvi il
cuore, mostrarvi la verità dei miei detti. Andate. —
Guido non si sarebbe mosso; forse la sua coscienza gli diceva, in
quel momento, che egli aveva compìto un'azione più spregevole di un
delitto. Forse tutta la vita di quella pura e santa creatura non era
stata una continua sincerità, una continua abnegazione? Non poteva
il servitore aver mentito? Forse Clara asseriva il vero;
quell'Alfonso doveva essere un figlio naturale del conte, e la
generosa fanciulla, perchè nessuna macchia oscurasse l'onore della
famiglia, l'aveva tenuto nascosto.
Guido, annientato, era sul punto di cadere in ginocchio e chiedere
perdono dei suoi infami sospetti, quando la portiera si alzò, ed il
cameriere apparve, dicendo:
— La signora Nara chiede il permesso di vedervi.
— Nara! —
A quel nome, Guido sobbalzò come tocco da una pila elettrica, mentre
Clara, senza sapere il perchè, diveniva pallida come un cadavere e
si stringeva viepiù vicino alla culla di sua figlia.
— Falla passare nel mio gabinetto, — ordinò precipitosamente Guido.
E uscì egli stesso dietro al servo, mentre Clara cadeva svenuta
presso la culla della sua bambina.
XVIII.
Nara trionfava!
Oramai quella triste creatura si era impossessata intieramente
dell'anima di Guido, e l’aveva fatto suo schiavo.
Se ella gli avesse ordinato di commettere un delitto, non avrebbe
esitato. E qual delitto sarebbe stato più grande di accusare una
donna intemerata, dinanzi alla quale anche un angelo si sarebbe
inginocchiato!
Ma Nara voleva regnar sola: senza conoscere Clara l'odiava, ed aveva
giurata la perdita di lei.
Ella si era servita di un vile domestico. Da costui aveva saputo
come la moglie di Guido era di una bellezza ammirabile, e come tutti
l'adoravano.
— Ma io la so più lunga, sul conto di lei.... — aveva aggiunto il
domestico.
Queste parole furono per Nara un lampo di luce.
Ella capì che quel servo possedeva un segreto da tutti ignorato, un
segreto il cui possesso l'avrebbe vendicata della donna che odiava,
e le avrebbe dato in piena balìa Guido.
— Quanto vuoi, — aveva detto al servo — per vendermi il tuo segreto?
— Ma io voglio bene alla mia padrona, — aveva risposto con aria
ipocrita l'infame.
Nara impallidì.
— Sei dunque suo complice?
— Oh! questo poi, no!
— Non ti preme l'onore del tuo padrone? —
Il servo ebbe uno strano sorriso, un sorriso quasi insultante per
Nara.
Il di lei occhio s'infiammò.
— Ascoltami: — diss'ella — se tu rifiuti di servirmi, appena torna
Guido gli dico che tu, abbietto servo, hai avuto il coraggio di
violentarmi. —
Il cameriere divenne livido, perchè comprese che quella donna era
capace di tutto.
Egli non rispose.
— E ti faccio scacciare, intendi.... scacciare su due piedi, mentre
se tu mi aiuti, una parte dell'oro che mi passa fra le mani, sarà
tuo.
— Comandatemi, ed io ubbidirò, — disse il tristo, quasi
supplichevole.
— Io voglio sbarazzarmi della contessa.
— E sia.
— Dimmi, dunque, quello che Guido ignora. —
Il domestico raccontò l'incontro di Alfonso e Clara, l'emozione dei
due giovani, i furtivi baci scambiatisi.
Nara ascoltava col seno fremente, le nari dilatate.
— Ah! quella donna così pura, quella nobile contessa, ha dunque un
amante?
— Sì.
— Ed è bello?
— Giovanissimo, biondo, un viso da fanciulla, una timidezza da
collegiale.
— Come si chiama?
— Alfonso.
— Si vedono spesso?
— Da quel giorno che li sorpresi, non li ho più visti: egli deve
esser fuori d'Italia.
— Ed allora come fare? — esclamò.
Nara batteva i piedi.
Il domestico sorrise.
— Se non si vedono, si scrivono, e le lettere vengono indirizzate
alla governante della contessa.
— Come lo sai?
— Ho sorpreso un giorno la vecchia, che faceva passare un foglio
alla padrona.
— Sai tu dove nasconde le lettere?
— In un cofanetto che ha in camera sua.
— Ebbene, se tu sei capace di portarmi una di quelle lettere, te la
pago mille franchi.
— Mi proverò. —
Il giorno dopo, il domestico si presentava trionfante colla lettera
rubata.
Nara l'aprì con mano convulsa, e, quando l'ebbe letta, un infernale
sorriso le passò sulle labbra.
La lettera diceva:
« Mia adorata Clara,
«Da lungo tempo non ho tue nuove, e sono inquieto, agitato.
«Lontano da te, la mia vita scorre triste, ed il mio sogno sarebbe
quello di volare fra le tue braccia, di ricominciare la vita
inebriante, condotta per tanti mesi.
«Ti ricordi, mia Clara adorata, di quei nostri colloquî segreti in
cui l'anima si espandeva tutta intiera, di quei convegni furtivi, da
innamorati?
«O mia diletta, nei miei studî ho potuto conoscere come la natura
umana sia fragile, ingombra di meschine passioni; ma vi sono altresì
degli affetti sublimi, incancellabili, che il tempo non fa che
aumentare, la lontananza li accresce, li raddoppia.
«Questa fiamma casta, divina, eterea, è quella che io provo per te,
mia adorata Clara. Nei miei sogni di fanciullo e poeta, io vedo la
tua dolce immagine aleggiare dinanzi a me, io aspiro il profumo
inebriante dei tuoi capelli, l'alito delizioso delle tue labbra di
rose.
«Non dimentico quanto io ti costai, quanto facesti per me; se io
sono qualcosa, se ho diritto di parlare della mia felicità, è perchè
a te la debbo, mia Clara.
«Essere amato da te, potere un giorno vivere a te vicino, è questa
la mia aspirazione più grande; nella mia solitudine, nel mio lavoro,
è sempre la tua immagine che mi sorride e mi dà coraggio.
«Fra pochi giorni, Clara, io sarò a Madrid, raccomandato ad una
famiglia di negozianti, che dicono persone assai buone ed oneste. La
carriera che ho scelta, mi piace assai; era proprio questa la mia
vocazione, e tu l'indovinasti, Clara mia.
«Scrivimi, scrivimi a lungo, parlami di te, della tua creatura che
desideri mi somigli, alla quale metterai il mio nome.
«Spero di venir presto a passare qualche tempo con te: ti avvertirò,
ma che nessuno lo sappia, perchè il tuo Guido non debba mai
sospettare della mia esistenza.
«Non pronunziare mai in faccia agli altri il mio nome. Basta che tu
l'abbia scritto nel tuo cuore, come il tuo è scritto nel mio.
«Ti bacio mille volte e ti prego di nuovo, mia Clara adorata, a
rispondere subito al tuo, in eterno affezionato
«Alfonso.»
Questa era la lettera che il cameriere aveva rubata e che noi
vedemmo in mano a Guido.
E quella lettera, per chi non conosceva il mistero della nascita di
Alfonso, era una vera condanna per Clara. Chi non l'avrebbe creduta
colpevole?
Povera ingenua creatura, che credeva bastasse una sola parola per
togliere ogni sospetto! Ella non conosceva ancora il mondo, non
sapeva quanto fosse maligno nei suoi giudizî, non sapeva che la
menzogna è creduta più della verità! Tutti gli uomini hanno dunque
una maschera d'ipocrisia sul volto?
Quando Guido entrò nel suo gabinetto, dove il domestico aveva
introdotta Nara, era vivamente contrariato e una sorda collera gli
bolliva in petto.
— Voi qui? — diss'egli — voi, Nara? —
La ballerina aveva un'aria triste, e i suoi occhi rossi parevano
aver versate molte lacrime.
— Io, sì.... — rispose — che temevo per te, Guido.... Ah! sono ben
colpevole!
— Perchè?
— Per averti consegnata quella lettera fatale, che tu mi
sorprendesti a leggere, e che mi rapisti. Ah! la tua collera mi fece
spavento, e quando ti vidi correr via furibondo, credetti di divenir
pazza! Feci allora attaccar subito la carrozza, ed eccomi qui. —
Ella finse di barcollare: Guido la sostenne, e l'ammaliatrice
creatura rovesciò il suo capo sulla spalla di lui, fissandolo coi
suoi occhi umidi, velati, morenti, mentre la sua bocca, esalando un
infocato sospiro, scopriva lo smalto dei suoi denti, piccoli,
bianchi, profumati, come quelli di un fanciullo.
Guido ne fu affascinato.
— Sei bella, Nara, sei bella, ed io ti amo!... — mormorò.
La giovane si sciolse dalla stretta di lui, e come se si fosse
rimproverata di aver ceduto ad un impeto involontario, gli disse:
— Lasciami, lasciami, tu dimentichi che tua moglie potrebbe venir
qui? —
Guido lasciò sfuggire un riso maligno, sardonico.
— Ebbene, venga; — gridò — non ha ella ricevuto l'amante in casa
mia? Mentr’ero a letto, sofferente per la ferita, non si consolava
fra le braccia di un altro? Che m'importa dunque di lei? —
Nara abbassò gli occhi con ipocrisia.
— E se la contessa fosse innocente?
— Non hai tu stessa letta la lettera di quell'Alfonso? E tu la
difendi? No, ella non lo merita, io la scaccerò da questa casa, che
contamina colla sua presenza. —
Nara aveva presa un'affettata serietà. Seduta su di una ottomana,
invitò Guido a sederle vicino, e con voce che si sforzava di sembrar
commossa, disse:
— Ascoltami, Guido, non precipitiamo le cose, e soprattutto cerca di
evitare lo scandalo. Infine tu non hai altra prova della colpa di
tua moglie che questa lettera; ora l'amante è lontano e forse non
tornerà tanto presto. Se dunque tu eseguisci le tue minacce, il
mondo darebbe la colpa a te, perchè il mondo conosce la nostra
relazione, ritiene tua moglie per una santa, e scaglierebbe anche su
di me il suo anatema. —
Guido la strinse fra le braccia.
— Tu, mio angelo?... tu che mi ami tanto.... Ah! guai chi osasse
sparlare di te. —
E coll'occhio e le guance in fiamme, Guido baciava e ribaciava
l'infernale creatura, che fingeva di sottrarsi a quegli amplessi.
— Lasciami finire, Guido.... lasciami dire quello che io voglio da
te.
— Comanda!
— Tu non dirai più una sola parola a tua moglie, ma fino da stasera
dividerete il vostro appartamento.
— Questo l'ho fatto da un pezzo.
— Oh! se tu non avessi moglie, Guido, — sospirò Nara.
— Ebbene?
— Come saremmo felici, amico mio, non ci lasceremmo mai, mai più! Io
sono stanca della vita d’artista che conduco, e vorrei passare tutta
la mia esistenza ai tuoi piedi.
— Oh, Nara!
— Ma non ne parliamo, è un sogno.
— E perchè? Forse che non possiamo vivere insieme, anche vivendo mia
moglie?
— Oh! non è la stessa cosa: volere o no, difaccia al mondo sei il
marito di lei, ed io sono sempre la donna.... la tua amante.
— Ah! non una parola di più, o mi farai impazzire;... tu che
meriteresti di essere adorata, come una santa, mentre colei....
— Via, Guido, calmati, tu hai promesso d'ubbidirmi.
— E ti obbedirò!
— Devi essere il mio schiavo!
— Le tue catene mi saranno sempre dolci.
— Ebbene, io comando e voglio che tu non faccia più alcuna allusione
di quella lettera a tua moglie. Tua moglie è ricca molto?
— Ha di suo una sostanza di tre milioni. —
Nara trasalì.
— E questa sostanza andrà tutta a tua figlia?
— Mia figlia? Nara, te ne prego, non parlarmi di mia figlia, perchè
il sangue mi va di nuovo alla testa. Non capisci che mia moglie ha
messo a quella creatura il nome del suo amante? —
Nara fece un gesto di ribrezzo; poi, dopo un minuto di riflessione:
— Ascoltami: — disse — ora tu verrai con me; ho diverse cose da
dirti, e qui non mi sembra di esser sicura. —
Nara non poté continuare.
In quel momento il cameriere aveva alzata la portiera. Guido si
mosse con impeto.
— Chi ti ha detto di venire? Che vuoi?
— Domando perdono al signor conte, ma credo bene avvisarla che la
signora sta molto male. —
Un tremito impercettibile scosse le membra di Guido.
— Che cos'ha? Che gli è accaduto? Avete chiamato il dottore?
— Sì, signor conte. La cameriera, entrata in camera della signora
contessa, l’ha trovata stesa sul tappeto, svenuta. Ha chiesto subito
soccorso: la signora contessa fu messa a letto, ma, nonostante le
abbian fatto respirare delle essenze e che le abbiano bagnate le
tempie con dell'aceto, non è stato possibile di farla rinvenire. Se
il cuore della signora non battesse, la si direbbe morta. —
Guido si drizzò in piedi come galvanizzato. Il sangue gli corse alla
faccia ed al cervello.
— Vengo, — disse brevemente — uscite! —
Il domestico ubbidì.
Guido si volse per guardare la ballerina, ma questa era già caduta
in ginocchio e singhiozzava, balbettando:
— Perdono, perdono! —
Guido fece l'atto di rialzarla.
— Perdono? — esclamò — ma che cosa ho da perdonarti?
— Sono io che ti ho dato quella lettera.
— Hai fatto il tuo dovere.
— Ma tua moglie....
— Non parlarmi di lei.
— No, povera donna, no, io voglio anzi che tu vada subito al suo
letto, anch'io.... —
A queste parole, Guido si scosse, e restò un momento pensoso.
Per quanto la passione per Nara lo rendesse cieco, pazzo, per quanto
credesse colpevole Clara, capiva però istintivamente che la presenza
della ballerina, sarebbe stato il massimo degli oltraggi. Pure non
osava darle un rifiuto.
Nara si era alzata, e fissava sul giovane uno sguardo penetrante.
Guido risentiva una specie di angoscia.
— Resta qui, — balbettò — torno subito, te lo prometto.
— Ah! capisco: io sono indegna di varcare la soglia di quella
stanza; io, la tua amante, non posso subire il contatto di una
creatura come la contessa Rambaldi.
— Taci! — ripeté Guido con voce convulsa, mentre le pupille di Nara
brillavano di un fuoco crudele — tu capisci che quello che faccio
non è per riguardo a mia moglie, ma per gli altri.
— Ah! ti vergogni dei tuoi servitori? temi di perdere la tua dignità
in faccia a loro?
— Nara, — strillò Guido con stupore ed amarezza — sei tu che mi
parli così? Che m'importa dei servi, di tutti, quando io ti stimo,
ti adoro!
— Ebbene, perchè mi rifiuti l'ingresso nella camera di tua moglie?
Non temere, io non mi farò veder da lei; appena aprirà gli occhi, io
sarò sparita.
— Allora vieni, vieni, Nara! — esclamò il giovane alzando vivamente
la portiera per far passare l'amante.
Quando entrarono in camera della contessa, questa non era ancora
rinvenuta. Al suo capezzale stava la cameriera, passandole
lievemente sulla fronte un fazzoletto bagnato.
A pochi passi del letto, si vedeva la culla di Lilia, un nido di
colomba, imbottito di raso bianco, coperto di trine, dove la bambina
continuava a dormire il sonno tranquillo dell'innocenza.
Il viso di Clara ispirava una profonda sensazione. Il pallore
marmoreo delle sue guance si confondeva colla bianchezza nivea dei
merletti, che le guarnivano la veste da camera, che non le era stata
tolta.
Aveva gli occhi chiusi, la bocca stretta convulsamente, i capelli
sparsi in disordine sull'origliere. Il servitore aveva ragione;
senza i lievi bàttiti del cuore, quella donna si sarebbe creduta
morta.
Guido, suo malgrado, si sentiva il cuore stretto. Un sordo terrore
turbava la sua coscienza, la memoria dei giorni felici, passati
accanto alla moglie, gli tornavano alla memoria. E ricordava il
racconto del marchese di Chârtre sulla ballerina.
— Nara è il dèmone; — gli sussurrava la voce dell'amico — tua moglie
è sempre l'angelo puro che conoscesti! —
Guido scosse bruscamente la testa per scacciare un pensiero
importuno, e voltosi alla governante, che all'entrata di lui e di
Nara aveva indietreggiato dal letto quasi indignata, esclamò:
— Non viene dunque questo medico?
— Non sembra, signor conte, — rispose seriamente la governante. —
Eppure il caso è urgente, e la contessa potrebbe morire. —
Guido si strinse nelle spalle.
— Meno osservazioni, — gridò — andate là ad aspettare il dottore,
qui non vi è più bisogno di voi. —
La governante gettò uno sguardo di freddo disprezzo al conte ed a
Nara, ed uscì a testa alta, senza dire una parola.
Ma quel silenzio valeva più di un eloquente discorso.
Guido capì l'insulto, ma non poté parlare, perchè la voce gli
soffocava in gola, e quello sguardo di disprezzo gli mise i brividi
nelle vene.
Nara non si accòrse di quella scena muta, perchè nascosta fra le
cortine dell'alcova, divorava, cogli occhi ardenti, la dolce ed
angelica figura di Clara, e si mordeva le labbra fino a sangue.
— Più bella di me; — pensava — sì, più bella.... Ah! io l'odio,
costei, l'odio e non mi basta la mia vendetta, la voglio morta! —
Guido non osava guardare la svenuta; si avvicinò invece alla culla,
e sollevò il velo che copriva la bambina.
Lilia aveva gli occhioni aperti, e agitava le dita.
Quando vide il babbo sorrise, ed un grido di gioia le uscì dalle
labbra; ed i suoi piccoli braccini si agitarono, come se avesse
voluto che egli la prendesse.
Guido, pallido come le trine che guarnivano la culla della
fanciullina, osservava avidamente quei piccoli tratti innocenti.
— Ella assomiglia a sua madre; — pensava — ma sarà mia figlia?... —
La bambina pareva comprenderlo, perchè continuava a sorridere, a
smuovere le manine, e con quel muto linguaggio, pareva che gli
dicesse:
— Sì, babbo, io sono la tua piccola Lilia. Perchè non mi prendi fra
le braccia?... perchè non mi baci? —
Il giovane conte non poté resistere a quei vezzi infantili. Egli
sollevò la bambina, che pareva infatti conoscere il babbo, perchè
gli si avvinse tosto sul petto e cacciò le manine sul viso di lui.
Guido la baciò con trasporto.
Nara vide l'atto, divenne livida. Si sarebbe slanciata su di lui,
avrebbe presa quella bambina, e l’avrebbe schiacciata sotto i suoi
piedi, ma si contentò di avvicinarsi.
Lilia vide quella bruna testa di donna, così diversa dal viso della
sua mamma, capì per istinto che era un’estranea, una intrusa, e
appena la mano di Nara si allungò per toccarla, Lilia diè uno
strillo acuto e parve aggrapparsi al collo del padre, per cercare
una difesa.
Nara rimase immobile, livida di collera.
In quel momento entrava il dottore colla governante.
La bambina continuava a piangere.
— Prendetela, portatela via, — disse Guido alla governante, che
eseguì l'ordine senza proferir parola.
Intanto il medico si era avvicinato al letto, ed esaminava
attentamente la svenuta.
— La signora contessa deve aver provata una forte emozione, — disse
un momento dopo, rialzandosi, e guardando fissamente Guido.
Il giovane trasalì.
— Non lo so, ma non credo, — rispose.
Il dottore parve volesse coi suoi sguardi penetrare fino in fondo al
cuore di Guido.
— Scusate la mia domanda, — riprese — ma siccome lo stato della
signora contessa mi sembra molto grave, così desidero avere un
indizio qualunque, per accertarmi se questa sincope, che temo
mortale, sia l’effetto di un'emozione fortissima, oppure sia
accaduta naturalmente. —
Un gelido sudore inondava le tempie di Guido.
— Vi è pericolo? — mormorò con voce sorda.
— Non ve lo nascondo.
— Salvatela, dottore, salvatela.
— State certo che, per quanto sta in me, non lascerò nulla di
intentato. —
Così dicendo, aveva posato la mano sulla fronte gelida di Clara, ed
il suo viso si oscurava.
— Ve ne prego, signor conte, mandatemi qui la governante, ho bisogno
di una donna. —
Nara si avanzò.
— Posso servirvi io, signore, — disse.
Il dottore si rivolse, guardò la ballerina e la riconobbe. Allora le
sue labbra s'incresparono con un movimento di disprezzo, e i suoi
occhi, posandosi sul conte, gli fecero comprendere che aveva tutto
indovinato.
— Vi ringrazio, — rispose con voce ferma — ma desidero la
governante, e pregherei il conte, e voi, signora, di lasciarmi solo
con lei. —
A Nara passò un lampo feroce negli occhi; Guido alzò alteramente la
testa.
— Io non mi muoverò di qui, — disse.
— Vi preme dunque che la contessa muoia, — disse lentamente il
dottore, con un sorriso sardonico.
Guido volse su di lui uno sguardo furibondo, che il medico sostenne,
senza scomporsi.
— Vi ripeto, signor conte, mandatemi la governante. —
Guido capì che non era il caso d'insistere, e uscì con vergogna
dalla stanza, facendo cenno a Nara di seguirlo.
La ballerina uscì, ma i suoi occhi, iniettati di sangue, pareva
volessero annientare il dottore.
— Me la pagherà anche lui! — mormorò.
Appena la portiera cadde dietro di loro, il viso del dottore si fece
commosso; una lacrima gli brillò negli occhi.
— Povera e santa creatura, — pensò, guardando la giovane svenuta —
ora capisco tutto: il conte è un vile, e quella donna è un'infame:
ma io ti salverò. —
E, senz'altro, trasse di tasca una scatoletta piena di ampolline, ne
tolse una che aveva il tappo smerigliato, la sturò, e bagnato il
lembo di un fazzoletto con alcune gocce del rosso liquido contenuto
nella boccetta, lo pose sotto le narici di Clara.
Dopo alcuni minuti, la giovane contessa, che sembrava morta, provò
un fremito per tutto il corpo, ed esalò un sospiro.
Un raggio di gioia passò sulla fronte del medico.
In quel mentre entrava la governante colla bambina fra le braccia.
— Ebbene, dottore?
— Ella è salva.
— Grazie, mio Dio, grazie! —
E volgendosi verso l'uscio col pugno chiuso:
— Sono loro che volevano ucciderla! — esclamò.
— Che è stato dunque?
— Non so, il conte ebbe a dire qualche cosa con la signora contessa,
io sentivo le loro voci dalla mia stanza, quando il cameriere entrò
per annunziare la visita di quella donna, m'intende....
— Sì, v'intendo, poveretta.
— Il conte ordinò d'introdurla nel salotto, ed era appena uscito
dalla camera della signora, che entrai io.... La contessa era
distesa presso la culla di sua figlia nello stato in cui l’avete
veduta ora, ed invano io tentai di richiamarla alla vita.
— Il suo stato è grave, ma io la salverò. Ricordatevi di non lasciar
entrare qui nessuno, fino a che la contessa non sia ristabilita.
— Non dubitate, signor dottore; eppoi essi, state certo, non
verranno più. —
Si udiva uno scalpitìo di cavalli nel cortile. La governante andò a
sollevare un lembo della cortina di seta dell'ampia finestra e
giunse proprio nel momento di veder entrare nel coupé della
contessa, Guido e Nara.
— Gl'infami, — mormorò — se ne vanno insieme, mentre la disgraziata
sta per morire. —
Ma, nel momento stesso, il dottore inumidì di nuovo il fazzoletto
del liquido rosso, e lo passò sulla fronte della contessa, che mandò
un sospiro di sollievo.
Clara aveva aperti gli occhi, ed aveva cercato di sollevarsi sul
letto, ma non poté. Allora stese le mani supplichevoli verso il
dottore, e con voce spenta:
— Mia figlia, datemi mia figlia, — mormorò.
La governante gliela pose subito fra le braccia.
Clara era ritornata alla vita, ma la sua fede era spezzata, il suo
amore inabissato. La santa donna, che non aveva mai conosciuto nulla
al mondo nè di raggiri, nè d'inganni, nè d'infamie, si abbandonava
ad un profondo scoraggiamento.
Ella non volle discolparsi dell'infame accusa gettatale in volto dal
conte; si chiuse in un perfetto silenzio, ed invano anche la
governante riusciva a strapparle di bocca qualche parola.
Clara non aveva più baci e sorrisi che per sua figlia, la sua Lilia!
Come l'amava, come ringraziava Dio d'avergliela data! Quanti baci su
quella testina bionda, su quel visino delicato, i cui lineamenti le
ricordavano quelli di suo fratello Alfonso!
Dapprima la contessa aveva pensato di scrivere tutto al fratello, ma
poi se ne ritenne.
— Se verrà un giorno che la mia creatura sia in pericolo, o ch’io mi
senta mancare, allora gli scriverò tutto, perchè non voglio lasciare
quest'angioletto nelle mani di suo padre: egli l'ucciderebbe. Ma che
ho fatto io a quella donna, a quella Nara, per scagliarmi tanti
colpi immeritati, crudeli? Non le basta di avermi tolto l'amore di
Guido, la di lui stima? Ella vuol spingermi nell'abisso, forse vuol
togliermi mia figlia, l'amor mio? ma io la difenderò con tutte le
forze, e guai a colei, se osasse toccare la mia Lilia! —
La contessa era diventata in poco tempo l'ombra di sè stessa, e non
si muoveva quasi mai dal suo quartiere, dove si era ritirata colla
figlia.
In tutto il personale della famiglia ferveva intanto una specie di
ambascia, che teneva gli animi perplessi, profondamente
impressionati e confusi. Tutti conoscevano quanta potenza avesse
Nara sul padrone, e l'accusa da questi lanciata sulla nobile
contessa. No, nessuno credeva alla colpa di Clara: il conte solo era
colpevole.
Il dottore, che aveva mostrata molta pietà per la contessa, era
stato licenziato; la governante era morta repentinamente per dolori
intestinali dopo un pranzo fatto fra i servi, in onore della festa
della contessa, pranzo a cui presiedeva il servo traditore,
quell'infame che aveva tradita la padrona, ma che nessuno avrebbe
pensato ad accusare, perchè lo sapevano l'occhio destro del padrone,
e avevano il timore di essere per causa di lui licenziati!
Così la povera Clara si trovava sempre più isolata colla sua
bambina, e quell'isolamento aveva finito per spaventarla, per
mostrarle l'avvenire sotto i più foschi colori.
Anche Alfonso pareva che avesse dimenticata la sorella. Le aveva
scritto da Madrid una lunga lettera, raccontandole le peripezie del
viaggio, l'accoglienza del negoziante, e parlava con trasporto
dell'unica figlia di questi, di nome Ines, e che dicevano la perla
di Madrid.
Clara aveva sorriso dolcemente all'entusiasmo del fratello, ed aveva
compreso come il cuore del giovane fosse stato tocco dalla prima
scintilla d'amore.
— Che egli sia felice, come è buono! — mormorava. — Io ho fiducia
nelle qualità del suo cuore, nè ho diritto di dubitare che egli non
sia per la giovine che avrà scelto, quale deve essere l'uomo
d'onore. Sì, la fanciulla che Alfonso amerà, sarà immensamente
felice. —
Poi il fratello era rimasto lungo tempo senza dare sue nuove; forse
le lettere erano andate smarrite.
Intanto Guido, sempre più traviato da Nara, aveva perduto ogni
riguardo verso la moglie adorabile, ed il suo palazzo, che avrebbe
dovuto essere per lui un santuario, era diventato il teatro dei suoi
piaceri, delle sue orgie. La contessa, dal proprio appartamento,
sentiva ogni notte il cozzar dei bicchieri, le risa smodate, l'eco
della musica e dei baci.
Nara provava tant'odio contro la bella ed innocente contessa, che
avrebbe voluto farla morire ad oncia ad oncia, assaporando tutti i
sospiri di lei, la sua lenta agonia.
Ma se il volto di Clara portava le tracce delle sofferenze interne,
il suo sorriso ineffabile, la sua innata bontà non si smentivano
mai!
Una notte, che sedeva presso la culla della bambina, la quale da
pochi giorni si mostrava palliduccia, febbricitante, Guido entrò
nella camera di lei senza farsi annunziare.
Egli barcollava, si capiva che era alquanto ubriaco; gli occhi aveva
rossi, ardenti, amaro il sorriso, pallido il volto.
Clara, vedendolo, non poté a meno di provare un sentimento di
disgusto, di collera concentrata; ma pensando a sua figlia si fece a
lui dinanzi, frapponendo il suo corpo come una barriera della
piccola culla.
— Che desiderate, signore? — diss'ella freddamente.
— Ah! ah! signore.... mi chiama signore, — gridò.
Clara impallidì maggiormente.
— Parlate piano, mia figlia riposa: venite nel salotto.
— No, voglio rimaner qui! — balbettò Guido. —
Si lasciò cadere sopra una seggiola e restò per un momento cogli
occhi fissi, quasi vitrei, balbettando fra sè:
— Che mi ha detto Nara? Non lo ricordo più. Che cosa sono venuto a
far qui?... Ah! sì, ecco il foglio. —
E trasse da una tasca del soprabito un foglio che spiegò, mentre
Clara, pallida, affranta, stava in piedi dinanzi a lui.
— Ecco, — diss'egli continuando a balbettare — voi dovete firmare
qui, in fondo, poi vi lascio subito, non temete, non voglio
disturbarvi, di là mi aspettano. —
Clara, disgustata, ma sempre temendo per sua figlia, prese il foglio
e vi gettò un'occhiata. Era la cessione di una parte dei suoi beni a
favore di Guido.
La giovine contessa ne fu indignata.
— Non firmerò mai questo foglio, — disse — la mia sostanza mi
appartiene, e ne serbo la metà a mia figlia e l'altra a mio
fratello. —
Guido fu preso da un accesso di rabbia, che parve far svanire in lui
i fumi dell'ubriachezza.
— Voi firmerete, — gridò — io lo voglio, Nara lo vuole.
— Chi è questa Nara che qui comanda? — disse la contessa pallida
d'indignazione.
La portiera della camera si sollevò improvvisamente e comparve la
ballerina. Ella vestiva un soprabito chiaro con dei ricchi ricami,
che le scendeva quasi fino ai piedi e le celava una sottana di seta
nera; in testa portava un cappello ornato di fiori e di piume, e il
suo volto rivelava una impudica sensualità.
— Nara sono io! — disse, fissando il suo occhio pieno d'odio sulla
contessa, che a tutta prima rimase come fulminata, stringendosi
presso la culla di sua figlia.
Guido, che risentiva gli effetti del vino, era caduto, ridendo, su
di una seggiola.
— Ah! ah! — disse sghignazzando — che scena di effetto,... eccole
alle prese.
— Sì; Nara sono io! — ripeté di nuovo la ballerina, avanzandosi di
alcuni passi — io, la padrona di questa casa, del cuore di Guido, io
che, presto o tardi, sarò sua moglie. —
La contessa, bianca come i veli che circondavano la culla di sua
figlia, avrebbe fatto pietà alle pietre.
Ella si portò due o tre volte senz’accorgersene le mani alla
fronte, balbettando:
— Sogno o divento pazza?
— No, bella mia, siamo in piena ragione! — esclamò la ballerina. — A
te dunque è permesso aver degli amanti, e vorresti che tuo marito
facesse l'anacoreta! Tienti il tuo Alfonso, io mi tengo il mio
Guido, e guai se me lo tocchi! —
Il conte rideva a gola aperta a quelle frasi ignobili, impudenti;
pur tuttavia finse di rivoltarsi contro la ballerina.
— Nara, Nara, sono crudeli le tue parole.
— Lascia fare, bello mio, — diss'ella con insolente disdegno — la
tua virtuosa moglie, ha bisogno di una lezione. —
La contessa pallida e terribile stese il braccio.
— Uscite, uscite subito, — disse — o vi faccio gettar fuori dai miei
servi.
— I tuoi servi! i tuoi servi? Ah! ah! ah! i tuoi servi ubbidiscono a
me, intendi? —
La contessa sentiva stringersi le tempie da un cerchio di fuoco.
Guido si alzò barcollando, e si avvicinò a lei.
— Andiamo, mie colombe, ora basta: tu, Clara, firma qui sotto, e ti
lasceremo in pace.
— Indietro, signore, indietro!
— Firma, ti dico.
— No, mai!
— Ah! ah! la prendi su questo tono?... Nara, aiutami.... le
toglieremo la piccina. —
Un grido straziante uscì dalle labbra della contessa, ella fece per
slanciarsi sul marito come una leonessa ferita.
— Indietro, infame, indietro! —
Guido suo malgrado retrocesse, mentre Nara faceva un passo avanti.
Ma Clara, con quanta forza le dava il suo amor materno, sollevò una
seggiola.
— Il primo che si avvicina, — disse con una calma orribile — gli
spacco la testa.
— Firma, — disse con voce rauca Guido — o giuro a Dio, che tua
figlia la faccio in pezzi!
Lilia si era svegliata e chiamava piangendo la mamma.
Era una scena straziante, orribile.
La povera signora era esausta di forze.
— Date qua, — disse — datemi quel foglio, firmerò;… ma levatevi
subito dalla mia presenza. —
Guido e Nara avevano vinto.
Quando la contessa ebbe firmato, essi fecero per uscire dalla
stanza.
— Quella donna è infame e vile insieme; — disse la contessa al
marito — ma voi siete più vile di lei. Andate, e che Dio non vi
punisca come meritate! —
Poi tornò presso la culla di sua figlia e sollevatala fra le
braccia, mormorò fra sè:
— Bisogna fuggire, bisogna lasciare questa casa! Dio mio, che ho mai
fatto per condannarmi a soffrir tanto? —
E scoppiò in un pianto dirotto.
XIX.
La scena a cui abbiamo assistito in casa del conte Guido Rambaldi,
si ripeté altre volte. La povera contessa era sfinita; venti volte
fu sul punto di rivolgersi ai tribunali, chiedere una separazione,
ma fu sempre trattenuta da un timore misto a discrezione: di timore
per la vita di sua figlia, di discrezione per non fare uno scandalo
intorno al nome, che la sua creatura doveva portare. Scrisse a suo
fratello domandandogli aiuto e consiglio; ne attese invano la
risposta. Fra i suoi dolori, ora le si aggiungeva anche questo; il
silenzio di suo fratello la faceva temere per la salute, per la vita
di lui.
— Più nessuno.... più nessuno al mondo in mia difesa, in difesa
della mia bambina, — ripeteva la martire. — Dio mio, assistetemi
voi, perchè io non debba soccombere a questa lotta, che mi uccide
l'anima e logora a poco a poco il mio povero corpo! —
Una sera che Guido voleva farle firmare un'altra carta di cessione,
la contessa, resistendo alle minacce abiette di lui, disse con voce
ferma che non avrebbe firmato se non a patto di lasciar subito il
palazzo e ritirarsi lontano da lui, nella sua villa, dove non
sarebbe stata testimone di tante impudenze, dove avrebbe vissuta più
sicura insieme alla sua creatura.
Il conte si ritirò senza dare risposta; voleva consultarsi con Nara.
Questa si strinse nelle spalle, e le rispose con un misterioso
sorriso:
— Lasciala andare, tanto ne ha per poco, vedi, e nel caso che
resistesse, allora ci penseremo.
Per quanto Guido fosse depravato, pure risentì a quelle parole una
specie di angoscia e divenne livido in volto.
— Spero, — balbettò — che non avremo bisogno di giungere a questo
estremo. —
Nara sorrise in aria ironica.
— Lo sapevo! — esclamò. — Ecco l'uomo forte, che sviene ad una
semplice supposizione! Ah! ah! scommetto che se tu dovessi punire un
rivale, la mano ti tremerebbe ed avresti paura.
— Nara! — gridò il giovane con voce convulsa — non parlare così:
vuoi che io schiacci quella donna sotto i miei piedi?
— No, non ti mettere con quell'aria truce, non far l'Otello; non si
tratta di un delitto, ma di una cosa assai più semplice; una burla
graziosa, ma che una burla?... Una lezione, a lei che mi ha
oltraggiata, ed ha chiamato te vile, capisci!
— Nara, finiscila, mi uccidi co’ tuoi sarcasmi. —
L'infame ballerina gli gettò le braccia al collo e lo baciò sulle
labbra.
— Orsù, amor mio, non ti adirare, manda pure all’erba quella donna;
al resto penseremo più tardi.
— Dunque vado a darle il mio consenso?
— Ma sì, purché firmi, ci siamo intesi; del resto sai, io ne ho
abbastanza di questa soggezione; quando lei sarà in campagna,
diverrò la padrona di questa casa, come lo sono del tuo cuore.
— Cara Nara!...
— Io sono gelosa, tu lo sai; gelosa di colei, alla quale, malgrado
tutto, sei legato; e l'odio tanto, quanto amo te. Guido, io morrei,
se tu tornassi a tua moglie! —
E fissò sul conte i suoi occhi umidi, languidi, morenti, piegando la
sua persona sulle braccia di lui come se dovesse svenire, mentre le
sue labbra semiaperte, lasciavano sfuggire un infocato sospiro.
Il conte si sentì infiammare le guance; gli occhi brillarono di
passione, e chinandosi verso Nara, con voce palpitante:
— Io amo te sola, te sola, Nara: tu sei la padrona di tutto il mio
cuore, e tu sei mia.... mia.... —
Pochi minuti dopo, Guido rientrava in camera di sua moglie col
desiderato permesso, in cambio della firma voluta da Nara.
La contessa in quel momento le parve pagare a buon prezzo la sua
libertà.
Ella si ritirò alla villa Rambaldi, e per qualche mese fu lasciata
tranquilla. I contadini, la servitù, il giardiniere, si sarebbero
fatti tagliare a pezzi per la buona contessa, l'angelo benefico di
quei luoghi. Quando pallida e mesta, colla sua bella bambina in
braccio, passeggiava nei viali della villa, quanti l'incontravano,
si sentivano tentati d'inginocchiarsi dinanzi a lei, come ad una
madonna.
Povera Clara! Aveva bisogno di pace, di quiete, di solitudine, per
calmare i tormenti del cuore. Ma per quanto ella facesse, non poteva
dimenticare intieramente l'uomo che l'aveva amata, che le aveva dato
il suo nome, che per il primo aveva fatto battere il suo vergine
cuore.
Ah! fosse tornato a lei pentito! Dio era buono. Chissà che un
giorno, Guido, vergognoso di sè, non avesse sentito tutta la
bassezza della sua condotta, si fosse persuaso dell'innocenza di sua
moglie, e fosse tornato a lei buono, amoroso, gentile come una
volta!
Qual raggio di pura felicità le appariva sulla fronte così pensando!
Come la sua bellezza candida, raffaellesca, mostrava l'anima sua
pura, splendida, la più bell’anima uscita dal soffio divino del
Creatore!
Sul tramonto di un bella giornata, mentre Clara, seduta presso la
finestra di un elegante salottino a pian terreno, faceva saltellare
sulle ginocchia la sua bambina, che già la chiamava a nome, le
parlava con quel caro linguaggio infantile, che solo le madri
comprendono, una carrozza si fermò al portone della villa e ne scese
il conte Guido.
Quand'egli aperse, senza farsi annunziare, l'uscio del salotto,
Clara lasciò sfuggire un lieve grido, e divenne bianca come un
cadavere, si strinse al seno la figlia, e guardò, coi suoi begli
occhi timidi e spauriti, il marito, il quale si era avanzato, e
senza togliersi il cappello, era venuto a sedere vicino a lei.
Clara chiuse per un momento gli occhi per tema d'ingannarsi, poi li
riaprì con una vaga speranza: quella di vedere un volto sorridente,
pentito; ma non scòrse che un uomo freddo, serio, accigliato, che la
fissava con un sorriso sarcastico e in aria di motteggio.
— Vedo che l'aria di campagna vi si confà a meraviglia, — disse —
godo di trovarvi in perfetta salute ed abbastanza lieta. —
La contessa tremava per tutte le membra, senza aver forza di
rispondere.
Lilia si avviticchiava al collo di Clara volgendo gli occhi spauriti
sul padre, che ella non riconosceva, perchè non avea mai avuto per
lei nè un bacio, nè una carezza.
Guido le afferrò un lembo del vestitino bianco: la bambina gettò uno
strillo, mentre nascondeva la testina in seno alla madre.
— Rimandate la piccina: debbo parlarvi, — disse il conte con
impazienza.
— Lilia non è ancora in grado di comprendervi; — osservò timidamente
la contessa — potete quindi parlare liberamente.
— Vi dico che la piccina mi annoia, — esclamò Guido con gesto
imperioso.
Lilia a quella voce irata si diede a strillare con forza. Allora la
contessa si alzò, e tenendo stretta al seno la piccina, cercando di
calmarla coi baci e colle carezze, uscì dal salotto.
Pochi minuti dopo ritornava sola.
Ella non si pose a sedere, ma rimase in piedi, presso ad un tavolino
ingombro di libri e di giornali.
— Che avete da dirmi? — chiese con molta naturalezza — ora siamo
soli, signore. —
Guido l'osservava attentamente.
— Vi prego di sedere: c'intenderemo presto.
— A vostro agio, signore, — rispose Clara con dignità — io posso
ascoltarvi anche in piedi. —
Il conte si strinse nelle spalle.
— Fate come vi accomoda; non insisto. Voi capirete che sono venuto
qui, spinto dalla necessità. —
Clara provò un'angoscia straordinaria; ma i suoi lineamenti rimasero
tranquilli.
— Alcune cattive speculazioni, — continuò Guido — mi hanno rovinato
e mi trovo costretto a vendere questa villa, che, se non m'inganno,
m'appartiene.
— Vi apparteneva, signor conte, e continuava a chiamarsi col vostro
nome, ma morto il mio povero padre, voi avete venduto la villa, dove
trascorsi i miei anni più felici, per ricomprare questa che era
carica d'ipoteche. Onde credo che adesso appartenga, non tanto a me
quanto a voi, o piuttosto appartenga a nostra figlia.
— A vostra figlia, giacché io l'ho rinnegata! — esclamò Guido con
voce soffocata dall'ira. — Io vi ripeto, intanto, che la villa è
mia, e sono padrone di venderla a mio piacere, a meno....
La contessa lo guardava senza comprenderlo.
— A meno, che non vogliate acquistarla voi, signora; disse con amara
ironia — ma vi avverto che ho bisogno di denaro subito, e molto
denaro. —
Il viso di Clara s'imporporò.
— Il denaro l'avrete; — assicurò cercando di padroneggiare la sua
potente emozione — ma anch'io vi avverto che questo sarà l'ultimo;
voi avete sciupata tutta la vostra sostanza, signor conte, ma non
farete altrettanto di quella che appartiene a mia figlia ed a mio
fratello. —
Guido si morse le labbra e fece un gesto come per interrompere la
contessa.
Ma questa proseguì:
— Ho veduto pochi giorni fa il mio notaro, e mi ha dato dei
ragguagli che io ignoravo intorno alla mia sostanza. Io posso
disporre come voglio della mia ricchezza ed ho fatto testamento. —
Guido non poté frenarsi. Le parole della moglie sembravano
annientarlo.
— Signora, — balbettò a denti stretti — voi parlate come se foste la
sola padrona.
— Di mia figlia sì, e se io morissi non è già all'uomo che ha osato
di respingerla dal suo seno, le ha negato l'affetto che di diritto
le spettava, all'uomo che osò insultare una povera donna innocente,
vittima della più atroce perfidia, all'uomo che avrebbe dovuto per
il primo rispettarla, che io l'affiderei; oh! no,... preferirei
piuttosto vederla morire con me.
— Clara! —
Questa volta fu Guido che pronunziò quel nome. Sì, egli si sentiva
colpevole, ma si sentiva altresì come stretto in un cerchio di
ferro, che non poteva spezzare.
La contessa trasalì, ma mostrò di non averlo inteso.
— Ed ora ditemi, signore, giacché avete fretta, ditemi: quanto vi
abbisogna?
— La mia presenza vi è dunque molto odiosa, Clara. —
Il suo nome, pronunciato così due volte, la commosse un poco, per
quanto cercasse di nasconderlo.
Le trine del suo corsetto ondeggiavano per i palpiti precipitosi del
cuore. Ebbe un brivido da capo a piedi, ma fu un lampo.
— Ditemi, — ripeté — quanto vi abbisogna, perchè mia figlia mi
attende, signore. —
Guido fece un gesto minaccioso.
— Sempre vostra figlia,... ed osate ripetere che è mia, mentre
mostrate disprezzo, ed avete per lei, tutto l'affetto che portaste a
suo padre. —
Clara rialzò la bella e pallida testa.
— Sì, è vero! — esclamò — tutto l'affetto che un giorno un uomo
supplichevole ai miei piedi, in presenza di mio padre, giurava di
consacrarsi a me, e per un anno intiero mi rese infatti la più
felice e superba delle creature; tutto l'affetto che sentii per
l'uomo nobile, buono, generoso, l’ho riserbato per mia figlia,
perchè quell'uomo è morto per me, non è più che un ricordo lontano,
svanito, di cui serbo in fondo all'anima una casta memoria.
— Non vi capisco, signora.
— Lo credo, ma interrogate i vostri ricordi passati e il cuore vi
risponderà. —
Guido trasalì alquanto, e per un moto involontario afferrò una mano
della moglie e la fissò negli occhi.
— Innocente? Sei innocente?... parla? Perchè io possa crederti....
— Non mi avete creduta dinanzi alla culla di vostra figlia, signore,
non vi costringerò a mentire un'altra volta a voi stesso.
— Dunque, Clara, non mi ami proprio più?
— Perchè dovrei amarvi? —
Guido suo malgrado cedeva a quella fiera legge d'amore, che comanda
la debolezza, dopo aver ispirata l'audacia.
Lontano da Nara, dinanzi a quella celestiale creatura, che in fondo
al cuore non poteva ritenere colpevole, egli si sentiva commosso; la
benda orribile che gli velava la fronte, sembrava squarciarsi.
— Perchè dovresti amarmi? — ripeté — ti ho offesa, è vero, Clara, ti
ho offesa, ma quella lettera mi aveva messo l'inferno nell'animo.
— Forse avete ragione; la colpa fu mia, che non ebbi confidenza in
voi, che vi nascosi il segreto della mia famiglia. —
Così parlando, Clara aveva congiunte le mani, ed il suo bel volto
pallido, estenuato, mostrava tutta l'espressione del profondo dolore
che provava.
Guido ebbe un momento di vero rimorso. Egli aveva dimenticato il
motivo per cui era venuto, aveva dimenticata la ballerina, e
rimaneva muto, con gli occhi spalancati in faccia a quella creatura,
così bella, in quell'atteggiamento pieno di sofferenza e di
abbandono. E stava per cadere ai piedi di lei, domandarle perdono,
quando fu distolto bruscamente dalla sua estasi da una donna, che in
sembianze irate entrava nel salotto.
Era la cameriera della contessa.
— Signore, — diss'ella con voce soffocata — domando perdono di
essere entrata senza chiedere permesso, ma vi è di là una persona
che voleva venir qui in tutti i modi, perchè ha bisogno di parlare
al signor conte. —
Un leggiero rossore coprì il viso del conte, che parve in preda alla
più viva inquietudine, mentre Clara, pallida come una morta ma con
sembiante tranquillo, disse:
— Potete lasciar entrar la persona che domanda del signor conte.
— No, — interruppe precipitosamente Guido — vado io di là, torno
subito. —
E uscì dal salotto.
Clara si rivolse alla cameriera.
— Quella persona, è una donna, non è vero?
— Sì, signora contessa.
— Una donna giovane e bella?
— Non so se sia bella, signora, per me ha certi occhi sfacciati e
un'aria audace che impone. Si è presentata come se fosse la padrona,
e voleva passar qui senza riguardo. —
Clara si nascose il volto fra le mani.
— Quale imprudenza! — mormorò — è finita! quella donna non lo
lascierà più; Dio mio, è troppo soffrire così! —
Si scosse, perchè sentì riaprire l'uscio. Non ebbe il coraggio di
guardare, ma sentì la voce di Guido che diceva alla cameriera:
— Un'altra volta portate meglio le ambasciate; non disturbate i
padroni, per cose da nulla! Andate. —
Clara lasciò ricadere le braccia, ed aperti gli occhi vide il conte,
che chiudeva bruscamente l'uscio dietro la cameriera.
Ella non fece una sola interrogazione; non disse una parola; ma vide
Guido pallido e fremente, e capì che faceva uno sforzo violento su
sè stesso per contenersi.
Egli non sedette più, si avvicinò al tavolino, ove si tenne in
piedi, e rivolgendosi a Clara, con voce che cercò di rendere calma
ed uguale, disse:
— La persona che voleva vedermi....
— Non vi chieggo il suo nome, signor conte, — l'interruppe Clara —
voi siete padrone di ricevere chi più vi piace. —
Guido parve di sentire una certa ironia nella voce di Clara, e
questo bastò per inasprirlo.
— Avete ragione, non ho conti da rendervi, veniamo all'importante;
vi ho già spiegata la ragione della mia presenza qui, lo scopo della
mia visita.
— Me l'avete detto: volete denaro, ed io vi ripeto che sono pronta a
sborsarlo; ma per l'ultima volta. —
Guido lasciò sfuggire un lieve gesto di malumore.
— Venderò questo possesso, — disse con un sorriso di sdegno e di
trionfo — e voi non potreste certo impedirlo, perchè il contratto di
acquisto è in mio nome.
— E quanto è valutato questo possesso?
— Quarantamila lire.
— Sono pronta a sborsarvele, per dirmi almeno padrona in questa
casa, per poter far scacciare dai miei servi quella sfacciata donna
che osa porre il piede sulla soglia della casa onesta, dove vive mia
figlia! —
Guido sentì l'insulto e divenne livido, ma riprendendo tosto il tono
sardonico e il suo sangue freddo:
— Non so a chi vogliate alludere, signora contessa.
— Alla vostra amante, che è di là ad aspettarvi..
— Ma signora!
— Ella è là, sì; — disse la contessa in preda ad una viva
eccitazione, facendo un passo verso la porta — è là, la sento. —
Gli occhi di Clara brillavano di uno strano fuoco; il pallore del
suo volto si era aumentato, tanto che Guido ebbe paura, e provò nel
suo animo come l'impressione del taglio dell'acciaio sulla carne
viva.
— Ebbene, sì, è là; — disse balbettando — ma non temete, non entrerà
qui.
— Ma io andrò da lei, superando l'orribile repugnanza che m'ispira,
perchè quella donna ha bisogno di una dura lezione. —
E fece un passo, scoppiando in un riso sonoro, in un riso da pazza.
La faccia di Guido arrossò di sangue, egli si pose fra l'uscio e
lei, e quando Clara gli fu vicino, il conte la prese brutalmente per
i polsi, la costrinse a retrocedere, scotendo infuriato quel corpo
grazioso e sottile, che cominciava a perdere tutte le forze, e finì
col cadere rovesciata su di una poltrona, nel mentre le correva
nella gola un rantolo angoscioso, ed i denti le stridevano, come se
la poveretta fosse stata assalita della febbre. Si capiva che la
contessa non comprendeva neppure più quanto aveva fatto, quanto le
era successo; la sua eccitazione si era calmata, i suoi occhi
stralunati vagavano all'intorno come se cercassero dove si trovava.
Guido non si commosse a quella vista. Aveva fretta di andarsene.
Nara l'aspettava e non era donna da pazientare.
— Dammi la chiave del tuo scrigno, — disse a voce bassa alla
contessa.
Questa fece sentire un riso soffocato e sinistro. Guido impallidì e
sentì gelarsi il sangue.
— Che ella impazzisca? — pensò — tanto vale, io non posso aspettare.
—
E si avviò nella stanza della contessa, senza che ella facesse
nessun movimento per rattenerlo. Un momento dopo Guido rientrava con
un fascio di fogli di banca ed un portafoglio. Volle mostrarli alla
contessa, ma quando si avvicinò alla poltrona, vide Clara cogli
occhi chiusi, livida, irrigidita, come morta.
Guido si strinse nelle spalle.
— Un altro svenimento.... — mormorò — si sviene spesso! —
Dall'altro lato della porta si udì un fruscìo d'abiti di seta. Guido
trasalì, e tirò il cordone del campanello. Comparve la governante.
— La vostra padrona si sente poco bene, — disse — mettetela a letto,
manderò il medico. —
E raggiunse in fretta la ballerina.
Mentre i due infami si allontanavano, la contessa riapriva gli occhi
e chiedeva, sorpresa, che cos'era accaduto. La governante
l’assisteva, e la piccola Lilia stava giuocando presso le ginocchia
di lei.
— Devo aver fatto un brutto sogno.... — disse.
La governante trasalì.
— Signora contessa, è vero che avete sognato. —
Clara si portò la mano alla fronte.
— Non può essere che così, — esclamò — sarebbe troppa infamia se
fosse la realtà! Dio non lo permetterebbe. Però, è strano, mi sento
debole, abbattuta.
— Sarebbe bene che la signora andasse a letto; — disse la governante
— ha fatto male la signora, a dormire in questa poltrona.
— Hai ragione, ho la testa vuota, ti sento parlare, ma non afferro
bene il senso delle tue parole. Non c’è stato nessuno qui, non è
vero? —
La governante si trovò alquanto imbarazzata.
Fortunatamente Lilia, arrampicandosi sulle ginocchia della contessa,
diede una diversione alle sue idee.
— Caro angelo amato, vieni dalla mamma tua, — disse sollevandola a
stento fra le braccia — tu sei la mia vita; ah! se non fosse per te,
come vorrei morire! —
Ed asciugatesi le lacrime, che le scorrevano sulle pallide guance,
si alzò, e sempre colla bambina stretta fra le braccia, si avviò in
camera sua.
La cameriera non la seguì; ma non era scorso un minuto, che un grido
lungo, straziante le ferì l'orecchie. Di un balzo fu nella camera
della contessa, e vide la signora sdraiata sopra una poltrona, con
gli occhi spalancati, le labbra livide, convulse, le braccia strette
al corpicino di Lilia che piangeva.
La cameriera si affrettò a toglierle dalle braccia la bambina, e con
voce commossa domandò:
— Che avete, signora contessa? —
Clara divenne ancora più livida.
— Nulla, nulla.... — balbettò — un po’ di capogiro.... ma è
passato.... porta di là la bambina, lasciami sola, ho bisogno di
solitudine, di riposo. —
La cameriera non insisté.
Appena la porta fu chiusa dietro di lei, Clara balzò in piedi e
corse ad uno scrigno, del quale si vedevano i cassetti aperti,
vuotati, e si passò le mani convulse, increspate sulla fronte.
— Anche ladro! — mormorò — ladro, e per lei, per quella donna!
Dunque non avevo sognato: egli era qui, sì, era venuto per chiedermi
del denaro, poi si era mostrato pentito, commosso, stava per
chiedermi perdono, era per cadere ai miei piedi, quando giunse
quell’infame donna. Che cos'è successo? Non so nulla.... — continuò
con voce straziante — ma ora questa cassetta aperta, spogliata, mi
svela la verità; egli si è approfittato del mio svenimento per
togliermi il denaro, per derubarmi; ed è fuggito come un vile, come
un ladro, con la sua complice. Dio mio, Dio mio! Che orrore! —
La contessa proruppe in un pianto disperato, cadendo in ginocchio.
Oh! non era la perdita del denaro che l'angosciava così, ma la
perdita delle sue ultime illusioni, delle sue ultime speranze.
Ella intravedeva un avvenire orribile per sè e per sua figlia. Sì;
Guido, a poco a poco, vicino a quell'infame creatura, avrebbe scesi
tutti i gradini del vizio, della degradazione. Egli avrebbe
certamente spogliato lei e la figlia.
Sarebbe stato capace di un delitto, per soddisfare l'ingordigia, la
passione di Nara! Per coprir d'oro quella donna, Guido sarebbe
passato sul cadavere della moglie e della figliuola!
Clara si sentiva perduta, e nessuno accorreva in suo soccorso. Ella
cercò di calmare i singhiozzi che le squarciavano il petto oppresso,
prese un foglio di carta, una penna, ed interrompendosi ad ogni
istante, per asciugare le lacrime che cadevano copiose sulla carta,
scrisse alcune righe sconnesse, che mostravano l'agitazione della
sua anima, lo sconvolgimento del suo cervello.
«Caro Alfonso,
«Se tu tardi ancora a venire in mio soccorso, io e mia figlia siamo
perdute; quell'uomo è capace di tutto, l'ho compreso.
« In qualunque luogo ti giunga questa lettera, parti, parti subito.
Tua sorella ti chiama, invoca il tuo aiuto, tua sorella è alla
disperazione.
«Vieni, non prolungare la mia agonia: sono in campagna, alla villa
Rambaldi; se vieni a Firenze, non metter piede nel mio palazzo;
guai, guai per entrambi!
«Vieni subito, in nome dell'amore che mi portasti, in nome di nostra
madre; se tu ritardassi un poco, troveresti forse morta la povera
Clara, ed allora che diverrebbe di mia figlia?... Non voglio
pensarci; io non ho speranza che in te solo. La tua infelice e
sventurata sorella
«Clara.»
Piegato il foglio, messolo in una busta e fattovi l'indirizzo, la
contessa si rovesciò sulla seggiola e con voce soffocata:
— Ah! sì, prevedo che la mia morte non tarderà, — disse — e
gl'infami esulteranno; un presentimento mi dice, che essi mi
uccideranno! —
I presentimenti di Clara questa volta non l'ingannavano.
XX.
Guido Rambaldi, soffocando ormai ogni rimorso, aveva perduto il
ritegno, viveva pubblicamente con Nara e non si ricordava più della
moglie se non quando gli urgeva il denaro. Al primo ignobile passo,
fatto sulla strada del vizio, ne fecero seguito cento altri.
Alla riservatezza, che un giorno lo distingueva, ne era susseguita
la tremenda, vertiginosa follìa dei sensi. Nara lo dominava
completamente. Il palazzo del conte era divenuto il ritrovo di tutti
gli sfaccendati. Le orgie notturne si seguivano. Nara si credeva
tutto lecito, e finiva per attutire ogni buon sentimento, ogni
rimorso dall'anima del conte.
Alcuni degli amici e scioperati compagni di Guido, si consideravano
onorati di colmare d'omaggi quella vile creatura, che usurpava il
posto di una santa. Ma molti resistettero a cotali bassezze; il
marchese di Chârtre aveva scritta all'amico una lettera piena di
disprezzo e della quale Nara aveva fatto una pallottola, dicendo che
era stata dettata soltanto dal dispetto che lo rodeva, perchè ella
non aveva voluto saperne di lui.
Ma a Nara non bastava essere l'amante, la favorita del conte, voleva
divenire sua moglie: tanto più che il patrimonio di Guido era
intieramente sfumato e le ricchezze di Clara divenivano a loro
necessarie. Ogni qual volta si trovavano in bisogno, Nara minacciava
Guido di abbandonarlo, gli additava gli amanti che la desideravano,
e gli diceva, con spudoratezza, che se non pensava a soddisfarla,
sarebbe andata a star con un altro.
Guido finì per persuadersi che bisognava sbarazzarsi di Clara.
Frattanto l'angelica creatura era divenuta poco men che uno
scheletro, pur tuttavia si ostinava a vivere, si aggrappava alla
vita coll'energia della disperazione. Forse se Alfonso fosse venuto,
ella dopo avergli consegnata la figlia, sarebbe morta col sorriso
della martire bisognosa di riposo; fors'anche avrebbe benedetto
Iddio, che la prendeva con sè.
Soffriva tanto!
Ma fino a che Alfonso non rispondeva, bisognava vivere; vivere per
Lilia. Che ne sarebbe stato dell'innocente creaturina, priva della
madre?
Sul pomeriggio di un giorno d'estate, Guido e Nara erano insieme in
un salotto, nel palazzo del conte, a Firenze. Stavano tutt’e due
taciturni. Guido, presso ad un tavolino, pareva intento a sfogliare
un album. Nara, sdraiata sopra un divano, l'osservava con avido
sguardo.
Ad un tratto Guido chiuse l'album e dètte un sonoro pugno sul
tavolino.
— Maledizione! Quest'insulto a me? lo vendicherò! —
Nara, ebbe un feroce sorriso.
— La migliore vendetta presso un creditore, sarebbe di pagarlo
subito, — disse con accento sardonico.
— Pagarlo? Gli ultimi denari li ho persi al giuoco, ieri sera.
— Non dovevi giuocare!
— Nara, vuoi farmi impazzire dalla rabbia?
— Sì, io lo vorrei, ché almeno allora comprenderesti la tua ridicola
condizione. Con una moglie straricca, sei come un ragazzo sotto
tutela, e prendi que’ pochi denari che ella ti dà come elemosina. Vi
è una condizione più vergognosa?
— A sentirti, sembrerebbe che io m'inginocchiassi dinanzi a mia
moglie! Non so comandare, quando voglio?
— Ah! ah! Tua moglie si ride dei tuoi comandi, e seguita a vivere.
— Ne avrà per poco!
— Ne avrà abbastanza per disporre delle sue cose e di sua figlia, se
noi non ci mettiamo rimedio. —
Nara calcolava su queste parole, che avevano un terribile
significato.
Guido non rispose.
— Ah! questa vita non può durare; — seguitò spietatamente Nara — il
duca Franchi mette ai miei piedi il suo cuore e la sua fortuna:
finirò coll'accettarla. —
Guido divenne mortalmente pallido, e fu di un balzo vicino alla
ballerina, di cui prese le mani, stringendole fra le sue, in modo da
stritolarle.
— Non lo farai, — disse a denti stretti — non lo farai! —
Nara diede in uno scoppio di risa.
— E perchè no? — rispose. — Forse sono io tua moglie?
— Lo sarai, Nara, lo sarai.
— Ah! ah! in qual modo? Se tu mi amassi, vedi, a quest'ora sarei già
al posto di lei.
— Taci! — gridò Guido atterrito, e con un viso da far paura — non so
a quali orribili pensieri mi spingeresti, parlandomi in tal modo.
— Parole, parole! — replicò Nara, con accento sardonico — tu ti
burli di me, tu non mi hai mai amata, tu non mi ami.
— Nara!…
— Sì, tu sei un ragazzo. Io avrei voluto un uomo superiore a
qualunque pregiudizio, superiore a tutto.... un uomo di coraggio,
d'animo risoluto, che mi dominasse colla sua audacia, che non
indietreggiasse dinanzi ad alcuno, e, invece, mi trovo fra’ piedi
tu, che sei debole, irresoluto, che hai paura perfino di te stesso.
— Ho paura! — disse Guido, con voce convulsa — mettimi alla prova.
— Bah! ne sono stanca; — disse Nara — e, dopo tutto, preferisco il
duca.
— Nara, Nara, — esclamò il conte, soffocato dalla rabbia, dalla
gelosia — non mi parlar più di quell'uomo....
— Sì, ne parlerò a tuo dispetto, perchè trovo in lui ciò che non ho
trovato in te: dello spirito, dell'energia, dell'ardire; ecco
l'ideale che io amo! —
Guido divenne livido in volto, e fissò sulla giovane le sue pupille
infocate, mentre stringeva forsennato i pugni.
Ad un'altra donna, in quel momento, il conte avrebbe messo paura; ma
a Nara no: ella era una donna diversa dalle altre.
La ballerina cinse col braccio nudo il collo del giovane, ed
appoggiò la bella testa sulla spalla di lui.
A quel contatto dolcissimo, un fremito di desiderio, di voluttà,
scorse nelle membra del conte, a malgrado dell'ira in lui eccitata
dalle parole sardoniche di lei.
— Nara, tu mi ami, non è vero? Tu non seguirai il duca....
— No, se farai a modo mio.
— Parla!
— Ah! tu non sai, Guido, quanto ti ami, quanto io sia gelosa di te;
l'idea che un'altra donna ti appartiene, mi sconvolge la testa. Tu
soffri pensando che io possa appartenere al duca, e non rifletti
quello che prova la tua Nara sapendoti legato ad una catena, che non
potrai facilmente spezzare.
— Ma non è lo stesso, Nara; io non amo mia moglie, e dal giorno in
cui l'abbandonai per te, sai che non ho da rimproverarmi un solo
torto; sai che io non l'ho più avvicinata, non sono vissuto che per
te, per te sola. —
Nara sembrava colta da un brivido, e stringendosi viepiù al conte:
— Non basta, non basta! — mormorò a voce bassa, quasi sulle labbra
di lui — finché non sarai libero, intieramente libero, io temerò
sempre. La contessa è malata, è vero, ma l'amor materno le dà il
coraggio e la forza di vivere, ed il nostro amore deve darci la
forza di sbarazzarci di lei, di vendicarci degli insulti, che ci ha
un giorno rivolti. —
Guido comprese, e suo malgrado, un gelo gli corse nelle vene. Egli
era preso come da vertigine.
— Sbarazzarsi di lei? — ripeté. — In qual modo?
— Te lo dissi un'altra volta. Io tengo un veleno che non lascia
traccia, e che addormenta per sempre.
— Nara! — esclamò il conte perplesso fra il desiderio e l'orrore —
scaccia questo diabolico pensiero!
— E allora dimmi come vuoi sbarazzarti di lei?... Ed è così che mi
ami? Ah! mio Guido, quanta felicità per noi, quando saremo liberi,
ricchi, favolosamente ricchi! Perchè tua figlia, o piuttosto, la
figlia di quell'altro, rimarrà sola in nostro potere, e tu sai che i
padri ereditano dai figliuoli.... Oh! esser tua per sempre, senza
ostacoli, senza che alcuno si frapponga fra noi, fra il nostro
amore, è l'ebbrezza.... è la felicità.... è il paradiso! non è vero,
Guido mio? — soggiunse Nara, sedendo quasi sulle ginocchia del
conte, abbracciandolo strettamente, sfiorandogli le labbra avide di
baci. — Pensa, infine, che quella donna ti ha tradito, e tu hai il
diritto di vendicarti. Scegli fra me e lei: fra la tua Nara che ti
adora, che non ha avuto altro amore che per te, e quella pallida
contessa che t'inganna, ti disprezza. —
.
. . .
. . .
. . .
. . .
Mezz'ora dopo questo colloquio, Guido, con la testa ancora in
fiamme, sedeva dinanzi al tavolino, e scriveva un biglietto che
Nara, appoggiata fremente alle spalle del conte, gli dettava:
«Clara,
«Avrei bisogno di parlarvi non solo per voi, ma per vostra figlia.
«Questa vita non può durare, ed è meglio porvi un termine. Io ho
deciso di lasciare l'Italia e di rendervi la piena vostra libertà.
Voi sarete del mio stesso parere, cioè di non fare un chiasso
inutile, uno scandalo, di cui un giorno vostra figlia ne
risentirebbe gli effetti.
«Bisogna quindi ch'io vi parli, per combinare fra noi ogni cosa,
senza strepito.
«Vi attendo domani al mio palazzo: sarò solo; del resto i miei servi
non potranno stupirsi della vostra presenza, perchè in faccia alla
società siete sempre mia moglie.
« Spero che per vostro e mio interesse, non mancherete.
« Vi saluto
«Guido.»
Quando la contessa Clara ricevette questo biglietto, trasalì. Uno
strano presentimento le strinse il cuore. Avrebbe voluto rifiutare
l'invito, ma capiva, che se il conte desiderava di parlarle, non
avrebbe mancato di cercare un altro mezzo, e di fare uno scandalo,
che ella sentiva di dover evitare se non per sè, almeno per sua
figlia.
Eppoi i suoi cupi timori potevano esser vani; forse Guido non voleva
altro che tentar un accordo, per ottenere una forte somma di denaro.
Che fosse un'insidia, non ci pensava, nè voleva pensarci.
Pure l'idea di trovarsi ancora sola con quell'uomo, che oramai
riteneva capace di tutto, la faceva rabbrividire, la spaventava.
— Condurrò meco mia figlia, — pensò l'infelice creatura.
All'indomani era pronta. Vestì la sua Lilia che agitava le manine
dal contento, ed ordinò la carrozza. La governante doveva
accompagnarla.
Quando, prima di uscire, Clara si guardò nello specchio, fu
spaventata vedendosi pallida come una morta, colle labbra livide,
gli occhi luccicanti come per febbre.
— Mi sembra un'imprudenza uscire, — le disse la governante, che
l'osservava con inquietudine — voi dovete sentirvi male, signora! —
Clara lasciò ricomparire fra le labbra un dolce sorriso.
— Non sono più che un fantasma, è vero, ma mi sento molto forte;
vivrò per mia figlia; sta’ sicura. —
Mentre l'elegante carrozza della contessa la conduceva verso la
città, Clara si tenne sempre sulle ginocchia la sua bambina.
— Dove va la signora contessa? — avea chiesto il cocchiere.
— Al mio palazzo. —
E in pari tempo guardò l'orologio e aggiunse:
— Presto, Giannino, altrimenti arriverò in ritardo. —
La governante non fece altra interrogazione, ma nonostante si sentì
un po' inquieta.
Quando la carrozza fu dinanzi al palazzo, la contessa scese sola,
dopo aver deposta Lilia fra le braccia della governante.
— Aspettami qui, — disse — non mi fermerò più di un quarto d'ora. Ho
pensato meglio di non condurre su la piccina. —
Guido l'attendeva in sala, e quando la vide entrare, pallida come
una morta, non poté reprimere un senso di stupore, forse di rimorso.
— Se Nara non aveva fretta, — pensò — ci saremmo meglio sbarazzati
di lei. —
Ma, ricacciando tosto questo pensiero, fece un inchino a sua moglie
e con voce che si sforzò di render calma:
— Grazie di essere venuta; — disse — ma sedete, signora, vi reggete
appena in piedi. —
Clara ubbidì, perchè infatti si sentiva mancare.
— Signor conte, — rispose — sono venuta perchè desideravo, come voi,
porre un termine a questo stato di cose. Forse, avrete compreso, che
fra noi è d'uopo di una separazione. —
La fronte di Guido si corrugò alquanto, ma le sue labbra ebbero un
sorriso sdegnoso.
— Siamo separati da un anno, mi pare....
— Signore, è verissimo, ma ciò non basta; per me e soprattutto per
mia figlia, desidero una separazione legale in tutte le regole. —
Il viso di Guido s'imporporò.
— Siete venuta qui per insultarmi? – disse.
La povera Clara tremò.
— Non ne avevo alcuna intenzione, signore; ma, secondo il vostro
biglietto, credevo che mi aveste desiderato appunto per intenderci
circa la divisione, ma vedo che mi sono ingannata.
Guido riprese il suo sangue freddo.
— Non vi siete ingannata affatto, signora: solo io non amo far del
chiasso, dello scandalo, intorno al mio nome: non amo che la società
parli di noi. —
Un sorriso, questa volta di un'amarezza straziante, sfiorò le labbra
della contessa.
— La società, — disse — a quest'ora vi ha giudicato.
— Clara! —
Ella mostrò di non avere inteso e proseguì:
— Del resto, ditemi subito, signor conte, quello che desiderate da
me: mia figlia mi aspetta giù in carrozza. —
Guido fece un gesto di contrarietà.
— Perchè non l'avete condotta con voi? —
Clara non rispose, ma lo sguardo che rivolse al marito, fu sì
fieramente altero, sì sdegnoso, che egli si fermò a mezzo, colle
labbra contratte.
— Parlate, dunque, ditemi lo scopo della vostra chiamata.
— Ve l’ho detto: ho deciso di lasciare per sempre l'Italia, e perciò
ho bisogno di una fortissima somma di denaro.
— Quello che mi avete rubato, è stato l'ultimo, signore. —
Guido fece un balzo come se avesse pestata una serpe, e sentì un
freddo sudore corrergli sulla fronte. Aveva dimenticata la scena
della villa, la rottura dello scrigno, il furto commesso. Quale
disprezzo e quale orrore doveva sentire per lui sua moglie? Egli era
incapace di formulare parola.
— Voi avete approfittato della debolezza di una povera donna, di una
povera madre, che non aveva la forza per difendersi.... — continuò
Clara con amarezza. — No, non avrei mai creduto, che una donna, una
creatura umana potesse far scendere l'uomo a un tal grado di
bassezza. Ma non impallidite, signore, nessuno all'infuori di me
sa....
— Basta, signora, basta; — l'interruppe furibondo Guido,
passeggiando per la stanza, fra vergognoso ed irritato.
— Se questo discorso v'incresce, lasciamolo da parte; — disse Clara
con voce triste e solenne — voi mi avete chiamata qui, perchè avete
bisogno di denaro; ed io vengo a dirvi che voi non ardirete di
toccare la sostanza che appartiene a nostra figlia.
— Vostra figlia!
— Mia e vostra, signore; — ripeté lentamente Clara — se volete
lasciar l'Italia, i mezzi non vi mancano.
— Che dite?!
— Vendete la vostra villa, signore; io faccio conto di ritirarmi
altrove, dove non sentirete più parlare di me.
— Ma voi siete venuta qui decisa di farmi impazzire. —
La povera donna sussultò.
— Io, signore? Io! Ah! non lo credete, non è vero? —
Clara si sentiva venir meno in quella lotta alla quale non era
preparata, e s'indeboliva a grado a grado.
Guido, che passeggiava violentemente nella stanza, ad un tratto si
fermò dinanzi a lei.
— Clara, — mormorò — non potreste dimenticare per un istante il
passato?
— Certi insulti, signore, penetrano nell'anima, in modo da non
poterli più sradicare; le mie ferite furono crudeli, e la cicatrice
sanguina ogni giorno. Signor conte, ve ne prego, per rispetto a voi
stesso, non ricordate più il passato. —
Guido si morse le labbra e stava per rispondere sdegnosamente,
quando la porta si aprì, e sotto quel vano di ombra scura, si
disegnò la figura di Nara.
— Ebbene, non avete finito ancora, e ci vuol tanto a farla firmare?
—
Clara, a quella comparsa, a quelle parole, si drizzò in piedi come
galvanizzata: i suoi occhi dilatati mettevano spavento; il suo
braccio sollevato pareva scagliare una maledizione sul conte.
— Lei qui ancora? Infami.... vili.... miserabili,... volete dunque
assassinarmi? Lasciatemi uscire; mia figlia mi chiama.
— Via, non rappresentiamo una commedia; — disse Nara — firmate
quella carta e poi ci allontaneremo. —
Sembrava che Clara non capisse.
— Dio si stancherà, alla fine! — disse con voce alterata, ma che
fece un effetto terribile. — Badate bene, non tarderà molto che
sarete colpiti da una mano più possente della mia: Dio benedetto
farà giustizia! —
Nara alzò le spalle, e scotendo Guido che si mostrava in preda ad
una sensazione di terrore:
— Ti lasci dunque imporre da quella sibilla? — esclamò. — Ella morrà
prima di noi, sta’ sicuro. —
A queste parole sardonicamente accentuate, la contessa si sentì
mancare e ricadde affranta sulla poltrona, chiudendo gli occhi.
— Ora è tempo, — disse Nara; e preso su di un caminetto un bicchiere
che sembrava pieno di acqua limpida, cristallina, lo pôrse a Guido.
Egli fece un balzo indietro.
— No, non posso, è impossibile....
— Sarai dunque sempre vile, — disse Nara con disprezzo, e fissò sul
conte uno sguardo penetrante, che pareva una sfida.
A Guido corse un gelo, un brivido nelle vene: ma, dominato da quello
sguardo feroce di disprezzo, afferrò il bicchiere e l'accostò alla
bocca della moglie.
Alle prime gocce che le inumidirono le labbra, Clara si riscosse;
aprì gli occhi, ma non comprese dapprima in qual luogo si trovasse e
che avvenisse di lei, non scòrse che due ombre confuse che si
chinavano, fino a sfiorarle il volto coi loro aliti.
— Bevi! — disse Guido, con voce chiara e tagliente.
Clara, che si sentiva la lingua arida, secca, prese macchinalmente
il bicchiere che il conte le porgeva e bevette avidamente alcuni
sorsi.
Questi bastarono a farla rinvenire affatto; ma allora, Clara, con un
grido di orrore e di spavento allontanò il bicchiere e balzando in
piedi:
— Che mi avete dato? — esclamò. — Infami, avete approfittato della
mia debolezza, per avvelenarmi. —
Guido era pallido come un morto.
— Siete pazza, — disse — vaneggiate. —
Nara rise.
— Te l'avevo detto, Guido! — esclamò — perchè farla rinvenire?
Invece di ringraziarti, si scaglia contro di te. —
Clara, sempre più spaventata e intravedendo forse una parte
dell'orribile verità, che pure si sforzava di allontanare dal
pensiero, esclamò:
— Indietro! Indietro! Lasciatemi passare, voglio andar via.
— Firmate questa carta, — disse freddamente Guido, ponendogliela
sotto gli occhi.
La povera Clara era in uno stato da far pietà.
Comprese che una più lunga resistenza sarebbe stata inutile.
Senza leggere, senza guardare il foglio, che le stendevano dinanzi,
firmò con mano convulsa, e folle di terrore si slanciò verso la
porta rimasta aperta, attraversò la sala, e l'anticamera in un
lampo, scese le scale senza vederle, e giunse nel vestibolo sempre
correndo.
La carrozza l'aspettava alla porta.
Cercando frenarsi, la contessa si avvicinò allo sportello, che lo
staffiere si era affrettato ad aprire.
Lilia agitò le braccia, emettendo delle grida di gioia e cercando
sfuggire dalle braccia della governante per andare in quelle della
madre.
La disgraziata ebbe la forza di sorridere alla figlia adorata e di
dire al domestico:
— Presto, dal mio notaro. —
Poi si abbandonò sui cuscini della carrozza, e parve svenire.
La governante ne fu spaventata.
— Che avete, signora contessa, vi sentite male?
— Nulla, un lieve capogiro, sono rimasta troppo in piedi. Lilia, dài
un bacio alla tua mamma; tu mi vuoi bene, non è vero, povera bimba?
—
La governante capì che qualche cosa di grave era successo alla
contessa; ma non osò di far parola. Solo guardando quel volto così
alterato, bianco come un fantasma, con le labbra livide, mormorava:
— Egli l'uccide.... l'infame.... uccide questa povera martire....
Ah! ve ne sono di quelle in cielo che hanno sofferto meno, come vi
sono all’ergastolo dei galeotti meno birbanti del conte. —
Mentre la cameriera fantasticava, la carrozza si fermò dinanzi alla
casa del notaro.
Anche lì la contessa Clara scese sola.
I giovani del notaro, appena la videro, si alzarono con rispetto, ed
uno di essi le si avvicinò, dicendo:
— La signora contessa desidera il notaro?
— Sì: forse non c’è?
— Oh, non si è mosso da stamattina, perchè ha un affare d’importanza
fra mano, e ci ha detto di non voler essere disturbato: ma credo che
per la signora farà un'eccezione. —
Così dicendo, tutto ossequioso, il giovane di studio si affrettò ad
annunziarla.
La porta del gabinetto si spalancò subito e sulla soglia apparve il
notaro in persona, che alla vista della contessa, non poté reprimere
un moto di penoso stupore.
Clara se ne accòrse e gli stese con un sorriso straziante la mano.
— Voi mi trovate molto cambiata, non è vero?
— Sì.... cioè no, siete molto pallida.... Ma entrate, ve ne prego,
accomodatevi. —
Clara si lasciò quasi cadere sulla poltrona che il notaro si era
affrettato a porgerle.
— Vi sentite male? — chiese con premura il vecchio che l'aveva
conosciuta bambina, e sapeva tutti i segreti dolori di quell'anima
nobile ed elevata — vi è successo qualche cosa?
— Ho veduto mio marito! — disse semplicemente Clara.
Il notaro osservò la contessa con un lungo sguardo di compassione.
Poi ad un tratto:
— Avete seguìto nessuno dei miei consigli? —
Clara scosse con mestizia il capo.
— Non ho avuto coraggio.
— Ma non avete pensato a vostra figlia?
— Per lei appunto, per il suo avvenire, ho voluto evitare uno
scandalo. —
Il notaro tacque commosso.
— Datemi un bicchier d'acqua, ve ne prego, — disse la contessa
sollevando la pallida testa — ho un'arsione alla gola, che
m'impedisce quasi di parlare. —
Il notaro si affrettò a suonare il campanello. Due minuti dopo egli
stesso offriva a Clara l'acqua richiesta. La contessa bevve
avidamente.
— Ah, come mi fa bene! — disse. — Ora mi sento meglio.... sì,
possiamo discorrere: sedete qui vicino a me. —
Il vecchio obbedì.
Ella pose la sua piccola mano in quella di lui e lo guardò bene in
faccia.
— Ditemi la verità, come mi trovate? —
Il notaro trasalì.
— Un po' pallida.... un po' stanca.... e nulla più.
— Ah, nulla di diverso dal consueto?
— No: forse soffrite?
— Ho una spina nell’anima che non mi lascia pace, — disse Clara col
suo melanconico sorriso.
— Ed è questo che distrugge il vostro corpo.
— Lo credete?
— Ne sono sicuro.
— Ebbene, proverò a dimenticare: ma non son qui venuta per dirvi
questo, bensì per parlare dei nostri interessi. Avete trovata quella
carta che dicevate importante per far valere i diritti di mio
fratello?
— L'ho trovata. —
Clara mandò un grido di gioia, e congiunse le mani con riconoscenza.
— Grazie, mio Dio, grazie; ora non temo più per lui nè per mia
figlia.
— Ma vi ha di più. —
Clara guardò il notaro con stupore.
— E che?
— Ho saputo dove si trova precisamente vostro fratello, e spero che
a quest'ora la vostra lettera sarà giunta a destino.
— Ed io che dubitavo di Dio! — esclamò la giovane donna, col volto
bagnato di lacrime.
La sua emozione fu così forte, che parve per un momento svenire.
Il notaro si affrettò a porgerle un altro bicchiere d'acqua.
Clara, quando vide appressarsi quel bicchiere alle labbra, fece un
moto di terrore.
— Che avete?
— Nulla, nulla.... — mormorò la povera contessa.
Ma ella si ricordò allora del bicchiere che Guido le aveva offerto
quando stava per rinvenire, e chiese a sè stessa se quella bevanda
che aveva macchinalmente ingoiata non avesse contenuto qualche cosa
di micidiale.
— Oh! sarebbe orribile, sarebbe orribile! — mormorò — e la mia
creatura.... —
Il notaro era imbarazzato e guardava la contessa con stupore e
compassione.
— Vi sentite meglio? — chiese.
Clara si sforzò a sorridere.
— Sì; — rispose — ma voglio regolar tutto, perchè non si sa mai
dalla vita alla morte.... —
Il notaro sospirò.
— Lasciate questi tristi pensieri, signora contessa.
— E se dovessi morire prima che giungesse mio fratello, io non
vorrei che mia figlia andasse nelle mani di suo padre.
— Dopo il vostro testamento, e la dichiarazione da me firmata, non è
possibile.
— Firmata?... Ma adesso mi ricordo.... Anche Guido mi ha fatto
firmare una carta.... Che vi era scritto? Dio mio!...
— Forse una cessione di denaro?
— Non so,... ma quella donna avea un sorriso orribile sulle labbra.
Signore, consigliatemi voi,... mi sembra di diventar pazza.
— Calmatevi, figlia mia, io stesso mi recherò subito da vostro
marito.
— Voi?
— Sì, e spero di condurlo ancora a buoni sentimenti. —
Clara trasalì.
— Finché avrà quella donna vicina, egli è perduto.
— Quella donna la faremo allontanare.
— Che dite! Ma allora si farebbe uno scandalo.
— E credete, povera creatura, che a quest'ora non si sappia da tutta
la città la condotta di vostro marito? credete che non vi si
compianga? —
Clara si nascose il volto fra le mani.
— Voi foste finora molto buona, ma se date a me piena libertà di
agire, avrete ancora il vostro Guido di una volta.
— Oh! non è possibile, non è possibile! —
Clara impallidiva sempre più.
Il notaro se ne accòrse.
— Non parliamo più di ciò, — disse — e permettetemi di accompagnarvi
fino alla carrozza; è stata una imprudenza uscire nello stato in cui
siete. Dovevate mandarmi a chiamare. Oggi che giorno è?
— Giovedì.
— Ebbene, domenica verrò a desinare da voi in campagna, e spero
portarvi delle buone notizie. —
Clara ebbe un melanconico sorriso.
— Oh! Grazie, grazie. —
Ella si alzò a stento dalla poltrona, ed appoggiata al braccio del
notaro, si ricondusse alla sua vettura.
Il notaro, rientrando nello studio, scuoteva tristamente la testa.
— La poverina ha poco tempo da vivere, — pensava. — Ma quell'uomo
non ha dunque un cuore? Egli che dovrebbe cadere ai piedi di quella
degna creatura ed implorare il suo perdono, invece si fa schiavo di
una donna perduta, che forse l'inganna. Povera Clara! —
La contessa, tornata alla villa, dovette subito mettersi a letto.
Una immensa prostrazione l'aveva invasa, non si sentiva più la forza
di alzare una mano, un sudor freddo le scorreva per tutto il corpo.
— Se dovessi morire! — pensò.
Ed a questa idea le si aggiunse quella di essere stata avvelenata.
— Ma devo io accusarlo? — mormorò l'infelice. — E se io
m'ingannassi, qual rimorso sarebbe per me! E mia figlia dovrà
portare la pena delle colpe di suo padre? Che nessuno lo sappia, che
nessuno venga a scoprire questo segreto terribile, che mi dilania! —
Quell'organismo così debole, che pareva doversi spezzare in un
soffio, era d'acciaio.
La governante della contessa, spaventata al cambiamento che si
manifestava nei lineamenti della padrona, aveva mandato il corriere
in città a prendere un medico. Questi venne, ed appena ebbe
esaminata la contessa, trasalì e si fece pensieroso.
— Dottore.... sto assai male; non è vero?
— Siete un po' debole, forse avete voluto affaticarvi, o avete
provata qualche forte emozione. —
Un lieve rossore tinse le guance di Clara.
— No, oh! no....
— Forse un po' di riposo basterà a rimettervi; ma non fate
imprudenze. Ora vado a scrivere una ricetta. —
Il medico uscì, seguìto dalla giardiniera e dalla governante.
— Ebbene, come sta la signora contessa? —
Il medico levò gli occhi al cielo.
— La sua fine è prossima.
— Sarebbe possibile?!
— Fra pochi giorni sarà finita: sarà bene, di questo, avvertirne il
conte. —
La governante scattò.
— L'uccide lui! — disse.
Il medico aggrottò le ciglia.
— La signora contessa non ha mai avuto molta salute; — rispose — la
colpa non è del conte, ma della natura. —
La governante si strinse nelle spalle borbottando:
— Son tutti d'accordo! —
Il medico scrisse una ricetta, poi passò nella camera dell'ammalata.
Egli era persuaso che la contessa morisse di languore, e che tutti i
rimedî fossero inutili.
La lasciò verso sera, raccomandando attorno a lei la calma ed il
silenzio.
La contessa rimase lunghe ore come assopita. Quando si svegliò era
notte. Cercò di riordinare le proprie idee e si guardò attorno. Era
sola.
Di fuori soffiava il vento ed entrava leggermente fischiando per le
fenditure della porta e delle finestre.
— Mia figlia mi chiama.... — disse Clara, presa da una specie di
delirio. —
E si lasciò sdrucciolar giù dal letto, bianca come un fantasma,
vestita della sola camicia, e si trascinò fino alla camera vicina,
dove dormiva sua figlia.
Clara si sentiva una gran voglia di piangere e non poteva.
Avrebbe voluto strappare la bambina da quella culla e portarla con
sè. Ma non ne aveva la forza.
La povera donna vaneggiava.
— Egli non la rapirà, bisogna che io la salvi, bisogna che io
fugga.... Vergine santa, voi che pure foste madre, abbiate pietà di
me, della mia creatura. Dio che brividi! Sento il ghiaccio
percorrermi le vene. Lilia, svegliati, bacia la tua mamma.... Che
cosa viene a far qui l'infame? Egli vuole ucciderti, come uccide me.
Lilia, angelo del cielo, prega per la tua povera mamma! —
E si accasciò tremante presso la culla, senza sapere quello che si
facesse.
Ma dopo un istante, Clara si rialzò e con le braccia conserte, gli
occhi fissi come quelli d’una sonnambula, tornò a lenti passi in
camera sua, si buttò sul letto, e così rimase.
La cameriera, entrando un'ora dopo, la trovò in stato tale
d'abbattimento, che la credette morta.
Chiamò soccorso.
Venne più tardi un sacerdote; ma l'infelice contessa pareva non
comprendesse più nulla di quanto le succedeva d’intorno.
— Bisogna avvisar subito il conte, — fu ripetuto.
Due ore dopo, la carrozza di Guido si fermava al cancello della
villa.
Ne scese il conte, livido più di un cadavere.
— Dite, è vero, — chiese al giardiniere, che era corso ad aprire —
quanto mi fu annunziato?
— Purtroppo, signor conte. —
Guido si portò un fazzoletto agli occhi ed a passi vacillanti seguì
il giardiniere.
Quando entrò nella stanza di sua moglie, un brivido lo assalse. Era
un brivido di rimorso, o di paura?
Forse credette di vedere la contessa alzarsi indignata, indicarlo a
tutti, dire ad alta voce: «Lui è il mio assassino,... lui mi ha
uccisa, mi ha avvelenata!»
Ma Clara pareva aver perduta ogni conoscenza.
Il suo corpo si era già fatto rigido, il suo viso aveva preso la
bianchezza del marmo, la bocca semiaperta mostrava lo smalto dei
denti, gli occhi socchiusi, facevano intravedere il bianco delle
pupille.
Il conte, cercando dominarsi, si avvicinò al letto, ed
inginocchiatosi prese una mano di Clara e la portò alle labbra. Come
se fosse stata tocca da un ferro rovente, la contessa, si scosse
convulsamente, rabbrividì, ed i suoi occhi si aprirono.
Non appena si fissarono sul conte, un indicibile spavento alterò la
fisonomia di Clara; le labbra si agitarono debolmente, come se
volessero parlare; le sue braccia si sollevarono, poi ricaddero; i
suoi occhi si dilatarono in modo che pareva volessero schizzare
fuori dall'orbita. Ma nessuna voce, nessuna parola, nessun gemito si
fece sentire.
— Clara, mia Clara, perdono, vivi per me! — esclamò il conte.
La contessa, non rispondeva.
Egli le pose una mano sulla fronte.
Quella fronte era di ghiaccio.
— Morta.... morta! — gridò.
E il suo occhio asciutto ed infuocato, si fissò stranamente sul
cadavere.
Venne il medico, e ne accertò egli pure la morte.
Il sacerdote benedisse il corpo della contessa Clara, poi
rivolgendosi a Guido:
— Signor conte, — disse — la povera signora mi aveva espresso più
volte in vita il desiderio di essere seppellita nel cimitero
dell'Antella.
— Che il suo desiderio sia esaudito! — esclamò Guido portandosi
un'altra volta il fazzoletto agli occhi — voi penserete a tutto, vi
prego, perchè la mia testa non regge più.
— Farò quanto posso, signor conte.
— E non badate a spese: eccovi dei denari. Io torno in città, perchè
non ho coraggio di assistere ai funerali.
— E la bambina?
— La porterò con me. —
La governante, all'ordine di tener pronta Lilia, fece un gesto di
spavento.
— Questa povera bimba nelle mani del conte? — pensò. — Dio mio, è
orribile! Eppure non posso sottrarmi al suo volere. Egli è il padre.
Oh! ma io non abbandonerò la piccina: da questo momento tutta la mia
vita è dedicata a lei. —
E seguì il padrone, che forse in cuor suo già pensava di sbarazzarsi
di quella donna importuna, muta testimone delle sue colpe e che
forse avea indovinato la parte che egli aveva avuta nella morte
della contessa! .
. . .
. . .
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
Il resto noi lo sappiamo.
La contessa Clara era stata portata al cimitero dell'Antella, ma
siccome la tomba non era ancora preparata, la cassa che racchiudeva
il corpo, era stata deposta provvisoriamente in una cappella.
E senza l'arrivo di Alfonso, che volle rivedere ancora una volta le
sembianze adorate della sorella, la povera Clara sarebbe stata
sepolta viva!
Il veleno somministratole da Nara, era un narcotico potente, il cui
effetto si era prodotto un po' tardi, stante il temperamento
eccessivamente nervoso della contessa.
Clara doveva la sua risurrezione a suo fratello! Le labbra di
Alfonso, posandosi su quelle di Clara, avevano spezzato quel
suggello fatale, che la morte sembrava avervi impresso.
Dio non aveva permesso che l'orribile delitto di Guido e di Nara
venisse intieramente consumato.
La morta risorgeva per la punizione dei colpevoli!
PARTE TERZA
Rivincita.
I.
Il vecchio notaro della contessa Clara, se ne stava una mattina nel
suo studio, quando gli fu annunziato un giovane signore, che veniva
per parlargli di un affare di somma premura.
— Fatelo passare, — disse burbero il notaro.
Il visitatore entrò. Era un bel giovane, pallido in viso, vestito
completamente a bruno.
Il notaro, colpito dall'aria melanconica e al tempo stesso distinta
che traspariva da tutta la persona dello sconosciuto, fece l'atto di
alzarsi dalla sua poltrona.
— Non v'incomodate, vi prego, — disse il giovane con gentilezza — e
perdonatemi la noia che forse vi reco.... —
Il vecchio notaro fu interamente soggiogato dalla voce dello
sconosciuto.
— Non mi disturbate affatto, signore, — rispose — favorite sedere, e
ditemi in che posso servirvi.
— In molto, signore, — disse il giovane con accento profondo,
sedendo presso il notaro — e non ne sarete stupito, quando vi dirò
che io sono il fratello della contessa Clara Rambaldi. —
Il vecchio gettò un grido e stese le mani al giovane, poi andò nella
stanza dello scrivano, e disse che non voleva esser disturbato per
nessuna ragione.
— Voi?... voi?... – esclamò tornando. — Ah! non potete immaginare,
signore, la gioia che mi procurate colla vostra presenza. — E
chinando mestamente il capo, con voce soffocata, il notaro,
aggiunse: — Ah! perchè non siete giunto prima?...
— Sono sempre arrivato in tempo per impedire che si compisse un
orribile delitto! — esclamò Alfonso con profonda emozione.
Il notaro guardò il giovane con inquietudine e spavento.
— In nome di Dio, che cos'è.... dite presto, che cos’è avvenuto? —
balbettò.
Alfonso, invece di rispondere, si guardò attorno.
— Siamo soli?
— Lo vedete.
— Nessuno può ascoltarci? —
Il notaro mostrò al giovane l’uscio chiuso e coperto da un’ampia
portiera di panno verde.
Un mesto sorriso sfiorò le labbra di Alfonso, ed afferrando le mani
del vecchio, esclamò concitato:
— Frenate il grido di sorpresa che potrebbe tradirci, e partecipate
alla mia gioia. Mia sorella Clara è viva ancora! —
Il notaro fece un balzo sulla poltrona: credette di aver a che fare
con un pazzo.
Alfonso comprese quello che si passava nella mente di lui.
— Non guardatemi con quegli occhi sbarrati, — disse — sono nella
pienezza delle mie facoltà intellettuali, e se avrete la pazienza di
ascoltarmi, vi racconterò una storia che vi farà rabbrividire e che
tuttavia è verissima. —
Il notaro era pallido come un morto: alcune gocce di sudore gli
colavano di sotto la papalina di velluto nero.
Alfonso non parve avvedersi di quella emozione, ed a voce bassa,
ansante, disse tutto quanto era avvenuto.
Nell’udire che la contessa Clara era stata sul punto di essere
sepolta viva, il notaro fu preso da un tremito convulso per tutta la
persona.
— Oh! che scellerati, — mormorò — ma Dio è grande: egli non volle
lasciar impunito tanto delitto. —
Alfonso respirò.
— Sapete voi dove si trova il conte? — chiese con voce soffocata.
— Egli è partito per Parigi, con quell’infame donna, che l'ha
perduto.
— E ha condotto Lilia con sè? Pure mia sorella mi ha detto che vi ha
lasciata una dichiarazione, perchè assalita da un funesto
presentimento, non voleva, in caso di morte repentina, che sua
figlia rimanesse in mano del marito.
— Ma la contessa non vi ha aggiunto altresì che l'ultima volta che
si recò al palazzo del conte, questi le fece firmare un foglio,
senza permetterle, nè darle tempo di leggerlo?
— Sì.... ebbene?
— Ebbene, quel foglio lasciava la piccina in possesso del padre, lo
dichiarava tutore ed amministratore della sostanza di sua figlia.
Per fortuna, il conte non ha ancora potuto mettere le mani sul
patrimonio della contessa, dovendosi prima compiere le formalità
della legge, non bastando l'atto che egli tiene firmato da vostra
sorella. —
Alfonso era irritato, pensieroso; tuttavia stava per interrogare
ancora il notaro, quando fu bussato fortemente all’uscio.
Il vecchio fece un gesto di collera.
— Eppure avevo detto che non vi ero per nessuno. Non vi movete,
signor Alfonso, quando saranno stanchi di picchiare, se ne
anderanno. —
Ma pareva che di fuori non si stancassero, perchè i colpi si
replicarono più volte.
Allora il notaro si alzò e andò egli stesso ad aprire.
— Chi è? Che volete? — chiese con voce secca al suo giovane di
studio.
— Signor notaro, hanno portato questa lettera che dicono
urgentissima: si aspetta una risposta.
— Sta bene: datemi la lettera, e fate attendere in anticamera la
persona che l’ha portata. —
Il vecchio, rientrato nello studio, disuggellò la lettera, e ne
trasse un foglio grossolano, lo svolse, e percorse appena le prime
righe divenne pallido come un morto e porgendo il foglio ad Alfonso:
— Leggete, — disse — leggete,... questa lettera è scritta da una
moribonda. —
Alfonso commosso, senza sapere il perchè, prese macchinalmente la
lettera, ed a voce alta, interrotta, lesse:
«Signor notaro,
«Una donna che voi conoscete e che, ancora pochi giorni fa, era la
nutrice della bambina della sventurata contessa Rambaldi, vi prega
di recarvi subito da lei, avendo cose importanti da comunicarvi: non
indugiate, perchè questa donna avrà forse poche ore di vita.»
— Andiamoci subito, io verrò con voi, — disse Alfonso concitato,
alzandosi.
Il notaro suonò il campanello.
Comparve il giovane di studio.
— La persona che ha portata questa lettera, è sempre in anticamera?
— Sissignore.
— Fatela passare. —
Un minuto dopo, sulla soglia della studio, compariva una donna
vestita di scuro, pallida, con una pezzuola in capo.
— A voi è stato affidato questo foglio? — chiese il notaro.
— Sissignore, e l'ho scritto io stessa, sotto la dettatura della
Giustina, perchè essa è gravemente ammalata.
— La Giustina è in casa vostra?
— Sissignore.... è mia sorella.
— Venite dunque, Alfonso, andiamo con questa donna; forse il Cielo
l'ha mandata! —
Uscirono tutt’e tre insieme; ma per la strada, la donna li
precedeva; con rapido passo li condusse in via Faenza, e si fermò
dinanzi ad una modesta casetta, dentro la cui porta, lavorava un
ciabattino.
— La Menica, è sempre viva? — chiese la donna al vecchio che tirava
lo spago.
— Sì.
— Mi farete piacere di mandarmela su, perchè ne ho bisogno.
— La Menica, è appunto da Giustina.
— Meglio così: grazie, Tonino!... Avanti, signori. —
La donna s'internò in un andito oscuro, seguìta sempre da Alfonso e
dal notaro.
Arrivati al primo piano, ella aperse un uscio a destra, e con voce
commossa:
— Passino, signori, — disse ritraendosi alquanto.
— Passate prima voi, buona donna, — disse il notaro — per avvisare
la poveretta che ci siamo. —
La donna, senza rispondere, attraversò una specie di anticamera,
entrò in una stanza a destra, e il notaro sentì la sua voce che
diceva:
— Giustina, c’è di là quel signore che tu volevi, ma è accompagnato
da un altro. —
Non si poté udire la risposta dell'ammalata, ma la donna uscì in
compagnia d'un altra ragazzetta, la figlia del ciabattino, e,
volgendosi ad Alfonso ed al notaro, disse:
— Possono entrare, signori, mia sorella li aspetta. —
La camera dell'ammalata era piccola, ma assai pulita. Sul letto,
colle lenzuola candide di bucato, stava sollevata Giustina, la
governante di Lilia.
La povera donna aveva il volto pallido, gli occhi cerchiati di nero,
ma nulla faceva presagire in lei una prossima fine.
All'entrare del notaro ella congiunse le mani e con voce rotta dai
singhiozzi:
— Grazie, — disse — grazie di esser venuto. Temevo che ricusaste, e
mi finsi più ammalata di quello che sono. Perdonatemi….
— Non ho nulla da perdonarvi, povera donna; parlate liberamente, —
rispose il notaro.
E sedette presso al letto, facendo cenno ad Alfonso di fare
altrettanto.
Giustina guardò il giovane con inquietudine.
— Ma quel signore? — balbettò.
— Giustina, potete parlare dinanzi a lui, che ha più diritto di me
di ascoltarvi. —
L'ammalata spalancò gli occhi con curiosità.
— Egli è il fratello della contessa Rambaldi. —
Giustina gettò un grido, commossa, e a mani giunte:
— Oh! signore, — balbettò colle lacrime agli occhi — perchè siete
venuto così tardi? —
Alfonso tremò e divenne pallido, ma con voce triste e grave,
rispose:
— Non è mai tardi per ottenere giustizia, e per punire.... —
Gli occhi di Giustina brillarono di un vivo lampo.
— Ah! sì, punite, punite quella miserabile creatura, quella Nara che
ha ucciso la mia buona padrona, e farà altrettanto della povera
Lilia. —
Il notaro ed Alfonso erano commossi, agitati.
— Voi sapete dov’è la piccina?
— Se lo sapessi, sarei io qui? Io avevo giurato per l'anima della
mia santa padrona di vegliare sulla piccina, di dare la mia vita per
lei.
«Prima ancora che la mia povera signora fosse seppellita, il conte
mi condusse seco al palazzo colla bambina.
«Lilia piangeva, che era una pietà a sentirla, chiamava la mamma,
voleva la mamma.
«E quando quella donna, quella ballerina, fece per prenderla fra le
braccia e con un'impudenza, che non avrei mai creduta, le disse:
« — Non piangere, io sono la tua mamma. —
«Lilia cominciò a strillare anco di più e le sue piccole unghie si
conficcarono nelle guance della miserabile.
«Io avrei voluto che la piccina le cavasse gli occhi.
«Ma credetti di venir meno, quando sentii quella donna dire, con
voce fremente di rabbia:
« — Ah! piccolo serpente, mordi come tua madre, ma ti schiaccerò
come ho schiacciato lei. — »
Alfonso ed il notaro fecero un gesto d'orrore.
— Ed il conte era furente?
— Il signor conte non c'era in quel momento.
— Ah! sì, era venuto da me, per mostrarmi la carta, che l'infelice
contessa aveva firmata senza saperlo, con la quale gli dava pieni
poteri sulla figlia e sul patrimonio. —
Alfonso divenne livido.
— Ma era una firma strappata a forza.
— La carta era in piena regola, — rispose il notaro — ma siccome io
conosceva la storia dell'infelice contessa, dissi che non avrei
consegnato un solo centesimo, sino a che non fossi certo che la
morte della contessa era avvenuta naturalmente, ed anche in questo
caso, io ero depositario di un testamento olografo di lei, in cui
essa lasciava metà della sua fortuna a favore di un altro. —
Il volto di Giustina raggiava di contento.
— Ah! mi figuro la rabbia del conte! — esclamò. — Egli doveva avere
la coscienza che gli rimordeva, perchè appena tornato a casa,
bestemmiando e rompendo ogni cosa che gli capitava fra le mani,
ordinò i bauli, e la sera stessa partimmo.
— Vi condussero con loro?
— Allora sì, perchè vedevano che non c'era verso di far cessare le
strida di Lilia, che si avviticchiava al mio collo e non voleva
staccarsi da me.... Quella donna aveva già ideato il mezzo di
sbarazzarsi di un'importuna; ma, vivaddio, ora che ho il vostro
appoggio, la ritroveremo, e se Lilia avesse sofferto qualche cosa,
guai, guai a loro!
— Avete ragione, ma diteci tutto.
— Un momento! Prima volevo chiedere a lei, signor notaro, se alla
mia padrona fu fatta l'autopsia. —
Alfonso ed il vecchio si scambiarono una rapida occhiata.
Con quello sguardo volevano dire: «— Possiamo parlare? »
Giustina era sorpresa dal silenzio dei due uomini, che si prolungò
alcuni secondi.
Finalmente Alfonso, dopo un segno d'intelligenza col notaro, si
volse all'ammalata, e chiese con voce commossa:
— Voi avete amata molto la vostra padrona, non è vero? —
Giustina, seduta sul letto, guardò il giovine con occhi pieni di
lacrime.
— Se l'ho amata? Oh! avrei data, vi ripeto, la mia vita per lei,
come l'avrei data per sua figlia, senza quell'infame donna....
— Ebbene, Giustina, preparatevi a ricevere una grande consolazione.
— Una consolazione? Non v'intendo, signore.
— Possiamo noi qui parlare liberamente?
— Sì, mia sorella dev’essere uscita. —
Il notaro per ogni buona precauzione si alzò, e aprendo l'uscio
guardò nell'altra stanza.
La stanza era deserta.
Allora tornò sorridendo presso al letto.
— Potete parlare, Alfonso, — disse.
Gli occhi dell'ammalata brillavano di curiosità. Ella guardava ora
l'uno ora l'altro dei due uomini, senza capire la ragione di quei
misteri, di quei riguardi.
— Giustina, — disse Alfonso, con voce grave — saprete voi mantenere
un segreto che confidiamo al vostro cuore?
— Signore, e potete voi dubitarne? Vi giuro per quanto ho di più
sacro, che io non parlerò.
— Ebbene, frenate la vostra emozione, come io ho frenata la mia, e
sappiate....
— Ebbene?
— Che mia sorella, la vostra amata padrona, vive ancora.
— Ah! —
Gli occhi dell'ammalata andarono stranamente in giro, come se stesse
per essere colta dal delirio, il suo viso si fece bianco, la sua
testa si rovesciò all'indietro. Era svenuta!
Alfonso ne fu spaventato.
Il notaro mantenne il suo sangue freddo.
— Non è nulla, — disse togliendo da un tavolino una boccia di
cristallo, che si vedeva piena d'acqua.
E ne spruzzò alcune gocce sul viso dell'ammalata, che non tardò a
riaversi. Allora ricordando tutto, si sollevò di nuovo sul letto, e
con voce interrotta:
— Dunque.... è vero?... Non mi avete ingannata? La contessa, la mia
buona padrona vive ancora?
— Sì,... ma calmatevi.
— Mi calmerò, signore; ma se sapeste che cosa ho provato in cuore
all'annunzio improvviso: mi è parso di morire dal contento. Dunque
rivedrò ancora il dolce volto della padrona, che pareva quello di
una Madonna! Oh! Dio è giusto.... e non paga il sabato, — aggiunse,
pensando in quell'istante a Guido ed a Nara.
Il notaro ed Alfonso, erano profondamente commossi.
— Potrò vederla, non è vero? — chiese l'ammalata trepidante.
— Ora no, perchè mia sorella dev’essere morta per tutti. —
Giustina si fece pensierosa: non comprendeva.
— Se quella donna, — disse Alfonso con la sua aria grave — sapesse
che mia sorella vive ancora, la piccina sarebbe forse perduta.
— Ah! è vero, è vero!... — esclamò Giustina trasalendo — noi
dobbiamo salvarla.
— E la salveremo; — disse il notaro con voce calma — ma diteci tutto
quanto sapete. —
II.
Giustina, dopo un lieve sospiro, disse:
— Il conte Guido aveva presi i biglietti per il diretto di Milano,
ma durante il viaggio fatto in un vagone di prima classe, dove
eravamo soli, il padrone e Nara discorsero quasi sempre a bassa
voce, in una lingua che io non conoscevo; però non compresi una sola
parola, ma dalle occhiate che lanciavano a me ed alla povera
piccina, che mi si era addormentata fra le braccia, non presagivo
nulla di buono.
«Io cominciavo a sonnecchiare, cullata dal treno, quando fui
svegliata bruscamente dal conte.
« — Bisogna scendere, — disse — siamo arrivati. Io prenderò i
bagagli, tu tieni forte la bambina. —
«Il treno era fermo in una stazione che non conoscevo. Era di notte;
e uscendo da’ cancelli, mi guardavo curiosamente attorno.
« — Siamo già a Milano? — chiesi al conte.
« — E chi vi ha detto che ci saremmo fermati a Milano? — disse
bruscamente Nara.
« — Nessuno.... mi pareva. —
«Non mi risposero, ed uscimmo dalla stazione.
«Il conte, che ci aveva preceduti di pochi passi per ordinare una
vettura, tornò quasi subito.
« — Andiamo, — disse con asprezza.
«Salimmo in una vettura scoperta.
«Io mi posi dalla parte dei cavalli, colla bambina sulle ginocchia»
— Perdonatemi tutti questi particolari, ma mi stanno fissi nella
mente e possono tornarvi necessarî.
— Avanti.... avanti.... — disse Alfonso, con un lieve gesto
d'impazienza.
— Favoritemi prima un bicchiere d'acqua, — rispose Giustina — ho la
gola riarsa, e la lingua mi si attacca al palato in modo, che posso
a stento discorrere. —
Il notaro si affrettò ad empire un bicchiere, che l'ammalata bevette
avidamente.
Poi Giustina riprese:
— Era notte, come dissi, ed io non sapevo allora in che città mi
trovavo.
«Guardavo all'intorno, ma le strade che percorrevamo erano buie e
deserte, ed io, senza sapere il perchè, sentivo crescere la mia
inquietudine, la mia angoscia.
«Il conte e Nara stavano silenziosi.
«La carrozza non si fermava mai.
«Il tragitto era molto lungo.
«Finalmente, sboccando da una strada un po' più larga, rallentò la
corsa.
«Mi sentii più tranquilla.
«In quella strada erano aperte le finestre di molte case, e se ne
vedeva l'interno illuminato; s'incontravano anche dei passeggieri.
«Finalmente la carrozza si fermò dinanzi alla porta di un albergo.
«Il mio padrone scese per il primo, e ci disse di attendere.
«Un quarto d'ora dopo tornò ed aprì egli stesso la portiera della
vettura.
«Scendemmo.
«Un cameriere ci precedé su di uno scalone coperto d'un tappeto, ci
fece percorrere un lungo corridoio, ed aperta una porta c'introdusse
in una saletta, dov’era una tavola preparata.
«Capii che il conte aveva ordinata la cena.
«Lilia si era svegliata, e ricominciava a piangere ed a chiamare la
mamma.
«Il conte lasciò sfuggire una bestemmia.
«Era rosso dalla collera.
«Nara lo calmò con uno sguardo.
« — Fate passeggiare un po' la bimba nel corridoio, — mi disse — e
cercate di farla stare zitta! —
«Eseguii tosto l'ordine, e mentre uscivo dalla porta del salotto,
sentii che Nara diceva:
« — Bisogna far così! —
«E, voltando la testa, le vidi aprire una valigetta, che aveva
portato con sè.
«Accorgendosi d'essere da me osservata, i suoi occhi si accesero, e
con voce imperiosa:
« — Non avete inteso, — esclamò — quello che vi ho ordinato? andate!
—
«Uscii dal salotto in preda ad un triste presentimento.
«A furia di baci e di carezze, riuscii a calmare il pianto di Lilia.
«Un cameriere andava e veniva portando dei piatti.
«Dopo alcuni minuti, il signor conte si affacciò alla porta del
salotto.
« — Giustina, — disse con un accento gentile, che non avevo mai
osservato in lui e che mi pose ancor più in guardia — venite a cena.
Anche Lilia deve aver fame. —
«Obbedii.
«Entrando nel salotto, vidi Nara già seduta a tavola.
«Io non volevo mettermi a sedere vicino a lei, ma il conte m'indicò
senz'altro la seggiola, e mi disse con molta bontà, sorridendo:
« — In viaggio siamo tutti uguali; sedete lì, io mi metterò da
quest'altra parte. —
«Obbedii di nuovo senza rispondere, e posi Lilia sulle mie
ginocchia.
«Dinanzi a me, sulla tavola, era una scodella di minestra al brodo,
uguale a quella che avevano il conte e la ballerina.
«Diedi un po' di brodo alla piccina, che lo succhiò avidamente, e
sorrideva al luccichìo del cucchiaio, che le facevo brillare dinanzi
agli occhi.
«Nara e il conte, mangiavano senza parlare.
«Pensai di fare altrettanto.
«A vero dire, la minestra mi parve un po' salata, ma siccome non
avevo mangiato da molte ore, terminai con ingoiarla tutta.
«Così buttai giù avidamente una porzione di carne, dividendo il mio
pasto con la piccina.
«Ma questa non terminò, perchè si era addormentata.
«Io stessa mi sentivo stanca, e chiudevo ad ogni istante gli occhi.
«Il conte se ne avvide.
« — Giustina, — disse sempre con dolcezza — mi sembra che abbiate
molto sonno.
« — Sì, e mi par singolare, — risposi imbarazzata.
«Nara prese la parola.
« — Sarà l'effetto del viaggio, e siccome dobbiamo ripartir
domattina, è meglio che andiate a letto. —
«E suonò per chiamare il cameriere, perchè insegnasse la stanza
destinata a me, ed alla piccina.
«Mi alzai a stento dalla seggiola.
«Le ginocchia mi si piegavano.
«Lilia dormiva del sonno più profondo.
«Seguii il cameriere, che mi fece attraversare il corridoio, e
salita una scala, m'introdusse in un appartamento elegante, composto
di una sala e di due camere.
«Una di queste era ad alcova e serviva per Nara e il conte, che nel
registro dell'albergo si erano forse denunziati come marito e
moglie.
«Da questa camera si entrava in un'altra più piccina, con due letti
gemelli, su uno dei quali posi Lilia, dopo averla spogliata senza
che si svegliasse; l'altro doveva servire per me.
«Non so, in verità, come feci a togliermi gli abiti di dosso.
«La spossatezza cresceva ad ogni istante.
«Le palpebre mi pesavano, come se fossero di piombo, ed ebbi appena
tempo di entrare a letto, che mi addormentai profondamente.
«Credo di aver dormito ventiquattro ore continue.
«Quando mi svegliai, era giorno chiaro.
«Dapprima non capivo dove mi trovavo, ma rivoltandomi sul fianco
destro, vidi l'altro letto e ricordai tutto.
«Ero nella camera dell'albergo, ma ero sola.
«Che voleva dir ciò?
«Chi aveva portata via la piccina?
«Balzai lesta dal letto, mi vestii in un lampo, e corsi subito nella
stanza del conte.
«Figuratevi la mia sorpresa nel trovarla deserta, nel vedere i letti
intatti, nessuna valigia, nulla che potesse far credere che quella
camera fosse stata abitata!
«Nello stesso momento udii un leggiero e brusco movimento
nell'attiguo salotto.
«Mi vi slanciai; v’era un cameriere dell'albergo.
«Nel vedermi si mise a ridere e con accento ironico:
« — Ah! ah! avete dormito la grossa, mia cara, mi disse. —
« Io guardavo intorno con aria stralunata.
« — Dove sono i miei padroni?
« — I vostri padroni? Ah, bella mia, sono partiti fino da ieri
mattina, mentre russavate come una canna d'organo.
« — Partiti? — ripetei due o tre volte, con voce convulsa, perchè mi
sentivo un nodo stringere alla gola.
« — Sì, che cosa vi è di strano? Hanno fatto di tutto per svegliarvi
e non ci sono riusciti.
« — Povera donna, — disse il vostro padrone — sono tante notti che
non dorme: lasciamola tranquilla, tanto ella non doveva partire con
noi.
«Io ascoltavo sempre più perplessa.
« — Vi ha detto proprio così? — chiesi supplichevole.
«Il cameriere aveva cessato di ridere.
« — Qual interesse avrei d'ingannarvi? Io vi ripeto le sue parole.
Egli ha detto che aveva bisogno di partire subito e m'ha incaricato
di dirvi di ritornare al vostro paese e ha lasciato giù per voi una
borsa, al cassiere dell'albergo, dopo aver pagate tutte quante le
spese. —
«Egli fece un lungo respiro, come se si fosse sbarazzato d’un peso
immenso di sullo stomaco.
«Io ero caduta su di una sedia e mi misi a piangere.
« — Andiamo.... che vi prende adesso, buona donna? — domandò il
cameriere.
«Mi sentii freddo al cuore e scattando all'improvviso:
« — Quell'uomo ha ingannato voi e ha ingannato me, — gridai — il mio
sonno non è stato naturale; quegli infami devono avermi fatto
ingoiare qualche cosa per addormentarmi, per sbarazzarsi di me, per
avere in loro potere la piccina.... e forse ucciderla. —
«Sentendomi parlare così, il cameriere impallidiva a vista d'occhio.
« — Le vostre parole sono gravi, — disse. — Chi sono dunque quei
signori, che erano con voi? A chi appartiene la bambina? Se vi è un
mistero, siete obbligata a svelarlo, io vi aiuterò, andremo insieme
dal commissario. —
«Sentendo questo, io non replicai; rimasi zitta e confusa.
«Il cameriere si fece rosso fino alle orecchie.
« — Ebbene, avete perduta la lingua? —
«Io mi portai la mano alla fronte. Capivo la necessità di tacere, di
non mettere a parte un estraneo del mio segreto. D'altronde come
potevo denunziare il conte? Non era egli padrone di sbarazzarsi di
me e di condurre lontana sua figlia?
«Se avessi detto che mi avevano fatto ingoiare un narcotico, si
sarebbero messi a ridere. Fors'anche avrebbero concepiti dei
sospetti su di me. Mentre pensavo a tutto ciò, il cameriere mi
guardava fisso.
« — Dunque mia cara, non parlate?
« — Non ho nulla da dirvi. —
«Egli fece un passo indietro, e, serio serio, concluse:
« — Avete dormito troppo, mia cara, e adesso vi compiacete di
scherzare.
« — Oh! non ne ho alcuna voglia, — mormorai.
« — Venite con me, andiamo dal cassiere che vi consegnerà il denaro
lasciato dal conte.
« — Non lo voglio! —
«Dal modo col quale mi guardò il cameriere, capii che egli credette
mi fosse dato volta il cervello. Onde togliergli ogni sospetto,
scesi con lui dal cassiere.
«Ma appena ebbi la borsa nelle mani, ne tolsi alcune monete d'oro,
che diedi al cameriere.
« — Vorreste accompagnarmi sino alla stazione? — gli dissi.
«Egli si mostrò tutto gentile e premuroso, e mi rispose che avrebbe
chiesto il permesso al padrone.
«Dopo poco uscimmo insieme dall'albergo e salimmo in una carrozza,
dove avevano già posta la mia valigia.
«Io avevo fatto il mio piano. Volevo sapere dal cameriere dov’era
andato il conte con quella donna.
« — Di dove siete? — mi disse il giovane, che il mio denaro aveva
reso assai eloquente.
« — Di Firenze, — risposi.
« — Bella, Firenze! è una città artistica: vi sono stato per pochi
giorni due anni sono: avete dei parenti?
« — Sì....
« — Certo vi sarà caro di rivederli.
« — Avrei preferito di restare coi miei padroni.
« — Ne troverete degli altri meglio di loro: dovreste cercare un
servizio a Bologna.
« — Ci penserò; ma intanto mi piange il cuore nell'essere separata
da quella piccina, che amavo come se fosse mia!...
« — La bimba è figlia del conte?
« — Sì;... ma, ditemi, piangeva quando si accòrse che io non partivo
con lei?...
« — A dirvi la verità, la piccina era addormentata. —
«Io trasalii perchè compresi che Lilia, sorbendo del mio brodo,
aveva avuta la sua parte di narcotico. Pure, fingendo la massima
calma, continuai:
« — Sapete per dove sono partiti i miei padroni?...
« — Non ve l'hanno detto?...
« — Non pensai a chiederlo, perchè non m’immaginavo certo di
addormentarmi così sodo, e che non li avrei veduti andar via.
« — Ah! perbacco, bisogna proprio dire che foste molto stanca per
dormire tanto: sono però lieto di potervi dire che ho accompagnato
io stesso i vostri padroni alla stazione.
« — E vedeste prendere i biglietti?
« — No, ma sentii che il conte diceva in francese alla sua bella
signora: « Nara, quella che mi proponi, è un’imprudenza; io mi
fermerei a Torino. » — « Ed io ti ripeto,» rispose la signora «che
voglio recarmi direttamente a Parigi.» In quel momento mi videro
vicino a sè e si tacquero: ma io finsi un’aria così ingenua, che
furono persuasi che non avevo capito una parola; mi dettero una
buona mancia e mi rimandarono all'albergo. —
«Persuasa che il cameriere non mentiva e che nello stesso tempo non
avrei saputo niente altro da lui, non feci nuove interrogazioni.
«Ma prima di separarmi, gli consegnai la borsa lasciatami dal conte.
« — Io non ho bisogno di quest'oro, — dissi — e mi fareste un vero
piacere d'alleggerirmene. —
«Non so perchè quel denaro mi bruciasse le mani.
«Presi il treno di Firenze.
«Giunta qui, pensai subito di rivolgermi a voi, signor notaro; ma
sia per le emozioni sofferte o per qualche altra ragione, mi ammalai
e solo oggi ho potuto avvisarvi.
«Ora, signori, sapete ogni cosa. E la notizia che mi avete data
della risurrezione della contessa, ha contribuito più che altro a
guarirmi del tutto. Ah! io non aspetto che il momento di rivederla
ancora, come desidero di veder punita quell'infame, che ha cercato
di far seppellir viva la mia adorata padrona.» —
Alfonso ed il notaro si erano alzati.
— Non temete, Giustina, — disse il giovane con accento solenne — il
giorno della giustizia non tarderà a venire. Grazie, intanto, di
quanto avete fatto per noi, e non temete che sapremo ricompensarvi
come meritate. —
La povera donna piangeva.
— Per me, la più bella ricompensa, sarebbe di farmi vedere la mia
padrona.
— La vedrete, ma non oggi; domani tornerò qui, perchè ho un'altra
idea in mente, che voglio mandare ad effetto. Vi raccomandiamo
intanto il segreto, anche con vostra sorella.
— Vi giuro, signori, che non parlerò! —
— A rivederci dunque, Giustina; domani spero di vedervi alzata!
— Potete esserne certi, signori. —
I due uomini uscirono dalla casetta più serî di quando v’erano
entrati.
— Ebbene, che ne dite? — chiese Alfonso al notaro — la povera Lilia
è perduta!... —
Il vecchio crollò il capo.
— Non ancora; ma bisogna agir subito, e Giustina ci sarà
indispensabile. Avete fiducia in me, Alfonso?
— Come se foste mio padre.
— Volete lasciarmi condurre a termine quest'affare?
— Come, vorreste agir solo?
— No, anzi voglio non solo la vostra cooperazione ma altresì quella
della contessa Clara.
— Che?… voi vorreste dirle....
— Lasciate fare a me! Datemi pieni poteri, e non fatemi per ora
altre domande.
— Sia pure.
— State sicuro che tutto andrà bene. Voi, ora, appena tornato a
casa, avvisate vostra sorella di una mia prossima visita.
— E poi?
— Prima di stasera io sarò alla casetta di Nanni: ho bisogno di
consultare qualcheduno, e di disporre certi interessi. — Ed aggiunse
con un sorriso: — Vedrete, Alfonso, che non solo salveremo la
piccina, ma ricondurremo il conte pentito ai piedi di vostra
sorella. —
Alfonso non poté rattenere un fremito.
— Chi? Lui? Un assassino? Perchè se io non giungevo in tempo, dovete
pensare che Clara sarebbe stata sepolta viva.
— Avete ragione,... ma voi siete giovane, Alfonso, e non sapete di
che cosa può essere capace un uomo sotto l'impero di una passione
malvagia, infernale, come quella ispirata a Guido da Nara. —
Alfonso non rispose.
— Prima di dividerci, vi raccomando di non vi lasciar scappar detto
con la contessa, che avete parlato con Giustina.
— Non temete.
— Se vi chiede quale sia il risultato della vostra venuta, da me,
ditele che non potete parlare, finché io non sia giunto.
— Sarà fatto.
— Soprattutto mostratevi con lei allegro, e non confidate neppure a
vostra moglie quanto sapete.
— Va bene, signore. —
E fermandosi, e prendendo la mano del notaro, aggiunse con voce
commossa:
— Grazie, di tutto quanto fate per me e per mia sorella; io dovrò a
voi la felicità e la vita di lei, perchè so quale benefica influenza
avranno su Clara le vostre parole.
— Speriamolo, Alfonso, voi, però, non dovete ringraziarmi di nulla,
perchè amo vostra sorella come se fosse mia figlia. —
E cercando di vincere l'emozione da cui era dominato, il vecchio
strinse a sua volta la mano al giovane, dicendogli:
— Arrivederci, arrivederci a presto. —
III.
Nella casetta di Nanni, regnava una certa tranquillità. La contessa
Clara, a malgrado del suo pallore, era guarita perfettamente, e
senza il pensiero che la tormentava sulla sorte della figlia,
avrebbe potuto dirsi felice.
Di quante cure la circondavano il suo adorato fratello e la
vaghissima Ines!
Il giorno in cui Alfonso si era recato dal notaro, la contessa Clara
e la giovane spagnuola lavoravano vicino alla finestra aperta, che
si apriva sull'orto dove alcune galline se la spassavano tranquille,
non vedute dalla madre di Nanni, la quale era affaccendata in cucina
per il pranzo dei suoi ospiti.
Clara era vestita di nero, ciò che faceva spiccare ancor più lo
strano pallore del suo volto, e le trecce dorate che le formavano un
nembo d'oro attorno alla candida fronte.
Ines aveva un costume grazioso, originale; una veste a trine e
fiocchi, ampia, fluttuante intorno alla vita assai grossa, a causa
dell'inoltrata gravidanza. La giovane donna lavorava intorno ad una
cuffiettina di trina, e Clara ricamava un camicino, destinato come
la cuffietta, alla creatura che sarebbe venuta al mondo. Esse
chiacchieravano insieme per passare il tempo.
— Quante di queste camicine ho ricamate anch’io per la mia Lilia! —
diceva Clara con voce dolcemente mesta.
Ines la guardò coi suoi occhioni luminosi.
— E ne ricamerai delle altre, — rispose — il cuore mi dice che
presto avremo Lilia qui con noi.
— Purché il tuo cuore non s'inganni!
— No, no, vedrai, sorella mia, che non s'ingannerà. Ed ho già fatto
il mio piccolo progetto.
— E quale?
— Io sono sicura di avere un bel maschio. —
Clara non poté a meno di sorridere.
— Ne sei sicura?
— Ma sì. E il cuore mi dice che sarà un bel brunetto vivace. Di
spirito....
— Che somiglierà alla mamma.
— Sì; ma io non voglio questo, perchè amo gli occhi neri del mio
Alfonso, i tuoi, e voglio ritrovarli in quelli del mio piccino.
— Cara pazzerella!
— Ascoltami dunque. Egli sarà buono come te, fiero come Alfonso e
non avrà che un amore: quello per la sua cuginetta. —
Clara sorrise di nuovo.
— Ma non pensi, — disse — che la mia Lilia avrà tre anni più di lui?
— Che importa, anzi è meglio; così Lilia gli darà un poco del suo
giudizio, e comincerà a dominarlo fin da piccino.
— Ma se invece tu pure avessi una bambina? —
Il grazioso sembiante di Ines si fece serio.
— Non me lo dire! — esclamò — No, non può essere, io sento che è un
maschio, ed anche Dio lo vorrà, perchè allora saremo tutti felici. —
Queste parole così ingenue, commossero Clara: passò una mano sulla
bruna testa di Ines, e con affetto materno, disse con mesta voce:
— Senti: o maschio o femmina, ti auguro che non abbia a soffrire
quanto la mia piccina, che forse a quest'ora cerca i baci e le
carezze di sua madre, e le diranno che è morta. —
Ines non ebbe il coraggio di rispondere una parola. Chinò il capo,
ed una lacrima, lucida come perla, le cadde dagli occhi brillanti,
sul lavoro che teneva in mano.
In quel punto entrò la madre di Nanni.
— Il pranzo è all'ordine, — disse — devo servirlo? —
Ines si alzò vivamente in piedi.
— Sì, — rispose — perchè Alfonso mi ha detto che sarebbe tornato
tardi. Vuoi venire, Clara? —
La contessa posò il lavoro, e seguì la cognata nel salotto da
pranzo.
Due ore dopo, Alfonso era di ritorno. Il suo aspetto contento fece
palpitare il cuore di Clara ed arrossire di piacere la bella
spagnuola.
La contessa si alzò come spinta da una molla, e stendendo le braccia
al fratello:
— Mi porti notizie di Lilia? — esclamò.
Alfonso si strinse al seno la sorella e la baciò con amore sui
biondi capelli.
— Lilia sta bene, — rispose gravemente — ed io spero che presto
l'avremo fra noi.
— Se tu dicessi il vero?
— Sì, il notaro ha promesso, che in tutti i modi Lilia ti sarà resa.
Ma ad un patto....
— A qual patto?
— Questo non ha voluto dirmelo, si riserba di spiegarsi con te.
— Andiamo subito da lui.
— Non occorre, perchè fra un'ora al più tardi, sarà qui. —
Clara si lasciò sfuggire un sospiro.
— Un'altr’ora di tortura e di angoscia, — mormorò, divenendo
pallida.
— Suvvia, calmati, sorella cara, se farai così ti ammalerai, e per
le lotte che dovremo intraprendere, hai bisogno di tutto il
coraggio, e di tutta la forza.
— Oh! ne avrò, ne avrò, per mia figlia. —
Clara desiderò di rimaner sola qualche minuto, sentendo il bisogno
di piangere e pregare, come Alfonso ed Ines sentivano la necessità,
dopo tante lunghe ore di separazione, di scambiarsi un bacio
d'amore.
— Quello che hai detto a Clara è tutto vero? — esclamò la giovane
sposa, appena si trovò sola col marito — oppure continuate ad
illuderla con delle false speranze?
— No, è la verità, ed io ho completa fiducia in quel vecchio
galantuomo, che ha per Clara affetto di padre.
— Come saremo felici il giorno in cui avremo tolto Lilia dalle mani
di quella triste creatura! — esclamò Ines, facendo sedere il marito
sulla poltrona e sedendo a sua volta con fanciullesca ingenuità
sulle ginocchia di lui. — Ma dimmi, è forse possibile che vi siano
delle donne tanto cattive al mondo? —
Alfonso sorrise mestamente.
— Quando vedo mia sorella, quando stringo te fra le mia braccia, —
rispose, — non lo credo possibile; ma quando penso a quel mostro di
Nara, allora la donna mi appare sotto un aspetto così orribile, che
quasi le odierei tutte. —
Ines mandò un piccolo grido, e passando le sue manine sulla bocca di
Alfonso, che le coperse di baci, disse con voce tremante:
— Perchè parlare così? Dunque tu odieresti anche me?
— No, amica mia, tu e Clara, siete i miei angioli, e fate una
eccezione fra le donne. Suvvia, non mi guardare con cotesti occhi
severi, dammi un bel bacio, che mi provi chiaramente come tu mi
abbia perdonato. —
Ines gli si abbandonò fra le braccia.
Mezz'ora dopo, una carrozza entrava nel viottolo, che conduceva alla
casetta di Nanni. Era il notaro che arrivava.
Sul sedile dinanzi aveva una cassetta, una valigia, ed alcuni pacchi
di documenti.
Al rumore delle ruote, Clara aprì la finestra e mandò un grido di
gioia. Ma fu vivamente sorpresa, quando vide il notaro rimandar la
carrozza, dopo aver fatto trasportare la valigia e le altre robe in
casa.
Che voleva dir ciò?
Al momento in cui lo pensava, il notaro faceva il suo ingresso nel
salotto da pranzo. Il vecchio si avanzò verso la contessa
guardandola con occhi lacrimosi, e in un trasporto di affetto
paterno aprì le braccia.
Clara vi si precipitò, e posando la bionda testa sulla spalla di
quell'uomo generoso, che l'aveva accarezzata tante volte da bambina,
scoppiò in un pianto dirotto. O, per meglio dire, piangevano tutt’e
due.
— Calmatevi, contessa, calmatevi — disse infine il notaro — e
perdonate se non ho potuto resistere a questo sfogo. —
E facendo sedere gentilmente Clara su di una poltrona, sedette
vicino a lei, e prendendole le mani con un gesto pieno di tenerezza
e di rispetto, la mirò a lungo.
— Sapete, — disse Clara a stento — che volevano seppellirmi viva? —
Il notaro rabbrividì.
— So tutto, povera creatura, so tutto; ma Dio non ha lasciato
commettere l'orribile delitto, ed i colpevoli ne saranno presto
puniti. —
Il notaro aveva pronunziate queste parole con accento serio e grave.
Un leggiero incarnato colorì le guance della contessa.
— Ah! io non vorrei che riprendere mia figlia, vivere per lei, ed
essere morta intieramente per il mondo. In quanto a coloro, lascio a
Dio di far giustizia. —
Il notaro crollò il capo.
La contessa aggiunse:
— Alfonso mi ha prevenuta del vostro arrivo, e mi ha detto che
avevate qualche cosa da comunicarmi.
— Infatti, è verissimo. Dov’è vostro fratello?
— Credo che sia di là in camera con sua moglie. Volete che li faccia
chiamare?
— Vi sarà tempo, perchè stasera resto qui e domani partiremo tutti
insieme. —
La contessa spalancò i suoi begli occhi dalla sorpresa.
— Partiamo? E per dove?
— Appunto, debbo parlarvi di questo! —
Ciò detto il notaro andò a chiudere la porta e la finestra, tornò
verso la contessa, che lo guardava sempre più sorpresa, e mentre
cercava di scrutarne il pensiero con lo sguardo, le disse a voce
bassa e pacata:
— Ora che nessuno può venire a disturbarci, senza che ce ne
accorgiamo, parlerò. Ma prima di tutto vi avverto, che domani noi ci
metteremo in viaggio per la Francia! —
.
. . .
. . .
. . .
.
IV.
Il conte Guido Rambaldi era da due mesi a Parigi. Se non aveva
potuto ritirare l'intiero capitale della moglie defunta, era
tuttavia riuscito a contrarre un prestito di trecentomila lire per
mezzo di alcuni banchieri, i quali sapevano che Lilia era l'unica
erede delle immense sostanze della contessa Rambaldi, ed il conte il
solo amministratore del patrimonio della figliuola.
Così ben fornito, Guido prese in affitto un elegante appartamento
ammobiliato al primo piano di un gran palazzo sul boulevard degli
Italiani, comprò carrozza e cavalli, prese due servitori, un abile
cuoco, una cameriera per Nara ed una governante inglese per Lilia.
Guido però, nella sua nuova vita, si sentiva profondamente infelice.
Quando le rimembranze del passato sono piene di amarezze e di
rimorsi, il presente sembra pesante ed odioso.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Parigi, Guido si era incontrato
col marchese di Chârtre. Ma questi, appena l'ebbe veduto, voltò la
testa da un altra parte per non salutarlo.
Il viso del conte Rambaldi si fece di fuoco, ma non ebbe il coraggio
di affrontare l'amico e di chiedergli ragione di quel contegno.
Sentiva di meritarlo.
Mercè la freddezza d'animo che il conte Rambaldi possedeva, egli
fece tacere il suo cuore che batteva con celerità, padroneggiò
l'emozione che lo soffocava, lasciò ignorare a Nara cotesto
incontro; ma quanto ne soffrì il suo orgoglio, così palesemente
offeso!
Quando Guido si recava al Bosco di Boulogne nella sua carrozza, con
Nara al fianco, tutti si domandavano se quella bella creatura, che
molti si ricordavano di aver veduta sulla scena dell'Opéra, fosse
divenuta moglie del gentiluomo italiano, e la curiosità si faceva
tanto più ansiosa, inquantochè non avevano modo di soddisfarla.
La bellezza di Nara sembrava essersi fatta ancora più abbagliante.
Non mai i suoi occhi erano stati più splendidi, le sue labbra più
colorite, il sorriso più incantevole.
Guido, invece, era invecchiato: alcuni fili d'argento gli apparivano
alle tempie; l'espressione del volto era ad un tempo annoiata,
ironica, triste; le spalle un poco curve, compivano quell'apparenza
di languore, di noncuranza.
Egli non amava più Nara, la subiva; aveva paura di lei, non poteva
decidersi a legalizzare la sua unione con quella pessima creatura.
La morte di Clara, pareva aver aperti gli occhi a Guido.
Come suole accadere, ora che la povera morta era perduta per sempre
per lui, egli l'invocava, sentiva di amarla come non l'aveva mai
amata quando la possedeva, era sua, e poteva essere felice con lei!
Guido si fermava con una certa qual gioia crudele su tutto ciò che
aveva sacrificato così indegnamente, per una specie di monomania
malvagia, per una stupida passione.
E ricordando l'ultimo delitto, compiuto in un momento di
disperazione, sotto l'influenza di quella donna fatale, soffriva
tremendamente. Ma che importava? Forse poteva egli riparare il male
fatto? E se Nara avesse conosciuta la sua debolezza, come si sarebbe
presa giuoco di lui! Guido sentiva il male, ma non avrebbe avuto il
coraggio di cercarne la guarigione in un atto nobile e generoso, e
non si sarebbe separato da Nara. Debole ed ostinato, preferiva di
patire in silenzio, piuttosto che mostrare le piaghe sanguinose del
suo cuore. Guido, inoltre non poteva veder Lilia, perchè quella
bambina era un continuo rimorso per lui.
Non volendo frequentare la società, il conte Rambaldi, cercava di
sopire il pensiero in esercizî violenti, che finivano per fiaccargli
il corpo, e non gli permettevano di riposare neppure un’ora
tranquillo. Faceva lunghe corse a cavallo, tirava di scherma,
giuocava al biliardo.
Se Nara qualche volta lo rimproverava, accusandolo di trascurarla,
egli si chiudeva furiosamente nella sua stanza e non ne usciva più
per tutto il giorno.
Una mattina, mentre Nara era tuttora a letto, Guido, salito a
cavallo, si recò ai Campi Elisi. Egli si sentiva felice di galoppare
sotto quei grandi viali, sopra tutto quando il tempo era burrascoso.
Il conte aveva acquistato un ammirabile cavallo baio, dal pelo fine
e brillante, dai muscoli d'acciaio, e, nell'insieme, di una rara
perfezione.
Dopo un'ora di corsa sfrenata, Guido aveva messo il cavallo al passo
e stava per fargli prendere un viale di traverso, quando vide
arrivare una bellissima carrozza, al trotto di due cavalli neri:
nere erano pure le bardature ed i domestici abbrunati.
Guido gettò uno sguardo distratto nella vettura, mentre gli passava
dinanzi, ma poco mancò non mandasse un grido e non cadesse di sella.
In quella carrozza era seduta una giovane signora, vestita
completamente a lutto, e senza i capelli nerissimi di lei, Guido
avrebbe creduto di trovarsi dinanzi sua moglie.
Era lo stesso viso di una bianchezza marmorea, di un ovale fino e
regolare: erano gli stessi occhi dallo sguardo dolce, melanconico,
pensoso; la stessa bocca rosea, soave.
La visione era passata come un lampo. Quando Guido si riscosse, si
ritrovò solo nel viale: la carrozza era sparita.
— Chi può mai essere quella divina creatura che tanto somiglia a
Clara; a Clara quando era ancora nel fiore della sua salute?...
Cotesta è davvero una rassomiglianza sorprendente.... e senza i
capelli d'ebano di quell'incognita, avrei creduto di veder
risorgermi dinanzi mia moglie. Ho fatto molto male a non seguirla.
Ah! ma la ritroverò.... la voglio ritrovare. —
Guido tornò a casa stranamente agitato: i suoi occhi brillavano, e
si sarebbe detto che le sue labbra sorridevano.
Nara si accòrse subito del cambiamento del conte, e ne provò
inquietudine e gelosia.
— Credevo che stamani non saresti tornato a far colazione, —
disse fra l'ironico e il rabbioso.
Guido alzò le spalle.
— Avresti mangiato lo stesso, — rispose.
Nara si sentì una scossa violenta al cuore, e mettendo le mani sulle
spalle di Guido, costringendolo a guardarla in viso:
— Sei proprio tu, che mi parli così? — disse con accento soffocato.
Guido impallidì sotto lo sguardo profondo e scrutatore di lei.
— Scusami, — mormorò con voce quasi commossa — non avevo intenzione
d'offenderti....
— Tu hai qualche cosa che ti agita....
— No, ti assicuro di no....
— Tu mentisci Guido....
— Nara!...
— Ah! valeva proprio la pena di amarti, di sacrificar tutto, per
averne una ricompensa simile....
— Hai da dolerti di me?...
— Ricordati di quello che mi avevi promesso.
— Ancora è troppo presto....
— Perchè tu non mi ami più, del resto saresti orgoglioso di
chiamarmi tua moglie. —
Guido era irritato, ma non volle darlo a divedere.
— Pensa, — disse esitando — che sono appena due mesi che Clara è
morta....
— Ah! non parlavi così, quando chiedevi il mio amore supplichevole
ai miei piedi. Allora le convenienze erano da te calpestate, erano
poste in oblìo, allora.... —
Non continuò: dette in uno scoppio di pianto, lasciandosi cadere
riversa sul divano.
Guido fece un atto per inginocchiarsi dinanzi a lei, ma poi si
trattenne e cominciò a passeggiare irritato per la camera.
Nara, che pur fingendo di singhiozzare seguiva ogni movimento di
lui, capì che qualche cosa di anormale si passava in quell'anima.
Ella si alzò rossa di collera, d'indignazione.
— Ah, non ti commove più nulla! — esclamò. — Bada, Guido, guai, guai
a te; tu sai di che cosa io sono capace, non m’irritare: oramai il
tuo destino è troppo legato al mio; se tu credessi di tradirmi, se
tu credessi di abbandonarmi, io dirò ad alta voce, che tu hai
avvelenata tua moglie!
— Taci, sciagurata! — balbettò Guido spaventato.
Nara proseguì:
— Ed io mi accuserò come tua complice; e se non mi crederanno, dirò
che facciano l'autopsia del cadavere. —
Guido di un balzo fu vicino a Nara e le chiuse brutalmente con una
mano la bocca.
Poi trascinandola sul divano:
— Taci! — ripeté — taci, od io non rispondo più della mia collera.
Ah! fosti tu, tu sola, che mi spingesti al delitto, ed ora mi accusi
e mi rimproveri! Non ti ho io amato fino a credere un’infame la mia
moglie legittima, fino a sbarazzarmi di lei, per farti ricca, per
darti un avvenire? Che vuoi di più? —
Negli occhi di Nara v’era un'espressione di ribellione e di odio,
pure cercò di contenersi, e gettando le braccia al collo di Guido
con una stretta violenta, convulsa:
— Hai ragione, perdonami, sono pazza! — esclamò — ma ti amo
tanto!... —
In quel giorno, Guido non uscì di casa, ma la mattina seguente,
appena fu l'alba, inforcato il cavallo, si avviò di nuovo verso i
Campi Elisi con l'idea di trovare l'incognita, che ormai egli voleva
conoscere a qualunque costo.
E non si accòrse, che dietro lui, in una vettura chiusa, v’era Nara,
la diabolica Nara, che sospettando dal contegno di Guido, e dal
vederlo uscire così per tempo, l'aveva seguìto.
Ma la gita per quella mattina fu inutile. L'incognita non si lasciò
trovare.
Nara fu un po' più tranquilla, vedendo che Guido, dopo quattro o
cinque corse fatte lungo i viali, se ne tornava a casa.
Egli dunque era uscito per passeggiare, e si era ingannata,
sospettando di lui.
Il giorno dipoi, Nara non lo seguì, e Guido fu più fortunato.
Egli vide da lungi una carrozza co’ cavalli neri, che le parve
quella dov’era l’altra mattina l’incognita.
Spronò il cavallo, e quando fu vicino, riconobbe infatti la bella
signora, tutta sola, così immobile che pareva una statua.
Gli sguardi di Guido si fissarono avidamente su lei, e gli sembrò
che un fugace rossore colorisse quelle guance bianche al pari del
marmo.
Eppure gli occhi dell'incognita non si erano rivolti dalla sua
parte.
Guido lasciò passare la carrozza, poi le tenne dietro a breve
distanza, ed intanto egli seguiva il corso delle sue fantasticherie.
Perchè quella bella incognita vestiva completamente a lutto? Perchè
appariva così pallida e pensosa? Qualche sventura l'aveva forse
colpita? Si era accorta di lui che la seguiva, che si sentiva
attratto come da una forza magnetica verso di lei?
— Sarebbe strano.... — mormorava Guido. — Io che ho avvelenato mia
moglie per sbarazzarmene, sarei sul punto d'innamorarmi di
quest'incognita, solo perchè le rassomiglia?... Oh! se lo sapesse
Nara.... —
Pensando a costei la sua fronte si offuscò. Gli parve di sentire
alle sue orecchie il riso beffardo, sardonico della ballerina!
Ma era possibile che egli, possessore di un essere delicato, etereo
come era Clara, si fosse gettato in balìa di un ignominioso
capriccio, avesse distrutto per sempre l'avvenire del suo cuore,
ogni sua felicità?
E Nara l'amava veramente? Erano sinceri quegli slanci di passione,
quelle ansie, quei delirî, quelle estasi, che avevano finito per
sconvolgere il cervello di Guido e l'avevano reso lo schiavo devoto
e sommesso di quella maliarda?
Mentre così pensava, Guido vide la carrozza dell'incognita fermarsi
dinanzi al cancello di un elegante villino. Spronò il cavallo e fu
in tempo di vedere scendere la bella signora, mentre il cancello si
spalancava ed appariva sulla soglia un'altra giovine donna di
ammirabile bellezza, bruna, vivace, e che si vedeva prossima ad
essere madre.
— Abita qui la mia incognita, — pensò Guido — o viene soltanto a
fare una visita? —
Accorgendosi di essere osservato dalla brunetta, alla quale
l'incognita aveva parlato a bassa voce, il conte arrossì come un
fanciullo còlto in fallo, e dato di sprone al cavallo, disparve
subito dalla loro vista.
— Quanta paura ho avuto che egli mi riconoscesse! — sussurrò
l'incognita alla compagna, mentre si avviavano a braccetto sul
sentiero fiorito, che conduceva all'ingresso della villetta.
— Non è possibile, — rispose la brunetta con serietà e dolcezza ad
un tempo — ed io credo che il notaro abbia avuto ragione.
— Taci, Ines, ti ripeto che ho paura....
— Ed io spero, invece.... Ora bisogna rivelar tutto ad Alfonso, che
come te, temeva che la cosa non riuscisse.... —
Era dunque proprio Clara quella bella creatura, che faceva
fantasticar il conte, e toccava una segreta ferita del cuore di lui?
V.
La contessa Rambaldi, seguendo il consiglio del notaro, aveva
trasformata la sua figura, e aveva assunta un'aria di mistero, che
doveva colpire la fantasia di quanti l'avvicinavano.
Un'ammirabile capigliatura d'ebano aggiungeva una malìa nuova, un
nuovo incanto ai suoi lineamenti delicati, alla sua carnagione da
bionda. Si era tinta di nero le ciglia e le sopracciglia, ma non
aveva potuto trasformare la dolcezza dello sguardo, il mesto
sorriso.
La prima volta che Clara si guardò nello specchio, non si riconobbe,
ma capì che doveva produrre una grande impressione in chiunque la
vedeva.
Essa era bellissima, ma di una bellezza strana, che dava da pensare.
Il notaro le aveva detto che bisognava tentare col conte la via
della seduzione. Clara ne avrebbe avuta la forza? Avrebbe saputo
sostener bene la sua parte? Sì, perchè pensava a sua figlia, che
voleva ricuperare, salvare.
E nello stesso tempo, vi era un intimo desiderio di ricondurre a
lei, che pure doveva ricordargli la morta, quell'uomo che l'aveva
negletta e disprezzata, per una femmina ignobile come Nara.
Ma ci vollero due buoni mesi, prima che la messa in scena fosse
completa.
Alfonso ed Ines non erano conosciuti dal conte Rambaldi, e quindi
nulla cambiarono della loro fisonomia; ma il vecchio notaro, si era
truccato in modo, da sfidare chiunque a riconoscerlo, da far invidia
al più abile trasformista.
Certi che Guido fosse a Parigi, erano partiti a quella volta, e ivi
giunti, presero a pigione un villino ai Campi Elisi e ammobiliarono
la casa in modo splendido.
La servitù era tutta francese, per evitare qualunque probabilità di
far trapelare il loro segreto.
Il vecchio notaro aveva assunto il nome di marchese Tomba: Alfonso
passava per suo figlio, ammogliato con la bella Ines. Clara era
creduta sorella di questa e vedova di un lord. Siccome ella vestiva
sempre di nero, portava delle perle nere al collo ed agli orecchi,
l'avevano soprannominata la Dama Nera.
E quel nome le rimase.
La prima volta che Clara si trovò dinanzi il marito, sentì come una
nebbia calarle sugli occhi, credette di morire. Il cuore aveva quasi
cessato i bàttiti, e fu un miracolo, se essa non mostrò chiaro
l'emozione che provava.
Ma, tornata a casa, si gettò fra le braccia del vecchio notaro e
scoppiò in un dirotto pianto.
— L'ho veduto, — balbettò — ma non so.... altro, non ho avuto il
coraggio di guardarlo.... Non so se potrò resistere alla prova.
— Lo potrete, figliuola mia, pensando a Lilia.... —
Clara si asciugò subito le lacrime.
— Avete ragione; grazie d'avermi ricordata mia figlia! — esclamò. —
Per lei sarò forte....
— Vi voglio così!
— Credete che Guido mi abbia riconosciuta?
— No, è impossibile; ma, certo, la vostra strana somiglianza con la
defunta, deve averlo colpito.
— E se invece, innamorato come deve essere di quella Nara, gli
riuscissi indifferente?
— Allora procureremo di cercare un altro mezzo per riavere vostra
figlia. —
Al secondo incontro, Clara, fatta certa che Guido la seguiva, ne fu
turbata e commossa; il cuore le batteva forte, ed il suo orgoglio
era eccitato.
— Sì.... voglio vincere, — disse a sè stessa.
Eppure, in fondo, aveva paura.
Guido, intanto, dopo un'altra corsa sfrenata lungo i viali, tornò al
palazzo; ma il giorno stesso, passava a piedi dinanzi al villino
dell'incognita, poiché desiderava vivamente sapere chi fosse.
Il cancello del villino era aperto, ed un giardiniere stava
trasportando alcuni vasi di geranî.
Guido gli si avvicinò.
— Chi cerca il signore? — chiese il giardiniere, guardando sorpreso
quello sconosciuto.
— Nessuno, amico mio, — rispose Guido con dolcezza — sono stato
attirato da questo bel giardino. Lo coltivate voi?
— Sissignore, — esclamò il giardiniere ringalluzzito, togliendosi il
cappello.
— Ve ne faccio i miei complimenti, e ne riceverete spesso, credo,
anche dai vostri padroni. —
Il giardiniere sorrise.
— Dai padroni no, ma dalle padroncine sì, perchè son molto
appassionate per i fiori, e ne vogliono avere in tutte le stanze.
— Ah! vi sono delle signorine?
— No,... una delle mie padroncine è maritata a un bel giovane, il
figlio del marchese Tomba; l'altra è vedova da parecchi mesi.... —
Guido finse una perfetta indifferenza.
— La vedova, — disse — è forse quella bella signora, alta, coi
capelli neri, bianca di viso, vestita a bruno?
— Sissignore.... ella non porta altri colori, ed ha giurato di non
smettere mai il lutto; perciò viene chiamata la Dama Nera.
— E, dite,... è francese?... —
Il giardiniere cominciava a diffidare di quello sconosciuto, che gli
faceva tante interrogazioni; e rimettendosi il cappello e sollevando
un vaso di fiori, disse ruvidamente:
— Non lo so; ma ecco il figlio del mio padrone. —
Alfonso colla moglie, la sorella ed il notaro, avevano udito, di
dietro le persiane, i discorsi che si facevano in giardino.
— Ora è il momento d'intervenire.... — disse Alfonso.
E stringendo una mano della sorella per infonderle coraggio, aprì la
vetrata che dava sulla terrazza dalla quale si scendeva in giardino.
Guido maledì in cuor suo di essersi fermato; voleva ritirarsi, ma
invece rimase inchiodato al suo posto.
Alfonso si avvicinò.
— Il signore cerca forse di me? — disse con corretto accento
francese.
Guido arrossì fino alle orecchie.
— No, — rispose inchinandosi colla compitezza di un gentiluomo — e
perdoni se mi sono inoltrato qui senza permesso, attratto da questo
incantevole giardino. —
Un lievissimo sorriso sfiorò le labbra di Alfonso.
— In verità, — disse — non ci trovo nulla di particolare; ma se al
signore piace, può visitarlo a tutto suo agio.
— Troppo gentile.... — mormorò Guido. — Permetta allora che mi
presenti da me stesso; sappia che io sono il conte Guido Rambaldi,
italiano.
— Un compatriota dunque! — esclamò in tono quasi allegro Alfonso —
perchè io pure sono nato in Italia. Sono figlio del marchese
Tomba....
— Romano?...
— Precisamente! — esclamò Alfonso, con un lieve sorriso. — Davvero
sono lieto di conoscervi: stringiamoci la mano, e permettetemi di
farvi gli onori di casa. —
Guido era commosso e agitato.
— Non vorrei disturbarvi.... — balbettò.
Alfonso finse di non avvedersi di quell'imbarazzo.
— Non disturberete affatto. Per quanto mia moglie e mia cognata
vivano assai ritirate, saranno lietissime di conoscere un
compatriota.
— Sono esse pure italiane?
— No.... sono nate in Ispagna, ma venute spose in Italia, l’amano
con passione, e ne parlano volentieri la lingua.... —
Così dicendo, Alfonso precedette il conte sulla gradinata che
conduceva alla terrazza e da questa si entrava nel salotto
principale della villetta.
Nel salotto v’erano riuniti gli altri personaggi.
Il notaro, imbacuccato in un'ampia veste da camera che gli scendeva
fino ai piedi, col viso a metà nascosto sotto le folte basette di un
grigio cupo, con due enormi occhiali azzurri a cavalcioni sul naso,
una zazzera lunga e brizzolata, un berretto di velluto nero, stava
sdraiato su di un seggiolone e pareva occupato a leggere un
giornale. Ines sedeva al pianoforte. Clara era vicina a una tavola,
sulla quale erano diversi album di disegni.
La contessa era abbigliata con una graziosa semplicità. Una specie
di peplo nero, chiuso al collo, disegnava le forme della sua
delicata persona: un giro di perle nere fermava i capelli, sollevati
in trecce alla sommità del capo. Pareva una statua greca.
Tutti finsero di essere confusi all'entrare di Alfonso in compagnia
del conte.
Il pianoforte si tacque: Clara richiuse l'album che aveva aperto: il
notaro lasciò cadere il giornale.
— Permettete, — disse Alfonso — che vi presenti un nostro
compatriota che il caso ha condotto nel vostro giardino, dal quale è
stato attirato. Il conte Guido Rambaldi. —
Le tre teste s'inchinarono in silenzio.
Alfonso, conservando sempre un umore gioviale e scherzoso, presentò
al nuovo amico suo padre, sua moglie, e da ultimo Clara, la quale
arrossì sotto lo sguardo del conte.
— Prego, — disse questi — che nessuno si disturbi per me....
— Ma è un piacere che ci fate, — disse il notaro con voce
leggermente nasale, additando a Guido una poltrona poco distante da
lui.
Dapprima la conversazione apparve un po' fredda, imbarazzata, ma a
poco a poco si fece animatissima.
Solo Clara non parlava, ma di quando in quando i suoi occhi si
volgevano alla sfuggita sul conte, che sorprendendo quegli sguardi,
ne provava un'emozione stranissima di gioia e timore ad un tempo.
Passò un'ora come un lampo. Guido stava per prendere congedo, per
non mostrarsi indiscreto, quando Alfonso chiese gaiamente al conte
se avesse moglie.
Guido impallidì. Clara sentì sospendere i bàttiti del suo cuore.
— Sono vedovo da tre mesi, — rispose il conte.
— Scusatemi d'aver suscitata una memoria dolorosa per voi, — disse
Alfonso che appariva commosso.
Guido chinò il capo sul petto senza rispondere.
Clara era immobile come una statua.
— Siete rimasto dunque solo? — disse Ines, con un accento
d'ineffabile tristezza.
— Sì, solo.... — ripeté Guido come un'eco.
Clara sentì squarciarsi il cuore. Che cos'era dunque avvenuto di sua
figlia? Non ebbe tempo di chiederselo, che mandò un gemito
angoscioso e si svenne.
Successe un vivo movimento nella sala. Alfonso fu il primo a correre
a sostenere Clara, e sollevandola fra le braccia come una bambina,
la trasportò in un'altra stanza.
Guido non osava di chiedere la causa di quell'improvviso svenimento;
ma si capiva benissimo che soffriva.
Il notaro se ne accòrse.
— Rassicuratevi, signore, — disse — è cosa che le succede spesso,
dopo la morte di suo marito: ha sofferto tanto!
— Povera signora....
— Forse se ella avesse avuta una bambina sulla quale rivolgere la
piena dei suoi affetti, avrebbe trovato un sollievo, un conforto, ma
la fortuna le ha tolto la felicità di essere madre....
Guido sospirò.
Alfonso ricomparve in sala.
— Ebbene? — chiese il conte con ansia.
Alfonso sorrideva.
— La crisi è passata, — disse — ora tornerà. —
E cambiò abilmente discorso.
Ma Guido era sulle spine: non voleva andar via senza aver riveduta
la bella ed interessante vedova.
Ella rientrò finalmente. Era ancora più pallida, ed i suoi occhi,
leggermente cerchiati di nero, scintillavano come brillanti.
Il conte Rambaldi provò un turbamento inesplicabile nel guardarla;
ma per timore di essere notato, dopo qualche parola di complimento,
manifestò il desiderio di andarsene.
— Voi tornerete presto a trovarci, non è vero? — esclamò Alfonso.
Guido esitava a rispondere, quando vide lo sguardo di Clara,
fissarsi sopra di lui.
Egli rimase magnetizzato.
— Sì, tornerò presto, — balbettò — e vi ringrazio di un'offerta che
mi rende tanto felice. —
Appena egli fu uscito, Clara si alzò.
— Bisogna seguirlo, — disse agitata — voglio sapere dove egli abita
e con chi è.
— Ci avevo già pensato! — esclamò Alfonso prendendo il cappello per
uscire. — Io non torno a casa, finché non lo avrò saputo. —
Fuori dalla palazzina, vide Guido che attraversava il viale.
Lo pedinò a una certa distanza.
Il conte Rambaldi pareva fuori di sè, agitava le braccia come se
parlasse con qualcuno, urtava i passanti, e poco mancò non rimanesse
investito da una carrozza che veniva di carriera.
Poi si fermò dinanzi ad una trattoria, e dopo un momento di
esitazione, vi entrò.
— Che sia proprio solo a Parigi? — esclamò Alfonso, contrariato. —
Perchè non va a casa a pranzo? —
Passeggiò un poco dinanzi alla trattoria, senza decidersi ad
entrare.
— Egli non deve vedermi! — pensava.
E non volendo al tempo stesso attirare l'altrui curiosità, andò in
un caffè dirimpetto, sedette ad un tavolino vicino alla vetrata,
dalla quale poteva vedere la porta della trattoria.
Passarono quasi due ore. Alfonso incominciava a perdere la pazienza,
quando il conte apparve sull’uscio col viso acceso, come se avesse
bevuto molto, con gli occhi lustri, e un sigaro d’avana in bocca.
Stette alcuni minuti fermo sul marciapiede, poi prese a destra.
Alfonso uscì dal caffè e si rimise a pedinarlo.
Il conte Rambaldi non si fermò che sul boulevard degli Italiani,
dinanzi al suo palazzo, dov’era un carrozza, che pareva aspettasse
qualcuno.
Alfonso vide il conte scambiare qualche parola col cocchiere, poi
sparire nel vestibolo del palazzo.
Dopo aver aspettato cinque buoni minuti, entrò egli pure e andò
difilato allo stanzino del portinaio. Il suo aspetto da gentiluomo
impose subito.
— Abita qui il duca di Maddaloni? — chiese Alfonso con aria altera.
— Nossignore, — rispose umilmente il portinaio — in questo palazzo
non abbiamo che un conte e due marchesi.
— Eppure la carrozza che è ferma sulla porta, mi pare quella del
duca.
— Vi siete ingannato! Appartiene al conte: un italiano che abita qui
da poco tempo. Ecco, vedete, quella signora che passa adesso sotto
il vestibolo, è la contessa. —
Alfonso trasalì e guardò vivamente dal finestrino.
Egli non conosceva Nara che al ritratto che gliene avevano fatto, ma
l'indovinò tosto in quella donna vestita di un'eleganza eccezionale,
ma un po' eccentrica, dal color bruno della pelle, dalle labbra
sporgenti, dagli occhi che brillavano come carbonchi.
— Che superba creatura! — pensò Alfonso — ora comprendo il potere di
una tal donna su di un uomo debole, com’è il conte. —
Egli si rimproverò tosto quell'idea.
— E pensare che colei ha avvelenato la mia povera sorella e ha
tentato di farla seppellir viva! —
Allora un brivido gli corse fra pelle e pelle, ed il suo sguardo
divenne pregno d'odio profondo.
La carrozza se n’era andata, ed Alfonso, traendo un napoleone d'oro
dal taschino del panciotto, lo diè al portinaio, dicendogli:
— Questo è per voi.
— Troppa bontà, mio principe.
— Non sono nè principe nè titolato, ma un cittadino come voi. Dite,
amico, quella bella signora che è uscita adesso, non ha figli?
— Sì, ha una bambina, che pare un angioletto, ma non la conduce mai
con sè.
— Dunque è una cattiva madre?
— La governante dice che la contessa non vuol bene alla bambina e
anche il conte non può vederla. —
Alfonso ratteneva a stento la sua commozione.
— E la governante, almeno, è una buona donna?
— Signore, è un angelo, una perla.... la bimba vuol più bene a lei,
che a sua madre. —
Alfonso lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, e più riconfortato,
lasciò il palazzo di Guido, prese una vettura di piazza, e si fece
condurre al villino, dove lo attendevano con ansietà. Non tacque
nulla di quanto aveva fatto e aveva saputo.
Clara pareva pazza dalla gioia; piangeva, abbracciava il fratello,
esclamando fra i singhiozzi:
— La mia Lilia è dunque salva, è salva.... io la vedrò, la vedrò
ancora, la stringerò fra le mie braccia, sentirò ancora chiamarmi
mamma. —
Tutti erano commossi; ma il notaro, calmatosi per il primo, disse:
— Sì, la rivedrete, contessa, ma bisogna agire colla massima
prudenza; vostro marito non ha alcun sospetto su di voi, eppure
l'avete colpito profondamente. —
Clara divenne accesa in volto.
— Ora tocca a voi sostenere abilmente la commedia, se volete davvero
salvare vostra figlia, — aggiunse il notaro.
Clara stette un istante pensosa, con la fronte china, e il petto
anelante.
— Ora tocca a me.... — disse a voce bassa — bisogna farsi coraggio.
—
Ines si avvicinò a lei, e cingendole con un braccio la vita:
— Ami sempre tuo marito? — chiese.
Clara rimase calma.
— No, — diss'ella, posando una mano sul petto — il mio cuore è
morto.
— Allora la vittoria è tua. —
Un lampo brillò negli occhi di Clara.
— Sì, — disse con voce ferma — forse hai ragione, Dio mi aiuterà! —
Ines la strinse fra le sue braccia.
— Ti aiuteremo tutti, — esclamò — per vincere e dimenticare! —
VI.
Non vi era dubbio. Guido si era pazzamente innamorato della Dama
Nera, che gli ricordava sua moglie.
Cercò di raddoppiare di carezze, di premure con Nara, perchè
l'infernale creatura non si accorgesse del suo cambiamento; e già
pensava in cuor suo di sbarazzarsi di lei.
Un primo delitto ne trae sempre seco un secondo; come un tradimento,
ne trae sempre molti altri!
Guido non aveva più scrupoli.
Ogni qual volta egli poteva sfuggire a Nara, correva al villino dei
Campi Elisi e vi passava delle ore intiere, inebriandosi alla vista
di Clara, che, se lo guardava alla sfuggita con affetto e se
sospirava di quando in quando con soavità, difficilmente pronunziava
una parola in presenza di lui.
Ciò metteva al colmo la passione di Guido.
Un giorno, che giunse alla palazzina più presto del solito, trovò
Clara sola.
Ella sedeva su di una poltrona, vicino all'aperta finestra, che dava
sul giardino.
Un raggio di sole rischiarava quel pallido volto che pareva quello
di una statua.
Clara non ebbe la forza d'alzarsi quando Guido entrò e si avvicinò a
lei, ma lo salutò con un sorriso e gli stese la mano che Guido si
portò alle labbra.
Il contatto di quella mano gli fece un effetto stranissimo.
Gli parve di baciare la mano di una morta, tanto era fredda, e la
fisonomia di Clara completava l'illusione.
In quel momento gli sembrò proprio di vedere sua moglie uscita dal
sepolcro.
Chiuse gli occhi abbacinato.
Quando li riaprì, vide Clara che sorrideva di un sorriso assai
triste.
— Che avete, signore? — mormorò.
Il tono della voce di Clara risuonò nel cuore di Guido.
— Anche la voce somiglia alla sua; ma no, è un'illusione la mia! —
E si mise a ridere fra sè delle sue paure, dei suoi timori.
— Divento un fanciullo, — pensò — mia moglie da tre mesi è passata
agli eterni riposi. — E a voce alta: — Non ho nulla signora; —
rispose — ma mi sento triste, nel vedervi così pallida. Voi soffrite
molto, per la perdita di vostro marito che forse adoravate. Oh! lui
felice.... —
Clara fissò i suoi begli occhi sul viso di Guido.
— Forse vostra moglie non vi amava, signore? — chiese
tranquillamente.
Il conte si scosse.
— Sì, oh! sì; ma parliamo di voi.
— Io ho ben poco da dirvi. Adoravo mio marito, è vero, eppure non è
la sua morte che mi rende triste, è il pensiero che nulla mi resta
di lui. Eppure io l'ho sognato di avere avuto una bella bambina, coi
capelli d'oro, le sembianze d'angelo, una bambina che mi sorrideva e
mi chiamava mamma; ma non è stato che un sogno.
— Però voi siete giovane, siete bella, potete ancora provare la
felicità di essere sposa e madre. —
Clara scosse con tristezza il capo, ma il suo sguardo languido si
fissò sul volto di Guido con una tale espressione, che egli sentì il
sudore corrergli lungo la fronte e gli parve di venir meno.
— Ascoltatemi, — diss'egli — a voi piacciono molto i bambini, non è
vero? —
Clara spalancò gli occhi; sul suo viso di marmo, corse un'ombra
fugace di rossore.
— Oh! tanto, — disse — tanto!
— Ma se vi si offrisse una fanciulla non vostra, una bambina che non
ha più madre, ditemi, l'amereste? —
Clara cercò di frenare i palpiti del suo cuore.
— Che volete dire? Non vi comprendo....
— Sentite! Pochi giorni fa vi dissi che mia moglie mi aveva lasciato
solo al mondo: ebbene, v'ingannai. —
Clara non poté rispondere, perchè un nodo le serrava la gola.
— Io ho una bambina che è bella come un angiolo del paradiso.
— Oh! voi felice! —
Una nube oscurò la fronte di Guido.
— Non tanto felice, signora, perchè quella fanciulla mi ricorda una
colpa, perchè io l'odio! —
Clara si era voltata di repente, livida, con lo sguardo fisso, gli
occhi sbarrati.
— Voi odiate un'innocente?
— Non lo era sua madre.
— Ne aveste le prove?
— Le ebbi.
— L'avete colta in fallo?
— No, ma ho trovato una lettera che mi ha spiegato tutto.
— Ed ella confessò?
— No, mi giurò che quella lettera era di un fratello.
— E non l'avete creduta?
— No.
— Perchè?
— Perchè questo fratello non poteva esistere, perchè quando io le
chiesi le prove della nascita di lui, ella non seppe mostrarmele. —
Clara chinò il capo sul petto.
— E voi, — disse — che all'apparenza sembrate così buono, fate
espiare ad un'innocente una colpa che forse non è mai stata
commessa? E se sua madre non avesse mentito? Se quella fanciulla
fosse vostra figlia? —
I tristi sguardi della Dama Nera si fissarono tenacemente sul volto
di lui.
Una specie di angoscia stringeva il cuore di Guido.
Forse ripeteva a sè stesso che Clara era innocente e che Nara era la
sola colpevole. Invano cercava di ravvivare la sua collera contro la
defunta; invano ripeteva:
— Lilia non è mia figlia; io non la riconosco; mi vendico su di lei
del tradimento della madre. —
La coscienza gli rispondeva:
— Pazzo, disgraziato, assassino; tu solo sei il colpevole, e guai,
guai a te! —
Guido era molto pallido, dalla fronte gli gocciolava il sudore e le
mani gli tremavano convulsamente.
— Signore, — disse ad un tratto Clara, mentre i suoi occhi parevano
supplicare — vorreste concedermi una grazia?
— Una grazia? Ma dovete ordinare; io sono vostro schiavo, felice di
ubbidirvi. —
Uno strano sorriso increspò le labbra di Clara.
— Desidero di vedere vostra figlia! — disse.
Guido trasalì ed alzò la testa con vivacità.
— Se ciò può rendervi tranquilla, sono pronto ad andarvela a
prendere.
— Verrò io con voi. —
Guido non si aspettava una tale proposta, e non seppe che cosa
rispondere.
— Forse vi disturbo? — disse Clara dolcemente, e con uno sguardo
anche più tenero.
Guido era così confuso, che continuava a rimaner muto.
Clara fece un gesto di sorpresa.
Allora il conte, reso incapace di riflettere, le prese una mano e
portandola alle labbra con trasporto:
— Ah! perchè non vi ho conosciuta prima? — mormorò — quanto sono
disgraziato! disgraziato ed infame! —
Il volto di Clara mostrò un'espressione ingenua di stupore.
— Perchè?
— Se sapeste, ma non posso dirvi tutto, nè voi potete venire da me;
non me ne chiedete la ragione! La mia piccina, se la volete, ve la
condurrò qui, ve la condurrò io stesso. Oh! Clara.... —
La contessa ritirò ad un tratto la mano, quasi spaventata.
— Clara? Qual nome avete pronunziato?
— Perdonatemi, in questo momento mi pareva di veder mia moglie, di
cui voi sareste il ritratto perfetto, senza quei vostri bellissimi
capelli neri. —
Un leggiero sorriso sfiorò le labbra della contessa.
Guido continuò:
— Dal primo giorno che vi ho visto non ho avuto più pace.
— Forse perchè somiglio alla vostra cara defunta? —
Guido non seppe rispondere.
Eppure la contessa diceva la verità.
Quella rassomiglianza, alla quale non pensava che con un invincibile
orrore, era forse il più potente fàscino che l'attirava verso la
Dama Nera.
Morta Clara per cagion sua, egli l'amava, come non l'aveva amata mai
in vita, ed avrebbe commesso un nuovo delitto, e si sarebbe
sbarazzato di Nara, la sola cagione di tutto. E nella Dama Nera,
egli amava Clara.
Il colloquio continuò ancora pochi momenti; poi Guido chiese di
andarsene, promettendo che il giorno stesso avrebbe condotto Lilia.
La contessa gli stese la bianca mano, mormorando un «arrivederci»
col più seducente sorriso.
Questo sorriso scese al cuore di Guido, che se ne andò pieno di
speranza e di felicità. Ma tornato a casa, gli si fece incontro
Nara, coll'indignazione scolpita in viso, e gli occhi fiammeggianti
di sdegno.
— Ah! tu mi nascondi i tuoi segreti, e credi che io sia tanto
ingenua come la tua moglie morta, — gridò andandogli quasi addosso
coi pugni chiusi e le narici frementi. — Sappi che ho scoperto
tutto!
— Che hai scoperto?
— Dove vai tutte le mattine, sì.... non lo negare.... tu hai perduta
la testa dietro un'avventuriera, che si fa chiamare con un nome
strano, come la sua figura.
— Taci, non è vero!
— Ebbene, se non è vero, se non ti t'importa nulla di rimanere a
Parigi, oggi stesso partiremo. —
Guido fece un balzo indietro, ripetendo macchinalmente:
— Partire?
— Sì.... partire,... sono stanca di questa vita separata, sono
stanca di Parigi; è tempo che tu mantenga la tua promessa. —
A queste parole, Guido che teneva chiusi gli occhi, li alzò in viso
a Nara.
— Quale promessa?
— Quella di essere tua moglie. —
Egli fece un gesto d'orrore.
— No, mai! — esclamò — mai! —
E si celò il viso fra le mani, parendogli di vedere lo spettro di
Clara.
Non si può descrivere l'espressione feroce di collera apparsa sul
viso di Nara. I suoi occhi lanciavano scintille, le sue mani
convulse afferrarono le braccia di Guido, come in una morsa.
— Mai! — ripeté. — E sei tu che parli così,... tu che in ginocchio
imploravi un giorno il mio amore; tu che chiedevi, come una grazia,
che io dividessi la tua esistenza? Mai! Tu dunque speravi, dopo
avermi fatto uno strumento in mano tua, che io mi chinassi umiliata,
che io lasciassi libero il passo ad un'altra donna? Disingannati,
Guido: una volta fatta lega con me, non v'è forza che possa
scioglierti, non v’è donna che possa strapparti dalle mie braccia.
Suvvia, parliamo sul serio: quando sarò tua moglie?
.
— Te l'ho detto: mai! —
E queste parole gli uscirono chiare dalle labbra livide e convulse
per l'umiliazione e il dolore sordo ch'egli provava.
Nara allentò le braccia, e il suo sguardo selvaggio si volse attorno
come per cercare un'arma qualunque, da servirsene contro Guido.
Questi manteneva il suo sangue freddo.
— Dal giorno in cui tu mi spingesti ad avvelenare una innocente
creatura….
— Che? Adesso credi tua moglie innocente? — gridò Nara, con la
schiuma alle labbra.
E il suo viso era così spaventevole a vedersi, che Guido capì
d’essersi spinto troppo. Sapeva che quella trista donna era capace
di tutto, e tremò per il suo nuovo amore, che Nara diceva di
conoscere.
In quell'istante tutto il passato tornò chiaro alla mente del conte
Rambaldi.
Si ricordò delle parole del marchese di Chârtre, del racconto che
gli aveva fatto della precoce malvagità di Nara e come egli allora,
tutto assorto nell'amore della sua sposa adorata, non sentisse per
la ballerina che indifferenza e disprezzo.
Ma quella femmina perversa si era impadronita di lui, di lui, che si
era battuto per causa sua, che per lei era divenuto debole, infame,
assassino. Nara sola era colpevole.
Eppure quella lettera scritta ad Alfonso esisteva. Clara non aveva
negato, ma aveva asserito trattarsi di un fratello.
Era forse possibile? Qual mistero era mai quello? E perchè Clara si
era rifiutata di rivelarlo?
Guido si celò un'altra volta il viso fra le mani per non vedere lo
spettro vendicatore, ma Nara gliele abbassò con violenza.
— Io esco, Guido, perchè ho la testa in fiamme; se quando torno, mi
ripeterai ciò che or ora mi hai detto, guai a te, ricordalo, guai a
te! —
Guido non si mosse, non fece un gesto.
Nara, coll'animo pieno di odio e di rabbia, uscì dalla stanza.
Allora il conte divenne livido, gli mancarono le forze, tanto che fu
obbligato ad appoggiarsi tremante ad una seggiola.
— Miserabile, vile, io sono maledetto! Clara, la tua vendetta
incomincia; per me non vi sarà più felicità nè dolcezza nella vita,
e già prevedo che un giorno quella colpevole creatura mi trarrà sul
banco degli accusati. —
Si guardò attorno con terrore.
— No, vivaddio, prima la morte che il disonore pubblico, l'infamia!
— mormorò.
Si voltò, perchè la porta si era riaperta ed appariva la governante,
tenendo per mano Lilia.
Vedendo il conte, la buona giovane fece l'atto di ritirarsi e Lilia
si strinse alle gonnelle di lei, guardando coi suoi occhioni dolci,
che ricordavano quelli della madre, suo padre, che non aveva mai
avuto un atto di tenerezza per lei.
— Fermatevi, signora Elena, — disse Guido.
La sua voce tremava, e la governante, sebbene sorpresa, si avanzò,
dicendo a Lilia, in puro accento inglese:
— Vai, carina, a dare un bacio al babbo. —
La bambina si reggeva a mala pena sulle gambe deboli; pure,
all'invito della governante, si staccò da lei, e tendendo le piccole
braccia, fece per correre da suo padre. Ma inciampò sul tappeto e
sarebbe caduta, se Guido non fosse stato pronto a sorreggerla.
Un debole grido uscì dalle labbra del conte, un'indicibile
commozione gli strinse la gola; l'uomo fu vinto, e il padre, aprendo
le braccia, strinse la figlia come delirante, coprendola di baci e
di carezze, mentre Lilia gli diceva con voce infantile, che
assomigliava ad un'onda armoniosa, divina:
— Babbo, io ti voglio tanto bene! —
Guido, sconvolto, inebriato da quella musica celestiale, rispondeva
baciandole le guance rosee, i lunghi riccioli biondi:
— Lilia, Lilia mia. —
Un fruscìo di vesti nella camera vicina, lo fece trasalire, e in
quel momento provò un vero spavento.
Pensò alle minacce di Nara e disse a sè stesso che l'infame donna si
sarebbe vendicata sulla bambina.
Bisognava salvarla, salvarla ad ogni costo.
L'odio per la sua creaturina, era scomparso in un attimo; ora egli
non pensava che ai mezzi di salvarla.
La Dama Nera gli apparve luminosa dinanzi allo sguardo. Si, a lei
avrebbe confidato Lilia. Ma come fare, senza che Nara se ne
accorgesse?
Guido depose la bambina nelle braccia della governante, e
rapidamente, a bassa voce, disse:
— Vestite subito la piccina ed uscite con lei senza che la signora
se ne accorga. Aspettatemi all'angolo del boulevard. Fate presto. —
La signora Elena comprese che qualche cosa di grave doveva
succedere, ed uscì in fretta dal salotto con Lilia, nel tempo stesso
che Nara entrava dall'altra parte in abito da passeggio. Ella pareva
affatto calma.
Guido cercò contenere la sua commozione.
— Uscite? — disse con tranquillità.
— Sì, devo fare alcuni acquisti.
— Permettete che vi accompagni? —
Nara fece un gesto di stupore.
— Voi verrete con me?
— Perchè no? Ho pensato che sono un pazzo, che v'irrito senza
ragione e ve ne chiedo perdono. —
Un lampo di diffidenza passò sulla fronte di Nara, ma ella non lo
dette a divedere.
— Venite, allora, se così vi piace.
— Un momento, amica mia! Vado a cambiarmi il vestito e torno. —
Nara sedette sul divano per attenderlo.
Guido, invece di passare nella sua stanza, corse in quella della
piccina: Lilia e la governante erano pronte per uscire.
— Aspettate un momento, — disse il conte.
Ed afferrando una mano della signora Elena, con un singhiozzo nella
voce:
— Voi amate mia figlia? — le chiese.
— Darei la mia vita per lei. —
Il viso del conte raggiò, e fu quasi per portare la mano della
governante alle labbra. Ma si contentò di stringerla, e sempre in
fretta le disse:
— Ebbene, se amate mia figlia, recatevi con lei dalla signora che
v'indicherò e ditele queste precise parole: «Il signor conte le
consegna sua figlia, pregandola a salvarla, perchè la bambina corre
un gran pericolo.» —
La governante sussultò.
— Dite il vero, signor conte?
— Zitta, che alcuno potrebbe sentirci. Andate subito, ma prima
datemi ancora qui mia figlia perchè io l’abbracci. —
E la coprì, infatti, di baci e carezze, poi, scritto in fretta e
furia l'indirizzo della Dama Nera, strinse un’altra volta la mano
della governante, corse in camera, si cambiò il vestito, e raggiunse
Nara che non si era mossa di salotto e non sospettava di nulla.
Pochi minuti dopo, sdraiato con lei sui morbidi cuscini del loro
elegante equipaggio, Guido, raggiante di speranza, come non era mai
stato da molto tempo, discorreva di mode, mentre il pensiero volava
all'isolata palazzina, dove forse in quel momento la Dama Nera
stringeva fra le braccia la sua piccina, promettendole di farle da
madre.
Sua figlia e la Dama Nera! Ecco le aspirazioni di Guido in quel
momento; e Nara non si accorgeva di quello che passava nell'anima
dell'amante.
Nara era persuasa che qualche cosa stava per succedere; ma più abile
ancora di Guido nel dissimulare, mostrava sul volto i segni di una
gioia crudele.
Era bella, quel giorno, come un incanto, tanto che i passeggieri,
vedendo passare quella superba coppia, sdraiata sui cuscini
dell'elegante veicolo, si voltavano a guardarla, esclamando con un
sospiro d'invidia:
— Come sono felici! —
Nello scendere di carrozza, sotto il vestibolo del palazzo, Nara si
appoggiò con civetteria al braccio di Guido, e mentre salivano
l'ampio scalone, con una voce tutta carezze:
— Che hai Guido? — domandò — sei tornato tanto serio! —
Il conte si scosse e tentò di sorridere.
— Non ho nulla, te l'assicuro.
— La pace fra noi è tornata, non è vero?
— Oh! sì.
— Non attendo che di essere sola con te, per dirti quanto mi hai
fatto bene, quanto ti amo! —
Guido non rispose, ma un rossore improvviso gli salì alle guance.
Costretto a subire ancora le carezze ed i baci di lei, era per il
conte una tortura, giacché ormai sentiva una ripugnanza, un odio
intenso verso quella donna, che l'aveva disonorato, che l'aveva
spinto a commettere un delitto. E la sua tortura aumentava di più in
più, pensando alla Dama Nera, che egli amava, ma della quale si
riconosceva indegno.
— Qual’è la donna onesta che poserebbe la sua mano nella mia? — si
diceva. — Ah! ora,... ora comincia l’espiazione. Clara, sei
vendicata! —
Ed immobile e freddo come una statua, subì gli abbracci, i baci
convulsi di Nara; ma ella comprese che invano tentava riscaldare
quel cuore divenuto di pietra, e piena di sdegno, respinse da sè
Guido, e con voce sorda, convulsa, esclamò con accento d'odio
selvaggio:
— Ah! è così che abbiamo fatta la pace? tu m'inganni; lo so, lo
sento; ma trema, Guido.... tu non mi conosci ancora! —
Il conte non rispose.
Venne l'ora del pranzo; Nara fu sorpresa di non vedere nè Lilia, nè
la governante, e chiese al conte che ne fosse. Egli si strinse
noncurante nelle spalle.
Nara chiamò i domestici, i quali le dissero che la governante era
uscita da molte ore con la bambina, e non era ancora tornata.
Quindi passò nella stanza della piccina. Ogni cosa era al suo posto.
— Non può essere fuggita, — disse fra sè — a meno che Guido non ne
sia andato d’accordo, ma se è così, guai a lui! —
Tornò in salotto e trovò Guido, calmo e tranquillo, che desinava
solo.
— Non avete capito che vostra figlia non si trova? — disse Nara con
accento sardonico.
— Chi lo dice? — rispose freddamente.
Nara fece un gesto di sorpresa.
— Non avete sentito che da quando è uscita colla governante, non è
più tornata?
— Torneranno, state tranquilla e venite a desinare! —
Nara non poteva sfogare la sua rabbia, perchè i domestici andavano e
venivano.
Quando il pranzo fu finito, i due complici si trovarono soli. Nara
si alzò, ed incrociando le braccia al petto, gridò:
— Dov’è la piccina?
— Che volete che io sappia?
— Sì,... voi lo sapete; ma badate, Guido!...
— Le vostre minacce non mi spaventano; e d'altronde perchè
minacciate? Sono forse io che ho allontanata la piccina? E se alla
bambina succedesse qualcosa, che colpa ne ho io? Voi che speravate
di sbarazzarvi di lei, dovreste esserne contenta. —
Nara si avanzò lentamente verso di lui, ed accostando quasi il suo
viso a quello di Guido, con voce rauca e sibilante, esclamò:
— Ah! infame.... mentitore.... credi che io non ti legga in cuore?
Che non t'indovini? Ripeti, ripeti ancora che tu non sai dov’è
Lilia!
— Non lo so. —
Gli occhi di Nara s'iniettarono di sangue.
— Ebbene, la troverò io! — disse, e fece alcuni passi per uscire
dalla stanza.
Il conte si morse le labbra, strinse i pugni, e con voce sibilante
urlò:
— Fermatevi! —
Nara lo guardò, con quello sguardo freddo ed acuto che ghiacciava il
cuore, e facendo un leggiero movimento di disprezzo con le spalle,
si avvicinò all’uscio.
Guido non resistette. Di un balzo fu a lei, la cinse per la vita e
la gettò sul divano.
— Voi non uscirete, — gridò — non uscirete!
— Compìte la vostra opera, — rispose Nara, guardandolo con aria
stravolta — uccidetemi, come avete avvelenato vostra moglie! —
Il conte tentò di farla tacere, ma lei, dibattendosi sotto la
stretta di lui, continuava a gridare:
— Sì, avvelenatore, vigliacco, assassino! —
Guido perdette affatto la testa: colla schiuma alle labbra, gli
occhi quasi fuori dall'orbita, si gettò addosso a Nara, e la strinse
alla gola, mentre ella continuava a rantolare:
— Uccidimi, assassino, avvelenatore! —
La voce si spense ben presto sulle di lei labbra, i suoi occhi
divennero immobili, il corpo si abbandonò. Era svenuta.
Guido fu preso da spavento. Temendo di averla uccisa, si precipitò
fuori del salotto, corse nella sua stanza, prese il cappello ed uscì
di casa come un pazzo.
Non sapeva quello che si facesse, nè dove andasse. Sudava e
camminava colla fronte bassa, i pugni chiusi.
Ella l'ha voluto, — diceva tra sè — ella l'ha voluto! —
Andava di qua e di là a casaccio, arrestandosi di quando in quando
per asciugarsi il sudore, colla fronte agitata da fantasmi orribili,
minacciosi.
Giunse senza avvedersene ai Campi Elisi, e si trovò presso la
palazzina della Dama Nera; ma al momento di oltrepassare il
cancello, che era aperto, si fermò.
— Che dovrò dir loro, se mi vedono in questo stato? Dio mio, purché
mia figlia sia salva, che importa di me e della mia vita? Che io sia
davvero un assassino? Mi pare di diventar pazzo. —
Si asciugò un'altra volta il sudore, e messa da parte ogni
titubanza, suonò violentemente il campanello.
Era già sera, pure egli vide come una forma oscura, che si staccava
da una pianta, avanzandosi verso il cancello.
Era il giardiniere.
— Buona sera, signore, — disse questi, togliendosi il berretto — è
venuto un po’ tardi. —
Guido si sentì venir meno.
— Che vuoi tu dire?
— Tutti i miei padroni sono partiti. —
Il conte afferrò il braccio del giardiniere.
— Partiti? Come? Quando? Perchè? Erano soli? Non vi era una bambina
con loro? Parla, in nome di Dio, parla! —
Il povero giardiniere si trovava davvero un po’ imbrogliato a
rispondere.
— Sono partiti che saranno due ore, — balbettò — ma non so dove
fossero diretti; del resto, signore, hanno lasciata una lettera per
lei.
— E perchè non me lo hai detto subito? Va'.... corri, va’ a
prenderla.
— L'ho qui nella giacchetta, signore. —
E la trasse infatti e la porse a Guido, che si affrettò a rompere il
sigillo. Ma era buio, e non ci vedeva a leggere.
Invano Guido lo tentò. Non vedeva che caratteri misti, confusi che
pareva gli ballassero dinanzi agli occhi una ridda fantastica,
infernale.
Il giardiniere si accòrse dell'imbarazzo di Guido.
— Venga con me in casa, — disse — accenderemo un lume, così ci vedrà
meglio. —
Il conte lo seguì, divorato dall'impazienza.
Appena il lume fu acceso, aperse il foglio con rapidità e lesse con
stupore:
« Signor Conte,
«Non vi spaventate se non trovate vostra figlia, e se per qualche
tempo non sentirete più parlare di lei.
«Vi giuro che è in salvo; io non l'abbandonerò mai, e sarò per Lilia
una madre.
«Voi mi rivedrete forse un giorno, quando avrete imparato che cosa
vuol dire soffrire, quando avrete versata la prima lacrima del
dolore.
«Siete per andare incontro a prove durissime, a pericoli immensi.
Forse il vostro nome sarà per essere disonorato; ma affrontate tutto
con coraggio!
«Ricordatevi quanto avrà sofferto vostra moglie innocente, reietta
da voi, da voi disprezzata, calpestata in ciò che una donna ha di
più sacro: nell'onore di madre.
«In nome di lei, vi comando di vivere. Ricordatevi che qualcuno
veglia su voi, ricordatevi soprattutto che vi sarà sempre vicina
coll'anima
« La Dama Nera. »
Se un colpo di fulmine fosse caduto ai piedi di Guido, egli non
sarebbe rimasto più sorpreso alla lettura di quel foglio misterioso;
quelle frasi un po’ ambigue non erano tutte chiare nello stesso
modo.
In quella lettera si nascondeva un segreto. Ma quale?
Perchè la Dama Nera s'interessava tanto di lui, della moglie morta,
di Lilia? Lo ignorava, e per quanto interrogasse il suo pensiero,
questo non sapeva rispondergli. Capì però che egli non era
indifferente a quella donna misteriosa, ed ebbe fiducia in lei.
Pensò alla figlia, e si chiese se non era stata un'imprudenza la sua
di affidarla in mano d’estranei. Ma scacciò tosto questo pensiero.
Non gli assicurava la Dama Nera che la piccina era in salvo?
Colla testa in fiamme, tenendo sempre stretta la lettera, Guido uscì
dalla palazzina e si diede ad errare nel buio dei viali.
Tutto ad un tratto trasalì, e mandò un debole grido.
Pensò a Nara che egli aveva lasciata stesa sul divano, inerte,
irrigidita, forse morta.
L'aveva proprio strangolata?
Grosse gocce di sudore gl'imperlavano le tempie e gli cadevano come
lacrime sul viso.
Assassino? Egli era una seconda volta assassino?
Allora non gli restava che fuggire, non gli restava che nascondersi;
ma dove, in qual luogo? Prima di tutto bisognava accertarsi della
verità.
Fermò una vettura che passava, per farsi condurre al palazzo; voleva
affrontare arditamente il pericolo.
Non gli diceva la Dama Nera di aver coraggio, che egli doveva subire
delle prove durissime, ma che bisognava vivere, e che qualcuno
vegliava su lui?
La Dama Nera avrebbe indovinata la sorte che l'aspettava?
Quando la vettura si fermò alla porta del suo palazzo, egli fu
tentato di non scendere. Nessun movimento si notava nei dintorni. Il
palazzo era tranquillo. Guido calmò la sua agitazione, pagò il
vetturino, e in fretta e furia salì l'ampio scalone di marmo, che
conduceva al suo appartamento.
Ma giunto sul pianerottolo, prima di premere il bottone del
campanello, celato nella modanatura della porta, si fermò un
istante.
Un silenzio perfetto regnava in tutto il palazzo.
Guido calmò i palpiti del cuore e suonò. Un domestico venne ad
aprire e trovandosi in faccia al padrone, s'inchinò rispettosamente,
tirandosi da parte.
Il conte si sentì crescere il coraggio, e con voce abbastanza ferma:
— Dov'è la signora? — chiese, mentre entrava e il servitore
richiudeva la porta.
— Sarà un'ora che è uscita, — rispose il servitore.
— Uscita? Impossibile!
— Eppure è così, signor conte.
— Ah! — esclamò Guido, con un sospiro di conforto, che sollevò il
suo petto oppresso — non si sentiva poco bene?
— Non mi pare, signor conte: appena vossignoria l'ha lasciata, la
signora ha chiamata la cameriera, perchè la vestisse. —
Guido credeva di sognare. Eppure si ricordava di aver lasciata Nara
stesa sul divano, irrigidita, colle labbra violacee, gli occhi
immobili come quelli di un cadavere. No, non si poteva essere
commedianti a tal punto!
Per persuadersene, Guido passò nell'appartamento di Nara e fece
subire un interrogatorio alla cameriera, e costei rispose press’a
poco come il servitore.
Quando la signora l'aveva chiamata, l'aveva trovata un poco pallida,
e si lamentava di un gran male di testa, anzi era persuasa che fosse
uscita appunto per questo.
— Ha fatto attaccare la carrozza? — chiese il conte, che la
lontananza di Nara pareva averlo sbarazzato di un gran pensiero ed
era divenuto quasi ilare.
— Nossignore, ha mandato a prendere una vettura di piazza.
— Sta bene; non voglio saper altro; quando torna fatemi chiamare. —
E si ritirò in camera sua.
Ora che Guido si trovava tranquillo sulla sorte di Nara, si
lambiccava il cervello per indovinare dove mai si fosse recata.
Forse Nara era andata in cerca della piccina, ma non l'avrebbe
trovata. La Dama Nera era partita per portarsela con sè.
E pensando alla misteriosa vedova, rilesse il foglio da lei scritto;
mille idee attraversarono il suo cervello e pensò a quel vago
pericolo che lo minacciava.
— Ella mi esorta ad aver coraggio, ed a vivere.... ebbene, sì, lo
farò, lo farò, qualunque disgrazia mi possa accadere. —
E le sue labbra si posarono a lungo su quel foglio, che portava
ancora il profumo delicato che avvolgeva la bella e misteriosa
creatura, alla quale abbiamo posto nome la Dama Nera.
Scorsero così due ore.
Nara non tornava, ma Guido si mostrava poco inquieto. Già si
decideva a chiamare il cameriere, affinché l'aiutasse a spogliarsi,
quando il domestico entrò dicendo che un signore vestito di nero,
grave come un magistrato, chiedeva di parlargli.
— Il suo nome?
— Mi ha detto che sarebbe stato inutile dirlo, perchè il signore non
lo conosce, ma aveva urgenza di vederlo.
— Conducilo in salotto, — disse Guido — verrò subito. —
E appena il cameriere fu uscito, Guido lasciò sfuggire
un'esclamazione di dispetto.
— Che seccatura! — esclamò. — Chi mai può essere quest'incognito?
Che vorrà da me? —
Si dette un'occhiata allo specchio, si aggiustò i capelli e passò in
salotto.
Il visitatore l'attendeva in piedi. Era un uomo di una quarantina
d'anni, dal portamento fiero e superbo, ma dallo sguardo dolcissimo,
affascinante.
— Con chi ho l'onore di parlare? — disse Guido che aveva ripresi i
modi spigliati del gentiluomo, avanzandosi verso lo sconosciuto.
— Il mio nome non vi direbbe nulla, signor conte, perchè non lo
conoscete. —
Guido fece un movimento di sorpresa. L'incognito se ne avvide e
proseguì:
— Vi dirò dunque semplicemente la mia qualità: sono il procuratore
della repubblica. —
Il conte Rambaldi restò un minuto immobile, colla fronte in sudore,
il cuore senza bàttiti, come colpito dal fulmine.
Che voleva da lui quel magistrato? Sarebbe venuto a lamentarsi da
parte di Nara? Ma Nara era viva, e da questo lato non aveva nulla da
temere. Ella, d'altronde, non poteva accusarlo, perchè sapeva che
perdendo lui, perdeva sè stessa. Questo pensiero restituì a Guido un
po' di coraggio.
Fece segno al magistrato di sedere, sedette egli stesso e, con voce
che cercò di rendere calma:
— A che debbo, signore, l'onore della vostra visita? — chiese.
— Ad una ragione molto grave, ed alla quale io stesso prestai poca
fede. Ecco il motivo perchè sono venuto in persona da voi, signor
conte. —
Il procuratore si fermò un istante.
Guido voleva parlare, ma la parola si spense sulle sue labbra.
— Ero solo nel mio gabinetto un'ora fa, — disse lentamente il
magistrato — quando mi fu annunziata una signora, che desiderava di
vedermi. Voi indovinate già chi fosse, signor conte.
Guido fece un gesto di testa negativo.
— Ve lo dirò io, allora. Era una giovane donna bruna, bellissima, un
ex-ballerina, che ho conosciuto in altri tempi e che adesso vive con
voi. —
Il magistrato parlava col tono di un perfetto gentiluomo.
Guido non rispondeva, ma i suoi occhi si facevano sempre più cupi.
— Voglio parlar di Nara, — disse il procuratore.
Il conte non mosse palpebra; ma con un accento sardonico:
— Forse è venuta a dirvi che la tratto male? — esclamò.
Il magistrato scosse la testa.
— Vi avrà detto che io ho allontanato mia figlia dal palazzo, ed
essa veniva a cercarla.
— No,... signor conte.... —
Guido si sentiva gelare il sangue, pure si strinse nelle spalle e
sorrise amaramente.
— Allora non vi comprendo, signore.... —
Il magistrato lo guardò fisso.
— Nara si accusa di aver avvelenata la contessa Rambaldi con la
vostra complicità, necessaria.... —
Guido scattò come una molla, il sangue gli era salito al viso: i
suoi occhi scintillavano.
— E voi avete prestato fede a simile accusa? — esclamò.
— No; — rispose con calma il magistrato — ma Nara afferma avere le
prove di quello che dice, insiste per il disseppellimento del
cadavere, dice che ha delle vostre lettere, nelle quali vi
dimostrate stanco di vostra moglie, che vi ha tradito e desideravate
liberarvene senza chiasso. Io ho dato ordine perchè Nara fosse
trattenuta ed ho voluto venire in persona ad avvertirvi. Se Nara per
qualche suo scopo particolare desidera perdervi, e voi siete
innocente, come credo, non avete che a congratularvi della prova che
Nara chiede. —
Guido era pallido come un morto, e faceva ogni sforzo per mantenere
il suo sangue freddo.
— Come! Voi vorreste?... — disse il conte, con accento soffocato.
— Tale è il nostro dovere, signore; e, come vedete, uso con voi
tutto il riguardo ch’io posso in questo doloroso ufficio. Invece di
mandar brutalmente due agenti, vengo io stesso a dirvi quanto
accade: nessuno qui lo saprà: voi verrete con me nella mia carrozza.
— Ma dunque, io sono in arresto? — esclamò Guido, facendo un nuovo
sforzo supremo, disperato, per contenersi.
— No, vi conduco semplicemente in casa mia; aspetto da Firenze una
risposta per telegrafo, quindi deciderò di voi. —
Guido, fremente, incapace di proferire una parola, fece un passo
indietro. Sul tavolino ingombro di oggetti, stava uno stile
triangolare, artistico. Il conte l'afferrò rapidamente.
Ma il procuratore, più lesto di lui, avendo indovinato l'atto, lo
fermò, nel momento che il conte stava per cacciarsi il pugnale nel
petto.
— Così dunque, vi confessate colpevole? — disse freddamente e con
voce grave il magistrato.
Guido si lasciò cadere l'arme, poi si celò il volto fra le mani, e
diè in singhiozzi.
Il procuratore ne fu commosso.
— Suvvia, signor conte, non lasciatevi abbatter così. Venite con me.
— Ed è vero.... è proprio vero?... —
Sì dicendo, dal viso, si portò le mani al petto.
Ad un tratto trasalì, e rialzò il capo con vivacità.
Aveva sentito sotto le dita il contatto della lettera della Dama
Nera.
Non gli diceva quella creatura misteriosa, che egli avrebbe
sofferto, ma che quelle sofferenze sarebbero state un'espiazione?
Bisognava vivere, e sfidar tutto.
— Sì, avrò coraggio! — esclamò il conte ad alta voce — sì, sfiderò
il destino, che mi è avverso.... —
E le sue guance si erano accese, gli occhi scintillavano.
Il magistrato fu talmente stupito a siffatto cambiamento, che per un
minuto non poté articolar parola.
Guido lo guardò superbamente.
— Signore, — disse — permettete che io vada in camera a prendere il
cappello, e sono con voi. —
Il magistrato esitava.
— Temete forse che io fugga o che tenti nuovamente d'uccidermi? Vi
avverto che ho cambiato pensiero,... e vi do la mia parola di
gentiluomo....
— Basta così, signor conte, — interruppe il magistrato. — Andate; io
vi attendo qui. —
Guido aprì l'uscio del salotto e traversò il corridoio che conduceva
nella sua stanza.
Il magistrato poteva vederlo dal suo posto. Un candelabro a tre
becchi, posato su di un cassettone, illuminava la camera di Guido.
Il conte si avvicinò per prendere il candeliere e mancò poco non
gettasse un grido trovandovi sotto un biglietto aperto, non firmato,
ma la cui scrittura era perfettamente uguale a quella della lettera
che teneva nel soprabito.
V’erano due sole righe di scritto e dicevano:
«Coraggio: per qualunque cosa vi succeda, non lasciatevi abbattere.
Qualcuno veglia su voi.»
Come era capitato, quel biglietto in quel luogo? Chi ve l'aveva
posto?
La Dama Nera? Ma come si era introdotta in camera sua?
Guido suonò febbrilmente il campanello ed apparve il servitore.
Il magistrato vide che questi aiutava il conte a mettersi il
soprabito e non sentì le domande di Guido.
— Chi è stato qui durante la mia assenza e quella della signora? —
mormorò Guido al domestico.
— Nessuno, signor conte.
— Non mentire, voglio sapere da te la verità!
— La verità è, signor conte, che durante la sua assenza, anch’io son
andato fuori con Sandrina e Giacomo.
— Chi è rimasto in casa?
— Stefano, signor conte.
— Vai subito a chiamarlo.
— Non lo troverei, perchè è uscito subito dopo che noi siamo
tornati. —
Guido fece un gesto di dispetto, pure capì che bisognava
dissimulare. E rivoltosi al servo:
— Io esco con quel signore, — disse — forse non tornerò a casa a
dormire; durante la mia assenza, bada bene che l'appartamento non
venga abbandonato.
— Non dubiti, signore.
— Dammi il cappello e vieni a far lume. —
Il domestico eseguì. Il visitatore era già pronto.
Guido, con un inchino da gentiluomo, senza ostentazione, fece
passare innanzi a sè il magistrato.
Una carrozza li aspettava alla porta.
Ma prima di salire, Guido portò inosservato alle labbra il biglietto
della Dama Nera, e disse fra sè, con rassegnazione:
— Ora, sia di me quello che vuole il destino! —
VII.
In quell'anno, tutta Firenze si commosse al rumore di uno scandaloso
processo, che si sarebbe discusso presto dinanzi la Corte d'Assise.
Un gentiluomo, distinto per nascita e per coltura, il conte Guido
Rambaldi, era accusato di aver avvelenato la moglie colla complicità
di una ballerina, la celebre Nara. Egli aveva negato il delitto, e
si era dichiarato innocente.
Nulla provava il contrario, perchè il cadavere della contessa, non
era ancor stato esumato; ma la voce pubblica ricordando il tenore di
vita condotta dal conte, dichiarava francamente che Guido doveva
essere colpevole, e ricordava la grazia, la bontà angelica di Clara,
le lunghe torture e le crudeli amarezze da essa sofferte.
I domestici stati interrogati, i contadini tutti, erano concordi
nell'affermare che il conte Rambaldi maltrattava la moglie, ed erano
stati divisi per qualche tempo.
Di più, si diceva che la contessa si era posta a letto dopo una
visita al palazzo del conte e che quando questi venne a visitarla,
la moribonda, riconoscendolo, l'aveva respinto con orrore ed era
morta come fulminata.
Un'altra terribile accusa pesava su Guido. Si diceva che egli aveva
fatto scomparire la bambina e Nara affermava che Guido, da lungo
tempo, voleva sbarazzarsi anche di lei. Il conte Rambaldi veniva
designato come un essere mostruoso: Clara e la piccola Lilia, le
vittime delle sue ipocrisie, delle sue infamie.
Guido, rinchiuso in una stanza a pagamento della prigione delle
Murate, attendeva impassibile il risultato della perizia,
protestando della sua innocenza e gettando la colpa su Nara.
Ma quando gli fu richiesto dove avesse lasciato la figlia, Guido
trasalì, come tocco da una pila elettrica.
Costretto a rispondere, disse che l'aveva affidata ad una buona
persona, per salvarla da Nara. Ma non volle assolutamente dire il
nome della persona, nè il luogo dove Lilia fosse nascosta.
Tutte le indagini per trovare la bambina riuscirono inutili, quindi
si finì per essere convinti, che Guido l'aveva uccisa e aveva fatto
scomparire il cadavere.
Ma la governante?
Forse il conte le aveva consegnata una grossa somma, ed era partita
segretamente per l'estero.
Si diceva poi, che il motivo di questo doppio delitto era per
raccogliere l'eredità della contessa, trovandosi Guido in gran
bisogno, perchè aveva finito tutto il suo patrimonio.
Su Nara le opinioni erano diverse: chi la voleva colpevole, chi
sfortunata.
Alcuni scusavano la sua parte di complice, dicendo che la ballerina
era stata assalita da una passione, che l'aveva resa schiava del
conte! Altri concordavano che Nara era un mostro di scelleratezza e
che Guido era stato travolto da lei, in una trama infernale.
Benché si cercasse ogni modo di tener segreto il giorno in cui il
giudice istruttore si sarebbero recato al cimitero dell’Antella per
assistere all'esumazione del cadavere della contessa, qualcosa
trapelò al di fuori, e vi furono alcuni che andarono all'Antella,
per la curiosità di conoscere i particolari dell'esumazione.
Quando fu annunziato a Guido che egli doveva assistere al
disseppellimento del cadavere della moglie, egli, che non si
aspettava tale disposizione, impallidì e parve che svenisse.
No, — disse — non verrò, non posso!...
— Siete innocente e temete di vedere il cadavere della contessa? —
Il conte batteva i denti e stendeva le mani, come se avesse visto
improvvisamente un fantasma dinanzi a sè.
— Sono innocente, ma non posso, non posso.
— Eppure, signor conte, dovete venire, e spero che non vi sarà
bisogno d'impiegare la forza per condurvi. —
Un rossore acceso salì al viso di Guido: tutto il suo orgoglio di
gentiluomo si rivoltò. Cercò vincere la sua debolezza, ricordò le
parole della Dama Nera e con voce ferma, vibrante:
— Ebbene, sia — disse — verrò. —
Mezz'ora dopo, in una vettura chiusa, il conte, insieme ad un
magistrato e a un cancelliere, si recavano all'Antella.
Il custode del cimitero non era più quello che conoscemmo al tempo
della morte della contessa.
La gente diceva che, raccolta una piccola eredità, si era ritirato
in un podere colla sua famiglia e da becchino era diventato
agricoltore. Noi sappiamo meglio di tutti da qual parte, al
pover’uomo, era piovuta l'eredità.
Il nuovo custode era un uomo pingue, dalla fisonomia gioviale, che
pareva godersela in mezzo ai morti. Nonostante in quel giorno si
mostrava un po' agitato, sapendo che la giustizia veniva per esumare
un cadavere.
Quando giunsero il giudice istruttore col cancelliere e il conte, il
custode si affrettò a spalancare il cancello, che si richiuse subito
dopo, per impedire alla gente che era ivi accalcata di penetrare nel
recinto del cimitero.
Quando Guido scese di carrozza pallido come un cencio di bucato; le
sue labbra tremavano convulsamente, gli occhi si rivolgevano
stralunati all'intorno.
— Coraggio, — gli sussurrò il magistrato, che suo malgrado sentiva
per il gentiluomo una profonda compassione.
Il conte non rispose.
Si diressero tutti alla modesta tomba della contessa.
Alcuni passi prima di arrivarvi, Guido si fermò: grosse gocce di
sudore gli scorrevano dalla fronte.
— Non posso, non posso…. — disse con voce soffocata.
Il magistrato lo sostenne ancora, e l'incoraggiò.
Ma l'emozione del conte fu ancor più violenta, quando vide la tomba
di Clara, coperta da fresche ghirlande di fiori.
— Chi ha portati questi fiori? — chiese il magistrato al custode.
— Un giovane biondo, che viene qui spesso a pregare. —
Guido sentì una viva puntura al cuore. Quel giovane doveva essere
l'amante della contessa, l'uomo che ella diceva fratello, per il
quale egli aveva tanto sofferto.
Guido si scosse, e una vampa di sangue gli salì al cervello.
— Se anche l'avessi avvelenata, — esclamò — forse la traditrice non
se lo meritava? —
Il magistrato continuava ad interrogare il custode.
— Sapete il nome di quel signore? —
Il becchino guardò sbalordito il giudice istruttore.
— Noi non domandiamo mai il nome di coloro che vengono a pregare
sulle tombe, — rispose.
Il magistrato si volse a Guido.
— Sapete voi dirci chi sia? — chiese.
— No, — rispose il conte con voce tanto cupa, che il magistrato
trasalì, ed ebbe un nuovo sguardo di compassione per Guido.
— Che la contessa lo tradisse? — pensò. — Oh! allora questo
scemerebbe assai la colpa del marito. —
Il becchino aveva tolti i fiori, e alcuni muratori scassinarono la
pietra; e quando questa fu tolta, si vide la cassa d'ebano, che
doveva contenere il cadavere della contessa.
Guido teneva gli occhi fissi, sbarrati, come quelli di un pazzo. La
cassa fu tolta dal suo posto e messa su di una specie di tavolato.
Aprite! — ordinò il magistrato.
Guido si sostenne al braccio del vicino.
In un momento le viti furono tolte, ed il coperchio sollevato. Guido
aveva gli occhi chiusi, ma al grido gettato dagli astanti, trasalì e
li spalancò di nuovo. Allora credette d'impazzare, e sentì
offuscarglisi la vista, e le gambe gli si piegarono.
La cassa era vuota.
La scena, successa in quel momento, sarà più facile immaginarla che
descriverla.
La sorpresa era sul volto di tutti.
—Che vuol dir ciò? — chiese il magistrato a Guido.
Questi non parve intenderlo; era rimasto come fulminato.
— Bisogna interrogare il custode; — aggiunse il magistrato — non si
porta via un cadavere dalla tomba, senza che egli se ne accorga, a
meno che....
— Ebbene? — chiesero gli altri.
— A meno che la cassa fosse vuota, quando fu portata al cimitero. —
Sorsero allora alcune voci:
— Noi l'abbiamo veduta, la contessa, nella cassa.
— Era vestita tutta di bianco.
— Aveva delle perle al collo. —
Guido ascoltava tutti quei discorsi senza capir nulla e chiedeva a
sè stesso se era pazzo, o se sognava.
Il cadavere era sparito? Ma come? In qual modo?
Forse quello sconosciuto, che veniva a portar fiori sulla tomba,
faceva la commedia? Era lui il colpevole? Ma che ne aveva fatto di
quel cadavere?
Con lo sguardo fisso nel vuoto, assorto in un sogno pieno di
spasimo, Guido non intendeva più nulla di quanto succedeva intorno a
sè.
Vide il custode diventar pallido all'interrogazione del magistrato,
vide questi riscotersi e parlare ad una delle guardie, scòrse
l'agente allontanarsi; poi si sentì afferrare per un braccio, una
confusa nebbia gli ottenebrò la vista, vacillò un momento, e gli
parve come di cadere in terra, gli sembrò che lo spirito gli
s’involasse dal corpo.
Lo svenimento dovette durare a lungo, perchè quando aprì gli occhi,
si trovò steso sul letto nell'infermeria della prigione, e alcuni
uomini si affaccendavano attorno a lui.
— Come vi sentite? — chiese uno di essi.
— Non mi sono mai sentito male, — rispose — ho la testa un po'
vuota, debbo aver sognato: ecco tutto!
— Prenderete questo cordiale che vi farà bene. —
Guido lo respinse e si sollevò sul letto.
— Ebbene, si è saputo qualcosa sulla scomparsa del cadavere di mia
moglie?
— Non ancora, ma si saprà, perchè gli agenti sono in casa del
custode, ch’era addetto prima al cimitero. Appena arrestato, sarà
condotto qui. —
Guido scattò come una molla.
— Ebbene, credete forse che io sia d'accordo con lui? Credete che io
entri in qualche cosa nella scomparsa di quel cadavere? Sono
innocente, lo ripeto.
— Perchè dunque non volete dire dov’è vostra figlia? Anche questa è
sparita in modo misterioso.
— Mia figlia vive ed è salva, così vorrei sapere che cosa ne è stato
della contessa. —
Di mano in mano che Guido tentava di sbrogliare il terribile nodo
che lo stringeva, questo lo serrava di più.
Egli capì d'essere perduto. Dal modo con cui gli parlavano, comprese
che tutti erano convinti della sua colpabilità.
Intanto anche la strana notizia della scomparsa del cadavere della
contessa, si era divulgata in città, e tutti vi facevano sopra i più
strani commenti.
Chi avrebbe potuto districare la matassa, era la nutrice di Lilia,
Nanni il fiaccheraio, ed il custode del cimitero.
Ma codeste tre persone erano irreperibili, e tutte le ricerche,
tutte le indagini riuscirono vane.
Nara era stata messa a parte di tutti questi avvenimenti.
La prigionia non aveva calmata la sua esasperazione, il suo
desiderio di vendetta. Passeggiava nella sua cella come una tigre
nella gabbia: nella sua mente ingegnosa e perversa, ella formava
mille dentro di sè assurdi proponimenti, che tuttavia sperava di
mandare ad effetto.
Anche per lei fu un enigma la sparizione del cadavere della
contessa. Intravedeva in questo fatto, qualche cosa di terribile, in
cui forse ci sarebbe entrata anche lei. Vi fu un momento che
trasalì, senza sapere il perchè. Un pensiero rapido, come il lampo,
le era passato per la mente.
Se la contessa non fosse morta?
Se il veleno da lei propinato non avesse prodotto il risultato che
si aspettavano? Pure la contessa era stata rinchiusa nella cassa, e
seppellita! Ma era forse il primo caso che si dava, di persone morte
apparentemente o sepolte vive, e salvate ancora in tempo, da un
amante, da un parente affettuoso, o forse anche dal custode del
cimitero?
Ma perchè allora la contessa si era nascosta? Perchè non era
ricomparsa in società, a riprendere il suo posto, a reclamare la
figliuola?
Vi sono dei momenti in cui anche i malfattori più protervi, vengono
assaliti improvvisamente da terrori, da rimorsi; vedono apparire
dinanzi a sè le vittime da essi immolate, sembra loro che
gl'indichino da lontano un patibolo, più lungi ancora un fuoco
ardente, la divina giustizia e l'umana.
Queste visioni, questi terrori, assalirono un momento Nara, ma non
durarono molto.
—Sono una pazza, — si disse — che devo io temere? —
E quando il magistrato le fece noto che ella sarebbe posta a
confronto con Guido, Nara si raddrizzò altera e sdegnosa, con un
lampo selvaggio negli occhi e un sorriso feroce sulle labbra.
— Sono pronta! — esclamò.
Guido si trovava nell’ufficio del giudice istruttore, il quale
l'interrogava destramente sulle sue relazioni con Nara.
— Quella donna mi aveva stregato; — diceva Guido —per lei ho
abbandonata mia moglie, ma continuo a ripetervi, che del resto sono
innocente.
— Eppure Nara vi accusa. Sì, vi accusa di avere avvelenato vostra
moglie, di averla fatta sparire, nello stesso modo che è sparita
vostra figlia. —
Guido si alzò fieramente.
— Vi giuro che ella ha mentito, che ella mentisce tuttora.
— Qual ragione aveva di essere in collera con voi, di desiderare la
vostra perdita?
— Perchè voleva che io la sposassi, e mi sono rifiutato. —
Il giudice istruttore stava per fare un'altra domanda, quando entrò
un delegato facendo un cenno impercettibile colla testa.
—Fatela entrare, — disse a voce alta il magistrato.
Guido non si mosse, nè voltò il capo.
Era accasciato, avvilito. Nel suo cuore sapeva di essere colpevole,
e capiva che il castigo terribile, spaventoso che lo colpiva, era
meritato.
Ad un tratto sentì dietro di sè una voce, che lo fece trasalire per
tutte le membra e balzare in piedi come se fosse stato tocco da una
pila elettrica.
Nara era entrata, ed ora gli stava dinanzi, guardandolo fissamente,
colle braccia incrociate, un sorriso pieno di disprezzo sulle
labbra.
Pareva si compiacesse di vedere il conte pallido, sofferente,
avvilito. Pochi giorni di prigione l'avevano molto invecchiato.
Ella, invece, sembrava più bella, più fresca che mai. Le sue labbra
tumide parevano mandar sangue, gli occhi le brillavano come carboni
accesi, le guance avevano quel pallore caldo, dorato, che tanto
seduceva.
Vestiva con semplicità ed eleganza insieme. Si mostrava disinvolta,
come se si trovasse nel suo salotto di ricevimento.
— Sedete, signora, — disse il giudice istruttore, accennandole una
poltrona. — Voi pure, signor conte, tornate ad accomodarvi. —
Entrambi i colpevoli ubbidirono in silenzio.
— Ho chiesto questo confronto, che mi sembrava necessario, — disse
il magistrato.
— Ve ne ringrazio, signore! — esclamò Nara arditamente.
Il magistrato continuò:
— Sono sicuro adesso che la signora vorrà ritirare l'accusa che
colpisce l'onore e il nome di un gentiluomo.
A Nara scintillarono gli occhi.
— Io non ritiro nulla! — esclamò. — Egli è colpevole ed io sono la
sua complice.
— Continuate ad asserire che il conte ha avvelenato la moglie?
— Sì, lo giuro; da lungo tempo egli mi parlava dei suoi propositi di
sbarazzarsi di lei.
— E voi potete asserirlo? — chiese lentamente il conte, livido in
volto, ma in attitudine calma, guardando fissamente Nara.
— Sì, sei tu l'assassino! — esclamò Nara senza abbassare gli occhi —
fosti tu, che mi proponesti di avvelenare tua moglie. —
Il conte fece un atto come per slanciarsi su quell'infame creatura,
ma si rattenne.
— Signora, — disse severamente il magistrato — formulate la vostra
accusa, senza trascendere.
— Ah! voi vi fidate di quel viso pallido, di quegli occhi orlati di
rosso, e non sapete quanto egli sia infame!
— Signora!
— Lasciatemi finire. Io non volevo saperne di lui, egli si batté in
duello per me, mi supplicò piangendo come un fanciullo di amarlo, si
trascinò più volte ai miei piedi come un cane; mi fece promettere
che non sarei altro che sua, mi indusse ad avvelenare la moglie,
perchè eravamo intesi, che in Francia ci saremmo sposati. Non so
quello che successe, ma giunti a Parigi, cambiò modi con me;
l'incontro di una donna, che chiamavano tutti la Dama Nera....
— Chi è costei? — chiese il magistrato, volgendosi a Guido.
Il conte divenne livido, ma non rispose.
Nara riprese la parola.
— Era un'avventuriera.... —
Questa volta il conte scattò sulla seggiola.
— Tacete, non oltraggiate una donna che non siete degna neppure di
nominare! —
Nara era al colmo del furore.
— Ah! tu la difendi? Era la tua ganza dunque? Hai affidato a lei tua
figlia? Forse, d'accordo con lei, hai fatto sparire il cadavere di
tua moglie, perchè la mia accusa andasse a vuoto. Sì, io mi sono
vendicata, accusandoti; e se andrò in galera, tu mi seguirai. —
Guido, a tutte le ingiurie scagliategli da Nara, non rispose più una
parola.
Invano il magistrato cercò di scoprire qualche cosa intorno a quella
misteriosa creatura, che chiamavano la Dama Nera.
Il conte si rifiutò di rispondere, e quando tornò in prigione,
pareva calmo, quasi sorridente; mentre Nara si dibatteva fra
convulsioni terribili, con la schiuma alle labbra, gli occhi
iniettati di sangue.
VIII.
Era un martedì, quando si aprirono le porte della Corte d'Assise,
per questo clamoroso processo, che doveva avere un'eco in tutta
Europa.
Da tutte le parti, si erano mandati rappresentanti della stampa: tre
giorni prima, non si trovava più disponibile un biglietto di favore.
Fin dal mattino, le adiacenze della Corte erano invase da una folla
avida, ansiosa, in attesa che le porte della sala d'udienza fossero
aperte.
Le tribune erano occupate da tutta l’aristocrazia fiorentina. Pareva
che si dovesse assistere ad una rappresentazione di gran gala,
perchè le signore sfoggiavano le più splendide e ricercate
acconciature.
Quando le porte della sala d'udienza furono aperte, ci volle tutta
l’attenzione di un capitano di fanteria, perchè nessuno rimase
schiacciato. La folla irruppe dentro come un torrente minaccioso, e
presto invase tutti gli angoli.
Quando si capì che la sala non poteva più contenere altra gente, le
porte furono chiuse, ma si sentiva al di fuori la folla rimasta, che
rumoreggiava.
Il banco della stampa era pieno, i giurati erano al loro posto:
nessuno mancava, nessuno aveva trovato delle scuse per sottrarsi a
quell’ufficio delicatissimo, che mette sempre in perplessità la
coscienza di un galantuomo.
Entrò la Corte col presidente alla testa: i difensori erano alloro
banco. Al mormorìo della folla, successe un profondo silenzio.
Ed allora poté udirsi la voce chiara, sonora del presidente, che
disse:
— Introducete gli accusati. —
Tutti si voltarono dalla parte dove dovevano entrare. Il primo a
comparire fu il conte Guido Rambaldi. Vestiva di nero, era
pallidissimo in volto, ma teneva la testa alta, fiera, e guardò la
folla senza commoversi, nè si scosse, vedendo tutti gli occhi ed i
cannocchiali fissi su di lui.
Dopo il conte fu introdotta Nara. Anch'ella entrò a testa alta, con
un sorriso sulle labbra. Era splendidamente bella ed abbigliata con
un'elegante semplicità. Nulla di più voluttuoso dei suoi occhi
grandi, stupendi, dalle pupille luminose: il suo colorito bruno era
alquanto animato: le labbra sensuali, di un rosso vivissimo,
spiccavano sullo smalto dei denti bianchi, umidi, come quelli di un
fanciullo: la bruna lanugine, che gettava una specie d'ombra agli
angoli della bocca, dimostrava il carattere focoso, appassionato di
quella donna: le sue narici rosee si dilatavano frementi: nello
sguardo aveva qualche cosa d'indefinito, d'imperioso.
La sua entrata suscitò il mormorio nella folla.
Nara volse uno sguardo alle tribune, sorrise, poi sedette vicino a
Guido, che non si voltò neppure dalla sua parte.
Entrambi gli accusati ascoltarono senza batter ciglio l'atto
d'accusa, che svelava fatti mostruosi ad essi addebitati.
Poi il conte, invitato dal presidente, si alzò, ed a voce chiara
declinò le sue generalità; poi, commovendosi di mano in mano che
parlava, giurò di essere innocente della morte della moglie e della
scomparsa del cadavere, mentre confessava di non aver sempre usato i
riguardi dovuti alla contessa, perchè quella donna, che ora gli
sedeva al fianco, era stata il suo cattivo genio e voleva perderlo
per vendicarsi di lui, il quale aveva ricusato di mantenere una
promessa, sfuggitagli in un momento di delirio.
Nara voleva interromperlo; il presidente le ingiunse di tacere. Ma
quando toccò a lei a essere interrogata, schiacciò Guido colle sue
accuse, profanò la memoria della contessa Clara, parlò con cinismo
della sua passione per il conte e finì per esclamare:
.
— Io sono colpevole, ma quest'uomo che mi siede vicino, lo è più di
me: il mio delitto ha una scusa: la mia passione per lui; mentre
egli, sbarazzandosi della moglie, non aveva altro scopo che
d'impadronirsi del patrimonio di lei! —
Si può immaginare l'agitazione prodotta nella folla da quelle
invettive di Nara contro l'uomo che diceva di aver amato tanto.
Gli uomini le erano favorevoli: le signore cominciavano invece a
credere che Guido fosse un martire ed una vittima, e notando la
calma altera di lui, la serenità della sua fronte, si confermavano
viepiù nell'idea, che non fosse colpevole, come lo dimostravano
l'atto d'accusa e le parole di Nara.
Quando costei si tacque, incominciarono la sfilata dei testimonî.
Sorvoleremo su questa parte del processo, che tenne occupato il
pubblico per alcuni giorni.
Guido non smentì mai la sua calma; Nara invece si mostrava inquieta,
aveva degli scatti nervosi, degli impeti improvvisi, che facevano
fremere la folla, e fissava il conte con certi sguardi minacciosi,
che facevano rabbrividire le signore.
A mano a mano che il processo andava innanzi, l'opinione pubblica
diveniva contraria a Nara. Il marchese di Chârtre, giunto
espressamente da Parigi, come testimone a difesa di Guido, ebbe per
Nara una deposizione schiacciante.
Egli ripeté quanto sapeva intorno a lei: fu eloquente, mordace,
severo; si mostrò convinto dell'innocenza di Guido; parlò dell'amore
che questi portava alla contessa, della quale esaltò la bellezza
celestiale, le virtù di donna e di madre, e concluse dicendo che il
conte non poteva essere colpevole, ma doveva essere una vittima di
Nara.
Grosse lacrime caddero dagli occhi di Guido, alle parole di quel
nobile amico, del quale non aveva ascoltati i consigli: egli avrebbe
voluto gettarsi alle ginocchia di lui, chiedergli perdono; ma non
poté che stendere le braccia, e fu incapace di pronunziare una
parola. L'amico lo comprese, si avvicinò all'accusato, e gli strinse
una mano, dicendogli a voce alta, commossa:
— Coraggio! —
Mancò poco che la folla non l'applaudisse. Nara, invece, furente,
fece l'atto di sputare in viso al marchese.
Scoppiò un mormorio d'indignazione, che il presidente represse
subito, minacciando di far sgombrare la sala, e facendo ritirare il
testimone.
Ma un soffio nefasto spirò da quel momento per Nara.
IX.
L'esame dei testimonî era finito, ed il Pubblico Ministero stava per
alzarsi, cominciare la sua requisitoria, quando un usciere venne a
parlare all'orecchio del presidente.
La folla vide il magistrato sussultare, rivolgersi ai compagni, e
dopo una breve e vivace discussione, la sua voce tonò nell'ampia
aula.
— In virtù dei miei poteri discrezionali, chiedo che sia sentita
un'altra testimone. —
E voltosi all'usciere:
— Fate entrare! — esclamò.
Tutti volsero ansiosi lo sguardo da quella parte, ed un sordo
bisbiglio corse nella folla.
La testimone annunziata comparve. Era una signora tutta vestita di
nero, con un velo talmente fitto in viso, che sarebbe stato
impossibile di riconoscerla.
Ma Guido, a quella vista, sussultò: divenne alternativamente pallido
e rosso: una viva commozione pareva invaderlo.
Nara, invece, provò qualche cosa di freddo al cuore ed i suoi occhi
si fissarono fiammeggianti sulla sconosciuta.
Il pubblico faceva mille congetture: la curiosità già vivamente
eccitata, si accresceva sempre più.
L'incognita s'inoltrò con passo fermo sino al banco del presidente,
ed invitata a prestare giuramento, lo fece con una voce limpida,
squillante, che ebbe un'eco in tutti i cuori.
— Il vostro nome? — disse il presidente.
L'incognita con atto rapido alzò il velo, mostrando un viso pallido,
ma celestiale, incorniciato da capelli biondi, come l'oro purissimo.
— Sono la contessa Clara Rambaldi! — rispose ad alta voce.
Fu come un colpo di fulmine! Guido, che all'apparire dell'incognita
velata aveva creduto di riconoscere la Dama Nera, si vedeva dinanzi
sua moglie!... Capì, indovinò tutto, e rimase cogli occhi dilatati,
le labbra convulse, le narici frementi.
Nara, atterrita a quell'apparizione, si nascose colle mani il viso,
ma poi sollevandolo:
— Quella donna mentisce…. — gridò con audacia. — La contessa Clara è
morta.... —
Presidente, giudici, avvocati, giurati, si guardavano in viso, come
colti da stupore.
Tra la folla era corso un brivido di spavento; la gente si chiedeva
se sognava od era sveglia.
Ma il presidente, rimessosi subito dalla sorpresa, calmò gli animi
colla sua parola dignitosa, moderata; poi, volgendosi alla contessa
Rambaldi che solo era rimasta tranquilla, esclamò:
— Ripetete il vostro nome!
In mezzo al silenzio della sala, la voce della Dama Nera sorse
limpida, affascinante.
— Sono la contessa Clara Rambaldi, creduta morta, e come tale
deposta nella cassa e portata al cimitero dell’Antella per esser
seppellita. Ma Dio ha voluto salvarmi, e nella sua bontà non ha
permesso che io fossi sepolta viva! —
Un fremito glaciale percorse l'uditorio.
— Perchè non siete comparsa prima? — chiese il presidente.
— Perchè soltanto oggi son giunta a Firenze e ho saputo l'accusa che
pesava su mio marito. Io ero decisa a non risorgere per il mondo, a
non turbare la pace di chi credevo felice; ma siccome egli ha
bisogno di me, siccome egli viene accusato di un delitto che non ha
commesso, vengo qui per testimoniare dinanzi a tutti la sua
innocenza. —
Il conte non poté resistere a siffatta scossa. Essere proclamato
innocente da lei, che aveva tanto sofferto in causa sua, che egli
aveva negletta, respinta, avvelenata, che per lui mancò poco non
fosse sepolta viva, era cosa da smarrire il senno e, sopraffatto
dall'emozione, dalla vergogna, ruppe in un pianto dirotto.
La commozione del conte era passata nell'animo di tutti.
Nara scattò in piedi, furiosa.
— Ella mentisce!... ella mentisce!… — gridò.
Un mormorìo d'indignazione coperse la sua voce.
Ci volle qualche minuto prima che si ristabilisse il silezio: il
presidente disse a Nara che se non smetteva di gridare, l'avrebbe
fatta ritirare.
Poi, voltosi alla contessa, i cui occhi si fissavano pieni
d'interessamento e di pietà sul marito, disse:
— Diteci allora come avvenne che foste creduta morta.... —
La giovine donna cominciò a parlare, e la sua voce dapprima timida,
commossa, si fece poi, via via che parlava, chiara, profonda e
potente.
Tutti pendevano dalle labbra di lei. Guido aveva represse le
lacrime, ma il suo viso sconvolto mostrava le sensazioni dell'anima.
Nara fremeva sordamente.
— Da molto tempo io ero indebolita di salute, — disse — e andavo
soggetta ad attacchi catalettici, che potevano benissimo farmi
passare per morta, tanto ne acquistavo l'apparenza. Fu forse in uno
di questi attacchi, durati più del solito, che sono stata ritenuta
per morta.
«Io mi ricordo benissimo d'essermi veduta giacente nel letto,
incapace di fare il più piccolo movimento, presa da un torpore che
mi paralizzava tutte le membra....
«Mi ricordo di aver veduto mio marito chinarsi, piangere su di me,
chiamarmi spaventato per nome.
«Feci uno sforzo supremo per rispondere; mi parve che un grido mi
sfuggisse dalla gola, poi ripiombai in quel letargo, che mi
riduceva, vivente, allo stato di cadavere.» —
Il presidente l'interruppe.
— Ma il giorno prima, voi avete provata una violenta scossa morale;
— disse — sappiamo che vi eravate recata al palazzo di vostro
marito, il quale vi abbandonava per vivere pubblicamente con
un'altra donna.
— Io non l'accuso; — disse la contessa con mestizia — e se andai a
lui, non fu che per sistemare certi interessi.
— Ed egli vi ha minacciata?
— No.... lo nego....
— Ella mentisce, — gridò Nara — mentre sa benissimo che io e il
conte l'abbiamo forzata a firmare un atto, che non le facemmo
leggere.... e quando spaventata dalle nostre minacce si ripiegò su
di una sedia, perchè si sentiva svenire, il conte le fece ingoiare
il veleno, che io gli presentai in un bicchiere.... —
Guido era livido, ma non protestava.
— Non è vero! — esclamò la contessa Clara, con la sua voce
dolcissima, che commoveva tutti i cuori — nego che il conte mi abbia
minacciata; e se fosse vero che egli mi avesse apprestato un veleno,
a quest'ora non sarei qui,... a difendere il padre di mia figlia,...
mentre quella donna che dice d'averlo amato, di essere stata
colpevole per amore di lui, cerca di perderlo, senza rimorso, senza
pietà. Mio marito è innocente dell'accusa che grava sopra di lui, lo
giuro! —
La contessa dominava l'uditorio: ella teneva la testa alta, il
sangue le era affluito al volto, e tutto l'amore condensato nel suo
cuore per quell'uomo che l'aveva fatta tanto soffrire, le riluceva
nello sguardo rivolto verso di lui.
Ella continuò:
— Il medico che mi curava, riconoscendo in me tutti i segni della
morte, aveva constatato il decesso.
«Così fui chiusa nella bara, portata al camposanto; ma la tomba che
doveva raccogliermi non era ancor pronta, e fui deposta,
provvisoriamente, sopra un tavolato nella cappella mortuaria.
«Non so quanto tempo rimasi nello stato catalettico; ma tutto ad un
tratto mi parve che una voce soffocata pronunziasse il mio nome,
sentii una bocca appoggiarsi sulla mia. Quel contatto ruppe per così
dire il legame che mi attaccava alla tomba: il mio corpo sussultò,
le mie labbra si mossero. Tornavo alla vita e l'uomo che mi aveva
salvato era mio fratello.» —
Clara si tacque un istante commossa, senza che il silenzio religioso
dell'aula, la turbasse.
Poi riprese dolcemente:
— Sì, io ho un fratello, stato disconosciuto da mio padre, perchè
creduto figlio della colpa. Mia madre protestò fino alla sua morte
della propria innocenza, ma mio padre fu inesorabile.
«Mia madre, morendo, mi lasciò una lettera, nella quale
confermandomi di nuovo la sua innocenza, quantunque tutte le
apparenze fossero state contro di lei, mi scongiurava a vegliare sul
povero diseredato, ed il voto di mia madre mi fu sacro.» —
E qui Clara raccontò come ella prendesse cura d'Alfonso, come
valendosi di un fedel servitore potesse mantenerlo agli studî, per
procurargli uno stato, e far del giovinetto un uomo onesto.
Disse che tutti i tentativi per farlo perdonare dal padre erano
riusciti inutili, ed ella, per timore che qualche disgrazia fosse
capitata ad Alfonso, aveva sempre taciuto.
Clara continuò dicendo che sposata a Guido, non ebbe coraggio di
raccontargli tutto, perchè troppo sacra le era la memoria di sua
madre.
Questa sua prudenza, l'aveva perduta. E qui tessè il racconto dei
suoi primi anni di matrimonio, disse di quella donna che era andata
a frapporsi fra lei e il marito, e come con la complicità di un
servo, le fosse rubata una lettera di suo fratello e dato ad
intendere a Guido che egli era suo amante.
— Sì, è vero, — gridò il conte Rambaldi ad un tratto — dal giorno
che mi fu data a leggere quella lettera, io non ebbi più un momento
di felicità. Sì, ho ritenuto mia moglie colpevole, ho respinta mia
figlia, credendola generata da quell'Alfonso, che io non conoscevo.
—
Il pubblico si mostrò impressionato a queste parole, e degli sguardi
di collera si volsero su Nara, che con le braccia conserte, lo
sguardo scintillante, sembrava voler dominare tutti.
Il presidente impose silenzio, perchè i mormorii erano ricominciati.
Clara, riprese la parola:
— Il conte mi credette colpevole, e tutte le prove erano contro di
me. Il servo stesso che mi rubò la lettera per venderla a quella
donna....
—Non è vero, — interruppe Nara.
— Silenzio! — ordinò il presidente.
— Ho il diritto di difendermi.
— Non accuso senza prove…. — disse con dolcezza Clara. — Signor
presidente, di là c’è il servitore, che mi rubò la lettera.
— Si faccia entrare. —
Tutti gli occhi si rivolsero dalla parte dove era sparito l'usciere,
mentre Nara che si sentiva perduta, diventò inquieta, nervosa e
strinse i pugni verso Clara, come se avesse voluto stritolarla.
L'usciere rientrò col servitore. Questi girò uno sguardo calmo sulla
folla, nè impallidì, vedendo Nara cogli occhi fissi su di lui.
Dopo prestato il giuramento e compiute le formule d'uso, il servo
con voce chiara, disse che indotto da Nara e persuaso che il giovane
che aveva trovato un giorno con la contessa, fosse un amante, aveva
intercettata una lettera di lui. Poi più tardi si era pentito, e si
era ricordato della colpa che attribuivano alla contessa. Che
infine, licenziato da Nara alla partenza di lei col conte per
Parigi, si trovava, si può dire, in mezzo a una strada, quando un
giorno gli comparve dinanzi l'uomo stesso che egli aveva creduto
l’amante della contessa. Disse che Alfonso ebbe pietà di lui, lo
raccolse, lo assistè, ma senza rivelargli che la contessa viveva
ancora. E un giorno parlando col giovane, egli si accusò di essere
uno di coloro che avevano contribuito alla morte della contessa
perchè aveva rapita la lettera, da lui poi venduta all'amante del
suo padrone.
Poi il servitore stava per raccontare le sofferenze, le umiliazioni
sopportate dalla contessa, quando Nara era venuta ad abitare nello
stesso palazzo, ma qui Clara lo interruppe.
— Ciò riguarda me sola, — disse — se io avessi avuta più confidenza
in mio marito, molte cose che accaddero non sarebbero avvenute....
— Ma se un altro fosse vissuto nella tua intimità, — gridò Guido —
non ti avrebbe accusato, no.... non avrebbe dubitato un solo istante
della tua innocenza.... —
Clara con un sorriso angelico e un debole gesto, lo pregò di
calmarsi.
Fu fatto ritirare il servitore; e la contessa, dopo aver chiesto
scusa al presidente per tutte quelle interruzioni, raccontò, in qual
modo suo fratello era pervenuto a salvarla dalla più orribile delle
morti: quella di essere sepolta viva.
— Egli pagò il silenzio del custode, — aggiunse — e mi fece
trasportare nella casetta del fiaccheraio, che l'aveva condotto al
cimitero.
«Nanni pure mantenne il segreto della mia resurrezione. E fui
circondata da tante cure, che in capo a pochi giorni avevo
ricuperata la vita e la ragione. Allora tutto mi fu palese, ed io
tremai per mia figlia. Seppi che ella era partita con mio marito e
quella donna per una destinazione ignota. Io non potevo presentarmi
di nuovo in società, e non lo volevo.
«Si trattava di salvare mia figlia e mio marito, perchè io l'amavo
sempre.
«No, egli non era colpevole. Era stato traviato, ma la sua anima
doveva conservare la più sincera onestà.
«Per un miracolo della Provvidenza, che sempre venne in mio aiuto,
seppi che mio marito era a Parigi. Allora il notaro, che per me è
stato come un padre, ideò il mezzo di salvare mio marito e mia
figlia. Partii con lui, con mio fratello e sua moglie per la
Francia.
«Sulla mia capigliatura bionda io avevo posta una parrucca nera,
così mirabilmente fatta, che nessuno avrebbe sospettato
dell'inganno. Mi tinsi le ciglia e le sopracciglia di nero. Mi
trasformai, insomma, completamente, e feci la mia comparsa alla
passeggiata, ai teatri, destando una sensazione strana, per il
pallore del volto e perchè vestivo sempre di nero, tanto che in
pochi giorni non si parlava altro che di me e mi avevano
soprannominata la Dama Nera.» —
— Ah! l'avevo indovinato! — interruppe Nara cogli occhi
fiammeggianti.
—Era proprio lei! — mormorò Guido come in estasi.
Clara lo sentì, ed un leggiero rossore colorì le sue guance.
— Sì, ero io! — disse a voce alta — io, che mi era proposta di
salvare mia figlia e di salvare mio marito.
— Ah! sì.... tu sei stata il mio angelo…. — gridò il conte.
—Silenzio!
—Lasciatela finire!
—Non interrompete! —
Ed il presidente scosse con furia il campanello.
Tornò una calma perfetta.
— Ora devo dirvi, — continuò la contessa — che mio marito, senza
riconoscermi, s'innamorò di me. Egli si fece amico di mio fratello,
il quale aveva assunto il nome di marchese Tomba. Mio marito lo
credette, perchè non lo conosceva, non l'aveva mai veduto prima
d’allora.
«Guido ci confidò che aveva una bambina, ed io gli feci capire che
amavo molto i bambini e che avrei desiderato vederla.
«Il giorno stesso, verso sera, giunse da me una giovane governante,
con la mia diletta Lilia. Dirvi quello che provai in quel momento mi
sarebbe impossibile. Credevo d'impazzire dalla gioia. La mia bambina
mi riconobbe subito, a malgrado dei miei capelli neri, perchè il
sangue non è acqua. Quando la presi fra le mia braccia, mi guardò un
momento coi suoi occhioni ingenui, poi si mise a ridere e a battere
le mani.
« — La mamma! La mamma è tornata! — esclamò.
«La governante non capiva nulla. Mi consegnò un biglietto di mio
marito, il quale mi raccomandava la piccina, dicendo che un grave
pericolo le sovrastava.
«Io partii lo stesso giorno con mio fratello, sua moglie, la mia
cara piccina ed il notaro, per l'Italia. Lasciai però una lettera
per Guido in cui gli assicuravo che avrei vegliato sopra sua figlia
e su di lui. E mi firmai la Dama Nera.
«Ah! non avrei mai creduto che il giorno stesso egli sarebbe stato
accusato di avermi propinato il veleno, di aver fatto scomparire sua
figlia. Quando lo seppi, dissi a me stessa che io sola potevo
provare l'innocenza di lui. Allontanai il custode antico del
cimitero, e raccolsi tutti i testimonî, le prove, per mostrarvi che
vivevo ancora, che mia figlia era salva.... » —
La porta dei testimonî si aprì, e comparve Lilia fra le braccia
della governante e seguita dal vecchio notaro, da Alfonso, dalla
moglie di questi, dal custode del cimitero e fino dal fiaccheraio
Nanni.
A quella sfilata di persone, una forte commozione s'impadronì
dell'uditorio.
Ma più di tutti, commosse la piccina, che appena entrata stese le
piccole braccia alla contessa, gridando:
— Mamma! mamma! —
E quando fu nelle braccia di Clara, ad un cenno di questa, Lilia
guardò suo padre che era caduto in ginocchio, ed esclamò colla sua
vocina d'angiolo:
—Oh! il mio babbo! —
Invano il presidente imponeva silenzio. Anche i giurati erano
commossi, e qualcuno si asciugava furtivamente una lacrima.
Ma allora, prima che qualcuno potesse prevederlo, Nara balzò dal suo
posto, e lanciatasi come una tigre sul conte, lo rovesciò, ed
afferratolo per il collo, stava per strangolarlo.
Lo spettacolo che avvenne è più facile immaginarlo che descriverlo.
I gendarmi balzarono su Nara, ma questa oppose una forte resistenza;
il conte mezzo soffocato, pareva prossimo a esalare l'ultimo
respiro.
Nara fu staccata con violenza da lui, e cercarono di trascinarla
fuori. Ella mandò un tremendo urlo, poi proruppe in una risata
stridente, convulsa, che agghiacciò il sangue di tutti.
— Ah! ah!... è risorta per riprendermelo.... ma non l'avrà....
Guido.... è mio.... via di qua.... i morti non tornano.... ah!
ah!... —
La disgraziata era divenuta pazza. Se la giustizia umana non poteva
colpirla, l'aveva colpita tremendamente la giustizia di Dio!
X.
La piccola casetta di Nanni è scomparsa, ed al suo luogo si erge un
elegante villino a due piani, che sembra un vero nido d'innamorati,
nascosto tra boschetti di acacie, di tigli, di lilla, che lo
circondano del più delizioso mistero. Tutto è della più estrema, ma
anche della più elegante semplicità.
Ed in questo ritiro, estate ed inverno vivono due famiglie felici;
quella del conte Guido Rambaldi, e quella di Alfonso.
Sono passati cinque anni dagli avvenimenti successi ed il tempo,
gran risanatore delle umane ferite, ha quasi cicatrizzata la
sanguinante piaga del cuore di Guido, che alla vista di Clara
felice, dimentica del passato, cerca egli pure di dimenticare, e
domanda a sè stesso, se non è stato l'eroe di uno spaventoso sogno.
Clara non ha avuto mai alcuna occasione di pentirsi della generosità
dimostrata verso suo marito: ora essa si sente sicura del cuore,
dell'amore di lui, e quando egli le si prostra dinanzi in ginocchio,
come per mendicare quei baci dei quali si sa indegno, Clara gli
appoggia la sua bella testa sulle spalle, e non stornando le labbra,
mormora con perfetta convinzione:
— Sono tanto, tanto felice.... —
Clara è divenuta madre un'altra volta, e questo a lei sembra una
benedizione, a Guido l'intiero perdono.
Alfonso ed Ines sono un'altra coppia di sposi felici, invidiati. Si
adorano come il primo giorno del loro matrimonio, ed hanno tre
figli, che con quelli di Clara, sono la gioia, il sorriso, il sole
di quella dimora.
Nanni, da fiaccheraio è diventato giardiniere, ed ha sposata
Giustina.
La vecchia Sandra è morta col sorriso sulle labbra, vedendo
assicurata la felicità e l'avvenire di suo figlio.
Nè Clara, nè Ines, desiderano di stabilirsi in città, e di apparire
in mezzo al mondo. Tutto il loro mondo è in quella villetta, tutta
la loro felicità la trovano nell'amore dei figli e del marito.
Che anderebbero a fare nella società, se non a ravvivare dei ricordi
dolorosi, che volevano seppellire per sempre?
In una splendida giornata di giugno, verso il tramonto, Alfonso e
Guido sono sotto un padiglione fiorito, e leggono i giornali. Clara
lavora ad un grazioso camicino: Ines allatta il suo ultimo nato, che
assicura, come assicurava per gli altri, divenire tutto il ritratto
d'Alfonso. Altri quattro fanciulletti, biondi, rosei, saltellano,
giuocano, si rincorrono nel giardino. Lilia, la più grandicella, con
la gravità di una mammina, tiene in freno il più piccino, che è
anche il più diavoletto. Di tanto in tanto si fanno sentire le voci
delle governanti.
— Non corra tanto, signorina Claretta.
— Non sciupi quei fiori, signor Alfonsino.... —
Poi scoppî di risa soavi, argentine, si ripercuotono nell'aria.
Che quadro incantevole! Pure su cotesto quadro si stende in quel
momento una nube.
Nel padiglione, mentre Guido sta scorrendo un giornale,
impallidisce, e soffoca un grido. Clara se n'è accorta e lascia
cadere il lavoro.
— Che hai letto? — chiede, appoggiando la sua mano sulla spalla di
Guido.
Egli non ha il coraggio di rispondere, ma le mette innanzi il
giornale.
Allora Clara legge una notizia, che suo malgrado la turba.
Nara, che credevano guarita dalla sua pazzia, era stata còlta da un
nuovo accesso furioso, e si era gettata da una finestra nel cortile
del manicomio, sfracellandosi il cranio. Il giornale, che la diceva
morta sul colpo, si diffondeva a narrare in tutte le sue
particolarità, il raccapricciante episodio.
Così di quella donna, che era stata il genio malefico di Guido, di
quella donna che egli un giorno aveva amato e che più tardi aveva
abborrita, di quella donna, il cui ricordo faceva scorrere di quando
in quando un brivido nelle vene della contessa Clara, non rimaneva
più che un cadavere sfigurato. L'ultimo atto del dramma si era
compiuto.
Clara passò il giornale al fratello, poi strinse silenziosamente le
mani del conte, mentre una lacrima appariva negli occhi di lei, una
lacrima di compianto per la disgraziata, che pur le aveva fatto
tanto male.
Ma in quel momento alcune grida gioiose la scossero, e nel
padiglione irruppero i piccini, attaccati al lungo soprabito del
vecchio notaro, che era venuto allor allora.
— Ecco il nonno.... il nonno! — gridavano.
Così veniva chiamato il vecchio, le cui tasche erano sempre piene di
confetti e di balocchi.
Malgrado le preghiere di Clara, il vecchio notaro non aveva voluto
abbandonare il suo studio.
— Quando non ne potrò proprio più, — aveva detto, — verrò a
stabilirmi qui.... e voi, figli miei, mi chiuderete gli occhi…. —
Egli era venuto per portare la notizia della morte di Nara. Ma
veduto il giornale nelle mani di Alfonso, comprese che sapevano già
tutto.
— Che Dio la perdoni! — mormorò il vecchio.
— Oh! sì, — esclamò Clara congiungendo le mani — ella è stata
colpevole, ma ha pure espiato.... e Dio avrà pietà dell'anima sua.
Noi pregheremo per lei.
— Ed io, potrò essere perdonato da Dio, come lo fui da te, da tutti?
— disse Guido con accento soffocato, straziante.
Clara sollevò il suo bambino, il piccolo Alfonso, che batteva
gioiosamente le manine, e posandolo sulle ginocchia di Guido, disse
amorosamente:
— Ecco il perdono, la benedizione, che Dio ha fatto scendere sul tuo
capo! —
Un sorriso d'angelo irradiò il sembiante di Clara e fece sparire,
come per incanto, la nube che aveva oscurato per un istante il
sereno della loro felicità!