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 Scrittore italiano (Mineo 1839 - Catania 1915), prof. nell'Istituto superiore di magistero in Roma e poi (1902) nell'univ. di Catania. Esordì come poeta, ma la sua attività si volse ben presto alla critica letteraria e alla narrativa. In quella egli occupa un posto notevole non solo per l'acutezza e sensibilità del gusto che, formatosi sul De Sanctis, giovò a scrittori come Verga e Pirandello nel trovare la loro via, ma per il vigore con cui propugnò, primo in Italia, il romanzo naturalista (Studi sulla letteratura contemporanea, prima serie, 1880; seconda serie, 1882; Gli "ismi" contemporanei, 1898; ecc.). Come narratore, nelle sue numerose novelle (Le paesane, 1894; Nuove paesane, 1898; ecc.), e nei romanzi (Giacinta, 1879; Profumo, 1890; Il Marchese di Roccaverdina, 1902, il migliore), lo studio di psicologia e di casi d'eccezione lo fa spesso rimanere sul piano della curiosità scientifica, ma un'arguzia, poi, tutta paesana lo porta a una felice caratterizzazione di figure e ambienti di provincia. Il C. è anche autore di favole e racconti per ragazzi (C'era una volta, 1882; Scurpiddu, 1898; Cardello, 1907; ecc.).
    
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DBI
di Enrico Ghidetti
      
    Nato a Mineo (Catania) il 29 maggio 1839, primogenito di sette
    femmine e due maschi di Gaetano, agiato possidente terriero, e
    Dorotea Ragusa, trascorse felice gli anni infantili fra la cittadina
    natale e la tenuta familiare nella campagna di Villa Santa
    Margherita, segnati dal primo diretto contatto col folclore paesano.
    La prima educazione gli fu impartita dallo zio don Antonio,
    patriarca riconosciuto della numerosa famiglia Capuana, quindi da un
    pedagogo. Nondimeno, verso i dieci anni - come scriverà molto
    tempo dopo nei Ricordid'infanzia (postumi, Palermo 1922) - la sua
    istruzione era ancora alquanto scarsa, se si eccettui l'affiorare di
    una precoce vocazione per la poesia dialettale, alimentata dalla
    ricca tradizione paesana e familiare, rappresentata questa dallo zio
    canonico don Giuseppe, autore fra l'altro di sacre rappresentazioni
    in dialetto. La sua istruzione non trasse molto giovamento neppure
    dai corsi di grammatica alla scuola comunale di Mineo, tenuta dai
    gesuiti, e a dodici anni il C. fu iscritto al Real collegio
    borbonico di Bronte, ove rimase fino al 1855.
    
    Durante il primo anno di permanenza in questa scuola stampò
    il primo sonetto (Per l'Immacolata Concezione della B. V. Maria), su
    consiglio e desiderio di padre Gesualdo De Luca, sotto la cui guida
    iniziò anche la lettura dei classici italiani, da Dante e
    Ariosto a Manzoni e Guerrazzi: proprio la lettura della Battaglia di
    Benevento assumerà grande importanza, unitamente ai ricordi
    degli anni 1848-49 e della repressione in Sicilia guidata dal
    principe di Satriano, nella genesi del suo fermissimo sentimento
    patriottico e unitario.
    
    Dopo il '55, lasciato il collegio per le precarie condizioni di
    salute e ritornato a Mineo, si occupò di letteratura, teatro,
    storia, scienze naturali e occultismo, rivelando quell'eclettismo
    che sarà una delle componenti più vinose della sua
    attività intellettuale. Nel 1857, per volontà dello
    zio Antonio, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza del
    Siculorum Gymnasium di Catania.
    
    "Si studiacchiava qua e là, se se n'aveva un po' di voglia;
    ma si diventava medici avvocati, ingegneri e farmacisti egualmente.
    I professori universitari erano di manica larga… il pubblico avrebbe
    anch'esso distinto, alla prova, i buoni dai cattivi medici, i buoni
    dai cattivi avvocati..." ricorda egli stesso (Come io divenni
    novelliere, in Homo, Milano 1888, p. VI). In questi anni di
    "illusioni sublimi" si legò di particolare amicizia col poeta
    Giuseppe Macherione (assieme alquale nel 1859 inviò un
    messaggio patriottico al Guerrazzi) e con Emanuele Navarro della
    Miraglia; trascurati affatto gli studi giuridici, sotto l'influenza
    della Préface al Cromwell di V. Hugo si dedicò ad una
    intensa ma disordinata produzione drammatica, della quale restano
    soltanto i titoli e qualche frammento. Era entrato nel frattempo in
    amicizia con l'erudito di Acireale Lionardo Vigo, e aveva cominciato
    a collaborare all'edizione della Raccoltaamplissima dei canti
    popolari siciliani che questi stava preparando. Il Vigo, sostenitore
    accanito della "protostasi" siciliana, cioè di una lingua
    siciliana primigenia e autoctona, fu la prima vittima delle non
    comuni capacità mimetiche del C., il quale gli inviò,
    fra l'altro, come raccolto dalla viva voce popolare, la
    contraffazione di un canto dove un riferimento a "lu conti
    Ruggieri", potendo autorizzarne la datazione all'epoca normanna,
    suscitò grande interesse fra gli studiosi quando nel 1857 fu
    pubblicata la Raccolta ("Bedda ca aviti picciulu lu peri / d'oru e
    d'argentu la scarpa v'he fari / si vi scuprisci lu conti Ruggeri /
    ca di lu peri s'havi a 'nnamurari"). Del resto, con l'inserzione del
    dantesco "Donni c'aviti intellettu d'amuri" nel contesto di un'altra
    contraffazione di canto popolare, il C. mise in crisi persino la
    competenza filologica di A. D'Ancona, allora docente
    dell'università di Pisa, il quale non si era accorto
    dell'inganno.
    
    Nel 1860, abbandonata ormai l'università, prese parte
    all'impresa garibaldina come segretario del comitato clandestino
    insurrezionale di Mineo, quindi come cancelliere del nuovo consiglio
    civico. Né mancò un suo contributo letterario alla
    spedizione dei Mille con la leggenda drammatica in tre canti
    Garibaldi (Catania 1861), inviata per un giudizio a molti letterati
    italiani, fra i quali A. Conti, P. Emiliani Giudici, N. Tommaseo.
    Sempre più cosciente dei limiti che l'ambito paesano poneva
    alla sua formazione e alla sua vocazione letteraria, si persuase
    della necessità di recarsi a Firenze, prossima anche se
    effimera capitale, e fervido centro di vita intellettuale. Nella
    primavera del 1864, vincendo con un sotterfugio le resistenze della
    famiglia, arrivò finalmente in Toscana, dove rimase per
    quattro anni.
    
    A Firenze prese attiva parte alla vita culturale della città,
    e rinnovò la propria attardata preparazione letteraria spinto
    "dal vento della cosiddetta cultura moderna", frequentando il
    caffé Michelangelo (ove conobbe i macchiaioli e, fra gli
    altri, si legò di amicizia con T. Signorini e V. Boldini), i
    salotti del Dall'Ongaro e dei Pozzolini, dove incontrò G.
    Capponi, P. Emiliani Giudici, E. Nencioni, A. Aleardi, G. Prati, C.
    Levi (dal quale sarà spinto alla lettura delle opere di
    Balzac) e, nel maggio-giugno dell'anno 1865, il conterraneo G.
    Verga.
    
    Dopo i primi tentativi critici nel 1865 sulla Rivista italica,
    l'anno successivo egli divenne critico drammatico del quotidiano La
    Nazione e "terrorizzò - scrive P. Vetro - gli autori
    drammatici con i suoi giudizi di un rigore eccezionale, e si fece in
    tal modo molti avversari letterari". Di questa fase di
    attività, documentata nella raccolta Il teatro italiano
    contemporaneo. Saggi (Palermo 1872), si deve ricordare la violenta
    polemica con F. Martini e L. Fortis a proposito de Ilduello di P.
    Ferrari, duramente criticato dal C., e per contro la valutazione
    positiva, nella prospettiva di un rinnovamento del teatro italiano,
    de I mariti di A. Torelli.
    
    Nell'ottobre 1867 comparve sulla Nazione anche la sua prima prova
    narrativa, la novella Ildottor Cymbalus derivata per ammissione del
    C. dal racconto La boîte d'argent di Dumas figlio, con la
    quale inaugurava il filone fantastico e fantascientifico di una
    ricchissima produzione di novelle ispirate, oltre che al
    meraviglioso scientifico e all'occultistrio, a complessi casi di
    psicopatologia e a motivi e a figure della vita siciliana.
    Emblematiche di queste due ultime tematiche sono le celebri raccolte
    Le appassionate (Catania 1893) e Le paesane (ibid. 1894).
    
    Ai primi del 1868 per motivi di salute ritornò a Mineo, dove
    si fermò sette anni anche per la sopravvenuta morte del padre
    e le conseguenti difficoltà economiche della famiglia. Nel
    1870 era ispettore scolastico municipale e consigliere comunale, e
    fu anche sindaco (il "Depretis di Mineo", lo qualificherà
    ironicamente il Verga, cit. in Di Blasi, 1954, p. 130).
    
    "Amministrò così bene il paese che la maggior parte
    dei mineoli lo ricordano ora più come sindaco provvido e
    intelligente che come scrittore, e fu veramente straordinaria la sua
    attività nel rinsanguare le finanze dell'erario e
    nell'intentare, con coraggio e con grandi noie, numerosi processi
    contro i debitori del comune" (Vetro, p. 35). Di questa
    attività politica e amministrativa rimangono due interessanti
    documenti: Ilbucato in famiglia, discorso pronunciato il 24 novembre
    per la solenne premiazione delle scuole elementari maschili e
    femminili di Mineo (Catania 1870), e Ilcomune di Mineo. Relazione
    del sindaco (ibid. 1875).
    
    Durante il laborioso periodo della "sindacatura" trovò
    comunque il tempo per occupazioni disparate ("sciagurati passatempi"
    li considerava l'amico Verga, che vedeva con rammarico il C.
    distratto dalla attività letteraria): fotografia, incisione,
    disegno, ceramica, ma anche editore nel 1871 delle poesie in
    dialetto del concittadino Paolo Maura. Progettò saggi
    letterari, novelle e romanzi; e approfondì la conoscenza
    delle opere di Hegel e di F. De Sanctis. Da questo derivò il
    principio che la forma è il fondamento dell'opera d'arte,
    ciò che gli consentì di temperare, e quindi di
    superare attraverso l'esercizio di critico militante, la formula del
    romanzo sperimentale basato sullo studio dei documenti umani,
    inizialmente fatta propria in sede critica e narrativa, tanto che,
    ormai vecchio, rifiuterà con fastidio, nel saggio Arte e
    scienza (discorso letto il 6 nov. 1903 per la solenne inaugurazione
    degli studi della R. università di Catania, ibid. 1904),
    l'appellativo di capo del naturalismo italiano e si farà
    sostenitore del regionalismo letterario. A questo periodo risale
    anche la lettura di un libro fondamentale per lo svolgimento della
    sua attività critica, il romanzo-saggio Dopola laurea
    dell'hegeliano A. C. De Meis, dove apprese le linee generali della
    teoria della evoluzione e morte dei generi artistici, e della
    progressiva prevalenza del pensiero speculativo sulla fantasia
    creatrice.
    
    Nel 1875 iniziò una relazione con una ragazza entrata come
    domestica in casa Capuana, Giuseppina Sansone (conosciuta da allora
    a Mineo come la "Beppa di don Lisi"), che durerà fino al
    1892, quando la donna si sposò per volontà del C.:
    dalla relazione - di cui rimasero singolari documenti le
    appassionate lettere e i molti versi in dialetto indirizzati alla
    donna analfabeta - nacquero parecchi figli che finirono tutti
    all'ospizio dei trovatelli di Caltagirone.
    
    Alla fine del 1875 il C. fu a Roma, per un breve soggiorno durante
    il quale fissò le linee del romanzo Giacinta; ritornato poi a
    Mineo, si occupò dell'edizione del suo primo volume di
    novelle, Profili di donne (Milano 1877). Nel 1877, ormai pubblicato
    il libro, in seguito anche alle affettuose sollecitazioni del Verga,
    si recò a Milano, dove ottenne l'incarico di critico
    letterario e drammatico del Corriere della Sera e, sulla scorta di
    una personale rielaborazione delle teorie naturalistiche,
    iniziò la stesura di Giacinta, destinato ad assumere il
    valore programmatico di manifesto del verismo italiano (ibid. 1879).
    Aveva così inizio il periodo più proficuo della sua
    attività: pubblicava anche una nuova edizione delle poesie
    del Maura(ibid. 1879), e le due serie degli Studi sulla letteratura
    contemporanea (rispettivamente Milano 1880, e Catania 1882). Coi
    famosi saggi su Zola, E. de Goncourt, Sacchetti, Gualdo, Faldella,
    Dossi, Balzac, Verga, già comparsi sul Corriere della Sera.
    
    Giacinta fu composto, come dichiarò il C., dopo la lettura di
    Balzac, di Madame Bovary e del Rougon Macquart, e fu dedicato a E.
    Zola. Ispirato da un caso realmente avvenuto, costituì forse
    l'esempio più cospicuo dal punto di vista programmatico,
    certamente il più noto, della narrativa naturalistica in
    Italia, e come tale si inserì nel clima arroventato delle
    battaglie pro' e contro il verismo. Del resto il C. lo aveva
    previsto, quando scriveva all'amico C. Guzzanti il 7 giugno 1879:
    "ancora non è comparso nessun articolo, cominceranno fra
    giorni. Se debbo arguire qualcosa dall'effetto della lettura nei
    pochi che l'hanno avuta prima della pubblicazione, il successo
    sarà strepitoso. Ma alle volte il pubblico applaude leggendo
    e la critica dice corna. Vedremo". In seguito a un articolo di E.
    Treves del 29 giugno 1879 sulla Illustrazione italiana, nel quale il
    romanzo era definito "libro immondo", al Verga, che pur con qualche
    riserva gli aveva dichiarato la sua approvazione, il C. furente
    scriveva nello stesso giorno da Milano: "gli ho scritto una lunga
    lettera in difesa del mio lavoro citando dei brani di esso. Se si
    rifiuta a pubblicarla son deciso di schiaffeggiarlo in pubblico in
    qualunque luogo lo troverò".
    
    Con molta chiarezza, nel saggio Come io divenni novelliere, ponendo
    il problema del difficile e polemico rapporto della sua generazione
    con la tradizione letteraria, tracciava per linee sommarie il
    proprio itinerario verso il naturalismo dopo la lettura dei
    francesi, ed il proprio punto d'arrivo: "Naturalista? Verista? Il
    nome mi preoccupava poco. Dicendo: naturalista, verista, tanto per
    farmi intendere dagli altri, volevo significare che, secondo me, nel
    mettersi a scrivere delle novelle o dei romanzi, bisognava badare a
    foggiar quest'opera d'arte giusta la sua ultima forma; provvisoria
    anch'essa, ne convenivo; tanto che cercavo anch'io, nella misura
    delle mie deboli forze, di svolgerla, d'ampliarla o, per lo meno, di
    ripulirla togliendone via quanto ancora rimaneva in essa di fronde
    inutili, di rami morti... penoso lavorio, diretto ad ottenere il
    resultato di render la novella, dirò così, autonoma,
    qualcosa d'indipendente, di fuori del tutto dal suo autore...
    l'attenta osservazione della natura, lo studio minuzioso della
    verità ritenevo che non sarebbe bastato. Insomma, essendo
    l'opera d'arte principalmente anzi unicamente forma, occorreva che
    la sua rinnovazione accadesse appunto lì, o era inutile lo
    spendervi intorno lavoro, tempo ed ingegno..." (pp. XXVIII-XXXI).
    
    Alla fine del 1880 tornò a Mineo. L'anno successivo conosceva
    il giovane F. De Roberto, che dirigeva a Catania il Don Chisciotte,
    pubblicava la raccolta di novelle Un bacio (Milano 1881), iniziava
    (ma col diverso titolo Il marchese di Santaverdina) il romanzo
    destinato a divenire più celebre e che pubblicherà a
    distanza di vent'anni, e si impegnava nella appassionata difesa dei
    Malavoglia del Verga.
    
    Questi da Milano, l'11 apr. 1981, gli aveva scritto amareggiato: "I
    Malavoglia hanno fatto fiasco... Molti, Treves il primo, me ne hanno
    detto male, e quelli che non me l'hanno detto mi evitano come se
    avessi commesso una cattiva azione... Il peggio è che io non
    sono convinto del fiasco..." (Verga, Lettere a L. C., p. 168). Il C.
    rispondeva al Verga il 22 aprile, una settimana prima che venisse
    pubblicato il famoso saggio dedicato al romanzo sul Fanfulla della
    Domenica: "I Malavoglia non sono un fiasco... il fiasco in questo
    caso lo fa il pubblico e la critica che si ricrederanno presto come
    accade coi lavori che escono dalla solita carreggiata e che hanno
    elementi di grandissima vitalità. Per me I Malavoglia sono la
    più completa opera che si sia pubblicata in Italia dai
    Promessi sposi in poi".
    
    Nel 1882 pubblicò la prima raccolta di fiabe, C'era una volta
    (Milano), inaugurando quella intensa attività di autore di
    libri per l'infanzia e la gioventù, che si verrà
    esplicando in due differenti direzioni, solo episodicamente con
    comuni motivi di remota ascendenza autobiografica: l'una, più
    propriamente fiabesca, direttamente influenzata dal ricco folclore
    isolano; l'altra, che offrire una libera versione, meno preoccupata
    di programmatiche istanze naturalistiche, della vita "paesana" della
    Sicilia contadina.
    
    Il primo, copiosissimo filone, inaugurato nel 1882, e quindi ancora
    in piena polemica verista, con i diciannove racconti di C'era una
    volta, soprattutto notevoli per la sicura attitudine rivelata
    dall'autore alla imitazione di temi e procedimenti della fiaba
    popolare, e che, coerentemente con l'elaborazione di una poetica del
    verismo, comporta il rifiuto di ogni intento edificante e
    moralistico, segna l'avvio sicuro ad una letteratura per l'infanzia,
    grazie alla prevalenza dell'elemento fantastico, libera dalle
    pesanti ipoteche di antica tradizione pedagogica.
    
    Il complesso rapporto con la tradizione popolare è del resto
    illustrato dal C. stesso nella novella, di intonazione chiaramente
    autobiografica, che conclude Ilraccontafiabe (Firenze 1894), seguito
    della prima raccolta del 1882, ove si narra di un "povero diavolo",
    cui era venuta "l'idea di andare attorno, a raccontare fiabe ai
    bambini" perché "gli pareva un mestiere facile", e che,
    accortosi del definitivo logoramento del repertorio tradizionale
    ormai contestato dal pubblico infantile, si rivolge dapprima per
    aiuto al mago Tre-Pi (anagramma dell'amico folclorista G.
    Pitrè) senza esito alcuno, e quindi comprende che risorsa
    estrema del "raccontafiabe" sarà il soccorso di fata
    Fantasia. L'adesione ai motivi del folclore popolare - in cui
    è da riconoscere con B. Croce una eccezionale anche se
    intellettualistica "abilità letteraria di contraffazione" -
    affiora con evidenza comunque nello schematico impianto di queste
    narrazioni, secondo il quale fra il mondo dei "reucci" e delle
    "reginotte" che gestiscono potere e ricchezza, e il mondo degli
    umili condannati alla quotidiana fatica del lavoro, l'unica
    possibilità di rapporto e scambio, in vicende governate da un
    cieco destino, è costituita dalla pratica della magia. In
    raccolte più tarde, come Chi vuol fiabe,chi vuole? (Firenze
    1908), a un progressivo esaurimento dell'invenzione fantastica
    corrisponde la tendenza a concludere le vicende narrate con
    ammaestramenti morali, quando non addirittura, come nel caso del
    "romanzo fiabesco" Re Bracalone (Firenze 1905), con espliciti
    intenti di propaganda etico-politica in chiave moderata e
    conservatrice.
    
    Della seconda direzione intrapresa dal C. i risultati più
    consistenti sono consegnati a Scurpiddu (Torino 1898) e Cardello
    (Palermo 1907), racconti ricchi di spunti autobiografici nei quali
    la sapiente alternanza di registri realistici nella descrizione
    della vita siciliana e di toni nostalgici nella rievocazione del
    mondo incantato dell'infanzia e dell'adolescenza riesce, non di
    rado, a esiti letterariamente fra i più sicuri e durevoli
    dell'intera produzione dello scrittore siciliano.
    
    Trasferitosi a Roma, dove conobbe G. D'Annunzio ed E. Scarfoglio,
    assunse la direzione del Fanfulla della Domenica. Vi compariranno,
    oltre ai saggi poi raccolti nel volume Per l'arte (Catania 1885), i
    Semiritmi come traduzioni da un immaginario poeta danese, che
    meritano di essere ricordati come primo tentativo in Italia di
    elaborazione del verso libero e che per questo motivo gli
    attireranno più tardi l'interesse e la simpatia di G. P.
    Lucini e dei futuristi. Nel luglio del 1883 le condizioni di salute
    lo costrinsero nuovamente a tornare in Sicilia. Dal 1884 all'88
    visse a Mineo, salvo brevi intervalli trascorsi a Catania, e nel
    1885 fu nuovamente sindaco. Pubblicò il saggio Spiritismo?
    (Catania 1884), le Parodie (ibid. 1884) del Giobbe e del Lucifero
    del Rapisardi con una prefazione di G. Salvadori, la raccolta di
    novelle Ribrezzo (ibid. 1885), l'atto unico Il piccoloarchivio
    (ibid. 1886), la seconda edizione completamente rielaborata di
    Giacinta (ibid. 1885), le poesie Semiritmi (Milano 1888). Il 16
    maggio 1888 mandava in scena al teatro Sannazzaro di Napoli la
    commedia in cinque atti Giacinta (Catania 1890), destinata ad
    ottenere un lusinghiero anche se effimero successo di pubblico e di
    critica. Nel luglio 1888 ritornò a Roma, dove si trattenne
    tredici anni, dal 1890 nominato docente di letteratura italiana
    all'istituto superiore femminile di magistero. In questo lungo
    periodo romano la produzione letteraria del C. non conobbe soste,
    anche perché era incalzato da una difficile situazione
    economica, dovuta principalmente all'incapacità di
    amministrare il proprio patrimonio. Pubblicò, tra l'altro,
    nove raccolte di novelle (di cui più importanti le già
    citate Appassionate e Paesane); i tre romanzi Profumo (in dieci
    puntate sulla Nuova Antologia dal 1º luglio al 1º dic.
    1890, e in volume a Palermo nel 1892), La sfinge (in quattro puntate
    sempre sulla Nuova Antologia dal 1º settembre al 16 ott. 1895,
    e in volume a Milano nel 1897) e Ilmarchese di Roccaverdina (Milano
    1901); le tre raccolte di saggi Libri e teatro (Catania 1892), Gli
    "ismi" contemporanei (ibid. 1898), Cronache letterarie (ibid. 1899);
    oltre a fiabe, scritti di attualità dedicati alla Sicilia,
    commedie.
    
    Il marchese di Roccaverdina, dalla critica unanime considerato il
    capolavoro del C. romanziere, lo impegnò per circa un
    ventennio, e dapprima comparve incompiuto in appendice al quotidiano
    L'Ora di Palermo in ventidue puntate dal 12 settembre all'11 nov.
    1900. Nella drammatica storia del marchese - progressivamente
    condotto alla follia dal rimorso per aver ucciso un sottoposto per
    gelosia, dopo che questi aveva acconsentito a sposare una contadina
    per anni concubina del nobile, e per aver fatto condannare un
    innocente - molti temi affrontati dal C. nella sua ormai lunga
    carriera di scrittore appaiono fusi sul fondale di una Sicilia
    bruciata dalla siccità, in pagine che sono tra le prove
    più significative della narrativa italiana di fine secolo. La
    fedele rappresentazione delle condizioni di vita nella Sicilia
    contadina e feudale dei baroni costituisce lo sfondo animato e
    affollato di un caso clinico di psicosi, a determinare il quale
    contribuiscono passione e orgoglio, violenza e superstizione che
    irretiscono l'individuo nelle maglie di un arcaico ma ancor vivo
    costume morale e psicologico. Il C. attenua sensibilmente il modulo
    deterministico del naturalismo quale aveva rigorosamente applicato
    in Giacinta, né indulge al pittoresco folclore isolano e alla
    demopsicologia come era accaduto in Profumo. I motivi fondamentali -
    il tormento della coscienza e la progressiva disgregazione della
    personalità del marchese assassino, l'amore e la devozione
    dell'amante contadina (nella quale è facile rintracciare non
    pochi tratti della "Beppa di don Lisi") - indagati con la consueta
    sicurezza e penetrazione psicologica, pur disponendosi nella fitta
    orditura della narrazione ancora elaborata secondo i moduli del
    verismo siciliano, nel quale la nota "appassionata" si fonde
    armonicamente con lo sfondo "paesano", rivelano in profondità
    echi e suggestioni non solo dalla grande narrativa russa - in questo
    caso Delitto e castigo di Dostoevskij - ma più in generale
    della contemporanea narrativa del decadentismo.
    
    A Roma il C. rafforzò l'amicizia con D'Annunzio, all'opera
    del quale dedicò un corso universitario; conobbe nel 1890
    Pirandello (dal 1897 suo collega d'insegnamento al magistero), il
    quale, ricordandolo in seguito con gratitudine di discepolo,
    attribuirà al suo incoraggiamento la scoperta della sua
    vocazione di narratore; incontrò E. Zola. Dal 1895 si era
    unito alla venticinquenne Adelaide Bernardini, conosciuta in
    circostanze romanzesche, dopo un tentato suicidio di lei, che
    sposerà il 23 apr. 1908, testimone il Verga, a Catania, ove
    si era trasferito fino dal 1902 come docente di lessicografia e
    stilistica nella locale università. Nel periodo catanese
    l'attività di critico del C. si ridusse molto: La scienza
    dellaletteratura, prolusione al corso letta alla università
    di Catania (Catania 1902), e Le lettere all'assente (Roma-Torino
    1904). All'opposto, anche per le difficoltà economiche, molto
    ricca e varia fu ancora la produzione di novelle (tredici volumi),
    di fiabe e di racconti per ragazzi, e intensa la trasposizione e
    rielaborazione in commedie in dialetto di spunti e motivi di novelle
    "paesane", i cui frutti saranno raccolti nei volumi del Teatro
    dialettale siciliano (I-II, Palermo 1911; III, ibid. 1912; IV,
    Catania 1920; V, ibid. 1921), e che celebri attori siciliani, come
    G. Grasso e A. Musco, interpretarono con vivo successo
    (basterà ricordare Lu cavaleri Pidagna e Lu paraninfu).
    
    Il 29 genn. 1910 si celebrò solennemente in Catania il
    giubileo letterario del C. settantenne, cui arrideva ormai una
    discreta fama europea; vi parteciparono, in misura diversa,
    scrittori italiani e stranieri, dal Verga al De Roberto, dal Cesareo
    al Croce. Nell'autunno il C., che come il Verga aveva manifestato
    simpatia per il futurismo ("Se avessi cinquanta anni di meno - aveva
    ammesso nel 1910 - io mi dichiarerei futurista"), difese
    brillantemente in tribunale F. T. Marinetti processato per oltraggio
    al pudore in seguito alla pubblicazione di Mafarka. Collocato a
    riposo nel 1914, al compimento del settantacinquesimo anno
    (nonostante le proposte della stampa e una interrogazione
    parlamentare per sollecitare un trattamento eccezionale, per
    consentirgli di raggiungere una decorosa pensione), tenne nel maggio
    l'ultima lezione all'università.
    
    Morì il 29 nov. 1915 a Catania, e fu sepolto a Mineo.