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Il canto decimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel sesto
cerchio, la città di Dite, ove sono puniti gli eretici; siamo
all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri
commentatori del 26 marzo 1300.
Incipit
«Canto decimo, ove tratta del sesto
cerchio de l’inferno e de la pena de li eretici, e in forma
d’indovinare in persona di messer Farinata predice molte cose e di
quelle che avvennero a Dante, e solve una questione. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)
Analisi del canto
Gli epicurei - versi 1-21
Nel canto precedente l'arrivo del messo di Dio aveva aperto
l'ingresso alla città di Dite ai due viandanti, dietro il
portone aperto dalla verga dell'angelo, si offriva un immaginario
crudo al Poeta: una distesa di sepolcri, alcuni di questi dati alle
fiamme e dai quali escono orribili lamenti. Dante ha già
intuito che qui vengono puniti coloro "che l'anima col corpo morta
fanno." vv. 15, cioè chi non crede nell'immortalità
dell'anima (gli epicurei o gli atei). Anche se Virgilio nel canto
precedente aveva parlato di tutte le eresie, qui si incontrano solo
eretici epicurei e anche il contrappasso è calibrato su di
essi: poiché non credettero nella vita ultraterrena, essi
sono ora morti tra i morti; inoltre loro non possono vedere nel
presente e nel passato ma vedono soltanto il futuro; questo lo si
può capire più avanti quando Cavalcante dei Cavalcanti
chiederà a Dante di suo figlio: Guido Cavalcanti. Dante,
passando tra le mura di Dite e le tombe scoperchiate domanda:
«La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? Già son levati
tutt'i coperchi, e nessun guardia face.»
Dante è generico, ma in realtà egli desidera vedere
un'anima in particolare, quella di Farinata degli Uberti, come
già espresso a Ciacco nel VI canto. Virgilio coglie al volo
l'allusione di Dante, ma intanto gli spiega come questi sepolcri
verranno sigillati solo dopo il Giudizio Universale (probabilmente
perché sarà colmo il numero dei dannati da fare
entrare) e dice che questa parte del cimitero è dedicata agli
epicurei; poi torna sulla domanda di Dante e gli dice che il suo
desiderio sarà presto esaudito, anche nella parte che non
dice (cioè di incontrare Farinata).
Farinata degli Uberti - vv. 22-51
Appena terminate le parole del poeta si leva una voce improvvisa che
chiede: "O toscano che vai vivo per la città infuocata e che
parli con tono onesto, fermati per piacere in questo luogo,
poiché il tuo accento fa capire che provieni da quella nobile
patria verso la quale io fui forse troppo molesto" (parafrasi vv.
23-27).
Dante si gira verso la tomba dalla quale è uscito il suono,
ma non si allontana da Virgilio, il quale allora lo sprona:
«Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
de la cintola in sù tutto 'l vedrai»
Appare quindi questo spirito che si erge da una tomba, del quale
Dante nota subito la fierezza insita nel dannato: schiena dritta e
fronte alta come se avesse un gran disprezzo dell'Inferno
("com'avesse l'inferno a gran dispitto"). L'incontro è con un
gran personaggio e Virgilio stesso raccomanda a Dante di usare
parole "nobili" ("conte"): il dialogo sarà infatti uno dei
più teatrali della Divina Commedia.
Farinata degli Uberti fu il più importante capo ghibellino a
Firenze nel XIII secolo. Egli sconfisse i guelfi nel 1248 e, dopo la
morte di Federico II di Svevia e il ritorno dei guelfi, fu costretto
all'esilio. Riparato a Siena con altre famiglie ghibelline
riorganizzò le forze della propria fazione e, con l'appoggio
di truppe di Manfredi di Sicilia, sconfisse duramente le forze
guelfe nella battaglia di Montaperti (4 settembre 1260). I capi
ghibellini allora si riunirono ad Empoli e venne deciso di radere al
suolo Firenze: fu solo la ferma opposizione di Farinata a far
bocciare l'iniziativa, così egli tornò trionfale in
Firenze, e vi morì nel 1264. Solo due anni dopo, con la
Battaglia di Benevento i guelfi si ripresero definitivamente
Firenze, cacciando tutte le famiglie ghibelline. Molte rientrarono
gradualmente ritrattando il proprio credo politico, ma solo gli
Uberti subirono un crudissimo accanimento: condannato come eretico
quasi venti anni dopo essere morto, le sue ossa vennero riesumate
dalla chiesa di Santa Reparata e gettate in Arno, mentre i suoi beni
furono confiscati ai discendenti; due suoi figli vennero decapitati
in piazza, un suo cugino venne ucciso a randellate, poi ancora
vennero processati altri tre figli, due nipoti, la vedova Adaletta:
tutti condannati al rogo. Dante era presente alla riesumazione, che
doveva avergli fatto molta impressione.
Farinata per Dante è invece un magnanimo, uno spirito grande,
nonostante i fatti ai quali ha assistito quando aveva sui diciotto
anni. Fu solo grazie alla sua elegia di Farinata (pur se comunque
dannato all'Inferno) che la sua memoria tornò grande come in
passato, tanto da venire poi inserito tra i fiorentini illustri, per
esempio nel ciclo di affreschi di Andrea del Castagno o nelle statue
che ornano il piazzale degli Uffizi. Dante prova grande rispetto per
Farinata degli Uberti, anche se Farinata era suo rivale politico,
rispetto derivante dal grande amore che Farinata prova per la nobil
patria Firenze. Com'avesse l'inferno a gran dispitto, è un
verso famoso che ci fa capire che Farinata non soffra per la pena
infernale cui è sottoposto ma piuttosto per il fatto che i
Fiorentini non l'abbiano riconosciuto come unica persona che
salvò Firenze dalla distruzione.
Il ritratto che ne fa Dante è orgoglioso e austero, a tratti
superbo, anche se qua e là traspaiono i suoi limiti umani, i
suoi rimpianti ("forse fui troppo molesto"...). Dante apprezza
Farinata perché nel suo lato virtuoso è un suo
modello:
1. Ha coraggio e coerenza politica;
2. È un perseguitato politico come lui;
3. È un ghibellino, e Dante si avvicinerà
sempre di più a questa ideologia, tanto che secondo molti fu
questa la motivazione per cui Ugo Foscolo lo chiamò il
"ghibellin fuggiasco";
4. Farinata ama la sua città prima di tutto e
(lo dirà poco dopo) fu l'unico che dopo la battaglia di
Montaperti si ostinò contro la distruzione della città
(anche Dante combattente con Enrico VII di Lussemburgo, da lui
chiamato Arrigo, rifiutò di prendere le armi contro la sua
città che veniva posta d'assedio).
Quello che Dante non condivide è tutto sul piano religioso e
in parte su quello militare (è come se gli rimproverasse di
"aver colorato l'Arbia di rosso", cioè di aver fatto un
massacro a Montaperti). Comunque il poeta accenna continuamente a
particolari fisici di Farinata che contribuiscono a farne anche un
ritratto della levatura morale.
Il dialogo vero e proprio inizia dal verso 42: Farinata guarda Dante
un po' "sdegnoso" perché non lo riconosce (egli era nato un
anno dopo la sua morte), e la sua prima domanda è proprio:
"Chi furono i tuoi antenati?". Dante gli risponde (senza tediare il
lettore con la storia degli Alighieri), ed allora Farinata, alzando
un po' le sopracciglia risponde che la famiglia di Dante (di guelfi)
fu una fiera rivale sua, dei suoi avi e del suo partito ("Fieramente
furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte", vv. 46-47), ma
egli seppe farli espellere per due volte vincendoli (cacciata dei
guelfi nel 1251 e nel 1267).
Dante riprende subito a botta e risposta: "Se li hai cacciati, essi
tornarono entrambe le volte, cosa che i vostri (i ghibellini) non
seppero fare" (parafrasi vv. 49-51).
Apparizione di Calvalcante de' Cavalcanti - vv. 52-72
Proprio quando Dante risponde garbatamente a Farinata ricordandogli
che lui e i suoi alleati furono esiliati, compare improvvisamente
sulla scena una figura nuova, quella di Cavalcante dei Cavalcanti
padre di Guido Cavalcanti, uno dei rappresentanti di maggior spicco
del Dolce stil novo e amico intimo di Dante. Egli è guelfo,
quindi Dante ci tiene a non generalizzare tutti i ghibellini come
eretici, come facevano gli inquisitori senza scrupoli in tempo di
persecuzione politica.
Cavalcante emerge dall'avello unicamente con la testa ("credo che
s'era in ginocchio levata" - v. 54 - scrive Dante), al contrario del
fiero compagno di supplizio, e si guarda intorno, come per cercare
qualcuno, e non trovandolo:
«piangendo disse: "Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov'è? E perché non è teco?"»
(vv. 58-60)
Cioè Cavalcante chiede perché Dante ha avuto il
privilegio del viaggio ultraterreno per meriti dell'ingegno e suo
figlio Guido no. E Dante risponde nella terzina successiva:
«E io a lui: "Da me stesso non vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno"»
Cioè dice che non è da solo (c'è Virgilio) e
che comunque Guido sdegnò forse una figura, indicata con il
pronome "cui" che si riferisce (tesi universalmente riconosciuta
dagli studiosi) a Beatrice. Chi intendesse Dante con quel "cui" non
è chiaro: la versione più semplice è che
volesse dire che Guido non amò la ragione, simboleggiata da
Virgilio, ma non quadra nel senso generale; potrebbe significare
Beatrice, la teologia, la donna che trasmutò in "Amor Dei"
l'amore che aveva acceso nel giovane Dante, che mosse Virgilio; o
potrebbe significare Dio, il quale non è mai nominato
nell'Inferno, ma vi viene alluso solo con pronomi. Si nota dunque un
motivo filosofico per cui Dante discorda da Cavalcanti.
Forse la più coerente è quella che indichi Beatrice,
poiché in gioventù sia il poeta che il suo amico Guido
erano rimasti affascinati dall'amor che pregnava il dolce stilnovo,
ma la morte aveva consacrato Beatrice ad un severo progetto di
salvezza per Dante, e l'inattingibile oggetto del desiderio era
divenuto strumento operativo della grazia. In questo modo gli
itinerari intellettuali dei due amici si erano divaricati
irreparabilmente. L'orizzonte speculativo del pensiero di Guido era
rimasto improntato all'animismo fisico di Epicuro e
all'"Aristotelismo radicale" degli averroisti per i quali l'amore,
figlio dei sensi, era fonte di impulsi irrazionali e agonia del
desiderio.
Ma c'è un punto nella risposta di Dante che sbigottisce
Cavalcante, cioè che il poeta usi un passato remoto "ebbe".
«Come?
Dicesti elli ebbe? Non viv'elli ancora?»
(vv. 67-68)
Cavalcante pensa che il figlio sia morto (in realtà all'epoca
del viaggio immaginario, aprile 1300, egli era ancora vivo, sebbene
morì alcuni mesi dopo, nell'agosto 1300) e visto che Dante
esita nella risposta, ricade supino nel sepolcro e sparisce dalla
scena per la disperazione.
L'episodio di Cavalcante è servito, oltre che per mostrare
anche un guelfo tra gli eretici, anche per dare lo spunto alla
spiegazione sulle capacità profetiche dei dannati che
verranno spiegate più avanti nel Canto.
Ripresa del colloquio con Farinata e sua profezia - vv. 73-93
Ma quell' altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
[...] e disse [...]
"Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell' arte pesa."
Nella completa assenza di coralità fra le anime dannate
Farinata continua a parlare come se l'apparizione di Cavalcanti non
fosse avvenuta, come volendo esprimere la sua superiorità.
Quindi Farinata riprende esattamente da dove ha lasciato il
discorso: "Se i miei ghibellini hanno imparato male l'arte di
ritornare dopo essere cacciati, ciò mi tormenta più di
questo letto infernale." (parafrasi vv. 77-78)
Nella terzina successiva è esposta la seconda profezia che
anticipa l'evento dell'esilio a Dante personaggio, Farinata con i
suoi poteri divinatori comuni ad ogni anima dell'eterna prigione,
avverte che non saranno passati cinquanta pleniluni che anche
l'Alighieri scoprirà quanto è dura l'arte di tornare
in patria. ( "La faccia della regina che qui regge" sta per
Proserpina, nel mito antico sposa di Plutone e figura della luna).
Dante incassa in silenzio e Farinata nel frattempo prosegue
chiedendo perché i fiorentini siano così duri con gli
Uberti, la sua famiglia. Dante risponde che è dovuto al
massacro di Montaperti, che "fece l'Arbia colorata in rosso" (v.
86). Farinata sospira addolorato, ma spiega che lui non fu l'unico
responsabile della battaglia e che ciò era causato da uno
scopo ben preciso. Però sottolinea come invece lui solo fu il
difensore di Firenze dalla distruzione, quando si propose di raderla
al suolo dopo la consulta di Empoli tra il re Manfredi di Sicilia e
i capi ghibellini.
I limiti della preveggenza dei dannati - vv. 94-120
Il colloquio politico tra Dante e Farinata si conclude, ma Dante non
è riuscito a farsi un'idea completa e precisa di Farinata
perché non ha chiaro se egli veda nel presente come vede nel
futuro. Ultimo passaggio fondamentale di questo canto quindi
è dovuto al fatto che più volte Dante riceve profezie
sul suo destino e sull'Italia dai dannati, ma ancora più
spesso si vedrà chiedere dalle anime infernali cosa accade
nel regno dei vivi.
E Farinata così risponde (vv.100-105):
"Noi veggiam, come quel c'ha mala luce,
le cose", disse, "che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s'apprestano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano."
Dato significativo è che la capacità divinatoria dei
dannati venga illustrata in questo canto, Farinata conclude il
discorso avvertendo che quando sarà venuto il regno di Dio,
presente, futuro e passato coincideranno e tutta la coscienza dei
dannati scomparirà all'istante.
È interessante notare che questa capacità di
preveggenza, valida per tutti i dannati (infatti ne danno prova
Ciacco, goloso, Farinata, epicureo, e Vanni Fucci, ladro) deriva dal
contrappasso di un peccato comune a tutti i dannati: l'aver pensato
solo al presente, e mai alla vita nell'oltretomba, futura.
Dante, risolta la questione sulla quale si stava scervellando quando
Cavalcanti gli chiedeva della sorte del figlio, prega Farinata di
avvertire il compagno di avello che Guido, ancora vivo, cammina
sulla terra. Virgilio incalza per andare oltre e Dante può
solo fare un'ultima fugace domanda su chi siano gli altri spiriti
nel sepolcro di Farinata. Egli risponde che ve ne sono più di
mille, tra i quali Federico II, disincantato Imperatore noto anche
tra i guelfi come l'Anticristo, e il Cardinale, cioè
Ottaviano degli Ubaldini, un uomo di chiesa che nella Chiesa credeva
ben poco, secondo i cronisti antichi.
Smarrimento di Dante - vv. 121-136
Farinata sparisce e Dante riprende il viaggio con Virgilio, ma
è turbato dalla profezia che ha sentito. Virgilio chiede
spiegazioni e lo consola dicendo che deve sì ricordare la
profezia, ma quando sarà davanti alla dolce luce ("al dolce
raggio") di colei che tutto vede, cioè di Beatrice,
potrà sapere tutto il corso della sua vita. I due poeti si
allontanano dunque dalle mura e tagliano lungo il cerchio per un
sentiero che scende fino all'orlo del cerchio seguente, dal quale si
sente già provenire un forte puzzo.
*
Interpretazioni critiche
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L'INCONTRO DI DANTE CON FARINATA DEGLI UBERTI
In questo Canto vengono descritti due epicurei, cioè due
materialisti che non credevano nell'immortalità dell'anima:
Farinata degli Uberti (morto nel 1264), di casato e partito
ghibellino, e Cavalcante dei Cavalcanti (circa 1250 - circa 1280),
di casato e partito guelfo, pur essendo imparentato con l'altro,
poiché il proprio figlio Guido aveva sposato la figlia Bice
del capo ghibellino.
Stranamente la descrizione dell'ambiente non mette in evidenza
alcunché di orrido o di ripugnante o di mostruoso. Tutto
sembra tranquillo. Dante anzi, che sta camminando per un sentiero
insieme a Virgilio e che vede alla sua sinistra quelle strane tombe
scoperte, si meraviglia dell'assenza di demoni: non c'è
nessuno che faccia la guardia ai condannati. Virgilio gli risponde
che quello è come un cimitero, dove i loculi resteranno
aperti sino al Giorno del Giudizio, quando verranno richiusi sulle
anime ricongiunte ai loro corpi. Dunque i coperchi non sono aperti
perché da lì deve uscire qualcuno, ma perché
dovrà entrare il corpo che avevano in vita, affinché
il loro dolore aumenti d'intensità.
Sembra non esserci neppure una vera legge del contrappasso. Le anime
non fanno nulla di particolare. Vivono soltanto una condizione in
cui sono obbligate a credere nel contrario di ciò in cui
credevano quand'erano sulla terra. Si sentono morte, impossibilitate
a fare alcunché, pur essendo vive. Vivono come ibernate, ma
nel fuoco, che le brucia senza consumarle, e si guardano
reciprocamente (essendo le tombe dei contenitori collettivi). Vien
quasi da pensare che Dante abbia cercato di evitare il più
possibile di punire con pene esemplari coloro che avevano commesso
un semplice reato di opinione. In fondo quelle anime si trovavano
lì non perché avessero compiuto qualcosa di umanamente
spregevole, quanto perché l'ideologia dominante condannava
ogni forma di miscredenza.
Se Dante fosse stato un credente fanatico o integrista (come p.es.
lo erano i guelfi Neri), sapendo che in quel girone vi erano gli
atei e i miscredenti, non avrebbe chiesto a Virgilio di parlare con
loro, né, tanto meno, l'avrebbe fatto usando un tono
così rispettoso e parole così gentili, che in genere
nella Commedia vengono usate per ottenere qualcosa cui si tiene in
modo particolare e che non si potrebbe ottenere diversamente.
Sembra quindi che Dante voglia fare una bella figura al cospetto di
questi dannati, i quali peraltro, quando lui li incontra, non
mostrano alcunché di "eretico", essendo intenti a parlare con
lui o di politica o di questioni personali, lontanissime dalla
teologia. Si potrebbe addirittura pensare che Dante avesse
già capito che quando un cristiano smette di credere
nell'immortalità dell'anima non può più essere
definito "eretico" bensì "ateo". Se l'anima non è
immortale e con la morte del corpo finisce tutto, il cristianesimo
viene contestato alla radice, come ogni altra religione. Parlare di
"eresia cristiana" sarebbe quanto meno improprio.
In ogni caso qui Dante non vuol fare il teologo né il
filosofo, come invece nel Canto successivo, che non a caso è
il più arido di tutto l'Inferno. Non si mette a disquisire
coi dannati sui motivi per cui si trovano lì. Egli peraltro
doveva saper bene che Epicuro non negava l'anima, ma solo la sua
immortalità separata dal corpo; inoltre ammetteva
l'infinità dell'universo. Ci sarebbe stato quindi di che
discutere, e sarebbe stato interessante mostrare a questi
epicureisti che proprio in nome dell'infinità dell'universo
diventava necessario sostenere la validità della legge della
perenne trasformazione della materia anche nei confronti dell'essere
umano, per il quale quindi la morte non è che un momento di
passaggio da una condizione a un'altra. Una volta accettato questo,
sarebbe apparso del tutto irrilevante credere o non credere
nell'immortalità dell'anima. Se l'universo è infinito,
la composizione della materia risponde a leggi infinite, che
possiamo comprendere, stando sul nostro pianeta, solo in misura
limitata.
Ma sarebbe troppo chiedere questo a Dante, che, avendo deciso di
metterli all'inferno, ha già fatto sue le tesi della teologia
scolastica allora imperante. Sicché quando incontra Farinata,
l'unico tema che esplicitamente tratta è quello politico, e
indirettamente fa capire al lettore che aveva deciso di metterlo
all'inferno non solo per non contraddire la versione ufficiale che
vedeva in Farinata un miscredente (non dimentichiamo ch'egli, su
questo tema, era stato processato e condannato dopo morto), ma anche
per motivi più che altro etici, cioè umani, come
vedremo dettagliatamente più avanti.
Qui in ogni caso non dobbiamo pensare che Dante accetti supinamente
la disumanità della teologia scolastica. La condanna ch'egli
infligge a questi epicurei ai nostri occhi appare sicuramente
sproporzionata rispetto alla loro colpa, tuttavia egli si
sforzerà di mostrare il lato umano, sofferente, di questi
condannati, anche perché deve stare attento a non prestare il
fianco alle critiche di chi potrebbe dire che li aveva messi
lì in quanto avversari politici.
* * *
E qui bisogna che apriamo una parentesi. Il Canto X è
impossibile capirlo se prima non si chiarisce, sul piano
storico-politico, chi fosse una personalità di spicco come
Farinata degli Uberti, che era morto un anno prima della nascita di
Dante e che pertanto non poteva essere stato, come invece Filippo
Argenti, un suo nemico personale.
Farinata era stato il capo ghibellino più importante di
Firenze e Dante sapeva bene di non poterlo mettere all'inferno solo
per questo. Sarebbe stato puerile, anche perché lo stesso
Dante esiliato era diventato ghibellino, come ben attesta il suo
interessamento per la discesa in Italia dell'imperatore Arrigo VII e
anche il suo De Monarchia, un testo nettamente favorevole alla
diarchia dei poteri istituzionali, senza poi tralasciare ch'egli
mette all'inferno anche i guelfi di parte Nera e di parte Bianca,
inclusi vari pontefici. Se avesse voluto guardare, obiettivamente,
solo gli aspetti politici, avrebbe dovuto mettere Farinata quanto
meno in purgatorio.
In teoria Dante mette Farinata all'inferno perché questi,
insieme alla moglie, aveva subìto un processo post-mortem per
eresia (1283): una di quelle assurdità medievali del
cattolicesimo romano che qui Dante accetta senza discutere, proprio
perché, temendo, in caso contrario, di passare egli stesso
per eretico, non se la sente di contraddire un verdetto ufficiale. I
processi per eresia (pare peraltro che Farinata fosse aderente a
quella catara) servivano proprio per screditare politicamente gli
avversari. Va detto tuttavia che nessuno a quel tempo avrebbe potuto
governare una qualunque città senza essere, almeno
formalmente, "cattolico". Farinata era stato uno di quel leader
ghibellini che mentre sul piano politico era formalmente cattolico
(e favorevole alla separazione di chiesa e stato), sul piano
filosofico era invece sostanzialmente ateo. Le due concezioni,
nell'avanzata vita borghese della Firenze di allora, potevano
tranquillamente coesistere, persino in ambienti ecclesiastici, e in
ogni caso va tassativamente esclusa l'equazione di
ghibellinismo=ateismo (come attesta appunto la presenza del guelfo
Cavalcante in quel cerchio).
Ci si può comunque chiedere se Dante, che ama fare la parte
dell'idealista, abbia messo Farinata all'inferno per un semplice
reato di opinione o per l'ipocrisia di una doppiezza che lui
considerava insostenibile. La cosa strana è che in questo
Canto non si parla affatto di questioni filosofiche o religiose ma
solo di questioni storico-politiche e, parlando di queste, Dante vi
introduce degli aspetti che non c'entrano niente neppure con la
politica, ma piuttosto con la morale umana.
Ma se non avrebbe avuto senso mettere Farinata all'inferno solo
perché avversario politico, e se il fatto d'averglielo messo
solo perché condannato ufficialmente per eresia risulta del
tutto irrilevante nel dialogo tra i due (tanto che si è
convinti che se Dante avesse potuto agire in piena autonomia
l'avrebbe messo altrove), quali sono gli "aspetti umani" per cui lo
mette nel sesto cerchio degli eresiarchi? E se sono davvero "umani",
perché condannarlo per motivi ideologici?
Il cattolico Dante condanna Farinata come eretico, poiché,
agendo questi inevitabilmente come politico "cattolico" (la
laicità della politica è una concezione
post-medievale), non poteva non credere nell'immortalità
dell'anima: la sua eresia era una forma di ateismo incompatibile con
il suo ruolo istituzionale. Ma il guelfo Dante non può
condannarlo come "politico", sia perché sarebbe apparso
fazioso, sia perché nel corso del proprio esilio egli stesso
aveva capito che i ghibellini avevano ragione nei confronti della
chiesa.
Dante deve quindi dimostrare che l'idea d'averlo messo all'inferno
per il reato "oggettivo" d'opinione era confermato dalla presenza di
altri elementi "soggettivi", squisitamente umani, che rendevano per
così dire inevitabile quella condanna. In altre parole la
colpa d'essere ateo si rifletteva sul suo modo umano d'interagire
con le persone. Farinata deve dunque apparire disumano sul piano
etico-personale, proprio perché Dante non ha un altro modo
convincente per condannarlo all'inferno.
Dante cioè doveva cercare di dimostrare, quasi arrampicandosi
sugli specchi, che la pena infernale (nel Canto peraltro ridotta al
minimo) era stata comminata a Farinata per soddisfare esigenze che,
sul piano formale, dovevano apparire anzitutto teologiche, anche se
nella realtà, quella per lui sostanziale, erano invece di
tipo etico. Farinata viene messo all'inferno perché Dante lo
considerava un politico con poca umanità. E i posteri
purtroppo si son fatti di Farinata questa idea.
Chiusa la parentesi, passiamo ad esaminare il testo.
* * *
L'esordio dell'intervento di Farinata è stilisticamente
stupendo. Egli si sente indotto a uscire dal proprio loculo non solo
perché Dante era originario come lui della Toscana, ma anche
perché si esprime in un linguaggio "onesto"(v. 23), che qui
vuol dire "rispettoso", "riguardoso".
Dante fa parlare Farinata in una maniera particolarmente gentile nei
suoi confronti e non senza una propria ammissione di colpa: "La tua
favella ti dice nativo di quella nobile patria alla quale forse io
fui troppo molesto"(vv. 25-27). Lo supplica quindi di fermarsi a
parlare un po' con lui. La sua voce esce improvvisamente da un
tumulo, senza le preoccupazioni pedagogiche di chi non vuole turbare
in alcuna maniera il proprio interlocutore. Dante infatti se ne
impaurì e si accostò a Virgilio, il quale però,
vedendolo così timoroso, lo prende quasi in giro, dicendogli
di voltarsi verso il punto da cui la voce proveniva e non verso la
parte opposta.
Il poeta qui è autoironico, anche se in questa maniera ha
voluto farci capire due cose, anzitutto che Farinata non era un uomo
dalle mezze misure ma un orgoglioso, uno che, pur uscendo dal basso,
come in questo caso, guardava solo dall'alto. E poi che il luogo
cimiteriale ed evidentemente molto silenzioso, aveva un che di
tenebroso e di inquietante. Quando Farinata parla doveva esserci un
gran silenzio, una gran solitudine: dobbiamo immaginarci Dante che
cammina tra tombe scoperte, all'interno delle quali non era
possibile scorgere nessuno. Lui e Virgilio stavano camminando per un
sentiero e le tombe stavano alla loro sinistra. Rappresentare la
paura conseguente al fatto che da una tomba era improvvisamente
uscita una voce, soltanto con poche efficaci parole autoironiche,
senza dire quasi altro dell'ambiente, solo un grande poeta poteva
farlo. Qui sembra di assistere a una modernissima scena di un film
horror o di un racconto di E. A. Poe.
La descrizione che Dante fa del ghibellino (e solo alla fine del
Canto verremo a sapere ch'egli s'era staccato da Virgilio, per cui
questi non ebbe modo di ascoltare il dialogo tra i due) è
molto eloquente e in alcuni punti gli aggettivi sembrano pesati col
bilancino. Egli s'era alzato dal loculo "com'avesse l'inferno a gran
dispitto"(v 36), cioè come se non gli importasse nulla
soffrire pene indicibili.
Poi la domanda, che quello rivolge a Dante, "quasi sdegnoso"(v. 41),
cioè con tono altero, superbo: "Chi furono i tuoi
antenati?"(v. 42). Qui è la fierezza dell'aristocratico che
parla, la consapevolezza di provenire da un casato illustre,
l'alterigia nei confronti di chi non può vantare pari
dignità di sangue. Da quella tomba era emersa, fino alla
cintola, la personificazione del razzismo.
Qui il poeta è stato davvero grande nel mettere in evidenza
il contrasto tra la richiesta iniziale di Farinata, fatta con tutta
la possibile etichetta signorile, è questo atteggiamento
così altero, che difficilmente uno come Dante, più
vicino alla media borghesia, avrebbe potuto condividere. Già
da questa domanda si evince lo scontro politico tra una stantia
etica nobiliare, proveniente dal possesso della terra, e una
repubblica democratico-borghese sempre meno interessata alle origini
aristocratiche del potere politico ed economico. Dante qui
rappresenta la borghesia illuminata, di spirito democratico,
economicamente in ascesa, tendenzialmente favorevole a un
compromesso col papato.
"Chi furono i tuoi antenati?" è una domanda tristissima, del
tutto fuori luogo in quel contesto, anche perché, se Farinata
sentiva il bisogno di parlare con un fiorentino dall'eloquio
"onesto", che importanza aveva conoscere le origini di lui, la sua
provenienza sociale? Non era forse questo un modo di umiliarlo? Se
Dante avesse avuto origini meschine o incerte, che avrebbe fatto
Farinata? avrebbe rinunciato a dialogare con lui? lui che - come
dirà più avanti - bramava sapere il motivo di quel
pervicace odio guelfo che impediva ai suoi figli di ritornare in
patria?
Qui per la terza volta Dante è costretto a usare una
descrizione negativa di Farinata, atta a mettere in risalto la sua
eccessiva fierezza: "ei levò le ciglia un poco in suso"(v.
45), cioè lo guardò, ancora una volta, con un certo
orgoglio, come se volesse sfidarlo. D'altra parte se Dante non
avesse esagerato in questa descrizione, che motivo avrebbe avuto di
condannarlo in quel cerchio? Qui anzi deve stare attento a come si
muove. Avendo deciso di mettere all'inferno un ghibellino
così in vista, rischia di attirarsi l'odio di chi combatte
contro il papato: cosa che lui stesso, seppur da esule, stava
facendo. Egli dunque deve dimostrare che la decisione di metterlo
lì era stata motivata non tanto dall'accusa pubblica di
miscredenza, quanto dal fatto che Farinata era stato un
aristocratico altero, un anti-democratico.
Non a caso Farinata sembra voglia porsi come "avversario politico"
del guelfo Dante e ora è meno contento di parlare con lui.
Viceversa, Dante ha acquisito sicurezza, risponde a tono, non si
lascia impressionare né dagli argomenti superbi di quello,
né dalle sue dichiarazioni e ricostruzioni storico-politiche.
Dante è tranquillo anche perché sa che se i ghibellini
sconfissero i guelfi sia nel 1248 che nel 1260, questi seppero
rientrare in città ogni volta, sia nel 1251 che nel 1266,
determinando la cacciata definitiva dei ghibellini, anche se poi
questo porterà a lotte intestine ancora più tragiche,
quelle tra guelfi Bianchi e guelfi Neri.
L'ambigua personalità di Farinata, che qui Dante vuole
dipingere, viene indicata anche dal fatto che mentre nell'invito
iniziale a parlare con lui, egli s'era espresso in forma autocritica
("forse fui troppo molesto con Firenze"), ora invece appare
chiaramente fiero d'esser stato duro coi guelfi, benché si
giustifichi dicendo che a ciò fu costretto a causa
dell'opposizione tenace di loro (v. 46).
Dante vuole legittimare a tutti i costi la scelta d'aver messo
Farinata all'inferno, ma deve stare attento alle motivazioni che
adduce, perché se usa soltanto quelle politiche verrà
accusato di partigianeria e se usa solo quelle religiose di
superficialità: deve evitare la parzialità del
soggettivismo partitico e l'arido schematismo della Scolastica.
Al verso 54 veniamo improvvisamente a scoprire che le anime, in
quelle tombe, giacevano orizzontali, poiché l'altro abitante
di quel loculo, Cavalcante de' Cavalcanti, si limita a mostrare la
testa, il che fa supporre a Dante ch'egli si fosse messo in
ginocchio. Dunque, poiché Farinata era in piedi, l'altezza
del loculo doveva essere pari a quella delle sue gambe. Ovviamente
già da questo Dante vuol farci capire che tra i due il
più umile era proprio Cavalcante.
Non senza astuzia, peraltro, egli evita a Farinata di replicare
subito sulla questione del rimpatrio, introducendo improvvisamente
una figura, la cui presenza in quel cerchio resta poco
comprensibile, almeno dalla lettura dei versi. Si ha l'impressione
che Dante l'abbia messa lì soltanto per mostrare che si
può essere eretici o atei anche in forme più umane, ma
con questo resta ancor meno spiegabile la scelta di mettere
all'inferno personaggi del genere.
Peraltro Cavalcante (morto prima del 1280) non era neppure
ghibellino e aveva subìto, dopo la battaglia di Montaperti,
la distruzione di tutti i suoi beni. Dante poteva certamente averlo
conosciuto, essendo il padre del suo amico più caro, ma non
poteva aver di lui un ricordo tale da indurlo a comminargli una pena
così grave. Qui si ha l'impressione che Dante abbia voluto
far credere che il fatto d'aver messo Farinata all'inferno, tra gli
atei, non era stato dettato da motivi politici, proprio
perché nello stesso cerchio si trovava anche un guelfo. Solo
che se si accetta l'idea che egli li abbia messi in quel cerchio per
motivi unicamente ideologici, Dante rischia di passare per una
persona incredibilmente superficiale. E' probabile invece che Dante
abbia voluto mostrare, con questi due personaggi, due lati della
politica attiva: quella irriducibile, ideologica, schematica,
rappresentata da Farinata, e quella sensibile, tollerante,
umanistica (ancorché, imperdonabilmente, epicurea)
rappresentata da Cavalcante.
Che anche Cavalcante fosse ateo è fuor di dubbio,
poiché egli, nel suo dialogo con Dante, suppone che questi
abbia potuto fare il viaggio per meriti propri, grazie al suo
"ingegno"(v. 59), e non per virtù divina, sicché si
meraviglia di non vedere suo figlio Guido, che di Dante era amico
caro, accanto a lui (non si dimentichi però che quando
Cavalcante morì, Dante aveva appena 15 anni). Al che Dante
gli risponde che essendo ateo anche Guido (secondo Boccaccio era
seguace di idee averroistiche ed epicuree), non poteva in alcun modo
seguirlo. Guido era stato un grande poeta e politicamente era un
guelfo Bianco, come Dante, il quale però lo aveva espulso da
Firenze nel 1300, insieme ad alcuni guelfi di parte Nera, onde
ottenere la pacificazione delle fazioni opposte. Di lì a
poco, in esilio, Guido sarebbe morto. Qui Dante parla di lui al
passato ("ebbe"), intendendo riferirsi non al fatto che fosse
già morto (nella scansione temporale del viaggio
oltremondano, ambientato nel 1300, non poteva esserlo), ma al fatto
che quando svolgeva la funzione dell'intellettuale aveva chiaramente
manifestato idee ateistiche, sicché suo padre, pur non avendo
motivo di crucciarsi sull'esistenza in vita del figlio Guido, non
doveva comunque illudersi sul suo destino: prima o poi infatti
l'avrebbe raggiunto nello stesso cerchio.
Tuttavia Cavalcante capisce il contrario e cioè che se Guido
era già morto e non era finito nello stesso cerchio, forse
una speranza di salvezza per lui c'era. A un padre che vive
già all'inferno poteva importare meno che il figlio
continuasse a vivere sulla terra, e molto di più che vivesse
in modo tale da non dover finire all'inferno dopo morto. La critica
invece ha pensato ch'egli si fosse addolorato di non poter sapere da
Dante s'era già morto.
Dante non gli aveva risposto subito semplicemente perché -
come spiegherà più tardi a Farinata - non aveva capito
bene la domanda, essendo convinto che i dannati conoscessero, almeno
in parte, il futuro, come già Ciacco gli aveva mostrato.
Tuttavia la risposta che darà a Farinata pare poco
convincente. Sarebbe meglio supporre ch'egli si sia rifiutato di
rispondere a Cavalcante proprio perché non voleva esprimersi
sul destino di suo figlio e del suo amico più caro. Infatti
la risposta che alla fine dà è del tutto irrilevante
rispetto alla grandezza degli argomenti trattati in questo Canto.
Ma c'è dell'altro. Per quale ragione Dante usa, per
descrivere Farinata, delle espressioni forti, che denunciano i
difetti dell'umanità di lui, mentre per descrivere Cavalcante
usa toni dimessi? Se l'uno meritava l'inferno per la sua alterigia,
l'altro per che cosa lo meritava? Non sembra che Dante stia usando
molta parzialità mettendo all'inferno tutti gli atei, a
prescindere dalla loro umanità. Va detto tuttavia che questo
vuole essere il Canto di Farinata non di Cavalcante e Dante ha
bisogno di dimostrare, anche servendosi della paterna
sensibilità di Cavalcante, che Farinata si meritava
l'inferno. Saranno poi stati i posteri - avrà pensato il
poeta, consapevole della propria grandezza - a perdonargli d'aver
messo all'inferno un ateo come Cavalcante, la cui umanità,
nel peggiore dei casi, avrebbe meritato il purgatorio.
Che Farinata fosse altero, Dante lo ribadisce marcatamente anche
adesso, ed è la quarta volta. Infatti, vedendo il suo
compagno di cella "ricadere supino"(v. 72), egli "non mutò
aspetto / né mosse collo, né piegò sua
costa"(vv. 74-5). Anzi, come se nulla fosse, riprende il discorso
nel punto dove era stato interrotto da Cavalcante, e pare faccia
capire di non sapere che i ghibellini non sono più riusciti a
rientrare in Firenze. E se ne dispiace più che non l'essere
tormentato nella sua tomba. Eppure lui stesso profetizza a Dante,
con spirito vendicativo, che l'attende un duro esilio. Quindi
è da presumere, altrimenti si finirebbe in un vicolo cieco,
che il "se" del verso 77 ("Se i miei non hanno ben appresa l'arte
del ritorno in patria") non vada inteso come un se dubitativo ma
come se concessivo: "Il fatto che i miei non abbiano appresa...". E'
una semplice costatazione di fatto.
In realtà quel che lui chiede a Dante e che non può
sapere ("perché il popolo fiorentino è tanto crudele
contro il mio casato in ogni legge che sancisce?") fa parte della
libertà di coscienza, cioè non appartiene al mondo
fenomenico. I dannati conoscono l'accadere degli eventi ma non le
loro motivazioni, che appartengono al presente, sicché quando
Farinata vuol sapere perché i guelfi detestino così
tanto gli Uberti, Dante è costretto a rispondergli che la
causa principale stava proprio nella battaglia di Montaperti, in cui
si fece dei guelfi ampia strage.
Al che quello ribatte dicendo cose per le quali al massimo avrebbe
meritato il purgatorio, e cioè che non era stato solo lui a
infierire sul nemico sconfitto e purtuttavia era stato soprattutto
con lui che i guelfi, tornati in auge, se l'erano presa. Peraltro
dopo quella battaglia, quando i ghibellini volevano distruggere
Firenze, lui fu il solo a opporvisi, dicendo che l'avrebbe difesa
con le armi, e alla fine ebbe la meglio sui compagni di partito,
anche se poi i fatti gli diedero torto, poiché i guelfi
cacciarono definitivamente i ghibellini dalla città.
Qui Farinata tenta di giustificarsi e Dante avrebbe fatto meglio a
mettere all'inferno un ghibellino più fanatico e
intransigente, poiché dal punto di vista politico si fa
fatica a capire la collocazione di Farinata. Che senso ha far dire
delle cose a un uomo che in fondo appare politicamente pentito e poi
farlo stare all'inferno per un motivo d'opinione? A chi si rivolgeva
Dante quando scriveva queste cose? E come può augurare la
"pace" (v. 94) agli Uberti, se poi è costretto a metterli
all'inferno in forza dell'accusa di ateismo, che veniva notoriamente
usata a scopi politici?
La parte finale del dialogo è quanto mai contorta, non nel
suo significato tecnico, che è chiaro: i dannati vedono
meglio le cose lontane che quelle vicine, quanto nel suo significato
motivazionale: davvero Dante era interessato a conoscere una cosa
del genere? oppure ha posto quel dubbio ("sembra che voi dannati
prevediate le cose future e per il presente vi comportiate
diversamente e sembra lo ignoriate", vv. 97-9) semplicemente per
indurre Farinata ad avere con Cavalcante un rapporto più
umano, visto che, pur essendo nello stesso loculo, sembrava
s'ignorassero completamente? Cioè quella domanda ha una
funzione teologica o pedagogica? Serve per capire un mistero, la cui
utilità per i vivi era prossima allo zero, o per invogliare
ad amarsi in un luogo in cui peraltro non era possibile farlo?
L'ultima domanda che Dante pone a Farinata è di pura
curiosità e avrebbe fatto meglio a evitarla in quel
frangente. Il fatto è però ch'egli voleva dare
l'ultima stoccata al superbo Farinata, ed è la quinta. Quello
infatti dice: "Qui con più di mille giaccio / qua dentro
è 'l secondo Federico / e 'l Cardinale; e de li altri mi
taccio"(vv. 118-120). Cioè non val la pena parlarne, essendo
ben poca cosa rispetto a questi due.
Ma è probabile che la domanda l'abbia posta anche per farsi
dire che gli atei erano moltissimi (già nel Trecento!) e che
tra loro vi erano personaggi illustri come l'imperatore Federico II
di Svevia e persino esponenti ecclesiastici come l'ambizioso
cardinale Ottaviano degli Ubaldini, appartenente ad una illustre
famiglia ghibellina, ma nemico di Federico II e di Manfredi.
Ottaviano fu accusato d'aver tradito la causa della chiesa scendendo
a patti con Manfredi; ebbe altresì parte nella vittoria di
Montaperti (1260), che portò i ghibellini a dominare Firenze,
con l'aiuto di Siena e dello stesso Manfredi. Veniva considerato
notoriamente ateo. Non dimentichiamo che Dante, nel Convivio e nel
De vulgari eloquentia, stimava sia Federico II che Manfredi
(quest'ultimo, sebbene scomunicato, viene messo nel Canto III del
Purgatorio).
I critici han voluto vedere in quel "cardinale" il suddetto
Ottaviano, ma, essendosi tenuto in astratto, Dante poteva anche
voler indicare ai posteri che si può essere atei anche in
panni religiosi. Dunque che cos'era l'ateismo per l'Alighieri? Una
semplice concezione della vita o un indizio di superbia? Quanto ha
pesato in lui il condizionamento della Scolastica? Davvero solo i
credenti possono essere idealisti? E quando Farinata decise che
Firenze non doveva essere distrutta, in che veste l'aveva fatto?
* * *
Il dialogo finale di Virgilio e Dante ha un che di misterioso. Dante
è infatti preoccupato circa il suo destino e rivela alla sua
guida le parole appena dettegli da Farinata. Virgilio gli dice di
ricordarle, ma di considerare anche che quando vedrà Beatrice
saprà davvero quale sarà il suo destino.
Difficile capire cosa volesse dirci Dante, contrapponendo Beatrice a
Farinata, in merito alla capacità d'interpretare gli eventi
che hanno gli uomini. Probabilmente che il miglior modo
d'interpretare gli eventi è quello di collegarli a un ideale
superiore. Non tutti i mali vengono per nuocere: forse è
questo il senso della frase di Virgilio. Cioè anche se
Farinata ha anticipato il fatto dell'esilio, non è
però in grado di individuarne gli sviluppi. Per i credenti vi
è la divina provvidenza che, in ultima istanza, spiega tutto,
quella provvidenza che in fondo è un invito a non disperare.
Virgilio in sostanza gli fa capire che se anche non potrà
tornare a Firenze, non per questo la sua vita sarà finita;
anzi, avendo occasione di cimentarsi a livello letterario,
sarà possibile ch'egli diventi più grande che non a
fare il politico nella sua città. Una concezione di vita,
questa, che ritroveremo cinquecento anni dopo nei Promessi sposi e
che in fono risaliva, in ambito cristiano, allo stesso Paolo di
Tarso, secondo cui le disgrazie servono per mettere alla prova la
virtù umana, per cui le divisioni sono necessarie (1Cor
11,19).
L'ultimo verso è massimamente ironico e si ricollega
all'inizio, quando Dante s'era aggrappato a Virgilio sentendo la
voce tombale di Farinata. Doveva averci lavorato parecchio su questo
Canto, poiché è incredibilmente elaborato e ben
congeniato. Dopo 135 versi di suprema serietà, avendo a che
fare con politici più che motivati, Dante conclude dicendo
che la valle sottostante quel cerchio emanava un lezzo
insopportabile, i cui miasmi si facevano già sentire. E' in
queste cose incredibilmente realistiche che Dante dà il
meglio di sé.
Per il resto infatti il Canto, pur eccellente a un'analisi
stilistica, resta piuttosto involuto a un'analisi politica. Se Dante
voleva usare la teologia scolastica per dimostrare
l'assurdità della tripartizione oltremondana, senza poterlo
dire esplicitamente, possiamo comprenderlo, avendo egli scritto la
Commedia, e in specie l'Inferno, in un momento drammatico della sua
esistenza, quello dell'uomo esule perché politicamente
sconfitto; sicché, in riferimento a questo specifico Canto,
possiamo anche ipotizzare che se fosse dipeso da lui, non avrebbe
messo Farinata all'inferno, o comunque non l'avrebbe caratterizzato
così negativamente sul piano umano (tanto più che
personalmente non l'aveva mai conosciuto).
S'egli invece ha voluto usare quella medesima teologia per
vendicarsi dei suoi nemici politici, assegnando loro una condanna
eterna (e in tal senso Farinata dovrebbe essere considerato la
principale fonte di tutti i suoi guai, in quanto se non vi fosse
stata la guerra civile tra guelfi e ghibellini, probabilmente non vi
sarebbe neppure stata l'altra, tra guelfi Bianchi e Neri), allora
dobbiamo dire che la grandezza di Dante come uomo non era di molto
superiore a quella dei suoi nemici, e il fatto d'essere stato un
grandissimo artista non è sufficiente per riscattarlo.
Se poi qui ci si vuole obiettare ch'egli ha soltanto usato la
teologia scolastica in maniera neutrale, sforzandosi d'inserirla in
una cornice più umana, in cui s'è voluto anzitutto
esaltare un rapporto col peccatore più che cercare di
incasellarlo in un elenco sterminato di peccati, allora si dovrebbe
avere il coraggio di sostenere, quando si commenta un'opera del
genere, tra le più significative di tutti i tempi, che la
teologia scolastica era una incredibile mostruosità e che le
tante incongruenze nel modo che ha Dante di valutare le persone si
debbono far risalire al peso eccessivo ch'egli diede a questa
teologia.