§37 Note sulla vita nazionale francese. Il partito monarchico in regime repubblicano, come il partito repubblicano in regime monarchico, o il partito nazionale in regime di soggezione del paese a uno Stato straniero, non possono non essere partiti sui generis: devono essere, cioè, se vogliono ottenere successi relativamente rapidi, le centrali di federazioni di partiti, più che partiti caratterizzati in tutti i punti particolari dei loro programmi di governo; partiti di un sistema generale di governo e non di governi particolari (in questa stessa serie spetta un posto a parte ai partiti confessionali, come il Centro tedesco o i diversi partiti cristiano‑sociali o popolari). Il partito monarchico si fonda in Francia sui residui ancora tenaci della vecchia nobiltà terriera e su una parte della piccola borghesia e degli intellettuali.

Su che sperano i monarchici per diventare capaci di assumere il potere e restaurare la monarchia? Sperano sul collasso del regime parlamentare‑borghese e sulla incapacità di qualsiasi altra forza organizzata esistente ad essere il nucleo politico di una dittatura militare prevedibile o da loro stessi preordinata; in nessun altro modo le loro forze sociali sarebbero in grado di conquistare il potere. In attesa, il centro dirigente dell’Action Française svolge sistematicamente una serie di attività: un’azione organizzativa politico‑militare (militare nel senso di partito e nel senso di avere cellule attive fra gli ufficiali dell’esercito) per raggruppare nel modo più efficiente l’angusta base sociale su cui storicamente il movimento s’appoggia. Essendo questa base costituita di elementi in generale più scelti per intelligenza, cultura, ricchezza, pratica di amministrazione ecc. che qualsiasi altro movimento, è possibile avere un partito notevole, imponente persino, ma che però si esaurisce in se stesso, che non ha, cioè, riserve da gettare nella lotta in una crisi risolutiva. Il partito è notevole, pertanto, solo nei tempi normali, quando gli elementi attivi nella lotta politica si contano a decine di migliaia, ma diventerà insignificante (numericamente) nei periodi di crisi, quando gli attivi si conteranno a centinaia di migliaia e forse a milioni.

Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) e della formula della rivoluzione permanente attuata nella fase attiva della Rivoluzione francese ha trovato il suo «perfezionamento» giuridico‑costituzionale nel regime parlamentare, che realizza, nel periodo più ricco di energie «private» nella società, l’egemonia permanente della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana del governo col consenso permanentemente organizzato (ma l’organizzazione del consenso è lasciata all’iniziativa privata, è quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontariamente» dato in un modo o nell’altro). Il «limite» trovato dai giacobini nella legge Chapelier e in quella del maximum, viene superato e respinto più lontano progressivamente attraverso un processo completo, in cui si alternano l’attività propagandistica e quella pratica (economica, politico‑giuridica): la base economica, per lo sviluppo industriale e commerciale, viene continuamente allargata e approfondita, dalle classi inferiori si innalzano fino alle classi dirigenti gli elementi sociali più ricchi di energia e di spirito d’intrapresa, la società intera è in continuo processo di formazione e di dissoluzione seguita da formazioni più complesse e ricche di possibilità; ciò dura, in linea generale, fino all’epoca dell’imperialismo e culmina nella guerra mondiale.

In questo processo si alternano tentativi di insurrezione e repressioni spietate, allargamento e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizioni o annullamenti di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non in quello politico, forme diverse di suffragio, scrutinio di lista o circoscrizioni uninominali, sistema proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano – sistema delle due camere o di una sola camera elettiva, con vari modi di elezione per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, Senato a termine, ma con elezione dei Senatori diversa da quella dei deputati ecc.) –, vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura può essere un potere indipendente o solo un ordine, controllato e diretto dalle circolari ministeriali, diverse attribuzioni del capo del governo e dello Stato, diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, maggiori o minori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei Comuni, ecc.), diverso equilibrio tra le forze armate di leva e quelle professionali (polizia, gendarmeria), con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro organo statale (dalla magistratura, dal ministero dell’interno o dallo Stato maggiore); la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che possono ad un certo punto essere abolite in virtù delle leggi scritte (in alcuni paesi «pareva» si fossero costituiti regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente, senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi giuridico‑morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando della legge scritta interpretazioni reazionarie); il distacco più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d’esecuzione che annullano le prime o ne danno un’interpretazione restrittiva; l’impiego più o meno esteso dei decreti‑legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, «forzando la pazienza» del parlamento fino a giungere a un vero e proprio «ricatto della guerra civile».

A questo processo contribuiscono i teorici‑filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per lo sviluppo della parte formale e i movimenti o le pressioni di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative «preventive» prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono state tardive e inefficaci.

L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato dalla combinazione della forza e del consenso che si equilibrano variamente, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi cercando di ottenere che la forza appaia appoggiata sul consenso della maggioranza, espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica – giornali e associazioni – i quali, perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente. Tra il consenso e la forza sta la corruzione‑frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica, presentando l’impiego della forza troppi pericoli) cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti sia copertamente sia in caso di pericolo emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste,

Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diviene permanentemente difficile e aleatorio. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e in aspetti secondari e derivati. I più triviali sono: «crisi del principio d’autorità» e «dissoluzione del regime parlamentare». Naturalmente del fenomeno si descrivono solo le manifestazioni «teatrali» sul terreno parlamentare e del governo politico ed esse appunto si spiegano col fallimento di alcuni «principii» (parlamentare, democratico, ecc.) e con la «crisi» del principio d’autorità (del fallimento di questo principio parleranno altri non meno superficiali e superstiziosi). La crisi si presenta praticamente nella sempre crescente difficoltà di formare i governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi: essa ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari, e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti (si verifica cioè nell’interno di ogni partito ciò che si verifica nell’intero parlamento: difficoltà di governo e instabilità di direzione).

Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni frazione di partito crede di avere la ricetta infallibile per arrestare l’indebolimento dell’intero partito, e ricorre a ogni mezzo per averne la direzione o almeno per partecipare alla direzione, così come nel parlamento il partito crede di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese o almeno pretende, per dare l’appoggio al governo, di doverci partecipare il più largamente possibile; quindi contrattazioni cavillose e minuziose, che non possono non essere personalistiche in modo da apparire scandalose, e che spesso sono infide e perfide. Forse, nella realtà, la corruzione personale è minore di quanto appare, perché tutto l’organismo politico è corrotto dallo sfacelo della funzione egemonica. Che gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista, fingano di credere e proclamino a gran voce che si tratta della «corruzione» e della «dissoluzione» di una serie di «principii» (immortali o no), potrebbe anche essere giustificato: ognuno è il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo ed opera praticamente come fosse vero nella realtà effettuale che l’abito è il monaco e il berretto il cervello. Machiavelli diventa così Stenterello.

La crisi in Francia. Sua grande lentezza di sviluppi. I partiti politici francesi: essi erano molto numerosi anche prima del 1914. La loro molteplicità formale dipende dalla ricchezza di eventi rivoluzionari e politici in Francia dal 1789 all’Affare Dreyfus: ognuno di questi eventi ha lasciato sedimenti e strascichi che si sono consolidati in partiti, ma le differenze essendo molto meno importanti delle coincidenze, in realtà ha sempre regnato nel Parlamento il regime dei due partiti, liberali‑democratici (varie gamme del radicalismo) e conservatori. Si può anzi dire che la molteplicità dei partiti, date le circostanze particolari della formazione politico‑nazionale francese è stata molto utile nel passato: ha permesso una vasta opera di selezioni individuali e ha creato il gran numero di abili uomini di governo che è caratteristica francese. Attraverso questo meccanismo molto snodato e articolato, ogni movimento dell’opinione pubblica trovava un immediato riflesso e una composizione. L’egemonia borghese è molto forte e ha molte riserve. Gli intellettuali sono molto concentrati (Istituto di Francia, Università, grandi giornali e riviste di Parigi) e quantunque numerosissimi sono in fondo molto disciplinati ai centri nazionali di cultura. La burocrazia militare e civile ha una grande tradizione e ha raggiunto un alto grado di omogeneità attiva.

La debolezza interna più pericolosa per l’apparato statale (militare e civile) consisteva nell’alleanza del clericalismo e del monarchismo. Ma la massa popolare, se pure cattolica, non era clericale. Nell’affare Dreyfus è culminata la lotta per paralizzare l’influsso clericale‑monarchico nell’apparato statale e per dare all’elemento laico la netta prevalenza. La guerra non ha indebolito ma rafforzato l’egemonia; non si è avuto il tempo di pensare: lo Stato è entrato in guerra e quasi subito il territorio è stato invaso. Il passaggio dalla disciplina di pace a quella di guerra non ha domandato una crisi troppo grande: i vecchi quadri militari erano abbastanza vasti ed elastici; gli ufficiali subalterni e i sottufficiali erano forse i più selezionati del mondo e i meglio allenati alle funzioni di comando immediato sulle truppe. Confronto con altri paesi.

La quistione degli arditi e del volontarismo; la crisi dei quadri, determinata dal sopravvento degli ufficiali di complemento, che altrove avevano una mentalità antitetica con gli ufficiali di carriera. Gli arditi, in altri paesi, hanno rappresentato un nuovo esercito di volontari, una selezione militare, che ebbe una funzione tattica primordiale. Il contatto col nemico fu cercato solo attraverso gli arditi, che formavano come un velo tra il nemico e l’esercito di leva (funzione delle stecche nel busto). La fanteria francese era formata in grandissima maggioranza di coltivatori diretti, cioè di uomini forniti di una riserva muscolare e nervosa molto ricca che rese più difficile il collasso fisico procurato dalla lunga vita di trincea (il consumo medio di un cittadino francese è di circa 1 500 000 calorie annue, mentre quello italiano è minore di 1 000 000); in Francia il bracciantato agricolo è minimo, il contadino senza terra è servo di fattoria cioè vive la stessa vita dei padroni e non conosce l’inedia della disoccupazione neanche stagionale; il vero bracciantato si confonde con la mala vita rurale ed è formato di elementi irrequieti che viaggiano da un angolo all’altro del paese per piccoli lavori marginali. Il vitto in trincea era migliore che in altri paesi e il passato democratico, ricco di lotte e di ammaestramenti reciproci, aveva creato il tipo diffuso del cittadino moderno anche nelle classi subalterne, cittadino nel doppio senso, che l’uomo del popolo si sentiva qualche cosa non solo, ma era ritenuto qualche cosa anche dai superiori, dalle classi dirigenti, cioè non era sfottuto e bistrattato per bazzecole. Non si formarono così, durante la guerra, quei sedimenti di rabbia avvelenata e sorniona che si formarono altrove. Le lotte interne del dopoguerra mancarono perciò di grande asprezza e specialmente, non si verificò l’inaudita oscillazione delle masse rurali verificatasi altrove.

La crisi endemica del parlamentarismo francese indica che c’è un malessere diffuso nel paese ma questo malessere non ha avuto finora un carattere radicale, non ha posto in gioco quistioni intangibili. C’è stato un allargamento della base industriale e quindi un accresciuto urbanesimo. Masse di rurali si sono riversate in città, ma non perché ci fosse in campagna disoccupazione o fame insoddisfatta di terra; perché in città si sta meglio, ci sono più soddisfazioni ecc. (il prezzo della terra è bassissimo e molte terre buone sono abbandonate agli Italiani). La crisi parlamentare riflette (finora) piuttosto uno spostamento normale di masse (non dovuto ad acuta crisi economica), con una ricerca laboriosa di nuovi equilibri di rappresentanza e di partiti e un malessere vago che è solo premonitore di una possibile grande crisi politica. La stessa sensibilità dell’organismo politico porta ad esagerare formalmente i sintomi del malessere. Finora si è trattato di una serie di lotte per la divisione dei carichi e dei benefici statali, più che altro, perciò crisi dei partiti medi e di quello radicale in primo luogo, che rappresenta le città medie e piccole e i contadini più avanzati. Le forze politiche si preparano alle grandi lotte future e cercano un migliore assestamento; le forze extrastatali fanno sentire più sensibilmente il loro peso e impongono i loro uomini in modo più brutale.

Il punto culminante della crisi parlamentare francese fu raggiunto nel 1925 e dall’atteggiamento verso quegli avvenimenti, ritenuti decisivi, occorre partire per dare un giudizio sulla consistenza politica e ideologica dell’Action Française. Maurras gridò allo sfacelo del regime repubblicano e il suo gruppo si preparò alla presa del potere. Maurras è spesso esaltato come un grande statista e come un grandissimo Realpolitiker: in realtà egli è solo un giacobino alla rovescia. I giacobini impiegavano un certo linguaggio, erano convinti fautori di una determinata ideologia; nel tempo e nelle circostanze date, quel linguaggio e quella ideologia erano ultrarealistici, perché ottenevano di mettere in moto le energie politiche necessarie ai fini della Rivoluzione e a consolidare permanentemente l’andata al potere della classe rivoluzionaria; furono poi staccati, come avviene quasi sempre, dalle condizioni di luogo e di tempo e ridotti in formule e divennero una cosa diversa, una larva, parole vacue e inerti. Il comico consiste nel fatto che il Maurras capovolse banalmente quelle formule, creandone altre che sistemò in un ordine logico‑letterario impeccabile, le quali non potevano anche esse che rappresentare il riflesso del più puro e triviale illuminismo.

In realtà è proprio Maurras il più rappresentativo campione dello «stupido secolo XIX», la concentrazione di tutti i luoghi comuni massonici meccanicamente rovesciati: la sua relativa fortuna dipende appunto da ciò che il suo metodo piace perché è quello della ragione ragionante da cui è nato l’enciclopedismo, e tutta la tradizione culturale massonica francese. L’illuminismo creò una serie di miti popolari, che erano solo la proiezione nel futuro delle più profonde e millenarie aspirazioni delle grandi masse, aspirazioni legate al cristianesimo e alla filosofia del senso comune, miti semplicistici quanto si vuole, ma che avevano un’origine realmente radicata nei sentimenti e che, in ogni caso, non potevano essere controllati sperimentalmente (storicamente); Maurras ha creato il mito «semplicistico» di un passato monarchico francese fantastico; ma questo mito è stato «storia» e le deformazioni intellettualistiche di essa possono essere facilmente corrette: tutta la istruzione pubblica francese è una implicita rettifica del mito monarchico, che in tal modo diventa un «mito» difensivo più che creatore di passioni.

Una delle formule fondamentali di Maurras è «Politique d’abord», ma egli è il primo a non seguirla. Per lui, prima della politica c’è sempre l’«astrazione politica», l’accoglimento integrale di una concezione del mondo «minuziosissima», che prevede tutti i particolari, come l’anno le utopie dei letterati, che domanda una determinata concezione della storia, ma della storia concreta di Francia e d’Europa, cioè una determinata e fossilizzata ermeneutica.

Léon Daudet ha scritto che la grande forza dell’Action Française è stata la incrollabile omogeneità e unità del suo gruppo dirigente: sempre d’accordo, sempre solidali politicamente e ideologicamente. Certo l’unità e omogeneità del gruppo dirigente è una grande forza, ma di carattere settario e massonico, non di un grande partito di governo. Il linguaggio politico è diventato un gergo, si è formata l’atmosfera di una conventicola: a forza di ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi schemi mentali irrigiditi, si finisce, è vero, col pensare allo stesso modo, perché si finisce col non pensare più. Maurras a Parigi e Daudet a Bruxelles pronunziano la stessa frase, senza accordo, sullo stesso avvenimento perché l’accordo c’era già prima, perché si tratta di due macchinette di frasi, montate da venti anni per dire le stesse frasi nello stesso momento.

Il gruppo dirigente dell’Action Française si è formato per cooptazione: in principio c’era Maurras col suo verbo, poi si unì Vaugeois, poi Daudet, poi Pujo, ecc. ecc. Ogni volta che dal gruppo si staccò qualcuno, fu una catastrofe di polemiche e di accuse interminabili e perfide e si capisce: Maurras è come un papa infallibile e che da lui si stacchi uno dei più prossimi ha un significato veramente catastrofico.

Dal punto di vista dell’organizzazione l’Action Française è molto interessante e meriterebbe uno studio approfondito. La sua forza relativa è costituita specialmente da ciò che i suoi elementi di base sono tipi sociali intellettualmente selezionati, la cui «radunata» militare è estremamente facile come sarebbe quella di un esercito costituito di soli ufficiali. La selezione intellettuale è relativa, si capisce, poiché è stupefacente come gli aderenti all’Action Française siano facili a ripetere pappagallescamente le formule del leader (se pure non si tratti di una necessità di guerra, sentita come tale) e anzi a trarne profitto «snobistico». In una repubblica può essere segno di distinzione l’essere monarchico, in una democrazia parlamentare l’essere reazionario conseguente. Il gruppo, per la sua composizione, possiede (a parte le sovvenzioni di certi gruppi industriali) molti fondi, tanti da permettere iniziative molteplici che danno l’apparenza di una certa vitalità e attività. La posizione sociale di molti aderenti palesi ed occulti permette al giornale e al centro dirigente di avere una massa di informazioni e documenti riservati che permettono una molteplicità di polemiche personali. Nel passato, ma più limitatamente anche ora, il Vaticano doveva essere una fonte di prim’ordine d’informazioni (la Segreteria di Stato e l’alto clero francese).

Molte campagne personalistiche devono essere a chiave o a mezza chiave: si pubblica una parte di vero per far capire che si sa tutto, o si fanno allusioni furbesche comprensibili agli interessati. Queste campagne violente personalistiche hanno per l’Action Française vari significati: galvanizzano gli aderenti perché lo sfoggio della conoscenza delle cose più segrete dà l’impressione di gran capacità a penetrare nel campo avversario e di una forte organizzazione cui nulla sfugge, mostrano il regime repubblicano come un’associazione a delinquere paralizzano una serie di avversari con la minaccia di disonorarli e di alcuni fanno dei fautori segreti.

La concezione empirica che si può ricavare da tutta l’attività dell’Action Française è questa: il regime parlamentare repubblicano si dissolverà ineluttabilmente perché esso è un «monstrum» storico‑razionale, che non corrisponde alle leggi «naturali» della società francese rigidamente stabilite dal Maurras. I nazionalisti integrali devono pertanto: 1) appartarsi dalla vita reale della politica francese, non riconoscendone la «legalità» storico‑razionale (astensionismo, ecc.) e combattendola in blocco; 2) creare un antigoverno, sempre pronto a insediarsi nei «palazzi tradizionali» con un colpo di mano: questo antigoverno si presenta già oggi con tutti gli uffici embrionali, che corrispondono alle grandi attività nazionali.

Nella realtà furono fatti molti strappi a tanto rigore; nel 19 furono presentate alcune candidature, e riuscì eletto per miracolo il Daudet. Nelle altre elezioni l’Action Française appoggiò quei candidati di destra che accettavano alcuni suoi principii marginali (questa attività pare sia stata imposta al Maurras dai suoi collaboratori più esperti di politica reale, ciò che dimostra che l’unità non è senza crepe). Per uscire dall’isolamento fu progettata la pubblicazione di un grande giornale d’informazione, ma finora non se ne fece nulla (esiste solo la «Revue Universelle» e lo «Charivari» che compiono ufficio di divulgazione indiretta tra il grande pubblico). L’acre polemica col Vaticano e la riorganizzazione del clero e delle associazioni cattoliche che ne fu una conseguenza, ha rotto il solo legame che l’Action Française aveva con le grandi masse nazionali, legame che era anch’esso piuttosto aleatorio. Il suffragio universale che è stato introdotto in Francia da tanto tempo ha già determinato il fatto che le masse, formalmente cattoliche, politicamente aderiscano ai partiti repubblicani di centro, sebbene questi siano anticlericali e laicisti: il sentimento nazionale, organizzato intorno al concetto di patria, è altrettanto forte, e in certi casi è indubbiamente più forte, del sentimento religioso‑cattolico, che del resto ha caratteristiche proprie. La formula che «la religione è una quistione privata» si è radicata come forma popolare del concetto di separazione della Chiesa dallo Stato.

 Inoltre, il complesso di associazioni che costituiscono l’Azione Cattolica è in mano all’aristocrazia terriera (ne è capo, o era, il generale Castelnau), senza che il basso clero eserciti quella funzione di guida spirituale‑sociale che esercitava in Italia (in quella settentrionale). Il contadino francese, nella quasi totalità, rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale, che dice volentieri: «il prete è prete sull’altare, ma fuori è un uomo come tutti gli altri» (in Sicilia: «monaci e parrini, sienticci la missa e stoccacci li rini»).

L’Action Française attraverso lo strato dirigente cattolico pensava di poter dominare, nel momento decisivo, tutto l’apparato di massa del cattolicismo francese. In questo calcolo c’era un po’ di verità e molta illusione: in epoche di grandi crisi politico‑morali, il sentimento religioso, rilassato in tempi normali, può diventare vigoroso e assorbente; ma se l’avvenire appare pieno di nubi tempestose, anche la solidarietà nazionale, espressa nel concetto di patria, diventa assorbente in Francia, dove la crisi non può non assumere il carattere di crisi internazionale e allora la «Marsigliese» è più forte dei Salmi penitenziali. In ogni caso, anche la speranza in questa riserva possibile è svanita per Maurras. Il Vaticano non vuole più astenersi dagli affari interni francesi e ritiene che il ricatto di una possibile restaurazione monarchica sia divenuto inoperante: il Vaticano è più realista di Maurras, e concepisce meglio la formula «politique d’abord». Finché il contadino francese dovrà scegliere tra Herriot e un Hobereau, sceglierà Herriot: bisogna perciò creare il tipo del «radicale cattolico» cioè del «popolare», bisogna accettare senza riserve la repubblica e la democrazia e su questo terreno organizzare le masse contadine, superando il dissidio tra religione e politica, facendo del prete non solo la guida spirituale (nel campo individuale‑privato) ma anche la guida sociale nel campo economico‑politico.

La sconfitta di Maurras è certa (come quella di Hugenberg in Germania). È la concezione di Maurras che è falsa per troppa perfezione logica: questa sconfitta, d’altronde, fu sentita dallo stesso Maurras proprio all’inizio della polemica col Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare francese del 1925 (non certo per caso). Quando i ministeri si succedevano a rotazione, l’Action Française pubblicò di essere pronta ad assumere il potere e apparve un articolo in cui si giunse ad invitare Caillaux a collaborare, Caillaux per il quale si annunziava continuamente il plotone d’esecuzione. L’episodio è classico: la politica irrigidita e razionalistica del Maurras, dell’astensionismo aprioristico, delle leggi naturali «siderali» che reggono la società francese, era condannata al marasma, al crollo, all’abdicazione nel momento risolutivo. Nel momento risolutivo si vede che le grandi masse di energie entrate in movimento per la crisi non si riversano affatto nei serbatoi creati artificialmente, ma seguono le vie realmente tracciate dalla politica reale precedente, si spostano secondo i partiti che sono sempre stati attivi, o perfino che sono nati come funghi sul terreno stesso della crisi. A parte la stoltezza di credere che nel 1925 potesse avvenire il crollo del regime repubblicano per una crisi parlamentare (l’intellettualismo antiparlamentarista porta a simili allucinazioni monomaniache) se ci fu crollo fu quello morale del Maurras, che magari non si sarà scosso dal suo stato di illuminazione apocalittica, e del suo gruppo, che si sentì isolato e dovette fare appello a Caillaux e C.

Nella concezione di Maurras esistono molti tratti simili a quelli di certe teorie formalmente catastrofiche di certo economismo e sindacalismo. È spesso avvenuta questa trasposizione nel campo politico e parlamentare di concezioni nate sul terreno economico e sindacale. Ogni astensionismo politico in generale e non solo quello parlamentare si basa su una simile concezione meccanicamente catastrofica: la forza dell’avversario crollerà matematicamente se con metodo rigorosamente intransigente lo si boicotterà nel campo governativo (allo sciopero economico si accoppia lo sciopero e il boicottaggio politico). L’esempio classico è quello italiano dei clericali dopo il 70, che imitarono e generalizzarono alcuni episodi della lotta dei patrioti contro il dominio austriaco verificatisi specialmente a Milano.

L’affermazione, spesso ripetuta da Jacques Bainville nei suoi saggi storici, che il suffragio universale e il plebiscito potevano (avrebbero potuto) e potranno quindi servire anche al legittimismo come servirono ad altre correnti politiche (specialmente ai Bonaparte) è molto ingenua, perché legata a un ingenuo e astrattamente scemo sociologismo: il suffragio universale e il plebiscito sono concepiti come schemi astratti dalle condizioni di tempo e di luogo. Occorre notare: 1) che ogni sanzione data dal suffragio universale e dalplebiscito è avvenuta dopo che la classe fondamentale si era concentrata fortemente o nel campo politico o più ancora nel campo politico‑militare intorno a una personalità «cesarista», o dopo una guerra che aveva creato una situazione di emergenza nazionale; 2) che nella realtà della storia francese ci sono stati diversi tipi di «suffragio universale», a mano a mano che mutarono storicamente i rapporti economico-politici. Le crisi del suffragio universale sono state determinate dai rapporti tra Parigi e la provincia, ossia tra la città e la campagna, tra le forze urbane e quelle contadinesche. Durante la Rivoluzione, il blocco urbano parigino guida in modo quasi assoluto la provincia e si forma così il mito del suffragio universale che dovrebbe sempre dar ragione alla democrazia radicale parigina. Perciò Parigi vuole il suffragio universale nel 1848, ma esso esprime un parlamento reazionario‑clericale che permette a Napoleone III la sua carriera.

Nel 1871 Parigi ha fatto un gran passo in avanti, perché si ribella all’Assemblea Nazionale di Versailles, formata dal suffragio universale, cioè implicitamente «capisce» che tra «progresso» e suffragio può esserci conflitto; ma questa esperienza storica, di valore inestimabile, è perduta immediatamente perché i portatori di essa vengono immediatamente soppressi. D’altronde dopo il 71 Parigi perde in gran parte la sua egemonia politico‑democratica sulla restante Francia per diverse ragioni: 1) perché si diffonde in tutta la Francia il capitalismo urbano e si crea il movimento radicale socialista in tutto il territorio; 2) perché Parigi perde definitivamente la sua unità rivoluzionaria e la sua democrazia si scinde in gruppi sociali e partiti antagonistici.

Lo sviluppo del suffragio universale e della democrazia coincide sempre più con l’affermarsi in tutta la Francia del partito radicale e della lotta anticlericale, affermazione resa più facile e anzi favorita dallo sviluppo del così detto sindacalismo rivoluzionario. In realtà l’astensionismo elettorale e l’economismo dei sindacalisti sono l’apparenza «intransigente» dell’abdicazione di Parigi al suo ruolo di testa rivoluzionaria della Francia, sono l’espressione di un piatto opportunismo seguito al salasso del 1871. Il radicalismo unifica così in un piano intermedio, della mediocrità piccolo‑borghese, l’aristocrazia operaia di città e il contadino agiato di campagna. Dopo la guerra c’è una ripresa dello sviluppo storico troncato col ferro e col fuoco nel 1871, ma esso è incerto, informe, oscillante, e specialmente privo di cervelli pensanti.

La «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 riassume un articolo di J. Vialatoux pubblicato nella «Chronique Sociale de France» di qualche settimana prima; il Vialatoux respinge la tesi sostenuta da Jacques Maritain, in Une opinion sur Charles Maurras et le devoir des catholiques (Parigi, Plon, 1926) secondo cui tra la filosofia e la morale pagane di Maurras e la sua politica non vi sarebbe che un rapporto contingente, di modo che se si prende la dottrina politica, astraendo dalla filosofia, si può andare incontro a qualche pericolo, come in ogni movimento umano, ma non vi ha nulla di condannabile.

Per il Vialatoux, giustamente, la dottrina politica scaturisce (o per lo meno è inscindibilmente legata – g.) dalla concezione pagana del mondo (su questo paganesimo occorre distinguere e chiarire, tra la veste letteraria piena di riferimenti e metafore pagane e il nocciolo essenziale che è poi il positivismo naturalistico, preso da Comte e mediatamente dal sansimonismo, ciò che rientra nel paganesimo solo per il gergo e la nomenclatura ecclesiastica – g.). Lo Stato è il fine ultimo dell’uomo: esso realizza l’ordine umano con le sole forze della natura (cioè «umane», in contrapposizione a «soprannaturali»). Maurras è definibile per i suoi odii ancor più che per i suoi amori. Odia il cristianesimo primitivo (la concezione del mondo contenuta negli Evangeli, nei primi apologisti ecc., il cristianesimo all’editto di Milano, insomma, la cui credenza fondamentale era che la venuta di Cristo avesse annunziato la fine del mondo e che perciò determinava la dissoluzione dell’ordine politico romano in una anarchia morale corrosiva di ogni valore civile e statale) che per lui è una concezione giudaica. In questo senso Maurras vuole scristianizzare la società moderna. Per Maurras la Chiesa cattolica è stata e sarà sempre più lo strumento di questa scristianizzazione. Egli distingue tra cristianesimo e cattolicismo ed esalta quest’ultimo come la reazione dell’ordine romano all’anarchia giudaica. Il culto cattolico, le sue devozioni superstiziose, le sue feste, le sue pompe, le sue solennità, la sua liturgia, le sue immagini, le sue formule, i suoi riti sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un incantesimo salutare per domare l’anarchia cristiana, per immunizzare il veleno giudaico del cristianesimo autentico.

Secondo il Vialatoux il nazionalismo dell’Action Française non è che un episodio della storia religiosa del nostro tempo (in questo senso ogni movimento politico non controllato dal Vaticano è un episodio della storia religiosa, ossia tutta la storia è storia religiosa. In ogni modo occorre aggiungere che l’odio di Maurras contro tutto ciò che sa di protestante ed è di origine anglo‑germanica – Romanticismo, Rivoluzione francese, capitalismo ecc. – non è che un aspetto di questo odio contro il cristianesimo primitivo. Occorrerebbe cercare in Augusto Comte le origini di questo atteggiamento generale verso il cattolicismo, che non è indipendente dalla rinascita libresca del tomismo e dell’aristotelismo).