Borbone

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Dizionario di storia (2009)

Famiglia reale di origine francese (fr. Bourbon), che regnò in numerosi Stati dell’Europa occidentale e meridionale (Francia, Spagna, Napoli, Parma e Lucca) e fu, con gli Asburgo, la più potente famiglia principesca dell’Europa. Il nome di B. (dal castello Bourbon, oggi B.-l’Archambault, nella Francia centrale) fu portato da una modesta famiglia feudale, vassalla dei conti di Bourges, dai quali tuttavia si emancipò già alla fine del sec. 10°.

Il vero fondatore della potenza della famiglia fu Archambaud VI (1116-1171), che sposò Agnese, figlia di Umberto II conte di Savoia, cognata del re di Francia Luigi VI. Con lui si estinse la linea maschile dei B.: beni e titoli furono portati dalla nipote Matilde (1171-1215) al marito Guy de Dampierre; estintosi il ramo maschile dei B.-Dampierre (1249), dopo alcune successioni femminili, Beatrice con il suo matrimonio con Roberto di Clermont (1276), sesto figlio di re Luigi IX, diede inizio alla nuova dinastia dei B. di sangue reale, come ramo della dinastia capetingia.

Il figlio di Roberto di Clermont e di Beatrice di B., Luigi I (1310-42), ottenne nel 1327 dal re Carlo IV che il Borbonese venisse elevato in ducato-paria; si ebbe così la linea ducale, che si estinse con Pietro II (1503). Questo ramo primogenito fu accompagnato da vari rami collaterali. La linea dei B.-La Marche, iniziata da Giacomo I, si estinse (1438) con Giacomo II; ma un fratello iniziò la linea dei B.-Vendôme, destinata a maggior fortuna, dalla quale ebbero origine anche i B.-Condé con i rami derivati. I B. di Francia, saliti sul trono di questo Paese con Enrico IV (1589), vi rimasero fino a quando la Francia fu una monarchia. Questa linea principale si estinse nel 1883 col nipote di Carlo X, Enrico conte di Chambord; i diritti al trono passarono alla linea degli Orléans, che si era staccata dal ramo principale dei B. con Filippo duca di Orléans (1640-1701), fratello di Luigi XIV, e nel 1830 soppiantò sul trono di Francia il ramo principale con Luigi Filippo (1830-48).

All’inizio del sec. 18°, dal ceppo dei B. di Francia si staccò la linea dei B. di Spagna, con Filippo duca d’Angiò, figlio del gran delfino Luigi e nipote di Luigi XIV, il quale, nel 1700, salì sul trono di Spagna col nome di Filippo V (1700-46). La dinastia spagnola è attualmente rappresentata da Giovanni Carlo (Juan Carlos) I, salito al trono nel 1975.

Dai B. di Spagna, nel sec. 18°, si staccarono altre due case reali: quella dei B. di Napoli e quella dei B. di Parma e Lucca.

Della prima è capostipite Carlo, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, che, dopo essere stato duca di Parma e Piacenza (1731-35), nel 1735 salì sul trono di Napoli, da lui lasciato – al momento di salire su quello di Spagna (1759) – al figlio terzogenito Ferdinando IV (1759-1816), poi Ferdinando I re delle Due Sicilie (1816-25); l’ultimo dei suoi successori fu Francesco II, che perse il trono nel 1860.

Con Filippo, duca di Parma, Piacenza e Guastalla (1748-65), ha inizio la casa dei B. di Parma e Lucca. I B. di Parma si trasferirono poi in Toscana con il re di Etruria Ludovico I (1801-03), cui successe il figlio Ludovico II, che, spodestato nel 1807, ottenne nel 1824 il ducato di Lucca per poi tornare nel 1847 a Parma e Piacenza col nome di Carlo II; l’ultimo duca fu Roberto, spodestato nel 1859.

I Borboni di Napoli.

Primo della serie potrebbe considerarsi Filippo V, in quanto re della Spagna, signora del regno di Napoli. Ma, contesagli da Carlo VI d'Austria la successione in quella monarchia, tra le vicende della guerra che ne derivò, perdette il regno di Napoli, toltogli dagli Austriaci nel 1707 e dalle potenze riconosciuto dominio di Carlo d'Austria nei successivi trattati di pace. Vedovo d'una Savoia, Filippo V si riammogliò con Elisabetta Farnese, che nel 1716 gli generò Carlo e due anni dopo ottenne per il suo bambino il riconoscimento internazionale del suo diritto a succedere agli avi materni nei ducati di Parma e di Piacenza e nel granducato di Toscana. Quando nel 1731 venne a morte Antonio Farnese, il giovane Carlo fu messo in possesso di quei ducati. Ma, prima dell'estinzione della casa de' Medici, sopraggiunse la guerra per la successione polacca, e la regina di Spagna mandò un esercito alla riconquista del regno di Napoli. Comandante nominale di quell'esercito era il duca di Parma, comandante effettivo il conte di Montemar; questi con la vittoria di Bitonto (25 maggio 1734) assicurò la riconquista. Interamente dominato come era dalla consorte, il re di Spagna fece del regno ricuperato cessione al duca di Parma suo figlio. Ma Carlo VI imperatore non s'indusse a riconoscere il dominio di Carlo nel regno se non contro la rinunzia ai ducati farnesiani e al granducato mediceo. Malgrado le contestazioni, i beni allodiali dei Farnesi e dei Medici vennero in possesso del nuovo re delle Due Sicilie.

Il pontefice Clemente XII nella bolla d'investitura, che gli inviò nel 1738, lo chiamò Carlo VII, in grazia di sei sovrani omonimi che Napoli aveva avuto in passato. Ma, in verità, Carlo Borbone nel regno delle Due Sicilie fino al 1759 preferì non darsi alcun numero. In quello stesso anno 1738 gli giunse sposa di appena quattordici anni Amalia di Sassonia. Dopo parecchie femmine nacque Filippo; poi Carlo, poi Ferdinando, poi altri ancora. Re e padre, Carlo si mantenne sempre ossequente ai genitori; sicché il regno fu ancora mezzo dipendente dalla Spagna finché visse Filippo V e finché Ferdinando VI, suo successore, non tolse ogni potere alla matrigna (1746).

Solo dopo d'allora Carlo si può considerare re d'un regno davvero indipendente. Ma quando senza prole morì Ferdinando VI (15 agosto 1759) e re delle Due Sicilie divenne Carlo III di Spagna, al collo di Napoli fu rimessa la catena spagnola. Escluso dalla successione il primogenito Filippo, perché idiota; essendo principe delle Asturie, cioè erede di Spagna il secondogenito; a Carlo sul regno di Napoli successe Ferdinando, di soli otto anni, sotto la guida di otto reggenti, fra cui il marchese Tanucci, primo ministro, ossia ministro degli Esteri. Ma espressa volontà del re, partito per sempre da Napoli l'8 ottobre 1759, fu che la reggenza, governando in nome del suo figliuolo, si tenesse obbediente agli ordini di Spagna.

Ferdinando IV, maggiorenne a sedici anni (12 giugno 1767), a diciassette sposò Maria Carolina, sedicenne, e continuò a lasciarsi guidare dal genitore lontano. Ma all'altera figlia di Maria Teresa quella tutela finì per riuscire insopportabile; ed ella se ne liberò: non solo il Tanucci fu allontanato (1777), ma, quel che è più importante, quasi tutti i poteri furono concentrati nelle mani dell'Acton (1779-80). Da ciò trae origine il lungo dissidio tra i due re, padre e figlio, e il conseguente abbandono delle sorti del regno al volere della regina e del suo favorito.

Nondimeno l'acquisto di un re proprio nel 1734, l'indipendenza ambita e raggiunta, quando era in pieno sviluppo la nuova cultura nata nella metà del secolo precedente e si veniva formando quella che Eleonora Pimentel chiamò "una nuova nazione", segnarono veramente nel mezzogiorno d'Italia un'era nuova. Questa è rappresentata dal regno di Carlo e anche più dal primo periodo del lunghissimo regno di Ferdinando. E la caratterizza l'armonia e la collaborazione della classe intellettuale col governo del re, che si esplicò in un vasto complesso di utili riforme riguardo al clero, alla feudalità, all'economia, alla finanza, alla milizia; onde fu specialmente celebrata l'"età di Ferdinando". Ma anche nel Napoletano non tardò a ripercuotersi la Rivoluzione francese, suscitando nuove aspirazioni negl'intellettuali, mutando i riformisti in giacobini, bramosi di libertà politica, e in cospiratori. La scoperta delle congiure aprì la serie dei processi di maestà o di stato; e l'armonia fra il trono e la classe intellettuale si ruppe per sempre. Gl'intellettuali, nobili, borghesi, ecclesiastici, favorirono nel 1799 l'invasione francese, davanti alla quale la famiglia reale si rifugiò in Sicilia. Le plebi di campagna e di città insorsero a difesa della monarchia; i "lazzaroni" di Napoli avevano contrastato da eroi ai Francesi la conquista della capitale; le "masse" sanfediste vi ricondussero i sovrani fuggitine. E gli uni e le altre applaudirono alla reazione feroce del governo, che mandò alla morte, all'ergastolo, all'esilio tutto il fiore intellettuale e morale del paese.

Da allora la dinastia sentì, riconobbe e dimostrò d'avere contro di sé l'intelligenza, la dottrina e l'altezza d'animo; e come ad unico sostegno si appoggiò alla plebe: alla plebe di nascita e a quanti altri elementi ebbero della plebe l'ignoranza e gl'istinti. Tra i quali elementi, del resto, primeggiava lo stesso re, educato da un aio, che riteneva sconveniente a un gentiluomo e al sovrano dei gentiluomini ogni altro esercizio che non fosse di corpo: equitazione, guida di cocchi, caccia, festini: il "re lazzarone", come meritò d'essere chiamato col suo linguaggio schiettamente e sguaiatamente dialettale, coi suoi modi e gusti plebei, che non mancò di trasmettere in retaggio ai successori.

Quando, pochi anni dopo il 1799, all'Acton, sazio di fortune, vecchio, marito e padre, mancò il prestigio sull'animo della regina, nelle sole mani di lei rimase il timone dello stato e soprattutto della politica estera. Di qui derivò la seconda invasione francese e la nuova fuga dei reali nell'isola (1806). Ma qui tramontò anche l'astro di Maria Carolina. Espulsa dalla Sicilia dagl'Inglesi, morì improvvisamente nel castello di Hertzendorf la sera del 7 settembre 1814. Due mesi dopo, Ferdinando IV creò principessa di Partanna Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, e la tolse in moglie, vecchio di sessantaquattro anni.

Re costituzionale nell'isola, mal suo grado, per volontà dell'Inghilterra, tale si offrì Ferdinando anche ai Napoletani, per guadagnarli alla sua causa. Ma quando, dopo la caduta del Murat (giugno 1818), fece ritorno a Napoli e si chiamò Ferdinando I, non concesse la costituzione promessa. Costretto a darla dal moto carbonaro del luglio 1820, nominò suo vicario il primogenito Francesco, duca di Calabria, giurò solennemente nella reggia la costituzione (13 luglio), tornò a giurarla più solennemente in chiesa (1° ottobre), e dopo due mesi e mezzo partì alla volta di Lubiana (14 dicembre), per ritornarne con un esercito austriaco, distruggere il regime giurato (marzo 1821), aprire un nuovo martirologio contro quanti lo avevano procurato, coadiuvato o consentito, e chiudere tra quelle condanne la lunga vita, la notte del 3 gennaio 1825.

A Ferdinando I successe Francesco I a quarantasette anni di età, ma già rammollito di mente. In lui venne a mancare il tipo fisico della famiglia. Dalla prima consorte, Clementina d'Austria, aveva avuto una figliuola, che fu duchessa di Berry. Numerosa prole gli diede Isabella, figlia di Carlo IV di Spagna, sua seconda consorte. Le figliuole andarono spose a Ferdinando VII, al granduca di Toscana, a don Sebastiano di Spagna, al conte di Montemolín. E soltanto un così largo parentado poté dare una qualche importanza a questo terzo re Borbone, il quale rimase sul trono non più di sei anni.

Francesco I morì l'8 novembre 1830, lasciando sul trono Ferdinando II, ventenne (era nato il 12 gennaio 1810), e, accanto a lui, altri cinque figli: don Carlo, principe di Capua; don Leopoldo, conte di Siracusa; don Antonio, conte di Lecce; don Luigi, conte d'Aquila (v.), don Francesco di Paola, conte di Trapani, che allora aveva solamente tre anni.

L'alba del nuovo regno parve arridere agli elementi migliori della popolazione. Il giovane re mostrò di volersi riattaccare alla tradizione amministrativa e militare dei Napoleonidi, più che a quella del padre e dell'avo. E i primi suoi atti gli progurarono il soprannome di "novello Tito".

Nel secondo compleanno del suo avvento al trono partì alla volta di Genova, e in Voltri (il 20 novembre 1832) s'unì in matrimonio con Maria Cristina, figlia di Vittorio Emanuele I, che, ammalatasi nel dare alla luce Francesco d'Assisi (16 gennaio 1836), spirò dopo due settimane (31 gennaio). Il re ne liquidò l'eredità, nulla volendo possedere in Piemonte, e alienando anche il palazzo Salviati, che la defunta possedeva in Roma. Dopo men d'un anno di vedovanza il re celebrò in Trento le sue nuove nozze con Maria Teresa, figlia dell'arciduca Carlo d'Austria (9 gennaio 1837). Onesto nei costumi privati, come re desiderò il benessere dei suoi sudditi e ne promosse le industrie e i commerci. Oltre ad avere richiamato gli esuli, scemò le imposte, fu geloso della sua indipendenza tanto di fronte all'Austria quanto di fronte all'Inghilterra. Ma la ripresa dei moti liberali, incalzanti a brevi intervalli ora in uno, ora in un altro punto del regno, risvegliarono in lui l'odio di famiglia per ogni libertà politica. Dovette cedere alla rivoluzione del 1848, e primo fra i principi d'Italia accordò una costituzione (29 gennaio). Ma l'acuirsi dell'agitazione provocò l'eccidio del 15 maggio, e sospinse il re verso quella politica di reazione antinazionale, che virtualmente segnò già sotto di lui la fine della sua dinastia e del regno delle Due Sicilie. Una crescente avarizia si accoppiò anche a questo spirito reazionario. Ma su tale via non tutti i fratelli lo seguirono. L'esempio loro era di una famiglia tutt'altro che concorde. Il principe di Capua viveva lontano, in una specie di esilio, di cui non si seppe mai la cagione. Il conte d'Aquila, ammiraglio, che non navigò se non nel 1844 per prendersi la sposa, sorella di don Pedro II del Brasile, con qualche tendenza per la pittura, era un reazionario anche più intransigente e feroce del re; e non ritenne mai sufficienti le più rigorose misure contro i liberali. Per l'opposto, liberaleggiava frondisticamente il conte di Siracusa. Simpatico, artista, scultore di non scarso valore e protettore di artisti, fastoso, napoletanamente buontempone, scettico e superstizioso, impressionabile e donnaiolo, contrasse un matrimonio infelice con Maria Vittoria Filiberta, sorella di Eugenio di Savoia-Carignano, che, ascetica, ritrosa, retriva, diffidente, nemica del fasto, non lo amò e non ne fu amata. Il conte di Siracusa fu il solo della famiglia reale, nel quale confidassero i liberali; ed egli li accoglieva nel suo splendido palazzo alla Riviera di Chiaia (ora palazzo Sirignano, abbattuto da uno dei lati). Amico loro, strettosi in intimità col giovane conte di Gropello, rappresentante diplomatico del Piemonte in Napoli, manifestava egualmente così la sua simpatia per il Piemonte come la sua antipatia per gli uomini che godevano la fiducia di Ferdinando II. Come altri liberali e intellettuali del tempo, egli sognava una stretta alleanza fra i due regni italiani, che sopprimesse gli staterelli frapposti e scacciasse gli stranieri dall'Italia. Mezzo al conseguimento di questo ideale egli vagheggiò il matrimonio di Francesco, duca di Calabria, con la principessa Clotilde di Savoia, di sei anni più giovane. E per indurre il re a tal partito rimase famosa una magnifica rappresentazione drammatica ch'egli dette nel teatrino del suo palazzo la sera del 15 marzo 1858. Ma ben diversi erano i propositi di Ferdinando II; capì l'antifona e lasciò la festa malsoddisfatto. Il più insulso e insignificante fra i fratelli del re era il conte di Trapani, che nel 1850 sposò Maria Isabella di Toscana. Ma fu anche il più sinceramente affettuoso così col re suo fratello come poi col re suo nipote.

Quanto alla famiglia propria del sovrano, dopo la morte di Maria Cristina, essa fu l'immagine d'una famiglia puramente borghese. Maria Teresa, che gli generò non meno di nove figli, adottò facilmente e presto gli usi e i gusti del consorte: non parlò che il dialetto napoletano, s'intende a modo suo; si adattò volentieri alla parsimonia della mensa, e come il marito preferì i maccheroni e i cibi più grossolani. Né punto si diede pensiero di dare ai figlioli un'istruzione e un'educazione convenienti a principi reali, lasciandoli sbizzarrire in monellerie volgari, che lo stesso re talora ebbe a rampognare come scherzi e' lazzaro. Maggiori erano, oltre quattro femmine, Gaetano, conte di Girgenti, Luigi, conte di Trani, e Alfonso, conte di Caserta. Pasquale, conte di Bari, nacque nel 1852; Gennaro, conte di Caltagirone, solo nel 1857. Questa famiglia il re usava condurre in phaeton, da lui stesso guidato, fino alla magnifica villa Caposele, tra Formia e Gaeta, ch'egli acquistò per pubblico incanto nel 1852 e ampliò e abbellì e fece meta delle sue passeggiate. Il suo patrimonio privato, costituito da rendite napoletane, siciliane e straniere, da oggetti preziosi del valore di circa 60 mila ducati e da più di 40 mila ducati di doppie d'oro, superava i 60 milioni e mezzo di questa moneta. A ciascuno dei quattro fratelli lasciò in dono nel testamento 20 mila ducati; alla moglie e al principe ereditario 566.256 ducati per uno; a Luigi, conte di Trani, 756.521 e poco meno agli altri figli in ragione dell'età; a ciascuna delle figliuole 377.504 ducati. Ma Francesco primogenito, oltre la villa Caposele avuta in legato speciale, quando giunse a maggiorità, ricevette anche in dono un borderò di 4 milioni, confiscato dal governo dittatoriale nel settembre 1860.

Per procura in Monaco, l'8 gennaio 1859, di persona in Bari, il 3 febbraio, Francesco sposò Maria Sofia, nata il 4 ottobre 1841 da Massimiliano, cugino del re di Baviera, sorella dell'imperatrice d'Austria, che recò non più di 25 mila ducati di dote (50 mila fiorini bavaresi) ed ebbe dal suocero costituita una controdote di 36 mila ducati. Ma Ferdinando II allora giaceva mortalmente infermo a Bari; e la lunga permanenza colà degli arciduchi austriaci destò nei liberali di Napoli e nel conte di Siracusa il sospetto e il timore ch'essi non tramassero un'alleanza fra Napoli e l'Austria contro la lega franco-piemontese. Onde il conte di Siracusa, che s'era impegnato a disporre a sentimenti liberali il nipote, prossimo futuro re, accorse a Bari, l'11 febbraio, e ne ripartì dopo sette giorni. Trasportato a Caserta, quivi Ferdinando II, fra sofferenze atroci, chiuse la vita a 49 anni e 4 mesi la domenica 22 maggio 1859, due giorni dopo la battaglia di Montebello.

Gli successe Francesco II, assolutamente impreparato al grave compito, incapace di comprendere il torrente ch'era per travolgerlo. La matrigna fu dalla fama accusata d'aver promosso una congiura pugliese intesa a sostituirgli sul trono il fratellastro Luigi, conte di Trani, che, taciturno, impenetrabile, senza la bonarietà di Francesco, senza la festosità di Alfonso e di Gaetano, era il figlio più somigliante alla regina austriaca. Lo zio, conte di Siracusa, in una lettera famosa esortò il giovane re ad entrare nella via liberale (aprile 1860). Al gran consiglio di stato del 30 maggio 1860 intervennero i conti d'Aquila e di Trapani, zii del re, e il conte di Trani. Messa ai voti la proposta Filangieri di un'alleanza con la Francia, gli ultimi due si astennero, l'approvò il conte d'Aquila, che, fin'allora reazionario intransigente, d'un tratto si atteggiò a liberale e col fratello conte di Trapani, malgrado l'ira di Maria Teresa che tentò di farlo arrestare, fece firmare dal re, il 25 giugno, l'atto concedente la costituzione. Disgustata, la regina madre coi figli si ritirò a Gaeta, divenuta da allora covo della reazione. Nella reggia tutti furono atterriti dall'amnistia dei condannati politici, meno la giovane regina Maria Sofia, che si mantenne serena, e il conte con la contessa di Trapani, che rimasero attaccati al re. Il patriziato legittimista, messo da parte, ostentò indifferenza o si sfogò in sarcasmi. E, fin d'allora, non pochi di esso, un po' alla volta o raggiunsero Maria Teresa a Gaeta o emigrarono a Roma e a Parigi. Lo stesso conte d'Aquila, mutato nuovamente contegno, si agitò in modo nella sua irrequietezza da far credere che cospirasse per soppiantare il nipote. Qualche indizio non mancò. Fu esiliato (14 agosto) e protestando s'imbarcò per Marsiglia. Molto più tardi ritornò in Italia, chiese danaro al governo italiano e al re Umberto; non l'ebbe e finì oscuramente.

Ma, fattasi largo nella parte più eletta del liberalismo l'idea unitaria, uno statuto per Napoli non rispondeva più al bisogno dell'età nuova. "Era destino (ripeteva tra i liberali il conte di Siracusa) che la dinastia di Carlo III dovesse finire con un imbecille". Il 24 agosto il conte scrisse una lettera al re, consigliandolo a seguire l'esempio della duchessa di Parma: sciogliere dall'obbedienza i sudditi perché disponessero liberamente della propria sorte. Non esaudito, dopo sette giorni s'imbarcò sopra una nave piemontese per Genova e Torino; e nel marzo del 1861 fu ucciso a Pisa da un colpo d'apoplessia, a quarantotto anni di età.

Avanzando invincibile Garibaldi in nome di Vittorio Emanuele e passato in Calabria, tra la costernazione e confusione generale della reggia di Napoli, mentre i conti di Trapani e di Trani si dimettevano dai loro gradi militari, Maria Sofia insistette perché il re si ponesse a capo dell'esercito e si offrì di seguirlo. Il re dicendosi deciso a far ciò, per i mezzi finanziarî occorrenti, nella notte sopra il 3 settembre, chiese un'anticipazione al direttore delle finanze; e, negatagli, suggerì che si sopperisse coi depositi del banco. Fattogli notare che quei depositi erano cosa sacra, egli non replicò. La partenza fu decisa, non per il campo contro Garibaldi, ma per la piazza di Gaeta, ed ebbe luogo il 6 settembre con un enorme seguito di bagagli trasportati per terra e per mare. Con quella partenza ebbe termine il regno dei Borboni nelle Due Sicilie, durato centoventisei anni. Quella parte del loro esercito che non si unì alla rivoluzione e che non si sbandò, salvò al Volturno e nella difesa di Gaeta il proprio onore e l'onore del paese. L'onore della dinastia che Elisabetta Farnese aveva dato a Napoli non ebbe tavola di salvezza che in un'altra donna: nel contegno di Maria Sofia durante l'assedio di Gaeta. Di qua Francesco II, il 2 dicembre 1860, diresse ai suoi passati sudditi quel proclama, tra mistico e polemico, che, promettendo prossimi tempi migliori, aizzando le peggiori passioni contro gli stranieri e i venturieri del Piemonte, poté giustificare ogni iniquità, reazionaria prima, brigantesca poi.

Passato a Roma (14 febbraio 1861) dopo la capitolazione di Gaeta, vi si atteggiò non a re spodestato o a pretendente, ma a vero sovrano; con un intero ministero, con tutto un corpo diplomatico, con la corte. Invece degli aiuti sperati, l'imperatore francese consigliò l'ex-re a partire da Roma, donde non si cessava d'indirizzare proteste alle potenze contro gli "oppressori"; dove, non ignaro Francesco, i suoi zii e fratelli organizzavano spedizioni armate, che, se per qualche tempo ebbero carattere politico di reazione, finirono per essere brigantaggio della peggiore specie.

Il conte di Trani, che nel giugno 1861 s'ammogliò con Matilde, sorella di Maria Sofia, e la condusse a Roma, si dichiarava pronto a partire per la frontiera. E così gli altri principi. Ma, in verità, nessuno era disposto a rischiar la pelle, trovando comoda quella vita romana di corte, di saloni, di teatri e di chiesa.

In quello stesso anno 1861 partirono da Roma due sorelle dell'ex-re: prima, Maria Immacolata, andata sposa a Carlo Salvatore di Toscana; poi, Maria Annunziata, sposa all'arciduca Carlo Ludovico, fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe. Nel maggio dell'anno seguente ne partì per la sua Baviera anche Maria Sofia, disgustata di Roma e sempre più in disaccordo con Maria Teresa. Decisa a non più ritornarvi, per consiglio della sorella Elisabetta imperatrice e per le insistenze del marito vi ritornò nell'aprile del '63, quando già le corti borboniche dal Quirinale, prima tutto intero occupato da loro, s'erano trasferite al palazzo Farnese; e l'ex-regina vecchia coi conti minori di Caserta, di Girgenti e di Bari, s'era appartata altrove, in un palazzetto di piazza Venezia, dopo un breve viaggio in Austria.

Ma allora erano anche cominciate a svanire le speranze della restaurazione con le conseguenti congiure, che di Roma avevan fatto una nuova Coblenza. Francesco II venne sempre più disponendosi alla rassegnazione e accentuando il suo bigottismo, a mano a mano che le potenze, dietr0 l'Inghilterra, riconobbero il regno d'Italia: ultime l'Austria e la Spagna. Tra la fine del '65 e la fine del '66 Roma fu sgombrata dai Francesi; ma seguì Mentana, e qui il conte di Caserta meritò il grado di colonnello dell'esercito papale.

Nuovamente Maria Sofia con la sorella Matilde si era recata in Baviera. Infierendo in Roma il colera, tutti gli altri Borboni si erano ritirati in Albano. Qui, il 5 luglio, il morbo si attaccò al conte dì Caltagirone. Maria Teresa, curandolo amorosamente, ne fu colpita violentemente e uccisa. Il figlio, guarito dal colera, si ammalò di tifo e morì anche lui. A quelle morti, cessato il lutto, seguirono nel nuovo anno 1868 le nozze del conte di Caserta con la cugina Maria Antonietta; nel 1869 quelle della sorella Maria Pia delle Grazie con Roberto, duca di Parma, che con la sposa e con la cognata Immacolata andò poi a stabilirsi a Bohen; la venuta, in viaggio nuziale, di Gaetano conte di Girgenti, sposatosi con Maria Isabella, figlia d'Isabella II di Spagna, e quella dell'imperatrice Elisabetta d'Austria e, infine, l'evento più importante, il parto di Maria Sofia, dopo dieci anni di sterilità, nella notte di Natale. La nascita di Cristina Maria Pia valse a rompere con una gioia inattesa la cupa esistenza dell'ultimo re di Napoli. Ma fu gioia di breve durata. La bronchite distrusse quella piccola vita (28 marzo 1870), e i genitori ne rimasero desolati per sempre. Francesco II ne incanutì precocenente ed ebbe noia di tutto. Partito da Roma con la consorte per l'Austria e la Baviera, si ritirò nel modesto castello di Staremberg, donatogli dalla zia Marianna d'Austria. Quivi, nel 1871, andò a visitarlo una dama da lui platonicamente amata a Roma. E quando ella, entrando, volle esclamare: "Dove s'è ridotto il re di Napoli!" egli le chiuse la bocca, ammonendola: "Taci, non darmi il titolo che Iddio mi ha tolto". Così, rassegnato, visse fino al termine del 1894.

A palazzo Farnese era rimasto il conte di Caserta col fratello conte di Bari. Il 20 settembre 1870 vi sventolava la bandiera prussiana con ordine che non fosse aperto a nessuno. Ma il 23 i due principi dovettero partirne per Civitavecchia, scortati da un picchetto di soldati italiani. Dell'abbondante prole di Ferdinando II non sopravvissero che il conte di Caserta coi suoi numerosi figli e l'unica figliola del conte di Trani, con la quale egli divise in parti eguali le rendite di Caprarola e del palazzo Farnese, dato in fitto all'ambasciata di Francia. In Napoli, nella chiesa dei Bianchi allo Spirito Santo, nel gennaio 1895, si celebrarono solenni funerali per Francesco II. V'intervenne tutto il patriziato mantenutosi borbonico: cavalieri di S. Gennaro, balì di Malta, principi, duchi, marchesi, conti; il fior fiore di quello che si chiamò "partito borbonico" o "legittimista", di cui erano state primo nucleo le famiglie che avevano preceduto, accompagnato o raggiunto nell'esilio la dinastia caduta e poi, un po' alla volta, fatto ritorno in patria. Ad essi si aggregarono altri nobili, ex-militari, ex-impiegati, preti, servitori, altra gente di plebe, faccendieri e spostati: quali per cavalleresca fedeltà, quali, per ingenua illusione, quali a procaccio di compensi inconseguibili per altra via, quali infine, per sincerità di passione. Fin quasi al termine del secolo questo "partito" visse e tenne a far sapere che c'era. Nel conte di Caserta riconobbe "Sua Maestà Alfonso I"; ebbe corrispondenza con lui e con Maria Sofia; costituì società, tra cui anche un' "associazione operaia monarchica". Stampò anche giornali pieni d'ingiurie, di lamenti, di esaltazioni, di promesse vuote. Ma, scomparsi via via i più vecchi, i figli, i giovani, presero a noia quel vivere fuori della nuova vita e un po' alla volta si sono adattati al fatto compiuto.

Bibl.: B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925.