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La vita e le opere giovanili
Scrittore italiano (Firenze o piuttosto Certaldo o, secondo alcuni, Parigi, 1313-Certaldo 1375). È uno dei più grandi novellieri del mondo e ha una sua importante posizione nella storia dell'Umanesimo. Come una delle "tre Corone" (Dante, Petrarca, Boccaccio), appartiene all'età di trapasso fra il Medioevo e il Rinascimento; come uomo di cultura partecipa a un mondo di rinnovamento nel ritorno all'antichità e alle lettere greche e latine e, come novelliere e poeta, riecheggia motivi letterari del tardo Medioevo romanzo, in particolare francese. La critica prima lo reputò più "moderno" di Petrarca, poi lo valutò nella sua complessa natura passionale e sentimentale intimamente connessa con la civiltà comunale al "tramonto" del Medioevo.
Figlio naturale del mercante certaldese Boccaccio di Chellino (detto anche Boccaccino), dal padre, trasferitosi a Firenze, fu indirizzato agli studi commerciali e giuridici, ma con scarso frutto. Dapprima istruito da Giovanni da Strada (padre del suo amico Zanobi da Strada), venne inviato a Napoli, presso i Bardi, fiorenti per banche e mercanzie, coi quali il padre era in relazione di affari; in seguito venne introdotto alla corte del re Roberto d'Angiò. Giovanni, per sei anni in faccende di mercatura e per altri sei in studi canonici, non fece alcun profitto ma imparò a comprendere i classici antichi e a vivere nella splendida società del regno. Fu così familiare di valenti personaggi quali il genovese Andalò da Negro (dotto in astronomia) e Paolo da Perugia, bibliotecario (che lo istruì nella mitologia), mentre Dionigi da Borgo Sansepolcro e il notaio regio Barbato da Sulmona, ammiratori e amici di Petrarca, influenzarono la sua vita indirizzando verso l'Umanesimo i suoi studi, già condotti nella conoscenza del greco col monaco calabrese Barlaam (e poi approfonditi, dopo il ritorno a Firenze, sotto la guida dell'altro calabrese Leonzio Pilato, lettore in quello Studio e primo traduttore di Omero in latino). Forse a Napoli Boccaccio conobbe anche Cino da Pistoia in occasione di un viaggio del famoso giurista e poeta. L'amore della poesia interruppe decisamente gli studi legali.
La leggenda, che molte tracce ha lasciato nella biografia del poeta, si è valsa di raffigurazioni autobiografiche riguardo all'amore per una gentildonna napoletana, celebrata col nome letterario di Fiammetta. A 23 anni, nell'ottavo anno di soggiorno a Napoli, il poeta incontrò nella mattina del sabato santo 1336, nella chiesa di S. Lorenzo, la giovane che la tradizione disse (tuttavia senza alcuna prova) Maria dei conti d'Aquino, figlia naturale del re Roberto e sposa di un gentiluomo di corte. Essa avrebbe spronato Boccaccio all'amore per la poesia, ispirandolo per opere famose: il Filostrato, poema d'argomento classico in 9 canti, composto fra il 1337 e il 1339 e ambientato al tempo della guerra di Troia, vivace per episodi e analisi psicologica dei personaggi; il Filocolo, romanzo in prosa steso nel predetto periodo, ma finito a Firenze fra il 1341 e il 1345, rielaborazione, in alcune parti suggestiva per descrizioni della natura e analisi di caratteri, della storia leggendaria di Florio e Biancofiore; il Teseida (comunemente Teseide), poema in 12 libri, appartenente allo stesso periodo napoletano e impostato su vicende leggendarie delle Amazzoni, con episodi romanzeschi e quadri storici.
Ancora all'ispirazione di Maria d'Aquino sono dovuti: il Ninfale d'Ameto, detto anche Commedia delle ninfe fiorentine, favola idillico-allegorica in prosa intercalata da brani in terza rima sulle pene e le dolcezze d'amore nello sfondo della bella natura (l'opera fu compiuta verso il 1342); l'Amorosa visione, poema allegorico in 50 brevi canti in terzine (scritto nel 1342), con immaginazioni e dissertazioni simboliche sull'amore.
Documento del legame fra Boccaccio e Maria d'Aquino (idillicamente condotto dal 1336 al 1339) fu l'Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44, il primo romanzo psicologico moderno), dove l'autore, trascurato e infine abbandonato, finge che l'eroina stessa sia così maltrattata dall'infido Panfilo. Invece dai sospetti per la volubilità della sua amata (rispecchiati in un sonetto contro gli ozi di Baia) il giovane poeta passò alla più amara delusione.
Nel frattempo Boccaccino ebbe dissesti nel suo commercio per il fallimento della banca dei Bardi e nel dicembre 1340 fece tornare il figlio a Firenze. Qui Boccaccio continuò a studiare i classici e a scrivere opere in volgare: da menzionare, per la loro importanza (oltre il Ninfale d'Ameto e l'Elegia di Madonna Fiammetta), l'Amorosa visione e il Ninfale fiesolano. Si sente, nelle descrizioni della natura e nell'esame psicologico dell'amore e di altre passioni, che l'autore ha fatto tesoro dei classici e che rende con vivacità l'ambiente sociale a lui contemporaneo, sia toscano sia napoletano.
Apprezzato dai Fiorentini, fu mandato in ambasceria a Ravenna nel 1346 e 1347: le sue qualità di letterato sono riconosciute come degne di lode nella tradizione cancelleresca e diplomatica ai primordi dell'Umanesimo. Assente da Firenze durante la peste nera del 1348, per vari anni fu onorato e stimato dalla Repubblica ed ebbe incarichi onorevoli: nel 1350 fu inviato ambasciatore in Romagna con l'incombenza di dare dieci fiorini d'oro a Bice, figlia di Dante, monaca in Ravenna; nello stesso anno salutò fuori Firenze il suo ammirato Petrarca di passaggio da Parma a Roma per il giubileo e poi fu mandato a Padova, nuova dimora del poeta, per restituirgli i beni del padre, confiscati dopo il suo esilio, e per invitare l'insigne letterato a tenere lezione nello studio (ma il Petrarca non accettò di trasferirsi). Entrato nell'ufficio dei Camerlenghi del Comune, andò in ambasceria a Napoli e quindi nel Tirolo (da Ludovico di Baviera).
Il Decameron
Iniziato nel 1349, il Decameron venne da lui compiuto con assiduo lavoro nel 1351. L'opera, in prosa (con intercalati alcuni componimenti in versi), è preceduta da una famosa introduzione, che presenta una brigata di fiorentini, tre giovani e sette giovanette, i quali fuggono la peste (1348) e in villa trascorrono il tempo narrando novelle per dieci giornate. L'opera è detta anche Centonovelle ed è tutta varia per argomenti, per lo più amorosi, e celebre per le sue descrizioni realistiche e psicologiche che ne hanno fatto uno dei libri più citati nei secoli.
Di un fatto, presto diventato leggendario, è giusto ora dire: quello della visita fatta a Boccaccio, nella primavera del 1362, dal monaco Gioacchino Ciani, a lui mandato dal santo certosino senese Pietro Petroni, con l'invito a tralasciare le opere mondane e a scrivere opere ascetiche e religiose. Si è affermato che lo scrittore rimase sconvolto per i danni che il Decameron (detto comunemente "prencipe Galeotto") avrebbe recato alle coscienze e che, aborrendo dallo stendere nuove opere mondane, si diede a studi eruditi e meditativi. In realtà, una vena di religiosità semplice, e forse anche popolaresca per sincerità e schiettezza, era sempre stata in Boccaccio: per di più egli aveva ricevuto gli ordini minori, dimostrando pietà e dedizione al suo ufficio sacro. Spinto da un'interiore forza a fuggire il mondo, scrisse a Petrarca per averne consiglio; e gli giunsero in risposta saggi e austeri argomenti. Giovanni li accolse e rimase fedele alla poesia; nello spirito dell'Umanesimo si diede a opere erudite.
Già in passato si era sentito stanco e disilluso; quando una vedova gli negò amore (1354), inviperito scrisse il Corbaccio per combattere l'intero sesso femminile. Ma il pensiero della morte era già in lui e non credeva più che bagordi e amori potessero dare gioia: del resto, i fervori della giovinezza e lo splendido sfondo della marina di Napoli erano dimenticati. Con rinnovato fervore scrisse opere latine di poesia e soprattutto di erudizione. In volgare stese però fino al canto XVII dell'Inferno il suo commento all'amato Dante Alighieri (per cui era stato incaricato dalla Repubblica di far pubbliche lezioni in Santo Stefano di Badia). Le opere di erudizione si andavano intrecciando con le incombenze assegnategli nella sua qualità di dotto; ma profondo era in lui il bisogno di solitudine e di meditazione.
Tornò a Napoli, invitato da Niccolò Acciaioli e da Francesco Nelli, già priore dei SS. Apostoli a Firenze, e colà "spenditore" del gran siniscalco (1362), ma rimase deluso dell'accoglienza riservatagli. Andò anche a Venezia a trovare l'ammirato Petrarca, sua guida intellettuale e morale. Per mandato dei Fiorentini si recò come ambasciatore presso Carlo IV imperatore e anche presso papa Urbano ad Avignone e poi a Roma. Un nuovo viaggio a Venezia, dove in assenza di Petrarca (1367) lo accolse la figlia Francesca, e un ritorno a Napoli (1370) sono estremi atti di pubblici uffici. Non resta che la solitudine tranquilla di Certaldo, intramezzata da qualche viaggio a Firenze. L'incarico di leggere la Divina Commedia ai Fiorentini e di spiegarla con un commento erudito, come si compete ai libri dei classici, è interrotto da incomprensioni e dissapori, dopo 60 lezioni svolte fervidamente e con grande cura.
La malattia (anche la scabbia noiosissima) e le tristezze incombenti in un animo semplice e buono spiegano la grande ultima dedizione alla cultura, con ricerche un po' affastellate, con un impegno da neofita. Ma c'è in lui un sentimento della vita che continua, come già nei poemi, nelle liriche e nelle novelle, per il desiderio di tutto conoscere del mondo degli uomini, dalla genesi delle passioni alla religione: Petrarca gli fu guida nel fondere l'esigenza morale del mondo pagano con gli aneliti del mondo cristiano.
Le opere di erudizione
Se le opere volgari, e in particolare le più rappresentative accanto al Decameron, il capolavoro, meritano di essere illustrate a parte per la loro importanza storica, gli scritti di erudizione vanno qui presentati nella loro complessità. Sono documento di umanesimo e offrono elemento di meditazione storica e letteraria. Un tenace studio degli antichi è attestato da un componimento poetico, Bucolicum carmen, dove si raffigurano, al modo delle Bucoliche virgiliane, eventi contemporanei. Recano traccia di un tentativo di sistemazione storica, date le innumerevoli fonti usate, il De casibus illustrium virorum in 9 libri, in cui le ombre dei grandi infelici, da Adamo al cacciato Duca d'Atene e a Petrarca, in sogno narrano a Boccaccio le proprie sventure, e il De claris mulieribus, dedicato ad Andreina, contessa d'Altavilla, sorella del gran siniscalco Acciaioli, con biografie di illustri dame, dall'antichità a Giovanna regina di Napoli. Quest'ultima opera appare come un complemento al De viris illustribus di Petrarca e ha pagine brillanti e sagaci che vanno collegate con quelle più tipiche delle opere in volgare per un fresco abbandono alla vita, alla grazia delle donne e perfino alla loro inimitabile malizia. In apparenza farraginosa per il modo di esporre, ma insigne per lo sforzo di fondere più tradizioni culturali e tendenze fra loro contrastanti, è la Genealogia deorum gentilium in 15 libri, ricchi di citazioni e dissertazioni in campo mitologico. Anche nel Commento alla "Commedia" si nota il tentativo di spiegare razionalmente il mito, scorgendo dantescamente nella poesia un "velame delli versi strani". Meramente erudito ma denso di riferimenti a tutta l'antichità è il De montibus... con un lungo titolo dove si citano selve, laghi e altri luoghi naturali in una fitta nomenclatura. Negli ultimi anni della sua vita solinga e meditativa, Boccaccio apparve simbolo di poesia e di cultura. Spentosi il 21 dicembre 1375, venne sepolto in Certaldo, nella chiesa dei SS. Michele e Iacopo, con un'epigrafe di Coluccio Salutati e un busto dove è raffigurato in veste d'umanista; e come tale anche Andrea del Castagno lo dipinse, a Firenze, in Sant'Apollonia. I suoi libri passarono a Fra' Martino da Signa, nel convento di S. Spirito, a Firenze.
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DBI
di Natalino Sapegno
Frutto di una libera relazione di Boccaccio, o Boccaccino, di
Chellino con una donna di cui nulla sappiamo, nacque, forse a
Certaldo, ma più probabilmente a Firenze, fra il giugno e il
luglio del 1313. La data si deduce, con relativa certezza, da un
accenno dello scrittore (Epist., XX) e da un luogo del Petrarca
(Sen., VIII, 1); più incerta, per le discordanti attestazioni
dell'autore stesso e dei suoi primi biografi, la determinazione del
luogo, anche se debba considerarsi quasi sicura la nascita toscana
(pur contraddetta ancora, a favore di Parigi, da qualche studioso
moderno).
Fino a non molti anni or sono la critica erudita si sforzava di
rimpolpare le scarse notizie documentate, attingendo alle sezioni
pseudo-autobiografiche dei romanzi giovanili dello scrittore. Si
venne così a costruire, per il contributo di critici come il
Crescini, l'Hauvette, il Torraca, un'arbitraria linea biografica che
aveva per momenti salienti la nascita dello scrittore a Parigi
(seppur contraddetta dallo stesso B. e dai suoi biografi più
antichi) e la sua relazione a Napoli con Fiammetta, identificata con
una Maria, figlia naturale di Roberto d'Angiò e maritata
nella casa dei conti d'Aquino, che è figura del tutto ignota
ai genealogisti di quella pur illustre casata. Sì che facile
è stato il compito dei nuovi eruditi (a cominciare dal
Billanovich) inteso a smontare il fragile castello delle congetture
e a sceverare le poche notizie certe.
Il padre, originario di Certaldo, s'era fin dagli ultimi anni del
Duecento trasferito a Firenze insieme con il fratello Vanni,
prendendo dimora dapprima nel popolo di S. Frediano e poi, intorno
al 1314 appunto, nel quartiere di S. Pier Maggiore: esercitavano la
mercatura con notevole fortuna, inserendosi nel quadro di un
traffico internazionale (la loro presenza a Parigi è
già attestata nella prima metà del 1313) e in un giro
d'affari di ampia portata finanziaria. Legittimato assai presto dal
padre, prima ad ogni modo che questi sposasse intorno al '19 una
Margherita de' Mardoli, il B. trascorse l'infanzia a Firenze nella
casa paterna e vi ricevette i primi rudimenti dell'istruzione dal
grammatico Giovanni Mazzuoli da Strada, padre del più noto
Zanobi. Ancora ragazzo, fu inviato a far pratica mercantile a
Napoli, forse nell'autunno del '27, allorché anche il padre
vi si trasferiva come socio e rappresentante della potente compagnia
dei Bardi con l'incarico di dirigere quella filiale diventata
importantissima in una fase di stretti rapporti politici ed
economici tra Firenze e la corte angioina. Dopo alcuni anni di un
esercizio, che più tardi doveva parergli tutto tempo perduto,
il B. abbandonava il discepolato commerciale e intraprendeva per
volontà del padre, altrettanto svogliatamente ed inutilmente,
lo studio del diritto canonico.
In un luogo famoso della Genealogia deorum (XV, 10) egli
denunzierà il dissidio, apertosi ben presto in lui, tra una
esclusiva vocazione letteraria e l'obbligo di adempiere a impegni
tediosi, non congeniali e non disinteressati ("natura me ad poeticas
meditationes dispositum ex utero matris eduxit et meo iudicio in hoc
natus sum... In poesim animus totis pendebat pedibus"); mentre
sarà da pensare che questo segreto culto della poesia potesse
conciliargli l'amicizia dei dotti favoriti dalla corte angioina
(quali l'astronomo Andalò di Negro, il bibliotecario Paolo di
Perugia, il teologo e letterato Dionigi di Borgo San Sepolcro,
nonché i giuristi Barbato da Sulmona e Giovanni Barrili,
già in contatto con la Curia avignonese e in corrispondenza
col Petrarca) e garantirgli la familiarità delle nobili
brigate non aliene dal gusto per la brillante letteratura.
Più tardi poteva vantarsi d'esser vissuto, lui borghese, "a
Napoli... intra nobili giovini", i quali non si vergognavano di
visitarlo e di frequentare la casa "splendida assai" dove egli
viveva "assai dilicatamente" (Epist., XII). La rappresentazione,
più o meno stilizzata, di questo mondo aristocratico, e della
corte stessa (dove è probabile l'introducesse l'amicizia
allora contratta con Nicola Acciaiuoli), riempie di sé i
romanzi giovanili, e affiorerà anche in certe sezioni del
Decameròn, mentre in altre parti del capolavoro si muove un
mondo vivace e pittoresco di esperti mercanti, cambiatori, corrieri,
quelli stessi che lo scrittore aveva dovuto assiduamente frequentare
nei primi anni del suo apprendistato. Poco più tardi, allo
Studio, sappiamo che egli seguì le lezioni di Cino da Pistoia
e ne prese nota, e i rapporti con l'illustre giurista-poeta, ultimo
superstite dello "stil novo", amico di Dante e del Petrarca,
dovettero forse confermarlo nel culto di una grande tradizione
letteraria e alimentare la nascente vocazione poetica. Sempre alla
corte napoletana è possibile che allora incontrasse Graziolo
de' Bambaglioli, commentatore della Commedia, nonché
l'erudito vescovo veneziano Paolo Minorita, della cui sapienza
mitologica è consacrato il ricordo nella Genealogia (XIV, 8).
Le grosse e numerose lacune che si aprono fra le scarse e un po'
eterogenee tessere di questo mosaico di notizie possono e debbono
essere integrate con gli elementi autobiografici che si ricavano da
una lettura cauta degli scritti di questo periodo napoletano: solo
in essi infatti - nella Caccia e nel Filostrato e nel Teseida, in
alcune rime e lettere - si può rintracciare l'eco, sia pure
stilizzata, di un appassionato tirocinio mondano e rendersi conto
della preminente importanza di questa prima fase della formazione
del Boccaccio. La quale, a parte le illazioni romanzesche, di cui si
compiacerà lo stesso B., appare realmente improntata a una
vivacissima esperienza sentimentale, articolata in una intensa trama
di rapporti che lo scrittore stabilisce con la società
elegante e cortigiana del suo tempo. Lungi dal risolversi in
rivivescenze di modelli libreschi, la produzione giovanile del B.
rivela, in maniera anche troppo immediata e invadente, una sostanza
di affetti che determina non soltanto la materia, ma l'indirizzo
della sua arte. Ed è questa stessa esperienza che variamente
condiziona le simpatie del letterato e le sue scelte culturali,
orientate in un orizzonte affatto diverso, per esempio, da quello in
cui si costringe il suo coetaneo Petrarca: una cultura che segue
dinamicamente le curiosità del poeta e rifiuta ogni
preclusione di ordine erudito; non classicheggiante, ma aperta alle
più varie suggestioni della tradizione romanza, dalla lirica
d'amore e da Dante fino alle traduzioni e ai rimaneggiamenti dei
racconti francesi e dei favolelli, fino ai cantari, alle ballate, ai
rispetti popolari, e avida, anche nell'ambito delle letterature
classiche, di cogliere le voci più appassionate e fantasiose
(dall'Ovidio delle Metamorfosi e delle Eroidi), più
drammatiche (da Seneca tragico) o più spregiudicate e
pittoresche (da Apuleio).
Da Napoli s'allontanava il B. per rientrare a Firenze nella casa del
padre (che frattanto si era trasferito nel rione di S. Felicita),
nell'inverno del 1341. Non sono ben chiare le ragioni di questo
ritorno in patria, ma certo dovettero concorrervi i mutati rapporti
politici, e la conseguente difficoltà ed incertezza anche
delle relazioni commerciali, tra Firenze e la corte angioina.
È probabile anche che Boccaccino, che intanto si era staccato
dai Bardi, attraversasse un periodo di strettezze, come appare da
taluni documenti, forse risentendo già della generale crisi
dell'ambiente commerciale e finanziario fiorentino, allora
incipiente ma destinata ad aggravarsi paurosamente in un breve giro
di anni. Le lettere all'Acciaiuoli, certi accenni dell'Ameto e della
Fiammetta mostrano quanto il B. soffrisse di questo distacco da un
mondo di care consuetudini e con quanta amarezza contrapponesse il
ricordo di quelle "delizie mondane" all'uggia della nuova dimora
"oscura e muta e molto trista". Scrivendo all'Acciaiuoli, lasciava
trasparire il vivissimo desiderio di tornare a Napoli mercé
l'aiuto dell'amico diventato assai potente in quella corte (e non
dimetterà mai del tutto, anche in seguito, questa speranza).
Tra il '45 e il '46 il B. dimorò a Ravenna, alla corte di
Ostasio da Polenta (come attesta un'epistola del Petrarca: Famil.,
XXIII, 39), e subito dopo, nel '47, si recò presso Francesco
Ordelaffi, a Forlì, donde inviava una lettera (Epist., VI) a
Zanobi da Strada e intrecciava una corrispondenza poetica in latino
con il grammatico Checco di Meletto Rossi: in quelle corti romagnole
raccoglieva notizie preziose e testimonianze di prima mano sugli
ultimi anni della vita di Dante e stringeva nuove amicizie
letterarie, tra cui quella, a cui rimarrà fino alla fine
fedele, di Donato degli Albanzani.
Nel '48 - l'anno della peste - era di nuovo a Firenze, ove si
stabiliva dopo la morte del padre per assolvere alla tutela del
fratellastro Iacopo e provvedere all'amministrazione del modesto
patrimonio familiare. Se nei primi anni l'allontanamento da Napoli
dové essere avvertito dal B. come una separazione dolorosa
dalla fase più incantata della sua giovinezza, certo è
che non costituì una frattura nello sviluppo della sua
personalità letteraria. Il mondo della spensierata e sognante
giovinezza sarà d'ora in avanti quello della nostalgia e
dell'invenzione fantastica, ma a sostenerlo, e anche a garantirlo
dal pericolo di un elegante quanto vacuo dilettantismo,
interverrà una più dura e virilmente accettata
esperienza, la trama dei nuovi impegni che a Firenze lo avvincono
con l'ambiente familiare e cittadino, in un quadro di gran lunga
più vasto di interessi e di affetti.
Le amicizie allora contratte con gli epigoni della lirica
dugentesca, Franceschino degli Albizzi e Sennuccio del Bene, e con
gli umanisti Mainardo Accursio e Bruno Casini, i contatti con i
rappresentanti della letteratura minore, dal Villani al Pucci e al
Sacchetti, dovevano rinsaldare i suoi legami con la tradizione
stilnovistica e dantesca, e confermare al tempo stesso la sua
apertura verso le audaci esplorazioni di un nuovo mondo
intellettuale, quello che aveva il suo centro nel Petrarca, di cui
alcuni di quei poeti e letterati erano amici e corrispondenti. La
situazione politica e sociale di Firenze, in un periodo di aspre
lotte interne ed esterne, proponeva alla sua mente nuovi problemi di
vita civile, di moralità, di costume.
Diversi avvenimenti attestano in quegli anni il nuovo rilievo
assunto dalla personalità del B. nell'ambiente fiorentino.
Egli era ormai in cordiali rapporti con gli uomini più
influenti del Comune, da Niccolò del Buono a Pino de' Rossi,
a Niccolò Frescobaldi; tra l'agosto e il settembre del '50
era inviato ambasciatore "ad partes Romandiole", non sappiamo con
quale incarico; e in quell'occasione assolverà anche il
compito di consegnare a nome della compagnia di Or' San Michele 10
fiorinid'oro a suor Beatrice, figlia di Dante, in Ravenna.
Nell'ottobre dello stesso anno realizzava finalmente il sogno
lungamente vagheggiato di conoscere di persona il Petrarca: si
costituiva allora il gruppo degli amici fiorentini dell'aretino, che
comprendeva, insieme con il B., Francesco Nelli, Zanobi da Strada,
Lapo da Castiglionchio, e avrà grande peso nella vicenda
locale del rinnovamento della cultura in senso umanistico; poco dopo
il Petrarca scriveva da Roma ringraziando tutti per le accoglienze
ricevute e indirizzava la sua epistola (Famil., XI, 1) "Iohanni
Boccaccii de Certaldo discipulo suo". Nel marzo del '51 il B. gli
restituiva la visita a Padova, latore di lettere ufficiali dei
Priori che offrivano al poeta una cattedra nello Studio fiorentino
da poco costituito: la proposta non ebbe esito, ma il B. poté
per alquanti giorni godere dell'ospitalità del Petrarca,
conversare con lui, entrare nei segreti di quell'operosa officina
letteraria, e prender copia avidamente delle composizioni più
recenti dell'amico in latino e in volgare. Il frutto di
quest'incontro e delle reciproche confidenze letterarie si avverte
abbastanza bene nelle opere composte o ideate dall'uno e dall'altro
negli anni immediatamente successivi. Tali incontri si ripeteranno
anche in seguito, a Milano nel marzo del '59, a Venezia nella
primavera del '63, a Padova nell'estate del '68; e negli intervalli
fra una visita e l'altra prende posto una fitta corrispondenza
epistolare, che è continuo scambio di acquisizioni
dottrinali, ma anche di riflessioni morali e di vivi affetti,
documento prezioso di un sodalizio, che è un fatto di grande
rilievo nella storia della nostra cultura. Nella imponente trama
delle relazioni intellettuali, che l'aretino veniva pazientemente
tessendo in quegli anni, il B. occupò senza dubbio un posto
di primo piano, anche se nella sua modestia egli amava considerarsi
rispetto all'amico non più che un umile discepolo ("inclitus
preceptor meus Franciscus Petrarca cui quantum valeo debeo", come
scriverà nel '72 a Niccolò Orsini). Da parte sua il
Petrarca lo sorresse in molte occasioni con i suoi consigli, lo
guidò a superare le crisi di un temperamento impulsivo e
altrettanto facile alle esaltazioni come agli abbattimenti, e
soprattutto gli fu di sprone e di esempio nel processo di
ripiegamento riflessivo e di conversione morale e religiosa iniziato
dopo il '53 e più risolutamente definitosi nell'ultimo
decennio della sua vita. In questi rapporti di affettuosa assistenza
si colloca un episodio, che non ebbe certo l'importanza assegnatagli
dai tardi biografi del certaldese, come di causa determinante del
suo rinnovamento spirituale, ma che è pure abbastanza
significativo. Nella primavera del '62 si presentava al B. un
monaco, con un messagio per lui del certosino senese Pietro Petroni,
morto poco prima in fama di santità: veniva a ricordargli la
morte incombente e a consigliargli di abbandonare gli studi profani.
Il monito s'inseriva, come sembra probabile, nel quadro della
polemica allora incipiente e proseguita poi anche nel Quattrocento,
dei teologi contro i letterati umanisti, polemica nella quale il B.
prenderà assai presto il suo posto tra i più
coraggiosi e fermi difensori della nuova cultura. In un primo
momento, profondamente turbato, avrebbe voluto bruciare subito tutti
i suoi scritti e proponeva al Petrarca di vendergli la sua
biblioteca. Questi gli rispose distogliendolo da decisioni troppo
affrettate: il monaco latore del messaggio poteva essere anche un
impostore; del resto l'ostilità contro gli studi poetici era
solo un riflesso di vieti pregiudizi; assurdo era infine il
proposito di rinunciare a quella ricerca della sapienza che è
il miglior presidio e conforto dell'animo nella vecchiaia (Sen., I,
5).
Dopo il 1353, ad ogni modo, si apre nella vita del B. una nuova
fase: all'avventuroso inventore di favole poetiche, che per altro
già nel Decameròn s'erano complicate di profonde
ragioni culturali, civili e morali, succede il dotto, lo scrittore
illustre maestro di sapienza umanistica, il cittadino autorevole
insignito di incarichi importanti: alla missione ricordata in
Romagna e a quella nel Tirolo presso il marchese Ludovico di
Brandeburgo (1351) seguono quella ad Avignone presso il papa
Innocenzo VI (maggio-giugno 1354), l'ambasceria alla corte di
Bernabò Visconti (giugno 1359), e più tardi nel '65
ancora ad Avignone e nel '67 a Roma dal papa Urbano V. Anche nella
pausa, che intercede fra i primi e gli ultimi incarichi diplomatici
e che corrisponde alla grave crisi del Comune dilaniato dalle
fazioni e alla congiura che coinvolse alcuni fra i maggiori amici
del poeta e che portò alla condanna a morte di Niccolò
del Buono e all'esilio di Pino de' Rossi, egli fa sentire
nell'Epistola consolatoria indirizzata a quest'ultimo la sua voce
severa e accorata, non ostile al governo popolare, ma irritata
contro le turbolenze partigiane, contro "le ambizioni e le
spiacevolezze e i fastidi" dei cittadini dell'infima plebe ovvero di
recente inurbati, "tolti dalla cazzuola o dall'aratro e sublimati al
nostro magistrato maggiore". Sempre difficili sono le sue condizioni
economiche e scarsamente fruttuosi i tentativi per migliorarle e
renderle più stabili. Accarezza sogni di sistemazione al
servizio dell'Acciaiuoli e per due volte, nel '55 e nel '62, si reca
a Napoli, ma ogni volta ne ritorna amaramente deluso, e dà
sfogo alla sua irritazione, rispettivamente, negli oscuri accenni
dell'ecloga VIII e nelle pagine di violenta e caricata polemica
della epistola XII al Nelli. Intanto ottiene gli ordini sacri e nel
1360 anche l'autorizzazione a ricevere benefici con cura d'anime.
Sempre più spesso si rifugia nella solitudine di Certaldo e
comincia a prender gusto ai "grossi panni" e alle "contadine
vivande" e a dilettarsi di quell'ambiente naturale, dove può
ritrarsi "sanza alcuno impaccio" a "liberamente ragionare... co'
suoi libricciuoli".
La letteratura, come invenzione e analisi di umane esperienze,
sembra ormai sempre più lontana dal suo interesse, in cui
campeggia invece il culto umanistico della sapienza e della
moralità degli antichi. Quando scende a Firenze, cerca la
compagnia dei nuovi dotti discepoli del Petrarca e suoi: Filippo
Villani, Coluccio Salutati, Tedaldo della Casa, Benvenuto da Imola,
gli agostiniani Luigi Marsili e Martino da Signa: da questi pacati
colloqui, nel cenacolo che si raccolse presso il convento di S.
Spirito, prenderà l'avvio il grande moto umanistico
fiorentino del secolo seguente. E tuttavia, anche in questa
disposizione nuova, qualcosa dell'animo antico pur sopravvive.
L'umanesimo del certaldese più curioso di fatti e di nozioni
che d'insegnamenti, la sua dottrina un po' avventurosa e sempre
aperta alle voci più varie, il suo moralismo stesso
più inquieto e polemico e intimamente tormentato sono assai
diversi da quelli del Petrarca: nella storia della cultura egli
rappresenta una posizione meno rigorosa, ma per certi aspetti
più complessa, e non meno feconda. Anche se gli è
venuto meno con gli anni il gusto appassionato e libero, quella
capacità di partecipazione piena che animava il suo fervore
creativo, non si è però spento il gusto della poesia
in cui quel mondo di avventura e dipassioni si riflette pacato in
forme di classica armonia. Tutte le scritture volgari e latine degli
ultimi decenni possono infatti ricondursi ad un solo intento:
ritrovare il valore e la funzione morale ed educativa della cultura
e della poesia; ma, nella generica concezione derivata dal Petrarca,
s'insinua appunto un entusiasmo, che è tutto del B., per la
poesia considerata nel suo contenuto umano e nelle sue forme
fantastiche. È questo entusiasmo che gli fa patrocinare
l'impresa della traduzione dei poemi omerici, chiamando a Firenze a
sue spese nel 1360 il calabrese Leonzio Pilato; impresa di cui
rivendicherà più tardi il merito con ben legittimo
orgoglio: "Ipse fui qui primus meis sumptibus Homeri libros et alios
quosdam Grecos in Etruriam revocavi, ... nec in Etruriam tantum sed
in patriam, deduxi" (Geneal., XV, 7). È lo stesso entusiamo
che detta al B., se non propriogli argomenti dottrinali, certamente
il tono delle sue commosse apologie della poesia, negli ultimi due
libri della Genealogia deorum; e la fitta materia aneddotica e il
gusto narrativo dei suoi tardi repertori eruditi; e l'ininterrotto
culto del nome di Dante, dal Trattatello fino alla stanca fatica
delle lezioni sull'Inferno svolte pubblicamente nella chiesa di S.
Stefano della Badia tra gli ultimi mesi del '73 e i primi del '74.
Questo senso vivo della poesia, e proprio della poesia come
narrazione di casi umani, ritratto di caratteri, rappresentazione di
cose e descrizione psicologica, doveva rimanere fino alla fine al
centro della sua personalità e della sua cultura. Quando la
morte lo colse, nel suo rifugio di Certaldo, il 21 sett. 1375, i
contemporanei, per bocca di Franco Sacchetti, avvertirono che con la
sua dipartita si era spenta l'ultima, la più schietta e calda
voce del grande Trecento: "Ora è mancata ogni poesia E
vòte son le case di Parnaso" (Rime, CLXXXI). Lo stesso
Sacchetti esprimerà più tardi, nel proemio al
Trecentonovelle, il sentimento diffuso di ammirazione verso il
capolavoro narrativo del certaldese, "divulgato e richiesto" tanto
"che infino in Francia e in Inghilterra l'hanno ridotto alla loro
lingua": parole che son tra i primi segni della singolare fortuna
popolare di un libro, tra i più letti imitati e tradotti
della nostra letteratura in ogni nazione e in ogni tempo.
Opere. Caccia di Diana. Questo poemetto, in diciotto brevi canti in
terza rima, inserisce in una fragile inquadratura (descrizione della
caccia, ribellione delle donne alla legge di castità imposta
da Diana e loro passaggio al servizio di Venere) un proposito di
omaggio cortese alle dame della corte napoletana, che sono elencate
e ritratte nelle loro fattezze e nei loro costumi. Per questo
aspetto, l'opera si colloca in una tradizione di consimili
"cataloghi", che va dal perduto serventese di Dante citato nella
Vita Nova a quello dettato dal Pucci "per ricordo delle belle donne
ch'erano in Firenze nel 1335" e ad un altro del B. stesso nel '42, e
include, tra l'altro, la Battaglia delle belle donne del Sacchetti;
mentre nello schema compositivo si rifà a un tema simbolico
vivo nella letteratura latina e romanza del Medioevo, e in taluni
spunti descrittivi e idillici prelude alle "cacce" dell'ars nova
fiorentina. Gli elementi interni portano a fissare il termine ante
quem per la composizione del poemetto al più tardi al 1338, e
molto probabilmente al 1334, e anche lo stile sembra alludere alla
prova di un esordiente, già inserito per altro in una precisa
atmosfera letteraria cortese, con echi danteschi e stilnovistici.
Non per nulla il componimento si conclude con un caldo elogio
dell'Amore "che ingentilisce ciascuna vil mente" e riempie i cuori
di ogni virtù espellendo da essi "superbia, accidia ed
avarizia ed ira".
Filocolo. È probabilmente la prima prova in senso
risolutamente narrativo dello scrittore (databile verso il
1336-1338), quella che accoglie in nucetutti i motivi e le
sollecitazioni che si svolgeranno nelle opere successive. Il romanzo
narra i contrastati amori di Florio e Biancofiore: figlio il primo
del re di Spagna, discendente l'altra senza saperlo da nobile
famiglia romana, i due sono educati insieme e si innamorano l'uno
dell'altro fin da fanciulli; ma i parenti di Florio cercano di
ostacolare il progresso di questa passione e allontanano Biancofiore
vendendola a certi mercanti, che la portano in Oriente e la cedono
all'ammiraglio di Alessandria; colà la raggiunge dopo molte
avventure Florio, che è partito a ricercarla assumendo il
falso nome di Filocolo ("fatica d'Amore", secondo la capricciosa
etimologia del B.); egli penetra di soppiatto, nascosto in una cesta
di rose, nella torre dove la donna è rinchiusa, ma è
sorpreso con lei dalle guardie e entrambi sono dannati al rogo;
senonché all'ultimo momento l'ammiraglio scopre che Florio
è suo nipote, e nello stesso tempo si viene a conoscere la
nobile origine di Biancofiore; i due amanti si sposano, e il libro
si chiude con una generale conversione di tutti i personaggi pagani
alla fede cristiana. Questa materia, che si complica di una fitta
trama di episodi secondari, deriva da una leggenda diffusissima
nell'Europa medioevale e di cui le più importanti redazioni,
fra quelle giunte fino a noi, sono due poemetti francesi del sec.
XII, mentre quasi sicuramente dipende a sua volta dal romanzo
boccaccesco il cantare trecentesco italiano che svolge lo stesso
argomento. Nel proemio al suo libro il B. dichiara d'aver voluto
riproporre la vicenda di Florio e Biancofiore affinché "la
memoria degli amorosi giovani" e "la grande costanza de' loro animi"
fosse finalmente "esaltata da' versi d'alcun poeta", mentre fino a
quel momento era stata "lasciata solamente ne' fabulosi parlari
degli ignoranti": ciò che bene illumina l'atteggiamento
bivalente dello scrittore rispetto alla materia del racconto, per un
verso attratto dal fondo sentimentale, immediatamente perspicuo
della vicenda, per l'altro impegnato a riscattare questa materia con
un'arte assolutamente consapevole. È il proposito che
presiederà alla composizione di tutte le opere giovanili:
ritrascrizione dotta di un materiale cortese decaduto a popolaresco.
Vi confluiscono, da un lato, i temi romanzeschi, il gusto
dell'avventuroso, del meraviglioso, dell'esotico, che tengono gran
posto nella letteratura minore delle civiltà romanze,
appassionatamente rivissuti nel fervore di un'esperienza giovanile;
dall'altra, la tradizione dell'ars dictandi e della prosa d'arte, il
linguaggio illustre della lirica, gli schemi del trattato d'amore di
Andrea Cappellano, i moduli elegiaci di Arrigo da Settimello, gli
apporti infine di alcune sezioni più congeniali delle prime
letture preumanistiche: Ovidio, Virgilio, Seneca, Apuleio, Valerio
Massimo. Tutti questi elementi si incontrano e si affollano nelle
pagine del Filocolo e concorrono a determinare l'andamento
dispersivo e episodico della trama, la prolissità degli
svolgimenti e l'intemperanza della decorazione, l'impressione
insomma di una scarsa organicità strutturale. In ciò
si individua il limite, ma anche la novità del libro, che
rappresenta come in sintesi tutta l'esperienza futura dello
scrittore: l'acuta psicologia amorosa, il senso dell'avventura e del
fasto, i temi descrittivi, idillici, il caldo lirismo
autobiografico, danno vita di volta in volta a pagine singolarmente
felici; l'episodio della corte amorosa di Fiammetta, che Florio
incontra nei pressi di Napoli, con la lunga digressione delle
tredici questioni d'amore, modellate sugli schemi della
trattatistica cortese ma sempre pronte a risolvere le situazioni
astratte in figure e movimenti drammatici, prepara da lontano il
motivo della cornice e abbozza addirittura precise trame narrative
che rifioriranno nel Decameròn. Le molteplici componenti
dell'ispirazione trovano la loro relativa unità in una sorta
di compromesso, sempre rinascente e sempre precario, tra un
atteggiamento di virtuale realismo e le ricorrenti intrusioni di un
lirismo prepotente e sovrabbondante, tra la verità del
sentimento e il massiccio apparato ornamentale di derivazione
libresca. Strumento di questo compromesso è la prosa poetica
del Filocolo, espressione di un lirismo tramato di verità
psicologica, di una psicologia intrisa di emozione lirica. Il vicino
modello stilistico della Vita nova incomincia a farsi qui, almeno a
tratti, più mosso e sciolto, e il ritmo si piega all'esigenza
del raccontare, senza perdere quell'alone lirico che è come
il segno della presenza partecipe dello scrittore.
Filostrato. Il poemetto, in nove "parti", di disuguale lunghezza, in
ottava rima, è stato composto forse contemporaneamente al
Filocolo; secondo qualche studioso anche prima, intorno al '35,
perché nella dedica non si fa cenno al mito di Fiammetta,
sempre presente nelle altre opere giovanili; d'altra parte, rispetto
al Filocolo, segna un progresso di semplificazione e concentrazione
della struttura. Il Filostrato deriva l'argomento da un episodio del
Roman de Troie di Bénoît de Sainte-More, conosciuto
direttamente o per il tramite del volgarizzamento di Binduccio dello
Scelto, non senza qualche eco anche dell'Historia troiana di Guido
delle Colonne: Troiolo, figlio del re Priamo, ama la bella vedova
Criseida, figlia di Calcante, indovino troiano passato al campo dei
Greci, e per mezzo di Pandaro, suo amico e cugino di lei, riesce
facilmente a farsi riamare; nell'occasione però di uno
scambio di prigionieri, Criseida viene richiesta dal padre e parte
per il campo greco, dopo aver giurato all'amante eterna
fedeltà; subito invece lo tradisce concedendosi a Diomede;
quando Troiolo è fatto certo del tradimento, si getta
disperato nella battaglia col proposito di uccidere il rivale, ma
è ucciso da Achille. La trama dichiaratamente allusiva, come
si ricava dalla dedica, a una situazione autobiografica di passione
e di gelosia, è di gran lunga più compatta ed
organica, a paragone del Filocolo; notevole il grado di
abilità raggiunto nella delineazione abbastanza precisa e
coerente dei caratteri. Soprattutto nella delineazione di certi
personaggi minori e nella grande abilità dell'intreccio il B.
rasenta quel grado estremo di distacco nei confronti dell'invenzione
che caratterizza il narratore puro (di qui la grande fortuna del
libro nella letteratura europea, in Inghilterra particolarmente,
attraverso Chaucer, fino a Shakespeare), anche se poi
l'oggettività dei dettagli serve a sottolineare, per
contrasto, la dimensione eminentemente lirica in cui vive il
protagonista, sorretto dalla personale adesione dell'autore
attraverso le svolte patetiche, tragiche, elegiache della vicenda.
Formalmente il Filostrato si inserisce, non solo per la scelta del
metro, nella tradizione dei cantari narrativi popolareschi, ne
costituisce anzi uno dei momenti salienti ed esemplari, insieme con
il Teseida, largamente ripreso e imitato nel tardo Trecento e per
tutto il Quattrocento. Nei moduli dei canterini lo scrittore cerca
lo strumento di una sintassi più sciolta e conversevole, di
un lessico più concreto e realistico, conforme
all'ambientazione tutta moderna e napoletana dei particolari della
sceneggiatura e del costume; nel contempo egli non rinuncia al suo
proposito d'arte e si adopera a introdurre una misura di compostezza
e d'ordine, sia pure al livello dello stile "mediocre", nei modi
sciatti e pedestri dei suoi modelli, con echi frequenti del
linguaggio lirico (nella parte quinta è, addirittura,
l'inserzione quasi letterale di una intera canzone di Cino da
Pistoia).
Teseida. Il poema, in dodici libri in ottave, preceduti dalla dedica
in prosa a Fiammetta e da un sonetto proemiale e seguiti da due
sonetti conclusivi, pur rifacendosi anch'esso formalmente alla
tradizione dei cantari, risponde a un proposito letterario assai
più ambizioso e complesso che non sia quello del Filostrato,
e rispecchia una fase più matura della cultura dello
scrittore (forse intorno al 1339-1341). Già dalla forma del
titolo (esemplato sui tipi medioevali di Eneida,Tebaida e simili)
appare evidente il tentativo dell'autore di rinnovare in volgare il
genere epico. Riproponendo nell'epilogo dell'opera la distinzione
dantesca degli argomenti poetici - armi, amore e virtù - egli
si vanta infatti d'essere il primo a cantare in rima, "con bello
stilo... di Marte gli affanni... nel volgar lazio più mai non
veduti". Senonché Virgilio e Stazio offrono solo le
indicazioni di massima per una generica prospettiva epica, mentre la
sostanza del racconto rimane ancorata agli schemi del romanzo
cortese medievale (anche se non è possibile, in questo caso,
indicare una precisa fonte, e si può soltanto supporla come
probabile). La trama prende le mosse dalla narrazione delle guerre
vittoriose di Teseo, signore di Atene, contro le Amazzoni e contro
Creonte re di Tebe; ma ben presto si accentra intorno agli amori di
due prigionieri tebani, Arcita e Palemone, per la giovinetta Emilia,
sorella della moglie dell'eroe, Ippolita. I due giovani, da una
finestra del carcere dove sono insieme rinchiusi, vedono un giorno
nel giardino sottostante la fanciulla che canta e intreccia
ghirlande e se ne innamorano entrambi. Arcita viene poi liberato,
col patto di rimanere sempre lontano dalla città;
senonché, dopo un anno, non reggendo alla pena del distacco,
vi ritorna travestito e con falso nome e riesce a farsi assumere
nella corte in qualità di valletto. Emilia lo riconosce, e
tace; ma viene a saperlo anche Palemone, che smania di gelosia.
Evaso dalla prigione, piomba sull'amico che dorme in un bosco e lo
aggredisce; ma sopraggiunge Teseo, con Emilia e il loro seguito. I
due amici-nemici sono costretti a desistere dal loro furioso duello;
per ordine del duca d'Atene, risolveranno la loro lite in un
regolare torneo, accompagnati ciascuno da cento cavalieri, e Emilia
toccherà in premio al vincitore. Vince Arcita; ma Venere, che
protegge Palemone, suscita una furia contro l'eroe e lo fa cadere da
cavallo. Sebbene ferito gravemente, Arcita è proclamato sposo
di Emilia; non può godere a lungo tuttavia della sua
felicità, ed egli stesso, prima di morire, fa promettere alla
donna che essa accetterà di buon grado la mano del più
fortunato rivale. Le pagine più felici (prima apparizione di
Emilia, colloquio estremo fra la donna e Arcita morente) sono ancora
una volta quelle più liriche, dense di commozione
autobiografica, nei vari registri del sentimento amoroso, dove anche
i molteplici ricordi letterari aderiscono naturalmente alla
sensibilità idillica e patetica del giovane scrittore.
Comedia delle Ninfe fiorentine. Èl'opera che fin dalle prime
stampe (ma non nella tradizione manoscritta) ebbe il titolo di
Ameto. Composta fra il '41 e il '42, è la prima ideata dopo
il ritorno a Firenze e riflette, insieme con la pena del distacco da
Napoli, anche il gusto del nuovo paesaggio: inviandola all'amico
Niccolò del Buono, il B. la definisce come una "rosa tra le
spine della sua avversità nata, la quale a forza fuori de'
rigidi pruni tirò la florentina bellezza". È presente
nell'opera un problema di struttura che si salda da un lato al
tentativo abbozzato nell'episodio delle questioni d'amore del
Filocolo, dall'altro al risultato del Decameròn. Anche qui
sette racconti sono inquadrati in una cornice narrativa: solo che la
inquadratura schiaccia, in un certo senso, l'autonomia delle singole
storie, mentre il sovrapporsi di richiami culturali diversi,
l'urgenza di varie esigenze fantastiche rende precario il rapporto
fra cornice e racconti.
L'incontro ravvicinato con la cultura letteraria fiorentina porta lo
scrittore ad accogliere e sottolineare motivi allegorici e
moralistici, nella scia dello "stil novo" e di Dante; d'altra parte,
l'innata disposizione a inserirsi in un quadro di concreti rapporti
sociali sollecita la sua attenzione curiosa alla cronaca mondana
locale; infine l'esigenza rettorica e dotta, sempre presente,
influisce nella scelta dei moduli inventivi e stilistici, nel folto
apparato ornamentale erudito, nella struttura stessa prosimetrica
(di lontana ascendenza boeziana) del libro. Da queste diverse e
talora discordi componenti derivano la scarsa omogeneità
dell'opera e la macchinosità dell'impianto. Ameto, rozzo
pastore e cacciatore, che frequenta i boschi fra Arno e Mugnone,
s'imbatte un giorno in una schiera di ninfe che si bagnano nel flume
e si innamora di una di esse, Lia. La nuova gentilezza, che a poco a
poco germoglia nel suo animo, lo costringe a tralasciare le sue
predilette occupazioni e a ricercare i luoghi dove spera di
incontrarsi con l'amata. Nel giorno della festa di Venere si trova
con Lia, con altre sei ninfe e tre pastori, presso il tempio della
dea, e ascolta dalle sette donne il dettagliato racconto dei loro
amori, mentre egli si esalta nel contemplarle e si strugge di
sensuale desiderio. Terminate le narrazioni, e dopo essere stato
immerso da Lia in una fonte purificatrice, gli si rivela la luce di
Venere in tutto il suo splendore. Secondo il significato simbolico
trasparente dalla lettera della favola, le ninfe - Mopsa, Emilia,
Adiona, Acrimonia, Agapes, Fiammetta e la stessa Lia - rappresentano
le quattro virtù cardinali e le tre teologali; gli uomini
amati da ciascuna di esse, i vizi che si contrappongono a quelle
virtù. La figura di Ameto sta a simboleggiare
l'umanità ingentilita da amore e purificata dalla
virtù. E la dea che presiede al rito è, naturalmente,
"non quella Venere che gli stolti alle loro disordinate
concupiscenzie chiamano dea, ma quella dalla quale i veri e giusti
santi amori discendono intra' mortali", "luce del cielo unica e
trina, principio e fine di ciascuna cosa", dietro la cui guida
l'uomo ascende alle gioie del paradiso. Lo schema allegorico rimane
per altro quasi del tutto estrinseco: il quadro ambientale, i
compiaciuti e minuziosi ritratti delle ninfe, il vario atteggiarsi
dello stato d'animo del protagonista e soprattutto le storie d'amore
si caricano di forti colori realistici, sensuali o addirittura
lascivi oppure caricaturali (come nel profilo del marito di Agapes),
certo non facilmente riducibili al concetto edificante che regola la
struttura del libro. La quale ha piuttosto la funzione di stabilire
un distacco fra il sentimento dello scrittore e la materia dei
racconti, attenuando l'autobiografismo e accentuando invece
l'oggettività e la fermezza anche stilistica della
rappresentazione. Oltre che nei toni lirici e idillici,
schiettamente rivissuti, dell'episodio iniziale dell'innamoramento
di Ameto, il meglio è da cercare nelle novelle e in alcune
pagine descrittive della cornice. Liberato il libro dal peso degli
elementi decorativi sovrabbondanti, nonché dalla sciatteria
delle parti verseggiate (ecloghe in terzine, che riprendono
stancamente moduli bucolici e ovidiani), resta soprattutto il senso
di una prosa nuova, più matura, più robusta e
compatta, modellata sui prosatori classici (nella scia della
contemporanea esperienza dei volgarizzamenti liviani).
Amorosa Visione. Poema in cinquanta canti in terzine, la cui
composizione si colloca fra l'Ameto e la Fiammetta, è la
scrittura più povera, scolorita e prosaica del B. e conferma
le sue deboli qualità di verseggiatore. Riprende ed esaurisce
le superstiti scorie della vena allegorica e didattica, presente,
come si è visto, nella cultura, ma non nel sentimento
dell'autore. Egli narra d'essersi trovato in sogno in un luogo
deserto, dal quale lo trae con sé una "donna lucente in vista
e bella", che lo conduce alle soglie di un nobile castello. Vi si
accede per due porte, una bassa e stretta che "mena a via di vita",
l'altra aperta e facile che promette "ricchezza, dignità...
gloria mondana". Il poeta sceglie la seconda e viene introdotto in
una splendida sala, con affreschi che celebrano i trionfi della
scienza, della gloria, della ricchezza e dell'amore; in altra stanza
contempla l'immagine della Fortuna tra le sue vittime; infine in un
giardino incontra Fiammetta e si rallegra nell'amore di lei, ma
quando è sul punto di cogliere l'ultimo frutto di questo
amore, si sveglia; e allora si abbandona docile alla volontà
della sua misteriosa guida, seguendola per il cammino stretto e
arduo della virtù che conduce a "riposo eterno". Tutto il
poema è costruito come un enorme acrostico: le lettere
iniziali di ciascuna terzina formano infatti tre sonetti di dedica,
i primi due indirizzati a "madama Maria", cioè a Fiammetta,
il terzo ai lettori.
Elegia di madonna Fiammetta. Composto prima del 1345, questo romanzo
è il punto d'approdo di un'esperienza decennale umana e
letteraria: "una pagina di storia intima dell'anima, colta in una
forma seria e diretta", per ripetere il lucido giudizio del De
Sanctis, che fu il primo a riconoscerne l'importanza e la
novità. La storia è quella stessa del Filostrato,
salvo l'inversione delle parti. Fiammetta, nobildonna napoletana, vi
narra in prima persona, rivolgendosi alle innamorate donne, la
vicenda del suo amore adultero con il fiorentino Panfilo: come lo
conobbe e visse con lui una breve stagione di felice abbandono, e
come poi egli l'abbandonò per recarsi a Firenze chiamatovi
dal vecchio padre; donde un affannoso periodo di attesa impaziente,
di nostalgia, di alterne angosce e speranze, finché, avendo
saputo ch'egli l'aveva dimenticata e tradita, ella precipitò
nella disperazione e giunse a meditare e tentare il suicidio. Questa
trama si affida formalmente al genere dell'"elegia", ripristinato
sull'esempio delle Eroidi ovidiane, e viene arricchita da numerosi
prestiti classici: Virgilio, Lucano, Stazio, Valerio Massimo, Seneca
tragico sono non di rado letteralmente tradotti per rendere
più preziosa l'esercitazione oratoria. La quale, tuttavia,
contiene la linea di un romanzo, sul filo di una ininterrotta
tradizione medievale, ed è proprio tale adesione ad una
sostanza umana viva e sofferta che può garantire
l'unità strutturale del libro, qualora esso si sfrondi del
pesante apparato rettorico ed erudito. La concreta evidenza con cui
sono rappresentate le passioni pervade interamente il racconto,
dà rilievo realistico ai personaggi minori (dall'amante
scaltro e volubile al marito tenero e premuroso, dall'amorosa
nutrice alle amiche della protagonista) e soprattutto esalta il
personaggio di Fiammetta, che è la prima grande anticipazione
delle figure tragiche del capolavoro. E poi vero e coerente al
sentimento spregiudicatamente umanistico del B. appare il motivo che
informa tutta la vicenda fantastica: quella forza d'amore che non
conosce limiti morali o razionali, e "sì come più
forte, l'altrui leggi non curando annullisce, e dà le sue".
Anche la prosa, pur non rinunciando alle esperienze scolastiche
dell'ars dictandi e a quelle successive dei volgarizzatori, pur non
affrancandosi del tutto dagli obblighi di una rettorica
classicheggiante, assume una cifra più ampia e comprensiva
aderendo al ritmo interno della narrazione, obbedendo alla
psicologia dei personaggi. A questo ritmo specificatamente
prosastico vengono ormai assoggettati tutti i tradizionali
espedienti di un discorso musicale - simmetria, parallelismi,
clausole endecasillabiche - senza peraltro che a nessuno di essi sia
garantita una sostanziale autonomia, ma piegandoli alla
necessità di una mimesi realistica.
Ninfale fiesolano. Questo poemetto, in quattrocentosettantatre
ottave raggruppate in episodi per mezzo di didascalie, è da
considerarsi quasi certamente come l'ultima delle opere minori
composte prima del Decameròn; una recente proposta, che tende
a retrodatarlo al periodo napoletano, anteriormente al Filocolo, non
persuade, contraddetta com'è dalla scelta del tema stesso
eziologico, così chiaramente fiorentino e ancor più
dalla maturità dell'invenzione e dell'arte. Il Ninfale
rappresenta infatti il punto d'arrivo del narratore in versi, come
la Fiammetta del prosatore: come tale, ha anche un significato
storico rilevante, imponendosi come modello alla produzione
idillico-mitologica e a quella rusticale, fino all'Ambra e alla
Nencia del Medici, alle Stanze del Poliziano. La partitura metrica,
pur risentendo dei difetti connaturati alla produzione in rima del
B., accoglie adesso una gamma più vasta di suggestioni, che
include i modi della lirica aulica e l'espressivo colorismo
lessicale dei giocosi, il grezzo recitativo dei canterini e il
morbido, sostenuto andamento della poesia per musica. Tuttavia quel
che rende il libro un'esperienza nuova nell'attività dello
scrittore è il taglio dell'"amorosa storia", che qui procede
con una sicurezza inventiva inusitata nel B. rimatore.
Fortunatamente il pretesto eziologico del poema (circa l'origine dei
torrenti Africo e Mensola), rapportato al modello delle Metamorfosi
ovidiane e connesso alle fortunate leggende di Fiesole e di Roma,
rimane nella struttura del libro poco più che uno schema,
mentre constituisce lo sfondo necessario, letterariamente idillico e
fiabesco, per filtrare una materia di genuine e irrompenti passioni,
quando non rappresenta addirittura l'alternativa mitica di certa
pronunzia realistica che orienta personaggi e situazioni nel senso
di una maliziosa cronaca borghese. Il pastore Africo, assistendo non
visto a un raduno di ninfe consacrate alle leggi di Diana, è
preso d'amore per una di esse, la quindicenne Mensola; nei giorni
seguenti erra inquieto, ricercandola, per i colli e le selve; quando
alfine la ritrova, l'insegue con amorosa preghiera, ma quella,
spaventata, gli lancia un dardo senza colpirlo, e subito, volgendosi
a guardare il nemico, si pente del suo gesto, e lascia penetrare nel
suo animo una pietà che è già inconsapevole
preludio di un più tenero affetto; consigliato da Venere,
Africo si veste da donna e si mescola alle ninfe che si bagnano in
un laghetto; quando anche lui si denuda, quelle fuggono atterrite,
ma egli riesce a trattenere Mensola fra le sue braccia, a vincerne
le ultime resistenze e a farla sua in un amplesso, dapprima subito e
poi accolto e partecipato con un crescente abbandono dei sensi e
dell'animo; in seguito, la fanciulla, pentita del suo errore e
pavida dell'ira della dea, risolve di non lasciarsi più
rivedere dall'amante, che, disperato, si uccide (e il cadavere,
caduto in un torrente, ne tinge le acque di sangue); Mensola
dà alla luce un bambino, ma poi, scoperta e maledetta da
Diana, precipita fuggendo in un ruscello e si discioglie nel suo
corso; il piccolo Pruneo, amorosamente allevato dai genitori di
Africo, diventerà più tardi siniscalco di Attalante,
fondatore di Fiesole e estirpatore delle crudeli costumanze imposte
da Diana alle ninfe, finalmente sciolte dai loro voti e riportate
all'umana legge dell'amore e delle nozze.
Si intuiscono facilmente i momenti di più intensa adesione
sentimentale dello scrittore: la vicenda della passione di Africo,
dal suo primo nascere alla finale disperazione; la grazia ingenua di
Mensola, colta nelle diverse fasi di un'esperienza, che l'investe e
la travolge nel suo turbine, ignara, e la fa donna senza intaccare
il velo di una sensibilità adolescente, timida e pudica; la
semplice affettuosa umanità dei genitori di Africo, trattata
con mano delicata e con fine intuito di verità psicologica;
talune pause descrittive e idilliche e certi momenti di colma e non
volgare sensualità.
Decameròn. Il B. scrisse il suo capolavoro in breve giro di
anni, fra il 1349 e il '53, secondo l'ipotesi più
attendibile. L'ampia tradizione manoscritta permette di riconoscere,
come mostrò fin dal 1927 il Barbi, diverse fasi e
stratificazioni del testo, con varianti talora cospicue, aggiunte e
soppressioni di singole frasi, fino alla redazione definitiva,
attestata da un gruppo numeroso di codici, fra cui è da
ricordare il berlinese Hamilton 90, che già nel secolo scorso
il Tobler e lo Hecker e di nuovo recentemente il Branca e il Ricci
hanno segnalato come autografo, con buone argomentazioni, non tali
tuttavia da consentire un'assoluta sicurezza.
Il Decameròn conclude l'esperienza giovanile, e cioè
la fase propriamente inventiva e fantastica, dell'attività
dello scrittore, e ne riprende la ricca materia sentimentale,
liberata ormai dal peso di un prepotente autobiografismo, e le varie
sperimentazioni formali, spoglie alfine di ogni pedanteria e
ostentazione, perfettamente assimilate e fuse nel pieno possesso di
un linguaggio e di uno stile. Al tempo stesso l'opera s'innalza,
incomparabilmente superiore ai poemi e romanzi precedenti, per
l'ampiezza del disegno, la complessità e l'ordine della
struttura, la varietà e la ricchezza dei motivi
d'ispirazione: non più strumento di un appassionato sfogo
individuale, ma specchio di una società, espressione di un
momento storico del sentimento e del costume. C'è
evidentemente alla radice del mondo poetico del B., quale appare dal
capolavoro, una concezione coerente della vita, che definisce e
armonizza i molteplici aspetti della personalità dello
scrittore, reperibili, in varia misura, in ciascuna delle opere
minori: e l'occasione di questa sintesi si può ravvisare nel
ritorno a Firenze del B., nel conseguente accostarsi allo spirito
della civiltà borghese del Comune, nella partecipazione,
sempre più piena e cosciente, ai costumi di tale
società, che ha raggiunto un grado altissimo di sviluppo ed
è già in fase di lenta discesa. I cardini di questo
sostrato ideale, che costituisce il terreno d'incontro tra lo
scrittore e la società fiorentina del suo. tempo, si
individuano in una schietta e spregiudicata considerazione degli
umani affetti, accettati nella loro oggettiva validità,
disancorati da qualsiasi pregiudiziale di ordine trascendente, e nel
riconoscimento più aperto e sincero dell'intelligenza,
operante nel campo di concrete esperienze e non di sterile dottrina,
audacemente impegnata per piegare le resistenze della natura e della
fortuna. Su una base siffatta di concrete corrispondenze poteva
essere accolto e riproposto dal B. quanto di più originale
era stato prodotto dalla cultura borghese (non soltanto quella
consegnata alle pagine dei trattati e delle cronache o espressa
nella varia letteratura dell'età comunale, ma quella radicata
nella pratica di mercanti e di pubblici funzionari, di tecnici e di
giuristi, viva nel costume degli ingegni più disincantati e
polemici), e poteva ordinarsi in una struttura che non trova
paragone, per vastità e ricchezza di motivi, se non con la
Commedia di Dante. Alla quaIe tuttavia si contrappone, più
che affiancarsi, ché, mentre il libro dell'Alighieri suggella
secoli di cultura, il Decameròn è piuttosto
l'anticipazione di un nuovo senso della realtà, improntato ad
un decoro che si modella ancora sugli ideali cavallereschi della
sfarzosa civiltà feudale, ma libero e aperto, indulgente
verso le passioni e aspro contro ogni forma di ipocrisia e di
corruzione. L'opera, che è passata nel ricordo dei più
come un repertorio di situazioni comiche e licenziose, vuole essere
invece un messaggio profondamente serio, il richiamo ad un concetto
sereno e coraggioso della vita tutt'altro che sordo ai valori morali
e religiosi, pur senza concedere in nessun punto al fideismo e al
moralismo filisteo. Sotto questo aspetto si giustifica la tragica
cornice del libro: la descrizione della peste, che avvolge entro
schemi narrativi dichiaratamente impersonali le reazioni del
sentimento offeso dallo spettacolo della strage, include anche una
lezione morale, prendendo le mosse dall'immagine di un disfacimento
fisico ed etico-sociale, onde risultino annientati, nella corruzione
di ogni norma di vivere civile e nel trionfo del più cieco
egoismo, persino i vincoli dell'amicizia e del sangue, e fra i
superstiti si impongano "quasi di necessità, cose contrarie
a' primi costumi de' cittadini".
Su questo sfondo di morte, di disordine morale e quasi di rinnovata
barbarie, si delinea per contrasto la condizione volontariamente
attuata, e per dir così costruita artificiosamente, di alcuni
giovani - sette fanciulle e tre uomini - che, incontratisi per caso
nella chiesa di S. Maria Novella, decidono di ritirarsi a vivere
insieme per qualche tempo in una villa in collina, dove si
sforzeranno di evadere da quell'atmosfera di lutto e di incubo,
alternando agli svaghi, alle danze, ai giochi, alle piacevoli
conversazioni, ai banchetti, alle gite, anche il racconto di novelle
piacevoli e interessanti: quelle stesse che costituiscono la
sostanza del libro, cento in tutto, recitate in dieci giorni dai
dieci novellatori, sul tema proposto di volta in volta da quello di
loro cui spetta in quel giorno di reggere la brigata. In tale
proposito di evasione si scopre un'antitesi tra il medievale trionfo
della morte e un trionfo della vita che si realizza nell'esaltazione
di valori mondani, degli istinti e della ragione, laddove il primo
si determinava come negazione ascetica. Valga a questo riguardo
l'immagine felicissima dei dieci giovani "tutti di fronde di quercia
inghirlandati, con le mani piene o d'erbe odorifere o di fiori",
tali che "chi scontrati gli avesse, niun'altra cosa avrebbe potuto
dire se non: 0 costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli
ucciderà lieti": un emblema di sapore rinascimentale, il
quale deve essere comunque interpretato nel senso che l'arte dello
scrittore trascende ed unifica entrambi i termini dell'antitesi, e
sarà quindi la sua opera commedia e tragedia,
includerà luci ed ombre, comprenderà la virtù
dell'uomo e la resistenza formidabile del caso. Perciò la
cornice del Decameròn si inserisce in una prospettiva
coerente dell'opera anche se, per altro verso, assolve una funzione
decorativa, sottolineata dalle elaborate scenografie, dalle deboli
invenzioni poetiche che segnano il trapasso da una giornata
all'altra. E mentre la descrizione del contagio giustifica, su un
piano di assoluta eccezionalità, la spregiudicatezza di
alcune novelle, il ricorso inventivo ad un eremo appartato e felice
come paesaggio naturale delle gaie conversazioni rappresenta lo
stato di distacco con cui i racconti sono stati concepiti e vogliono
essere intesi.
Gli stessi nomi dei novellatori rievocano le figure dei romanzi
giovanili, ma il loro carattere si è come smorzato in un tono
di reminiscenza lontana: Panfilo, il fortunato amante; Filostrato,
l'amante tradito e disperato; Dioneo, il gaudente spregiudicato,
rappresentano tre facce, tre momenti ideali dell'uomo B., ma
trasportati in una luce immobile e diafana. Né dissimile
è il compito e il carattere delle donne: Pampinea, nel pieno
rigoglio della sua gioventù, saggia e serena, amante riamata;
Filomena, anch'essa savia e discreta e pur piena di "desio focoso";
Elissa, acerba adolescente, schiava di un violento e doloroso amore;
Neifile, giovanissima anch'essa, ma lieta e pronta al canto e
ingenuamente lasciva; Emilia, innamorata di sé come Narciso;
Lauretta, amante gelosa; Fiaminetta, lieta di un ricambiato amore e
pur sempre trepidante che non le sia tolto: altrettante proiezioni
del remoto mondo poetico dei romanzi giovanili. Le novelle si
raccolgono secondo un disegno sapiente, tra quelle raccolte nella
prima giornata, dedicata agli esempi di potenti che vengono meno
alla prerogativa dell'autorità, a quelle incluse nella decima
giornata, vertenti sull'apologia di personaggi illustri per
magnanimità e cortesia. Entro questi limiti si svolge una
vastissima descrizione di casi umani, che sarebbe difficile ridurre
ad un tema fondamentale. Per dimostrare la tensione tragica del
libro basterebbe la rigorosa coerenza espressiva che caratterizza
alcune tra le più celebri novelle: quella della moglie di
Guglielmo Rossiglione (IV, 9), che, costretta dal marito a mangiare
il cuore del suo amante, delibera di gettarsi dalla finestra del
castello; o quella di Ghismonda da Salerno (IV, 1), che rinuncia
alla vita poiché il padre le ha fatto uccidere il valletto di
cui era innamorata, ove la fermezza della risoluzione ben si addice
alla nobiltà del lignaggio e alla distinzione intellettuale.
Su un piano di esperienze più accessibili e quotidiane il
medesimo valore comporta nobiltà di costumi, finezza di
consuetudini, riservatezza e disprezzo di fronte a tutto ciò
che può essere giudicato volgare. È il segno che
distingue l'eroica gentilezza di Federico degli Alberighi (V, 9), la
cortesia di Natan (X, 3), la malinconica saggezza di Carlo
d'Angiò (X, 6), la splendida regalità di Pietro
d'Aragona (X, 7); ma può anche far risaltare figure meno
appariscenti di poeti e artisti, come Giotto (VI, 5) e Guido
Cavalcanti (VI, 9), brillare nel contegnoso decoro di un uomo di
corte come Bergamino (I, 7), nella chiusa e struggente passione di
una semplice fanciulla come Isabetta messinese (IV, 5), nella pronta
finezza dell'ebreo Melchisedech (I, 3), nella signorilità
istintiva del fornaio Cisti (VI, 2). Il limite di alcune di queste
storie di virtù e di cortesia, come per esempio quella di
Griselda (X, 10), o di Tito e Gisippo (X, 8), è costituito
forse da un eccesso di stilizzazione: si tratta però di un
limite quasi sempre superato dalle risorse inventive dello
scrittore, dalla sua estrema apertura anche verso le forme
più sottili e complesse di una raffinata psicologia.
Se la fortuna dispone capricciosamente dei destini umani e sembra
eludere ogni saggio accorgimento inteso a piegarla entro i confini
della volontà individuale, l'intelligenza consiste nel
sapersi abbandonare ad essa, onde cogliere a tempo debito
l'occasione propizia o rendere anche le sventure fonte d'esperienza.
Tale disposizione dinamica nei confonti della fortuna, svincolata da
ogni tentativo di teorizzazione metafisica e precorritrice di un
concetto umanistico che sarà sviluppato dall'Alberti e poi
dal Machiavelli, si unisce nel B. con il gusto per l'avventuroso
(corretto però, quasi sempre, a differenza di quanto avveniva
nei romanzi, da una forte esigenza di realismo), per il ben
congegnato gioco di peripezie, cui deve assoggettarsi, con esito
incerto, il protagonista: Andreuccio da Perugia (II, 5), Landolfo
Ruffolo (II, 4) o Alatiel (II, 7). In altri casi la persistente
vocazione romanzesca diventa gusto della sorpresa, come nella
bellissima novella di Pietro Boccamazza e dell'Agnolella (V, 3);
piega al divertimento e allo scherzo, come nel racconto di Rinaldo
d'Esti (II, 2), a cui il gioco mutevole del caso riserba
inaspettatamente una meravigliosa notte d'amore; o si traduce in
spunto di beffa e di commedia in quello di Salabaetto e della donna
siciliana (VIII, 10). Il comico occupa una parte preponderante nel
Decameròn, e non solo quantitativamente, se si pensa alla
felicità inventiva di alcune novelle che sono tra le
più famose del libro. Bisogna tuttavia rapportare questa
materia a temi ben presenti e attivi nelle intenzioni dell'autore
(quello dell'umana intelligenza, ad esempio, nella novella di
Pinuccio e Adriano: IX, 6) o ricondurla a motivi polemici
evidentissimi, in senso antiascetico, nelle vicende di Madonna
Filippa (VI, 7), della moglie di Ricciardo da Chinzica (II, 10), di
Alibech romita (III, 10), e non valutarla in maniera del tutto
superficiale come gioco di equivoci e di lascivie.
Altrove la materia maliziosa del racconto sottolinea la spietata
rappresentazione di un ambiente (nella novella della monaca e della
badessa: IX, 2), permette una acuta penetrazione psicologica, come
nella storia di Masetto da Lamporecchio (III, 1); infine il motivo
della beffa può sublimarsi in una sincera ammirazione per
l'astuzia che trionfa non soltanto sulla sciocchezza, ma anche sul
più scaltrito pregiudizio (nella novella di Ferondo: III, 8).
Va inoltre considerato che il tema dell'intelligenza, o della
scaltrezza, nella sua versione più immediata ed estemporanea,
non si isola mai in un modulo rigido di rappresentazione, ma si
inserisce in una più fitta trama di motivi, che include, da
un lato, la polemica contro le viventi negazioni dell'ideologia
borghese dello scrittore - monaci e chierici ipocriti, come frate
Cipolla (VI, 10) o il prete di Varlungo (VIII, 2), ma anche
imbroglioni come ser Ciappelletto (I, 1) - e contempla, dall'altro,
una sorta di pietà e di rispetto per il mondo degli ingenui
che sono vittime, non esclusivamente comiche, dell'astuzia e dello
scherno: come è il caso dei racconti che si imperniano sul
ridicolo e spregiato ma anche patetico e umanissimo personaggio di
Calandrino (VIII, 3 e 6; IX, 3 e 5). Forse proprio questa
complessità di implicazioni ideali e fantastiche ha
determinato la maggior fortuna popolare di talune novelle comiche.
A questa grande varietà di temi il B. giunge in virtù
di una inesauribile facoltà inventiva, che utilizza le
cosiddette fonti, classiche mediolatine e romanze, popolari e
illustri, come meri spunti narrativi (sotto questo aspetto è
tipica la novella di Nastagio degli Onesti, V, 8, che ripropone
trasformandola la trama di un exemplum già usufruito, nel suo
stretto senso religioso. da Iacopo Passavanti). E la ricca gamma dei
moduli narrativi trova la sua unità in una intelligenza
profondamente comprensiva dei vizi e delle virtù umane, tesa
verso un tipo di rappresentazione mai astratta, bensì
articolata in una trama di concrete passioni; tale prospettiva
invade anche le svolte più tragiche o patetiche o elegiache,
condiziona le più sublimi esaltazioni della libertà
morale e dell'ingegno, limita il gusto per l'avventuroso e il
fiabesco, stempera il comico in una dimensione di più alta
umanità e di saggezza. Sempre perfetta è
l'ambientazione storica dei personaggi, rigoroso il nesso logico che
determina gli avvenimenti, sì che persino le situazioni
più lontane dalla realtà presentate dalle fonti
acquistano una connotazione verisimile.
Alla ricchezza della materia e all'equilibrio raggiunto dalla
concezione ideale dello scrittore si adegua dappertutto la pienezza
e maturità dello stile. Sintassi e lessico si distendono con
inusitata libertà di movenze nelle direzioni più
varie. Ai modi alti e modulati, alle strutture complesse della prosa
d'arte, si affiancano ora e si alternano nuove invenzioni formali,
attingendo quando occorre all'arguto motteggiare e alla
vivacità ellittica del parlato cittadinesco, non respingendo
neppure in taluni casi le risorse espressionistiche del dialetto o,
come nella novella di Belcolore (VIII, 2), le forti coloriture della
satira villanesca. Nasce così la meravigliosa prosa del
Decameròn (che non può esser valutata in astratto,
come pure troppo spesso si fece nel corso dei secoli, ora lodandola
come un modello infallibile, ora deprezzandola come una norma
artificiosa, ma sempre fuori del suo contesto storico): quella prosa
insieme riposata e scorrevole, sostenuta senza inutili lentezze,
robusta e agile, artisticamente elaborata ma in nessun punto
scolastica, flessibile varia e pronta ad assecondare le diverse
intonazioni comiche o drammatiche, elegiache o patetiche, umili o
solenni del racconto. Così ricca ed intensa era stata
nell'autore del Decameròn la ricreazione poetica di una
civiltà, la quale contiene in germe tutto lo sviluppo della
storia moderna, che l'Europa intera (da Chaucer a Margherita di
Navarra, da Hans Sachs all'Ariosto e al Bandello, da Shakespeare a
La Fontaine) poté lungamente riconoscersi in essa e muoversi
a suo agio in quell'orizzonte di idee e di sentimenti e ricavarne
infiniti spunti per nuove creazioni fantastiche.
Corbaccio. Questo romanzo in prosa, che è l'ultima delle
opere d'invenzione del B., già rispecchia il mutamento delle
sue posizioni ideali e il nuovo orientamento della sua cultura, che
caratterizzano l'ultimo ventennio della sua vita. La data della
composizione sembra da assegnare al 1355; mentre non persuade la
recente proposta di spostarla addirittura al '66 e anche più
in là. All'esaltazione spregiudicata dell'amore e della donna
si sostituisce qui un acre spirito misogino (che riprende gli
argomenti di una lunga tradizione, da Giovenale a s. Girolamo) e la
condanna risoluta della passione: a ciò allude, secondo una
recente e suggestiva ipotesi, il titolo stesso, per altro oscuro e
variamente interpretato, del libro: nei bestiari, il corvo, che
toglie alle carogne di cui si nutre prima gli occhi e poi il
cervello, è simbolo dell'amore che accieca l'uomo e lo fa
impazzire. Il protagonista, che parla in prima persona, racconta
d'essersi innamorato di una bella vedova, la quale non solo ha
respinto le sue profferte, ma si è fatta beffe di lui anche
in pubblico, schernendo la sua età ormai matura e la sua
origine plebea. Dapprima disperato, fino al punto di meditare il
suicidio, ha poi lasciato a poco a poco prevalere nel suo animo il
risentimento, l'orgoglio della sua dignità oltraggiata e il
desiderio della vendetta. In sogno gli è apparso il defanto
marito della donna, e gli ha svelato la natura reale di lei,
corrotta e disonesta sotto una falsa parvenza di nobiltà,
laida e ripugnante dietro una maschera di bellezza. Il libro si
conclude in un proposito di distacco dalla travagliata esperienza
amorosa, nella scelta di una vita nuova, tutta dedita al culto degli
studi che perfezionano l'uomo. Notevole è ancora l'attenzione
dedicata allo stile, cui l'acredine polemica e l'intento moralistico
forniscono di volta in volta accenti di crudo e vigoroso realismo
ovvero di amara eloquenza. Ma il libro resta soprattutto importante
come documento di una conversione: mentre ancora nel proemio alla
quarta giornata del Decameròn le muse sono ragguagliate alle
donne, qui le "Ninfe Castalidi" sono contrapposte alle "malvagie
femmine".
Rime. Un'attività di poeta lirico fu coltivata dal B. lungo
tutto il corso della sua vita, dalla prima giovinezza agli ultimi
anni; ma rimase marginale. Lo scrittore non pensò mai a fare
una scelta e una raccolta delle sue rime; e la tradizione
manoscritta che ce le ha conservate parzialmente è, almeno in
taluni settori, tarda ed infida: nelle sillogi più copiose si
sono infiltrati abbastanza presto componimenti sicuramente apocrifi;
e per un gruppo numeroso di sonetti le indicazioni dei codici
lasciano persistere il dubbio se si debba considerarli del B. o
accoglierli invece tra le "extravaganti" del Petrarca: ne deriva in
molti casi un problema grave di attribuzioni, difficilmente
risolubile in base a criteri soltanto oggettivi. Del resto, anche
per le rime di più certa autenticità, il valore
letterario non è grande. Nelle più antiche si avverte
l'imitazione degli epigoni dello "stil novo" e delle "petrose" di
Dante; più tardi prende il sopravvento il modello del
Petrarca; ma dovunque persistono scorie prosaiche, un certo impaccio
formale, una riluttanza non mai del tutto vinta alle strutture
metriche, una fastidiosa contaminazione di modi aulici e mediocri.
Di ciò s'erano accorti già i letterati del
Cinquecento, e il Salviati, per esempio, avvertiva che il B. "non
fece mai verso che avesse verso nel verso". La materia, che, nelle
prime e più numerose rime, è amorosa o galante, si
volge nelle ultime a temi morali e polemici; ma i risultati migliori
son da cercare nelle sezioni idilliche e descrittive: nei sonetti
sui diporti di Baia (che per altro cedono, per vigore
rappresentativo, alle pagine di analogo argomento della Fiammetta);
in certe ballate e madrigali per musica, che ci riportano ai modi
leggeri e preziosi dell'ars nova fiorentina, e furono di fatto
intonati dai più celebri maestri di quella scuola, da Lorenzo
di Firenze a Niccolò da Perugia. In siffatte poesie è
da rintracciare un primo avvio a quello che è il momento
più felice del B. lirico, rappresentato dalle ballate incluse
nel Decameròn.
Buccolicum carmen. Le sedici ecloghe del B. prendono posto
nell'effimera rifioritura della tradizione bucolica, iniziata nel
primo Trecento con le prove di Dante e di Giovanni del Virgilio e
proseguita più tardi dal Petrarca e da alcuni minori, e del
genere serbano la caratteristica essenziale, che è la
rappresentazione di eventi autobiografici e storici in modi
allegorici e allusivi. Composte in diversi tempi e per diverse
occasioni, dal 1351 in poi, le ecloghe furono corrette e ordinate
solo nel 1367 in un libro, dedicato a Donato degli Albanzani. I
riferimenti e le allusioni inerenti al testo restano spesso oscuri e
difficilmente decifrabili, specie nei componimenti che toccano delle
vicende del Regno e della corte angioina dopo la morte di Roberto e
durante il governo di Giovanna I (III-VI), o delle condizioni di
Firenze (VII, IX): né a diradare tali oscurità giova
molto la tarda epistola esegetica dell'autore a fra' Martino da
Signa. Notevoli sono le ecloghe XII, XIII e XV, che documentano il
nuovo avviamento della cultura e della spiritualità dello
scrittore in senso umanistico, sotto lo stimolo e con il soccorso
dell'esempio petrarchesco. Ma la sola che si distingua per un certo
fervore sentimentale, se non proprio poetico, è la XIV
(Olympia), che è un lamento e una meditazione ispirata dalla
morte precoce della prediletta figlia Violante.
De casibus virorum illustrium. Di questa opera la tradizione
manoscritta ci ha conservato due redazioni ben distinte, di cui la
prima risale agli anni 1356-1360; la seconda, più ampia e
tutta rielaborata e dedicata all'amico Mainardo Cavalcanti, è
del 1373. In nove libri l'autore vi raccoglie, con evidente intento
morale, biografie di personaggi illustri, da Adamo ai suoi
contemporanei, che, dopo esser stati singolarmente favoriti dalla
fortuna, furono alla fine precipitati per la loro follia e il loro
orgoglio in un abisso di miseria. L'impianto erudito-moralistico
dell'opera ne giustifica la straordinaria fortuna negli ambienti
umanistici e paraumanistici europei durante tutto il Rinascimento e
fino alle soglie del XVIII secolo, fortuna attestata dalle numerose
edizioni e dalle versioni italiane, francesi, inglesi, spagnole,
tedesche. Le notizie storiche sono attinte a cronache e repertori
medievali, da Paolo Diacono a Paolino Minorita, e trovano un preciso
riscontro negli abbondanti materiali raccolti in alcune sezioni del
cosiddetto Zibaldone autografo magliabechiano. Per il lettore
moderno sono di maggiore interesse i capitoli dedicati a fatti e
persone degli ultimi tempi, come la descrizione della persecuzione
dei Templari, il ricordo di Carlo I d'Angiò, la tragica fine
di Filippa di Catania favorita della regina Giovanna, il quadro
dell'esecrata tirannide del duca d'Atene: sono pagine in cui
sopravvive, e si fa strada faticosamente fra i pesanti paludamenti
di una pur sincera eloquenza moralistica, almeno un'ombra
dell'antico gusto narrativo e aneddotico.
De mulieribus claris. La prima stesura di quest'opera è da
assegnare al 1361; la seconda, riveduta e ampliata per dedicarla ad
Andrea Acciaiuoli, sorella del siniscalco Nicola e contessa di
Altavilla, è del 1362; qualche aggiunta più tarda e i
segni di una successiva revisione formale sono registrati in un
tardo autografo dello scrittore, oggi alla Laurenziana. Il libro
è dunque pressoché contemporaneo al De casibus
nell'ideazione, come gli è affine nell'impianto e nello
spirito, e ne condivise in parte la fortuna. Comprende, da Eva alla
regina Giovanna (incluse anche le figure mitiche e poetiche, ma
escluse quelle bibliche e le sante cristiane), centoquattro
biografie di donne famose per le loro virtù o anche
tristemente note per le loro scelleratezze. Gli storici (da Livio a
Tacito, a Valerio Massimo), i poeti (soprattutto Ovidio), i tardi
compilatori e i cronisti medievali, in qualche caso anche i ricordi
personali dell'autore, forniscono la materia ai racconti. L'intento
moralistico si affaccia qua e là, in forma di chiosa o di
riflessione in margine ai fatti narrati, ma sarebbe arduo attribuire
un proposito edificante al libro nel suo complesso; che è
piuttosto da considerare come una fiorita di novelle, o meglio di
schemi e abbozzi di novelle, dove, ancor più che nel De
casibus, sopravvive l'inclinazione fantastica del primo Boccaccio.
Qualche biografia, come quella della sciocca Paolina romana che
crede di giacere con il dio Anubi, ha proprio il taglio e l'andatura
della novella; altre sono riprese di favole poetiche, come quelle di
Europa, di Tisbe, di Jole; altre ancora, brani di storia mossa e
pittoresca, come i ritratti dell'eloquente e fiera Camiola, della
"buona Gualdrada", della papessa Giovanna, dell'imperatrice
Costanza.
Genealogia deorum gentilium. Anche di questa, che è la
più importante fra le scritture erudite del B., esistono
più redazioni: la composizione, ideata e intrapresa
già prima del '50, approdò, fra il '63 e il '66, ad
una prima stesura, testimoniata da un autografo laurenziano; ma fu
poi ripresa, corretta e arricchita fra il '71 e il '74 e condotta
alla sua forma definitiva, quale risulta da alcuni manoscritti e
dalle prime stampe. In quindici libri vi è raccolto, con
ordine e con metodo, un immenso repertorio di notizie sui miti
antichi, attingendo alle fonti più diverse, talune anche
rare, allineando le testimonianze e sforzandosi di classificarle e
di accordarle dove divergono o si contraddicono, spesso anche
tentando di offrire delle varie leggende una interpretazione, che
può essere di volta in volta storica, o naturalistica, od
allegorica. Il trattato fornì per parecchi secoli un prezioso
sussidio agli studiosi della poesia e dell'arte antica e godette,
come tale, di una lunga e vasta fortuna. Per il lettore moderno sono
importanti specialmente i due ultimi libri, di contenuto più
personale e di intonazione vivacemente polemica. Il XIV spiega che
cosa sia la poesia e la difende contro i suoi detrattori: poesia
è un certo fervore di immaginare ed esprimere le cose
immaginate in forma alta e squisita; è ispirazione che viene
da Dio ed è anima del mondo, perché essa arma e
stimola gli eroi, descrive cielo terra e mari, inghirlanda le
vergini, rianima i fiacchi e modera gli audaci, perseguita i rei ed
esalta i virtuosi; considerata nei suoi mezzi è arte e
perfezione rettorica, nell'intimo è verità esposta
sotto il velame delle immagini e delle parabole di cui si serve. Gli
ignoranti la disprezzano, ma il biasimo sulla loro bocca si risolve
in lode; i giuristi la condannano perché non arreca lucro, ma
in ciò appunto è il suo merito, di non rivolgersi
all'acquisto dei beni caduchi, sì all'eterno e al divino; i
teologi la giudicano pericolosa e bugiarda, e non s'accorgono che
essa fa tutt'uno con la teologia: nacque con Mosè, vive nel
linguaggio dei profeti e nelle parabole bibliche, negli autori
stessi della paganità divenne strumento per un intendimento
più alto e più vero delle cose, e come tale fu
apprezzata e citata anche dai padri della Chiesa. Il B. riprende,
ordina ed amplia gli argomenti già adoperati nelle loro
polemiche contro i teologi e i giuristi dal Mussato e poi dal
Petrarca; soprattutto li anima di un caldo fervore, li illumina alla
luce di una convinzione profonda del valore e della funzione
educativa e religiosa della poesia, e li trasmette, con tutta la
carica umana e combattiva del suo entusiasmo, al Salutati e agli
altri trattatisti dell'umanesimo quattrocentesco. Nel XV libro si
difende contro l'accusa d'aver rivolto la sua attenzione a una
materia frivola e vana: proprio per merito delle sue ricerche, si
rivelerà in tutta la sua grandezza la sapienza degli antichi
poeti, in cui risplende una visione precorritrice della
verità cristiana. Accanto agli antichi, esalta gli scritti
dei moderni letterati e poeti, in particolare di Dante e del
Petrarca; e si vanta d'aver accresciuto il patrimonio della cultura
classica, introducendo per primo nell'Occidente la conoscenza
diretta degli autori greci.
Scritti danteschi. Il culto dell'opera dell'Alighieri riempì
di sé tutta la vita del B., e si coglie non tanto nella
costante presenza nelle sue opere di moduli e invenzioni di stampo
dantesco, quanto soprattutto nella sua attività indefessa di
trascrittore paziente della Commedia, della Vita nova, delle rime e
dei testi latini del poeta: per alcune sezioni del corpus
dell'Alighieri - le ecloghe, certe epistole - egli è il solo
ad averle trasmesse fino a noi. Frutto della sua estrema vecchiaia
sono le Esposizioni sopra la Commedia, che non vanno oltre il XVII
dell'Inferno: opera prolissa e diseguale, che alterna pagine vivaci
e penetranti con digressioni scolastiche e pedantesche, e dà
spesso l'impressione di una raccolta provvisoria di materiali, che
attendano di essere rifiniti ed elaborati. Più importante
è il Trattatello in laude di Dante, di cui ci son giunte tre
redazioni: una più ampia, composta fra il '57 e il '62; le
altre due (assai vicine fra loro), adattate posteriormente in forma
più breve e compendiosa. Più che una raccolta di
fatti, è una biografia spirituale, in cui Dante è
assunto a simbolo della poesia stessa, immagine incarnata del
concetto di poesia-teologia, già esposto nella Genealogia e
qui ripreso in pagine eloquenti. Il criterio d'interpretazione
è fornito dallo spirito della nascente civiltà
umanistica: e perciò, mentre dell'Alighieri si esaltano lo
spirito magnanimo e gli assidui studi dei classici, gli si
rimprovera invece la soverchia passione politica e la
faziosità partigiana, e si sente il bisogno di avanzare
valide giustificazioni per non aver scritto il suo poema in metro
latino.
Epistole e altri scritti minori. Come delle rime, il B. non volle
curare la raccolta delle sue lettere: i manoscritti ce le hanno
conservate solo in piccola parte, meno di trenta, di cui alcune
frammentarie e due tradotte in volgare. Le più antiche sono
mere esercitazioni letterarie, compilate secondo le norme dell'ars
dictandi, contutti gli artifici che essa comportava e l'uso del
cursus, sulla traccia degli ammirati esempi di Dante, complicati
dall'imitazione di Apuleio. In seguito, nelle epistole vere e
proprie, sottentra, sul modello del Petrarca, un modo di espressione
più sciolta e moderna. Fra le altre acquistano rilievo le
poche dirette appunto all'amico aretino, piccolo relitto di una
corrispondenza che dovette essere senza dubbio ben altrimenti ricca
ed assidua. Notevole per la sua violenza espressiva, ai limiti della
caricatura, le lettera al Nelli contro l'Acciaiuoli. A parte sta la
citata consolatoria a Pino de' Rossi, che è un vero e proprio
trattato ampiamente svolto in forme di vigorosa ed elaborata
eloquenza.
Scarso rilievo hanno le altre minori scritture del certaldese. Agli
anni delle prinie esercitazioni rettoriche, accanto alle prime
epistole, appartengono il centone ovidiano in prosa noto sotto il
titolo di Allegoria mitologica, nonché il carme più
antico, la cosiddetta Elegia di Costanza, pallido ricalco del famoso
epitaffio, di Omonea. Accanto al quale saranno da ricordare gli
altri carmi più tardi a Checco di Meletto Rossi, al Petrarca,
a Zanobi; e le prose minori: De vita et moribus domini Francisci
Petracchi,Vita sanctissimi patris Petri Damiani eremite; e i cenni
su Tito Livio. Più importanti, se non altro per l'influsso
che poterono avere sulla formazione del prosatore, sono i
"volgarizzamenti", ormai attribuiti con sicurezza al B., della terza
e della quarta deca di Livio; mentre non è sorretta da
argomenti veramente persuasivi la più recente proposta di
attribuirgli anche il volgarizzamento trecentesco di Valerio
Massimo. Da citare infine il De montibus, lacubus, fluminibus,
stagnis et paludibus, et de nominibus maris, sorta di dizionario dei
nomi geografici che s'incontrano negli scrittori classici e moderni.