da
http://cartescoperterecensionietesti.blogspot.it/2012/02/la-figura-dellintellettuale.html
Roberto Bertoni
LA FIGURA DELL’INTELLETTUALE CONTEMPORANEO CON RIFERIMENTI AD
ARCHETIPI NOVECENTESCHI
[PARTE I]
Nelle due parti di questo scritto (la seconda sul prossimo numero di
"Carte Allineate") si esprime qualche idea sulla cosiddetta “fine
dell’intellettuale”, l’organicità gramsciana, il rapporto del
dibattito odierno con archetipi del Novecento.
1. Fine dell’intellettuale?
In un articolo recente, Renato Ventura esamina elementi della
situazione degli intellettuali [1]. Il punto iniziale è la
fine della figura dell’intellettuale, tema su cui l’autore
dell’articolo non è solo: si tratta infatti di una concezione
ripetuta negli ultimi anni.
Pur sentendosi dalla stessa parte di Ventura e trovandosi in accordo
con varie idee espresse nel suo saggio, si discorda dalla fine degli
intellettuali perchè colpisce semmai il fatto che, mentre la
figura dell’intellettuale si modifica col cambiamento sociale,
soprattutto a contatto con la società di massa, resiste
invece il tipo di intellettuale che si sforza di dare voce alla
differenziazione dalle ideologie dominanti.
Quindi, nel notare come queste stesse ideologie abbiano interesse a
produrre un intellettuale ligio al potere e sottoposto ai mass
media, e nella consapevolezza che il compromesso e la
subalternità svolgono ruoli importanti, con variazioni a
seconda delle epoche e delle soggettività protagoniste del
campo culturale, occorre nondimeno riscontrare la resistenza a tali
strategie, tenendo presente tra l’altro il fatto che gli
intellettuali come gruppo sociale presentano contraddizioni.
Se si tiene conto delle analisi di Pierre Bourdieu, un
distanziamento dal potere è anzi proprio del ceto
intellettuale quando venga messo a confronto con richieste troppo
unilaterali e pressanti. Secondo Bourdieu, l’intellettuale ha
necessità di un livello elevato di autonomia; e coloro che si
dedicano a questa professione tendono a esprimere distacco dalle
logiche più sfrenate del potere politico ed economico, con
maggior evidenza nei poeti e meno naturalmente in chi lavora in
territori più connessi coi temi dell’attualità [2].
Muovendo, sulla scorta di questa considerazione, dai più
evidenti episodi di asservimento massmediatico (poniamo chi nell’era
berlusconiana ha scritto articoli ideologici per il quotidiano “Il
Giornale”; o si è trovato a lavorare nella conduzione di
spettacoli televisivi condizionati da aspettative di sostegno al
governo, visto che in casi eclatanti chi era in posizione critica
veniva licenziato), e dalle posizioni indipendenti senza prese di
parola, per trasferirsi sul terreno dell’opposizione, si pensi
all’attività di riviste di buona qualità culturale e
acute ideologicamente: si vedano, tra quelle letterarie,
“Allegoria”, “L’Immaginazione”, “La Libellula”, o, tra quelle
più generalmente di politica e scienze umane, “Micromega” e
“Alfabeta 2”. Ci si trova qui nel campo dell’impegno propriamente
detto, che negli ultimi decenni ha rivendicato l’appartenenza a un
campo ideologico democratico pur senza necessariamente schierarsi a
fianco di un partito, dopo la crisi dei grands récits (per
ricollegarsi a Jean-Francois Lyotard) [3]. In breve, la resistenza e
il non conformismo ci sono stati e perdurano.
2. L’organico gramsciano
Un secondo punto è il concetto di organicità, derivato
da Antonio Gramsci, uno degli archetipi novecenteschi della
definizione degli intellettuali [4]. Più precisamente,
partendo da interventi di Luperini del 2004 e del 2006, Ventura
riscontra che “rielaborando l’idea di Gramsci sull’intellettuale
organico, oggi sembra di assistere alla nascita di un intellettuale
inorganico, nato dalla melma dell’informazione manipolata e
dall’assenza di impegno e responsabilità” [5].
Sebbene sia chiaro quanto vada inteso col termine “inorganico”,
andrebbe precisato che tale atteggiamento è in realtà,
stando a Gramsci, il contrario, cioè “organico”. Negli
scritti del dirigente comunista, infatti, i gruppi sociali producono
i propri intellettuali “organici” dal terreno della produzione
economica e affidano loro il compito di compattare e trasmettere le
ideologie. Questi intellettuali esercitano le proprie
attività coscientemente, a differenza degli intellettuali
definiti “tradizionali”, i quali si ritengono autonomi e credono
nella cultura come separata dalle strutture economiche, pur essendo
anch’essi inconsapevolmente tramiti di trasmissione delle ideologie
(nel periodo in cui Gramsci scriveva, per esempio, i valori
dell’accettazione della situazione sociale com’essa era, la condanna
della lotta di classe e così via).
Applicando a tempi recenti, se la classe dominante produce
l’ideologia del disimpegno, della distorsione dei fatti e della
festa carnevalesca o volgare, come è successo nell’immagine
proiettata dai mass media, ciò gramscianamente non sarebbe un
caso, bensì una funzione della perpetuazione del dominio. Gli
intellettuali che si siano prestati al gioco si potrebbero designare
in questo contesto di interpretazione come organici a destra. In
tale caso, utilizzando un altro concetto gramsciano, si potrà
parlare di egemonia. Se Berlusconi lamentava a fini propagandistici
che l’egemonia sul terreno culturale era stata della sinistra per un
periodo del Novecento, prendendo questa dichiarazione come fatto
oggettivo si potrà dire che su certi campi ciò
è stato vero; ma anche che fin dagli anni Novanta la destra
ha rilegittimato origini e perpetuità di un proprio progetto
di egemonizzazione culturale, rilanciandole nell’arena del dibattito
e ottenendo consensi (un solo esempio il revisionismo delle
interpretazioni del fascismo o la reinterpretazione di Mussolini
come statista anziché dittatore).
C’è da domandarsi, tuttavia, se, al di fuori del settore dei
media e degli apparati di stato, funzionali al potere, siano stati
davvero tanti tra i letterati coloro che hanno sostenuto la
reinvenzione della cultura di destra o la banalizzazione di
tematiche e l’omologazione degli stili in funzione delle forme
massificate di circolazione dei prodotti dell’immaginario.
L’impressione è che, nell’àmbito delle neoideologie
degli anni 1994/2011, molti intellettuali umanisti italiani se ne
siano distanziati. Pensando agli autori di prosa, se è vero
che alcuni fenomeni commercializzati hanno preso campo e c’è
stata una riduzione dell’impatto sperimentale sui linguaggi, si sono
però affermati o hanno continuato a produrre scrittori di
buon valore letterario e non compiacenti nei confronti del potere,
per esempio Abate, De Marchi, Fois, Mari, Mazzucco, Moresco, Rea,
Scurati, Vassalli, Veronesi.
NOTE
Intervento per “Italian studies in Ireland. One-day research
colloquium”, Cork, 3-2-2012).
[1] . “R. Ventura, GLI INTELLETTUALI NELL’ITALIA BERLUSCONIANA.
APOCALITTICI O INTEGRATI?, “La Libellula”, 3, 2011, pp. 48-56.
[2] P. Bourdieu, THE FIELD OF CULTURAL PRODUCTION: ESSAYS ON ART AND
LITERATURE, Cambridge, Polity, 1993, pp. 29-73.
[3] J.-F. Lyotard, LA CONDITION POSTMODERNE, Parigi, Éditions
de Minuit, 1979.
[4] A. Gramsci, SELECTIONS FROM THE PRISON NOTEBOOKS OF ANTONIO
GRAMSCI, London, Lawrence and Wishart, 1971.
[5] R. Ventura, GLI INTELLETTUALI..., cit., p. 49.
[PARTE II]
3. Benda, Sartre, Orwell, Bobbio
Preme ora l’idea dell’intellettuale come “guida”, che sembrerebbe
tornare a un altro degli archetipi del Novecento di interpretazione
della figura degli intellettuali, ovvero a Julien Benda [1], il
quale mette in rilievo un’aura di sacralità e di rispetto
degli operatori culturali, li considera depositari altruisti del
sapere come pure dell’imparzialità, cioè capaci di
elevarsi al di sopra delle parti. I “chierici” bendiani sarebbero in
grado di consigliare la società, indirizzandola verso ideali
di giustizia, libertà, pace. Il tradimento consiste
nell’avere aderito ai partiti politici invece di mantenere una
distanza obiettiva dalle passioni ideologiche, al particolare a
scapito dell’universale, al culto del successo anziché ai
valori spirituali (alla “cronaca”, insomma, e non a più
valide considerazioni di lungo periodo, cioè alla “storia”,
per usare termini che, con affinità nei confronti di Benda,
impiegava Elio Vittorini). Se questa visione delle cose è
agli antipodi degli intellettuali organici gramsciani, nondimeno
Benda non ritiene che l’intellettuale debba essere neutrale,
bensì che si debba rapportare ai problemi con idealità
piuttosto che con faziosità. Si direbbe che alle spalle del
termine “intellettuale” come lo si adopera oggi ci sia questo tipo
di umanista, specie quando se ne lamenta la scomparsa, rivelando
così, probabilmente, nostalgia per l’enciclopedismo
premediatico.
Colpisce in ogni caso che, in tanti scritti degli ultimi anni sugli
intellettuali, riaffiorino gli archetipi definitori del Novecento,
pur se non sempre citati. Non soltanto Gramsci e Benda, ma anche
altri, e non sono pochi, potremmo indicare almeno Jean-Paul Sartre e
George Orwell.
Sartre rappresenta per antonomasia il modello dell’impegno. La
definizione sartriana di écrivain engagé è
fondata sull’idea di “responsabilità” in opposizione alla
“tentazione dell’irresponsabilità”, in cui prima o poi cadono
gli scrittori “di origine borghese”. L’opposizione è contro
l’inutilità dell’arte per l’arte, mentre la cultura deve
avere come scopo quello di “produrre cambiamenti nella
società che ci circonda”[2]. Pare questa un’altra
connotazione dell’intellettuale che si presume “finito” da parte di
alcuni partecipanti al dibattito odierno che adoperano il termine in
maniera fluttuante, senza cioè definirlo nei particolari.
Sono dunque l’engagement e la responsabilité, dati per
conclusi, un’ulteriore rimozione, una nostalgia, ancora una volta,
per ciò che si sarebbe perso e non si potrebbe recuperare?
Altro addentellato del termine oggi oscillante è quello della
ricerca della verità. Per questa ragione, in materia di
archetipi, si è nominato Orwell: per ribadirne non tanto la
politicità consapevole[3], quanto la ricerca della
verità, ciò che egli definisce “historical impulse.
Desire to see things as they are, to find out true facts and store
them up for the use of posterity” [4]. Venendo poi ai capisaldi
più strettamente italiani del secolo scorso, gli archetipi
sartriano e orwelliano sono riscontrabili sotto spoglie simili in
parecchi autori del Novecento. Per limitarsi a tre nomi illustri:
Vittorini, già citato sopra per una compatibilità con
Benda, è paragonabile in parte a Sartre, con cui del resto
collaborò, per il rapporto tra individuo e potere; e la
verità intesa in quanto concetto essenziale si ritrova con
energia in Leonardo Sciascia e Norberto Bobbio. Ci si sofferma
brevemente su quest’ultimo, per ricordare che, richiamandosi a
Romain Rolland, e differenziandosi decisamente da Orwell e Sartre,
egli designava l’uomo di cultura come “al di sopra della mischia”
[4]. Il suo compito, scrive però Bobbio in sintonia proprio
con Orwell, è di essere “custode della verità” [5],
nonché, e qui elabora la propria variante, “quello di
seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze” dato che
“cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare
tutti gli argomenti prima di pronunciarsi; controllare tutte le
testimonianze prima di decidere; e non decidere mai a guisa di
oracolo dal quale dipenda in modo irrevocabile una scelta perentoria
e definitiva”; superando la “figura romantica del filosofo-profeta”,
quindi anche del “chierico” alla Benda [6], per agire invece “con
molta cautela” ed esprimendo perplessità più che
certezze [7]. Il concetto di perplessità, prossimo a quello
di relatività culturale, sembrerebbe anticipare le
modalità del versante progressista del “pensiero debole”, di
cui si è tornati a parlare per una discussione in corso tra i
sostenitori di tale corrente, impersonata da Gianni Vattimo, e chi
fa riferimento alle ideologie definitive del cosiddetto “new
realism” sotto le insegne di Maurizio Ferraris [8].
Le idee dei vari autori sopra citati del Novecento, stranieri e
italiani, non sono morte, dato che le analisi del secondo millennio
si pongono in continuità conscia o inconscia con le diagnosi
del secolo scorso, malgrado la discussione sia condotta anche con
concetti diversi. Vediamo allora qualcuna delle interpretazioni che
dai paradigmi del passato deviano per muovere in direzione delle
novità sociologiche.
4. Oggi
Come modello di intellettuale in positivo, secondo Ventura, “tra gli
intellettuali che più si sono impegnati nello scuotere gli
ultimi rimasugli della società civile italiana c’è
Vincenzo Consolo” [9]. La conclusione è che “il ruolo
dell’intellettuale sembra essere rimasto solo uno: togliere il velo
dagli occhi dei votanti ‘telestupefatti’, come ha detto Consolo, e
costringerli a guardare dove non vogliono guardare” [10],
promuovendo una più autentica democrazia. Sicuramente si
concorda con questa scelta, anche commemorando ora in positivo, come
merita con evidenza, Consolo a distanza tanto breve dalla scomparsa.
Fa eco a Consolo un’affermazione del 2009 di Alberto Asor Rosa:
“Bisogna chiedersi se siamo dinanzi alla liquidazione delle forme
tradizionali della cultura intellettuale o all’esaurimento della
funzione intellettuale tout court. Io propenderei per la prima
ipotesi. Sono persuaso che sia andata chiudendosi in questi decenni
una storia intellettuale cominciata sotto i Lumi e protrattasi fino
agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sia pure con le
tragiche fratture dei totalitarismi nazifascista e comunista.
Mutamenti colossali sono intervenuti in tutto l’Occidente; l’Italia,
come spesso è accaduto, rappresenta un laboratorio
particolare. È finita una lunga storia intellettuale, ma non
la possibilità di un esercizio critico dell’intelligenza,
anche se oggi è più difficile vederne le
manifestazioni” [11].
Ci sono insomma queste manifestazioni nei testi degli ultimi dodici
anni? La generazione giovane presenta ancora intellettuali
impegnati? Luperini, pur constatando che i letterati engagé
di spessore artistico non sono frequenti come quelli esistiti fino
agli anni Settanta (tra cui Pasolini, Fortini, Sciascia), indica
Roberto Saviano tra gli altri contemporanei.
Riguardo la polemica su GOMORRA, si è già avuto
occasione di intervenire a sfavore della tesi di Alessandro Dal
Lago, secondo il quale l’autore napoletano sarebbe subalterno al
potere dominante in quanto agirebbe nell’ambito del narcisismo
protagonistico di stampo berlusconiano sebbene sia diversamente
collocato sul piano ideologico [12]. In contrasto con questa idea,
ci si limita a notare che non si capisce che cosa debba fare di
più un autore per non essere denigrato oltre a mettere a
repentaglio la propria vita per aver indicato in un’opera scritta i
nomi di capi camorristi e averne dettagliatamente descritto le
azioni. Non si tratta di una modalità di impegno assimilabile
a quelle tradizionali?
C’è frattanto anche qualcosa di inedito, perché
è vero che GOMORRA ha avuto un ampio successo editoriale; e
in ciò risiede uno dei temi elaborati in questi anni: il caso
di Saviano dimostra che una pura presa di distanza dai mass media
non è ormai produttiva. Occorre criticarli, ma anche
intervenire al loro interno. Vanno utilizzati perché i
lettori ne fruiscono e perché nel loro sviluppo hanno
prodotto tecniche ben articolate, così le narrazioni dei
fumetti, il cinema, i giochi elettronici, le serie televisive. Al
contempo vanno deprivati delle negatività manipolanti che
possiedono, delle ideologie alienanti, violente, sciocche, come
sostengono i rappresentanti del collettivo di scrittura Wu Ming in
un modo che pare adatto ai tempi e ai compiti dell’intellettuale nel
presente [13].
Un altro aspetto del presente, di cui tenere conto partendo ancora
dagli archetipi novecenteschi, è la professionalizzazione:
ricordiamo qui le anticipazioni di Max Weber sul lavoro accademico
come attività specialistica, “posta al servizio della
coscienza di sé e della conoscenza di situazioni di fatto, e
non una grazia di visionari e profeti, dispensatrice di mezzi di
salvazione e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di
saggi e filosofi sul significato del mondo” [14]. Il fattore
professionale, in parte collegabile anche alle prefigurazioni di
Gramsci, è stato ripreso e attualizzato per analizzare gli
intellettuali di oggi. È Marco Tarchi a specificare che, dal
punto di vista numerico, si è assistito a una forte crescita,
dovuta non tanto alla scolarizzazione quanto alla proliferazione
degli strumenti di espressione delle idee come i media e il web
[15]. Risulta dalle inchieste che i nuovi intellettuali italiani
sono impiegati meno nelle università e nelle case editrici
che nei mass media. Sul piano dello status, la partecipazione ai
talk shows, e in generale la visibilità nel mondo delle
comunicazioni di massa, ha dato loro prestigio. Tutto ciò ha
influito sul rapporto con la politica. Il discredito delle ideologie
ha portato gli intellettuali in direzione dei diritti dell’uomo e di
altri temi etici invece di vertere sulle fedeltà di partito
proprie di alcuni decenni del Novecento. I toni della denuncia,
insomma, non sono scomparsi, ma si sono adattati a nuovi bersagli
con modalità aggiornate.
In relazione a questi aspetti Luperini, in un intervento del 2007
[16], distingue tra “funzione” e “ruolo” degli intellettuali:
“La forbice, e la contraddizione, fra funzione e ruolo, presente in
ogni lavoro intellettuale, tende a contrarsi, risolvendosi a
vantaggio del secondo.
Il ruolo si definisce in un ambito immediatamente sociale. Coincide
con la mansione assegnata dalle istituzioni, siano esse gli apparati
scientifici ed educativi di uno stato, il sistema delle pubbliche
comunicazioni, un ente o una azienda privata, o il governo stesso di
una nazione. Comporta un sapere, un insieme di competenze
specifiche, in cambio di uno stipendio; implica dei finanziamenti
pubblici o privati per la ricerca; uno status, dei compiti, anche
burocratici, e la collocazione in una gerarchia. Da questo punto di
vista l’intellettuale è sempre anche un funzionario.
La funzione si colloca invece in un ambito antropologico e storico.
Coincide con una attività intellettuale che segue la propria
logica, aspira a una purezza priva di condizionamenti e tende
perciò a scavalcare la dinamica delle istituzioni e degli
enti concreti per obbedire solo all’etica della ricerca e per
rivolgersi non a un committente preciso ma ai destini generali
dell’umanità intera.
[...] Negli ultimi decenni la tendenziale scomparsa
dell’intellettuale è anche riduzione o annullamento della
funzione e progressivo trionfo del ruolo”.
Concludendo, è vero che in Italia c’è stata una
perdita di status sociale e una maggiore professionalizzazione degli
intellettuali, che è andata di pari passo, a partire dagli
anni Ottanta, con una variazione delle ideologie. Ciò non
significa che la figura stessa dell’intellettuale sia deperita al
punto di scomparire. Forse il ruolo, se meditato con intelligenza,
può esso stesso produrre funzioni che rivalutino le dinamiche
culturali e si confrontino costantemente con quelle sociali,
mantenendo una modalità di stimolo, di interpretazione del
reale, di intervento per modificare gli stati di cose
insoddisfacenti.
NOTE
[1] J. Benda, THE TREASON OF THE INTELLECTUALS (LA TRAHISON DES
CLERCS, 1927), Londra - New York, 1982.
[2] J.-P. Sartre, Présentation des “Temps Modernes” (1948),
in SITUATIONS, II, Parigi, Gallimard, 1948, pp. 7-30.
[3] “No book is genuinely free from political bias. The opinion that
art should have nothing to do with politics is itself a political
attitude”. Anzi, la politica conferisce anche qualità
estetiche a ciò che si scrive: “it is invariably when I
lacked a political purpose that I wrote lifeless books” (G. Orwell,
ESSAYS, Londra, Penguin, 2000, pp. 6-7).
[4] G. Orwell, ESSAYS, cit., p. 3.
[5] N. Bobbio, POLITICA..., Torino, Einaudi, 1955, p. 132.
[6] N. Bobbio, POLITICA..., cit., p. 15.
[7] N. Bobbio, POLITICA..., cit., p. 19. Naturalmente si potrebbero
citare quanti altri, che il tempo e lo scopo dell’intervento che si
sta conducendo non permettono; si precisa infine che non è
questa la sede per riepilogare sull’impegno in generale, cosa che si
è d’altronde fatta in passato in varie occasioni. In
proposito cfr. R. Bertoni, POLITICAL AND SOCIAL COMMITMENT IN SOME
ITALIAN NOVELS IN THE 1990S, in NARRATIVA ITALIANA RECENTE - RECENT
ITALIAN NARRATIVE, ed. R. Bertoni, Dublino, Trinity College e
Torino, Trauben, 2005, pp. 9-32; e Idem, NARRATIVA DAL VENTUNESIMO
SECOLO, in SPECCHI DI REALTÀ (ASPETTI DEL RAPPORTO TRA
NARRATIVA E SOCIETÀ IN ITALIA DOPO IL 1989), ed. R. Bertoni,
Dublino, Trinity College e Torino, Trauben, 2010, pp. 23-35.
[8] Cfr. IL BLOG DI GIANNI VATTIMO per un riepilogo delle posizioni.
Un intervento in proposito dell’autore di queste note è
POSTMODERNO VS. REALISMO, O PROGRESSISMO VS. REAZIONE?, “Carte
allineate”, prima serie, 55, 2011, 7-7-2011.
[9] R. Ventura, GLI INTELLETTUALI..., cit., p. 52.
[10] R. Ventura, GLI INTELLETTUALI..., cit., p. 54.
[11] A. Asor Rosa, IL GRANDE SILENZIO. INTERVISTA SUGLI
INTELLETTUALI, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 4.
[12] A. Dal Lago, EROI DI CARTA. IL CASO GOMORRA E ALTRE EPOPEE,
Roma, Manifesto Libri, 2010. Cfr. anche la recensione dell’autore di
queste note “Carte allineate”, prima serie, 46, 2010, 15-12-2010.
[13] Wu Ming, NEW ITALIAN EPIC. LETTERATURA, SGUARDO OBLIQUO,
RITORNO AL FUTURO, Torino, Einaudi, 2009.
[14] M. Weber (1913), IL LAVORO INTELLETTUALE COME PROFESSIONE (con
una Nota introduttiva di D. Cantimori), Torino, Einaudi, 1998, p.
38.
[15] M. Tarchi, L’INTELLETTUALE MORALISTA E LA CRISI DELLA POLITICA,
“Rivista di filosofia”, 88.1, 1997, pp. 99-116.
[16] R. Luperini, LA FUNZIONE DEGLI INTELLETTUALI (Prolusione tenuta
presso l’Università di Siena, 2007).
La prima parte di questo scritto è stata pubblicata su “Carte
allineate”, 3-12-2012.