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Roberto Bertoni



LA FIGURA DELL’INTELLETTUALE CONTEMPORANEO CON RIFERIMENTI AD ARCHETIPI NOVECENTESCHI

[PARTE I]

Nelle due parti di questo scritto (la seconda sul prossimo numero di "Carte Allineate") si esprime qualche idea sulla cosiddetta “fine dell’intellettuale”, l’organicità gramsciana, il rapporto del dibattito odierno con archetipi del Novecento.


1. Fine dell’intellettuale?

In un articolo recente, Renato Ventura esamina elementi della situazione degli intellettuali [1]. Il punto iniziale è la fine della figura dell’intellettuale, tema su cui l’autore dell’articolo non è solo: si tratta infatti di una concezione ripetuta negli ultimi anni.

Pur sentendosi dalla stessa parte di Ventura e trovandosi in accordo con varie idee espresse nel suo saggio, si discorda dalla fine degli intellettuali perchè colpisce semmai il fatto che, mentre la figura dell’intellettuale si modifica col cambiamento sociale, soprattutto a contatto con la società di massa, resiste invece il tipo di intellettuale che si sforza di dare voce alla differenziazione dalle ideologie dominanti.

Quindi, nel notare come queste stesse ideologie abbiano interesse a produrre un intellettuale ligio al potere e sottoposto ai mass media, e nella consapevolezza che il compromesso e la subalternità svolgono ruoli importanti, con variazioni a seconda delle epoche e delle soggettività protagoniste del campo culturale, occorre nondimeno riscontrare la resistenza a tali strategie, tenendo presente tra l’altro il fatto che gli intellettuali come gruppo sociale presentano contraddizioni.

Se si tiene conto delle analisi di Pierre Bourdieu, un distanziamento dal potere è anzi proprio del ceto intellettuale quando venga messo a confronto con richieste troppo unilaterali e pressanti. Secondo Bourdieu, l’intellettuale ha necessità di un livello elevato di autonomia; e coloro che si dedicano a questa professione tendono a esprimere distacco dalle logiche più sfrenate del potere politico ed economico, con maggior evidenza nei poeti e meno naturalmente in chi lavora in territori più connessi coi temi dell’attualità [2].

Muovendo, sulla scorta di questa considerazione, dai più evidenti episodi di asservimento massmediatico (poniamo chi nell’era berlusconiana ha scritto articoli ideologici per il quotidiano “Il Giornale”; o si è trovato a lavorare nella conduzione di spettacoli televisivi condizionati da aspettative di sostegno al governo, visto che in casi eclatanti chi era in posizione critica veniva licenziato), e dalle posizioni indipendenti senza prese di parola, per trasferirsi sul terreno dell’opposizione, si pensi all’attività di riviste di buona qualità culturale e acute ideologicamente: si vedano, tra quelle letterarie, “Allegoria”, “L’Immaginazione”, “La Libellula”, o, tra quelle più generalmente di politica e scienze umane, “Micromega” e “Alfabeta 2”. Ci si trova qui nel campo dell’impegno propriamente detto, che negli ultimi decenni ha rivendicato l’appartenenza a un campo ideologico democratico pur senza necessariamente schierarsi a fianco di un partito, dopo la crisi dei grands récits (per ricollegarsi a Jean-Francois Lyotard) [3]. In breve, la resistenza e il non conformismo ci sono stati e perdurano.

2. L’organico gramsciano

Un secondo punto è il concetto di organicità, derivato da Antonio Gramsci, uno degli archetipi novecenteschi della definizione degli intellettuali [4]. Più precisamente, partendo da interventi di Luperini del 2004 e del 2006, Ventura riscontra che “rielaborando l’idea di Gramsci sull’intellettuale organico, oggi sembra di assistere alla nascita di un intellettuale inorganico, nato dalla melma dell’informazione manipolata e dall’assenza di impegno e responsabilità” [5].

Sebbene sia chiaro quanto vada inteso col termine “inorganico”, andrebbe precisato che tale atteggiamento è in realtà, stando a Gramsci, il contrario, cioè “organico”. Negli scritti del dirigente comunista, infatti, i gruppi sociali producono i propri intellettuali “organici” dal terreno della produzione economica e affidano loro il compito di compattare e trasmettere le ideologie. Questi intellettuali esercitano le proprie attività coscientemente, a differenza degli intellettuali definiti “tradizionali”, i quali si ritengono autonomi e credono nella cultura come separata dalle strutture economiche, pur essendo anch’essi inconsapevolmente tramiti di trasmissione delle ideologie (nel periodo in cui Gramsci scriveva, per esempio, i valori dell’accettazione della situazione sociale com’essa era, la condanna della lotta di classe e così via).

Applicando a tempi recenti, se la classe dominante produce l’ideologia del disimpegno, della distorsione dei fatti e della festa carnevalesca o volgare, come è successo nell’immagine proiettata dai mass media, ciò gramscianamente non sarebbe un caso, bensì una funzione della perpetuazione del dominio. Gli intellettuali che si siano prestati al gioco si potrebbero designare in questo contesto di interpretazione come organici a destra. In tale caso, utilizzando un altro concetto gramsciano, si potrà parlare di egemonia. Se Berlusconi lamentava a fini propagandistici che l’egemonia sul terreno culturale era stata della sinistra per un periodo del Novecento, prendendo questa dichiarazione come fatto oggettivo si potrà dire che su certi campi ciò è stato vero; ma anche che fin dagli anni Novanta la destra ha rilegittimato origini e perpetuità di un proprio progetto di egemonizzazione culturale, rilanciandole nell’arena del dibattito e ottenendo consensi (un solo esempio il revisionismo delle interpretazioni del fascismo o la reinterpretazione di Mussolini come statista anziché dittatore).

C’è da domandarsi, tuttavia, se, al di fuori del settore dei media e degli apparati di stato, funzionali al potere, siano stati davvero tanti tra i letterati coloro che hanno sostenuto la reinvenzione della cultura di destra o la banalizzazione di tematiche e l’omologazione degli stili in funzione delle forme massificate di circolazione dei prodotti dell’immaginario. L’impressione è che, nell’àmbito delle neoideologie degli anni 1994/2011, molti intellettuali umanisti italiani se ne siano distanziati. Pensando agli autori di prosa, se è vero che alcuni fenomeni commercializzati hanno preso campo e c’è stata una riduzione dell’impatto sperimentale sui linguaggi, si sono però affermati o hanno continuato a produrre scrittori di buon valore letterario e non compiacenti nei confronti del potere, per esempio Abate, De Marchi, Fois, Mari, Mazzucco, Moresco, Rea, Scurati, Vassalli, Veronesi.

NOTE

Intervento per “Italian studies in Ireland. One-day research colloquium”, Cork, 3-2-2012).

[1] . “R. Ventura, GLI INTELLETTUALI NELL’ITALIA BERLUSCONIANA. APOCALITTICI O INTEGRATI?, “La Libellula”, 3, 2011, pp. 48-56.

[2] P. Bourdieu, THE FIELD OF CULTURAL PRODUCTION: ESSAYS ON ART AND LITERATURE, Cambridge, Polity, 1993, pp. 29-73.

[3] J.-F. Lyotard, LA CONDITION POSTMODERNE, Parigi, Éditions de Minuit, 1979.

[4] A. Gramsci, SELECTIONS FROM THE PRISON NOTEBOOKS OF ANTONIO GRAMSCI, London, Lawrence and Wishart, 1971.

[5] R. Ventura, GLI INTELLETTUALI..., cit., p. 49.

[PARTE II]

3. Benda, Sartre, Orwell, Bobbio

Preme ora l’idea dell’intellettuale come “guida”, che sembrerebbe tornare a un altro degli archetipi del Novecento di interpretazione della figura degli intellettuali, ovvero a Julien Benda [1], il quale mette in rilievo un’aura di sacralità e di rispetto degli operatori culturali, li considera depositari altruisti del sapere come pure dell’imparzialità, cioè capaci di elevarsi al di sopra delle parti. I “chierici” bendiani sarebbero in grado di consigliare la società, indirizzandola verso ideali di giustizia, libertà, pace. Il tradimento consiste nell’avere aderito ai partiti politici invece di mantenere una distanza obiettiva dalle passioni ideologiche, al particolare a scapito dell’universale, al culto del successo anziché ai valori spirituali (alla “cronaca”, insomma, e non a più valide considerazioni di lungo periodo, cioè alla “storia”, per usare termini che, con affinità nei confronti di Benda, impiegava Elio Vittorini). Se questa visione delle cose è agli antipodi degli intellettuali organici gramsciani, nondimeno Benda non ritiene che l’intellettuale debba essere neutrale, bensì che si debba rapportare ai problemi con idealità piuttosto che con faziosità. Si direbbe che alle spalle del termine “intellettuale” come lo si adopera oggi ci sia questo tipo di umanista, specie quando se ne lamenta la scomparsa, rivelando così, probabilmente, nostalgia per l’enciclopedismo premediatico.

Colpisce in ogni caso che, in tanti scritti degli ultimi anni sugli intellettuali, riaffiorino gli archetipi definitori del Novecento, pur se non sempre citati. Non soltanto Gramsci e Benda, ma anche altri, e non sono pochi, potremmo indicare almeno Jean-Paul Sartre e George Orwell.

Sartre rappresenta per antonomasia il modello dell’impegno. La definizione sartriana di écrivain engagé è fondata sull’idea di “responsabilità” in opposizione alla “tentazione dell’irresponsabilità”, in cui prima o poi cadono gli scrittori “di origine borghese”. L’opposizione è contro l’inutilità dell’arte per l’arte, mentre la cultura deve avere come scopo quello di “produrre cambiamenti nella società che ci circonda”[2]. Pare questa un’altra connotazione dell’intellettuale che si presume “finito” da parte di alcuni partecipanti al dibattito odierno che adoperano il termine in maniera fluttuante, senza cioè definirlo nei particolari. Sono dunque l’engagement e la responsabilité, dati per conclusi, un’ulteriore rimozione, una nostalgia, ancora una volta, per ciò che si sarebbe perso e non si potrebbe recuperare?

Altro addentellato del termine oggi oscillante è quello della ricerca della verità. Per questa ragione, in materia di archetipi, si è nominato Orwell: per ribadirne non tanto la politicità consapevole[3], quanto la ricerca della verità, ciò che egli definisce “historical impulse. Desire to see things as they are, to find out true facts and store them up for the use of posterity” [4]. Venendo poi ai capisaldi più strettamente italiani del secolo scorso, gli archetipi sartriano e orwelliano sono riscontrabili sotto spoglie simili in parecchi autori del Novecento. Per limitarsi a tre nomi illustri: Vittorini, già citato sopra per una compatibilità con Benda, è paragonabile in parte a Sartre, con cui del resto collaborò, per il rapporto tra individuo e potere; e la verità intesa in quanto concetto essenziale si ritrova con energia in Leonardo Sciascia e Norberto Bobbio. Ci si sofferma brevemente su quest’ultimo, per ricordare che, richiamandosi a Romain Rolland, e differenziandosi decisamente da Orwell e Sartre, egli designava l’uomo di cultura come “al di sopra della mischia” [4]. Il suo compito, scrive però Bobbio in sintonia proprio con Orwell, è di essere “custode della verità” [5], nonché, e qui elabora la propria variante, “quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze” dato che “cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi; controllare tutte le testimonianze prima di decidere; e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda in modo irrevocabile una scelta perentoria e definitiva”; superando la “figura romantica del filosofo-profeta”, quindi anche del “chierico” alla Benda [6], per agire invece “con molta cautela” ed esprimendo perplessità più che certezze [7]. Il concetto di perplessità, prossimo a quello di relatività culturale, sembrerebbe anticipare le modalità del versante progressista del “pensiero debole”, di cui si è tornati a parlare per una discussione in corso tra i sostenitori di tale corrente, impersonata da Gianni Vattimo, e chi fa riferimento alle ideologie definitive del cosiddetto “new realism” sotto le insegne di Maurizio Ferraris [8].

Le idee dei vari autori sopra citati del Novecento, stranieri e italiani, non sono morte, dato che le analisi del secondo millennio si pongono in continuità conscia o inconscia con le diagnosi del secolo scorso, malgrado la discussione sia condotta anche con concetti diversi. Vediamo allora qualcuna delle interpretazioni che dai paradigmi del passato deviano per muovere in direzione delle novità sociologiche.


4. Oggi

Come modello di intellettuale in positivo, secondo Ventura, “tra gli intellettuali che più si sono impegnati nello scuotere gli ultimi rimasugli della società civile italiana c’è Vincenzo Consolo” [9]. La conclusione è che “il ruolo dell’intellettuale sembra essere rimasto solo uno: togliere il velo dagli occhi dei votanti ‘telestupefatti’, come ha detto Consolo, e costringerli a guardare dove non vogliono guardare” [10], promuovendo una più autentica democrazia. Sicuramente si concorda con questa scelta, anche commemorando ora in positivo, come merita con evidenza, Consolo a distanza tanto breve dalla scomparsa.

Fa eco a Consolo un’affermazione del 2009 di Alberto Asor Rosa:

“Bisogna chiedersi se siamo dinanzi alla liquidazione delle forme tradizionali della cultura intellettuale o all’esaurimento della funzione intellettuale tout court. Io propenderei per la prima ipotesi. Sono persuaso che sia andata chiudendosi in questi decenni una storia intellettuale cominciata sotto i Lumi e protrattasi fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sia pure con le tragiche fratture dei totalitarismi nazifascista e comunista. Mutamenti colossali sono intervenuti in tutto l’Occidente; l’Italia, come spesso è accaduto, rappresenta un laboratorio particolare. È finita una lunga storia intellettuale, ma non la possibilità di un esercizio critico dell’intelligenza, anche se oggi è più difficile vederne le manifestazioni” [11].

Ci sono insomma queste manifestazioni nei testi degli ultimi dodici anni? La generazione giovane presenta ancora intellettuali impegnati? Luperini, pur constatando che i letterati engagé di spessore artistico non sono frequenti come quelli esistiti fino agli anni Settanta (tra cui Pasolini, Fortini, Sciascia), indica Roberto Saviano tra gli altri contemporanei.

Riguardo la polemica su GOMORRA, si è già avuto occasione di intervenire a sfavore della tesi di Alessandro Dal Lago, secondo il quale l’autore napoletano sarebbe subalterno al potere dominante in quanto agirebbe nell’ambito del narcisismo protagonistico di stampo berlusconiano sebbene sia diversamente collocato sul piano ideologico [12]. In contrasto con questa idea, ci si limita a notare che non si capisce che cosa debba fare di più un autore per non essere denigrato oltre a mettere a repentaglio la propria vita per aver indicato in un’opera scritta i nomi di capi camorristi e averne dettagliatamente descritto le azioni. Non si tratta di una modalità di impegno assimilabile a quelle tradizionali?

C’è frattanto anche qualcosa di inedito, perché è vero che GOMORRA ha avuto un ampio successo editoriale; e in ciò risiede uno dei temi elaborati in questi anni: il caso di Saviano dimostra che una pura presa di distanza dai mass media non è ormai produttiva. Occorre criticarli, ma anche intervenire al loro interno. Vanno utilizzati perché i lettori ne fruiscono e perché nel loro sviluppo hanno prodotto tecniche ben articolate, così le narrazioni dei fumetti, il cinema, i giochi elettronici, le serie televisive. Al contempo vanno deprivati delle negatività manipolanti che possiedono, delle ideologie alienanti, violente, sciocche, come sostengono i rappresentanti del collettivo di scrittura Wu Ming in un modo che pare adatto ai tempi e ai compiti dell’intellettuale nel presente [13].

Un altro aspetto del presente, di cui tenere conto partendo ancora dagli archetipi novecenteschi, è la professionalizzazione: ricordiamo qui le anticipazioni di Max Weber sul lavoro accademico come attività specialistica, “posta al servizio della coscienza di sé e della conoscenza di situazioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensatrice di mezzi di salvazione e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul significato del mondo” [14]. Il fattore professionale, in parte collegabile anche alle prefigurazioni di Gramsci, è stato ripreso e attualizzato per analizzare gli intellettuali di oggi. È Marco Tarchi a specificare che, dal punto di vista numerico, si è assistito a una forte crescita, dovuta non tanto alla scolarizzazione quanto alla proliferazione degli strumenti di espressione delle idee come i media e il web [15]. Risulta dalle inchieste che i nuovi intellettuali italiani sono impiegati meno nelle università e nelle case editrici che nei mass media. Sul piano dello status, la partecipazione ai talk shows, e in generale la visibilità nel mondo delle comunicazioni di massa, ha dato loro prestigio. Tutto ciò ha influito sul rapporto con la politica. Il discredito delle ideologie ha portato gli intellettuali in direzione dei diritti dell’uomo e di altri temi etici invece di vertere sulle fedeltà di partito proprie di alcuni decenni del Novecento. I toni della denuncia, insomma, non sono scomparsi, ma si sono adattati a nuovi bersagli con modalità aggiornate.

In relazione a questi aspetti Luperini, in un intervento del 2007 [16], distingue tra “funzione” e “ruolo” degli intellettuali:

“La forbice, e la contraddizione, fra funzione e ruolo, presente in ogni lavoro intellettuale, tende a contrarsi, risolvendosi a vantaggio del secondo.

Il ruolo si definisce in un ambito immediatamente sociale. Coincide con la mansione assegnata dalle istituzioni, siano esse gli apparati scientifici ed educativi di uno stato, il sistema delle pubbliche comunicazioni, un ente o una azienda privata, o il governo stesso di una nazione. Comporta un sapere, un insieme di competenze specifiche, in cambio di uno stipendio; implica dei finanziamenti pubblici o privati per la ricerca; uno status, dei compiti, anche burocratici, e la collocazione in una gerarchia. Da questo punto di vista l’intellettuale è sempre anche un funzionario.

La funzione si colloca invece in un ambito antropologico e storico. Coincide con una attività intellettuale che segue la propria logica, aspira a una purezza priva di condizionamenti e tende perciò a scavalcare la dinamica delle istituzioni e degli enti concreti per obbedire solo all’etica della ricerca e per rivolgersi non a un committente preciso ma ai destini generali dell’umanità intera.

[...] Negli ultimi decenni la tendenziale scomparsa dell’intellettuale è anche riduzione o annullamento della funzione e progressivo trionfo del ruolo”.

Concludendo, è vero che in Italia c’è stata una perdita di status sociale e una maggiore professionalizzazione degli intellettuali, che è andata di pari passo, a partire dagli anni Ottanta, con una variazione delle ideologie. Ciò non significa che la figura stessa dell’intellettuale sia deperita al punto di scomparire. Forse il ruolo, se meditato con intelligenza, può esso stesso produrre funzioni che rivalutino le dinamiche culturali e si confrontino costantemente con quelle sociali, mantenendo una modalità di stimolo, di interpretazione del reale, di intervento per modificare gli stati di cose insoddisfacenti.


NOTE

[1] J. Benda, THE TREASON OF THE INTELLECTUALS (LA TRAHISON DES CLERCS, 1927), Londra - New York, 1982.

[2] J.-P. Sartre, Présentation des “Temps Modernes” (1948), in SITUATIONS, II, Parigi, Gallimard, 1948, pp. 7-30.

[3] “No book is genuinely free from political bias. The opinion that art should have nothing to do with politics is itself a political attitude”. Anzi, la politica conferisce anche qualità estetiche a ciò che si scrive: “it is invariably when I lacked a political purpose that I wrote lifeless books” (G. Orwell, ESSAYS, Londra, Penguin, 2000, pp. 6-7).

[4] G. Orwell, ESSAYS, cit., p. 3.

[5] N. Bobbio, POLITICA..., Torino, Einaudi, 1955, p. 132.

[6] N. Bobbio, POLITICA..., cit., p. 15.

[7] N. Bobbio, POLITICA..., cit., p. 19. Naturalmente si potrebbero citare quanti altri, che il tempo e lo scopo dell’intervento che si sta conducendo non permettono; si precisa infine che non è questa la sede per riepilogare sull’impegno in generale, cosa che si è d’altronde fatta in passato in varie occasioni. In proposito cfr. R. Bertoni, POLITICAL AND SOCIAL COMMITMENT IN SOME ITALIAN NOVELS IN THE 1990S, in NARRATIVA ITALIANA RECENTE - RECENT ITALIAN NARRATIVE, ed. R. Bertoni, Dublino, Trinity College e Torino, Trauben, 2005, pp. 9-32; e Idem, NARRATIVA DAL VENTUNESIMO SECOLO, in SPECCHI DI REALTÀ (ASPETTI DEL RAPPORTO TRA NARRATIVA E SOCIETÀ IN ITALIA DOPO IL 1989), ed. R. Bertoni, Dublino, Trinity College e Torino, Trauben, 2010, pp. 23-35.

[8] Cfr. IL BLOG DI GIANNI VATTIMO per un riepilogo delle posizioni. Un intervento in proposito dell’autore di queste note è POSTMODERNO VS. REALISMO, O PROGRESSISMO VS. REAZIONE?, “Carte allineate”, prima serie, 55, 2011, 7-7-2011.

[9] R. Ventura, GLI INTELLETTUALI..., cit., p. 52.

[10] R. Ventura, GLI INTELLETTUALI..., cit., p. 54.

[11] A. Asor Rosa, IL GRANDE SILENZIO. INTERVISTA SUGLI INTELLETTUALI, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 4.

[12] A. Dal Lago, EROI DI CARTA. IL CASO GOMORRA E ALTRE EPOPEE, Roma, Manifesto Libri, 2010. Cfr. anche la recensione dell’autore di queste note “Carte allineate”, prima serie, 46, 2010, 15-12-2010.

[13] Wu Ming, NEW ITALIAN EPIC. LETTERATURA, SGUARDO OBLIQUO, RITORNO AL FUTURO, Torino, Einaudi, 2009.

[14] M. Weber (1913), IL LAVORO INTELLETTUALE COME PROFESSIONE (con una Nota introduttiva di D. Cantimori), Torino, Einaudi, 1998, p. 38.

[15] M. Tarchi, L’INTELLETTUALE MORALISTA E LA CRISI DELLA POLITICA, “Rivista di filosofia”, 88.1, 1997, pp. 99-116.

[16] R. Luperini, LA FUNZIONE DEGLI INTELLETTUALI (Prolusione tenuta presso l’Università di Siena, 2007).


La prima parte di questo scritto è stata pubblicata su “Carte allineate”, 3-12-2012.