Benni Antonio Stefano
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Industriale e uomo politico italiano (Cuneo
1880 - Losanna 1945). Fu tra l'altro presidente della Magneti Marelli
(1923-35 e dal 1939) e del Banco di Roma (1928-35). Impegnato fin dal
1917 in un'intensa attività sindacale e politica, fu deputato (dal
1921), presidente della Confindustria (1923-33), che aveva contribuito
a fondare nel 1919, e come tale membro del Gran consiglio del fascismo,
ministro delle Comunicazioni (1935-39), legando il suo nome
all'elettrificazione della rete ferroviaria italiana.
DBI
di Piero Melograni
Nacque a Cuneo il 18 apr. 1880, da Stefano e da Nicolina Miselli. Il
padre, funzionario all'intendenza di Finanza, era morto poco prima
della sua nascita. L'infanzia el'adolescenza del B. trascorsero fra
disagi e ristrettezze dapprima a Cuneo, fino al 1883, e poi a Milano.
Nel 1894, costretto dalle necessità familiari ad interrompere gli
studi, entrò come apprendista nell'officina che apparteneva ad Ercole
Marelli.
Quell'officina era allora una modestissima impresa, composta da cinque
o sei operai e dal titolare, operaio egli stesso: vi si producevano
piccole apparecchiature elettriche, per un importo di affari
aggirantesi sulle 5o.000 lire annue. La piccola officina era destinata
a diventare nel volgere di pochi anni una grande fabbrica, e di pari
passo con le fortune dell'azienda avrebbero proceduto le fortune
personali del B., subito apprezzato dal Marelli per le notevoli
capacità di cui seppe dar prova.
Mentre Ercole Marelli era a capo del settore tecnico-produttivo, il B.
divenne presto direttore del settore amministrativo-commerciale. Allo
scopo di assicurarsi un vasto mercato e di creare una efficiente rete
di rappresentanze, a partire dal 1900, egli compì numerosi viaggi in
Europa e nell'America latina. In pochi anni, grazie al dinamismo e
all'abilità del B., le vendite della Marelli crebbero considerevolmente
sul mercato interno e su quelli esteri, in fortunata concorrenza con la
produzione straniera.
Il conflitto mondiale determinò un ultenore incremento nelle attività
della Marelli la quale, nel 1915, avviò la produzione di magneti. Nel
1920 il B., insieme con il Marelli e con Giovanni Agnelli, creò la FIMM
(Fabbrica Italiana Magneti Marelli), il cui capitale fu versato in
parti uguali dalla FIAT e dalla Marelli. Il B., che possedeva larghe
partecipazioni sia nella Marelli sia nelle numerose filiazioni interne
ed estere della stessa, divenne l'unico capo di quell'ormai potente
gruppo industriale alla morte dei Marelli, avvenuta nel 1922.
Nell'agosto 1923 egli fu nominato presidente del consiglio di
amministrazione e direttore generale.
Le responsabilità assunte nelle aziende Marelli non impedirono al B. di
impegnarsi in una sempre più intensa attività sindacale e politica. Già
nel 1917 entrò a far parte del Comitato milanese di azione interna,
costituito da personalità politiche interventiste, fra le quali era
Benito Mussolini. Nell'agosto 1920 fu membro della delegazione
industriale che incontrò le delegazioni sindacali operaie alla vigilia
dell'occupazíone delle fabbriche. In quegli stessi anni il B. fu tra i
primi dirigenti del consorzio istituito dagli industriali meccanici
lombardi, nonché della Federazione italiana meccanica e siderurgica, e
delle associazioni economiche relative ("Anima", "Assometal", "Anfia").
La carriera politica del B. ebbe praticamente inizio nel periodo in cui
il fascismo incominciò ad occupare un posto di rilievo nella vita
pubblica italiana. Il 15 maggio 1921, a Milano, egli fu eletto deputato
nella lista che i costituzionali di quella città formarono insieme con
Mussolini e con altre personalità fasciste. Alla Camera il B. si
iscrisse al gruppo liberale democratico, presieduto dall'on. Salandra;
fu membro di varie commissioni parlamentari e relatore di alcuni
disegni di legge, specialmente in materia doganale.
Insieme con altri uomini politici ed industriali lombardi, il B. ebbe
una parte notevole nelle vicende che precedettero ed accompagnarono la
marcia su Roma.
Fino all'ultimo momento anche egli fu favorevole a una soluzione di
compromesso e si adoperò affinché l'incarico fosse affidato all'on.
Giolitti. Il suo disegno, simile a quello di molti altri conservatori,
era infatti quello di incanalare e frenare i fascisti offrendo loro due
o tre portafogli in una combinazione ministeriale guidata da Giolitti o
da altra personalità della classe politica liberale. Ma il 28 ottobre
1922 Mussolini rifiutò tale soluzione: offrì garanzie al B. e ad altri
industriali e politici da lui incontrati in quei giorni, convincendoli
ad agire presso gli ambienti romani affinché l'incarico ministeriale
fosse a lui affidato.
All'indomani della marcia su Roma il B. assunse un atteggiamento che,
secondo la terminologia del tempo, poté definirsi "mussolinista": la
stabilità del nuovo governo e soprattutto le direttive di politica
economica favorevoli all'iniziativa privata da esso applicate fecero
rapidamente cadere molte riserve degli industriali, e del B., nei
confronti di Mussolini. Non altrettanto poté dirsi invece per le
numerose riserve che gli industriali mantennero verso determinate
correnti del fascismo e in particolare verso quei fascisti che
richiedevano un corporativismo integrale.
Quale interprete degli stati d'animo prevalenti fra gli industriali, il
B., due mesi dopo la marcia su Roma, fu eletto presidente della
Confederazione generale dell'industria, organismo che egli stesso aveva
contribuito a fondare nel 1919. Segretario generale della stessa
organizzazione fu, in quegli anni, l'on. Gino Olivetti. Tanto il B.
quanto l'Olivetti sarebbero stati insieme allontanati dalle rispettive
cariche alla fine del 1933. Negli anni seguenti il B. protesse il suo
antico collaboratore dalle persecuzioni razziali.
Le scelte politiche compiute dalla Confindustria risentirono in
grandissima misura della forte personalità dell'Olivetti, tanto che,
secondo il giudizio di alcuni, il B. avrebbe esercitato un ruolo
secondario rispetto a quello del suo segretario generale. Secondo F.
Guameri, invece, i due uomini costituirono "un binomio perfetto",
poiché le loro qualità riuscirono felicemente ad integrarsi. Sempre
secondo il Guameri, "il difetto di cultura non nocque mai al Benni, e
non solo perché Olivetti lo integrava anche in questo, ma perché non lo
rendeva schiavo di formule aprioristiche e lasciava libero il suo
naturale intuito di rapidamente orientarsi e decidere anche nelle
situazioni più intricate e più gravi"(Battaglie economiche, I, pp. 68
s.). D'altra parte il B. protesse sempre l'Olivetti dagli attacchi di
molti ambienti fascisti: e La mia vita di presidente - scrisse a questo
proposito lo stesso B. - non fu delle più facili, data l'ostilità che
il governo fascista aveva, già nei tempi precedenti la mia nomina,
dimostrato verso l'allora segretario generale, on. Gino Olivetti, e le
pressioni, per non dire di più, che mi venivano fatte per il suo
allontanamento".
Il decennio durante il quale il B. presiedette la Confindustria vide la
progressiva fascistizzazione dello Stato; gli industriali, che secondo
un giudizio di G. Agnelli erano "ministeriali per definizione",
aderirono pienamente al regime. In verità la questione corporativa
avrebbe potuto costituire un intralcio a tale adesione poiché, secondo
gli industriali, il sindacalismo integrale voluto dal Rossoni, capo
delle corporazioni fasciste, minacciava di intaccare la posizione di
responsabilità del capo dell'impresa e l'unità di comando all'interno
di questa. Ma fin dal 1923 risultò evidente che Mussolini non avrebbe
consentito al Rossoni di turbare gli ottimi rapporti instauratisi fra
industriali e governo. Nel luglio 1923, pertanto, il B. e l'Olivetti
furono invitati a partecipare ai lavori del Gran Consiglio fascista per
esporre il punto di vista confindustriale sui problemi sindacali. Il 19
dicembre di quello stesso anno la Confindustria conseguì un notevole
successo con il cosiddetto patto di Palazzo Chigi, stipulato con i
sindacati fascisti. In cambio dell'appoggio dato al governo e
dell'investitura concessa ai sindacati fascisti di contraenti preferiti
in rappresentanza degli operai nelle controversie di lavoro, il B.
ottenne da Mussolini che fosse impedita l'attuazione del sindacalismo
integrale voluto dal Rossoni: le elezioni politiche erano imminenti e
Mussolini intendeva assicurarsi l'appoggio degli imprenditori.
Alle elezioni della primavera 1924 il B. fu nuovamente eletto deputato
nel "listone" governativo-fascista, al quale parteciparono numerose
personalità "fiancheggiatrici" del fascismo; fra esse era anche l'on.
Salandra, sulle posizioni del quale il B. sostanzialmente si schierò.
Il 4 apr. 1924 egli pronunciò al Teatro Lirico di Milano un discorso
elettorale, esponendo il suo giudizio positivo sull'operato del governo
Mussolini.
Pochi mesi dopo, nel corso della grave crisi seguita al delitto
Matteotti, gli ambienti industriali manifestarono nonpoche perplessità
verso il fascismo nel suo complesso. Il B. se ne rese interprete
presentando a Mussolini, nell'agosto, un memoriale firmato da lui e da
altri industriali: in termini che vennero allora giudicati energici, il
B. richiese a Mussolini la "normalizzazione" della vita politica e
l'assoluta libertà di organizzazione sindacale. Perplessità e
preoccupazioni non lo indussero comunque a ritirare in Parlamento la
sua adesione al governo Mussolini.
Il 1° giugno 1925 il B. entrò a far parte del nuovo partito liberale
nazionale, fondato dall'ex ministro Sarrocchi e da altri conservatori
filofascisti. Il partito ebbe vita effimera; secondo un'affermazione
del B. lo scioglimento di quel partito, avvenuto pochi mesi dopo, fu
deciso con l'opposizione di pochi, fra i quali lui stesso. Nel corso
del 1925 Mussolini riuscì a sconfiggere definitivamente le opposizioni,
ed il 2 ottobre di quell'anno il presidente della Confindustria strinse
un nuovo patto con le corporazioni fasciste. Si chiamò "patto di
Palazzo Vidoni", e sanzionò la fine del sindacalismo non fascista,
poiché le parti contraenti si attribuirono reciprocamente il monopolio
della rappresentanza sindacale. Alla fine dell'arino la Confindustria
assunse ufficialmente l'appellativo di e fascista" ed i suoi dirigenti,
compreso il B., divennero membri del partito al potere. Nella sua
qualità di presidente della Confindustria il B. entrò anche a far parte
del Gran Consiglio del Fascismo.
Le affermazioni di fede fascista e di totale fiducia nel governo
Mussolini da parte del B. si susseguirono da allora in poi numerose.
Quei dissensi, talora di notevole gravità, che lo opposero a
determinate correnti del fascismo o allo stesso Mussolini, non
ricevettero pubblicità, né il B. parlò più di "normalizzazione" o di
libertà sindacali, come era accaduto ancora nel 1924, poiché le
altemative intorno alle quali egli operò restarono tutte conchiuse
nell'ambito del regime. Risulta che il B. non approvò la cosiddetta
politica della "quota go" voluta da Mussolini nel 1926. Ma le sue più
impegnative polemiche dovette condurle intorno alla questione
corporativa, rimasta aperta e dibattuta anche dopo il patto di Palazzo
Chigi. Proprio la grande crisi economica mondiale, che in Italia era
stata in certo qual modo anticipata dai negativi effetti della "quota
90", conferì nuovo vigore a quelle correnti che vedevano nello Stato
corporativo la piena attuazione dell'idea fascista. Per contrastare il
passo ai corporativisti il B. si creò naturalmente numerosi avversari:
i suoi oppositori gli rimproverarono anche di occupare rilevanti
cariche pubbliche pur rimanendo a capo di una grande industria. Le sue
vicende negli anni 1932-33 devono pertanto essere messe in relazione
con quelle di L. Arpinati, il sottosegretario agli Interni, che
condusse una campagna moralizzatrice allo scopo, fra l'altro, di
stabilire una incompatibilità legale fra cariche politiche e cariche
economiche.
Nel dicembre del 1933 le autorità fasciste imposero l'allontanamento
del B. dalla presidenza confindustriale e il B. stesso, nelle sue
memorie, spiegò il fatto riferendosi all'opposizione da lui sempre
manifestata verso lo Stato corporativo, e in particolare ad alcune
agitate discussioni svoltesi in seno al Gran Consiglio. Tuttavia il suo
allontanamento dalla presidenza confederale e dal Gran Consiglio non
significò anche la sconfitta delle sue tesi poiché, tutto al contrario,
furono proprio i sostenitori del corporativismo integrale che di lì a
poco dovettero definitivamente rinunziare ai loro disegni.
Il 22 genn. 1935 il B. fu nominato da Mussolini ministro delle
Comunicazioni. All'atto della nomina egli si dimise dalla presidenza
del Banco di Roma, carica da lui assunta fin dal 1928, nonché dalla
presidenza della Marelli. Restò al ministero per quasi cinque anni, e
legò soprattutto il suo nome alla vasta opera di elettrificazione della
rete ferroviaria italiana. Da sottolineare anche i provvedimenti che
egli prese al fine di riorganizzare la marina mercantile - con la
formazione di quattro grandi compagnie armatoriali di proprietà statale
- e di migliorare i servizi postali e telefonici.
Il B. lasciò il ministero nel novembre 1939, riassumendo gli incarichi
di presidente ed amministratore delegato della Marelli- Fu anche
presidente dell'ANIC (Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili),
della Italcable, della Larderello, membro del consiglio di
amministrazione della Società Italiana Strade Ferrate Meridionali,
della Edison, della Adriatica di Sicurtà, della Stipel, della Eternit e
di numerose altre società. Il 5 genn. 1942 l'università di Bologna gli
conferì la laurea honoris causa in ingegneria industriale
elettrotecnica.
Negli ultimi anni della sua vita il B. ridusse considerevolmente
l'attività politica. Dopo l'8 settembre si rifiutò di aderire alla
Repubblica Sociale Italiana ed anzi, nella notte del 20 ag. 1944,
mentre si trovava a Stresa, fu arrestato insieme con la moglie da
agenti fascisti agli ordini del prefetto di Novara, Vezzalini -
Condotto nel locale municipio, fu brutalmente malmenato, quindi
rinchiuso nelle carceri del castello di Novara. Nelle sue memorie il B.
dichiarò di non aver mai conosciuto esattamente il motivo del suo
arresto; ritenne tuttavia che sivolesse costringerlo a dare la sua
adesione alla Repubblica fascista. Fu liberato dopo circa un mese.
Per sottrarsi tanto alle persecuzioni degli agenti fascisti quanto alle
minacce dei partigiani antifascisti, il B. emigrò in Svizzera prima
della fine del conflitto. Morì a Losanna il 27 dic. 1945.