Paola Sosso


JULIEN BENDA, BENEDETTO CROCE  E LA FUNZIONE DELL’INTELLETTUALE


All’interno del dibattito che si sviluppa nella prima metà del Novecento sul rapporto tra gli intellettuali e la politica, particolare rilievo assumono, per intensità di toni e per il clamore che suscitarono, le posizioni di due grandi studiosi, Benedetto Croce e Julien Benda. «Il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l’enorme diffusione del libro e della stampa periodica»: così scrive Gramsci nel 19301, interessato, come mostrano molti passaggi dei Quaderni, all’analisi della filosofia crociana. Le sue riflessioni appaiono ancor oggi rilevanti per la lucidità di un tratto essenziale ma penetrante e per l’invito che contengono a un approccio comparativo.

Qualche anno dopo, Gramsci afferma nuovamente che la concezione dell’intellettuale di Croce può avvicinarsi a quella espressa da Julien Benda nella Trahison, e ipotizza un paragone, in seguito mai sviluppato, tra la posizione del primo e «il diluvio di scritti di J.Benda sul problema degli intellettuali2»: compaiono in queste poche righe alcuni elementi che vale la pena di approfondire ulteriormente.

Molti scritti di Benedetto Croce, relativi agli anni che vanno all’incirca dal ‘15 al ’45, si soffermano in effetti sull’analisi del ruolo dell’intellettuale nella nuova società. Come è noto, il tema era divenuto cocente in Francia e in Italia in particolare dopo le polemiche dell’affaire Dreyfus: le aspirazioni degli intellectuels erano infatti sempre più concrete e molti di essi rifiutavano di rimanere ai margini della storia, facendo proprie e risolvendo quelle rivendicazioni che si erano fatte sentire fin dall’epoca dei philosophes3. Dopo tante lotte e tante disillusioni, prendeva corpo, con l’inizio del nuovo secolo, la figura di un uomo di cultura cosciente della propria identità sociale4.

Le riflessioni di Benda e di Croce, sicuramente legate a questo nuovo clima culturale, risentono tuttavia anche dei dibattiti suscitati negli ambienti intellettuali durante la prima e la seconda guerra mondiale: gli avvicendamenti della storia contribuirono infatti a rendere la discussione sempre più attuale, perché molti hommes de lettres rifiutarono, durante i due grandi conflitti, di chiudersi nel guscio dei propri studi, e preferirono intervenire in modo diretto, con gli scritti e con l’azione.

In netta opposizione rispetto a questa nuova tendenza all’engagement intellettuale, nel 1927, Julien Benda dà forma alla sua protesta ne La trahision des clercs, appassionata difesa di un esercizio mentale puramente speculativo e alieno da alcuna compromissione con il reale. Benda ricorre nel titolo al lemma clerc e si pone in tal modo in chiara antitesi rispetto a un movimento intellettuale che, nato alla fine dell’Ottocento, era destinato, seppur con ispirazioni e toni diversi, a giungere fino agli anni ’60-’70, con le prese di posizione sartriane, e poi ancora oltre, fino al nuovo secolo e alle nuove tecnologie che sembrano dare nuovo impulso alla figura dell’intellettuale-guida. Il clerc di Julien Benda si contrappone a tutto questo per recuperare, risalendo i secoli e la storia, una dimensione che oggi può apparire anacronistica ed elitaria. Gli hommes de lettres, secondo l’autore, hanno infatti abbandonato la loro funzione di guida spirituale esterna consegnandosi al potere politico e alla borghesia a partire dalla fine del secolo XIX.

Su un terreno non distante da quello di Benda si muove in quegli anni, come si è detto, Benedetto Croce, che dedica numerose pagine dei suoi scritti e delle sue lettere alla riflessione sul ruolo degli intellettuali, incalzato dagli eventi, mai pago delle conclusioni raggiunte, sempre pronto a rimodellare e ad ampliare il terreno della discussione.

Una parallela rinascita dell’idealismo in Francia e in Italia conduce i due pensatori su sentieri vicini, portandoli a concordare su alcuni punti, pur restando legati a modi e scelte espressive molto diverse. Ed è questa affinità nella discordanza, già suggerita, come si è visto, da Gramsci, che ci invita a guardare con maggiore attenzione i loro scritti, per indagare in quale modo, nel linguaggio e nei contenuti, essi si avvicinano e si discostano, prediligendo temi comuni, cercando soluzioni e trovandole in atteggiamenti simili o chiaramente  opposti.

Benda, che muove la sua critica contro fascismo e nazionalismo, intende attaccare tutti quegli intellettuali che, in varia misura, hanno asservito i valori astratti del pensiero intellettuale all’engagement, alla vita pratica: «Tout ce qui s’est fait de pratique dans l’histoire s’est fait dans l’injustice»5: così colpevoli risultano sia i sostenitori sia i difensori di Dreyfus, perché in entrambi i casi si è trattato, a sua avviso, di un tradimento6: ogni interferenza tra realtà e letteratura, quest’ultima intesa come puro «sujet philosophique»7, è dannoso e inutile.

L’idea di uno stretto collegamento con la tradizione medievale del clericus, di un uomo cioè dotto ed istruito, formato ai principi della religione cristiana, distinguibile per abiti e costumi, appare più volte nel testo, nei brani in cui Benda scrive che il clerc per eccellenza è l’uomo di chiesa8, colui che per fede, e non solo per cultura, antepone la spiritualità alla concretezza del reale. Il vero clerc, pronto ad opporre la propria «conscience humaine»9 di fronte all’ingiustizia, persegue in ogni occasione la giustizia e la carità10 (e l’eco dei valori evangelici è qui evidente), ha come unica regola l’ascetismo spirituale e i principi che trascendono la relatività del reale11. Capo spirituale, utopista, desideroso di elevarsi al di sopra delle «passions pratiques12», le clergé deve saper dire «impunément des vérités qui […] déplaisent13» e sfidare l’impopolarità14.

Per Benda, che segue in questo l’idea tradizionale, il vero chierico è «tout homme littré ou savant»15: ma ogni uomo di cultura dovrebbe anche fare propri e seguire alcuni valori fondamentali riconducibili, in ultima analisi, allo spiritualismo della fede.

Je veux parler de cette classe d’homme que j’appellerai les clercs, en désignant sous ce nom tous ceux dont l’activité, par essence, ne poursuit pas de fins pratiques, mais qui, demandant leur joie à l’exercice de l’art ou de la science ou de la spéculation métaphysique, bref à la possession d’un bien non temporel, disent en quelque manière: «Mon royaume n’est pas de ce monde»16.

Questa definizione, ripresa in una nota della quarta parte17, compare all’inizio della terza sezione e racchiude in sé i due poli attorno ai quali, secondo l’autore, deve prendere forma, in definitiva, la figura del clericus: rifiuto del realismo, esercizio mentale puramente speculativo.
Tuttavia anche in ambito religioso vi è stato, negli ultimi decenni, un tradimento: se da un lato la fede rappresenta la via maestra di un cammino che il clerc dovrebbe seguire, quella spiritualità totalmente aliena da ogni compromissione con la realtà, dall’altra essa stigmatizza una forma di religiosità, diffusa nei nuovi testi letterari e prediletta dai nuovi autori, che, pur non avendo in sé più nulla di spirituale, giunge alle forme estreme del peggior fanatismo (e il termine fanatismo è ripreso più volte da Benda, che non esita a ricorrere a un lemma ancor più estremo, séides18). Poli contrapposti convergono quindi in scelte lessicali affini, con un dualismo che, nella sua tensione interna, tende a far risaltare maggiormente la lontananza tra la verità e un fantoccio che è oggetto di un’adorazione profana e pericolosa.

Certo Benda non fa che sottolineare un dato di fatto, e cioè la tendenza di una certa letteratura fra le due guerre a essere intrisa di misticismo, a ricorrere a espressioni enfatiche per celebrare un nazionalismo che, così alimentato, maturerà i peggiori frutti19. Tuttavia rimane il fatto che egli sa, ponendo nel mirino della sua critica alcuni contemporanei, giocare sui livelli linguistici, fino a sfiorare, e a volte toccare, l’assurdo di un capovolgimento semantico il cui fine è quello di far meglio risaltare un capovolgimento reale, quello operato da falsi clercs per i quali la razza, la classe, la nazione sono divenuti i nuovi idoli.

Fin dal primo capitolo compare il termine mysticité 20, simbolo della trasfigurazione delle passioni nazionalistiche della nuova borghesia: misticismo mistificatorio agli occhi di Benda, perché esso nasconde sotto l’adorazione religiosa ambizioni, interessi, giochi politici, tentando di divinizzare il profano. «L’Etat, la Patrie, la Classe sont aujourd’hui franchement Dieu», leggiamo nel secondo capitolo, dove si trova, riportata in nota, una citazione tratta da un discorso di Mussolini in cui, spiega Benda, il termine «religieux» è chiaramente applicato a qualcosa di eminentemente temporale:

La discipline de bas en haut doit être essentielle et de type religieux21.

Benda riprende in chiave critica la retorica della politica di quegli anni, non estranea all’abuso del lessico religioso: da un certo egualitarismo romantico, in cui l’autore identifica gli «apôtres de l’ordre22» dediti alla stretta osservanza della loro bibbia fatta di principi falsamente democratici, alla nuova religione che gli sembra ormai diffusa ovunque nella società moderna. «Religion du particulier23», venerazione dei valori individuali, «religion du succès» che riecheggia, in particolare quest’ultima, il credo della destra, e non solo di quella francese, dei primi del Novecento, e i principi di alcuni filosofi in cui Benda vede i veri propagatori di un pensiero centrato unicamente sull’uomo: Nietzsche, Sorel, Bergson.

In realtà, come si è detto, compare nel testo una seconda forma di religiosità autentica, che non pone Dio al servizio di propri interessi particolaristici e non rifiuta il trascendente travestendolo coi panni del peggiore realismo. Ed è in questa volontà di elevarsi, di trascendere le passioni umane, di aderire a un humanitarisme «qui honore la qualité abstraite de ce qui est humain24», che Benda ritrova gli elementi di quella religiosità che deve accompagnare il clerc25. Non si tratta, tiene a precisare l’autore, di un valore legato unicamente a un credo religioso, ma di un atteggiamento che ha profonde radici filosofiche: dagli stoici ai grandi «praticiens de l’esprit», Erasmo26, Montaigne, Malebranche, Spinoza, Goethe, una lunga catena di pensatori ha onorato e perseguito, secondo Benda, l’ideale di una comunione umana centrata su valori inderogabili ed eterni27. A tale proposito Benda ricorre ad alcuni sostantivi molto pregnanti: l’idéalisme e lo spiritualisme si affiancano all’utopia, perché le chimere sono utili anche per condurre l’azione politica, perché il vero moralista è un utopista, perché peculiarità dell’azione veramente morale è quella di «créer son objet en l’affirmant»28.

Alcuni termini vengono puntualmente ripresi per descrivere entrambi gli approcci, entrambe le forme di religiosità, ma la connotazione appare immediatamente opposta nei due casi. Così l’universalismo dell’uno non è quello dell’altro, i dogmi della vera religione non hanno nessun rapporto con i falsi principi dell’altra, il loro apostolato persegue fini diversi, la loro opposta idea di sacralità li conduce su strade che divergono. Si delinea così uno iato che separa nettamente «le clerc en tant qu’il l’est» da quello «qui passe pour l’être»29, e qui si consuma il tradimento più grave, nella falsificazione volontaria dei valori ideali, forse utopistici ma fecondi:

La cléricature étant un idéal, le clerc parfait n’existe pas. Les adversaires du clerc son définis, non pas parce qu’ils ne réussissent point à réaliser cet idéal, mais parce qu’ils le bafouent30.

Se l’opera di Benda, come è stato più volte suggerito, manca di una solida analisi dei contesti socio-economici che determinarono alcune grandi svolte ideologiche31, vi è di contro nella sua disamina un’evidente volontà di precisione nell’attribuire ad alcune parole un significato storico, concreto, inequivocabile. I termini selezionati sono quasi sempre riconducibili a una realtà precisa, a un valore definito, a un campo lessicale identificabile.

Il tradimento indica certamente per Benda, secondo il suo valore etimologico (tradere, da trans, «oltre», e dare, «dare, consegnare»), l’idea di una trasmissione che nasconde l’inganno, di un passaggio di consegne che è andato oltre i propri limiti, ha oltrepassato le proprie barriere: gli hommes de lettres, secondo l’autore, hanno infatti abbandonato la loro funzione di guida spirituale esterna consegnandosi al potere politico e alla borghesia a partire dalla fine del secolo XIX. Ma la scelta del termine riecheggia anche un uso che, su versanti opposti, era stato fatto del lemma trahison durante e dopo le vicende relative all’affaire Dreyfus32.

La posizione di Croce, che partecipa al dibattito in questi stessi anni, si dipana, come accennato, su un arco di anni ricchi di avvenimenti per la storia mondiale e fervidi di riflessioni per il pensatore italiano; essa, pur ricordando a tratti le osservazioni di Benda, si definisce e si ridefinisce a più riprese, nel tentativo di rendere conto delle varie sfumature che rendono il problema appassionante e complesso.

Affinità e divergenze, si diceva, tra Croce e Benda: Gramsci evidenzia immediatamente nei suoi Quaderni questi due aspetti, parlando, per Benda, di un «diluvio di scritti», per Croce di uno stile che lo induce ad assumere sempre «atteggiamenti equilibrati, olimpici»: eppure rimangono dei punti comuni che, a ben guardare, si risolvono in scelte tematiche e lessicali convergenti. Oltre alla vicinanza su alcuni temi – la concezione di uno Stato forte, la superiorità della riflessione astratta, un certo disinganno, più forte in Benda, nei confronti nell’attività politica condotta dalle passioni – temi certamente sviluppati in modo più organico in Croce, compare una certa eco nel ricorso ad alcuni lemmi, nelle preoccupazioni comuni, nel piacere di una disamina attenta, più pacata e profonda nell’uno, più irruenta e precipitosa nell’altro.

Innanzitutto lo stesso Croce ricorre al termine «tradimento» per stigmatizzare certi intellettuali che, durante il primo conflitto mondiale, hanno messo la scienza al servizio delle lotte pratiche: la sua condanna, scritta nel 1925, è ben situata dal punto di vista storico, anticipa in parte quella del pensatore francese, e fa eco d’altra parte ad alcune prese di posizione che si diffusero in Francia nei primi anni del Novecento in un contesto diverso, quello dell’affaire Dreyfus:

Per mia parte, pure con la buona volontà di tener conto delle seduzioni del cattivo esempio e di altre circostanze attenuanti, debbo confessare che non mi sono mai interiormente riconciliato con tutti quei cultori di studî che, durante la guerra, ho visto pronti a storcere la scienza a servigio delle lotte politiche, e li guardo sempre con diffidenza. Se hanno tradito una volta la verità, perché non la tradiranno ancora? Forse perché, allora, la tradirono per amor di patria? Ma la verità non si tradisce per amor di nessuna cosa o persona; e, se si concede che sia lecito tradirla per la patria, perché non dovrebbe esser lecito poi tradirla per il figlio o per l’amico, e, in fin delle fini, pel nostro signor sé (sic) stesso, il quale, anch’esso, conta per qualcosa?33

Al di là di questo ricorso al termine «tradimento», ben diversamente contestualizzato in Croce, vi è anche nel filosofo italiano, che pure muove da posizioni di agnosticismo religioso34, un uso duplice del concetto di religione non dissimile da quello di Benda: anche per lui, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, la scienza e l’arte hanno subito un «inquinamento politico» che occorre abbandonare:

Arte e scienza possono contribuire al ravvicinamento dei popoli solo col mantenersi vigorose e pure, col richiamare, mercé la loro intrinseca virtù, i cuori e gli intelletti alla coscienza della comune umanità. Ogni sforzo che si faccia per creare un’arte umanitaria e di tendenza, o una scienza mista di predica e di pia unzione, consegue l’effetto opposto. Il peccato della scienza e dell’arte negli ultimi tempi, nei tempi di preparazione alla guerra e durante la guerra, è stato appunto l’inquinamento politico. Non bisogna ricadere in quest’errore, neppure con l’illusione d’inculcare la fratellanza dei popoli. I popoli, come entità politiche, saranno sempre fratelli litiganti e contrastanti; e a ciò bisogna virilmente rassegnarsi, e lasciare che la politica stessa formi più o meno vasti accordi e intese e alleanze ed equilibrî. Artisti e filosofi e scienziati hanno un altro ufficio: un ufficio religioso. E, adempiendo a tale ufficio, possono sperare, non mai di abolire la lotta economica e politica, ma di portarla in sempre più spirabile aere35.

Questo scrive Croce nel 1920, ma il problema è sollevato anche in altri scritti: l’idea di una missione, di un apostolato dell’uomo di cultura è ripresa nel 1925, laddove egli scrive:

Se il sacerdote ha cura d’anime, e perciò non gli è lecito parteggiare per interessi mondani e scendere a certi uffici di accusatore e di carnefice, non è forse l’uomo di pensiero e di scienza il sacerdote dei tempi moderni, e non ha gli stessi doveri?36.

Questa affermazione va tuttavia sfumata dalle riflessioni che la seguono e inserita all’interno di un pensiero più complesso. E in questo cogliamo un altro tratto che distanzia il filosofo italiano dal pensatore francese: egli sempre lima, modella, alimenta i suoi scritti con nuove riflessioni, mai pago delle mete raggiunte, sempre teso verso nuovi approfondimenti. Precisa infatti in seguito Croce: si tratta di «doveri, che per parlare un linguaggio profano, non ho voluto chiamare doveri di religione, ma di onore37». Nel concetto di intellettuale di Croce, scriveva Gramsci, vi è qualcosa di «cattolico e clericale»38; tuttavia l’intellettuale crociano, pur mirando gli alti ideali dello spirito, è completamente laico: anzi il filosofo ritiene che sia necessario ormai «distruggere un’ultima trascendenza, che tuttavia rimane e s’insinua inavvertita, la trascendenza della filosofia rispetto al conoscere comune»39. Ma in qual modo, allora, intervenire per portare fratellanza, per spegnere i fantasmi dell’odio? Il ricorso alla religione appare a Croce come una soluzione superata, miraggio di utopie e di chimerici progetti, (quei progetti che aleggiano invece, come abbiamo visto, nel pensiero di Benda), mentre la ricerca di valori universali, comuni a tutte le civiltà, sembra offrire una valida soluzione:

E quale sarà? O piuttosto qual è dunque il vero modo? La religione, si sarebbe detto un tempo: il sentirci cristiani, il giudicare da cristiani, il comportarci da cristiani. E noi diciamo ora, invece, tutto ciò che, pur nelle necessarie divisioni, accomuna l’uomo: l’arte, la verità, la bontà. Sono queste le forze che di continuo ristabiliscono la concordia umana, l’unità della cultura e vita spirituale; e tutt’al più, anziché seguire i progettisti e utopisti, converrebbe a coloro che rappresentano quelle forze rivolgere rimproveri, ammonimenti, esortazioni affinché badino ad adempiere al loro alto ufficio di promotori della comune umanità40.

La figura di Cristo, assunta da Benda a simbolo massimo di distacco e di disinteresse (rievocato dalla ripetizione ne La trahison della frase evangelica «Mon royaume n’est pas de ce monde41») rappresenta invece per Croce quei filosofi che non vengono «à apporter la paix, mais la guerre: guerre nouvelle, c’est à dire vie nouvelle42».

Il vero filosofo, «uomo anzitutto, e pieno d’interessi e passioni» (e sappiamo quali feroci strali lanci Benda contro le passioni dei filosofi) «sa assurgere alla filosofia e ridiscendere per essere un uomo variamente operoso»43: il rischio è in caso contrario quello di cadere in uno «astratto razionalismo e intellettualismo e scientismo, che forse in nessun altro paese è così opprimente come in Francia», come scrive Croce in una recensione alle Lettres à Mélisande dello stesso Benda44. La teoria e la pratica rimangono due distinti aspetti o momenti dello spirito umano45, ma il filosofo fa opera politica inducendo alla riflessione, preparando il prorompere della passione46.

Pur riconoscendo la netta differenza tra i due ordini, Croce non esita a far uso in entrambi i casi del termine «valori», termine che Benda riserva all’ambito astratto e spirituale: per il filosofo italiano è doveroso difendere entrambe le categorie, come scrive nel 1912: «Se è doveroso difendere i valori di cultura, non è meno doveroso, dunque, difendere quelli storici»47. Certo i valori di cultura hanno un carattere imperituro, universale, costante e supremo: tuttavia Croce rifugge da una concezione troppo elitaria, e preferisce mantenersi, anche in questo caso, su posizioni meno perentorie e dogmatiche. La filosofia tutto abbraccia e tutto respinge, non parteggia mai per l’una o l’altra fazione, si attiene al suo dovere prossimo che concerne la difesa delle istituzioni48: le lotte politiche infatti altro non sono se non «diversi modi di sentire e di volere la vita sociale e politica», per cui occorre evitare ogni
«miscuglio di filosofia e politica»49.

La filosofia deve generare e informare l’attività pratica, la morale deve trasfondersi nella politica creando le dovute premesse intellettuali: questo Croce ribadisce più volte nei suoi scritti dedicati al rapporto tra etica e politica50.

Sempre propenso agli atteggiamenti equilibrati ed olimpici, come già sottolineava criticamente Gramsci, Croce prende tuttavia una netta posizione nei momenti drammatici: per opporsi alle nuove idee abbracciate da molti intellettuali sottoscrive la dichiarazione di Romain Rolland51 e non esita a definire con termini netti la nuova politica. Ed ecco che in questi casi troviamo, come già in Benda, la condanna di una falsa religione che è abuso, falsificazione, oltraggio: non solo la politica si è permessa un ricorso indebito alla filosofia per patrocinare violenze e prepotenze, ma l’universalismo e il misticismo di una religione che è amore per la giustizia sono stati «sdilinquiti» (Croce parla di «sdilinquimento») da un nuovo apostolato e in un nuovo evangelo basati sull’odio e il rancore52.

Certo troviamo nei suoi scritti l’idea che la guerra è prodotta da forze superiori ad ogni volontà individuale e va pertanto accettata come tale: lo spirito del mondo segue, secondo lui, una logica «intricata e nascosta» che deve per necessità spiegarsi, ma questo non esclude che ogni individuo tenti di comportarsi, da parte sua, nel modo migliore53. Egli scrive infatti nel 1919 all’amico Vossler:

Come sai bene, le lotte degli Stati, le guerre, sono azioni divine. Noi individui, dobbiamo accettarle e sottometterci: Ma sottomettere la nostra attività pratica e non quella teoretica: sottomettere i nostri affetti politici e noni nostri affetti personali e privati. Altrimenti la barbarie si ristabilirebbe nel modo, non la barbarie generosa, ma quella corrotta e depravata54.

Proprio in questi anni troviamo, a conferma di questa osservazione, alcune considerazioni molto lucide su come si debba figurare il ruolo dell’intellettuale nella società in guerra: permane in molti testi l’accusa di fondo nei confronti del «tradimento dei clerici», sviluppata fin dagli anni della prima guerra mondiale55. A ciascuno il suo ufficio, scrive Croce a più riprese; leggiamo già in una lettera a Vossler dell’ottobre 1914 che «troppi letterati a spasso […] sono diventati scrittori di giornali politici»56: leggerezza e spirito di avventura, adatti ai romanzi, sono stati trasposti nella vita reale. Gli uomini di pensiero devono fare il loro dovere, attendere al loro compito: «credo che come il medico cura con pari scrupolo amici e nemici, così l’uomo di scienza, il cultore della verità, debba esercitare il suo ufficio di sopra ogni contesa politica e interesse nazionale»57.

Il pensiero di Croce non si ferma tuttavia a queste riflessioni, ma si apre continuamente a nuove analisi: il completo disinteressamento della cosa pubblica, il distacco superiore dal mondo è infatti per lui deleterio, trarsi in disparte e attendere unicamente ai propri studi rischia di essere un pretesto, e di risolversi in un illusione, perché, «recisi i frementi legami con la vita, la scienza e l’arte intristiscono, si fanno vuote e accademiche»58.

Compito dell’arte è anche quello di contribuire a migliorare la società: considerazioni, queste, che troviamo un po’ in margine negli scritti di Croce, ma che pure contribuiscono a formare un quadro d’insieme dai molti toni. Ogni cittadino, leggiamo in un saggio raccolto in Etica e politica, «che si fa poeta, filosofo o santo, continua ad essere cittadino»59. La dimostrazione è offerta dalla storia, perché «i grandi pensatori e i grandi poeti hanno posseduto la loro genialità nella capacità di vivere interi nella verità e nella bellezza, e nondimeno sono stati insiememente legati alla varia passione del tempo loro»60. Questo scrive il filosofo italiano negli anni che seguono il primo conflitto mondiale, quasi a contraddire, o forse meglio a completare, quanto abbiamo letto in altri testi.

Meno perentorio di Benda, più realistico, Croce ha la capacità di cogliere la vita nelle sue varie forme, senza precludere arbitrariamente la via ad alcune di esse. Le passioni, il côté irrazionale dell’uomo, che per il pensatore francese sono ormai divenuti un torrente senza argini, portatore di rigidi settarismi e pericolosi fanatismi, devono invece essere accettate secondo Croce, perché esse pure fanno parte del nostro essere umani: ne «La politica della virtù», il filosofo ricorda come il tentativo di soffocarle con atteggiamento stoico sia fallito, perché eliminando le passioni si elimina al contempo la vitalità dell’uomo. Così è pure sbagliato sciogliere le loro briglie, come ha voluto fare certo romanticismo, o legarle con quel «rigidismo morale» di impronta kantiana tanto caro a Benda.

In politica, «la morale deve scendere frammezzo alle passioni, passione tra le passioni», e trattare «con le passioni senza pretendere né di sopprimerle né di convellerne la natura, mettendo quando giova le une contro le altre, e combattendo ora le une ora le altre, ora in alleanza con le une ora con le altre. La vera, la seria volontà morale è creatrice e promotrice di vita; e perciò non ha nessuna paura di contaminarsi, adoperando la vita per una maggiore vita»61. Posizione vicina al compromesso, senza dubbio, soprattutto se confrontata con quella di Benda, che pare invece rifiutare la mezza via: ma il saggio che la contiene, pubblicato per la prima volta nel 1922, dopo le esperienze di politica attiva di Benedetto Croce, ci invita a capire come quel dissidio che così facilmente cogliamo nella politica, dove la legge morale spesso diverge dall’azione pratica, sia lo stesso dissidio che porta ognuno di noi ad allontanarsi quotidianamente dai principi professati, certamente impuri all’occhio dell’etica kantiana, ma «quanto umani all’occhio dell’etica umana!»62.

Ben diversa, come accennato, la posizione di Benda: le passioni umane sono al centro de La trahison, tanto che il termine passion, possiamo affermarlo senza ricorrere a puntuali statistiche, è probabilmente il più ripetuto nel testo. Il secondo capitolo è certamente quello in cui il termine è più volte evocato, ma già il capitolo iniziale introduceva il tema con riferimenti continui e ripetitivi. Questo ricorso a una parola che ha alle spalle una lunga storia semantica assume un valore particolare all’interno del testo: Benda risale infatti all’idea stoica di passione opposta alla ratio, intesa cioè come stato di irrequietezza e di agitazione provocato dalle cose del mondo che il saggio (il clerc) dovrebbe evitare.

L’opposizione aristotelica originaria tra passio ed actio63, che vedeva nelle passiones una passività neutra e non condannabile, assume una nuova veste: ne La Trahison la passione è infatti condannabile proprio perché si identifica con l’azione nella realtà, perché con essa si scontra e non sa rimanere impassibile (le passioni politiche condividono infatti uno dei tratti caratteristici delle passions, «la tendance à l’action»64). Anche in questo caso l’opposizione appare ben delineata: da una parte passione, ordine, orgoglio, interesse, realismo, dall’altra ragione, disordine, equilibrio. Su questi cardini lessicali, continuamente ripresi lungo il testo, si costruisce la tesi di Benda: i sostantivi sono assunti con un valore specifico ben definito e costituiscono dei riferimenti continui per la riflessione del lettore, invitato a interpretare il testo all’interno di una chiara griglia di lettura. L’ordre non va pertanto interpretato secondo la visione classica, che vedeva in esso la realizzazione di un’armonia, ma deve essere considerato come un’imposizione forzata da parte della classe al potere: esso rientra allora nell’ambito semantico dell’interesse e dell’orgoglio, e trova la sua completa attuazione nella realtà contemporanea65.

Divinizzata nel nazionalismo, falsamente camuffata di altruismo, la passione appare come una forma di egoismo che si rinchiude sempre di più in se stessa: il popolo, eroe della destra nazionale di quegli anni, è divenuto, secondo Benda, la preda di un fanatismo passionale alimentato dai nuovi intellettuali, dediti alla realizzazione di interessi puramente personali e incapaci di volgere lo sguardo al di là del tangibile.

La visione manichea dell’autore definisce lungo tutto il testo l’inconciliabilità tra sentimento, cieco entusiasmo e ragione, vero baluardo, quest’ultimo, del chierico66: tale antinomia nasce da un’opposizione di fondo tra chi si abbandona alle forze istintive e chi invece pondera ogni sua presa di posizione alla luce di una moralità ineccepibile e di una concezione della giustizia e della verità intese in modo piuttosto assolutistico. Benda, certamente influenzato nelle sue riflessioni da una letteratura che era in quegli anni trascinata nel turbine di un’esaltazione intensa ma superficiale, vede nelle passioni un’arma al servizio dell’utilitarismo e del subjectivisme.

Anche se le accuse e le affermazioni dell’autore tendono spesso a generalizzare, a non definire con esattezza tempi e modi di un accusa senza replica, è possibile ricavare, nei meandri di una scrittura volutamente ripetitiva, le cause che hanno fatto del clerc un individuo passionale: l’irrazionalismo di Bachelard, il dogma del concetto «fluide» di Bergson, per citare i più noti e i più aspramente criticati da Benda67, incarnano, con il loro attaccamento all’ineffabile, il punto di arrivo di una filosofia che ha bandito la netteté cartesiana per abbandonarsi alla aleatorietà delle facoltà meno controllabili68.

Punto di partenza è ovviamente il romanticismo, inteso da Benda non come corrente storico-letteraria, ma come categoria, che ha tratto la sua origine da una soif du total, da un desiderio di infinito espresso a chiare lettere nelle Rêveries di Rousseau69. Con il nuovo modo di intendere il rapporto tra l’uomo e la natura, il ginevrino apre infatti la strada, secondo l’autore, a una concezione della letteratura intesa come adesione alla jouissance dell’impressione istintiva, ai moti interiori dell’anima. Benda cita a tale proposito due brani celebri: il primo, che si trova in una nota della Trahison, è tratto dalla Profession de foi du vicaire savoyard, e riporta il noto elogio della coscienza, che, secondo Jean-Jacques, non ci inganna mai, perché l’istinto, facoltà oscura, è per lui un’ottima guida; il secondo testo, che leggiamo ne La France byzantine, si riferisce invece a uno dei brani più famosi della V passeggiata, quello relativo alla capacità di gioire del sentiment de l’existence, unica vera felicità concessa all’uomo, unico contatto diretto con il nostro io più intimo70.

Il romanticismo che viene condannato da Benda non è quindi ben definito dal punto di vista della storia letteraria: esso coincide piuttosto con un certo modo di porsi nei confronti del mondo, con un atteggiamento che per l’autore non è equilibrato perché passionale e soggettivo. Il romanticismo diviene infatti sotto la sua penna romantisme du positivisme, romantisme du pessimisme, romantisme utilitaire, romantisme de la dureté, romantisme du mépris71: gli eredi di Rousseau non sono dunque i grandi poeti dell’Ottocento, ma piuttosto tutti quegli scrittori che, sulla scia di Jean-Jacquese, hanno considerato, in vari settori, «les choses […] bonnes dans la mesure où elles satisfont [leur] sensibilité artistique»72.

È un furore accecante, secondo Benda, quello che si è impadronito della letteratura del primo Novecento: i Surrealisti, Proust, Mallarmé, Gide, Valéry, Giraudoux, gli scrittori nazionalisti, Barrès, Maurras, Bainville, elencati insieme a molti altri nelle opere di Benda, dimostrano tutti come la passione sia divenuta dominante. Letteratura degli strati più fondi della coscienza, letteratura del rifiuto di ogni identità troppo netta, letteratura ermetica, mistica, intima, cui fa da contrappunto una letteratura dell’entusiasmo, delle facili affermazioni: in entrambi i casi si è usciti dai limiti dell’equilibrio e della ragione, in entrambi i casi, seppur su fronti molto diversi, la passione ha travolto il clericus e l’ha condotto da una parte verso una ricerca interiore che appare a Benda come improduttiva, fallace e indefinita73, dall’altra verso l’azione politica, troppo aderente alla realtà, troppo sicura delle sue verità, di quelle verità che non esistono per l’autore se non nella sfera dell’assoluto.

È di quest’ultimo aspetto che si occupa più in particolare La trahison, dove il termine passion ritorna in maniera ossessiva ed indica innanzitutto le passioni politiche: i titoli delle prime due sezioni (I – «Perfectionnement moderne des passions politiques. L’âge du politique» – II – «Signification de ce mouvement. Nature des passions politiques».) sono illuminanti a tale riguardo: l’ascesa, il progressivo movimento che abbiamo visto delinearsi in queste due parti dell’opera trae infatti origine da un mutamento radicale che ha toccato i letterati e, di conseguenza, le masse. Sempre più superficiale, ma sempre più fanatico, l’attaccamento degli intellettuali e del popolo a valori che si oppongono all’assoluto – nazionalismo, antisemitismo, interesse di classe – si è radicato fortemente nell’esprit francese, trasformandolo in breve tempo e cancellando i tratti che lo caratterizzavano da secoli. L’unica forza che pare in grado di far fronte a queste passioni perniciose è l’approccio razionale, cautamente calibrato, perché anche «la passione della ragione è una passione, e tutt’altra cosa dalla ragione74.

Il lemma passione, così importante nell’economia dell’opera, sembra dunque costituire all’interno del testo un ponte tra passato e presente, un pivot fondamentale attorno al quale si costruisce l’impalcatura stessa della riflessione: partendo infatti dalla passion concepita stoicamente come contrapposta alla ratio, Benda compie un passo avanti e definisce l’evoluzione moderna di un fenomeno centrale per la descrizione della società dei primi anni del secolo. Il nuovo ruolo assunto dalle passioni spiega il passaggio all’âge du politique: è infatti il ricorso smodato alle passioni che ha innescato interessi e orgogli personali negli intellettuali, coinvolgendoli sempre più nelle vicende politiche e negli affari sociali.

Tutto è portato ai limiti in Benda: quelle passioni che Croce accettava con moderazione, ma soprattutto con la consapevolezza di chi non cede alle facili soluzioni degli estremismi, incarnano per lo scrittore francese la molla scatenante di un processo deleterio. Per capire i fattori che portarono il filosofo italiano a maturare una posizione che può apparire accomodante e incline alla negoziazione è forse opportuno ricordare che nel giugno del 1920 egli accettò la direzione del Ministero della Pubblica Istruzione nell’ultimo ministero  Giolitti:  questi  tentava  in  tal  modo,  «salvare  dalla  rovina  la  […] patria». Croce, dapprima smarrito, sente che, viste le condizioni in cui si trova il suo paese, non può sottrarsi a tale onere, come, «per poco guerriero che si sia, non ci sottrae alla chiamata militare»75.

Utili per capire il dissidio interiore del filosofo in questi anni appaiono le lettere, e in particolare il carteggio con Vossler, dove lo sviluppo del suo pensiero emerge a chiare lettere. Nelle riflessioni compiute a posteriori nelle «Note autobiografiche», l’equilibrio tra i bisogni dell’intelletto e l’ufficio sociale è ormai raggiunto, ma esso ha seguito una lenta maturazione negli anni successivi al primo conflitto mondiale. Già nel gennaio 1915, egli scrive: «in quanto filosofo, sono nato nel cosmo, ma in quanto uomo sono nato in Italia»: le ragioni del «cittadino», che abbiamo visto in altri testi presentate alla terza persona, vengono qui assunte in prima persona76. Certo egli rifiuta di «farsi un l’animo di guerra», come da più parti vien chiesto agli studiosi77. Le dichiarazioni di questa lettera del luglio 1919 diverranno in seguito sempre più esplicite:

Io non mi sono mai collocato au dessus de la mêlée; ma ho stimato dovere di coscienza di non falsificare mai la scienza e la storia per un presunto dovere patriottico. Come dicevo agli amici, anche le donne devono dare tutto se stesse alla patria; ma non perciò fare le Giuditte, cioè le meretrici per la patria78.

La posizione di Croce durante il primo conflitto mondiale è ben riassunta in una lettera, che è anche una confessione, del settembre 1919: egli scrive di essersi disposto a fronteggiare la nuova situazione circoscrivendo il male, per timore di una completa devastazione interiore: «Non credo che mi abbia guidato l’egoismo; è stato  piuttosto un sentimento  di economia, perché quando non si può far nulla di efficace, non val meglio accumulare lavoro e serbare alla società qualche attitudine, utile in avvenire? [...] Insomma, mi sono rifugiato in una sorta di umiltà religiosa»79. Ed ecco che la chiamata al ministero nel 1920 viene allora vissuta come un modo per riparare «a una troppo comoda condizione avuta, se non goduta, durante la guerra80»: Benedetto Croce la vive, come ha modo di ripetere più e più volte nelle sue lettere, come un servizio militare fatto in ritardo:

E sebbene anch’io ora sia occupato nei pubblici affari, ti assicuro che questo è forse il maggior sacrifizio che io abbia mai fatto per adempimento di dovere. Lo faccio perché penso che tanta gente è stata chiamata per farsi ammazzare, e dunque io devo prestare una sorta di servizio militare e non lamentarmi81.

Gli eventi si fanno urgenti e il filosofo si trova spinto ad agire fuori dalla sfera astratta del pensiero: la filosofia e la pratica, che Croce ha sempre considerato come valori, pur distinguendo i loro diversi ambiti, sembrano infine congiungersi. «Conoscere è conoscere, e operare è operare», ma «quanto meglio si conosce il mondo, meglio si opera82»: anche se si tratta di due atti spirituali distinti, l’uno può trasfondersi nell’altro, arricchendolo di nuovi frutti.

La scissione assoluta preconizzata da Benda, che pare a tratti tentare anche Croce, assume in quest’ultimo dei contorni molto più tenui: la filosofia, che pure vive in suo ambito definito, ha il compito di preparare l’azione, rischiarando e affinando gli animi; chi non coopera all’azione, interviene comunque su di essa. Tuttavia, quando il fervore degli eventi incalza, a nessuno è dato di tirarsi indietro e ciascuno, secondo le proprie capacità, deve contribuire. Queste riflessioni, presenti in nuce nei testi anteriori alla prima guerra mondiale, trovano ampio sviluppo negli anni che la seguono, sollecitate senza dubbio anche dalle vicende personali del pensatore italiano.

Esplicito senza mai essere perentorio, aperto a soluzioni divergenti ma sicuro delle sue scelte, il discorso di Croce s’inoltra a tratti nei campi semantici prediletti da Julien Benda: la convergenza di interessi, l’incalzare degli eventi li inducono negli anni del primo conflitto mondiale (e in quelli precedenti e successivi) a riflettere su tematiche comuni, a ricorrere a simili esempi, a cercare forme di espressione non difformi. Lo stesso Gramsci, rivedendo in un secondo momento la possibilità di fare un paragone tra le idee dei due pensatori, conclude che «in realtà tra il Croce e il Benda, nonostante certe apparenze, l’accordo è solo superficiale o per qualche particolare aspetto della quistione. Nel Croce esiste una costruzione organica di pensiero, una dottrina dello Stato, sulla religione e sulla funzione degli intellettuali nella vita statale, che non esiste nel Benda, che è più che altro un «giornalista». Bisogna anche dire che la posizione degli intellettuali in Francia e in Italia è molto diversa»83.

Affinità lessicali e profonde divergenze d’insieme, quindi: lo stile «olimpico» dell’uno ricorda solo a tratti, nelle scelte terminologiche e tematiche, le riflessioni irruente dell’altro. Nella pacata armonia del filosofo italiano ritroviamo cenni, lontani echi lessicali, ma egli li rielaborò per lo più fino a fonderli in un pensiero organico e linguisticamente equilibrato.

Note

1. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, 1975, 4 vols., vol. I, 1930, p. 285. Questa citazione è riportata da S. Teroni (op. cit., pp. 27-28), che ricorda come Gramsci ricevette La Trahison des clercs nel carcere di Turi tra il marzo 1929 e il novembre 1930.
2.  Ibid., vol. II, 1932-1935, p. 1303 e p. 1333.
3.    Cfr. T. Goruppi, Intellettuali e potere nella Francia dell’Ottocento, Paris, Champion, 1999, “Introduzione”, pp. 9-37.
4.    Attorno a questo nuovo termine si creò, come ci ricorda V. Brombert, molto fervore, sdegno e ironia: accusato di essere una voce senza mandato, di essere arrogante e nemico dell’anima nazionale dai revisionisti (“L’intellectuel se définit lui-même un individu cultivé, mais
sans mandat […]”, M. Barrès, Scènes et doctrines du nationalisme, Paris, Trident, 1987, p. 38), l’intellettuale era preso di mira non solo dalla destra tradizionale, ma anche dall’estrema sinistra, che vedeva in lui il nemico delle classi lavoratrici (cfr. V. Brombert, L’eroe intellettuale, Napoli, Ed. scientifiche italiane, 1966, pp. 12-25).
5.    La prima edizione de La Trahison des clercs è del 1927 e fu pubblicata dalla casa editrice Bernard Grasset. Quella cui facciamo riferimento in questo studio è invece quella pubblicata nel 1975 dalle edizioni Grasset et Fasquelle, “Les Cahiers Rouges”, in particolare p. 100.
 6.    Benda non credeva utile l’ottimistica presa di posizione di Zola nell’affaire, non pensava cioè che essa potesse essere di giovamento alla Francia; egli condivideva tuttavia con il romanziere l’idea che bassi interessi politici e ostinate passioni religiose erano alla base della vicenda, alimentata da odio e falsità (cfr. l’Introduzione di S. Teroni alla versione italiana dell’opera, Il tradimento dei chierici, Torino, Einaudi, 1976, p. 11).
 7.    Cfr. J. Benda, La France Byzantine, Paris, Gallimard, 1945, “La littérature sujet philosophique”, pp. 13-14, “Essai d’une psychologie originelle du littérateur”, pp. 151-179.
 8.    La trahiason, op. cit., p. 138, p. 156, p. 223. Benda si riferisce a un clergé che si rivolge ai suoi fidèles.
 9.    Ibid., p. 90.
 10.    Ibid., p. 106.
 11.    Ibid., p. 91. Nel Discours à la Nation Européenne (la I edizione è del 1932; qui Torino, Libreria editrice eclettica, 1945), Benda esordiva con questo titolo: “L’Europa non si farà, se non adottando un certo sistema di valori morali. Necessità per i suoi educatori di credere a un’azione morale trascendente l’economia” (p. 11), e ribadiva alla fine della prima sezione del testo: “La riabilitazione dell’Eterno è una delle prime battaglie che dovrete impegnare”(p. 18).
12.    Ibid., p. 222.
13.    Ibid., p. 223.
14.    Ibid., p. 238.
15.    E. Littré, voce clerc, 2° (Dictionnaire de la langue française, Paris, Hachette, 18731883); il termine clericus, membro del clero, indicava l’uomo di lettere già nel latino medievale, cfr. anche la stessa voce in W. Von Wartburg, Französisches Etymologisches Wörterbuch, Leipzig, Berlin, Verlag, B. G. Teubner, 1928-1992, 15 vols. 
16.    La trahison, op. cit., pp. 131-132.
 17.    “Je rappelle que je regarde comme pouvant dire: “Mon royaume n’est pas de ce monde” tous ceux dont l’activité ne poursuit pas de fins pratiques: l’artiste, le métaphysicien, le savant en tant qu’il trouve sa satisfaction dans l’exercice de la science, non dans ses résultats”, ibid.,
p. 221, nota 6.
18    Ricordiamo che il termine deriva da Séide, nome proprio del personaggio della tragedia Mahomet (1742) di Voltaire. Si tratta di un nome ispirato da un personaggio storico, Zaydibn Harita, figlio adottivo di Maometto. Nella tragedia di Voltaire, Séide è un servitore fanatico, devoto al padrone al punto di commettere un crimine.
19.    La critica di Benda muove principalmente contro gli ideologi del  nazionalismo, Barrès, Maurras, D’Annunzio, Brunetière, Lemaître, Péguy, Kipling…
20.    La trahison, p. 113 e p. 119; il concetto è in realtà già espresso in precedenza, quando Benda parla di “personnalité mystique”, (p. 108) con cui si identifica la volontà di coesione di alcuni gruppi sociali (“ligues”, “unions”, “faisceaux”).
21.    La trahison, p. 129.
22.    Ibid., p. 48, p. 52: il termine ordre ricorre con grande frequenza ne La trahison e definisce per l’autore un valore eminentemente pratico. Sotto l’apparenza estetica dell’ordine si celano infatti le peggiori ingiustizie sociali (cfr. pp. 46-47).
23    Ibid., p. 165.
24.    Ibid., p. 154.
25.    Nel Discours à la Nation Européenne, Benda, rivolgendosi a chi dovrà formare la nuova coscienza degli europei, a chi sarà incaricato di dare un nuovo sistema di valori, scrive: “Voi dovete essere apostoli”, ed essere in grado di opporre al pragmatismo nazionalista un altro pragmatismo, a idoli, altri idoli, a miti, altri miti, a una mistica, un’altra mistica (op. cit., p. 17).
26.    Erasmo è definito nel Discours à la Nation Européenne come un eroe dell’ideale europeo, op.cit., p. 38.
27.  Ibid., pp. 153-156.
28.    Ibid., p. 179; Benda scrive inoltre che oggi si scorge ovunque “l’exaltation de la politique fondée sur l’expérience, entendez selon laquelle une société doit se gouverner par les principes qui ont prouvé qu’ils savent la rendre forte, et non par des ‘chimères’ qui tendraient à la rendre juste” (p. 177); d’altronde, leggiamo più oltre, tra i “clercs modernes”,“pas un qui ne s’insurge si on le traite d’utopiste” (p. 221). Un concetto simile sarà ripreso nel Discours à la Nation Européenne: “L’idea che gli uomini si fanno dei loro atti è, per la storia, anche più feconda di quegli atti”, op. cit., p. 24: la nascita dell’Europa sancirà infatti “la vittoria di un’idea sull’amor di quegli oggetti direttamente sensibili che son, rispetto ad essa, le nazioni” (p. 35).
29.    Ibid., p. 135.
30.    Ibid., p. 103, nota 14.
31.    In netta opposizione con la critica di ispirazione marxista che proprio negli anni venti, con Lukács e poi, più avanti, con Goldman, si muoveva nella direzione di una sociologia della letteratura.
32.    Nel 1900 Barrès era ricorso a questa parola ne L’appel au soldat: il suo elogio del boulangismo lo portava ad indicare come traditori tutti quegli intellettuali insensibili a ciò che egli definiva la “vie propre, [le] caractèrere, [les] destinées” della nazione francese. L’atteggiamento istintivo delle masse si contrapponeva per lui al servilismo di “ces prétendus inventeurs de leurs pensées”, divenuti dei veri e propri “traîtres à la race” dimentichi della tradizione e dei propri avi (Paris, Juven, s.d., pp. 118-119). Lo stesso anno Zola riprendeva l’idea di tradimento nella “Lettre au Sénat” pubblicata su L’Aurore il 29 maggio: egli ribaltava l’accusa, e vedeva negli anti-dreyfusisti, innanzitutto i senatori, coloro che hanno acconsentito a “trahir la justice”. L’idea di tradimento era ripresa più volte nella lettera: il riferimento alle tesi di Barrès e al nazionalismo francese di quegli anni diveniva a tratti chiaro, come quando Zola affermava che il “nationalisme” era in realtà una “exploitation […] grossière du noble amour de la patrie” che tradiva la Francia con finzione e inganni. E il gioco di rimandi continuava, perché, agli occhi di Zola, i dreyfysisti, spinti dall’”unique passion de sauver l’honneur de la France” erano in realtà dei “prétendus traîtres”, mentre i veri traditori andavano cercati altrove, tra coloro che avrebbero votato l’amnistia per le persone implicate nell’affaire: “Vous êtes des traîtres, les Ministres sont des traîtres, le Président de la République est un traître. Et, lorsque vous aurez voté la loi, vous aurez fait œuvre de traîtres, pour sauver des traîtres” (in L’affaire Dreyfus, la vérité en marche, Paris, Garnier-Flammarion, 1969, p. 179, p. 186, p. 188). La disputa sarebbe continuata in seguito anche a livello lessicale: nel 1902, Barrès, definendo la sua dottrina politica in Scènes et doctrines du nationalisme, ricorreva con grande frequenza al termine trahison: tradimento era innanzitutto quello di Dreyfus, sulla cui colpevolezza Barrès sembrava non aver dubbi. “La trahison”, leggiamo nel testo sopracitato, “est un acte qui ne comporte point de circonstances atténuantes et qui se mesure socialement non aux intentions de l’auteur, mais aux conséquences de l’acte”. Il danno alla patria e ai suoi sacri valori sembrava essere la prima e più pericolosa conseguenza dell’azione del generale; nessun riferimento a valori universali, frutto di un “kantisme malsain”, ma il forte richiamo alla necessità di agire secondo “l’intérêt français” del momento (op. cit., p. 30).
33.    Contrasti di cultura e di popoli, in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza, 1955, pp. 306-309, in particolare p. 309.
34.    “Quello del Croce è un ateismo da signori”, scrive Gramsci negli anni trenta, “un anticlericalismo che aborre la rozzezza e la grossolanità plebea degli anticlericali sbracati” Quaderni del carcere, op. cit., 1932-1935, vol. II, p. 1303.
35.    Risposta a una domanda, 13 dicembre 1920, in Pagine sparse, Bari, Laterza, 1960, vol. II, p. 255.
26.    Contrasti di cultura e di popoli, 1925, in Cultura e vita morale, intermezzi polemici,
Bari, Laterza, 1955, p. 308.
37.    Contrasti di cultura e di popoli, op. cit., p. 308.
38.    Quaderni del carcere, 1932-1935, op. cit., vol. II, p. 1303.
39.    Contro i sistemi definitivi, Cultura e vita morale, op. cit., 1916, p. 202.
40.    Contrasti di cultura e di popoli, op. cit., p. 307.
41.    La trahison, op. cit., pp. 131-132.
42.    Lettera a René Johannet, 5 / VIII / 1919, op. cit., p. 253.
43.    Troppa filosofia, «La Critica», 1923, pp. 61-64, in particolare p. 63.
44.    La recensione è del 1927 e fu pubblicata sulla rivista La critica di quello stesso anno, e successivamente in Conversazioni critiche, Bari, Laterza, 1951, pp. 211-212, in particolare
p. 212. Le Lettres à Mélisande di Benda sono del 1925 (Paris, Le livre).
45.    Cfr. La politica dei non politici, “La Critica”, 1925, pp. 190-192, in particolare p. 190 e
Ancora filosofia e politica, ibid., 1923, pp. 379-381, in particolare p. 380.
46.    Cfr. Filosofia e guerra, ibid., 1915, pp. 396-399.
47.    Astrattismo e materialismo politici, in Cultura e vita morale, op. cit., pp. 182-190, in particolare p. 185.
48.    Ibidem.
49.    Libertà e dovere, in Cultura e vita morale, op. cit., pp. 301-305, in particolare pp. 304305.
50.    Etica e politica, Bari Laterza, 1956 (I edizione 1931); si vedano tra gli altri i saggi: “L’intellettualità”, XLIV, pp. 195-197, “Giustizia internazionale”, pp. 353-357 e le parole pronunciate il 19 maggio 1924 nella inaugurazione di una società di cultura politica a Napoli, ibidem., pp. 363-369.
51.    Nella lettera del 5 agosto 1919 a René Johannet, scrittore monarchico e nazionalista, Croce spiegava di aver aderito alla Déclaration per opporsi al “bestialisme national” con il quale pensatori ed artisti avevano, durante la guerra, “enlaidi, avili, abaissé, degradé la Pensée, dont ils étaient les Représentants”, Pagine sparse, op. cit., pp. 252-253. Simili riflessioni si ritrovano in molti brani di Pagine sulla guerra.
52.    La protesta contro il manifesto degli intellettuali fascisti, 1 maggio 1925, «La Critica», 1925, pp. 310-312.
53.    Si vedano alcune lettere del carteggio con l’amico Vossler, in particolare quella del 16 agosto 1914 (CLII) e quella del 22 luglio 1919 (CLXIX), Carteggio Croce-Vossler, 1899-1949, a cura di E.Cutinelli Rèndina, Edizione Nazionale delle opere di B.Croce, Napoli, Bibliopolis, 1991, Scritti varii, VIII.
54.    Lettera a Vossler del 22 luglio 1919.
55.    Note autobiografiche, in Contributo alla critica di me stesso, Bari, 1956, p. 435.
56.    Carteggio Croce-Vossler, op. cit, p. 187.
57.    Lettera a Vossler del 2 settembre 1919, CLXXVI, ibid., p. 228.
58.    Disinteressamento per la cosa pubblica, in Etica e politica, XXXVI, pp. 164-165. 59. 
59. Ibid., p. 166.
60.    False unificazioni e illegittime separazioni, ibid., XXXIX, p. 176.
61.    La politica della virtù, ibid., XXI, pp. 98-99.
62.    Ibid., p. 99.
63.    Queste due concezioni, quella aristotelica e quella stoica, si ritrovano in molti sistemi dottrinali successivi, ma quella stoica ha avuto, come è noto, una maggiore diffusione per l’influenza che ha esercitato sugli autori cristiani, che tuttavia contrapponevano alle passiones non la tranquillità del mondo, ma la sottomissione all’ingiustizia (per un’analisi più completa si veda E.Auerbach, Gloria passionis, in Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1960, pp. 68-79).
64.    La trahison, op. cit., p. 133.
65.    Ibid., pp. 47-48; si veda anche la Préface all’edizione del 1946 e il capitolo II.
66.    Ne La France Byzantine leggiamo d’altronde che “la raison […] est un attribut de l’homme, du seul fait qu’il est homme”, op. cit., p. 110. Nel Discours à la Nation Européenne, Benda afferma che l’Europa non si farà se non “mettendo risolutamente le opere dell’intelletto al di sopra di quelle della sensibilità, il filosofo e lo scienziato al di sopra del poeta e dell’artista” op. cit., (p. 40).
67.    “Quelle que soit notre application, nous n’arrivons pas à comprendre ce que c’est qu’un concept fluide”: così scrive Benda ne Le bergsonisme, ou Une philosophie de la mobilité, del 1912 (Paris, Mercure de France, 1913, IVème édition, p. 55); il testo offre una disamina attenta dei testi del filosofo francese che viene duramente attaccato per il suo metodo di analisi, ritenuto incoerente, confuso, basato su affermazioni gratuite e volutamente contrario a ogni forma di razionalità; la filosofia di Bergson pretende, secondo l’autore, di assurgere a una dottrina con intenti chiaramente dogmatici (cfr. p. 5-6). Nelle pagine finali dell’opera, Benda conclude: “Nous n’empêcherons pas les gens de croire qu’on leur a donné la lune, ni M.Bergson d’exploiter leur crédulité”.
68.    Si vedano tra gli altri, per questi riferimenti a Bachelard e a Bergson, La trahison, op. cit., p. 71, 74, 167 e La France byzantine, op. cit., p. 22, 23, 25, 39, 82, 124. I filosofi che invece “hanno insegnato a pensare” sono per Benda: Socrate, Bacone, Descartes, Kant (Discours à la Nation Européenne, op. cit., p. 54).
69.    In Rousseau Benda apprezzava tuttavia un certo conservatorismo che portava il ginevrino a voler mantenere i costumi e le leggi di uno stato perché ogni cambiamento è imprevedibile e pericoloso (cfr4. La trahison, p. 178, nota 81).
70.    La trahison, p. 197, nota 114: “La conscience ne nous trompe jamais; elle est à l’âme ce que l’instinct est au corps… La philosophie moderne, qui n’admet que ce qu’on explique, n’a garde d’admettre cette obscure faculté appelée instinct qui paraît guider sans connaissance acquise, les animaux vers quelque fin”, Profession de foi du vicaire savoyard; La France byzantine, pp. 45-46: “S’il est un état où l’âme trouve une assiette assez solide pour s’y reposer tout entière, et rassembler là tout son être, sans avoir besoin de rappeler le passé ni d’enjamber sur l’avenir, où le temps ne soit rien pour elle, où le présent dure toujours, sans néanmoins marquer sa durée et sans aucune trace de succession, sans aucun autre sentiment de privation ni de jouissance, de plaisir ni de peine, de désir ni de crainte que celui seul de notre existence, et que ce sentiment seul puisse la remplir tout entière; tant que cet état dure, celui qui s’y trouve peut s’appeler heureux, non du bonheur imparfait, pauvre et relatif, tel que celui qu’on trouve dans les plaisirs de la vie, mais d’un bonheur suffisant, parfait et plein, qui ne laisse dans l’âme aucun vide qu’elle sente le besoin de remplir”; si veda anche, in quest’ultima opera, p. 24.
71.  Ibid., p. 178, 180, 184, 193.
72.    Ibid., note Q, p. 254.
73.    Questo aspetto è analizzato in modo più dettagliato ne La France byzantine.
74.    Discours à la Nation Européenne, op.cit., p. 17.
75.    Note autobiografiche, op. cit., p. 436.
76.    Lettera a Vossler del 9 gennaio 1915, CLX, op. cit., p. 194.
77.    “Di anima ne ho una sola, e non posso cangiarla ad arbitrio”, Lettera a Vossler del 2 settembre 1919, CLXXVI, ibid., p. 228.
78.    Lettera a Vossler del 22 luglio 1919, CLXIX, ibid., p. 209.
79.    Lettera a Vossler del 27 settembre 1919, CLXXIX, ibid., pp. 235-236.
80.    Lettera a Vossler del 27 luglio 1920, ibid., CXCIX, p. 273.
81.    Lettera a Vossler del 24 ottobre 1920, ibid., p. 284.
82.    Ancora filosofia e politica, in La critica, 1925, p. 380.
83.    Quaderni del carcere, vol. II, op.cit., pp. 1333-1334.