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Cesare Beccaria
DEI DELITTI E DELLE PENE
In rebus quibuscumque difficilioribus
non expectandum, ut quis simul, et ferat, et me.at, sed praeparatione
opus est, ut per gradus maturescant.
Bacon. Serm. Fidel. Num. XLV.
MDCCLXIV
Introduzione
Gli uomini lasciano per lo più in abbandono i più importanti
regolamenti alla giornaliera prudenza, o alla discrezione di quelli,
l'interesse de' quali è di opporsi alle più provide Leggi, che per
natura rendono universali i vantaggi, e resistono a quello sforzo, per
cui tendono a condensarsi in pochi, riponendo da una parte il colmo
della potenza e della felicità, e dall'altra tutta la debolezza e la
miseria. Perciò se non dopo esser passati frammezzo mille errori nelle
cose più essenziali alla vita, ed alla libertà, dopo una stanchezza di
soffrire i mali giunti all'estremo, non s'inducono a rimediare ai
disordini, che gli opprimono, e a riconoscere le più palpabili verità,
le quali appunto sfuggono per la semplicità loro dalle menti volgari
non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le impressioni
tutte di un pezzo, più per tradizione, che per esame.
Apriamo le storie, e vedremo, che le Leggi, che pur sono, o dovrebbon
esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo
stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e
passaggiera necessità, non già dettate da un freddo esaminatore della
natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una
moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista =La
massima felicità divisa nel maggior numero= Felici sono quelle
pochissime Nazioni, che non aspettarono, che il lento moto delle
combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere all'estremità de'
mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi intermedi con
buone Leggi; e merita la gratitudine degli uomini quel Filosofo, che
ebbe il coraggio dall'oscuro e disprezzato suo gabinetto di gettare
nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi delle utili
verità.
Si sono conosciute le vere relazioni fra il Sovrano e i sudditi, e
fralle diverse Nazioni; il commercio si è animato all'aspetto delle
verità Filosofiche rese comuni colla Stampa, e si è accesa fralle
Nazioni una tacita guerra d'industria la più umana, e la più degna di
uomini ragionevoli. Questi sono frutti, che si devono alla luce di
questo secolo; ma pochissimi hanno esaminata, e combattuta la crudeltà
delle pene, e l'irregolarità delle procedure criminali, parte di
legislazione così principale e così trascurata in quasi tutta l'Europa;
pochissimi rimontando ai principj generali annientarono gli errori
accumulati di più secoli, frenando almeno, con quella sola forza, che
hanno le verità conosciute, il troppo libero corso della mal diretta
potenza, che ha dato fin'ora un lungo ed autorizzato esempio di
fredda atrocità. E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele
ignoranza, ed alla ricca indolenza; i barbari tormenti con prodiga e
inutile severità moltiplicati per delitti o non provati, o chimerici;
la squallidezza e gli orrori d'una prigione, aumentati dal più crudele
carnefice dei miseri l'incertezza, doveano scuotere quei primi
Magistrati, che guidano le opinioni delle menti umane.
L'immortale Presidente di Montesquieu ha rapidamente scorso su di
questa materia. L'indivisibile verità mi ha forzato a seguire le tracce
luminose di questo grand'Uomo, ma gli uomini pensatori, per i quali
scrivo, sapranno distinguere i miei passi dai suoi. Me fortunato, se
potrò ottenere, com'esso, i segreti ringraziamenti degli oscuri e
pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel dolce
fremito, con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene
gl'interessi della umanità.
Origine delle Pene
Le Leggi sono le condizioni, colle quali uomini liberi, ed isolati di
questo globo si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo
stato di guerra, e di godere una libertà resa inutile dall'incertezza
di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante
con sicurezza, e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di
libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la Sovranità di
una Nazione, ed il Sovrano è il legittimo depositario, ed
amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito,
bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in
particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la
propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano
de' motivi sensibili, che bastassero a distogliere il dispotico animo
di ciascun uomo dal risommergere nell'antico Caos le Leggi della
società. Questi motivi sensibili sono le Pene stabilite contro
agl'infrattori delle Leggi. Dico sensibili motivi, perchè la sperienza
ha fatto vedere, che la moltitudine non adotta stabili principj di
condotta, nè si allontana da quel principio universale di dissoluzione,
che nell'Universo Fisico e Morale si osserva, se non con motivi, che
immediatamente percuotono i sensi, e che di continuo si affacciano alla
mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni
parziali, che si oppongono al bene universale: nè l'eloquenza, nè le
declamazioni, nemmeno le più sublimi verità, sono bastate a frenare per
lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti
presenti.
Diritto di punire.
Ecco dunque sopra di, che è fondato il diritto del Sovrano di punire i
delitti: la necessità di difendere il Deposito della salute pubblica
dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste sono le pene,
quanto più sacra, ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà,
che il Sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano, e in
esso troveremo i principj fondamentali del vero diritto del Sovrano di
punire i delitti; poichè non è da sperarsi alcun vantaggio durevole
dalla Politica Morale, se ella non sia fondata su i sentimenti
indelebili dell'uomo. Qualunque Legge devii da questi, troverà sempre
una resistenza contraria, che vince alla fine; in quella maniera, che
una forza, benchè minima, se sia continuamente applicata, vince
qualunque violento moto comunicato ad un corpo.
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in
vista del ben pubblico: questa chimera non esiste, che nei Romanzi; se
fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe, che i patti, che legano gli
altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le
combinazioni del Globo. Fu dunque la necessità, che costrinse gli
uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo, che
ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico Deposito, che la minima
porzion possibile, quella sola, che basti a indurre gli altri a
difenderlo. L'aggregato di queste minime porzioni possibili forma il
diritto di punire; tutto il di più è abuso e non giustizia; è Fatto, ma
non già Diritto. Osservate, che la parola Diritto non è contradittoria
alla parola Forza; ma la prima è piuttosto una modificazione
della seconda, cioè la modificazione più utile al maggior numero. E per
Giustizia io non intendo altro, che il vincolo necessario per tenere
uniti gl'interessi particolari, che senz'esso si scioglierebbono
nell'antico stato d'insociabilità; tutte le pene, che oltrepassano la
necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura.
Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola Giustizia l'idea di
qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un essere
esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini,
maniera, che influisce infinitamente sulla felicità di ciascuno:
nemmeno intendo quell'altra sorta di Giustizia, che è emanata da Dio, e
che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita
avvenire.
Conseguenze.
La prima conseguenza di questi principj è, che le sole Leggi possono
decretar le pene su i delitti, e quest'autorità non può risedere, che
presso il Legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un
contratto sociale; nessun Magistrato (che è parte di società) può con
giustizia infligger pene contro ad un altro membro della società
medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle
Leggi è la pena giusta più un'altra pena; dunque non può un Magistrato,
sotto qualunque pretesto di zelo, o di ben pubblico accrescere la pena
stabilita ad un delinquente Cittadino.
La seconda conseguenza è, che se ogni membro particolare è legato
alla società, questa è parimente legata con ogni membro particolare per
un contratto, che di sua natura obbliga le due parti. Il Sovrano, che
rappresenta la società medesima, non può formare che Leggi generali,
che obblighino tutt’i membri, ma non già giudicare, che uno abbia
violato il contratto sociale, poichè allora la Nazione si dividerebbe
in due parti, una rappresentata dal Sovrano, che asserisce la
violazione del contratto, e l'altra dall'accusato, che la nega. Egli è
dunque necessario, che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco
la necessità di un Magistrato, le di cui sentenze sieno inappellabili e
consistano in mere asserzioni o negazioni di fatti particolari.
La terza conseguenza è, che quando si provasse, che l'atrocità delle
pene fosse se non immediatamente opposta al ben pubblico, ed al fine
medesimo d'impedire i delitti, almeno inutile, essa sarebbe non solo
contraria a quelle virtù benefiche, che sono l'effetto d'una ragione
illuminata, che preferisce il comandare ad uomini felici più che a una
greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di
timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia, ed alla natura del
contratto sociale medesimo.
Interpetrazione delle Leggi.
Quarta conseguenza: nemmeno l'autorità d'interpetrare le Leggi Penali
può risedere presso i Giudici criminali per la stessa ragione, che non
sono Legislatori. I Giudici non hanno ricevuto le Leggi dagli antichi
nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento, che non
lasciasse ai Posteri, che la cura d'ubbidire, ma le ricevono dalla
vivente società, o dal Sovrano rappresentatore di essa, come legittimo
depositario dell'attuale risultato della volontà di tutti; le ricevono
non come obbligazioni d'un antico giuramento, nullo, perchè legava
volontà non esistenti, iniquo, perchè riduceva gli uomini dallo stato
di società allo stato di mandra, ma come effetti di un tacito, o
espresso giuramento, che le volontà riunite dei viventi sudditi hanno
fatto al Sovrano, come vincoli necessarj per frenare e reggere
l'intestino fermento degl'interessi particolari. Quest'è la fisica e
reale autorità delle leggi. Chi sarà dunque il legittimo interpetre
della Legge? Il Sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di
tutti; o il Giudice, il di cui ufficio è solo l'esaminare, se il tal
uomo abbia fatto, o no un'azione contraria alle leggi?
In ogni delitto si deve fare dal Giudice un sillogismo perfetto: la
maggiore dev'essere la Legge generale: la minore l'azione conforme, o
no alla legge: la conseguenza la libertà, o la pena. Quando il
Giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre
la porta all'incertezza.
Non v'è cosa più pericolosa di quell'assioma comune, che bisogna
consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente
delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti
volgari più percosse da un piccol disordine presente, che dalle
funeste, ma rimote conseguenze, che nascono da un falso principio
radicato in una Nazione, mi sembra dimostrata. Le nostre cognizioni e
tutte le nostre idee hanno una reciproca connessione; quanto più sono
complicate, tanto più numerose sono le strade, che ad esse arrivano, e
partono: Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in
differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della Legge sarebbe
dunque il risultato di una buona, o cattiva logica di un Giudic, di una
facile, o malsana digestione; dipenderebbe dalla violenza delle sue
passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del Giudice
coll'offeso, e da tutte quelle minime forze, che cangiano le apparenze
di ogni oggetto nell'animo fluttuante dell'uomo. Quindi vediamo la
sorte di un Cittadino cambiarsi spesse volte nel passaggio, che fa a
diversi Tribunali, e le vite de' miserabili essere la vittima dei falsi
raziocinj, o dell'attuale fermento degli umori d'un Giudice, che
prende per legittima interpetrazione il vago risultato di tutta quella
confusa serie di nozioni, che gli muove la mente. Quindi vediamo gli
stessi delitti dallo stesso Tribunale puniti diversamente in diversi
tempi per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma
l'errante instabilità delle interpetrazioni.
Un disordine, che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una
Legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini, che nascono
dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare la
facile, e necessaria correzione alle parole della legge; ma impedisce i
fatali ragionamenti, dai quali nascono le arbitrarie, e venali
controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare
alla lettera non lascia al Giudice altra incombenza, che di esaminare
le azioni de' Cittadini, e giudicarle conformi, o difformi alla legge
scritta, quando la norma del giusto, e dell'ingiusto, che deve dirigere
le azioni sì del Cittadino ignorante, che del Cittadino Filosofo, non è
un affare di controversia, ma di fatto; allora i sudditi non sono
soggetti alle piccole tirannie di molti, più fatali, che quelle di un
solo (perchè il dispotismo di molti non è correggibile, che dal
dispotismo di un solo, e la crudeltà di un Dispotico è proporzionata
non alla forza, ma agli ostacoli) tanto più crudeli, quanto è
minore la distanza tra chi soffre, e fa soffrire. Così acquistano i
cittadini quella sicurezza di loro stessi, che è giusta, perchè è lo
scopo per cui gli uomini stanno in società, che è utile, perchè gli
mette nel caso di esattamente calcolare gl'inconvenienti di un
misfatto. Egli è vero altresì, che acquisteranno uno spirito
d'indipendenza; ma non già scuotitore delle leggi, e ricalcitrante ai
supremi Magistrati, bensì a quelli, che hanno osato chiamare col sacro
nome di virtù la debolezza di cedere alle loro interessate o
capricciose opinioni. Egli è cvero, che questi principj spiaceranno a
coloro, che si sono fatto un diritto di trasmettere agl'inferiori i
colpi della tirannia, che hanno ricevuto dai Superiori. Dovrei tutto
temere, se lo spirito di tirannia fosse componibile collo spirito di
lettura.
Oscurità delle leggi.
Se l'interpetrazione delle Leggi è un male; egli è evidente esserne un
altro l'oscurità, che strascina seco necessariamente l'interpetrazione,
e lo sarà grandissimo, se le leggi sieno scritte in una lingua
straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi, non
potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l'esito della sua libertà, o
dei suoi membri, in una lingua, che formi di un libro solenne, e
pubblico un quasi privato e domestico. Che dovremo pensare degli
uomini, riflettendo esser questo l'inveterato costume di buona
parte della colta ed illuminata Europa! Quanto maggiore sarà il numero
di quelli, che intenderanno, e avranno fralle mani il sacro Codice
delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perchè non v'ha
dubbio; che l'ignoranza, e l'incertezza delle pene non ajutino
l'eloquenza delle passioni.
Una conseguenza di quest'ultime riflessioni è, che senza la scrittura
una società non prenderà mai una forma fissa di Governo, in cui la
forza sia un effetto del tutto, e non delle parti, e in cui le leggi
inalterabili, se non dalla volontà generale, non si corrompano passando
per la folla degl'interessi privati. L'esperienza, e la ragione ci
hanno fatto vedere, che la probabilità e la certezza delle tradizioni
umane si sminuiscono a misura, che si allontanano dalla sorgente. Che
se non esiste uno stabile monumento del patto sociale, come
resisteranno le leggi alla forza inevitabile del tempo, e delle
passioni?
Da ciò vediamo quanto sia utile la stampa, che rende il Pubblico, e non
alcuni pochi, depositario delle sante Leggi, e quanto abbia dissipato
quello spirito tenebroso di Cabala, e d'intrigo, che sparisce in faccia
ai lumi, ed alle scienze apparentemente disprezzate, e realmente temute
dai seguaci di lui. Questa è la cagione, per cui vediamo sminuita
in Europa l'atrocità de' delitti, che facevano gemere gli antichi
nostri Padri, i quali diventavano a vicenda tiranni, e schiavi. Chi
conosce la storia di due o tre secoli fa, e la nostra, potrà vedere,
come dal seno del Lusso, e della Mollezza, nacquero le più dolci virtù,
l'Umanità, la Beneficenza, la Tolleranza degli errori umani. Vedrà
quali furono gli effetti di quella, che chiamasi a torto antica
semplicità, e buona fede, l'umanità gemente sotto l'implacabile
superstizione, l'avarizia, l'ambizione di pochi tinger di sangue umano
gli scrigni dell'oro; e i Troni dei Re, gli occulti tradimenti, le
pubbliche stragi, ogni nobile, tiranno della plebe, i Ministri della
verità Evangelica lordando di sangue le mani, che ogni giorno toccavano
il Dio di Mansuetudine, non sono l'opera di questo secolo illuminato,
che alcuni chiamano corrotto.
Proporzione fra i Delitti e le Pene
Non solamente è interesse comune, che non si commettano delitti, ma che
siano più rari a proporzione del male, che arrecano alla società umana.
Dunque più forti debbono essere gli ostacoli, che risospingono gli
uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a
misura delle spinte, che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere
una proporzione fra i delitti, e le pene.
È impossibile di prevenire tutti i disordini nell'universal
combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragione composta
della popolazione, e dell'incrocicchiamento degl'interessi particolari,
che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità.
All'esattezza matematica bisogna sostituire nell'Aritmetica Politica il
calcolo delle probabilità. Si aprano le storie, e si vedranno crescere
i disordini coi confini degl'Imperj: dunque bisogna frenare con
maggiori pene quei disordini, che più disturbano il ben pubblico, con
minori i meno importanti.
Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere,
non si trattiene, che a misura degli ostacoli, che gli sono opposti.
Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane:
se queste si urtano scambievolmente, e si offendono, le pene, che io
chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza
distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima
inseparabile dall'uomo, e il legislatore fa come l'abile Architetto di
cui l'officio è di opporsi alle direzioni rovinose della Gravità, e di
far conspirare quelle, che contribuiscono alla forza dell'edificio.
Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che
necessariamente risultano dalla opposizione medesima
degl'interessi privati trovasi una scala di disordini, dei quali
il primo grado consiste in quelli, che distruggono immediatamente la
Società, e l'ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati
membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni
opposte al ben Pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per
gradi insensibili, decrescendo dal più sublime al più infimo. Se la
Geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle
azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che
discendesse dalla più forte, alla più debole; ma basterà al saggio
Legislatore di segnarne i punti principali, senza turbar l'ordine, non
decretando ai delitti del primo grado le pene dell'ultimo. Se vi fosse
una scala esatta ed universale delle Pene, e dei Delitti, avremmo una
probabile, e comune misura dei gradi di Tirannia, e di libertà, del
fondo di umanità o di malizia delle diverse Nazioni.
Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non può
essere chiamata Delitto, o punita come tale, se non da coloro, che vi
trovano il loro interesse, nel così chiamarla. La incertezza di questi
limiti ha prodotta nelle Nazioni una morale, che contradice alla
legislazione; più attuali legislazioni, che si escludono
scambievolmente; una moltitudine di Leggi, che espongono il più saggio
alle pene più rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di
Vizio e di Virtù, e però nata l'incertezza della propria esistenza, che
produce il letargo, ed il sonno fatale nei corpi politici. Chiunque
leggerà con occhio Filosofico i Codici delle Nazioni e i loro Annali,
troverà quasi sempre i nomi di Vizio e di Virtù, di buon Cittadino o di
Reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non in ragione delle
mutazioni, che accadono nelle circostanze dei Paesi, e per conseguenza
sempre conformi all'interesse comune; ma in ragione delle passioni, e
degli errori, che successivamente agitarono i differenti legislatori.
Vedrà bene spesso, che le passioni di un secolo sono la base della
morale dei secoli futuri, che le passioni forti figlie del Fanatismo e
dell'Entusiasmo indebolite e rose, dirò così, dal tempo, che riduce
tutti i fenomeni fisici, e morali all'equilibrio, diventano a poco a
poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e
dell'accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e
di virtù, e tali sono perchè si cambiano colle rivoluzioni del tempo,
che fa sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano coi fiumi e colle
montagne, che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma
della morale Geografia.
Se il piacere, e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra
i motivi, che spingono gli uomini, anche alle più sublimi
operazioni, furono destinati dall'invisibile Legislatore il premio, e
la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto
meno osservata contradizione, quanto più comune, che le pene puniscano
i delitti, che hanno fatto nascere. Se una pena uguale è destinata a
due delitti, che disugualmente offendono la società, gli uomini non
troveranno un più forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se
con esso vi trovino unito un maggior vantaggio.
Errori nella misura delle pene
Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire, che l'unica
e vera misura dei delitti è il danno fatto alla Nazione, e però
errarono coloro, che credettero vera misura dei delitti l'intenzione di
chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli
oggetti, e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in
tutti gli uomini e in ciascun uomo colla velocissima successione delle
idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario
formare non solo un Codice particolare per ciascun Cittadino, ma una
nuova Legge, ad ogni Delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore
intenzione fanno il maggior male alla Società; e alcune altre volte
colla più cattiva volontà ne fanno il maggior bene.
Altri misurano i delitti più dalla dignità della persona offesa, che
dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera
misura dei delitti, una irriverenza all'Essere degli Esseri dovrebbe
più atrocemente punirsi, che l'assassinio d'un Monarca; la superiorità
della Natura essendo un infinito compenso alla differenza dell'offesa.
Finalmente alcuni pensarono, che la gravezza del peccato entrasse nella
misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi
d'un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini, e uomini, e
tra uomini, e Dio. La sola necessità ha fatto nascere dall'urto delle
passioni, e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della utilità
comune, che è la base della Giustizia umana; i secondi sono rapporti di
dipendenza da un Essere perfetto, e creatore, che si è riserbato a sè
solo il diritto di essere Legislatore, e Giudice nel medesimo tempo,
perchè egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene
eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l'insetto che
oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l'Essere, che
basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione
alcuna di piacere, o di dolore, e che solo tra tutti gli Esseri agisce
senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile
malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione
sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i Delitti?
Potrebbon in questo caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e
perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono essere in
contradizione coll'Onnipossente nell'offenderlo, possono anche esserlo
col punire.
Divisione dei Delitti.
Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei Delitti, cioè il danno della
Società. Questa è una di quelle palpabili verità, che quantunque non
abbian bisogno nè di quadranti, nè di telescopj, per essere scoperte,
ma sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure per una
maravigliosa combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza
conosciute, che da alcuni pochi pensatori, uomini d'ogni Nazione, e
d'ogni secolo. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite
d'autorità, e di potere, hanno la maggior parte delle volte per
insensibili spinte, alcune poche per violente impressioni sulla timida
credulità degli uomini dissipate le semplici nozioni, che forse
formavano la prima Filosofia delle nascenti Società, ed a cui la luce
di questo secolo sembra, che ci riconduca, con quella maggior fermezza
però, che può essere somministrata da un esame Geometrico, da mille
funeste sperienze, e dagli ostacoli medesimi. Or l'ordine ci
condurrebbe ad esaminare, e distinguere tutte le differenti sorte di
delitti, e la maniera di punirli; se la variabile natura di essi per le
diverse circostanze dei secoli e dei luoghi, non ci obbligasse ad un
dettaglio immenso e noioso. Mi basterà indicare i principj più
generali, e gli errori più funesti e comuni per disingannare sì quelli,
che per un mal inteso amore di libertà vorrebbono introdurre
l'Anarchia, come coloro, che amerebbero ridurre gli uomini ad una
claustrale regolarità.
Alcuni delitti distruggono immediatamente la società, o chi la
rappresenta: Alcuni offendono la privata sicurezza di un Cittadino
nella vita, nei beni, o nell'onore: alcuni altri sono azioni contrarie
a ciò, che ciascuno è obbligato dalle Leggi di fare, o non fare, in
vista del ben Pubblico. I primi, che sono i massimi delitti, perchè più
dannosi, son quelli, che chiamansi di lesa Maestà. La sola tirannia e
l'ignoranza, che confondono i vocaboli, e le idee più chiare, possono
dar questo nome, e per conseguenza la massima pena, a delitti di
differente natura, e rendere così gli uomini, come in mille altre
occasioni, vittime di una parola. Ogni delitto, benchè privato, offende
la società; ma ogni delitto non ne tenta la immediata distruzione. Le
azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera limitata di
attività e sono diversamente circoscritte, come tutti i movimenti
di natura, dal tempo, e dallo spazio; e però la sola cavillosa
interpetrazione, che è per l'ordinario la filosofia della schiavitù,
può confondere ciò, che dall'eterna verità fu con immutabili rapporti
distinto.
Dopo questi seguono i delitti contrarj alla sicurezza di ciascun
particolare. Essendo questo il fine primario di ogni legittima
associazione, non può non assegnarsi alla violazione del dritto di
sicurezza, acquistato da ogni Cittadino, alcuna delle pene più
considerabili stabilita dalle Leggi.
L'opinione, che ciaschedun Cittadino deve avere di poter fare tutto
ciò, che non è contrario alle Leggi, senza temerne altro inconveniente,
che quello, che può nascere dall'azione medesima, questo è il Dogma
Politico, che dovrebb'essere dai popoli creduto, e dai supremi
magistrati colla incorrotta custodia delle Leggi predicato; sacro
Dogma, senza di cui non vi può essere legittima Società, giusta
ricompensa del sacrificio fatto dagli uomini di quell'azione universale
su tutte le cose comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto
dalle proprie forze. Questo forma le libere anime e vigorose, e le
menti rischiaratrici, rende gli uomini virtuosi, ma di quella virtù,
che sa resistere al timore, e non di quella pieghevole prudenza,
degna solo, di chi può soffrire un'esistenza precaria ed incerta. Gli
attentati dunque contro la sicurezza e libertà de' Cittadini, sono uno
de' maggiori delitti, e sotto questa classe cadono non solo gli
assassinj, e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei Grandi e
dei Magistrati, l'influenza dei quali agisce ad una maggior distanza, e
con maggior vigore, distruggendo nei sudditi le idee di Giustizia, e di
dovere, e sostituendo quella del diritto del più forte, pericoloso del
pari in chi lo esercita, e in chi lo soffre.
Dell'onore.
V'è una contradizione rimarcabile fralle Leggi civili gelose custodi
più d'ogni altra cosa del corpo, e dei beni di ciascun Cittadino, e le
Leggi di ciò, che chiamasi onore? che vi preferisce l'opinione. Questa
parola onore è una di quelle, che ha servito di base a lunghi e
brillanti ragionamenti, senza attaccarvi veruna idea fissa e stabile.
Misera condizione, delle menti umane, che le lontanissime, e meno
importanti idee delle rivoluzioni dei corpi celesti, sieno con più
distinta cognizione presenti, che le vicine ed importantissime nozioni
morali, fluttuanti sempre, e confuse, secondo, che i venti delle
passioni le sospingono, e l'ignoranza guidata le riceve, e le
trasmette! Ma sparirà l'apparente paradosso, se si consideri, che come
gli oggetti troppo vicini agli occhi si confondono, così la
troppa vicinanza delle idee morali fa, che facilmente si rimescolino le
moltissime idee semplici, che le compongono, e ne confondano le linee
di separazione necessarie allo spirito Geometrico, che vuol misurare i
fenomeni della umana sensibilità. E scemerà del tutto la maraviglia
nell'indifferente indagatore delle cose umane, che sospetterà non
esservi per avventura bisogno di tanto apparato di Morale, nè di tanti
legami per render gli uomini felici e sicuri.
Quest'onore dunque è una di quelle idee complesse, che sono un
aggregato non solo d'idee semplici, ma d'idee parimente complicate, che
nel vario affacciarsi alla mente ora ammettono, ed ora escludono alcuni
de' diversi elementi, che le compongono; nè conservano, che alcune
poche idee comuni, come più quantità complesse algebraiche ammettono un
comune Divisore. Per trovar questo comune Divisore nelle varie idee,
che gli uomini si formano dell'onore, è necessario gettar rapidamente
un colpo d'occhio sulla formazione delle società. Le prime Leggi, e i
primi Magistrati nacquero dalla necessità di riparare ai disordini del
Fisico dispotismo di ciascun uomo; questo fu il fine institutore della
Società, e questo fine primario si è sempre conservato realmente, o in
apparenza alla testa di tutt'i codici, anche distruttori; ma
l'avvicinamento degli uomini e il progresso delle loro cognizioni,
hanno fatto nascere una infinita serie di azioni, e di bisogni,
vicendevoli gli uni verso gli altri, sempre superiori alla providenza
delle Leggi, ed inferiori all'attuale potere di ciascuno. Da
quest'Epoca cominciò il dispotismo della opinione, che era l'unico
mezzo di ottenere dagli altri quei beni, e di allontanarne quei mali,
ai quali le Leggi non erano sufficienti a provvedere. E l'opinione è
quella, che tormenta il saggio, ed il volgare, che ha messo in credito
l'apparenza della virtù, al disopra della virtù stessa, che fa diventar
Missionario anche lo scellerato, perchè vi trova il proprio interesse.
Quindi i suffragj degli uomini divennero non solo utili, ma necessarj,
per non cadere al disotto del comune livello. Quindi se l'ambizioso li
conquista come utili, se il vano va mendicandoli come testimonj del
proprio merito, si vede l'uomo d'onore esigerli come necessarj.
Quest'onore è una condizione, che moltissimi uomini mettono alla
propria esistenza. Nato dopo la formazione della Società, non potè
esser messo nel comune deposito, anzi è un instantaneo ritorno nello
stato naturale, e una sottrazione momentanea della propria persona da
quelle Leggi, che in quel caso non difendono bastantemente un Cittadino.
Quindi è nell'estrema libertà Politica, e nella estrema dipendenza,
spariscono le idee dell'onore, o si confondono perfettamente con altre;
perchè nella prima il dispotismo delle Leggi rende inutile la ricerca
degli altrui suffragj, nella seconda, perchè il dispotismo degli uomini
annullando l'esistenza civile, li riduce ad una precaria, e momentanea
personalità. L'onore è dunque uno dei principj fondamentali di quelle
Monarchie, che sono un dispotismo sminuito; e in esse sono quello, che
negli stati dispotici le rivoluzioni, un momento di ritorno nello stato
di Natura, ed un ricordo al Padrone dell'antica uguaglianza.
Dei duelli
Da questa necessità degli altrui suffragj nacquero i duelli privati,
ch'ebbero appunto la loro origine nell'Anarchia delle leggi. Si
pretendono sconosciuti all'antichità, forse perchè gli Antichi non si
radunavano sospettosamente armati nei Tempj, nei Teatri, e cogli amici;
forse perchè il Duello era uno spettacolo ordinario e comune, che i
gladiatori schiavi ed avviliti davano al Popolo, e gli uomini liberi
sdegnavano d'esser creduti, e chiamati gladiatori coi privati
combattimenti. In vano gli editti di morte contro chiunque accetta un
Duello, hanno cercato estirpare questo costume, che ha il suo
fondamento in ciò che alcuni uomini temono più che la morte,
poichè privandolo degli altrui suffragj, l'uomo d'onore si
prevede esposto o a divenire un essere meramente solitario, stato
insoffribile ad un uomo socievole, ovvero a divenire il bersaglio
degl'insulti, e dell'infamia, che colla ripetuta loro azione prevalgono
al pericolo della pena. Per qual motivo il minuto popolo non duella per
lo più come i Grandi? Non solo perchè è disarmato; ma perchè la
necessità degli altrui suffragj è meno comune nella plebe, che in
coloro, che essendo più elevati, si guardano con maggior sospetto e
gelosia.
Non è inutile il ripetere ciò che altri hanno scritto, cioè, che il
miglior metodo di prevenire questo delitto, è di punire l'Aggressore,
cioè chi ha dato occasione al Duello, dichiarando innocente chi senza
sua colpa è stato costretto a difendere ciò che le Leggi non
assicurano, cioè l'opinione; ed ha dovuto mostrare a' suoi Concittadini
ch'egli teme le sole Leggi, e non gli uomini.
Della tranquillità pubblica
Finalmente, tra i delitti della terza specie sono particolarmente
quelli, che turbano la pubblica tranquillità, e la quiete de'
Cittadini, come gli strepiti, e i bagordi nelle pubbliche vie destinate
al Commercio, ed al passeggio de' Cittadini, come i fanatici sermoni,
che eccitano le facili passioni della curiosa moltitudine, le quali
prendono forza dalla frequenza degli uditori, e più dall'oscuro e
misterioso entusiasmo, che dalla chiara e tranquilla ragione, la quale
mai non opera sopra una gran massa d'uomini.
La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie distribuite nei
differenti quartieri delle Città, i semplici e morali discorsi della
Religione riserbati al silenzio, ed alla sacra tranquillità dei Tempj
protetti dall'autorità pubblica, le arringhe destinate a sostenere
gl'interessi privati e pubblici nelle adunanze della Nazione, nei
parlamenti o dove risieda la Maestà del Sovrano, sono tutti mezzi
efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari
passioni. Questi formano un ramo principale della vigilanza del
Magistrato, chiamato della Police; ma se questo Magistrato operasse con
Leggi arbitrarie, e non istabilite da un Codice, che giri fralle mani
di tutti i Cittadini, si apre una porta alla tirannia, che sempre
circonda tutti i confini della libertà Politica. Io non trovo eccezione
alcuna a quest'assioma generale, che ogni Cittadino deve sapere quando
sia reo, o quando sia innocente. Se i censori, e in genere i Magistrati
arbitrarj, sono necessarj in qualche governo, ciò nasce dalla debolezza
della sua costituzione, e non dalla natura di governo bene organizzato.
L'incertezza della propria sorte ha sacrificate più vittime
all'oscura tirannia, che non la pubblica e solenne crudeltà, che
rivolta gli animi più che non gli avvilisce. Il vero Tiranno comincia
sempre dal regnare sull'opinione, che previene il coraggio, il quale
solo può risplendere o nella chiara luce della verità, o nel fuoco
delle passioni, o nell'ignoranza del pericolo.
Ma quali saranno le pene convenienti a questi delitti? La morte è ella
una pena veramente utile, e necessaria, per la sicurezza, e pel buon
ordine della Società? La tortura, e i tormenti sono eglino giusti, e
ottengon eglino il fine, che si propongono le Leggi? Qual è la miglior
maniera di prevenire i delitti? Le medesime pene sono elleno egualmente
utili in tutt'i tempi? Qual influenza hanno esse su i costumi? Questi
problemi meritano di essere sciolti con quella precisione geometrica, a
cui la nebbia dei sofismi, la seduttrice eloquenza, ed il timido dubbio
non posson resistere. Se io non avessi altro merito, che quello di aver
presentato il primo all'Italia con qualche maggior evidenza, ciò che
altre Nazioni hanno osato scrivere, e cominciano a praticare, io mi
stimerei fortunato; ma se sostenendo i diritti degli uomini, e
dell'invincibile verità contribuissi a strappare dagli spasimi, e dalle
angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia, o
dell'ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni, e le lagrime anche
d'un solo innocente nei trasporti della gioja, mi consolerebbero dal
disprezzo degli uomini.
Fine delle Pene
Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte, egli è
evidente, che il fine delle pene non è di tormentare, ed affliggere un
essere sensibile, nè di disfare un delitto già commesso. Può egli in un
corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo
moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa
inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo, o dei deboli
tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo, che non
ritorna, le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro, che
d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi Cittadini, e di rimuovere
gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque, e quel metodo
d'infliggerle, deve esser prescelto, che, serbata la proporzione, farà
una impressione più efficace, e più durevole sugli animi degli uomini,
e la meno tormentosa sul corpo del reo.
Dei Testimonj
Egli è un punto considerabile in ogni buona legislazione il determinare
esattamente la credibilità dei Testimonj, e le prove del reato. Ogni
uomo ragionevole, cioè che abbia una certa connessione nelle proprie
idee, e le di cui sensazioni sieno conformi a quelle degli altri
uomini, può essere testimonio. Ma la di lui credibilità dunque
deve sminuirsi, a proporzione dell'odio, o dell'amicizia, o delle
strette relazioni, che passano tra lui, e il reo. Più d'un testimonio è
necessario, perchè fintanto che uno asserisce, e l'altro nega. niente
v'è di certo, e prevale l'innocenza. La credibilità di un testimonio
diviene tanto sensibilmente minore, quanto più cresce l'atrocità di un
delitto, o l'inverisimiglianza delle circostanze; tali sono per esempio
la magia, e le azioni gratuitamente crudeli. Egli è più probabile, che
più uomini mentiscano nella prima accusa, perchè è più facile, che si
combini in più uomini o l'illusione dell'ignoranza, o l'odio
persecutore, di quello che un uomo eserciti una potestà, che Dio o non
ha dato, o ha tolto ad ogni essere creato. Parimente nella seconda,
perchè l'uomo non è crudele, che a proporzione del proprio interesse,
dell'odio, o del timore concepito. Non v'è propriamente alcun
sentimento superfluo nell'uomo; egli è sempre proporzionale al
risultato delle impressioni fatte su i sensi. Parimente la credibilità
di un testimonio può essere alcuna volta sminuita, quand'egli sia
membro d'alcuna società privata, di cui gli usi, e le massime siano o
non ben conosciute, o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha non solo
le proprie, ma le altrui passioni.
Finalmente è quasi nulla la credibilità del testimonio, quando si
faccia delle parole un delitto, poichè il tuono, il gesto, tutto ciò
che precede, e ciò che siegue le differenti idee, che gli uomini
attaccano alle stesse parole, alterano, e modificano in maniera i detti
di un uomo, che è quasi impossibile il ripeterle, quali precisamente
furon dette. Di più, le azioni violente, e fuori dell'uso ordinario,
quali sono i veri delitti, lascian traccia di se nella moltitudine
delle circostanze, e negli effetti, che ne derivano; ma le parole non
rimangono, che nella memoria per lo più infedele, e spesso sedotta
degli ascoltanti. Egli è adunque di gran lunga più facile una calunnia
sulle parole, che sulle azioni di un uomo, poichè di queste, quanto
maggior numero di circostanze si adducono in prova, tanto maggiori
mezzi si somministrano al reo per giustificarsi.
Accuse segrete
Un evidente, ma consacrato disordine, e in molte Nazioni reso
necessario per la debolezza della constituzione, sono le accuse
segrete? Un tal costume rende gli uomini falsi, e coperti. Chiunque può
sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Gli
uomini allora si avvezzano a mascherare i proprj sentimenti, e coll'uso
di nasconderli altrui, arrivano finalmente a nasconderli a loro
medesimi. Infelici gli uomini quando son giunti a questo segno,
senza principj chiari ed immobili, che gli guidino, errano smarriti, e
fluttuanti nel vasto mare delle opinioni, sempre occupati a salvarsi
dai mostri, che gli minacciano; passano il momento presente sempre
amareggiato dalla incertezza del futuro. Privi dei durevoli piaceri
della tranquillità, e sicurezza, appena alcuni pochi sparsi qua e là
nella trista loro vita, con fretta, e con disordine divorati, li
consolano d'esser vissuti. E di questi uomini faremo noi gl'intrepidi
soldati difensori della Patria, o del Trono? E tra questi troveremo
gl'incorrotti Magistrati, che con libera e patriottica eloquenza
sostengano e sviluppino i veri interessi del Sovrano, che portino al
Trono coi tributi l'amore e le benedizioni di tutti i ceti d'uomini, e
da questo rendano ai palagi, ed alle capanne la pace, la sicurezza, e
l'industriosa speranza di migliorare la sorte, utile fermento e vita
degli stati?
Chi può difendersi dalla calunnia quand'ella è armata dal più forte
scudo della tirannia, il segreto? Qual sorta di governo è mai quella,
ove chi regge, sospetta in ogni suo suddito un nemico, ed è costretto
per il pubblico riposo di toglierlo a ciascuno?
È già stato detto da Montesquieu, che le pubbliche accuse sono più
conformi alla Repubblica, dove il pubblico bene formar dovrebbe
la prima passione de' Cittadini, che nella Monarchia, dove questo
sentimento è debolissimo per la natura medesima del Governo, dove è
ottimo stabilimento il destinare dei Commissarj, che in nome pubblico
accusino gl'infrattori delle Leggi. Ma ogni Governo, e Repubblicano, e
Monarchico, deve al calunniatore dare la pena, che toccherebbe
all'accusato.
Della Tortura
Una crudeltà consacrata dall'uso nella maggior parte delle Nazioni è la
Tortura del reo, mentre si forma il Processo, o per constringerlo a
confessare un Delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o
per la scoperta dei complici, o per non so quale metaforica ed
incomprensibile purgazione d'infamia.
Un uomo non può chiamarsi Reo prima della sentenza del Giudice, nè la
società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia
definito, ch'egli abbia violati i patti, coi quali le fu accordata.
Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la
podestà ad un Giudice di dare una pena ad un Cittadino, mentre si
dubita se sia reo, o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il
delitto è certo, o incerto; se certo, non gli conviene altra pena, che
la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perchè inutile è
la confessione del reo; se è incerto, e' non devesi tormentare un
innocente, perchè tale è secondo le Leggi un uomo, i di cui
delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch'egli è un voler
confondere tutt'i rapporti, l'esigere, che un uomo sia nello stesso
tempo accusatore, ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della
verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli, e nelle
fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti
scellerati, e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali
inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno
di un Cannibale; che i Romani barbari anch'essi per più d'un titolo
riserbavano ai soli schiavi vittime di una feroce, e troppo lodata
virtù.
Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini. Ma
qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carnificine, che
la tirannia dell'uso esercita su i rei e sugl'innocenti? Egli è
importante, che ogni delitto palese non sia impunito; ma è inutile, che
si accerti il delitto di un uomo, che sta sepolto nelle tenebre
dell'incertezza. Un male già fatto, ed a cui non v'è rimedio, non può
esser punito dalla Società politica, che quanto influisce sugli altri
colla lusinga dell'impunità. S'egli è vero, che sia maggiore il numero
degli uomini, che o per timore, o per virtù, rispettano le Leggi, che
di quelli, che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente
deve valutarsi tanto di più, quanto è maggiore la probabilità, che un
uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate, che disprezzate.
Un altro ridicolo motivo della Tortura è la purgazione dell'infamia,
cioè, un uomo giudicato infame dalle Leggi deve confermare la sua
deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest'abuso non dovrebbe
esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede, che il dolore, che è
una sensazione, purghi l'infamia, che è un mero rapporto morale. È egli
forse un crociuolo? E l'infamia è forse un corpo misto impuro? Non è
difficile il rimontare all'origine di questa ridicola legge, perchè gli
assurdi stessi, che sono da una Nazione intera adottati, hanno sempre
qualche relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla Nazione
medesima. Sembra quest'uso preso dalle idee religiose e spirituali, che
hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le Nazioni e su i
secoli. Un dogma infallibile ci assicura, che le macchie contratte
dall'umana debolezza, e che non hanno meritata l'ira eterna del
grand'Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate; ora
l'infamia è una macchia civile, e come il dolore ed il fuoco tolgono le
macchie spirituali ed incorporee; perchè gli spasimi della Tortura non
toglieranno la macchia civile, che è l'Infamia? Io credo, che la
confessione del reo, che in alcuni Tribunali si esige come
essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile, perchè nel
misterioso Tribunale di penitenza la confessione dei peccati è parte
essenziale del Sacramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi più
sicuri della rivelazione; e siccome questi sono i soli, che sussistono
nei tempi d'ignoranza, così ad essi ricorre la docile umanità in tutte
le occasioni, e ne fa le più assurde e lontane applicazioni. Ma
l'infamia è un sentimento non soggetto nè alle Leggi, nè alla ragione,
ma alla opinione comune. La Tortura medesima cagiona una reale infamia
a chi ne è la vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l'infamia
dando l'infamia.
Il terzo motivo è la Tortura, che si dà ai supposti rei, quando nel
loro esame cadono in contradizione, quasi, che il timore della pena,
l'incertezza del giudizio, l'apparato e la maestà del Giudice,
l'ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati, e agl'innocenti, non
debbano probabilmente far cadere in contradizione e l'innocente, che
teme, e il reo, che cerca di coprirsi; quasi, che le contradizioni,
comuni agli uomini quando sono tranquilli non debbano moltiplicarsi
nella turbazione dell'animo tutto assorbito nel pensiero di salvarsi
dall'imminente pericolo.
Questo infame crociuolo della verità è un monumento ancora esistente
dell'antica, e selvaggia Legislazione, quando erano chiamati Giudizi
d'Iddio le prove del fuoco, e dell'acqua bollente, e l'incerta sorte
dell'armi; quasi, che gli anelli dell'eterna catena, che è nel seno
della prima cagione, dovessero ad ogni momento essere disordinati, e
sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola differenza, che
passa fralla Tortura, e le prove del fuoco, e dell'acqua bollente, è,
che l'esito della prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle
seconde da un fatto puramente fisico ed estrinseco: ma questa
differenza è solo apparente, e non reale. È così poco libero il dire la
verità fra gli spasimi, e gli strazj, quanto lo era allora l'impedire
senza frode gli effetti del fuoco, e dell'acqua bollente. Ogni atto
della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della
impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni
uomo è limitata. Dunque l'impressione del dolore può crescere a segno,
che occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato, che di
scegliere la strada più corta per il momento presente, onde sottrarsi
di pena. Allora la risposta del reo è così necessaria, come le
impressioni del fuoco o dell'acqua. Allora l'innocente sensibile si
chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento.
Ogni differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo, che si
pretende impiegato per ritrovarla. L'esito dunque della Tortura è un
affare di temperamento, e di calcolo, che varia in ciascun uomo in
proporzione della sua robustezza, e della sua sensibilità; tanto che
con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio, che un Giudice
questo problema. Data la forza dei muscoli, e la sensibilità delle
fibre d'un innocente trovare il grado di dolore, che lo farà confessar
reo di un dato delitto.
L'esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma se questa verità
difficilmente scopresi all'aria, al gesto, alla fisonomia d'un uomo
tranquillo, molto meno scoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del
dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto della maggior
parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la verità?
Ogni azione violenta confonde, e fa sparire le minime differenze degli
oggetti, per cui si distingue talora il vero dal falso.
Queste verità sono state conosciute dai Romani Legislatori, presso i
quali non trovasi usata alcuna Tortura, che su i soli schiavi, ai quali
era tolta ogni personalità. Queste l'Inghilterra, Nazione, in cui la
gloria delle Lettere, la superiorità del Commercio, e delle Ricchezze,
e perciò della potenza, e gli esempj di virtù, e di coraggio, non ci
lasciano dubitare della bontà delle Leggi, anch'essa ha conosciute. La
Tortura è stata abolita nella Svezia, abolita da uno de' più saggi
Monarchi dell'Europa, che avendo portata la Filosofia sul Trono,
Legislatore amico de' suoi sudditi, gli ha resi uguali, e liberi nella
dipendenza delle Leggi, che è la sola uguaglianza, e libertà, che
possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di
cose. La Tortura non è creduta necessaria dalle Leggi degli Eserciti
composti per la maggior parte della feccia delle Nazioni, che
sembrerebbero perciò doversene più d'ogni altro ceto servire. Strana
cosa per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell'uso, che
le pacifiche Leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi,
ed al sangue, il più umano metodo di giudicare!
Questa verità è finalmente sentita, benchè confusamente, da quei
medesimi, che se ne allontanano: Non vale la confessione fatta durante
la Tortura, se non è confermata con giuramento dopo cessata quella, ma
se il reo non conferma il delitto, è di nuovo torturato. Alcuni
Dottori, ed alcune Nazioni non permettono questa infame petizione di
principio, che per tre volte; altre Nazioni, ed altri Dottori la
lasciano ad arbitrio del Giudice: Cosicchè di due uomini ugualmente
innocenti, o ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assolto,
il fiacco, ed il timido condannato, in vigore di questo esatto
raziocinio: Io Giudice doveva trovarvi rei di un tal delitto; tu
vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; Tu debole
vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento, che la confessione
strappatavi fra i tormenti non avrebbe alcuna forza; ma io vi
tormenterò di nuovo, se non confermerete ciò che avete confessato.
L'ultima, e strana conseguenza, che necessariamente deriva dall'uso
della Tortura è, che l'innocente è posto in peggiore condizione, che il
reo; perchè se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte
le combinazioni contrarie; perchè o confessa il delitto, ed è
condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita;
ma il reo ha un caso favorevole per sè, cioè quando, resistendo alla
Tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato
una pena maggiore in una minore. Dunque l'innocente non può che
perdere, e il colpevole può guadagnare.
La Legge, che comanda la tortura è una Legge, che dice: Uomini,
resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile
amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra difesa,
io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di voi
stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità anche
fra gli strappamenti dei muscoli, e gli slogamenti delle ossa.
Finalmente la Tortura è data ad un accusato per discuoprire i complici
del suo delitto; ma se è dimostrato, che ella non è un mezzo opportuno
per iscuoprire la verità, come potrà ella servire a svelare i complici,
che è una delle verità da scoprirsi? Quasi, che l'uomo, che accusa se
stesso non accusi più facilmente gli altri. È egli giusto tormentar gli
uomini per l'altrui delitto? Non si scopriranno i complici dall'esame
dei Testimonj, dall'esame del reo, dalle prove, e dal corpo del
delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi, che debbono servire per
accertare il delitto nell'accusato? I complici per lo più fuggono
immediatamente dopo la prigionia del compagno; l'incertezza della loro
sorte li condanna da se sola all'esiglio, e libera la Nazione dal
pericolo di nuove offese, mentre la pena del reo, che è nelle forze,
ottiene l'unico suo fine, cioè di rimuover col terrore gli altri uomini
da un simil delitto.
Dei Giuramenti.
Un'altra contradizione fralle Leggi, e i sentimenti naturali all'uomo
nasce, dai Giuramenti, che si esigono dal reo, acciocchè sia uomo
veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso; quasi, che
l'uomo potesse giurar da dovero di contribuire alla propria
distruzione, quasi che la religione non tacesse nella maggior parte
degli uomini, quando parla l'interesse. L'esperienza di tutt'i secoli
ha fatto vedere, che essi hanno più d'ogni altra cosa abusato di questo
prezioso dono del Cielo. E per qual motivo gli scellerati la
rispetteranno, se gli uomini stimati più saggi l'hanno sovente violata?
Troppo deboli, perchè troppo remoti dai sensi, sono per il maggior
numero i motivi, che la religione contrappone al tumulto del timore, ed
all'amor della vita. Gli affari del Cielo si reggono con Leggi affatto
dissimili da quelle, che reggono gli affari umani: E perchè
comprometter gli uni cogli altri? E perchè metter l'uomo nella
terribile contradizione, o di mancare a Dio, o di concorrere alla
propria rovina? cosicchè la Legge, che obbliga ad un tal giuramento,
comanda o di esser cattivo Cristiano, o Martire. Il Giuramento diviene
a poco a poco una semplice formalità, distruggendosi in questa maniera
la forza dei sentimenti di Religione, unico pegno dell'onestà della
maggior parte degli uomini. Quanto sieno inutili i Giuramenti lo ha
fatto vedere l'esperienza, perchè ciascun Giudice mi può esser
testimonio, che nissun Giuramento ha mai fatto dire la verità ad alcun
reo; lo fa vedere la ragione, che dichiara inutili, e per conseguenza
dannose tutte le Leggi, che si oppongono ai naturali sentimenti
dell'uomo. Accade ad esse ciò che agli argini opposti direttamente al
corso di un fiume: O sono immediatamente abbattuti e soverchiati, o un
vortice formato da loro stessi li corrode, e li mina insensibilmente.
Prontezza della Pena
Quanto la pena sarà più pronta, e più vicina al delitto commesso, ella
sarà tanto più giusta, e tanto più utile. Dico più giusta, perchè
risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell'incertezza, che
crescono col vigore dell'immaginazione, e col sentimento della propria
debolezza; più giusta, perchè la privazione della libertà, essendo una
pena, essa non può precedere la sentenza, se non quando la necessità lo
chiede. La carcere è dunque la semplice custodia d'un Cittadino, finchè
sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa,
deve durare il minor tempo possibile, e dev'essere meno dura, che si
possa. Il minor tempo dev'esser misurato, e dalla necessaria durazione
del Processo, e dall'anzianità di chi prima ha un diritto di esser
giudicato. La strettezza della carcere non può essere, che la
necessaria, o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei
delitti. Il Processo medesimo dev'essere finito nel più breve tempo
possibile. Qual più crudele contrasto, che l'indolenza di un
Giudice, e le angosce d'un reo? I comodi, e i piaceri di un insensibile
Magistrato da una parte, e dall'altra le lagrime, lo squallore d'un
prigioniero? In generale il peso della pena, e la conseguenza di un
delitto, dev'essere la più efficace per gli altri, e la meno dura, che
sia possibile per chi la soffre; perchè non si può chiamare legittima
società quella dove non sia principio infallibile, che gli uomini si
sian voluti assoggettare ai minori mali possibili.
Ho detto, che la prontezza delle pene è più utile, perchè quanto è
minore la distanza del tempo, che passa tra la pena, ed il misfatto,
tanto è più forte e più durevole nell'animo umano l'associazione di
queste due idee, delitto, e pena, talchè insensibilmente si considerano
uno come cagione, e l'altra come effetto necessario immancabile. Egli è
dimostrato, che l'unione delle idee è il cemento, che forma tutta la
fabbrica dell'intelletto umano, senza di cui il piacere, ed il dolore
sarebbero sentimenti isolati, e di nissun effetto: Quanto più gli
uomini si allontanano dalle idee generali, e dai principj universali,
cioè quanto più sono volgari, tanto più agiscono per le immediate e più
vicine associazioni, trascurando le più remote, e complicate, che non
servono, che agli uomini fortemente appassionati per l'oggetto, a
cui tendono, poichè la luce dell'attenzione rischiara un solo oggetto,
lasciando gli altri oscuri. Servono parimente alle menti più elevate,
perchè hanno acquistata l'abitudine di scorrere rapidamente su molti
oggetti in una volta, ed hanno la facilità di far contrastare molti
sentimenti parziali gli uni cogli altri, cosicchè il risultato, che è
l'azione, è meno pericoloso ed incerto.
Egli è dunque di somma importanza la vicinanza del Delitto, e della
Pena, se si vuole, che nelle rozze menti volgari alla seducente pittura
di un tal delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi l'idea
associata della Pena. Il lungo ritardo non produce altro effetto, che
di sempre più disgiungere queste due idee, e quantunque faccia
impressione il castigo d'un delitto, la fa meno come castigo, che come
spettacolo, e non la fa, che dopo indebolito negli animi degli
spettatori l'orrore di un tal delitto particolare, che servirebbe a
rinforzare il sentimento della pena.
Un altro principio serve mirabilmente a stringere sempre più
l'importante connessione tra il misfatto, e la pena; cioè, che questa
sia conforme quanto più si possa alla natura del Delitto. Questa
analogia facilita mirabilmente il contrasto, che dev'essere tra la
spinta al delitto, e la ripercussione della pena, cioè, che questa
allontani, e conduca l'animo ad un fine opposto di quello, per dove
cerca d'incamminarlo la seducente idea dell'infrazione della Legge.
Violenze
Altri delitti sono attentati contro la persona, altri contro le
sostanze. I primi debbono infallibilmente esser puniti con pene
corporali: nè il grande, nè il ricco debbono poter mettere a prezzo gli
attentati contro il debole ed il povero; altrimenti le ricchezze, che
sotto la tutela delle Leggi sono il premio dell'industria, diventano
l'alimento della tirannia. Non vi è libertà ogni qual volta le Leggi
permettono, che in alcuni eventi l'uomo cessi di esser persona, e
diventi cosa: vedrete allora l'industria del potente tutta rivolta a
far sortire dalla folla delle combinazioni civili quelle, che la Legge
gli dà in suo favore. Questa scoperta è il magico segreto, che cangia i
Cittadini in animali di servigio, che in mano del forte è la catena con
cui lega le azioni degl'incauti, e dei deboli. Questa è la ragione per
cui in alcuni Governi, che hanno tutta l'apparenza di libertà, la
tirannia sta nascosta, o s'introduce non prevista in qualche angolo
negletto dal legislatore, in cui insensibilmente prende forza, e
s'ingrandisce. Gli uomini mettono per lo più gli argini più sodi
all'aperta tirannia, ma non veggono l'insetto impercettibile, che gli
rode, ed apre una tanto più sicura, quanto più occulta strada al
fiume inondatore.
Furti
I furti, che non hanno unito violenza dovrebbero esser puniti con pena
pecuniaria. Chi cerca d'arricchirsi dell'altrui, dev'esser impoverito
del proprio. Ma come questo non è per l'ordinario, che il delitto della
miseria, e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di
uomini, a cui il diritto di proprietà (terribile, ma forse necessario
diritto) non ha lasciato, che una nuda esistenza, la pena di
supplemento sarà quell'unica sorte di schiavitù, che si possa chiamar
giusta, cioè la schiavitù per un tempo delle opere, e della persona
alla comune società, per risarcirla colla propria, e perfetta
dipendenza, dell'ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale. Ma
quando il furto sia misto di violenza, la pena dev'essere parimente un
misto di corporale, e di servile. Altri scrittori prima di me hanno
dimostrato l'evidente disordine, che nasce dal non distinguere le pene
dei furti violenti, da quelle dei furti dolosi facendo l'assurda
equazione di una grossa somma di denaro colla vita di un uomo; ma non è
mai superfluo il ripetere ciò che non è quasi mai stato eseguito. Le
macchine politiche conservano più d'ogni altra il moto concepito, e
sono le più lente ad acquistarne un nuovo. Questi sono delitti di
differente natura, ed è certissimo anche in politica quell'assioma di
matematica, che tralle quantità eterogenee vi è l'infinito, che le
separa.
Infamia
Le ingiurie personali, e contrarie all'onore, cioè a quella giusta
porzione di suffragj, che un Cittadino ha dritto di esigere dagli
altri, debbono essere punite coll'Infamia. Quest'Infamia è un segno
della pubblica disapprovazione, che priva il reo de' pubblici voti,
della confidenza della Patria, e di quella quasi fraternità, che la
società inspira. Ella non è in arbitrio della Legge. Bisogna dunque,
che l'Infamia della Legge sia la stessa, che nasce dai rapporti delle
cose, la stessa, che la morale universale, o la particolare dipendente
dai sistemi particolari, legislatori delle volgari opinioni, e di
quella tal Nazione, inspirano. Se l'una è differente dall'altra, o la
Legge perde la pubblica venerazione, o l'idee della morale, e della
probità svaniscono, ad onta delle declamazioni, che mai non resistono
agli esempi. Chi dichiara infami azioni per se indifferenti sminuisce
l'Infamia delle azioni, che son veramente tali. Le pene d'Infamia non
debbono essere nè troppo frequenti, nè cadere sopra un gran numero di
persone in una volta; non il primo, perchè gli effetti reali, e troppo
frequenti delle cose d'opinione indeboliscono la forza della opinione
medesima, non il secondo, perchè l'Infamia di molti si risolve nella
Infamia di nessuno.
Ecco la maniera di non confondere i rapporti, e la natura invariabile
delle cose, che non essendo limitata dal tempo ed operando
incessantemente, confonde, e svolge tutt'i limitati regolamenti, che da
lei si scostano. Non sono le sole arti di gusto, e di piacere, che
hanno per principio universale l'imitazione fedele della natura, ma la
politica stessa, almeno la vera, e la durevole, è soggetta a questa
massima generale, poichè ella non è altro, che l'arte di meglio
dirigere, e di rendere conspiranti i sentimenti immutabili degli uomini.
Oziosi
Chi turba la tranquillità pubblica; chi non ubbidisce alle Leggi, cioè
alle condizioni, con cui gli uomini si soffrono scambievolmente, e si
difendono, quegli dev'esser escluso dalla Società, cioè dev'essere
bandito. Questa è la ragione, per cui i saggi Governi non soffrono nel
seno del travaglio, e dell'industria, quel genere di ozio politico
confuso dagli austeri declamatori coll'ozio delle ricchezze accumulate
dall'industria, ozio necessario, ed utile a misura, che la Società si
dilata, e l'amministrazione si ristringe. Io chiamo ozio politico
quello, che non contribuisce alla società nè col travaglio, nè colla
ricchezza, che acquista senza giammai perdere, che venerato dal volgo
con stupida ammirazione, risguardato dal saggio con isdegnosa
compassione per gli Esseri, che ne sono la vittima, che essendo privo
di quello stimolo della vita attiva, che è la necessità di custodire, o
di aumentare i comodi della vita, lascia alle passioni di opinione, che
non sono le meno forti, tutta la loro energia. Non è ozioso
politicamente chi gode dei frutti dei vizj, o delle virtù dei proprj
antenati, e vende per attuali piaceri il pane, e l'esistenza della
industriosa povertà, ch'esercita in pace la tacita guerra d'industria
colla opulenza, in vece della incerta, e sanguinosa colla forza. E però
non l'austera, e limitata virtù di alcuni censori, ma le leggi debbono
definire qual sia l'ozio da punirsi.
Bando e Confische
Ma chi è bandito, ed escluso per sempre dalla Società, di cui era
membro, dev'egli esser privato de' suoi beni? Questa quistione è
suscettibile di differenti aspetti. Il perdere i beni è una pena
maggiore di quella del Bando; vi debbono dunque essere alcuni casi, in
cui proporzionatamente a' delitti vi sia la perdita di tutto, o di
parte dei beni, ed alcuni no. La perdita del tutto sarà quando il Bando
intimato dalla Legge sia tale, che annienti tutt'i rapporti, che sono
tra la Società, e un Cittadino delinquente; allora muore il Cittadino,
e resta l'uomo, e rispetto al corpo politico deve produrre lo
stesso effetto, che la morte naturale. Parrebbe dunque, che i beni
tolti al reo dovessero toccare ai legittimi successori, piuttosto che
al Principe; poichè la Morte, ed un tal Bando sono lo stesso, riguardo
al corpo politico; ma non è appoggiata a questa sottigliezza
l'ingiustizia, che oso attribuire alle confische dei beni! Se alcuni
hanno sostenuto, che le confische sieno state un freno alle vendette ed
alle prepotenze private, non riflettono, che quantunque le pene
producano un bene, non però sono sempre giuste, perchè per esser tali
debbono esser necessarie, ed un'utile ingiustizia non può esser
tollerata da quel legislatore, che vuol chiudere tutte le porte alla
vigilante tirannia, di cui gli ordinarj pretesti sono il bene
momentaneo, e l'esterminio futuro, la felicità di alcuni illustri, e le
lacrime d'infiniti oscuri. Le confische mettono un prezzo sulle teste
dei deboli, fanno soffrire all'innocente la pena del reo, e pongono
gl'innocenti medesimi nella disperata necessità di commettere i
delitti. Qual più tristo spettacolo, che una famiglia strascinata
all'infamia, ed alla miseria, dai delitti di un capo, al quale la
sommissione ordinata dalle Leggi, impedirebbe il prevenirgli,
quand'anche vi fossero i mezzi per farlo!
Dello spirito di famiglia
Queste funeste, ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli
uomini anche più illuminati, ed esercitate dalle Repubbliche più
libere, per aver considerato piuttosto la Società come un'unione di
famiglie, che come un'unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o
sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque
persone, compresovi il capo, che la rappresenta: se l'associazione è
fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini, e ottanta mila
schiavi: se l'associazione è di uomini, vi saranno cento mila
Cittadini, e nessun schiavo. Nel primo caso vi sarà una Repubblica, e
ventimila piccole Monarchie, che la compongono; nel secondo lo Spirito
repubblicano non solo spirerà nelle piazze, e nelle adunanze della
Nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della
felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le Leggi ed
i costumi sono l'effetto dei sentimenti abituali dei membri della
Repubblica, o sia dei capi della Famiglia, lo Spirito monarchico
s'introdurrà a poco a poco nella Repubblica medesima; e i di lui
effetti saranno frenati soltanto dagl'interessi opposti di ciascuno, ma
non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di
famiglia è uno spirito di dettaglio, e limitato a piccoli fatti. Lo
spirito regolatore delle Repubbliche padrone dei principj generali,
vede i fatti, e gli condensa nelle Classi principali, ed importanti al
bene della maggior parte. Nella Repubblica di famiglie i figli
rimangono nella potestà del capo, finchè vive, e sono costretti ad
aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole Leggi;
avvezzi a piegare, ed a temere nell'età più verde, e vigorosa, quando i
sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza, che
chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli, che il
vizio sempre oppone alla virtù nella languida e cadente età, in cui
anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi
cambiamenti.
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione
di comando, ma di contratto, e i figli, quando l'età li trae dalla
dipendenza di natura, che è quella della debolezza, e del bisogno di
educazione, e di difesa, diventano liberi membri della Città, e si
assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli
uomini liberi nella grande Società. Nel primo caso i figli, cioè la più
gran parte, e la più utile della Nazione, sono alla discrezione dei
Padri: Nel secondo, non sussiste altro legame comandato, che quel sacro
ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessarj soccorsi, e
quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto
distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa
soggezione voluta dalle Leggi.
Tali contradizioni fralle Leggi di famiglia, e le fondamentali della
Repubblica, sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla
morale domestica, e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo
conflitto nell'animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione, e
timore, la seconda coraggio, e libertà; quella insegna a ristringere la
beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta,
questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo
sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di
famiglia, che spesse volte non è il bene d'alcuno, che la compone;
questa insegna di servire ai proprj vantaggi senza offendere le Leggi,
o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che
previene l'azione. Tali contrasti fanno, che gli uomini si sdegnino a
seguire la virtù, che trovano inviluppata, e confusa, e in quella
lontananza, che nasce dall'oscurità degli oggetti sì fisici, che
morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate,
resta attonito di trovarsi malonesto! A misura, che la Società si
moltiplica, ciascun membro diviene più piccola parte del tutto, e il
sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è
delle Leggi di rinforzarlo. Le Società hanno come i corpi umani i loro
limiti circonscritti, al di là de' quali crescendo, l'economia ne è
necessariamente disturbata. Sembra, che la massa di uno stato debba
essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone,
altrimenti crescendo l'una, e l'altra, le buone Leggi troverebbero nel
prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo, che hanno prodotto.
Una Repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo, che col
sottodividersi, e unirsi in tante Repubbliche federative. Ma come
ottener questo? Da un dittatore dispotico, che abbia il coraggio di
Silla, e tanto genio d'edificare, quant'egli n'ebbe per distruggere. Un
tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt'i secoli lo aspetta, se
sarà filosofo, le benedizioni de' suoi Cittadini lo consoleranno della
perdita dell'autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro
ingratitudine. A misura, che i sentimenti, che ci uniscono alla
Nazione, s'indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti,
che ci circondano, e però sotto il dispotismo più forte le amicizie
sono più durevoli, e le virtù sempre mediocri di famiglia, sono le più
comuni, o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero
limitate le viste della più parte dei Legislatori.
Dolcezza delle Pene
Ma il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori del mio soggetto, al
rischiaramento del quale debbo affrettarmi. Uno dei più gran
freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma
l'infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei Magistrati,
e quella severità di un Giudice inesorabile, che per essere un'utile
virtù, dev'essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza
di un castigo, benchè moderato, farà sempre una maggiore impressione,
che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza
dell'impunità; perchè i mali, anche minimi, quando son certi,
spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che
sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l'idea dei
maggiori, massimamente quando l'impunità, che l'avarizia, la debolezza,
spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità stessa della pena fa,
che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male a
cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per fuggir la
pena di un solo. I paesi, e i tempi dei più atroci supplicj furon
sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poichè il
medesimo spirito di ferocia, che guidava la mano del Legislatore,
reggeva quella del Parricida, e del Sicario: Sul trono dettava Leggi di
ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano: Nella privata
oscurità stimolava ad immolare i Tiranni per crearne dei nuovi.
A misura, che i supplicj diventano più crudeli, gli animi umani, che
come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che li
circondano, s'incalliscono; e la forza sempre viva delle passioni fa,
che dopo cent'anni di crudeli supplicj, la Ruota spaventi tanto, quanto
prima la prigionia. Perchè una pena ottenga il suo effetto, basta che
il male della pena ecceda il bene, che nasce dal delitto, e in questo
eccesso di male dev'essere calcolata l'infallibilità della pena, e la
perdita del bene, che il delitto produrrebbe: Tutto il di più è dunque
superfluo, e perciò tirannico. Gli uomini si regolano per la ripetuta
azione dei mali, che conoscono, e non su quelli, che ignorano. Si
facciano due Nazioni, in una delle quali, nella scala delle pene
proporzionata alla scala dei delitti, la pena maggiore sia la schiavitù
perpetua, e nell'altra la Ruota: Io dico, che la prima avrà tanto
timore della sua maggior pena quanto la seconda; e se vi è una ragione
di trasportar nella prima le pene maggiori della seconda, l'istessa
ragione servirebbe per accrescere le pene di quest'ultima, passando
insensibilmente dalla ruota ai tormenti più lenti, e più studiati, e
fino agli ultimi raffinamenti della scienza troppo conosciuta dai
Tiranni.
Due altre funeste conseguenze derivano dalla crudeltà delle pene,
contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti. La prima è, che non
è sì facile il serbare la proporzione essenziale tra il Delitto, e la
Pena, perchè quantunque un'industriosa crudeltà ne abbia variate
moltissimo le specie, pure non possono oltrepassare quell'ultima forza,
a cui è limitata l'organizzazione, e la sensibilità umana. Giunto che
si sia a questo estremo, non si troverebbe a' delitti più dannosi, e
più atroci, pena maggiore corrispondente, come sarebbe d'uopo per
prevenirli. L'altra conseguenza è, che la impunità stessa nasce
dall'atrocità dei supplicj. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti
sì nel bene, che nel male; ed uno spettacolo troppo atroce per
l'umanità, non può essere, che un passeggiero furore, ma non mai un
sistema costante, quali debbono essere le Leggi; che se veramente son
crudeli, o si cangiano, o l'impunità fatale nasce dalle Leggi medesime.
Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d'orrore per i barbari ed
inutili tormenti, che da uomini, che si chiamavano Savj, furono con
freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non sentirsi fremere tutta
la parte la più sensibile, nel vedere migliaia d'infelici, che la
miseria, o voluta, o tollerata dalle Leggi, che hanno sempre favorito i
pochi ed oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo
stato di natura, o accusati di delitti impossibili, e fabbricati dalla
timida ignoranza, o rei non d'altro, che di esser fedeli ai proprj
principj, da uomini dotati dei medesimi sensi, e per conseguenza delle
medesime passioni, con meditate formalità, e con lente torture
lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine?
Della Pena di Morte
Questa inutile prodigalità di supplicj, che non ha mai resi migliori
gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la Morte sia veramente utile,
e giusta, in un Governo bene organizzato. Qual può essere il diritto,
che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non
certamente quello da cui risulta la sovranità, e le Leggi. Esse non
sono, che una somma di minime porzioni della privata libertà di
ciascuno: Esse rappresentano la volontà generale, che è l'aggregato
delle particolari. Chi è mai colui, che abbia voluto lasciare ad altri
uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della
libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni,
la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio
coll'altro, che l'uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo, se
ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di Morte un Diritto, mentre ho dimostrato, che
tale essere non può; ma è una guerra della Nazione con un Cittadino,
perchè giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere: Ma se
dimostrerò non essere la Morte nè utilem, nè necessaria, avrò vinto la
causa dell'umanità.
La Morte di un Cittadino non può credersi necessaria, che per due
motivi. Il primo quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali
relazioni, e tal potenza, che interessi la sicurezza della Nazione;
quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella
forma di governo stabilita. La Morte di qualche Cittadino divien dunque
necessaria quando la Nazione ricupera, o perde la sua libertà, o nel
tempo dell'Anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di Leggi;
ma durante il tranquillo regno delle Leggi, in una forma di Governo,
per la quale i voti della Nazione siano riuniti, ben munita, al di
fuori, e al di dentro dalla forza, e dalla opinione, forse più efficace
della forza medesima, dove il comando non è, che presso il vero
Sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri, e non autorità, io non
veggo necessità alcuna di distruggere un Cittadino, se non quando la di
lui Morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal
commettere delitti, secondo motivo, per cui può credersi giusta, e
necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt'i secoli, nei quali l'ultimo supplicio non
ha mai distolti gli uomini determinati dall'offendere la Società,
quando l'esempio dei Cittadini Romani, e vent'anni di Regno
dell'imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai Padri dei
Popoli quest'illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste
comprate col sangue dei figli della Patria, non persuadessero gli
uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto, ed
efficace quello dell'autorità; basta consultare la natura dell'uomo per
sentire la verità della mia asserzione.
Non è l'intensione della pena, che fa il maggior effetto sull'animo
umano, ma l'estensione di essa; perchè la nostra sensibilità è più
facilmente, e stabilmente mossa da minime, ma replicate impressioni,
che da un forte, ma passeggiero movimento. L'impero dell'abitudine è
universale sopra ogni essere che sente, e come l'uomo parla, e cammina,
e procacciasi i suoi bisogni col di lei ajuto, così l'idee morali non
si stampano nella mente, che per durevoli ed iterate percosse. Non è il
terribile ma passaggiero spettacolo della Morte di uno scellerato, ma
il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto
bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella Società, che ha
offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell'efficace,
perchè spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso
sarò ridotto a così lunga, e misera condizione se commetterò simili
misfatti, è assai più possente, che non l'idea della Morte, che gli
uomini veggon sempre in una oscura lontananza.
La pena di Morte fa un'impressione, che colla sua forza non supplisce
alla pronta dimenticanza naturale all'uomo, anche nelle cose più
essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: Le passioni
violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono
atte a fare quelle rivoluzioni, che di uomini comuni ne fanno o dei
Persiani, o dei Lacedemoni; ma in un libero, e tranquillo Governo le
impressioni debbono essere più frequenti, che forti.
La pena di Morte diviene uno spettacolo per la maggior parte, e un
oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi
sentimenti occupano più l'animo degli spettatori, che non il salutare
terrore, che la Legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate, e
continue il sentimento dominante è l'ultimo, perchè è il solo. Avviene
nel primo caso ciò che succede in un dramma; torna l'avaro al suo
scrigno; torna il Tiranno a far piangere la vedova, e l'orfano.
Ecco presso a poco il ragionamento, che fa un ladro o un assassino, i
quali non hanno altro contrappeso per non violare le Leggi, che la
Forca o la Ruota. So, che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo
è un'arte, che s'apprende colla educazione; ma perchè un Ladro non
renderebbe bene i suoi principj, non per ciò essi agiscon meno. Quali
sono queste Leggi ch'io devo rispettare, che lasciano un così grande
intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo, che gli cerco, e
si scusa col comandarmi un travaglio, che non conosce. Chi ha fatte
queste Leggi? Uomini ricchi, e potenti, che non si sono mai degnati
visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un
ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli, e le
lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte
ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni: attacchiamo
l'ingiustizia nella sua sorgente: Ritornerò nel mio stato
d'indipendenza naturale, vivrò libero, e felice per qualche tempo coi
frutti del mio coraggio, e della mia industria, verrà forse il giorno
del dolore, e del pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un
giorno di stento per molti anni di libertà, e di piaceri. Re di un
piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi
tiranni impallidire, e palpitare alla presenza di colui, che con un
insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la
Religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto,
e presentandoli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna
felicità, diminuisce di molto l'orrore di quell'ultima Tragedia.
Ma colui, che si vede avanti agli occhi un gran numero d'anni, o anche
tutto il corso della vita, che passerebbe nella schiavitù, e nel dolore
in faccia a' suoi concittadini, co' quali vive libero, e sociabile,
schiavo di quelle Leggi, dalle quali era protetto, fa un utile paragone
di tutto ciò coll'incertezza dell'esito de' suoi delitti, colla brevità
del tempo, di cui ne goderebbe i frutti. L'esempio continuo di quelli,
che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza gli fa una
impressione assai più forte, che non lo spettacolo di un supplicio, che
lo indurisce più che non lo corregge.
Non è utile la pena di Morte per l'esempio di atrocità, che dà agli
uomini. Se le passioni, o la necessità della guerra hanno insegnato a
spargere il sangue umano, le Leggi moderatrici della condotta degli
uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio tanto più funesto,
quanto la Morte legale è data con istudio, e con formalità. Parmi un
assurdo, che le Leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà,
che detestano, e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime,
e per allontanare i Cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico
assassinio. Quali sono le vere, e le più utili Leggi? Quei patti, e
quelle condizioni, che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre
tace la voce sempre ascoltata dell'interesse privato, o si combina con
quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di
Morte? Leggiamoli negli atti d'indegnazione, e di disprezzo, con cui
ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della
pubblica volontà, un buon Cittadino, che contribuisce al ben pubblico,
stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i
valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l'origine di questa
contradizione? E perchè è indelebile negli uomini questo sentimento ad
onta della ragione? Perchè gli uomini nel più secreto dei loro animi,
parte, che più d'ogn'altra conserva ancor la forma originale della
vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in
potestà di alcuno, fuori che della necessità, che col suo scettro di
ferro regge l'universo.
Che debbono pensare gli uomini nel vedere i savj Magistrati, e i gravi
Sacerdoti della Giustizia, che con indifferente tranquillità fanno
strascinare con lento apparato un reo alla Morte, e mentre un misero
spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il
Giudice con insensibile freddezza, e fors'anche con segreta compiacenza
della propria autorità, a gustare i comodi, e i piaceri della vita? Ah
diranno essi, queste Leggi non sono, che i pretesti della forza, e le
meditate, e crudeli formalità della Giustizia; non sono, che un
linguaggio di convenzione, per immolarci con maggiore sicurezza, come
vittime destinate in Sacrificio, all'Idolo insaziabile del dispotismo.
L'assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo
veggiamo pure senza ripugnanza, e senza furore adoperato.
Prevalghiamoci dell'esempio. Ci pareva la Morte violenta una scena
terribile nelle descrizioni, che ci venivan fatte, ma lo vediamo un
affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne
risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso. Tali sono i funesti
paralogismi, che se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli
uomini disposti ai delitti, nei quali, come abbiam veduto, l'abuso
della Religione può più che la Religione medesima.
Se mi si opponesse l'esempio di quasi tutt'i secoli, e di quasi tutte
le Nazioni, che hanno data pena di Morte ad alcuni delitti, io
risponderò, che egli si annienta in faccia alla verità, contro della
quale non v'ha prescrizione; che la Storia degli uomini ci dà l'idea di
un immenso pelago di errori, fra i quali poche, e confuse, e a grandi
intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrificj furon
comuni a quasi tutte le Nazioni; e chi oserà scusarli? Che alcune poche
Società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la
Morte, ciò mi è piuttosto favorevole, che contrario, perchè ciò è
conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è,
che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte, che involge
gli uomini. Non è ancor giunta l'Epoca fortunata, in cui la verità,
come finora l'errore, appartenga al più gran numero, e da questa Legge
universale non ne sono andate esenti fin ora, che le sole verità, che
la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle.
La voce di un Filosofo è troppo debole contro i tumulti, e le grida di
tanti, che son guidati dalla cieca consuetudine; ma i pochi saggi, che
sono sparsi sulla faccia della terra, mi faranno eco nell'intimo de'
loro cuori; e se la verità potesse, fra gl'infiniti ostacoli, che
l'allontanano da un Monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono,
sappia, che ella vi arriva co' voti segreti di tutti gli uomini;
sappia, che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei
conquistatori; e che la giusta Posterità gli assegna il primo luogo fra
i pacifici Trofei dei Titi, degli Antonini, e dei Trajani.
Felice l'umanità, se per la prima volta le si dettassero Leggi, ora,
che vediamo riposti su i Troni di Europa Monarchi benefici, animatori
delle pacifiche Virtù, delle Scienze, delle Arti, padri de' loro
Popoli, Cittadini coronati, l'aumento dell'autorità de' quali forma la
felicità de' sudditi, perchè toglie quell'intermediario dispotismo più
crudele, perchè men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre
sinceri del Popolo, e sempre fausti quando posson giungere al Trono! Se
essi, dico, lascian sussistere le antiche Leggi, ciò nasce dalla
difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di
molti secoli, ciò è un motivo per i Cittadini illuminati di desiderare
con maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità.
Della Cattura
Un errore non meno comune, che contrario al fine sociale, che è
l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il Magistrato
esecutore delle Leggi d'imprigionare un Cittadino, di togliere la
libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e di lasciare impunito un
amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La Prigionia è una pena,
che per necessità deve, a differenza d'ogn'altra, precedere la
dichiarazione del delitto, ma questo carattere distintivo non le toglie
l'altro essenziale, cioè, che la sola Legge determini i casi nei quali
un uomo è degno di pena. La Legge dunque accennerà gl'indizj di un
delitto, che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un
esame, e ad una pena. La pubblica fama, che lo accusa, una costante
amicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizj, sono
prove bastanti per catturare un Cittadino; ma queste prove devono
stabilirsi dalla Legge, e non dai Giudici, i decreti de' quali sono
sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni
particolari di una massima generale esistente nel pubblico Codice. A
misura, che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore, e la
fame dalle carceri, che la compassione, e l'umanità penetreranno le
porte ferrate, e comanderanno agl'inesorabili ed induriti ministri
della giustizia, le Leggi potranno contentarsi d'indizi sempre più
deboli per catturare. Un uomo accusato di un delitto, carcerato, ed
assoluto non dovrebbe portar seco nota alcuna d'infamia. Quanti romani
accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal
popolo riveriti, e di Magistrature onorati; ma per qual ragione è così
diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? Perchè sembra, che nel
presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga
l'idea della forza e della prepotenza, a quella della giustizia; perchè
si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati, e i convinti;
perchè la prigione è piuttosto un supplicio, che una custodia del reo.
Durano ancora nel Popolo, ne' costumi, e nelleLeggi, sempre di più di
un secolo inferiori in bontà ai lumi attuali di una Nazione, durano
ancora le barbare impressioni, e le feroci idee dei settentrionali
Cacciatori padri nostri.
Alcuni hanno sostenuto, che in qualunque luogo commettasi un delitto,
cioè un'azione contraria alle Leggi, possa essere punito; quasi che il
carattere di suddito fosse indelebile, cioè sinonimo, anzi peggiore di
quello di schiavo; quasi, che uno potesse esser suddito di un dominio,
ed abitare in un altro, e che le di lui azioni potessero senza
contradizione esser subordinate a due Sovrani, e a due Codici sovente
contradittori. Alcuni credono parimente, che un'azione crudele fatta,
per esempio, a Costantinopoli, possa esser punita a Parigi, per
l'astratta ragione, che chi offende l'umanità, merita di avere tutta
l'umanità inimica, e l'esecrazione universale; quasi che i Giudici
vindici fossero della sensibilità degli uomini, e non piuttosto dei
patti, che gli legano tra di loro. Il luogo della pena è il luogo del
delitto, perchè ivi solamente, e non altrove, gli uomini sono sforzati
di offendere un privato, per prevenire l'offesa pubblica. Uno
scellerato, ma che non ha rotti i patti di una Società, di cui non era
membro, può essere temuto, e però dalla forza superiore della Società
esiliato, ed escluso, ma non punito colle formalità delle Leggi
vindici dei patti, non della malizia intrinseca delle azioni.
Sogliono i rei di delitti più Leggieri esser puniti o nell'oscurità di
una prigione, o mandati a dar esempio, con una lontana, e però quasi
inutile schiavitù, a Nazioni, che non hanno offeso. Se gli uomini non
s'inducono in un momento a commettere i più gravi delitti, la pubblica
pena di un gran misfatto sarà considerata dalla maggior parte come
straniera, ed impossibile ad accaderle; ma la pubblica pena di delitti
più leggeri, ed a' quali l'animo è più vicino, farà un'impressione, che
distogliendolo da questi, l'allontani viepiù da quegli. Le pene non
devono solamente esser proporzionate fra loro, ed ai delitti, nella
forza, ma anche nel modo d'infliggerle. Alcuni liberano dalla pena di
un piccolo delitto quando la parte offesa lo perdoni, atto conforme
alla beneficenza, ed all'umanità, ma contrario al ben pubblico, quasi
che un Cittadino privato potesse egualmente togliere, colla sua
remissione, la necessità dell'esempio, come può condonare il
risarcimento dell'offesa. Il diritto di far punire non è di un solo, ma
di tutti i Cittadini, o del Sovrano. Egli non può che rinunziare alla
sua porzione di diritto, ma non annullare quella degli altri.
Processi e Prescrizione.
Conosciute le prove, e calcolata la certezza del delitto, è necessario
concedere al reo il tempo, e mezzi opportuni per giustificarsi; ma
tempo così breve, che non pregiudichi alla prontezza della pena, che
abbiamo veduto essere uno de' principali freni de' delitti. Un mal
inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo,
ma svanirà ogni dubbio se si rifletta, che i pericoli dell'innocenza
crescono coi difetti della Legislazione.
Ma le Leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del
reo, che alle prove de' delitti, e il Giudice diverrebbe Legislatore,
se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto.
Parimente quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli
uomini, quando sieno provati, non meritano alcuna prescrizione in
favore del reo, che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori, ed
oscuri devono togliere colla prescrizione l'incertezza della sorte di
un Cittadino, perchè l'oscurità, in cui sono stati involti per lungo
tempo i delitti, toglie l'esempio della impunità, rimane intanto il
potere al reo di divenir migliore. Mi basta accennar questi principj,
perchè non può fissarsi un limite preciso, che per una data
Legislazione, e nelle date circostanze di una Società; aggiungerò
solamente, che provata l'utilità delle pene moderate in una Nazione, le
Leggi, che in proporzione dei delitti scemano, o accrescono il tempo
della prescrizione, o il tempo delle prove, formando così della carcere
medesima, o del volontario esilio una parte di pena, somministreranno
una facile divisione di poche pene dolci per un gran numero di delitti.
Ma questi tempi non cresceranno nell'esatta proporzione dell'atrocità
de' delitti, poichè la probabilità dei delitti è in ragione inversa
della loro atrocità. Dovrà dunque scemarsi il tempo dell'esame, e
crescere quello della prescrizione, il che parrebbe una contradizione
di quanto dissi, cioè, che possono darsi pene eguali a delitti
diseguali, valutando il tempo della carcere, o della prescrizione,
precedenti la sentenza, come una pena. Per ispiegare al Lettore la mia
idea, distinguo due classi di delitti: La prima è quella dei delitti
atroci, e questa comincia dall'omicidio, e comprende tutte le ulteriori
sceleraggini; La seconda è quella dei delitti minori. Questa
distinzione ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della
propria vita è un diritto di natura, la sicurezza dei beni è un diritto
di Società. Il numero de' motivi, che spingon gli uomini oltre il
naturale sentimento di pietà, è di gran lunga minore al numero de'
motivi, che per la naturale avidità di esser felici gli spingono a
violare un diritto, che non trovano ne' loro cuori ma nelle convenzioni
della Società. La massima differenza di probabilità di queste due
classi esige, che si regolino con diversi principj: Nei delitti più
atroci, perchè più rari, deve sminuirsi il tempo dell'esame per
l'accrescimento della probabilità dell'innocenza del reo, e deve
crescere il tempo della prescrizione, perchè dalla definitiva sentenza
della innocenza, o reità di un uomo, dipende il togliere la lusinga
della impunità, di cui il danno cresce coll'atrocità del delitto: Ma
nei delitti minori scemandosi la probabilità dell'innocenza del reo
deve crescere il tempo dell'esame, e scemandosi il danno dell'impunità,
deve diminuirsi il tempo della prescrizione. Una tal distinzione di
delitti in due classi non dovrebbe ammettersi, se altrettanto scemasse
il danno dell'impunità quanto cresce la probabilità del delitto.
Delitti di prova difficile.
In vista di questi principj strano parrà, a chi non riflette, che la
ragione non è quasi mai stata la Legislatrice delle Nazioni, che i
delitti o più atroci o più oscuri, e chimerici, cioè quelli, de' quali
l'improbabilità è maggiore, sieno provati dalle conghietture, e dalle
prove più deboli, ed equivoche; quasi che le Leggi, e il Giudice
abbiano interesse non di cercare la verità, ma di provare il delitto,
quasichè di condannare un innocente non vi sia un tanto maggior
pericolo, quanto la probabilità dell'innocenza supera la probabilità
del reato. Manca nella maggior parte degli uomini quel vigore
necessario, egualmente per i grandi delitti, che per le grandi virtù;
per cui pare, che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in
quelle Nazioni, che più si sostengono per l'attività del governo, e
delle passioni cospiranti al pubblico bene, che per la massa loro o la
costante bontà delle Leggi. In queste le passioni indebolite sembran
più atte a mantenere, che a migliorare la forma di Governo. Da ciò si
cava una conseguenza importante, che non sempre in una Nazione i grandi
delitti provano il suo deperimento.
Vi sono alcuni delitti, che sono nel medesimo tempo frequenti nella
Società, e difficili a provarsi, e in questi la difficoltà della prova
tien luogo della probabilità dell'innocenza, ed il danno dell'impunità
essendo tanto meno valutabile, quanto la frequenza di questi delitti
dipende da principj diversi e dal pericolo della impunità, il tempo
dell'esame, e il tempo della prescrizione, devono diminuirsi
egualmente. E pure gli adulterj, la greca libidine, che sono delitti di
difficile prova, sono quelli, che secondo i principj ricevuti ammettono
le tiranniche presunzioni, le quasi–prove, le semi–prove (quasi, che un
uomo potesse essere semi–innocente o semi–reo, cioè semi–punibile, e
semi–assolvibile), dove la Tortura esercita il crudele suo impero nella
persona dell'accusato, nei testimonj, e persino in tutta la famiglia di
un infelice, come con iniqua freddezza insegnano alcuni Dottori, che si
danno ai Giudici per norma, e per Legge.
L'adulterio è un delitto, che considerato politicamente, ha la sua
forza, e la sua direzione da due cagioni; le Leggi variabili degli
uomini, e quella fortissima attrazione, che spinge l'un sesso verso
l'altro; simile in molti casi alla gravità motrice dell'universo,
perchè come essa diminuisce colle distanze, e se l'una modifica tutt'i
movimenti de' corpi, così l'altra quasi tutti quelli dell'animo, finchè
dura il di lei periodo; dissimile in questo, che la gravità si mette in
equilibrio cogli ostacoli, ma quella per lo più prende forza, e vigore
col crescere degli ostacoli medesimi.
Se io avessi a parlare a Nazioni ancora prive della luce della
Religione, direi, che vi è ancora un'altra differenza considerabile fra
questo, e gli altri delitti. Egli nasce dall'abuso di un bisogno
costante, ed universale a tutta l'umanità, bisogno anteriore, anzi
fondatore della Società medesima, laddove gli altri delitti distruttori
di essa hanno un'origine più determinata da passioni momentanee, che da
un bisogno naturale. Un tal bisogno sembra, per chi conosce la storia,
e l'uomo, sempre uguale nel medesimo clima ad una quantità costante. Se
ciò fosse vero, inutili, anzi perniciose sarebbero quelle Leggi, e quei
costumi, che cercassero diminuirne la somma totale, perchè il loro
effetto sarebbe di caricare una parte dei proprj, e degli altrui
bisogni; ma sagge per lo contrario sarebbero quelle, che per dir così,
seguendo la facile inclinazione del piano, ne dividessero, e
diramassero la somma in tante eguali, e piccole porzioni, che
impedissero uniformemente in ogni parte e l'aridità, e l'allagamento.
La fedeltà coniugale è sempre proporzionata al numero, ed alla libertà
de' matrimoni. Dove la politica li combina, dove la tirannia li lega, e
li scioglie, ivi la galanteria ne rompe secretamente i legami ad onta
della morale volgare, il di cui officio è di declamare contro gli
effetti, perdonando alle cagioni. Ma non vi è bisogno di tali
riflessioni per chi vivendo nella vera religione, ha più sublimi
motivi, che correggono la forza degli effetti naturali. L'azione di un
tal delitto è così instantanea, e misteriosa, così coperta da quel velo
medesimo, che le Leggi hanno posto, velo necessario, ma fragile, e che
aumenta il pregio della cosa, in vece di scemarlo; le occasioni così
facili; le conseguenze così equivoche, che è più in mano del
Legislatore il prevenirlo, che correggerlo. Regola generale: In ogni
delitto, che per sua natura dev'essere il più delle volte impunito, la
pena diviene un incentivo. Ella è proprietà della nostra immaginazione,
che le difficoltà, se non sono insormontabili o troppo difficili
rispetto alla pigrizia d'animo di ciascun uomo, eccitano più vivamente
l'immaginazione, ed ingrandiscono l'oggetto, perchè elleno sono quasi
altrettanti ripari, che impediscono la vagabonda, e volubile
immaginazione di sortire dall'oggetto, e costringendola a scorrere
tutt'i rapporti, più strettamente si attacca alla parte piacevole, a
cui più naturalmente l'animo nostro si avventa, che non alla dolorosa e
funesta, da cui fugge, e si allontana.
L'Attica Venere così severamente punita dalle Leggi, e così facilmente
sottoposta ai tormenti vincitori dell'innocenza, ha meno il suo
fondamento su i bisogni dell'uomo isolato, e libero, che sulle passioni
dell'uomo sociabile, e schiavo. Essa prende la sua forza non tanto
dalla sazietà dei piaceri, quanto da quella educazione, che comincia
per render gli uomini inutili a se stessi per fargli utili ad altri, in
quelle case, dove si condensa l'ardente gioventù, dove essendovi un
argine insormontabile ad ogni altro commercio, tutto il vigore della
natura, che si sviluppa, si consuma inutilmente per l'umanità, anzi ne
anticipa la vecchiaia.
L'infanticidio è parimente l'effetto di una inevitabile contradizione,
in cui è posta una persona, che per debolezza, o per violenza abbia
ceduto. Chi trovasi tra l'infamia, e la morte di un essere incapace di
sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseria infallibile, a
cui sarebbero esposti ella, e l'infelice frutto? La miglior maniera di
prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con Leggi efficaci la
debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi, che non possono
coprirsi col manto della virtù.
Io non pretendo diminuire il giusto orrore, che meritano questi
delitti; ma indicandone le sorgenti, mi credo in diritto di cavarne una
conseguenza generale, cioè, che non si può chiamare precisamente giusta
(il, che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finchè la Legge
non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze
d'una Nazione per prevenirlo.
Suicidio.
Il suicidio è un delitto, che sembra non poter ammettere una pena
propriamente detta, poichè ella non può cadere, che o su gl'innocenti,
o su di un corpo freddo, ed insensibile. Se questa non farà alcuna
impressione su i viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua;
quella è ingiusta e tirannica, perchè la libertà politica degli uomini
suppone necessariamente, che le pene sieno meramente personali. Gli
uomini amano troppo la vita, e tutto ciò che gli circonda, li conferma
in questo amore. La seducente immagine del piacere, e la speranza,
dolcissimo inganno de' mortali, per cui trangugiano a gran sorsi il
male misto di poche stille di contento, gli alletta troppo perchè temer
si debba, che la necessaria impunità di un tal delitto abbia qualche
influenza sugli uomini. Chi teme il dolore ubbidisce alle Leggi; ma la
morte ne estingue nel corpo tutte le sorgenti. Qual dunque sarà il
motivo, che tratterrà la mano disperata del Suicida?
Chiunque si uccide fa un minor male alla Società, che colui, che ne
esce per sempre dai confini; perchè quegli vi lascia fino il suo corpo,
ma questi trasporta se stesso, e parte del suo avere. Anzi se la forza
della Società consiste nel numero de' Cittadini, col sottrarre se
stesso, e darsi ad una vicina Nazione, fa un doppio danno di quello,
che lo faccia chi semplicemente colla morte si toglie alla Società. La
questione dunque si riduce a sapere, se sia utile, o dannoso alla
Nazione il lasciare una perpetua libertà di assentarsi a ciascun membro
di essa.
Ogni Legge, che non sia armata, o, che la natura delle circostanze
renda insussistente, non deve promulgarsi; e come sugli animi regna
l'opinione, che ubbidisce alle lente, ed indirette impressioni del
Legislatore, che resiste alle dirette, e violente; così le Leggi
inutili disprezzate dagli uomini comunicano il loro avvilimento alle
Leggi anche più salutari, che sono risguardate più come un ostacolo da
superarsi, che come il deposito del pubblico bene. Anzi se, come fu
detto, i nostri sentimenti sono limitati, quanta venerazione gli uomini
avranno per oggetti estranei alle Leggi, tanto meno ne resterà alle
Leggi medesime. Da questo principio il saggio dispensatore della
pubblica felicità può trarre alcune utili conseguenze, che, esponendole
mi allontanerebbero troppo dal mio soggetto, che è di provare
l'inutilità di fare dello stato una prigione. Una tal Legge è inutile,
perchè a meno, che scogli inaccessibili, o mare innavigabile, non
dividano un paese da tutti gli altri, come chiudere tutti i punti della
circonferenza di esso, e come custodire i custodi? Un tal delitto
subito che è commesso non può più punirsi, e il punirlo prima, che si
commetta, è punire la volontà degli uomini, e non le azioni; egli è un
comandare all'intenzione, parte liberissima dell'uomo dall'impero delle
umane Leggi. Il punirlo quando ritornasse il reo, sarebbe l'impedire,
che si ripari il male fatto alla Società, col rendere tutte le assenze
perpetue. La proibizione stessa di sortire da un paese ne aumenta il
desiderio ai Nazionali di sortirne, ed è un avvertimento ai forestieri
di non introdurvisi.
Che dovremo pensare di un governo, che non ha altro mezzo per
trattenere gli uomini, naturalmente attaccati per le prime impressioni
dell'infanzia, alla loro Patria, fuori, che il timore? La più sicura
maniera di fissare i Cittadini nella Patria è di aumentare il ben
essere relativo di ciascuno. Come devesi fare ogni sforzo, perchè la
bilancia del commercio sia in nostro favore, così è il massimo
interesse del Sovrano, e della Nazione, che la somma della felicità,
paragonata con quella delle Nazioni circostanti, sia maggiore che
altrove. I piaceri del lusso non sono i principali elementi di questa
felicità, quantunque questo sia un rimedio necessario alla
disuguaglianza, che cresce coi progressi di una Nazione, senza di cui
le ricchezze si addenserebbero in una sola mano. Dove i confini di un
paese si aumentano in maggior ragione, che non la popolazione di esso,
ivi il lusso favorisce il dispotismo, sì perchè quanto gli uomini sono
più rari, tanto più difficile, e men temuta ne è la riunione, sì perchè
tutto ciò che aumenta la distanza tra il forte, e il debole, è più
favorito dal lusso nel minor numero, che nel maggiore, perchè le
adorazioni, gli ufficj, le distinzioni, la sommissione si ottengono più
facilmente dai pochi, che dai molti, essendo gli uomini tanto più
indipendenti, quanto meno osservati, e tanto meno osservati quanto
maggiore ne è il numero. Ma dove la popolazione cresce in maggior
proporzione, che non i confini, il lusso si oppone al dispotismo,
perchè anima l'industria, e l'attività degli uomini, e il bisogno offre
troppi piaceri, e comodi al ricco, perchè quegli d'ostentazione, che
aumentano l'opinione di dipendenza, abbiano il maggior luogo. Quindi
può osservarsi, che negli stati vasti, e deboli, e spopolati, se altre
cagioni non vi mettono ostacolo, il lusso d'ostentazione prevale a
quello di comodo; ma negli stati popolati più che vasti il lusso di
comodo va sempre sminuendo quello di ostentazione. Ma il commercio ed
il passaggio de' piaceri del lusso ha questo inconveniente, che
quantunque facciasi per il mezzo di molti, pure comincia in pochi, e
termina in pochi, e solo pochissima parte ne gusta il maggior numero,
che non impedisce il sentimento della miseria, più cagionato dal
paragone, che dalla realità. Ma la sicurezza, e la libertà limitata
dalle sole Leggi sono quelle, che formano la base principale di questa
felicità, colle quali i piaceri del lusso favoriscono la popolazione,
senza di quelle divengono lo stromento della tirannia. Siccome le fiere
più generose, e i liberissimi uccelli si allontanano nelle solitudini,
e nei boschi inaccessibili, ed abbandonano le fertili, e ridenti
campagne all'uomo insidiatore, così gli uomini fuggono i piaceri
medesimi quando la tirannia li distribuisce.
Egli è dunque dimostrato, che la Legge, che imprigiona i sudditi nel
loro Paese è inutile, ed ingiusta. Dunque lo sarà parimente la pena del
Suicidio, e perciò quantunque sia una colpa, che Dio punisce, perchè
solo può punire anche dopo la morte, non è un delitto avanti gli
uomini, perchè la pena in vece di cadere sul reo medesimo, cade sulla
di lui famiglia. Se alcuno mi opponesse, che una tal pena può nondimeno
ritrarre un uomo determinato dall'uccidersi, io rispondo, che chi
tranquillamente rinuncia al bene della vita, che odia l'esistenza
quaggiù, cosicchè vi preferisce un'infelice eternità, deve essere
niente mosso dalla meno efficace, e più lontana considerazione dei
figli, o dei parenti.
Contrabbandi.
Il Contrabbando è un vero delitto, che offende il Sovrano, e la
Nazione, ma la di lui pena non dev'essere infamante, perchè commesso
non produce infamia nella pubblica opinione. Chiunque dà pene infamanti
a' delitti, che non sono reputati tali dagli uomini, scema il
sentimento d'infamia per quelli, che lo sono. Chiunque vedrà stabilita
la medesima pena di morte, per esempio, a chi uccide un Fagiano, ed a
chi assassina un uomo, o falsifica uno scritto importante, non farà
alcuna differenza tra questi delitti, distruggendosi in questa maniera
i sentimenti morali, opera di molti secoli, e di molto sangue,
lentissimi, e difficili a prodursi nell'animo umano, per far nascere i
quali fu creduto necessario l'ajuto dei più sublimi motivi, e un tanto
apparato di gravi formalità.
Questo delitto nasce dalla Legge medesima; poichè, crescendo la
gabella, cresce sempre il vantaggio, e però la tentazione di fare il
Contrabbando; e la facilità di commetterlo cresce colla circonferenza
da custodirsi, e colla diminuzione del volume della merce medesima. La
pena di perdere, e la merce bandita, e la roba, che l'accompagna è
giustissima; ma sarà tanto più efficace quanto più piccola sarà la
gabella, perchè gli uomini non rischiano, che a proporzione del
vantaggio, che l'esito felice dell'impresa produrrebbe.
Ma perchè mai questo delitto non cagiona infamia al di lui autore,
essendo un furto fatto al Principe, e per conseguenza alla Nazione
medesima? Rispondo, che le offese, che gli uomini credono non poter
essere loro fatte, non l'interessano tanto, che basti a produrre la
pubblica indegnazione contro di chi le commette. Tale è il
Contrabbando. Gli uomini su i quali le conseguenze rimote fanno
debolissime impressioni, non veggono il danno, che può loro accadere
per il Contrabbando; anzi sovente ne godono i vantaggi presenti. Essi
non vedono, che il danno fatto al Principe; non sono dunque interessati
a privare dei loro suffragj chi fa un Contrabbando, quanto lo sono
contro chi commette un furto privato, contro chi falsifica il
carattere, ed altri mali, che posson loro accadere. Principio evidente,
che ogni essere sensibile non s'interessa, che per i mali, che conosce.
Ma dovrassi lasciare impunito un tal delitto contro chi non ha roba da
perdere? No: vi sono dei Contrabbandi, che interessano talmente la
natura del Tributo, parte così essenziale, e così difficile in una
buona Legislazione, che un tal delitto merita una pena considerabile
fino alla prigione medesima, fino alla servitù; ma prigione, e servitù
conforme alla natura del delitto medesimo. Per esempio la prigionia del
Contrabbandiere di Tabacco non dev'essere comune con quella del
sicario, o del ladro, e i lavori del primo limitati al travaglio, e
servigio della Regalìa medesima, che ha voluto defraudare, saranno i
più conformi alla natura delle pene.
Dei debitori.
La buona fede dei Contratti, la sicurezza del Commercio, costringono il
Legislatore ad assicurare ai creditori le persone dei debitori falliti,
ma io credo importante il distinguere il fallito doloso dal fallito
innocente; il primo dovrebbe esser punito coll'istessa pena, che è
assegnata ai falsificatori delle monete, poichè il falsificare un pezzo
di metallo coniato, che è un pegno delle obbligazioni de' Cittadini,
non è maggior delitto, che il falsificare le obbligazioni stesse. Il
fallito innocente dovrebbe esser custodito come un pegno dei suoi
debiti, ovvero adoperato nelle opere sue in isconto, ma nutrito, ed
alimentato da' creditori medesimi. Questo è il solo caso, in cui la
remissione della parti offese può assolvere dalla pena della prigione,
la quale è piuttosto un oggetto privato, e civile, anzi che criminale.
Asili.
Mi restano ancora due questioni da esaminare: l'una, se gli Asili sieno
giusti, e se il patto di rendersi fralle Nazioni reciprocamente i rei
sia utile, o no. Dentro i confini di un paese non dev'esservi alcun
luogo indipendente dalle Leggi. La forza di esse seguir deve ogni
Cittadino, come l'ombra segue il corpo. L'impunità, e l'Asilo non
differiscono, che di più, e meno, e come l'impressione della pena
consiste più nella sicurezza d'incontrarla, che nella forza di essa,
gli Asili invitano più ai delitti di quello, che le pene non
allontanino. Moltiplicare gli Asili è il formare tante piccole
sovranità, perchè dove non sono Leggi, che comandano, ivi possono
formarsene delle nuove, ed opposte alle comuni, e però uno spirito
opposto a quello del corpo intero della Società. Tutte le istorie fanno
vedere, che dagli Asili sortirono grandi rivoluzioni negli stati, e
nelle opinioni degli uomini. Ma se sia utile il rendersi reciprocamente
i rei fralle Nazioni, io non ardirei decidere questa questione finchè
le Leggi più conformi ai bisogni dell'umanità, le pene più dolci, ed
estinta la dipendenza dall'arbitrio, e dall'opinione, non rendano
sicura l'innocenza oppressa, e la detestata virtù; finchè la tirannia
non venga del tutto dalla ragione universale, che sempre più unisce
gl'interessi del Trono, e dei sudditi, confinata nelle vaste pianure
dell'Asia, quantunque la persuasione di non trovare un palmo di terra,
che perdoni ai veri delitti, sarebbe un mezzo efficacissimo per
prevenirli.
Della taglia.
L'altra questione è, se sia utile il mettere a prezzo la testa di un
uomo conosciuto reo, ed armando il braccio di ciascun Cittadino, farne
un carnefice. O il reo è fuori de' confini, o al di dentro: Nel primo
caso il Sovrano stimola i Cittadini a commettere un delitto, e gli
espone ad un supplicio, facendo così un'ingiuria ed una usurpazione
d'autorità negli altrui dominj, ed autorizza in questa maniera le altre
Nazioni a far lo stesso con noi; Nel secondo mostra la propria
debolezza. Chi ha la forza per difendersi non cerca di comprarla. Di
più, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale, e di virtù, che
ad ogni minimo vento svaniscono nell'animo umano. Ora le Leggi invitano
al tradimento, ed ora lo puniscono. Con una mano il Legislatore stringe
i legami di famiglia, di parentela, di amicizia, e coll'altra premia
chi gli rompe, e chi gli spezza; sempre contradittorio a se medesimo,
ora invita alla fiducia gli animi sospettosi degli uomini, ora sparge
la diffidenza in tutt'i cuori. In vece di prevenire un delitto, ne fa
nascer cento. Questi sono gli espedienti delle Nazioni deboli, le Leggi
delle quali non sono, che istantanee riparazioni di un edificio
rovinoso, che crolla da ogni parte. A misura, che crescono i lumi in
una Nazione, la buona fede, e la confidenza reciproca divengono
necessarie, e sempre più tendono a confondersi colla vera politica. Gli
artificj, le cabale, le strade oscure ed indirette, sono per lo più
prevedute, e la sensibilità di tutti rintuzza la sensibilità di
ciascuno in particolare. I secoli d'ignoranza medesimi, nei quali la
morale pubblica piega gli uomini ad ubbidire alla privata, servono
d'instruzione e di sperienza ai secoli illuminati. Ma le Leggi, che
premiano il tradimento, e che eccitano una guerra clandestina spargendo
il sospetto reciproco fra i Cittadini, si oppongono a questa così
necessaria riunione della morale, e della Politica, a cui gli uomini
dovrebbero la loro felicità, le Nazioni la pace, e l'universo qualche
più lungo intervallo di tranquillità, e di riposo ai mali, che vi
passeggiano sopra.
Di un genere particolare di delitti.
Chiunque leggerà questo scritto accorgerassi, che io ho ommesso un
genere di delitti, che ha coperto l'Europa di sangue umano, e che ha
alzate quelle funeste cataste, ove servivano di alimento alle fiamme i
vivi corpi umani, quand'era giocondo spettacolo, e grata armonia per la
cieca moltitudine l'udire i sordi confusi gemiti dei miseri, che
uscivano dai vortici di nero fumo, fumo di membra umane, frallo
stridere dell'ossa incarbonite, e il friggersi delle viscere ancor
palpitanti. Ma gli uomini ragionevoli vedranno, che il luogo, il
secolo, e la materia non mi permettono di esaminare la natura di un tal
delitto. Troppo lungo, e fuori del mio soggetto, sarebbe il provare
come debba essere necessaria una perfetta uniformità di pensieri in uno
stato, contro l'esempio di molte Nazioni; come opinioni, che distano
tra di loro solamente per alcune sottilissime, ed oscure differenze
troppo lontane dalla umana capacità, pure possano sconvolgere il ben
pubblico, quando una non sia autorizzata a preferenza delle altre; e
come la natura delle opinioni sia composta a segno che mentre alcune
col contrasto fermentando, e combattendo insieme si rischiarano, e
soprannotando le vere, le false si sommergono nell'oblio, altre mal
sicure per la nuda loro costanza, debbano esser vestite di autorità, e
di forza. Troppo lungo sarebbe il provare, come, quantunque odioso
sembri l'impero della forza sulle menti umane, del quale le sole
conquiste sono la dissimulazione, indi l'avvilimento; quantunque sembri
contrario allo spirito di mansuetudine, e fraternità comandato dalla
ragione, e dall'autorità, che più veneriamo, pure sia necessario ed
indispensabile. Tutto ciò deve credersi evidentemente provato, e
conforme ai veri interessi degli uomini, se v'è chi con riconosciuta
autorità lo esercita. Io non parlo, che dei delitti, che emanano dalla
natura umana, e dal patto sociale, e non dei peccati, dei quali le
pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principj, che quelli
di una limitata filosofia.
False Idee di utilità
Una sorgente di errori, e d'ingiustizie sono le false idee d'utilità,
che si formano i Legislatori. Falsa idea d'utilità è quella, che
antepone gl'inconvenienti particolari all'inconveniente generale,
quella, che comanda ai sentimenti in vece di eccitargli, che dice alla
logica, servi. Falsa idea di utilità è quella, che sacrifica mille
vantaggi reali, per un inconveniente o immaginario, o di poca
conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perchè incendia, e
l'acqua perchè annega; che non ripara ai mali, che col distruggere.
Falsa idea d'utilità è quella, che vorrebbe dare a una moltitudine di
esseri sensibili la simetria, e l'ordine che soffre la materia bruta, e
inanimata, che trascura i motivi presenti, che soli con costanza, e con
forza agiscono sulla moltitudine, per dar forza ai lontani, de' quali
brevissima, e debole è l'impressione, se una forza d'immaginazione non
ordinaria nella umanità, non supplisce coll'ingrandimento alla
lontananza dell'oggetto. Finalmente è falsa idea d'utilità quella, che
sacrificando la cosa al nome, divide il ben pubblico dal bene di tutt'i
particolari. Vi è una differenza dallo stato di Società allo stato di
natura, che l'uomo selvaggio non fa danno altrui, che quanto basta per
far bene a sè stesso, ma l'uomo sociabile è qualche volta mosso dalle
male Leggi a offender altri senza far bene a se. Il dispotico getta il
timore, e l'abbattimento nell'animo de' suoi schiavi; ma ripercosso
ritorna con maggior forza a tormentare il di lui animo. Quanto il
timore è più solitario, e domestico, tanto è meno pericoloso a chi ne
fa lo stromento della sua felicità; ma quanto è più pubblico, ed agita
una moltitudine più grande di uomini, tanto è più facile, che vi sia o
l'imprudente, o il disperato, o l'audace accorto, che faccia servire
gli uomini al suo fine, destando in essi sentimenti più grati, e tanto
più seducenti, quanto il rischio dell'intrapresa cade sopra un maggior
numero, ed il valore, che gl'infelici danno alla propria esistenza, si
sminuisce a proporzione della miseria, che soffrono. Questa è la
cagione, per cui le offese ne fanno nascere delle nuove; che l'odio è
un sentimento tanto più durevole dell'amore, quanto il primo prende la
sua forza dalla continuazione degli atti, che indebolisce il secondo.
Come si prevengano i delitti
È meglio prevenire i delitti, che punirli. Questo è il fine principale
d'ogni buona legislazione, che è l'arte di condurre gli uomini al
massimo di felicità, o al minimo d'infelicità possibile, per parlare
secondo tutt'i calcoli dei beni, e dei mali della vita. Ma i mezzi
impiegati fin ora sono per lo più falsi, ed opposti al fine proposto.
Non è possibile il ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un
ordine geometrico senza irregolarità, e confusione. Come le costanti e
semplicissime Leggi della Natura non impediscono, che i Pianeti non si
turbino nei loro movimenti, così nelle infinite, ed oppostissime
attrazioni del piacere, e del dolore, non possono impedirsene dalle
Leggi umane i turbamenti, ed il disordine. Eppur questa è la chimera
degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano. Il proibire
una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti, che
ne possono nascere, ma egli è un crearne dei nuovi, egli è un definire
a piacere la virtù ed il vizio, che ci vengono predicati eterni ed
immutabili. A che saremmo ridotti, se tutto ciò ci dovesse essere
vietato che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare l'uomo dell'uso
de' suoi sensi. Per un motivo, che spinge gli uomini a commettere un
vero delitto, ve ne son mille, che li spingono a commetter quelle
azioni indifferenti, che chiamansi delitti dalle male Leggi; e se la
probabilità dei delitti è proporzionata al numero dei motivi,
l'ampliare la sfera dei delitti è un crescere la probabilità di
commetterli. La maggior parte delle Leggi non sono che privilegj, cioè
un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi.
Volete prevenire i delitti? Fate, che le Leggi sian chiare, semplici, e
che tutta la forza della Nazione sia condensata a difenderle, e nessuna
parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate, che le Leggi
favoriscano meno le classi degli uomini, che gli uomini stessi. Fate,
che gli uomini le temano, e temano esse sole. Il timor delle Leggi è
salutare, ma fatale, e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo. Gli
uomini schiavi sono più voluttuosi, più libertini, più crudeli degli
uomini liberi. Questi meditano sulle scienze, meditano sugl'interessi
della Nazione, veggono grandi oggetti, e li imitano; ma quegli contenti
del giorno presente cercano frallo strepito del libertinaggio una
distrazione dall'annientamento, in cui si veggono; avvezzi
all'incertezza dell'esito di ogni cosa, l'esito de' loro delitti divien
problematico per essi, in vantaggio della passione, che gli determina.
Se l'incertezza delle leggi cade su di una Nazione indolente per clima,
ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza, e stupidità: Se cade in
una Nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l'attività in un
infinito numero di piccole cabale, ed intrighi, che spargono la
diffidenza in ogni cuore, e che fanno del tradimento, e della
dissimulazione la base della prudenza. Se cade su di una Nazione
coraggiosa e forte, l'incertezza vien tolta alla fine, formando prima
molte oscillazioni dalla libertà alla schiavitù, e dalla schiavitù alla
libertà.
Delle Scienze.
Volete prevenire i delitti? Fate, che i lumi accompagnino la libertà. I
mali, che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro
diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è
sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante, e
le fischiate di un illuminato. Le cognizioni facilitando i paragoni
degli oggetti, e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono molti
sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto
più facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste, e le
medesime resistenze. In faccia a' lumi sparsi con profusione
nella Nazione tace la calunniosa ignoranza, e trema l'autorità
disarmata di ragioni, rimanendo immobile la vigorosa forza delle Leggi;
perchè non v'è uomo illuminato, che non ami i pubblici, chiari, ed
utili patti della comune sicurezza, paragonando il poco d'inutile
libertà da lui sacrificata, alla somma di tutte le libertà sacrificate
dagli altri uomini, che senza le Leggi poteano divenire conspiranti
contro di lui. Chiunque ha un'anima sensibile, gettando uno sguardo su
di un codice di Leggi ben fatte, e trovando di non aver perduto, che la
funesta libertà di far male altrui, sarà costretto a benedire il Trono,
e chi lo occupa
Non è vero, che le scienze sian sempre dannose all'umanità, e quando lo
furono era un male inevitabile agli uomini. La moltiplicazione
dell'uman genere sulla faccia della terra introdusse la guerra, le arti
più rozze, le prime Leggi, che erano patti momentanei, che nascevano
colla necessità, e con essa perivano. Questa fu la prima filosofia
degli uomini, i di cui pochi elementi erano giusti, perchè la loro
indolenza, e poca sagacità gli preservava dall'errore. Ma i bisogni si
moltiplicavano sempre più col moltiplicarsi degli uomini. Erano dunque
necessarie impressioni più forti, e più durevoli, che gli
distogliessero dai replicati ritorni nel primo stato d'insociabilità,
che si rendeva sempre più funesto. Fecero dunque un gran bene
all'umanità quei primi errori, che popolarono la terra di false
divinità (dico gran bene Politico), e che crearono un universo
invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uomini
quelli, che osarono sorprenderli, e strascinarono agli altari la docile
ignoranza. Presentando loro oggetti posti di là dai sensi, che loro
fuggivan davanti a misura, che credean raggiungerli, non mai
disprezzati, perchè non mai ben conosciuti, riunirono e condensarono le
divise passioni in un solo oggetto, che fortemente gli occupava. Queste
furono le prime vicende di tutte le Nazioni; che si formarono da popoli
selvaggi; questa fu l'epoca della formazione delle grandi Società, e
tale ne fu il vincolo necessario, e forse unico. Non parlo di quel
popolo eletto da Dio, a cui i miracoli più straordinari, e le grazie
più segnalate tennero luogo della umana politica. Ma come è proprietà
dell'errore di sottodividersi all'infinito, così le scienze, che ne
nacquero, fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi, che
in un chiuso labirinto si urtano, e si scompigliano di modo, che alcune
anime sensibili, e filosofiche regrettarono persino l'antico stato
selvaggio. Ecco la prima Epoca, in cui le cognizioni, o per dir meglio
le opinioni, sono dannose.
La seconda è nel difficile e terribil passaggio dagli errori alla
verità, dall'oscurità non conosciuta alla luce. L'urto immenso degli
errori utili ai pochi potenti, contro le verità utili ai molti deboli;
l'avvicinamento, ed il fermento delle passioni, che si destano in
quell'occasione, fanno infiniti mali alla misera umanità. Chiunque
riflette sulle storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si
rassomigliano quanto all'Epoche principali, vi troverà più volte una
generazione intera sacrificata alla felicità di quelle, che le
succedono nel luttuoso, ma necessario passaggio dalle tenebre
dell'ignoranza alla luce della filosofia, e dalla Tirannia alla
libertà, che ne sono le conseguenze. Ma quando calmati gli animi, ed
estinto l'incendio, che ha purgata la Nazione dai mali, che
l'opprimono, la verità, i di cui progressi prima son lenti, e poi
accelerati, siede compagna su i Troni de' Monarchi ed ha culto ed Ara
nei Parlamenti delle Repubbliche, chi potrà mai asserire, che la luce,
che illumina la moltitudine, sia più dannosa delle tenebre, e che i
veri e semplici rapporti delle cose ben conosciute dagli uomini, lor
sien funesti?
Se la cieca ignoranza è meno fatale, che il mediocre, e confuso sapere,
poichè questi aggiunge ai mali della prima, quelli dell'errore
inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del
vero, l'uomo illuminato è il dono più prezioso, che faccia alla
Nazione, ed a se stesso il Sovrano, che lo rende depositario, e custode
delle sante Leggi. Avvezzo a vedere la verità, e a non temerla, privo
della maggior parte dei bisogni dell'opinione non mai abbastanza
soddisfatti, che mettono alla prova la virtù della maggior parte degli
uomini, assuefatto a contemplare l'umanità dai punti di vista più
elevati, avanti a lui la propria Nazione diventa una famiglia di uomini
fratelli, e la distanza dei grandi al popolo gli par tanto minore,
quanto è maggiore la massa dell'umanità, che ha avanti gli occhi. I
Filosofi acquistano dei bisogni, e degli interessi non conosciuti dai
volgari, quello principalmente di non ismentire nella pubblica luce i
principj predicati nell'oscurità, ed acquistano l'abitudine di amare la
verità per se stessa. Una scelta di uomini tali forma la felicità di
una Nazione; ma felicità momentanea, se le buone Leggi non ne aumentino
talmente il numero, che scemino la probabilità sempre grande di una
cattiva elezione.
Magistrati.
Un altro mezzo di prevenire i delitti si è d'interessare il Consesso
esecutore delle Leggi piuttosto all'osservanza di esse, che alla
corruzione. Quanto maggiore è il numero, che lo compone, tanto è meno
pericolosa l'usurpazione sulle Leggi, perchè la venalità è più
difficile tra membri, che si osservano tra di loro, e sono tanto meno
interessati ad accrescere la propria autorità, quanto minore ne è la
porzione, che a ciascuno ne toccherebbe, massimamente paragonata col
pericolo dell'intrapresa. Se il Sovrano coll'apparecchio, e colla
pompa, coll'austerità degli editti, col non permettere le giuste, e le
ingiuste querele di chi si crede oppresso, avvezzerà i sudditi a temere
più i Magistrati, che le Leggi, essi profitteranno più di questo timore
di quello, che non ne guadagni la propria, e pubblica sicurezza.
Ricompense.
Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare la
virtù. Su di questo proposito osservo un silenzio universale nelle
Leggi di tutte le Nazioni del dì d'oggi. Se i premi proposti dalle
Accademie ai discopritori delle utili verità hanno moltiplicato e le
cognizioni, e i buoni libri; perchè non i premi distribuiti dalla
benefica mano del Sovrano, non moltiplicherebbeno altresì le azioni
virtuose? La moneta dell'onore è sempre inesausta, e fruttifera nelle
mani del saggio distributore.
Educazione.
Finalmente il più sicuro, ma più difficil mezzo di prevenire i delitti
si è di perfezionare l'educazione, oggetto troppo vasto, e che eccede i
confini, che mi sono prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene
troppo intrinsecamente alla natura del Governo, perchè non sia sempre
fino ai più remoti secoli della pubblica felicità un campo sterile, e
solo coltivato qua, e là da pochi saggi. Un grand'uomo, che illumina
l'umanità, che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno
le principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè
consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti, che nella scelta
e precisione di essi, nel sostituire gli originali alle copie nei
fenomeni sì morali, che fisici, che il caso o l'industria presenta ai
novelli animi dei giovani, nello spingere alla virtù per la facile
strada del sentimento, e nel deviarli dal male per la infallibile della
necessità, e dell'inconveniente, e non colla incerta del comando, che
non ottiene, che una simulata, e momentanea ubbidienza.
Conclusione.
Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev'essere
relativa allo stato della Nazione medesima. Più forti, e sensibili
devono essere le impressioni sugli animi induriti di un popolo appena
uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un
feroce Leone, che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura, che gli
animi si ammolliscono nello stato di Società, cresce la sensibilità, e
crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol
mantenersi la relazione tra l'oggetto, e la sensazione. A misura che le
pene divengono più dolci, la clemenza, ed il perdono diventano meno
necesarj: Felice la Nazione, nella quale sarebbero funesti!
Da quanto si è veduto finora può cavarsi un Teorema generale molto
utile, ma poco conforme all'uso, Legislatore il più ordinario delle
Nazioni, cioè = perchè ogni pena non sia una violenza di uno, o di
molti contro un privato Cittadino, dev'essere essenzialmente pubblica,
pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze,
proporzionata ai delitti, dettata dalle Leggi.