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Pietro Barsanti (Borgo a Mozzano, 30 luglio 1849 – Milano, 27 agosto
1870) è stato un militare italiano. Sostenitore di idee
repubblicane, fu condannato a morte per aver incitato un tentativo
insurrezionale contro la monarchia Savoia. È considerato il
primo martire della Repubblica Italiana.[1][2]
Biografia
Nato a Gioviano, frazione di Borgo a Mozzano (Lucca), da Vincenzo e
Teresa, intraprese un'educazione religiosa presso i Chierici
Regolari della Madre di Dio per poi entrare nel collegio militare
"delle Poverine" di Firenze e nella scuola militare di Maddaloni.
Arruolatosi nell'esercito e ottenuto il grado di caporale, venne
inviato a Reggio Calabria, ove aderì all'"Alleanza
Repubblicana Universale", società fondata da Giuseppe
Mazzini. Spostatosi a Pavia, Barsanti prestò servizio presso
la caserma del Lino come ufficiale di picchetto.
Mentre infuocarono ribellioni filomazziniane nella penisola contro
la monarchia e con la rivendicazione di Roma all'Italia, la caserma
pavese venne attaccata la mattina del 24 marzo 1870 da una
quarantina di rivoluzionari al grido di «Abbasso la monarchia,
viva la repubblica, viva Roma».[3] Anziché placare la
rivolta, Barsanti rifiutò di intervenire contro i dimostranti
e, con l'aiuto di alcuni complici, sequestrò perfino alcuni
sottufficiali, impedendo la repressione. Fallito il moto e dispersi
i rivoltosi, alcuni militari che, assieme a Barsanti, favorirono
l'assalto repubblicano si diedero alla fuga; egli ed altri
commilitoni, come il sergente cremonese Nicola Pernice, restarono e
vennero tratti in arresto con l'accusa di alto tradimento.
Condotti a Milano e giudicati dal tribunale militare, Pernice
dovette scontare 20 anni di reclusione mentre Barsanti e altri nove
imputati furono condannati alla pena capitale il 20 maggio 1870.
Sorsero iniziative di solidarietà nei confronti del militare
vicino al patibolo, poiché la pena fu considerata eccessiva
rispetto al reato. La marchesa Anna Pallavicino Trivulzio (moglie di
Giorgio) raccolse 40.000 firme di donne da presentare al re Vittorio
Emanuele II per invocare la grazia, rifiutata dal Consiglio dei
ministri il 18 agosto, a maggioranza e a scrutinio segreto.
Il primo ministro Giovanni Lanza, propose al monarca di non ricevere
la marchesa, venuta apposta da Firenze, e Vittorio Emanuele II
acconsentì al suggerimento.[4] Questo atteggiamento
rammaricò la nobildonna e suo marito, unitosi al disappunto,
restituì al re il collare dell'Annunziata del quale fu
insignito.[5] Il 27 agosto dello stesso anno, condotto davanti al
plotone di esecuzione, Barsanti rifiutò i conforti religiosi
da parte dei cappellani e non rinnegò la sua fede
repubblicana. Bendatosi gli occhi e seduto con il sigaro tra i
denti, venne fucilato all'età di 21 anni. Pernice, divenuto
pazzo in carcere, morirà suicida pochi anni dopo.[6]
La fucilazione di Barsanti suscitò indignazione da parte
delle frange repubblicane e anarchiche. Il Gazzettino Rosa, giornale
di Achille Bizzoni e Felice Cavallotti, inveì contro la
monarchia e lo stesso Cavallotti compose un'ode in onore del
giustiziato. Mazzini, venuto a conoscenza della sua morte durante la
reclusione a Gaeta dopo un fallito tentativo insurrezionale,
encomiò il giovane militare e invitò a non dimenticare
il suo martirio. Inoltre, sorsero numerosi circoli repubblicani e
internazionalisti che portarono il suo nome, molti dei quali
verranno soppressi dopo l'attentato dell'anarchico Giovanni
Passannante contro il re successore: Umberto I.
Note
1 "Fucilato il 27 agosto 1870 in seguito a un
fallito moto mazziniano, nei fogli commemorativi il caporale Pietro
Barsanti è presentato come colui che ha «versato il
primo sangue per la Repubblica Italiana» (Cesena, 27 agosto
1886, snt.)". Citato in Maurizio Ridolfi, Almanacco della
Repubblica, Pearson Italia, 2003, p.172
2 "Commemorazione della condanna a morte di
Pietro Barsanti, «primo martire della rivoluzione repubblicana
e sociale italiana», in un manifesto apparso in Romagna
nell'agosto del 1893". Citato in Giovanni Spadolini, L'opposizione
laica nell'Italia moderna (1861-1922), Le Monnier, 1989, p.491
3 Ugoberto Alfassio Grimaldi, Il re "buono",
Feltrinelli, 1980, p.66
4 Gaetano Trombatore, Carmelo Cappuccio,
Memorialisti dell'Ottocento, Volume 2, Ricciardi, 1958, p.467
5 Enrico Tavallini, La vita e i tempi di Giovanni
Lanza, Volume 1, L. Roux e c., 1887, p.476
6 Giovanni Baldi, Storia della rivoluzione
italiana, Nerbini, 1908, p.415
www.treccani.it
DBI
di Elio Lodolini
Nacque a Gioviano (Lucca) il 30 luglio 1849, da Vincenzo e da Teresa
Barsanti. A Lucca, ove il padre si era trasferito con la famiglia
aprendo un piccolo commercio, il B. frequentò le scuole di S.
Maria Nera, tenute dai chierici regolari della Madre di
Diopassò quindi a Firenze, nel collegio M1litare detto delle
"Poverine", e da qui nell'esercito, in cui ebbe il grado di
caporale. Durante il servizio militare, a Reggio di Calabria si
aflWò alla zimana "Alleanza repubblicana universale", che
intomo al 1870 andava raccogliendo proseliti nei gradi minori
dell'esercito.
Il nome del B. è legato a uno dei tentativi insurrezionali
zmiani che si verificarono in varie località della penisola
nel 1870, dopo il ritiro delle truppe francesi da Roma, nel clima di
speranze per la riunione di Roma all'Italia.
Di questi tentativi fa parte un colpo di mano contro due caserme di
Pavia nel marzo 1870, da parte di elementi repubblicani, appoggiati
all'intemo da alcuni sottufficiali e militari (l'azione fu
sconfessata da Mazzini, il quale rivendicò invece la
responsabilità di un'altra svoltasi nello stesso tempo a
Piacenza). All'alba del giorno 24, contemporaneamente ad un analogo
tentativo alla caserma di S. Francesco, alcuni insorti assalirono la
caserma detta del "Lino", dov'era di stanza il 20 battaglione del
420 fanteria. Il tentativo fallì sul nascere senza che
venisse fatto uso delle armi, per il contegno risoluto
dell'ufficiale di picchetto. In caserma, quattro sergenti ed il B.
si armarono e fecero armare i soldati della 7a compagnia incitandoli
ad unirsi alla rivolta, mentre il B. teneva prigionieri alcuni
sottufficiali e militari.
Fallito il tentativo, tutti i compromessi fuggirono all'estero,
tranne il B. ed il sergente Nicola Pernice, che durante l'assalto
alla caserma di S. Francesco si era ritirato nel corpo di guardia.
Il tribunale militare di Milano, con sentenza del 27 maggio 1870,
condannò il Pernice a venti armi di reclusione militare e
alla degradazione, per abbandono di posto di fronte al nemico e
mancata difesa, e gli altri nove imputati - il B. e gli otto
contumaci - alla pena di morte, previa degradazione, per tradimento.
La sentenza fu confermata dal tribunale supremo militare il 16
agosto.
La condanna del B. suscitò enorme scalpore e da più
parti venne chiesta la grazia, sembrando sproporzionata la pena al
reato anche per i motivi ideologici che lo avevano ispirato. Il
rifiuto della grazia fu deciso dal Consiglio dei ministri il 18 ag.
1870 solo a maggioranza e a scrutinio segreto, "tenute presenti le
informazioni ricevute sulle conseguenze per la disciplina
dell'esercito * (nel frattempo si erano verificati i nuovi tentativi
di insurrezione repubblicana delle bande di Calabria, capeggiate da
Ricciotti Garibaldi, e di Lucchesia, e la spedizione organizzata dai
Nathan nel Canton Ticino).
Il B. venne fucilato nel Castello Sforzesco di Milano il 27 agosto,
mentre la marchesa Anna Pallavicino Trivulzio, che aveva raccolto
40.ooo firme di donne italiane, veniva ricevuta, insieme con
Pasquale Stanislao Mancini - uno dei difensori del B. nel processo -
dal presidente del consiglio, Lanza, cui chiedeva nuovamente la
grazia.
A seguito della fucilazione del B., Giorgio Pallavicino
restituì al re il collare dell'Annunziata. Un'epigrafe
funebre fu dettata da F. D. Guerrazzi.
Nei decenni seguenti al nome del B. furono intitolati un gran numero
di circoli e di associazioni repubblicane e la figura di lui divenne
- al di là dell'episodio del quale fu protagonista - simbolo
di ideali repubblicani e mazziniani.