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Critico letterario (Torino 1719 - Londra 1789). Il B. fu il maggiore
dei critici italiani del suo tempo e la sua pagina si ravviva anche
artisticamente quando la vocazione polemica si illumina nella difesa
di un'arte moralmente utile, in cui è da vedere l'ispirazione
più vera della sua opera critica. Tra le sue opere si ricorda
il Discours sur Shakespeare et sur monsieur de Voltaire (1777).
Vita e opere
A Venezia strinse amicizia coi due Gozzi e fu poi a Milano, dove fece parte del primo nucleo degli accademici Trasformati. Nel 1751, per desiderio di maggior libertà e per irrequietezza, si recò a Londra. Tornò in Italia nel 1760 dopo un viaggio attraverso il Portogallo, la Spagna e la Francia, che descrisse nelle vivacissime Lettere familiari ai suoi tre fratelli (1762-63; ripubblicate in inglese, con notevoli correzioni e aggiunte, nel 1770).
Stabilitosi a Venezia, iniziò, nelle vesti e sotto lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, figura di vecchio bisbetico, la pubblicazione della Frusta letteraria (1º ott. 1763-15 genn. 1765; primi 25 numeri), periodico tutto scritto da lui, in cui si propose di menare la frusta "addosso a tutti questi moderni goffi e sciagurati, che vanno tuttodì scarabocchiando". Dopo il 25º numero, il governo veneto, specialmente per istigazione del dotto padre Appiano Buonafede, cui il B. aveva mosso alcune censure, soppresse la Frusta. Il B., rifugiatosi ad Ancona, ne pubblicò tuttavia altri 8 numeri, per lo più contro il Buonafede.
Nel 1766
tornò a Londra, dove rimase fino alla morte (si
allontanò solo nel 1768-69 e nel 1770-71 per un viaggio in
Spagna e uno in Italia), scrivendo, tra l'altro, quello che per
vivacità polemica e vigore di pensiero è forse il suo
capolavoro: il Discours sur Shakespeare et sur monsieur de Voltaire
(1777).
DBI
di Mario Fubini
Ebbe per causa di uonìíni e
circostanze, ma più per il suo carattere irrequieto e
combattivo, una vita errabonda e avventurosa: nato a Torino il 24
apr. Mq da famiglia originaria del Monferrato (dal nome dell'ava
matema gli piacque desumere il cognome Del Carretto, di cui si valse
quando ebbe motivo di tenersi celato, ma senza fondamento è
la pretesa origine dai marchesi Del Carretto), venne giovanissimo in
contrasto col padre (LucaAntonio, architetto militare ed estimatore
generale del re) e dopo le seconde nozze di lui, a sedici anni,
abbandonò la casa patema per recarsi a Guastalla da uno zio,
che lo collocò come scrivano presso un commerciante. Vi
conobbe Carlo Cantonì, poeta burlesco tra i più
rinomati del tempo, che lo avviò, confortando la sua naturale
inclinazione, agli studi letterari: li proseguì tornato a
Torino nel 1737, frequentando la scuola d'eloquenza del modenese
Tagliazucchi, considerato come uno dei "restauratori del buon gusto"
e da lui poi sempre ricordato con gratitudine; ma più che a
Torino trovò spiriti congeniali a Venezia (1738), dove si
strinse in amicizia con la famiglia Gozzi, e a Milano (1740), che la
compagnia di G. M. Bicetti, di G. M. Imbonati, del Passeroni, del
Tanzi (il primo nucleo dei Trasformati) gli rese sopra ogni altra
città carissima. Ottenne nel 1742 la nomina di economo delle
nuove fortificazioni di Cuneo, ma nel 1744, mortogli il padre,
tornò a Torino, e poi, dissipata in gran parte la tenue
eredità e venuta meno forse la speranza di succedere nella
cattedra al Tagliazucchi, desiderando procacciarsi da vivere con la
sua penna, di nuovo a Milano e a Venezia (1747), ritrovando gli
amici, che lo accolsero nelle loro accademie dei Trasformati e, col
nome di Severo Fuggitivo, dei Granelleschi. A Venezia
pubblicò una mediocre traduzione del teatro del Corneille e
diede la prima prova del suo genio polemico nelle Lettere contro
Biagio Schiavo. Come appare dagli stessi nomi dei suoi amici e
maestri, i quali tutti proseguivano per diverse vie l'opera
dell'Arcadia, i suoi interessi in quegli anni furono esclusivamente,
e nel senso più ristretto, letterari, e conformi alle usanze
del tempo i vari suoi scritti in prosa e tanto più numerosi
in versi, tutti d'occasione (fra l'altro a Milano nel 1741 fu il
compilatore della raccolta, a cui pure contribuì, per la
nascita dell'arciduca Giuseppe e nello stesso anno con quei suoi
amici collaborò alla nota raccolta burlesca Lagrime in morte
di un gatto). Suo pensiero primo se non unico era quello
d'impossessarsi delle ricchezze linguistiche e delle movenze
stilistiche degli scrittori dei "buoni secoli", da lui studiati con
la foga che rnise sempre in ogni cosa sua; e nello stile del Berni,
che scelse a suo autore sia per la voga nel suo tempo di quella
poesia, sia perché quei modi gli sembrarono conformi
all'indole del suo spirito vivace e scarsamente riflessivo, compose
la maggior parte delle cose sue, di cui pubblicò una scelta
col titolo di Piacevoli poesie nel 1750, ristampata con qualche
aggiunta nel 1764, e di cui aveva preparato una più ampia
raccolta manoscritta (ora nella Biblioteca comunale di Verona).
Si può nelle rime edite e inedite, in mezzo al profluvio
della chiacchiera bernesca e fra i soliti temi del genere, cogliere
qualche tentativo di rappresentazione dell'autore, del suo carattere
e dei suoi gusti e qualche spunto di satira del costume, ma
più notevoli sono le pagine di prosa, le lettere private, le
prefazioni alle tragedie del Comeille, le Lettere contro lo Schiavo,
non tanto per alcune idee critiche che vi si accennano e a cui egli
si manterrà fedele per tutta la vita, quanto per la
insistente preoccupazione linguistica, che lo porta a infarcire
quegli scritti di locuzioni e vocaboli "di forte e vivace
significàto", desunti dal Berni e dai bemeschi, dal Pulci,
dai novellieri e comici fiorentini, e per l'attitudine che egli
attraverso questo esercizio venne acquistando, a dominare il
sovrabbondante materiale linguistico con un piglio suo proprio e a
trarre da quei vocaboli e da quelle locuzioni effetti gustosi e
personali di caricatura e di satira.
Di questa prima educazione letteraria lo scrittore e il critico
serbarono indelebile l'impronta: ma egli stesso, dopo uno studio
più che decennale delle parole, cominciò (verso il
1749) a sentire il bisogno di evadere da quella cerchia di interessi
in cui si era rinchiuso, e questa sua conversione, iniziatasi in
Italia, si confermò in Inghilterra, dove si recò nel
1751, dopo aver veduto cadere le speranze di ottenere un impiego
stabile in patria (per il quale aveva fatto più di un
approccio presso i principi sabaudi) ed essersi accorto (sopra tutto
dopo la proibizione di continuare la polemica con Giuseppe Bartoli,
successore del Tagliazucchi nell'università di Torino, contro
il quale aveva scagliato un primo Cicalamento)che fra l'ambiente
chiuso del suo paese e il suo carattere vi era un'assoluta
incompatibilità. Nove anni stette a Londra, addetto prima
alla direzione del teatro italiano (in questa veste stese il Projet
pour avoir un Opéra italien à Londres dans un
goút tout nouveau)e poi, venuto a contrasto col nuovo
direttore del teatro (e queste vicende teatrali gli ispirarono un
opuscolo burlesco parte in francese, parte in inglese: La voix de la
discorde, ou la bataille des violons -histoire d'un attentat
séditieux et atroce contre la vie et les biens de cinquante
chanteurs et violonistes,Londres 1753), dando lezioni di lingua
italiana e attendendo a varie pubblicazioni. Fra queste, la
dissertazione sulla poesia italiana (1753), difesa, a dire il vero
un po, tardiva, dei nostri poeti contro le censure del saggio
volterriano sulla poesia epica, e un catalogo ragionato di scrittori
italiani, a cui è premessa una storia della lingua italiana,
rapida scorsa attraverso la nostra letteratura: scritti che non si
distinguono per singolare originalità di spunti critici, ma
che valsero a farlo conoscere al pubblico inglese. A prender dimora
in Inghilterra lo aveva indotto lord Charlemont (allora visconte
Caulfield) che aveva conosciuto a Venezia, e per queste aderenze, ma
più per la sua indole vivace e socievole, entrò in
relazione con cospicui rappresentanti della politica e delle lettere
inglesi, il Fielding, il Reynolds (che negli anni più tardi
gli fece il famoso ritratto), l'attore Garrick, ma soprattutto
Sarnuele Johnson, il cui incontro ebbe per lui una importanza
decisiva e che celebrò poi sempre come il suo maestro e il
maggior critico del tempo. Più anziano di lui di dieci anni e
fornito di una cultura classica e filologica tanto maggiore della
sua (prima di quel tempo, unica prova di un interesse del B. per le
letterature classiche, poco da lui studiate ed amate, la traduzione
dei Remedia amoris e degli Amores ovidiani, a cui aveva atteso in
Italia), fermo in alcuni principi critici e morali e dotato di
un'indole risoluta e caparbia, non molto diversa dalla sua, il
Johnson gli fu subito insieme maestro e guida, contraccambiando la
simpatia e riconoscendone i pregi come i limiti; suo è il
giudizio tramandato dal Boswell: "Il Baretti ha pochi uncini ma con
quelli si aggrappa assai bene". Il johnson gli aperse anche
più di altri la mente alla conoscenza dei poeti inglesi e in
particolare dello Shakespeare: a lui pure, che nel 1755 aveva
pubblicato il famoso Dizionario della lingua inglese,si deve se il
B. si accinse al rifacimento di un vecchio dizionario (dell'Altieri)
italiano-inglese, pubblicandolo del tutto rinnovato in due volumi
nel 1760 con una lettera dedicatoria del Johnson all'ambasciatore
spagnolo: l'opera più importante di questo periodo inglese, a
cui lo aveva preparato oltre all'esperienza del dizionario
jolinsoniano l'esperienza sua propria, quel gusto suo per le lingue,
che apprendeva al pari dei dialetti con tanta facilità e per
cui si era formato un così fine, senso lessicografico, e che
per molto tempo (per tutto il secolo scorso almeno) è stato
considerato il migliore dei dizionari italo-inglesi. Ai due volumi
accompagnò due grammatichette della lingua inglese e della
lingua italiana e due prefazioni, notevoli soprattutto per
l'entusiasmo che vi si dimostra per la letteratura inglese, cosi
ricca e così nuova rispetto a quelle familiari ai
connazionali.
Il Dizionario gli valse anche un discreto guadagno: e con questo
gruzzolo, ma più con la coscienza di un nuovo patrimonio di
idee e di attitudini acquistate e provate nel soggiorno inglese,
egli, cogliendo l'occasione offertagli di fare da compagno e guida a
un giovane di ricca famiglia, Edward Southwell, decise di tornare
-in Italia per riprendervi con nuova lena e vigore l'opera di
scrittore italiano. Non Torino, bensì Milano, dove contava
sull'appoggio del nuovo governatore Firrnian, oltreché sui
vecchi amici dell'Accademia dei Trasforrnati, doveva essere il campo
della sua attività, e a Milano nel 1762 pubblicò il
primo volume delle Lettere familiari ai suoi tre
fratelli,descrizione del viaggio di ritorno in patria attraverso il
Portogallo e la Spagna, compiuto dall'agosto 1760 al novembre dello
stesso anno. Ma la pubblicazione non poté aver seguito a
causa delle proteste del ministro del Portogallo per l'evidente
animosità delle lettere dedicate al suo paese (recente era
l'espulsione dei gesuiti e le pagine barettiane potevano sembrare,
non a torto, essere ispirate da avversione per quei provvedimenti).
Nemmeno a Venezia, dove l'anno successivo stampò il secondo
volume, la pubblicazione poté essere continuata: soltanto nel
1770 l'opera rifatta e riscritta in inglese poté uscire
completa col titolo A Vourney from London to Genoa through England,
Portugal, Spain and France.
Le Lettere familiari (quarantasette lettere nell'edizione italiana)
sono di fatto la prima vera opera del B., frutto della sua nuova
esperienza e della raggiunta maturità. Ben vi si avverte
ancora l'efficacia della prima educazione bernesca in descrizioni
burlesche di avventure e disavventure di viaggio e in certa
ostentazione di disinvoltura e piacevolezza, ma sulla maniera
prevale per lo più la personalità dello scrittore, che
ci s'impone per il gusto delle cose, della realtà viva, sia
pure umile e modesta. Non vi cerchiamo né impressioni vive e
originali di paesaggi esotici, né considerazioni peregrine
sulla vita sociale e politica dei popoli vísitati,
bensì la schietta e semplice umanità di uno spirito
sano, che si compiace di trovarsi tra i propri simili di diverso
paese e di diversa condizione, di conosceme le usanze e gli umori e
che sa prendere interesse anche alle piccole cose della vita
quotidiana, libero dalle prevenzioni del letterato e lieto di
muoversi lontano dall'atmosfera libresca e di dover occuparsi
d'altro che di libri. Per quanto sensibili siano le tracce
dell'educazione letteraria non solo negli scoperti scherzi di sapore
bemesco, ma anche in pagine programmaticamente sostenute e
retoriche, come le troppo famose sul terremoto di Lisbona, siamo
lontani dall'esercizio stilistico di un letterato a tavolino (come
erano i precedenti scritti barettiani) e siamo portati piuttosto a
riconoscervi un esempio di giornalismo modemo, di giornalismo inteso
nel miglior senso della parola.
Domina nelle Lettere, su tutte le figure e figurette, le scene e le
scenette che vi son ritratte, la figura dell'autore protagonista: e
ancora un autoritratto dello scrittore, non più in viaggio ma
fra i libri degli autori moderni, si leverà dai fogli della
Frusta letteraria, il giornale che con la falsa indicazione di
Roveredo farà uscire quindicinalmente dal 10 ott. 1763 a
Venezia, città in cui, riuscitegli fallaci le speranze di una
sistemazione nell'ambiente milanese, si era stabilito, fidando nelle
risorse di così importante centro librario, oltreché,
pare, nella protezione di personaggi legati al partito gesuitico.
Ambizione sua era dar vita in Italia a un giornale di critica
letteraria e morale simile a quelli da lui ammirati dell'Addison e
del Johnson. La vocazione polemica, che era in lui primordiale
(un'idea o un giudizio egli non sapeva sostenere e, direi, concepire
se non nel contrasto con un avversario) e che sino allora si era
sfogata in battaglie povere di contenuto ideale, come nel caso dello
Schiavo e del Bartoli, trovava finalmente una giustificazione nella
battaglia contro la falsità di una letteratura che, paga di
un suo fittizio mondo di immagini tradizionali, si era preclusa ogni
contatto con la realtà. Famosa è la caricatura
dell'Arcadia, pubblicata quasi programma nel primo numero, ma
più che quelle pagine troppo colorite e di dubbio gusto
contro un'istituzione che aveva già esaurito il proprio
compito, importanti sono gli articoli, come quelli sul Genovesi e il
De Gennaro, che mettono in luce l'errore del canone dell'imitazione
ribadito dall'Arcadia, per il quale veniva a porsi dinanzi a un
autore un modello prefissato di bello scrivere desunto dagli antichi
e particolarmente dal Boccaccio, con effetti inevitabili di
forzatura e dissonanza se non addirittura di falsità. Il B.
non rinnega lo studio della lingua, che per tanto tempo è
stato il suo, e risolutamente avversa i moderni dispregiatori dello
studio delle parole, delle tradizioni linguistiche, come gli
scrittori del Caffè, pur riconoscendo che non tutta la lingua
è nella Crusca e vagheggiando una lingua moderna insieme ed
espressiva, come quella ammirata in scrittori inglesi e francesi; ma
distingue tra la lingua e lo stile, che deve essere invece cosa
personale, nascere insieme col pensiero; e a quegli scrittori che si
costringevano entro moduli estrinseci e scolastici, ai boccaccisti e
allo stesso Boccaccio contrappone l'esempio del suo Cellini,
illetterato in un secolo letteratissimo, scrittore che egli
particolarmente sentì anche per affinità di carattere,
ma più ancora che come individuo, come vero e proprio mito
critico, l'uomo della santa e salutare ignoranza che "si dipinge
senza pensarvi più che tanto", che "scrive come vien viene" o
addirittura "ha prima scritto che pensato", un uomo fatto nascere
dalla Provvidenza nel secolo dottissimo ed elegantissimo a
confusione e ad ammonimento dei pedanti di tutti i tempi. È
qui il centro vivo della polemica della Frusta, per la quale il B.
si affianca con una nota sua originale a quanti propugnavano una
letteratura modema, atta a interessare un largo pubblico di lettori,
come quella di altre nazioni. Non tanto la poesia gli stava a cuore
quanto la prosa: si limitava a satireggiare la vacuità di
certa pseudopoesia contemporanea, le "frugonerie", i versi sciolti e
i "versiscioltai" (poiché il "moderno" B. non sapeva
ammettere una poesia italiana fuori dal giro tradizionale delle
strofe e delle rinie) e, se lasciava la critica negativa e satirica
in cui era maestro, veniva a tessere un vero e proprio elogio
accademico del Metastasio, senza dire cose nuove e in stile
così lontano da quello che gli era proprio, insistendo
particolarmente, e qui il suo articolo ha valore di testimonianza
del gusto suo e del tempo, sulla "chiarezza", dote precipua del
poeta cesareo, sulla sua testa "sgombra di nuvoli" come quella di
nessun altro poeta. Tutt'altro il suo sentimento verso il Goldoni,
sia che lo rendessero diffidente l'elogio del Voltaire e il favore
degli spiriti "illuminati", sia che gli piacesse a Venezia prendere
una posizione decisa accanto all'amico Carlo Gozzi in quella lunga e
ancor viva polemica, o, non riuscendo o non volendo comprendere la
effettiva novità del teatro goldoniano, si compiacesse di
metteme in luce gli aspetti più deboli, che più si
prestavano al suo genio caricaturale. Ma giusti od errati, dettati
da un retto intuito o da prevenzioni, i giudizi barettiani tutti
s'irnpongono per il piglio dello scrittore, che è divenuto
per questo suo vigore d'arte agli occhi dei posteri l'esemplare per
eccellenza del critico o più esattamente del critico del
tempo suo, non disposto a sottomettersi ad alcuna autorità,
ad accettare le fame consacrate, tutto inteso a scuotere da un pigro
ossequio a celebrità più o meno autentiche i troppo
timorati lettori. Perciò non rimane una finzione marginale la
figura di Aristarco Scannabue, presentato come estensore del
periodico nella felicissima introduzione: nella figura di Aristarco,
il vecchio soldato amante delle lettere e nemico dei letterati,
l'italiano dalla vasta esperienza di vita, così diversa da
quella dei connazionali, il B. fa una caricatura di se medesimo e
annuncia la propria volontà polemica. "In tutti i numeri
della Frusta risuona quella voce di soldato imperterrito e collerico
che ci è stato presentato nell'introduzione come il
protagonista e l'autore del giornale. La Frusta letteraria nasce
così con un'impostazione fra artistica, morale e critica che
rimane il suo concetto dominante" (Momigliano).
Non facile, si comprende, fu la vita della Frusta,che doveva per il
suo spirito aggressivo, per i suoi attacchi giusti ed ingiusti,
suscitare al B. numerosi nemici: si aggiunga il sospetto che egli
fosse protetto dai gesuiti (significativa la vivacissima polemica
contro di lui del giornale veneziano La Minerva di tendenza
giansenistica), né quel sospetto fu forse estraneo alle
proteste presso il governo della Serenissima del ministro Tanucci
per un accenno sprezzante agli scavi d'Ercolano (l'avversione agli
studi d'antiquaria era una deRe fissazioni del B.); a evitare la
soppressione minacciata egli fece allora ammenda con un articolo
elogiativo del libro sugli scavi d'Ercolmo e del principe che li
aveva promossi, ma non evitò, dopo il venticinquesimo numero
del 15 genn. 1765, la proibizione di continuare la stampa del suo
foglio, col pretesto del giudizio severo da lui dato sull'opera
poetica del Bembo patrizio venezimo, ma in realtà per por
fine, come è detto in una comunicazione degli Inquisitori di
Stato, alle "querele frequenti che giungevano d'ogni parte, ed anche
dalla corte di Napoli, per li modi irriverenti e maledici dei suoi
scritti". In quel tempo stesso usciva contro di lui un libello, Bue
pedagogo,del padre Appiano Buonafede dell'Ordine dei celestini (del
quale fu poi procuratore generale), da lui sulla Frusta aspramente
criticato per le Commedie filosofiche pubblicate sotto lo pseudonimo
di Agatopisto Cromaziano (e nelle censure barettiane e in tutta la
polemica sembrano aver avuto parte ragioni non puramente
letterarie): soprattutto per rispondere a quell'attacco il B.
proseguì con la falsa data di Trento il giomale,
pubblicandovi otto discorsi contro il Buonafede in altrettanti
fascicoli, oltre a un nono fascicolo con un articolo di altro
argomento. Vi attese, lasciata Venezia e rifugiatosi sotto falso
nome per qualche mese nei pressi di Ancona, bene accolto da quel
vescovo, il cardinale F. Acciaiuoli, che già nunzio in
Portogallo e cacciatone insieme con i gesuiti lo aveva allora
conosciuto e gli aveva fatto amichevoli profferte. Ma ormai si era
persuaso che non era più possibile per lui continuare in
patria il suo "mestiere d'autore" e nel 1766, dopo un viaggio per
varie città d'Italia, dove s'incontrò con amici e
parenti, soffermandosi più a lungo nelle sue terre e a
Genova, tornò a Londra per riprendere le abitudini e il
lavoro di un giorno, in quella società che ora sentiva
più che per l'innanzi congeniale.
Vi trovò, ormai costituita in regolare club e con nuovi
adepti, la cerchia degli amici del Johnson (tra essi, oltre ai
ricordati, il Burke e il più giovane BosweH, non benevolo
verso di lui che male aveva accolto il suo libro sulla Corsica, non
condividendone la simpatia per gli insorti e l'avversione ai
Genovesi): e dell'amicizia del circolo johnsoniano ebbe una valida
prova quando, processato per l'uccisione di un uomo che lo aveva
minacciato e provocato in una strada londinese (1769), vennero fra
gli altri a testimoniare in suo favore il Johnson, il Burke, il
Garrick, il Goldsmith ("Non mai una tale costellazione di geni,
scrisse il BosweH, ebbe a illuminare la cupa aula di un tribunale
criminale"), contribuendo alla sua assoluzione. Né Londra
lasciò più se non temporaneamente nel 1768-69 per un
viaggio in Spagna, che gli offerse nuova materia di notizie e di
impressioni per il rifacimento inglese delle Lettere,e poi alla fine
del 1770 e nei primi mesi del 1771 in Italia, per rivedere ancora
una volta luoghi e persone care. E della fama conseguita nel suo
paese d'elezione ebbe un segno nella nomina a segretario per la
corrispondenza straniera della Reale Accadernia di belle arti di
Londra (1769).
Del primo anno del nuovo soggiorno a Londra è l'opera in due
volumi scritta in inglese con gran foga per confutare gli errori e
le censure del dottor Sharp, autore di un recente libro sull'Italia,
Letters from Italy,ché si direbbe per tutti o quasi i suoi
scritti il B. aveva bisogno di un avversario da ribattere o
combattere. Dedicato a lord Charlemont, l'Account of the manners and
customs of Italy; with observations on the mistakes of some
travellers, with regard to that country (1767) discorre per quaranta
capitoli in forma non sistematica, passando da un soggetto
all'all'altro, dei temi più vari, di costumi e di religione,
di arte e di letteratura, dei caratteri diversi dei diversi popoli
d'Italia (con osservazioni ora penetranti ora superficiali), non
senza dare pure consigli spiccioli ai viaggiatori. Parrà a
Cesare Balbo che in questa difesa dei costumi italiani (fra l'altro
del cicisbeismo) egli fosse andato troppo oltre per ché "dopo
aver perseguitati i vizi italiani in patria molto bene, si era
lasciato trarre a coprirli e quasi a giustificarli fuori per il
solito malinteso amor di patria" (del resto il B. stesso in una
lettera privata affermava di aver detto dell'Italia "quel bene che
poteva e velatone il male quanto poteva"). Particolarmente
significativo per questo rispetto e indizio di una più intima
contradizione quanto egli scrive sulle difficoltà frapposte
agli scrittori dalle varie censure in Italia, delle quali egli
stesso aveva dovuto soffrire e di cui tanto si compiaceva di essersi
liberato lavorando nella sua seconda patria: ben sa, e lo ripete
nell'Account, che gli scrittori inglesi han da rallegrarsi della
propria condizione, eppur con vivacissime parole depreca una
libertà di stampa negli Stati italiani, che si risolverebbe
in licenza perniciosa per i governi come per i privati. Ritornano in
questa Relazione i temi prediletti della critica barettiana: una
più divertita e meno acrimoniosa presentazione dell'Arcadia e
degli arcadi, nuovi rilievi degli errori del Voltaire, l'esaltazione
dei Metastasio e giudizi forse ancor più severi sul Goldoni;
vi si lodano invece le Fiabe di Carlo Gozzi, per la prima volta
forse accostate allo Shakespeare creatore di Calibano e di altri
personaggi fantastici (ma quando le poté leggere stampate
parecchi anni dopo ne diede un ben diverso giudizio, perché
gli parve che il Gozzi, "scioccone ingegnoso", avesse rovinato tante
belle invenzioni con scipite buffonerie e con la trascuratezza di
lingua e di stile). L'opera ebbe grande successo e fu ristampata in
una seconda edizione nel 1769 con un'appendice in risposta
all'opuscolo dello Sharp in difesa dell'opera propria; fu pure
tradotta infelicemente in francese nel 1773 e in tedesco nel 1781;
una traduzione italiana, imperfetta e lacunosa, fu pubblicata a
Milano nel 1818.
La fama di scrittore inglese procuratagli dall'Account fu confermata
dal libro sul viaggio in Portogallo e in Spagna, pubblicato nel 1770
e dedicato alla Reale Accademia di belle arti: il Johnson ebbe a
dirlo uno dei migliori libri di viaggio che fossero stati scritti.
Nuova è rispetto all'edizione italiana tutta la parte sulla
Spagna e sulla Francia, ma anche le parti precedenti sono state
corrette e, se si difendono i gesuiti dalle accuse del governo
portoghese, pure non mancano contro di loro critiche acerbe in
contrasto coi sentimenti altra volta espressi verso la Compagnia e
taluno dei suoi membri. Più lettere sono dedicate a un quadro
della letteratura spagnola, altro campo da lui coltivato con
interesse e impegno, come appare da altre opere o disegni di opere.
Si era proposto fra l'altro di curare una edizione inglese della
Storia del famoso predicatore Frate Gerundio,stendendone una
prefazione che è stata stampata ai nostri giomi, e aveva
atteso per qualche tempo a una traduzione rimasta incompiuta dei Don
Chisciotte.Pubblicò invece nel 1778 un dizionario inglese e
spagnolo; e, maestro di lingue e di lettere, diede di questa sua
esperienza saggio in una antologia di passi scelti di scrittori
inglesi, francesi, italiani e spagnoli con traduzioni (1772). E
delle "tante opericiattole" che andava scrivendo, "per uso delle
fanciulle britanniche" da lui ammaestrate nelle lingue, gli piacque
;tampare col titolo Eas Phraseology for the use of young y ladies
who intend to learn the colloquial part of the Italian language
(1775) "certi dialoguzzi da nulla scritti così sui due piedi"
per una giovanissima allieva, Ester Thrale, manualetto grazioso e
vivace di modi e locuzioni peculiari alla lingua italiana, in cui ha
modo ancora di farsi valere il gusto linguistico e insieme quel che
di gentile era nell'animo del suo autore.
Ma di tanto supera queste opere e operette il Discours sur
Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire,pubblicato a Londra nel 1777
e a Parigi in un'edizione mutilata da C. B. Suard: ~(un'operetta,
ebbe a dire in una lettera, che ho limata un pezzo e che faccio
conto sia la meglio cosa che m'abbia scritta mai". A ragione,
poiché, come osservò il Foscolo, il soggetto e
più ancora l'avversario sollevarono il suo ingegno
ispirandogli un discorso in un francese tutto suo, intraducibile,
tutto brio e punte, non indegno del Voltaire, con cui aveva tentato
più volte in passato di azzuffarsi, eleggendolo a suo
antagonista primo, e la scelta tradisce una segreta simpatia di
polemista per il polemista principe, quali che fossero le divergenze
ideali.
Occasione ne fu la Lettera all'Accademia francese del Voltaire, il
quale, dopo essere stato il primo a far conoscere lo Shakespeare in
Francia e averne intuito, sia pure come in barlume, la grandezza, si
era scagliato violentemente contro il Letourneur, che stava
traducendo l'opera intera del tragico inglese, atteggiandosi a
paladino del buon gusto e del teatro classicistico di Francia e
giudicando lo Shakespeare "un selvaggio ubriaco" e un "barbaro
istrione". La difesa dello Shakespeare, a cui il B. era preparato
dalla consuetudine oltreché col teatro inglese con uomini
come il Johnson e il Garrìck, divenne per lui la difesa della
poesia originale, di tanto superiore alle convenzioni
classicistiche. Se uno per uno i suoi argomenti non erano nuovi
(tutto il ragionamento sulle cosiddette unità violate nel
teatro shakesperiano èdesunto dal Johnson), autentica
è l'ammirazione per lo spirito libero dello Shakespeare,
quasi un maggiore Cellini, e più felice che mai per l'innanzi
il genio caricaturale dello scrittore, che con trovate inesauribili
fa qui la maggiore prova, ponendo in così forte rilievo le
contradizioni e gli errori del Voltaire e ritornando sui prediletti
idoli della sua polemica, il Goldoni, l'Algarotti, il Verri, il
Beccaria e tutti i moderni spiriti illuminati.
Il critico e il moralista, lo scrittore e il maestro di lingua son
presenti nella Scelta delle lettere familiari fatta per uso degli
studiosi della lingua italiana (1779),che, come dice il titolo,
doveva ammaestrare lettori stranieri nella nostra lingua, offrendo
copia di esempi dei suoi modi anche meno ovvi, ma che nello stesso
tempo veniva a essere una summa delle sue opinioni letterarie e
morali.
Per questa Scelta egli ha attinto largamente al suo epistolario
privato, uno dei più vivi della nostra letteratura e vero
banco di prova delle sue doti di scrittore, poiché il B.,
poco atto a una meditazione serrata intorno a un concetto o a uno
sviluppo fantastico di un'únmagine, meglio si ritrovava in un
libero discorso con familiari: di qui il proposito di presentarle al
pubblico con opportuni adattamenti, inventando fra l'altro i nomi
dei corrispondenti (tutte persone reali e amiche dell'autore, ma il
cui carattere nulla ha che fare col contenuto della lettera) e
cercando così nelle sue vecchie come nelle altre nuove
scritte per questa raccolta di sfoggiare la propria bravura
stilistica con costrutti e locuzioni non comuni, giustificati dal
fine didattico del libro, ma conformi a una tendenza in lui
connaturata al virtuosismo verbale, che in quest'ultima opera si fa
forse più ancora che in altre notare. Come saggio dei suoi
criteri stilistici egli haposto innanzi alle altre un rifacimento di
una lettera di Annibal Caro, ma l'assunto stilistico e retorico non
è così prevalente da togliere interesse all'opera
(divisa in due libri rispettivamente di cinquantadue e trentaquattro
lettere) avvivata in ogni sua pagina dagli estri, dagli umori, dal
fondamentale buon senso dello scrittore. Vi è, non frequente
nel B., una fresca descrizione di paesaggio, le colline del
Monferrato (che piacque al Carducci), vi sono assennati consigli di
vita morale, frutto di un'esistenza non facile, consoni a un
carattere nonostante le apparenze equilibrato, giudizi letterari e,
ancor approfondito, il suo tema prediletto, la lingua italiana, per
cui egli combatte a un tempo le pretensioni degli zelatori di una
stretta osservanza a una pretesa pura fiorentinità e la
licenza dei novatori, come il Verri, affatto insensibili, a suo
credere, ai valori dell'espressione. Notevoli pure le pagine nelle
quali, andando oltre i giudizi espressi nell'Account, il B.
manifesta i propri dubbi sul soverchio numero dei frati negli stati
italiani, i quali non gioverebbero alla fede religiosa e certamente
nuocciono alla vita sociale ed economica.
Non cessò di lavorare e pubblicare negli anni seguenti: ma
questi ultimi scritti, se attestano il non mai spento ardore
combattivo che ne è il motivo ispiratore, si esauriscono
tutti in una polemica non sorretta da ragioni ideali. Tali il
Tolondron (1786),un libro in inglese di ben 338 pagine contro un
editore del Don Chiscio-te,John Bowle, di cui si dimostra la totale
ignoranza della lingua e letteratura spagnola; e ancor più
personali e accaniti gli articoli (1788)contro la signora Thrale per
la pubblicazione da lei curata e annotata di lettere del comune
amico Johnson (morto nel 1784),nei quali dà sfogo a una
avversione andata via via crescendo dopo a rottura di parecchi anni
innanzi con quella famiglia, e più ancora dopo le seconde
nozze della donna col cantante italiano G. Piozzi. Essi ebbero
peraltro una certa eco nel mondo letterario inglese per la
vivacità dello stile e per le persone contro le quali o delle
quali si discorreva. A quel mondo ormai si sentiva legato il B., che
dell'opera sua in Inghilterra aveva avuto pure un riconoscimento
ufficiale con la pensione di 80 sterline annue, assegnatagli dal re
d'Inghilterra a partire dal 1782. Ultima sua pubblicazione in
italiano fu un libretto di Quattro epistole in versi martelliani
(1787) contro il padre Appiano Buonafede, contro i letterati
italiani, sulle traversie di un viaggio per mare da Genova a Nizza,
sul piacere di viaggiare. A Londra moriva il 5 maggio 1789.
Fortuna. "Amatore miracoloso degli amici", come si definì, e
impetuoso e talora avventato e sempre ostinato polemista, il B. ebbe
in vita fautori e avversari, attratti o respinti dalla sua
personalità piuttosto che dalle idee di cui si fece
sostenitore. Si è detto delle amicizie milanesi e veneziane;
sarà da aggiungere a quei nomi Francesco Carcano, il
più assiduo dei suoi corrispondenti milanesi, e Antonio
Greppi, il potente capo dei fermieri, da cui sperò protezione
e che non fu estraneo ai primi attacchi della Frusta contro il
Verri, e i bresciani G. M. MazzucheW, che inserì nei suoi
Scrittori d'Italia la sua biografia sino al 1754, e G. B.
Chiaramonti, suo confidente nei travagliati anni della Frusta. Di
quegli anni sono gli scontri violenti col bresciano Durante Duranti,
che lo costrinse ad un'umile ritrattazione, e con l'abate Vicini
modenese, l'uno e l'altro criticati sulla Frusta, e gli accenni
sdegnosi del Frugoni, ripresi dall'editore discepolo di quel poeta,
il Rezzonico, nel Ragionamento premesso alla raccolta delle opere di
lui, a proposito della dibattuta questione del verso sciolto. E come
libellista e letterato nel senso deteriore egli vien ricordato
sempre nel carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, non dimentichi
delle aspre censure barettiane mai da Pietro pubblicamente
ribattute. Si è detto delle polemiche veneziane: altri
contrasti suscitò l'Account nella patria del B. dove un
avvocato Vernazza pubblicò un opuscolo di critica ai giudizi
sul Piemonte (ne era viva ancora l'eco quando il Lessing
visitò Torino e dei giudizi sul B. lasciò ricordo nel
diario). Dell'Account invece tradusse, consentendo nei giudizi, le
pagine sul teatro italiano J. G. Hamann in una rivista tedesca,
replicando poi con un articolo a un censore, che non condivideva
l'avversione sua e del B. per il Voltaire e il Goldoni. Della sua
fortuna in Inghilterra la testimonianza più importante
rimane, nonostante la scarsa simpatia, quella del Boswell nella vita
di S. Johnson: significativi i necrologi, apparsi su più di
un giornale alla sua morte.
In Italia la sua figura e la sua lezione di critico si fece valere
si può dire soltanto col nuovo secolo: la prima ristampa
della Frusta si ha nel 1799-1800, delle Lettere ai fratelli nel 1803
(e la traduzione di quest'opera completa nel 1830-31); la prima
traduzione dell'Account nel 1818. Perciò il riconoscimento
dell'efficacia della critica barettiana, a cui non è stata
estranea la nuova coscienza civile e letteraria, non è senza
riserve dettate appunto da quella più matura consapevolezza e
della letteratura e della sua connessione con la vita tutta, quale
le nuove esperienze politiche e letterarie avevano promosso. Di qui
le lodi del Foscolo fin nell'articolo Sulla traduzione dell'Odissea
(181o), in cui per primo forse affermò che più dei
soliti "maestri di poetiche e retoriche il B. vedeva su quali
fondamenti posi la vera letteratura" e rilevò
l'originalità stilistica dell'"intraducibile" prosa del
Discours; e nel più tardo articolo sulla Letteratura
periodica,ilpiù ampio, meditato e sfumato ritratto che pone
in luce i limiti del critico, l'attitudine di lui a dare una
espressione tutta sua a idee accolte con felice intuito ma non
profondamente meditate, e particolarmente la contradizione, per la
quale "predicava riforme e liberissimi principi in letteratura non
pensando mai che rigenerata per nuovi principi la letteratura, ne
viene presto o tardi immancabilmente il rinnovamento politico e
religioso". Per le stesse ragioni i romantici del Conciliatore
rimanevano perplessi nel loro giudizio, stimando che "quel vivo
ingegno del B. mancasse di filosofia", e questo giudizio restrittivo
si fa sentire nell'articolo del Borsieri (nn. 6 e 10) sull'opera di
recente tradotta sugli Italiani. Anche per il Berchet il B. era
"uomo d'ingegno vivacissimo ma di cognizioni non sempre profonde"; e
interprete del sentimento dei romantici fu Camillo Ugoni, che ci ha
lasciato il giudizio meglio meditato e fondamentalmente equo sul B.,
di cui non nasconde l'unilateralità e la monotonia di idee
critiche. Non si prosegue nel secondo Ottocento il discorso iniziato
con le pagine del Foscolo e dell'Ugoni, accettandosi piuttosto senza
discriminazione dei pregi e dei limiti l'idea di un B. critico
innovatore e geniale ed esempio di "prosatore moderno". Illuminanti
alcuni cenni del Carducci e una pagina del D'Ovidio: ma le nuove
diligenti ricerche del Piccioni, nonostante o forse in grazia di
certo atteggiamento apologetico o rivendicatorio, valsero in un
diverso clima culturale a riproporre il quesito sull'effettivo
valore del critico settecentesco. Ne vennero le fortissime
limitazioni del Croce, e dopo di lui del Natali, del Borgese e di
altri, e da queste discussioni e da nuove ricerche, un giudizio
più equo e storicamente fondato sul B., meglio compreso anche
per una più estesa conoscenza del Settecento italiano ed
europeo e in particolare della storia delle idee critiche. 2 da
ricordare infine che il nome del B., il critico per antonomasia, fu
assunto come titolo da riviste letterarie pubblicate nella sua
città natale: il giornale di varia erudizione, dal 1872 al
1885, e la rivista fondata e diretta da Piero Gobetti e continuata
dopo la sua scomparsa dal 1924 al 1928.