Honoré deBalzac

Il cugino Pons



I • UN GLORIOSO RELITTO DELL'IMPERO

    Verso le tre del pomeriggio, nell'ottobre del 1844, un uomo di una sessantina d'anni che ne dimostrava molti di più camminava lungo il boulevard des Italiens, naso a terra e aria soddisfatta, come un negoziante che avesse appena concluso un affare eccellente o un ragazzo appena uscito tutto soddisfatto da un boudoir. A Parigi è questa l'espressione più eloquente dell'umana soddisfazione. Scorgendo da lontano quel vecchio, le persone che stavano lì ogni giorno sedute sulla sedia, abbandonandosi al piacere di osservare i passanti, lasciavano affiorare sul volto quel sorriso tipico dei parigini, ironico, beffardo o compassionevole, che tuttavia per animare l'espressione di un parigino, abituato a ogni genere di spettacoli, richiede una dose di curiosità non comune.
    Un aneddoto può far capire sia il valore archeologico di quel brav'uomo, sia la ragione di quel sorriso che si ripeteva come un'eco in ogni sguardo. Fu chiesto a Hyacinthe, un attore celebre per le sue battute, dove mai si facesse fare quei cappelli che alla loro apparizione suscitavano esplosioni di risate in sala. Rispose: «Non li faccio fare! Io li conservo». Ebbene, nel milione d'attori che compone la grande compagnia di Parigi s'incontrano degli Hyacinthe che non sanno di esserlo: questi attori inconsapevoli sono un vero concentrato di tutte le ridicolaggini di un'epoca e sembrano impersonare un intero periodo storico, per strapparvi una ventata di buonumore mentre passeggiate ingoiando qualche amaro dispiacere provocato dal tradimento di un ex amico.
    Mantenendosi comunque fedele, in qualche particolare dell'abbigliamento, alla moda del 1806, quel passante ricordava l'Impero senza sembrare una caricatura. Per gli osservatori, una tale finezza rende estremamente preziose le rievocazioni di questo genere. Ma quell'insieme di piccoli dettagli richiedeva l'attenzione analitica di cui sono dotati i più consumati perdigiorno; e, per provocare il riso da lontano, quel passante doveva offrire uno di quei paradossi che saltano immediatamente agli occhi e che gli attori ricercano per garantirsi il successo dell'entrata in scena. Il vecchio, asciutto e magro, portava uno spencer color nocciola sopra una giacca verdastra con bottoni di metallo bianco!... Un uomo in spencer nel 1844 è come se Napoleone si fosse degnato di resuscitare per un paio d'ore.
    Lo spencer fu inventato, come dice il nome, da un lord certamente orgoglioso del proprio portamento. Prima della pace di Amiens quest'inglese aveva risolto il problema di coprire il busto senza schiacciare il corpo sotto il peso di quell'orribile carrick che oggi è finito sulle spalle dei vecchi fiaccherai; ma poiché le figure snelle sono rare, la moda dello spencer da uomo in Francia riscosse un successo effimero, nonostante si trattasse di un'invenzione inglese. Alla vista dello spencer le persone tra i quaranta e i cinquant'anni rivestivano mentalmente quel signore di stivali con i risvolti, di pantaloni di casimir verde pistacchio con nastri annodati, e si rivedevano negli abiti della giovinezza! Le vecchie si ricordavano delle loro conquiste! Quanto ai giovani, si chiedevano perché mai quel vecchio Alcibiade avesse tagliato la coda al paltò. Tutto si accordava talmente bene con quello spencer che non avreste esitato a definire quel passante «un uomo Impero», così come si dice un «mobile Impero»; ma era un simbolo dell'Impero solo per coloro ai quali quell'epoca magnifica e grandiosa è nota almeno de visu; infatti richiedeva una certa fedeltà ai ricordi in materia di moda. L'Impero è già talmente lontano da noi che non tutti possono immaginarlo nella sua realtà gallo-greca.
    Il cappello all'indietro lasciava scoperta quasi interamente la fronte, con quell'atteggiamento di spavalderia con cui gli impiegati e i borghesi, in quegli anni, cercavano di rispondere a quella dei militari. Era un orribile cappello di seta da quattordici franchi, sui cui bordi interni due orecchi alti e larghi avevano impresso delle macchie biancastre, combattute invano dalla spazzola. Il tessuto di seta applicato malamente, come sempre, sul cartone della forma, faceva qua e là delle pieghe e pareva aggredito dalla lebbra nonostante la mano che ogni mattina lo lisciava.
    Sotto il cappello, che sembrava sul punto di sfondarsi, si stendeva una di quelle facce strane e comiche che soltanto i cinesi sanno inventare per le loro statuine grottesche. Il volto largo, bucherellato come una schiumarola i cui fori formavano delle ombre, e scavato come una maschera romana, smentiva tutte le leggi dell'anatomia. Lo sguardo non riusciva a scorgervi alcuna struttura. Là dove il disegno esigeva delle ossa, la carne presentava dei piani gelatinosi, e là dove i volti hanno di solito delle cavità, il suo sporgeva in flaccide protuberanze. Quella faccia grottesca, schiacciata a forma di fungo, intristita dagli occhi grigi sormontati da due linee rosse al posto delle sopracciglia, era sovrastata da un naso alla don Chisciotte, come una pianura è dominata da un masso erratico. Un naso simile esprime, come ebbe a notare Cervantes, una naturale tendenza a quella dedizione ai grandi ideali che degenera in stupidità. Eppure quella bruttezza, perfino comica, non faceva ridere affatto. L'estrema malinconia che traboccava dagli occhi smorti del pover'uomo colpiva la persona beffarda e le gelava il sarcasmo sulle labbra. Veniva subito da pensare che la natura avesse proibito a quel brav'uomo di esprimere affetto, a meno di suscitare il riso di una donna o di affliggerla. Il francese ammutolisce di fronte alla sventura che considera la più crudele di tutte: non poter piacere!

II • UN ABBIGLIAMENTO COME SE NE VEDONO POCHI

    Quell'uomo trattato così male dalla natura era vestito come i nobili decaduti ai quali i ricchi cercano spesso di somigliare. Le scarpe erano coperte da ghette, sul modello di quelle della guardia imperiale, che certamente gli permettevano di tenere gli stessi calzini per un certo tempo. I pantaloni di panno nero avevano dei riflessi rossastri e, sulle pieghe, linee bianche o lucide le quali, non meno del taglio, facevano risalire a tre anni prima la data dell'acquisto. L'ampiezza dell'abito nascondeva malamente una magrezza dovuta più alla costituzione fisica che a un regime vegetariano; infatti il buonuomo, dotato di una bocca sensuale dalle labbra carnose, quando sorrideva mostrava dei denti bianchi degni di un pescecane. Il panciotto a scialle, anch'esso di panno nero, sopra un altro panciotto bianco sotto il quale luccicava in terza linea l'orlo di una maglia rosa, vi riportava alla memoria i cinque panciotti di Garat. Un'enorme cravatta di mussola bianca il cui nodo pretenzioso era stato creato da qualche bellimbusto per incantare le femmes charmantes del 1809, oltrepassava talmente il mento che la faccia sembrava sprofondarvi come in un abisso. Un cordone di seta intrecciata che simulava dei capelli attraversava la camicia e proteggeva l'orologio da un improbabile furto. La giacca verdastra, decisamente pulita, aveva almeno tre anni più dei pantaloni; ma il colletto di velluto nero e i bottoni di metallo bianco rinnovati da poco rivelavano meticolose cure domestiche.
    Quel modo di tenere il cappello sulla nuca, il triplice panciotto, l'immensa cravatta nella quale sprofondare il mento, le ghette, i bottoni di metallo sulla giacca verdastra, tutte queste vestigia delle mode imperiali si armonizzavano con il sapore antico della civetteria degli Incroyables, con quel non so che di minuto nelle pieghe, di corretto e di essenziale nell'insieme, che ricordava la scuola di David e gli slanciati mobili di Jacob. Si riconosceva del resto a prima vista un uomo ben educato in preda a qualche vizio segreto, o una di quelle persone la cui rendita è così modesta e condiziona a tal punto le loro spese che un vetro rotto, uno strappo al vestito o la sciagura di una colletta filantropica bastano da soli a cancellare i loro piccoli piaceri per un mese intero. Se vi foste trovati lì, vi sareste chiesti perché mai il sorriso animasse quella faccia grottesca la cui espressione abituale doveva essere triste e fredda, come quella di tutti coloro che lottano oscuramente per far fronte alle triviali necessità dell'esistenza. Ma, osservando la precauzione materna con cui quel vecchio singolare teneva nella mano destra un oggetto sicuramente prezioso, sotto i due lembi sinistri della sua doppia giacca per proteggerlo da urti imprevisti; e soprattutto notando in lui l'aria indaffarata che assumono gli oziosi incaricati di qualche commissione, vi sarebbe sorto il sospetto che avesse ritrovato qualcosa di equivalente al cagnolino di una marchesa e che lo stesse riportando trionfante, con la premurosa galanteria di un «uomo Impero», all'incantevole dama sessantenne che ancora non ha saputo rinunciare alla visita quotidiana del suo cicisbeo. Parigi è l'unica città al mondo dove potreste assistere a spettacoli del genere, che fanno dei suoi boulevards un dramma ininterrotto, rappresentato gratis dai francesi a profitto dell'Arte.

III • LA FINE DI UN GRAND PRIX DE ROME

    Dato il profilo di quell'uomo ossuto e nonostante il suo audace spencer, difficilmente lo avreste classificato nella categoria degli artisti parigini: individui convenzionali che hanno la grande capacità, quasi come i monelli di Parigi, di risvegliare nell'immaginazione dei borghesi le giovialità più mirabolanti, visto che è stato riportato in auge questo termine disusato e pittoresco. Eppure quel passante era un grand prix, l'autore della prima cantata premiata all'Institut nel momento in cui fu di nuovo insediata l'Académie de Rome, insomma si trattava di Sylvain Pons!... l'autore di celebri romanze gorgheggiate dalle nostre madri, di due o tre opere rappresentate nel 1815 e nel 1816, e di alcune partiture inedite. Quell'uomo di valore era finito come direttore d'orchestra in un teatro dei boulevards. Grazie al suo aspetto, era professore in qualche pensionato per fanciulle, e non aveva altra rendita che i suoi emolumenti e le sue lezioni. Correre dietro alle lezioni private a quell'età!... Quanti misteri in una situazione così poco romantica!
    Quell'ultimo porta-spencer portava dunque su di sé ben altro che i simboli dell'Impero; portava anche un grande insegnamento scritto sui suoi tre panciotti. Mostrava gratis una delle numerose vittime di quel fatale e funesto sistema chiamato «concorso», che ancora regna in Francia dopo cent'anni di esperienze senza risultati. Questo torchio delle intelligenze fu inventato da Poisson de Martigny, il fratello di madame de Pompadour, nominato direttore delle Belle Arti nel 1746. Ora, provate a contare sulle dita le persone di genio che sono uscite in un secolo dalle file degli artisti laureati! Anzitutto, nessuno sforzo amministrativo o scolastico sostituirà mai i miracoli del caso, cui si devono i grandi uomini. Tra tutti i misteri della nascita è questo il più inaccessibile alla nostra ambiziosa analisi moderna. Poi, cosa pensereste degli egiziani che, si dice, inventarono dei forni per far schiudere le uova, se non avessero subito imbeccato i pulcini? Così tuttavia si comporta la Francia, che cerca di produrre degli artisti con la «serra calda» del concorso; e una volta ottenuti con questo procedimento meccanico lo scultore, il pittore, l'incisore, il musicista, non se ne occupa più di quanto il dandy si curi la sera del fiore che ha messo all'occhiello. Accade così che l'uomo di talento è Greuze o Watteau, Félicien David o Pagnest, Géricault o Decamps, Auber o David d'Angers, Eugène Delacroix o Meissonier, persone del tutto noncuranti dei grands prix e nate in piena terra sotto i raggi di quel sole invisibile che si chiama vocazione.
    Inviato dallo Stato a Roma perché diventasse un grande musicista, Sylvain Pons ne aveva riportato il gusto delle antichità e della bellezza artistica. S'intendeva mirabilmente di tutte quelle cose, capolavori della mano e del pensiero, che il gergo popolare indicava con il nuovo termine di bric-à-brac. Questo figlio di Euterpe tornò dunque a Parigi, intorno al 1810, collezionista accanito, carico di quadri, statuine, cornici, sculture in avorio, in legno, smalti, porcellane ecc. che, durante il suo soggiorno accademico a Roma, avevano assorbito la maggior parte dell'eredità paterna sia per le spese di trasporto che per quelle di acquisto. Aveva impiegato nello stesso modo l'eredità materna durante il viaggio in Italia, al termine dei tre anni del soggiorno ufficiale a Roma. Allora visitò in assoluta libertà Venezia, Milano, Firenze, Bologna, Napoli, soggiornando in ogni città da sognatore, da filosofo, con la noncuranza dell'artista che per vivere conta sul proprio talento, come le ragazze di vita contano sulla propria bellezza. Durante quello splendido viaggio, Pons fu felice quanto poteva esserlo un uomo sensibile e delicato cui la bruttezza impediva successi con le donne, per usare una celebre espressione del 1809, e che trovava le cose della vita sempre al di sotto del tipo ideale che se ne era creato, e aveva tratto profitto da questa discordanza tra il suono della sua anima e la realtà. Questo sentimento del bello, conservato puro e vivo nel suo cuore, fu certamente all'origine delle melodie ingegnose, fini, piene di grazia, che gli procurarono una certa notorietà tra il 1810 e il 1814. In Francia ogni notorietà che si fondi sul successo, sulla moda, sulle follie effimere di Parigi, produce dei Pons. Non esiste un altro paese dove si sia tanto severi nei confronti delle grandi cose, e così sdegnosamente indulgenti verso le piccole. Se Pons, ben presto annegato nei flutti dell'armonia tedesca e nella produzione rossiniana, nel 1824 era ancora un musicista piacevole e noto per qualche ultima romanza, figuratevi cosa poteva essere nel 1831! Così nel 1844, l'anno in cui ebbe inizio l'unico dramma della sua vita oscura, Sylvain Pons aveva raggiunto il valore di una croma antidiluviana; i negozianti di musica ignoravano completamente la sua esistenza, benché componesse - a prezzi modesti - la musica per qualche spettacolo nei teatri della zona.
    Quel brav'uomo, del resto, rendeva giustizia ai celebri maestri del nostro tempo; una bella esecuzione di qualche brano scelto lo faceva piangere; ma la sua religione non giungeva fino a rasentare la mania come nei Kreisler di Hoffmann; non la lasciava apparire e godeva dentro di sé alla maniera dei fumatori di hashish o dei teriaschi. Il genio dell'ammirazione, della comprensione, la sola facoltà grazie alla quale un uomo ordinario diventa fratello di un grande poeta, è talmente raro a Parigi, dove tutte le idee somigliano a viaggiatori di passaggio in una locanda, che a Pons deve essere accordata una stima piena di rispetto. L'insuccesso del brav'uomo può sembrare eccessivo, ma era lui stesso a confessare ingenuamente la sua debolezza in armonia: aveva trascurato lo studio del contrappunto; e la strumentazione moderna, ampliata oltre misura, gli sembrò inaccessibile nel momento in cui, grazie a nuovi studi, avrebbe potuto rimanere tra i compositori moderni e diventare non certo Rossini ma Hérold. Allora trovò nei piaceri del collezionista così vive compensazioni alla gloria mancata che, se avesse dovuto scegliere tra il possesso delle sue «curiosità» e il nome di Rossini - lo credereste? -, Pons avrebbe optato per il suo caro cabinet. Il vecchio musicista applicava l'assioma di Chenavard, l'esperto collezionista di preziose incisioni, secondo cui non può procurare alcun piacere la contemplazione di un Ruysdael, di un Hobbéma, di un Holbein, di un Raffaello, di un Murillo, un Greuze, un Sebastiano del Piombo, un Giorgione, un Albrecht Dürer, quando il quadro sia costato più di cinquanta franchi. Pons non concepiva acquisti al di sopra dei cento franchi; e, per pagare un oggetto cinquanta franchi, doveva valerne tremila. La cosa più bella del mondo, se costava trecento franchi per lui non esisteva. Le occasioni erano state rare; ma egli possedeva i tre elementi del successo: le gambe del cervo, il tempo degli sfaccendati e la pazienza dell'israelita.
    Questo sistema, praticato per quarant'anni sia a Roma che a Parigi, aveva dato i suoi frutti. Dopo aver speso, da quando era tornato da Roma, circa duemila franchi all'anno, Pons nascondeva ad ogni sguardo una collezione di capolavori d'ogni genere il cui catalogo raggiungeva ormai il favoloso numero 1907.
    Dal 1811 al 1816, nelle sue corse attraverso Parigi, aveva trovato per dieci franchi ciò che oggi si paga dai mille ai milleduecento franchi. Si trattava di quadri selezionati tra i quarantacinquemila che ogni anno sono esposti in vendita a Parigi; di porcellane di Sèvres, pasta tenera, acquistate dagli alverniati, satelliti della «banda nera», che riportavano sui carretti le meraviglie della Francia ai tempi della Pompadour. Poi aveva raccolto i resti del Seicento e del Settecento rendendo giustizia agli uomini di spirito e di genio della scuola francese, quei grandi sconosciuti come i Lepautre, i Lavallée-Poussin ecc., che hanno creato il genere Luigi XV, il genere Luigi XVI, e le cui opere oggi alimentano le sedicenti invenzioni dei nostri artisti, continuamente curvi sui tesori del Cabinet des estampes per creare il nuovo attraverso abili rifacimenti. Pons doveva molti dei suoi pezzi agli scambi: ineffabile gioia dei collezionisti! Il piacere di acquistare delle curiosità non è che il secondo; il primo è il baratto. Pons aveva iniziato per primo a collezionare tabacchiere e miniature. Non essendo una celebrità nella «bricabracologia», dal momento che non frequentava le aste, non si faceva vedere presso i mercanti più noti. E ignorava il valore commerciale del suo tesoro.
    Il defunto Dusommerard aveva tentato di entrare in rapporto con il musicista; ma il principe del bric-à-brac morì senza essere riuscito a entrare nel museo Pons, l'unico che avrebbe potuto competere con la famosa collezione Sauvageot. Pons e Sauvageot avevano qualcosa in comune. Sauvageot, musicista come Pons, e come lui senza grandi risorse, aveva proceduto nello stesso modo, con gli stessi mezzi, con lo stesso amore per l'arte, con lo stesso odio per quegli illustri ricchi che mettono insieme le loro collezioni per fare concorrenza ai mercanti d'arte. Proprio come il suo rivale, il suo emulo, il suo antagonista, per tutte quelle opere della mano dell'uomo, per quei prodigi del lavoro, Pons sentiva nel cuore un'insaziabile avarizia, l'amore dell'innamorato per una bella amante, e l'asta, nelle sale della rue des Jeûneurs, coi colpi di martello dei periti, gli sembrava un crimine di leso bric-à-brac. Possedeva il suo museo per goderne ad ogni ora, perché le anime create per ammirare le grandi opere hanno la sublime facoltà dei veri amanti; provano oggi lo stesso piacere di ieri, non si stancano mai, e i capolavori restano sempre giovani. Perciò quell'oggetto tenuto con atteggiamento tanto paterno doveva essere una di quelle cose trovate per caso, che si portano via con quella passione che voi, amatori, conoscete così bene!
    Ai primi tratti di questo profilo biografico, tutti esclameranno: «Ecco, malgrado la sua bruttezza, l'uomo più felice della terra!». In effetti, nessun fastidio, nessun malumore resiste alla ventosa che afferra l'anima quando si cede a una mania. Tutti voi che non potete più bere a quella che in ogni tempo è stata chiamata la coppa del piacere, mettetevi a collezionare qualunque cosa (si sono fatte collezioni di manifesti), e ritroverete il lingotto della felicità in spiccioli. Una mania è il piacere trasferito allo stato di idea! Tuttavia non invidiate quel brav'uomo di Pons; questo sentimento, come ogni passione del genere, si fonderebbe su un errore.
    Quest'uomo delicatissimo, la cui anima viveva di un'ammirazione inesauribile per la magnificenza del lavoro umano, la nobile gara con le opere della natura, era lo schiavo di quello dei sette peccati capitali che forse Dio punisce meno severamente: Pons era goloso. I suoi mezzi limitati e la sua passione per il bric-à-brac gli imponevano un regime dietetico talmente orribile per la sua gola raffinata, che all'inizio lo scapolo aveva risolto il problema andando tutti i giorni a pranzo fuori. Ora, sotto l'Impero, si ebbe più che ai giorni nostri un vero culto per le celebrità, forse a causa del loro piccolo numero e delle loro modeste ambizioni politiche. Si diventava poeti, scrittori, musicisti così facilmente! Pons, considerato il probabile rivale dei Nicolò, dei Paer e dei Berton, ricevette in quel periodo così tanti inviti che fu costretto ad annotarli su un'agenda, come gli avvocati annotano le loro udienze. Comportandosi, del resto, da artista, offriva esemplari delle sue romanze a tutti i suoi anfitrioni, suonava il piano in casa loro, e offriva palchi al Feydeau, il teatro per cui lavorava e dove organizzava concerti; talvolta suonava il violino a casa dei suoi parenti e improvvisava ballabili.

IV • DOVE SI VEDE CHE UN FAVORE NON È SEMPRE RICAMBIATO

    In quel tempo gli uomini più belli di Francia scambiavano colpi di spada con gli uomini più belli della coalizione; la bruttezza di Pons fu quindi chiamata «originalità», secondo la grande legge promulgata da Molière nel famoso couplet di Éliante. Avendo reso qualche servizio a una «bella dama», talvolta si sentì definire «un uomo delizioso», ma la sua fortuna non andò mai oltre questa parola.
    Durante questo periodo, che durò circa sei anni, dal 1810 al 1816, Pons contrasse la funesta abitudine di concedersi dei buoni pranzi, di vedere che chi lo invitava si accollava delle spese per procurarsi le primizie, stappare i vini migliori, curare il dessert, il caffè, i liquori, e trattarlo nel migliore dei modi come usava sotto l'Impero quando in molte case si imitavano gli splendori dei re, delle regine e dei principi di cui Parigi era piena. Si giocava molto alla regalità, come oggi si gioca alla Camera creando un gran numero di società con presidenti, vicepresidenti e segretari; società linicola, vinicola, serica, agricola, industriale ecc. Si è giunti a frugare tra le piaghe sociali per costituire in società i guaritori! È inevitabile che uno stomaco educato in questo modo influisca sul morale e lo corrompa in ragione della grande sapienza culinaria che acquisisce. La voluttà, acquattata in ogni piega del cuore, vi parla da sovrana, batte in breccia la volontà, l'onore, esige d'essere soddisfatta ad ogni costo. Non si sono mai descritte le esigenze della gola, che sfuggono alla critica letteraria a causa della necessità di vivere; ma non ci si immagina quanta gente sia stata rovinata dalla tavola. In questo senso la tavola è a Parigi l'emula della cortigiana; del resto, la prima costituisce l'entrata e la seconda l'uscita. Quando, da invitato perpetuo, Pons raggiunse - per la sua decadenza d'artista - la condizione di scroccone, gli fu impossibile passare da quelle tavole così ben servite al brodetto spartano di un ristorante da quaranta soldi. Ahimè!, rabbrividì al pensiero che la sua indipendenza gli costava tali sacrifici, e si sentì capace delle più grandi viltà pur di continuare a vivere bene, ad assaporare ogni primizia al momento giusto, insomma a far baldoria (termine popolare ma espressivo) con manicaretti ben curati. Uccello spigolatore, in fuga col gozzo pieno, e cinguettando un'arietta in segno di ringraziamento, Pons provava del resto un certo piacere a passarsela bene a spese della società, che si limitava a chiedergli in cambio un po' di chiacchiere. Abituato, come ogni scapolo che ha in orrore la propria casa e vive a casa degli altri, a quelle formule, a quelle smorfie sociali che in società sostituiscono i sentimenti, si serviva dei complimenti come fossero moneta spicciola; nel rapporto con le persone si accontentava delle etichette senza affondare una mano curiosa nelle borse.
    Questa fase assai sopportabile durò altri dieci anni; ma che anni! Un autunno piovoso. Durante quel periodo Pons si mantenne gratuitamente a tavola, rendendosi necessario in ogni casa che frequentasse. Imboccò una strada fatale occupandosi di una serie di commissioni, sostituendo i portieri e i domestici in molte e molte occasioni. Incaricato di vari acquisti, divenne la spia onesta e innocente inviata da una famiglia all'altra; ma nessuno dimostrò la sua gratitudine per tante corse e tante bassezze.
    «Pons è un ragazzo», dicevano, «non sa come impiegare il suo tempo, è tutto contento di trottare per noi... che altro potrebbe fare?».
    Assai presto apparve quella freddezza che un vecchio diffonde intorno a sé. Quel vento gelido si comunica, produce il suo effetto nella temperatura morale, soprattutto quando il vecchio è brutto e povero. Non si diventa, allora, vecchi tre volte? Giunse l'inverno della vita, l'inverno col naso rosso, le guance smunte, con ogni sorta di congelamenti!
    Dal 1836 al 1843 Pons fu invitato raramente. Non essendo alla ricerca di uno scroccone, ogni famiglia lo accettava come si accetta una tassa; di lui non si faceva più alcun caso, neppure dei suoi servigi. Le famiglie presso le quali il brav'uomo eseguiva le sue evoluzioni, tutte senza rispetto per le arti, in adorazione soltanto davanti ai risultati, apprezzavano solo quanto avevano conquistato dopo il 1830: ricchezze o posizioni sociali eminenti. Ora, poiché Pons non aveva abbastanza prestigio nell'animo e neppure nei modi per incutere quel timore che lo spirito o il genio provocano nel borghese, aveva naturalmente finito per diventare meno che niente, senza tuttavia essere completamente disprezzato. Nonostante provasse, in un ambiente simile, forti sofferenze, come tutti i timidi soffriva in silenzio. In fondo si era abituato, un po' alla volta, a reprimere i propri sentimenti, a fare del suo cuore un santuario nel quale ritirarsi. Molte persone superficiali traducono questo fenomeno con il termine «egoismo». Dev'esserci una somiglianza notevole tra il solitario e l'egoista se i maldicenti sembrano aver ragione contro l'uomo di cuore, soprattutto a Parigi dove nessuno s'impegna ad osservare, e tutto è rapido come l'onda, e tutto passa come un ministero!
    Il cugino Pons rimase schiacciato sotto un'accusa di egoismo, retroattiva perché la società finisce sempre per condannare coloro che accusa. Ma si sa davvero fino a che punto un discredito immeritato può affliggere i timidi? Chi mai descriverà le sventure della timidezza? Questa situazione, che si aggravava di giorno in giorno, spiega la tristezza impressa sul viso di quel povero musicista che viveva di capitolazioni infamanti. Ma le bassezze che ogni passione esige sono altrettanti legami; più la passione ne reclama, più essa vi lega; essa trasforma qualsiasi sacrificio in un ideale tesoro negativo in cui l'uomo vede ricchezze immense. Dopo essere stato oggetto dello sguardo insolentemente protettivo di un borghese tronfio di stupidità, Pons gustava come una vendetta il bicchiere di vino di Porto, la quaglia al gratin che aveva iniziato ad assaporare, e intanto diceva tra sé: «Non è costato troppo!».
    Agli occhi del moralista, in quella vita c'erano tuttavia delle circostanze attenuanti. In effetti l'uomo esiste soltanto nelle soddisfazioni che riesce a procurarsi. Un uomo privo di passioni, il giusto perfetto, è un mostro, un mezzo angelo che non ha ancora le ali. Gli angeli, nella mitologia cattolica, hanno soltanto la testa. Sulla terra, un giusto è quel noioso Grandisson secondo il quale perfino la Venere dei marciapiedi sarebbe priva di sesso. Ora, tranne le rare e volgari avventure del suo viaggio in Italia, dove il clima fu senza dubbio la causa dei suoi successi, Pons non aveva mai visto sorridergli una donna. A molti uomini è riservato questo destino fatale. Pons era un mostro nato; suo padre e sua madre l'avevano avuto quando erano già vecchi, e portava le stigmate di questa nascita fuori stagione sul suo colore cadaverico che sembrava essere stato contratto in uno di quei vasi di alcool in cui la scienza conserva certi feti straordinari. Quest'artista, dotato di un'anima sensibile, sognatrice e delicata, costretto ad accettare il carattere che il viso gli imponeva, non aveva alcuna speranza d'essere amato. Il celibato fu dunque per lui più una necessità che un'inclinazione. La ghiottoneria, il peccato dei monaci virtuosi, gli tese le braccia: e lui vi si precipitò come si era precipitato nell'adorazione delle opere d'arte e nel culto della musica. La buona tavola e il bric-à-brac sostituirono per lui la donna; infatti la musica era la sua professione, e trovatemi un uomo che ami la professione di cui vive! Alla lunga con una professione accade come per il matrimonio: se ne avvertono soltanto gli inconvenienti.
    Brillat-Savarin ha giustificato per partito preso i gusti dei gastronomi; ma forse non ha insistito abbastanza sul vero piacere che l'uomo prova a tavola. Nell'impiegare le energie dell'uomo, la digestione è un'intima lotta che per i gastrolatri equivale ai più alti godimenti dell'amore. Si avverte un così ampio dispiegamento della capacità vitale che il cervello si annulla a favore del secondo cervello situato nel diaframma, e l'ebbrezza sopraggiunge per l'inerzia stessa di ogni facoltà. I boa che hanno ingurgitato un toro sono talmente ebbri che si fanno uccidere. Passati i quarant'anni, chi ha il coraggio di lavorare dopo pranzo?... Perciò tutti i grandi uomini sono stati sobri.
    Ai convalescenti di una malattia grave, ai quali si misura il cibo con tanta parsimonia, è dato talvolta di provare quella specie di ebbrezza gastrica provocata da una semplice ala di pollo. Il saggio Pons, i cui soli godimenti erano concentrati nello stomaco, si trovava continuamente nella situazione di quei convalescenti; chiedeva alla buona tavola tutte le sensazioni che essa può dare, e fino ad allora le aveva ottenute tutti i giorni. Nessuno osa dire addio a un'abitudine. Molti suicidi si sono fermati sulla soglia della morte al ricordo del caffè dove ogni sera vanno a giocare una partita a domino.

V • I DUE SCHIACCIANOCI

    Nel 1835 il caso vendicò Pons dell'indifferenza del gentil sesso; gli offrì quello che in stile familiare si chiama un bastone per la vecchiaia. Quell'uomo nato già vecchio trovò nell'amicizia un sostegno per la vita, contraendo l'unico matrimonio che la società gli permettesse: sposò un uomo, un vecchio, un musicista come lui. Senza la divina favola di La Fontaine, questo schizzo avrebbe avuto per titolo I due amici. Ma non sarebbe stato un attentato letterario, una profanazione di fronte alla quale ogni vero scrittore indietreggerà? Il capolavoro del nostro favolista, nello stesso tempo confessione della sua anima e storia dei suoi sogni, deve avere l'eterno privilegio di quel titolo. Quella pagina in cima alla quale il poeta ha inciso queste tre parole, I DUE AMICI, è una di quelle proprietà sacre, un tempio in cui ogni generazione entrerà con rispetto e che l'universo visiterà finché durerà la tipografia.
    L'amico di Pons era un professore di pianoforte, la cui vita e i cui costumi simpatizzavano talmente con i suoi, che Pons diceva di averlo conosciuto troppo tardi per la sua felicità; infatti la loro conoscenza, nata in occasione di una premiazione, in un collegio, risaliva soltanto al 1834. Mai forse due anime si scoprirono tanto simili nell'oceano umano che sgorgò dal paradiso terrestre contro la volontà di Dio. I due musicisti divennero in poco tempo necessari l'uno all'altro. Uniti da una fiducia reciproca, in otto giorni diventarono come due fratelli. Schmucke non credeva che potesse esistere un Pons, più di quanto Pons non credeva che potesse esistere uno Schmucke. Già questo basterebbe a descrivere i due; ma non tutti gli intelletti amano la brevità delle sintesi. Per gli increduli è necessaria una rapida dimostrazione.
    Quel pianista, come tutti i pianisti, era un tedesco, tedesco come il grande Listz e il grande Mendelssohn, tedesco come Steibelt, tedesco come Mozart e Dusseck, tedesco come Meyer, tedesco come Doelher, tedesco come Thalberg, come Dreschok, come Hiller, come Léopold Mayer, come Crammer, come Zimmerman e Kalkbrenner, come Herz, Woëtz, Karr, Wolff, Pixis, Clara Wieck, e in particolare tutti i tedeschi. Nonostante fosse un grande compositore, Schmucke non poteva essere che un esecutore, tanto il suo carattere si negava l'audacia necessaria all'uomo di genio per rivelarsi musicalmente. In molti tedeschi l'ingenuità non è eterna, anzi scompare; ciò che ne è rimasto a una certa età è attinto, come l'acqua da un canale, alla fonte della loro giovinezza, ed essi se ne servono per rendere più fertili i loro successi in ogni campo: scienza, arte o denaro, allontanano la diffidenza. In Francia, certi personaggi astuti sostituiscono tale ingenuità con la stupidità del droghiere parigino. Ma Schmucke aveva conservato tutta la sua ingenuità infantile, come Pons conservava in sé le reliquie dell'Impero senza neppure rendersene conto. Quell'autentico e nobile tedesco era contemporaneamente lo spettacolo e gli spettatori, e si accompagnava da solo con la musica. Abitava a Parigi come un usignolo nella foresta e vi cantava, unico di tutta la sua specie, da vent'anni, fino a quando incontrò in Pons un altro se stesso. (Vedi Una figlia di Eva.)
    Pons e Schmucke possedevano in abbondanza, nel cuore e nel carattere, quelle puerilità sentimentali che caratterizzano i tedeschi: come la passione dei fiori o l'adorazione dei fenomeni naturali, che li porta a piantare grandi bottiglie nei loro giardini per osservare in piccolo il paesaggio che hanno in grande sotto gli occhi; o quella predisposizione alle ricerche che fa fare a uno scienziato tedesco cento leghe a piedi per trovare una verità che lo guarda ridendo, seduta sul bordo del pozzo, sotto un gelsomino del cortile; oppure, infine, quel bisogno di attribuire un significato psichico ai dettagli più insignificanti della creazione, che produce le opere inspiegabili di Jean Paul Richter, le ebbrezze stampate di Hoffmann e le barriere in-folio che la Germania innalza intorno alle questioni più semplici, indagate come abissi, in fondo alle quali non si trova nient'altro che un tedesco. Cattolici entrambi, andando insieme alla messa assolvevano ai doveri religiosi come bambini che non hanno mai nulla da dire al confessore. Erano fermamente convinti che la musica, la lingua del cielo, fosse per le idee e i sentimenti quello che le idee e i sentimenti sono per la parola, e conversavano all'infinito su questa teoria, rispondendosi l'un l'altro con orge di musica per dimostrare a se stessi le proprie convinzioni, come due amanti. Schmucke era tanto distratto quanto Pons era attento. Se Pons era un collezionista, Schmucke era un sognatore; questo studiava le belle cose morali, l'altro salvava le belle cose materiali. Pons vedeva e acquistava una tazza di porcellana nel tempo che Schmucke impiegava per soffiarsi il naso pensando a qualche motivo di Rossini, di Bellini, di Beethoven o di Mozart, cercando nel mondo dei sentimenti dove si potessero rintracciare l'origine o la replica di una frase musicale. Schmucke, le cui economie erano amministrate dalla distrazione, e Pons, prodigo per passione, giungevano entrambi allo stesso risultato: tasche vuote al San Silvestro di ogni anno.
    Senza quell'amicizia, forse Pons sarebbe rimasto schiacciato sotto i suoi dispiaceri; invece, dal giorno in cui ebbe un cuore in cui riversare il suo, la vita gli divenne sopportabile. La prima volta che manifestò le sue pene al cuore di Schmucke, il buon tedesco gli consigliò di vivere come lui, a pane e formaggio ma in casa propria, piuttosto che accettare pranzi che gli costavano così cari. Ahimè! Pons non osò confessare a Schmucke che in lui il cuore e lo stomaco erano nemici, che lo stomaco si accontentava di ciò che faceva soffrire il cuore, e che gli era indispensabile un buon pranzo da gustare come un uomo galante ha bisogno di un'amante da stuzzicare. Col tempo Schmucke riuscì a capire il povero Pons, perché era troppo tedesco per avere la rapidità d'osservazione di un francese, e lo amò ancora di più. Niente rafforza l'amicizia come il fatto che, tra due amici, l'uno si creda superiore all'altro. Un angelo non avrebbe avuto niente da dire vedendo Schmucke che si sfregava le mani quando scoprì la forza della ghiottoneria nel suo amico. E il giorno dopo il buon tedesco ornò il pranzo di leccornie che era andato a cercare personalmente, e fece in modo di averne ogni giorno di nuove per il suo amico; infatti dal giorno della loro unione pranzavano sempre insieme a casa.
    Bisognerebbe non conoscere Parigi per credere che ai due amici fosse stato possibile sfuggire al sarcasmo parigino, che non ha mai avuto rispetto per niente. Schmucke e Pons, unendo le loro ricchezze e le loro miserie, avevano avuto l'idea economica di abitare insieme, e dividevano in parti eguali l'affitto di un appartamento diviso in due parti assai diseguali, in una tranquilla casa della tranquilla rue de Normandie, al Marais. Poiché uscivano spesso insieme e percorrevano gli stessi boulevards l'uno di fianco all'altro, i perdigiorno del quartiere li avevano soprannominati i due schiaccianoci. Il soprannome ci risparmia la descrizione di Schmucke, che stava a Pons come la nutrice di Niobe, la famosa statua del Vaticano, sta alla Venere della Tribuna.
    La signora Cibot, la portiera, era il perno sul quale ruotava la vita quotidiana dei due schiaccianoci; ma essa svolge un ruolo talmente importante nel dramma che pose termine a quella duplice esistenza che conviene riservare il suo ritratto al momento della sua entrata in scena.
    Ciò che resta da dire sul morale di questi due esseri è decisamente la cosa più difficile da far capire al novantanove per cento dei lettori nel quarantasettesimo anno del XIX secolo, probabilmente a causa del prodigioso sviluppo finanziario dovuto all'installazione delle ferrovie. È poco ed è molto. Si tratta infatti di dare un'idea dell'eccessiva delicatezza di questi due cuori. Prendiamo un'immagine alle strade ferrate, se non altro a titolo di rimborso di quanto esse prendono a noi. Oggi i convogli, scorrendo sui binari, vi frantumano impercettibili granelli di sabbia. Introducete uno di questi granelli di polvere, invisibili ai viaggiatori, nei loro reni; proveranno i dolori della malattia più temibile, i calcoli, di cui si muore. Ebbene, ciò che per la nostra società lanciata sulla sua strada metallica con una velocità da locomotiva è il granello di sabbia invisibile di cui essa non si cura affatto, quel granello - incessantemente gettato nelle fibre di quei due esseri, e ad ogni proposito - causava loro dei calcoli nel cuore. Eccessivamente sensibile alle sofferenze altrui, ognuno dei due si lamentava della propria impotenza; quanto alla loro percezione, erano entrambi di una sensitivà quasi morbosa. Niente, né la vecchiaia, né i continui spettacoli del dramma parigino, aveva indurito quelle due anime fresche, infantili e pure. Più andavano avanti e più aumentavano le loro intime sofferenze. Ahimè! ciò accade alle nature caste, ai pensatori tranquilli e ai veri poeti che non sono caduti in alcun eccesso.
    Da quando questi due vecchi si erano uniti, le loro occupazioni, più o meno simili, avevano preso quell'andatura fraterna che a Parigi distingue i cavalli del fiacre. Dopo essersi alzati verso le sette, d'estate come d'inverno, dopo aver fatto colazione andavano a fare lezione nei collegi dove, quando c'era bisogno, si supplivano a vicenda. Verso mezzogiorno Pons si recava al suo teatro, quando vi era chiamato da una prova, e in ogni momento libero se ne andava a zonzo. Poi i due amici si ritrovavano la sera a teatro, dove Pons aveva fatto assumere Schmucke. Ecco in quale modo.

VI • UN UOMO SFRUTTATO COME SE NE VEDONO TANTI

    Quando Pons incontrò Schmucke aveva appena ricevuto, senza averlo chiesto, il bastone di maresciallo dei compositori sconosciuti: una bacchetta di direttore d'orchestra! Grazie al conte Popinot, allora ministro, quel posto era stato assegnato al povero musicista nel momento in cui quell'eroe borghese della rivoluzione di Luglio aveva fatto avere in concessione un teatro ad uno di quegli amici di cui un arricchito si vergogna quando, andando in carrozza, vede in una strada di Parigi un vecchio compagno di gioventù, malridotto, senza sottopiedi, con indosso una finanziera dai colori inverosimili, assorto in affari troppo ambiziosi per capitali effimeri. Vecchio commesso viaggiatore, quell'amico, di nome Gaudissart, era stato un tempo molto utile al successo della grande casa Popinot. Divenuto conte, divenuto pari di Francia, dopo essere stato due volte ministro, Popinot non rinnegò L'ILLUSTRE GAUDISSART! Anzi, volle mettere il commesso viaggiatore in grado di rinnovare il guardaroba e di riempirsi la borsa; la politica, le vanità della corte cittadina non avevano guastato il cuore del vecchio mercante di droghe. Gaudissart, sempre pazzo per le donne, chiese in concessione un teatro che era appena fallito, e il ministro, concedendoglielo, ebbe cura di inviargli qualche vecchio cultore del gentil sesso, abbastanza ricco per creare una potente accomandita amorosa di ciò che nascondono le calzemaglie delle ballerine. Pons, parassita del palazzo Popinot, fu una clausola della concessione. La compagnia Gaudissart, che fece fortuna, nel 1834 decise di realizzare una grande idea: un teatro dell'opera per il popolo. La musica dei balletti e delle pantomime richiedeva un direttore d'orchestra passabile e che fosse anche un po' compositore. L'amministrazione cui succedeva la compagnia Gaudissart era da troppo tempo in stato fallimentare per avere ancora un copista. Allora Pons introdusse Schmucke nel teatro in qualità di copista d'orchestra, mestiere oscuro che richiede conoscenze musicali impegnative. Su consiglio di Pons, Schmucke si accordò con il capo di questo servizio all'Opéra-Comique e in questo modo ne evitò la fatica materiale. La società Schmucke-Pons produsse un risultato meraviglioso. Schmucke, molto bravo in armonia come tutti i tedeschi, curò la parte strumentale delle partiture, mentre la parte del canto spettò a Pons. Quando gli esperti ammirarono alcune nuove composizioni che accompagnavano due o tre pezzi di grande successo, le spiegarono con il termine «progresso», senza cercarne gli autori. Pons e Schmucke si eclissarono nella gloria, come certe persone annegano nella vasca da bagno. A Parigi, soprattutto dopo il 1830, nessuno ha successo senza sgomitare, quibuscumque viis, e molto, in una massa spaventosa di concorrenti; allora è indispensabile tanta forza di reni, e i due amici avevano nel cuore quella renella che intralcia ogni ambizione.
    Di solito Pons andava a teatro verso le otto di sera, l'ora in cui si danno i pezzi di maggiore successo, quando le ouvertures e gli accompagnamenti richiedono la tirannia della bacchetta. Questa tolleranza è abituale nella maggior parte dei piccoli teatri; ma Pons si sentiva tanto più a suo agio quanto meno si curava dei suoi rapporti con l'amministrazione. Del resto, quando c'era bisogno veniva sostituito da Schmucke. Col tempo la posizione di Schmucke nell'orchestra si era rafforzata. L'illustre Gaudissart aveva riconosciuto, sia pure tacitamente, il valore e l'utilità del collaboratore di Pons. Si rese necessario introdurre nell'orchestra un pianoforte, come nei grandi teatri. Il piano, suonato gratis da Schmucke, fu installato accanto al leggìo del direttore d'orchestra, dove prendevano posto i volontari in soprannumero. Quando quel buon tedesco, senza ambizioni né pretese, fu conosciuto per quello che era, venne accettato da tutti gli orchestrali. Per un modesto compenso, l'amministrazione affidò a Schmucke quegli strumenti che non fanno parte della dotazione dei teatri di boulevard ma che sono spesso necessari, come il pianoforte, la viola d'amore, il corno inglese, il violoncello, l'arpa, le nacchere per accompagnare la cachucha, i campanelli e le invenzioni di Sax, ecc. I tedeschi, anche se non sanno fare uso dei grandi strumenti della libertà, sanno suonare istintivamente ogni strumento musicale.
    I due vecchi artisti, eccessivamente apprezzati a teatro, vi vivevano da filosofi. Si erano messi una benda sugli occhi per non vedere gli aspetti negativi di un ambiente teatrale quando promiscuamente vi lavorano un corpo di ballo, attori e attrici, uno dei peggiori assortimenti che la necessità delle entrate abbiano creato, per il tormento dei direttori, degli autori e dei musicisti. Un grande rispetto per gli altri e per se stesso aveva procurato la stima generale al buono e modesto Pons. Del resto, in ogni ambiente una vita limpida, un'onestà senza macchia, impongono una sorta di ammirazione perfino ai cuori più malvagi. A Parigi una bella virtù ottiene il successo di un grosso diamante, di una curiosità rara. Nessun attore, nessun autore, nessuna ballerina, per sfacciata che fosse, si sarebbero permessi il più piccolo scherzo o qualche burla nei confronti di Pons o del suo amico. Qualche volta Pons appariva nel ridotto; ma Schmucke conosceva soltanto il corridoio sotterraneo che portava dall'esterno del teatro all'orchestra. Negli intervalli, quando assisteva a una rappresentazione, il buon vecchio tedesco si arrischiava a sbirciare in sala e talvolta faceva domande al primo flauto, un giovanotto nato a Strasburgo da una famiglia tedesca di Kehl, sui personaggi eccentrici che quasi sempre coloriscono i palchi del proscenio. Poco a poco l'immaginazione infantile di Schmucke, della cui educazione sociale si fece carico quel flautista, ammise l'esistenza favolosa della donna di facili costumi, la possibilità dei matrimoni nella «tredicesima circoscrizione», gli sperperi di una prima attrice, e i traffici equivoci delle palchettaie. Gli aspetti innocenti del vizio sembrarono a quel degno uomo l'estrema manifestazione delle depravazioni babilonesi, ed egli ne sorrideva come di fronte ad arabeschi cinesi. Le persone intelligenti devono capire che Pons e Schmucke erano sfruttati, per usare una parola alla moda; ma ciò che persero in denaro lo guadagnarono in stima e in cortesia.
    Dopo il successo di un balletto, che diede inizio alla rapida fortuna della compagnia Gaudissart, i direttori inviarono a Pons un gruppo in argento attribuito a Benvenuto Cellini, il cui prezzo esorbitante era stato oggetto di conversazione nel ridotto del teatro. Si trattava di milleduecento franchi! Il povero onest'uomo voleva restituire il dono! A Gaudissart non fu facile farglielo accettare.
    «Ah! potessimo trovare attori di questo stampo!», disse al suo socio.
    Questa duplice vita, apparentemente così calma, era turbata soltanto dal vizio al quale Pons sacrificava, cioè il bisogno feroce di mangiare fuori. Così, ogni volta che Schmucke si trovava in casa quando Pons si preparava per uscire, il buon tedesco deplorava quella funesta abitudine.
    «Almeno lo facesse ingrassare!», esclamava spesso.
    E Schmucke pensava al modo di guarire l'amico dal suo vizio degradante, perché i veri amici sono dotati, nella sfera morale, della perfezione che distingue l'odorato dei cani; fiutano i dispiaceri dei loro amici, ne intuiscono le cause, se ne preoccupano.
    Pons, che ancora portava al mignolo della mano destra un anello con brillante, tollerato durante l'Impero e oggi ridicolo, Pons, eccessivamente troubadour e troppo francese, non presentava nella sua fisionomia quella divina serenità che attenuava l'orribile bruttezza di Schmucke. Il tedesco aveva riconosciuto nell'espressione malinconica del volto del suo amico le crescenti difficoltà che rendevano sempre più penoso il mestiere di parassita. In effetti, nell'ottobre 1834, il numero delle case dove Pons andava a pranzo si era naturalmente assai ridotto. Il povero direttore d'orchestra, costretto a percorrere il cerchio familiare, aveva un po' troppo esteso il significato della parola «famiglia», come si vedrà.
    L'ex «laureato» del pensionato era cugino carnale della prima moglie del signor Camusot, il ricco commerciante di seterie di rue des Bourdonnais, una signorina Pons, unica erede di uno dei famosi fratelli Pons, i ricamatori di corte, azienda in cui il padre e la madre del musicista erano accomandatari dopo averla fondata prima della Rivoluzione del 1789, e che il signor Rivet acquistò nel 1815 dal padre della prima signora Camusot. Camusot, che da ormai dieci anni si era ritirato dagli affari, nel 1844 era membro del consiglio generale delle manifatture, deputato ecc. Accolto con amicizia dalla tribù dei Camusot, quel buonuomo di Pons si considerò cugino dei figli che il commerciante di seterie aveva avuto dal secondo letto, sebbene con loro non ci fosse nessun legame e neppure affinità.
    Poiché la seconda signora Camusot era una signorina Cardot, Pons s'introdusse - in qualità di parente dei Camusot - nella rumorosa famiglia dei Cardot, seconda tribù borghese che grazie alle sue parentele costituiva un'intera società non meno potente di quella dei Camusot. Il notaio Cardot, fratello della seconda signora Camusot, aveva sposato una signorina Chiffreville. La celebre famiglia dei Chiffreville, la regina dei prodotti chimici, era legata alla «grande drogheria» diretta per molto tempo da quell'Anselme Popinot che la rivoluzione di Luglio aveva lanciato - come tutti sanno - nel cuore della politica più dinastica. Così Pons si introdusse, al seguito dei Camusot e dei Cardot, in casa dei Chiffreville; e da lì in quella dei Popinot, sempre in qualità di cugino dei cugini.
    Questa rapida rassegna delle ultime relazioni del vecchio musicista fa capire come potesse essere ancora accolto familiarmente nel 1844: 1°, dal conte Popinot, pari di Francia, già ministro dell'agricoltura e del commercio; 2°, dal signor Cardot, già notaio, sindaco e deputato di una circoscrizione di Parigi; 3°, dal vecchio signor Camusot, deputato, membro del consiglio comunale di Parigi e del consiglio generale delle manifatture, vicino alla nomina di pari; 4°, dal signor Camusot de Marville, figlio di primo letto, e pertanto l'unico vero cugino di Pons, anche se di secondo grado.
    Questo Camusot, che per distinguersi dal padre e dal fratellastro aveva aggiunto al proprio nome quello della terra di Marville, nel 1844 era presidente di sezione presso la Corte reale di Parigi.
    Poiché l'ex notaio Cardot aveva maritato la figlia al suo successore, tale Berthier, Pons, che faceva parte dei doveri, seppe conservarsi quel pranzo: «ratificato da un notaio», diceva.
    Era questo il firmamento borghese che Pons chiamava la sua famiglia, e dove aveva così penosamente difeso il suo diritto di forchetta.
    Di queste dieci case, quella in cui l'artista poteva essere accolto meglio, la casa del presidente Camusot, era oggetto delle sue maggiori attenzioni. Ma, ahimè!, la presidentessa, figlia del defunto messere Thirion, cerimoniere di corte dei re Luigi XVIII e Carlo X, non aveva mai trattato bene il cugino di suo marito. Nel tentativo di ammorbidire quella parente terribile, Pons aveva perso il suo tempo poiché, dopo aver dato gratuitamente delle lezioni alla signorina Camusot, non gli era riuscito di fare una musicista di quella ragazza rossiccia.
    Ora, Pons, con in mano il prezioso oggetto, si stava appunto dirigendo verso la casa del cugino presidente dove, entrando, gli sembrava di essere alle Tuileries, tanto i solenni drappi verdi, le tappezzerie grigie, i tappeti, i mobili imponenti dell'appartamento in cui si respirava l'aria della più severa magistratura, agivano sul suo morale. Che strano! Si sentiva a suo agio nel palazzo Popinot, in rue Basse-du-Rempart, senza dubbio a causa degli oggetti d'arte che vi si trovavano; infatti l'ex ministro, dopo il suo ingresso nella vita politica, aveva contratto la mania di collezionare le cose belle, certamente per controbilanciare la politica, che segretamente colleziona le azioni più turpi.

VII • UNA DELLE MILLE GIOIE DEI COLLEZIONISTI

    Il presidente de Marville abitava in rue de Hanovre, in una casa acquistata dieci anni prima dalla presidentessa dopo la morte del padre e della madre, il signore e la signora Thirion, che le avevano lasciato circa centocinquantamila franchi di risparmi. La casa, di aspetto piuttosto tetro dalla parte della strada dove la facciata è esposta a nord, guarda a mezzogiorno sul cortile, oltre il quale si trova un giardino assai bello. Il magistrato occupa l'intero primo piano, che durante il regno di Luigi XV aveva ospitato uno dei più potenti finanzieri del tempo. Con il secondo piano affittato a una ricca e vecchia signora, la casa ha un aspetto tranquillo e decoroso che si addice alla magistratura. I resti della magnifica terra di Marville, per il cui acquisto il magistrato aveva impiegato le sue economie di vent'anni, oltre all'eredità materna, consistono nel castello, splendido monumento come se ne vedono ancora in Normandia, e in una solida fattoria che rende dodicimila franchi. Un parco di cento ettari circonda il castello. Questo lusso, oggi principesco, costa al presidente un migliaio di scudi e così la terra fa entrare «in tasca», come si dice, non più di novemila franchi. Questi novemila franchi e il suo stipendio assicuravano al presidente una rendita di circa ventimila franchi, apparentemente sufficiente, soprattutto in previsione della metà dell'eredità paterna che avrebbe ricevuto, essendo l'unico figlio di primo letto; ma la vita a Parigi e gli obblighi della loro posizione sociale avevano costretto il signore e la signora de Marville a dissipare la quasi totalità delle loro entrate. Fino al 1834 si erano trovati in difficoltà.
    Quest'inventario spiega perché la signorina de Marville, ragazza di ventitré anni, non fosse ancora sposata nonostante una dote di centomila franchi e l'attrattiva delle sue speranze, abilmente e frequentemente esibite, ma invano. Da cinque anni il cugino Pons ascoltava le doglianze della presidentessa, che vedeva tutti i sostituti prender moglie, i nuovi giudici di tribunale già padri, avendo fatto brillare inutilmente le speranze della signorina de Marville di fronte agli occhi poco incantati del giovane visconte Popinot, figlio maggiore del gallo della «drogheria», a profitto del quale, secondo gli invidiosi del quartiere dei Lombardi, era stata fatta la rivoluzione di Luglio; almeno tanto quanto a profitto del figlio del ramo cadetto.
    Giunto in rue de Choiseul e sul punto di svoltare in rue de Hanovre, Pons provò quell'inspiegabile emozione che tormenta le coscienze pure, che infligge loro i supplizi provati dai più grandi scellerati alla vista di un gendarme, provocata da quest'unica domanda: come sarebbe stato accolto dalla presidentessa? Quel granello di sabbia che gli lacerava le fibre del cuore non si era mai arrotondato; gli spigoli diventavano sempre più aguzzi, e le persone della casa facevano del loro meglio per renderli sempre più acuminati. Infatti la scarsa considerazione dei Camusot nei confronti del cugino Pons, la sua svalutazione all'interno della famiglia, agivano sui domestici che, senza mancargli di rispetto, lo consideravano una varietà della specie Povero.
    Il nemico giurato di Pons era una certa Madeleine Vivet, una vecchia zitella secca e minuta, cameriera della signora C. de Marville e di sua figlia. Madeleine, malgrado una carnagione chiazzata di macchie rosse, forse proprio a causa di questo e della sua lunghezza viperina, si era messa in testa di diventare la signora Pons. Invano aveva sfoggiato ventimila franchi di risparmi davanti agli occhi del vecchio celibe; Pons aveva rifiutato quella felicità eccessivamente maculata. Così quella Didone d'anticamera, che voleva diventare cugina dei suoi padroni, giocava i tiri più malvagi al vecchio musicista. Appena sentiva che il brav'uomo stava salendo le scale, e facendo in modo di farsi udire, esclamava: «Ah!, ecco lo scroccone!». Quando serviva a tavola, in assenza del cameriere, versava poco vino e molta acqua nel bicchiere della sua vittima, imponendogli il difficile compito di avvicinare alle labbra un bicchiere troppo pieno senza versarne una goccia. Dimenticava di servire il brav'uomo, e se lo faceva dire dalla presidentessa (con quale tono?... il cugino ne arrossiva!), oppure gli versava della salsa sugli abiti. Era, in definitiva, la guerra dell'inferiore che sa di godere l'impunità contro un superiore sfortunato.

VIII • DOVE LO SFORTUNATO CUGINO VIENE ACCOLTO MOLTO MALE

    Donna di fatica e cameriera, Madeleine aveva seguito i signori Camusot fino dal loro matrimonio. Aveva visto i suoi padroni nelle difficoltà dei primi tempi, in provincia, quando il signore era giudice presso il tribunale di Alençon; li aveva aiutati a sopravvivere quando, presidente del tribunale di Mantes, nel 1828 il signor Camusot era venuto a Parigi, ed era stato nominato giudice istruttore. Dunque apparteneva troppo alla famiglia per non avere delle ragioni di vendetta. Il desiderio di giocare all'orgogliosa e ambiziosa presidentessa il tiro di diventare la cugina del signore, doveva nascondere uno di quei sordi odî generati da uno di quei sassolini che formano le valanghe.
    «Signora, ecco il vostro signor Pons, e sempre in spencer!», andò a dire Madeleine alla presidentessa. «Dovrebbe proprio dirmi come fa a conservarlo da venticinque anni!».
    Udendo il passo di un uomo nel salottino che si trovava tra il salotto e la camera da letto, la signora Camusot guardò la figlia e alzò le spalle.
    «Mi avvertite sempre con tanta intelligenza, Madeleine, che non mi resta il tempo di decidere», disse la presidentessa.
    «Signora, Jean è uscito, io ero sola, il signor Pons ha suonato, gli ho aperto la porta, e siccome è quasi di casa non potevo impedirgli di venirmi dietro: ora è lì che si toglie lo spencer».
    «Mia povera piccola», disse la presidentessa alla figlia, «non c'è scampo! ora dobbiamo pranzare in casa. Vediamo», continuò, alla vista dell'espressione rattristata della sua cara piccina, «vogliamo liberarcene per sempre?».
    «Oh, pover'uomo!», rispose la signorina Camusot, «privarlo di uno dei suoi pranzi!».
    Il salottino risuonò della falsa tosse di un uomo che in questo modo voleva dire: «Vi sto ascoltando».
    «Ebbene, fatelo entrare!», disse la signora Camusot a Madeleine con un gesto delle spalle.
    «Siete venuto così presto, caro cugino», disse Cécile Camusot con un'aria da piccola smorfiosa, «che ci avete sorpreso proprio mentre mia madre stava per vestirsi».
    Il cugino Pons, cui non era sfuggito il gesto di spalle della presidentessa, fu così crudelmente colpito che non riuscì a trovare un complimento adatto alla situazione, e si accontentò di queste profonde parole: «Siete sempre incantevole, cuginetta mia!».
    Poi, voltandosi verso la madre e salutandola:
    «Cara cugina», proseguì, «non me ne vorrete se sono venuto un po' prima del solito; vi porto ciò che mi avete fatto il piacere di chiedermi...».
    E il povero Pons, che irritava enormemente il presidente, la presidentessa e Cécile ogni volta che li chiamava «cugino» o «cugina», estrasse dalla tasca uno splendido astuccio oblungo in legno di Santa Lucia, divinamente intagliato.
    «Ah, me ne ero dimenticata!», disse con freddezza la presidentessa.
    Una tale esclamazione non era forse atroce? non toglieva ogni merito alla premura del parente, colpevole soltanto di essere un parente povero?
    «Siete troppo buono, cugino mio», aggiunse lei. «Vi devo molto denaro per questa piccola sciocchezza?».
    La domanda provocò una specie di sussulto interiore nel cugino, che pensava di saldare tutti i suoi pranzi con l'offerta di quel gioiello.
    «Ho pensato che mi avreste permesso di offrirvelo», disse con un filo di voce.
    «Come! come!», riprese la presidentessa, «tra noi niente complimenti; ci conosciamo abbastanza per lavare in famiglia i nostri panni. Lo so che non siete abbastanza ricco e non voglio peggiorare la vostra situazione. Non vi siete disturbato già abbastanza perdendo il vostro tempo a correre da un negozio all'altro?...».
    «Non vorreste questo ventaglio, mia cara cugina, dovendone pagare il giusto prezzo», replicò offeso il pover'uomo, «perché è un capolavoro di Watteau, che lo ha dipinto sui due lati; ma state tranquilla cugina mia, non l'ho pagato la centesima parte del suo valore artistico».
    Dire a un ricco: «Voi siete povero!», è come dire all'arcivescovo di Granada che le sue omelie non valgono niente. La presidentessa era troppo orgogliosa della posizione del marito, della proprietà di Marville e degli inviti ai balli di corte per non essere ferita da una simile osservazione, soprattutto perché veniva da un miserabile musicista nei cui confronti si atteggiava a benefattrice.
    «Sono così stupidi quelli da cui comprate questa roba?...», disse vivacemente la presidentessa.
    «A Parigi non ci sono negozianti stupidi», replicò Pons seccamente.
    «Allora siete voi molto abile», disse Cécile per calmare gli spiriti.
    «Cara cuginetta, sono abile a riconoscere Lancret, Pater, Watteau, Greuze; ma avevo soprattutto il desiderio di compiacere la vostra cara mamma».
    Ignorante e vanitosa, la signora de Marville non voleva avere l'aria di ricevere qualcosa dal suo scroccone e la sua ignoranza le servì a meraviglia: Watteau, non sapeva neppure chi fosse. Se qualcosa può esprimere fino a che punto arrivi l'amor proprio dei collezionisti, che certamente è tra i più vivi perché compete con l'amor proprio degli artisti, è sicuramente l'audacia che Pons aveva appena dimostrato nel tener testa alla cugina, per la prima volta in vent'anni. Stupito della sua temerarietà, Pons riprese un contegno pacifico descrivendo a Cécile, in ogni dettaglio, la bellezza della fine scultura delle stecche di quel ventaglio meraviglioso. Ma, per comprendere profondamente la trepidazione di cuore che agitava il brav'uomo, è necessario tracciare un rapido profilo della presidentessa.
    A quarantasei anni la signora de Marville, un tempo piccola, bionda, grassa e fresca, pur essendo rimasta piccola era diventata secca. La fronte bombata, la bocca rientrante, che la giovinezza un tempo aveva decorato con tinte delicate, avevano reso arcigna la sua espressione, sdegnosa per natura. L'abitudine a un dominio assoluto in casa aveva reso dura e sgradevole la sua fisionomia. Col passare degli anni i capelli biondi erano diventati di un castano stridente. Gli occhi, ancora vivaci e caustici, esprimevano una tracotanza giudiziaria carica di un'invidia contenuta. In effetti la presidentessa si ritrovava quasi povera nella società di borghesi arricchiti dove Pons si recava a pranzo. Ella non perdonava al ricco mercante di droghe, ex presidente del tribunale di commercio, d'essere diventato successivamente deputato, ministro, conte e pari. Non perdonava al suocero d'essersi fatto nominare, a scapito del primogenito, deputato della propria circoscrizione, quando Popinot era stato promosso pari. Dopo diciotto anni di servizio a Parigi, ella ancora attendeva per Camusot il posto di consigliere presso la Corte di cassazione, dal quale d'altra parte lo escludeva un'incapacità ben nota a palazzo di Giustizia. Il ministro in carica nel 1844 deprecava la nomina di Camusot alla presidenza, ottenuta nel 1834; ma l'avevano sistemato alla procura dove, grazie a una lunga esperienza di giudice istruttore, faceva qualcosa compilando delle sentenze.

IX • UNA BUONA TROVATA

    Questi errori di calcolo avevano logorato la presidentessa, che del resto non si faceva illusioni sul valore di suo marito, e l'avevano resa terribile. Il suo carattere, già duro, si era inasprito. Più invecchiata che vecchia, si mostrava aspra e rude come una spazzola per ottenere con la paura ciò che gli altri volevano rifiutarle. Mordace fino all'eccesso, aveva poche amiche. Era molto invadente, anche grazie ad alcune vecchie bigotte del suo tipo, di cui si era circondata e che la sostenevano, ricambiate a loro volta. Così i rapporti del povero Pons con questo diavolo in gonnella erano quelli di uno scolaro con un maestro che parla soltanto a frustate. Per questo la presidentessa non si spiegava l'improvvisa audacia del cugino; il fatto è che ignorava il valore del dono.
    «Ma dove l'avete trovato?», chiese Cécile esaminando il ventaglio.
    «In rue de Lappe, da un antiquario che l'aveva trovato in un castello demolito, presso Dreux, il castello di Aulnay abitato talvolta dalla Pompadour prima della costruzione di Ménars; ne sono state salvate le più splendide boiseries che si conoscano; sono talmente belle che Liénard, il nostro celebre scultore in legno, ne ha conservate, come nec-plus-ultra dell'arte, due cornici ovali da tenere come modelli... C'erano dei veri tesori. Il mio antiquario ha trovato questo ventaglio in uno scrittoio intarsiato che avrei acquistato se facessi la collezione di quel genere di oggetti; ma è inavvicinabile... un mobile di Riesener vale dai tre ai quattromila franchi! A Parigi si comincia a riconoscere che i famosi intarsiatori tedeschi e francesi dei secoli XVI, XVII e XVIII hanno creato dei veri e propri quadri in legno. Il merito del collezionista è la capacità di precedere la moda. Siatene certa! entro cinque anni le porcellane di Frankenthal, che io colleziono da vent'anni, a Parigi si pagheranno due volte più care della pasta tenera di Sèvres».
    «Cos'è il Frankenthal?», chiese Cécile.
    «È il nome della fabbrica di porcellane dell'elettore palatino; è più antica della nostra manifattura di Sèvres; come i famosi giardini di Heidelberg, rovinati da Turenne, hanno avuto la sventura di esistere prima di quelli di Versailles. Sèvres ha copiato molto Frankenthal... I tedeschi, bisogna riconoscerlo, hanno creato prima di noi cose meravigliose in Sassonia e nel Palatinato».
    La madre e la figlia si guardavano come se Pons avesse parlato in cinese, perché non si può immaginare quanto i parigini siano ignoranti ed esclusivi: sanno soltanto quello che viene loro insegnato, quando vogliono impararlo.
    «E da cosa riconoscete il Frankenthal?».
    «Ma dalla firma!», rispose Pons infervorato. «Quei capolavori incantevoli sono tutti firmati. Il Frankenthal ha una C e una T (Charles-Théodore) intrecciati sotto una corona principesca. La porcellana antica di Sassonia ha due spade e il numero d'ordine in oro. Vincennes firmava con un corno. Vienna ha una V chiusa e barrata. Berlino ha due barre. Magonza ha la ruota. Sèvres ha due LL, e la porcellana della regina una A che significa Antoinette, sovrastata da una corona reale. Nel XVIII secolo tutti i sovrani d'Europa hanno gareggiato nella fabbricazione della porcellana. Ci si contendevano gli operai. Watteau disegnava dei servizi per la manifattura di Dresda, e le sue opere hanno raggiunto prezzi folli. (Bisogna intendersene, perché oggi Dresda li riproduce copiandoli). In quel periodo si sono fabbricate cose mirabili, che non si faranno mai più...».
    «Suvvia!».
    «Sì, cugina, non si faranno più certi intarsi, certe porcellane, come non si faranno più dei Raffaello, dei Tiziano, dei Rembrandt, dei Van Eyck, dei Cranach!... Vedete, i cinesi sono molto abili, molto esperti... ebbene, oggi copiano dei bei modelli di porcellana «gran-mandarino»... Ora, due vasi di gran-mandarino antico, del formato più grande, valgono sei, otto, diecimila franchi, quando se ne può avere una copia moderna per duecento franchi!».
    «State scherzando!».
    «Cugina, questi prezzi vi stupiscono, ma è ancora niente. Un servizio completo da tavola per dodici in pasta tenera di Sèvres, che non è porcellana, vale centomila franchi. Un servizio del genere veniva pagato cinquantamila franchi a Sèvres nel 1750. Ho visto delle fatture originali.
    «Torniamo a questo ventaglio», disse Cécile alla quale quell'oggetto sembrava troppo vecchio.
    «È evidente che appena la vostra cara mamma mi ha fatto l'onore di chiedermi un ventaglio mi sono messo in caccia. Ho ispezionato tutti i negozi d'antiquariato di Parigi senza trovarvi niente di bello; infatti per la cara presidentessa volevo un capolavoro, volevo donarle il ventaglio di Maria Antonietta, il più bello di tutti i ventagli celebri. Ma ieri sono rimasto abbagliato da questo divino capolavoro, certamente commissionato da Luigi XV. Perché mai sono andato a cercare un ventaglio in rue de Lappe, nel negozio di un alverniate che vende rame, ferro vecchio, mobili dorati? Io credo all'intelligenza degli oggetti d'arte; essi conoscono gli intenditori, li chiamano, dicono loro: «Ehi, tu!».
    La presidentessa alzò le spalle e lanciò un rapido sguardo alla figlia, senza che Pons se ne accorgesse.
    «Li conosco tutti quegli spilorci! «Che avete di nuovo, papà Monistrol? Avete dei soprapporta?», ho chiesto a quel negoziante, che mi permette di dare un'occhiata ai suoi acquisti prima che li vedano i grandi antiquari. A questa domanda, Monistrol mi racconta come Liénard, che scolpiva nella cappella di Dreux delle cose molto belle per la corte reale, avesse salvato le boiseries intagliate, all'asta di Aulnay, dalle mani di alcuni antiquari parigini che erano interessati soltanto alle porcellane e ai mobili intarsiati. «Non ho ottenuto molto», mi disse, «ma posso ripagarmi il viaggio con questa». E mi mostrò lo scrittoio, una meraviglia! Dei disegni di Boucher eseguiti a intarsio con un'arte!... da gettarsi in ginocchio! «Guardate, signore», mi disse, «poco fa ho trovato in un cassettino chiuso, senza chiave, che ho forzato, questo ventaglio! Volete dirmi a chi potrei venderlo?». E tira fuori quest'astuccio intagliato, in legno di Santa Lucia. «Guardate! È in quello stile Pompadour che sembra gotico fiorito». «Oh», gli ho risposto, «l'astuccio è grazioso e potrebbe anche interessarmi, l'astuccio! perché, quanto al ventaglio, mio vecchio Monistrol, non ho una signora Pons cui donare questo vecchio gioiello; del resto, se ne fanno di nuovi, molto graziosi. Oggi si dipingono queste pergamene in modo miracoloso e assai a buon mercato. E voi sapete bene che a Parigi ci sono duemila pittori!». E intanto aprivo con indifferenza il ventaglio trattenendo la mia ammirazione, osservando freddamente questi due quadretti dipinti con tanta facilità, con una tecnica meravigliosa. Avevo il ventaglio della Pompadour! Watteau ha fatto prodigi in questo lavoro! «Quanto volete del mobile?». «Oh, mille franchi. Me li danno già!». Gli offro una cifra per il ventaglio, che corrispondeva alle spese presunte del suo viaggio. Allora ci guardiamo nel bianco degli occhi e mi rendo conto che l'accordo è fatto. Subito ripongo il ventaglio nell'astuccio per evitare che l'alverniate si metta a esaminarlo, e vado in estasi dinanzi all'intaglio dell'astuccio che è un vero gioiello. «Se lo compro», dico a Monistrol, «è per questo, vedete, è solo l'astuccio a interessarmi. Quanto a questo scrittoio, ne ricaverete più di mille franchi; guardate come sono cesellati questi ottoni! sono dei modelli... si possono sfruttare... sono pezzi unici, si facevano solo pezzi unici per la Pompadour...». E il mio uomo, tutto preso dalla sua scrivania, dimentica il ventaglio e me lo lascia per niente, in cambio della mia rivelazione sulla bellezza di quel mobile di Riesener. Ecco fatto! Ma ci vuole dell'esperienza per concludere trattative simili! Sono combattimenti a colpi di sguardi, e che occhio è quello di un ebreo o di un alverniate!».
    La mirabile pantomima, il brio del vecchio artista che facevano di lui - mentre raccontava il trionfo della sua intelligenza sull'ignoranza del rigattiere - un modello degno di un pennello olandese... tutto ciò non fu neppure percepito dalla presidentessa e dalla figlia che si dissero, scambiandosi degli sguardi freddi e sdegnosi:
    «Che originale!...».
    «Dunque tutto ciò vi diverte?», chiese la presidentessa.
    Pons, gelato da una simile domanda, ebbe voglia di prendere a sberle la presidentessa.
    «Ma, cara cugina», rispose, «è la caccia ai capolavori! E ci si trova faccia a faccia con avversari che difendono la selvaggina! È una lotta di astuzia! Un capolavoro nelle mani di un normanno, di un ebreo o di un alverniate è come, nelle fiabe, una principessa prigioniera di un mago!».
    «E come fate a sapere che è un Wat....? come dite?».
    «Watteau! cugina mia, uno dei più grandi pittori francesi del XVIII secolo! Guardate, non vedete la firma?», disse, indicandole una delle scene pastorali che rappresentava una ronde danzata da false contadine e da aristocratici pastori. «Che vitalità! Che brio! Che colore! E tutto di getto, come lo svolazzo di un maestro di calligrafia. Non si sente più il lavoro! E sull'altro lato, guardate: un ballo in un salotto. L'inverno e l'estate! Che decorazioni! E come si è conservato bene! Guardate la ghiera, è d'oro e da entrambi i lati termina in un piccolo rubino che ho ripulito».
    «Se è così, cugino mio, non posso accettare da voi un oggetto di così grande valore. È meglio che lo vendiate», disse la presidentessa che non chiedeva di meglio che entrare in possesso di quel magnifico ventaglio.
    «È tempo che ciò che è servito al vizio passi nelle mani della virtù!», disse il brav'uomo riacquistando sicurezza. «Ci saranno voluti cento anni perché si compisse un simile miracolo. Siate certa che a corte nessuna principessa avrà qualcosa di paragonabile a questo capolavoro; perché, sventuratamente, è proprio della natura umana fare di più per una Pompadour che per una regina virtuosa!».
    «Ebbene, l'accetto», disse ridendo la presidentessa. «Cécile, angelino mio, vai a vedere con Madeleine che il pranzo sia degno di nostro cugino».
    La presidentessa voleva pareggiare il conto. Quella raccomandazione ad alta voce, contrariamente alle regole del buon gusto, somigliava talmente al saldo di un pagamento che Pons arrossì come una fanciulla colta in fallo. Quel granello di sabbia un po' troppo grosso gli circolò per un po' nel cuore. Cécile, ragazza dai capelli rossicci il cui atteggiamento, viziato dalla pedanteria, esibiva il tono giudiziario del presidente e risentiva della durezza materna, scomparve lasciando il povero Pons alle prese con la terribile presidentessa.

X • UNA RAGAZZA DA MARITARE

    «È proprio graziosa la mia piccola Lili», disse la presidentessa usando ancora il diminutivo infantile dato un tempo al nome di Cécile.
    «Incantevole!», rispose il vecchio musicista roteando i pollici.
    «Non capisco niente del tempo in cui viviamo», proseguì la presidentessa. «A che serve dunque avere per padre un presidente della corte reale di Parigi, e commendatore della Legion d'onore, per nonno un deputato milionario, un futuro pari di Francia, il più ricco commerciante all'ingrosso di seterie?».
    Le devozione del presidente alla nuova dinastia gli aveva procurato da poco il titolo di commendatore, favore attribuito da qualche invidioso all'amicizia che lo univa a Popinot. Questo ministro, malgrado la sua modestia, come abbiamo visto si era lasciato nominare conte. «Per mio figlio», aveva detto ai suoi numerosi amici.
    «Oggi si cerca soltanto il denaro», rispose il cugino Pons, «si ha riguardo soltanto per i ricchi, e...».
    «E in quale situazione ci troveremmo», esclamò la presidentessa, «se il cielo mi avesse lasciato il mio piccolo Charles!...».
    «Oh! con due figli sareste povera!», continuò il cugino. «È l'effetto della divisione dei beni in parti eguali; ma, state tranquilla mia bella cugina, prima o poi Cécile si sposerà. Non ho mai visto una signorina così educata».
    Ecco fino a qual punto Pons aveva umiliato la sua anima nelle case dei suoi anfitrioni: ripeteva le loro idee, gliele commentava nel modo più banale, alla maniera dei cori antichi. Non osava abbandonarsi all'originalità che distingue gli artisti e che nella sua giovinezza anche lui aveva avuto, con caratteri assai fini, ma che l'abitudine di farsi da parte aveva allora quasi eliminata, e che veniva rifiutata, come un attimo prima, appena si riaffacciava.
    «Ma io mi sono sposata con una dote di ventimila franchi soltanto...».
    «Nel 1819, cugina!», disse Pons interrompendola. «E si trattava di voi, donna di qualità, protetta dal re Luigi XVIII!».
    «Dopotutto mia figlia è un angelo di perfezione e di spirito; ha un gran cuore, una dote di centomila franchi, senza contare le più belle speranze, eppure è ancora a nostro carico...».
    La signora de Marville parlò di sua figlia e di se stessa per venti minuti, abbandonandosi alle lamentele delle madri che hanno figlie in età da marito. Dopo venti anni che il vecchio musicista pranzava in casa del suo unico cugino Camusot, il pover'uomo era ancora in attesa di una parola sui suoi affari, sulla sua vita, sulla sua salute. Del resto Pons era ovunque una specie di fogna delle confidenze domestiche: egli offriva le migliori garanzie per la sua discrezione ben nota e necessaria, perché una sola parola di troppo gli avrebbe sbarrato la porta di dieci case; la sua parte di ascoltatore era perciò accompagnata da una costante approvazione; sorrideva su ogni cosa, non accusava né difendeva nessuno; per lui avevano ragione tutti. In questo modo non contava più come uomo: era uno stomaco! Nella sua lunga tirata la presidentessa confessò al cugino, non senza qualche precauzione, di essere disposta ad accettare per la figlia, quasi a occhi chiusi, un partito qualunque. Giunse a considerare un buon affare un uomo di quarantotto anni, sempre che possedesse una rendita di ventimila franchi.
    «Cécile ha ventitré anni, e se disgraziatamente arrivasse ai venticinque o ai ventisei sarebbe difficilissimo maritarla. Allora la gente si chiederebbe come mai una ragazza sia rimasta in attesa tanto a lungo. Nel nostro ambiente si chiacchiera fin troppo di questa situazione. Ormai abbiamo esaurito le ragioni più ovvie: «È troppo giovane. - Ama troppo i genitori per lasciarli. - È felice in casa sua. - Fa la difficile. Pretende un bel nome!». Stiamo diventando ridicoli, lo so bene. D'altra parte anche Cécile è stanca di aspettare; soffre, povera piccola...».
    «E di che?», chiese scioccamente Pons.
    «Ma», riprese la madre con un tono da governante, «è umiliata di vedere tutte le sue amiche sposarsi prima di lei».
    «Cugina mia, cosa è mai cambiato dall'ultima volta che ho avuto il piacere di pranzare qui, perché pensiate a un uomo di quarantotto anni?», chiese umilmente il povero musicista.
    «C'è che», rispose la presidentessa, «dovevamo avere un incontro da un consigliere di corte il cui figlio ha trent'anni, provvisto di una fortuna considerevole e per il quale il signore de Marville avrebbe ottenuto, grazie al denaro, un posto di referendario presso la corte dei conti. Il giovane vi si trova già come aggiunto. Ci hanno appena detto che questo giovanotto ha commesso la follia di partire per l'Italia, correndo dietro a una ballerina. È un rifiuto mascherato. Ci viene negato un giovane la cui madre è morta, e che già gode di una rendita di trentamila franchi, in attesa della fortuna paterna. Così dovete perdonarci il nostro malumore, caro cugino: siete arrivato in un momento di crisi.».
    Mentre Pons stava cercando una di quelle risposte complimentose che gli venivano sempre troppo tardi in casa degli anfitrioni che lo intimorivano, entrò Madeleine, consegnò un biglietto alla presidentessa e rimase in attesa della risposta. Nel biglietto c'era scritto:

    «Chi ha portato questo biglietto del signore?», chiese la presidentessa con tono brusco.
    «Un commesso del Tribunale», rispose sfrontatamente la secca Madeleine.
    Con questa risposta la vecchia fantesca faceva capire alla padrona che era stata lei a ordire il complotto, d'accordo con la spazientita Cécile.
    «Dite che mia figlia ed io saremo lì alle cinque e mezzo».

XI • UNO DEI MILLE OLTRAGGI CHE DEVE SUBIRE UNO SCROCCONE

    Uscita Madeleine, la presidentessa guardò il cugino Pons con quella falsa amabilità che su un'anima delicata produce un effetto pari a quello di un miscuglio di latte e aceto sulla lingua di un ghiotto:
    «Caro cugino, il pranzo è pronto; pranzerete senza di noi perché mio marito mi scrive dall'udienza per informarmi che si riprende il progetto di matrimonio con il consigliere, e così andiamo a pranzo da lui. Tra di noi non facciamo certo dei complimenti. Fate come se foste a casa vostra. Vedete con quanta franchezza vi tratto; con voi non ho segreti... Non vorreste far saltare il matrimonio di quell'angioletto, vero?».
    «Al contrario, cugina, vorrei trovarle io un marito; ma nell'ambiente in cui vivo...».
    «Ah, è improbabile», interruppe con insolenza la presidentessa. «Insomma, rimanete? Cécile vi terrà compagnia mentre mi preparo».
    «Oh, cugina, posso pranzare altrove», disse il brav'uomo.
    Anche se offeso crudelmente dal modo usato dalla presidentessa per rimproverargli la sua indigenza, era ancora più impaurito dalla prospettiva di trovarsi solo con i domestici.
    «Ma perché?... il pranzo è pronto, si mangerebbero tutto i domestici...».
    Udendo questa frase orribile, Pons si alzò come se fosse stato colpito dalla scarica di una pila galvanica, salutò freddamente la cugina e andò a riprendersi lo spencer. La porta della camera da letto di Cécile, che dava su un salottino, era semiaperta in modo che, guardando davanti in uno specchio, Pons scorse la ragazza in preda al riso mentre, rivolta alla madre, faceva dei cenni con la testa e dei gesti che rivelarono una qualche ignobile mistificazione a danno del vecchio artista. Pons scese lentamente le scale trattenendo le lacrime: si vedeva scacciato da quella casa senza sapere perché.
    «Ormai sono troppo vecchio», disse tra sé, «la gente ha orrore della vecchiaia e della povertà, due brutte cose. Non voglio più andare da nessuna parte senza essere stato invitato».
    Parole eroiche!...
    La porta della cucina, a pianterreno, di fronte alla portineria, rimaneva spesso aperta come accade nelle case abitate dai proprietari, mentre il portone resta sempre chiuso: così poté udire le risate della cuoca e del domestico ai quali Madeleine stava raccontando il tiro giocato a Pons, perché non pensava che il brav'uomo se ne sarebbe andato tanto in fretta. Il domestico approvava in pieno quello scherzo riservato a un frequentatore abituale della casa che, diceva, non dava mai più di un piccolo scudo per le feste!
    «Sì, ma se gli salta la mosca al naso e non torna più», fece osservare la cuoca, «per noi saranno tre franchi in meno a capodanno».
    «Ma come potrebbe saperlo?», disse il domestico rispondendo alla cuoca.
    «Prima o poi», riprese Madeleine, «a noi che importa? Annoia talmente i padroni delle case dove pranza, che lo scacceranno dappertutto».
    In quel momento il vecchio musicista gridò alla portiera: «Aprite, per favore!». Quel grido doloroso fu accolto in cucina dal più profondo silenzio.
    «Stava ascoltando», disse il domestico.
    «Ebbene, tanto peggio, o piuttosto tanto meglio», replicò Madeleine, «ha finito di fare il topo».
    Il brav'uomo, che non aveva perduto una parola di quanto era stato detto in cucina, udì anche quest'ultima frase. Tornò a casa per i boulevards nello stato in cui si troverebbe una vecchia dopo una lotta accanita con degli assassini. Parlando a se stesso, camminava con velocità convulsa; l'onore ferito lo sospingeva come una paglia trascinata da un vento furioso. Finalmente si trovò, alle cinque, sul boulevard du Temple senza sapere come vi fosse giunto; ma, cosa straordinaria, non avvertiva il minimo appetito.
    Ma, per capire la rivoluzione che il ritorno di Pons a quell'ora avrebbe provocato in casa sua, sono a questo punto necessarie le spiegazioni promesse a proposito della signora Cibot.

XII • TIPO DI PORTIERE (MASCHIO E FEMMINA)

    La rue de Normandie è una di quelle vie dove uno può credere di trovarsi in provincia: vi fiorisce l'erba, un passante rappresenta un avvenimento, e tutti si conoscono. Le case risalgono all'epoca in cui, sotto Enrico IV, iniziò la costruzione di un quartiere in cui ogni via doveva portare il nome di una provincia, con al centro una bella piazza dedicata alla Francia. L'idea del quartiere dell'Europa fu la riproposta di quel piano. Il mondo si ripete in ogni cosa, ovunque, anche nelle idee. La casa in cui abitavano i due musicisti è un vecchio palazzo tra il cortile e il giardino; ma la facciata, sulla via, risaliva al periodo della grande fortuna del Marais nell'ultimo secolo. I due amici occupavano tutto il secondo piano del vecchio palazzo; i due appartamenti in cui era diviso erano di proprietà del signor Pillerault, un ottuagenario che ne aveva affidato l'amministrazione ai coniugi Cibot, suoi portieri da ventisei anni. Ora, poiché lo stipendio di un portiere del Marais non pemette di vivere del solo portierato, Cibot univa alla percentuale sugli affitti e sui carichi di legna le risorse dell'ingegno personale: come molti portieri, faceva il sarto. Col tempo Cibot aveva smesso di lavorare per le sartorie; infatti, grazie alla fiducia della piccola borghesia del quartiere, godeva del privilegio incontestabile di rammendare, accomodare e rimettere a nuovo tutti gli abiti in un perimetro di tre strade. La portineria era grande e pulita, con accanto una camera. Così la famiglia Cibot era considerata una delle più agiate tra i signori portieri della circoscrizione.
    Cibot, piccolo e rinsecchito, diventato quasi olivastro a forza di stare sempre seduto, alla turca, su un tavolo collocato all'altezza della finestra con la grata che dava sulla strada, col suo mestiere guadagnava circa quaranta soldi al giorno. Lavorava ancora nonostante i suoi cinquantotto anni; ma i cinquantotto anni sono l'età migliore per i portieri; hanno passato una vita nella portineria, che per loro è divenuta ciò che è il guscio per le ostriche, e sono conosciuti nel quartiere!
    La signora Cibot, che un tempo era stata una bella ostricaia, aveva lasciato il suo posto al Cadran bleu per amore di Cibot, all'età di ventotto anni, dopo tutte le avventure che una bella ostricaia incontra senza neppure cercarle. La bellezza delle donne del popolo dura poco, soprattutto quando stanno di spalle all'ingresso di un ristorante. I caldi vapori della cucina si proiettano sui lineamenti, che si induriscono; i resti delle bottiglie bevuti in compagnia dei camerieri s'infiltrano nel colorito, e nessun fiore matura più in fretta di quello di una bella ostricaia. Fortunatamente per la Cibot, il matrimonio legittimo e la vita di portiera giunsero in tempo per salvarla; ed ella si mantenne come una modella di Rubens, conservando una bellezza virile che le rivali della rue de Normandie calunniavano, definendola una cicciona. I colori della sua carnagione potevano essere paragonati agli appetitosi pendii dei pani di burro d'Isigny; e, nonostante la sua grassezza, dava prova di un'incomparabile agilità nello svolgimento delle sue mansioni. La Cibot era giunta all'età in cui le donne di quel genere sono costrette a farsi la barba. Non è come dire che aveva quarantotto anni? Una portiera con i baffi è una delle maggiori garanzie d'ordine e di sicurezza per un proprietario. Se Delacroix avesse potuto vedere la Cibot appoggiata fieramente alla sua scopa, certamente ne avrebbe fatto una Bellona!
    La posizione dei coniugi Cibot, in stile d'atto d'accusa, un giorno avrebbe stranamente influenzato quella dei due amici; così lo storico, per essere fedele, è obbligato a entrare in qualche dettaglio a proposito della portineria. La casa rendeva circa ottomila franchi, perché era composta di tre appartamenti completi, di eguale estensione, sulla via, e tre nella parte più vecchia del palazzo, tra il cortile e il giardino. Inoltre un ferravecchio di nome Rémonencq occupava una bottega sulla via. Questo Rémonencq, che da qualche mese era divenuto un negoziante di curiosità, conosceva così bene il valore di Pons come esperto di bric-à-brac, che lo salutava dal fondo della sua bottega ogni volta che il musicista entrava o usciva. Così, la percentuale sugli affitti rendeva circa quattrocento franchi alla famiglia Cibot, che inoltre aveva gratuitamente l'alloggio e la legna. Ora, dal momento che lo stipendio di Cibot era in media di sette-ottocento franchi l'anno, i coniugi mettevano insieme, con le mance, un'entrata di milleseicento franchi che i Cibot letteralmente si mangiavano, vivendo meglio di quanto non faccia la gente del popolo. «Si vive una volta sola!», diceva la Cibot. Nata durante la Rivoluzione, ignorava, come si vede, il catechismo.
    Dei suoi rapporti con il Cadran bleu questa portiera dall'occhio arancione e severo aveva conservato qualche nozione culinaria che rendeva il marito oggetto dell'invidia di tutti i suoi colleghi. Perciò, ormai giunti alla maturità, sulla soglia della vecchiaia, i Cibot non avevano neppure cento franchi di risparmi. D'altra parte, ben vestiti e ben nutriti, godevano nel quartiere di una stima dovuta a ventisei anni di rigorosa onestà. Se non possedevano niente, non dovevano neppure n'un centesimo a nessuno, secondo una loro espressione, perché la Cibot prodigava le n nel suo modo di parlare. Diceva al marito: «Tu sei n'un amore!». Perché? Tanto varrebbe chiedere la ragione della sua indifferenza in materia di religione. Fieri entrambi di quella vita alla luce del sole, della stima di sei o sette vie, e dell'autocrazia sulla casa che il poprietario accordava loro, erano segretamente addolorati di non avere alcuna rendita. Cibot lamentava dolori alle mani e alle gambe, e la Cibot deplorava che il suo povero Cibot, alla sua età, fosse ancora costretto a lavorare. Verrà un giorno in cui, dopo trent'anni di una vita simile, un portiere accuserà il governo d'ingiustizia e pretenderà la decorazione della Legion d'onore! Ogni volta che dalle chiacchiere di quartiere venivano a sapere che a una tale domestica, dopo otto o dieci anni di servizio, era stato intestato un vitalizio di tre o quattrocento franchi, di portineria in portineria si alzavano grandi lamentele, che possono dare un'idea della gelosia che a Parigi divora i mestieri più umili.
    «Ecco, a noi non capiterà mai di essere messi su un testamento! Non abbiamo fortuna! Eppure siamo più utili dei domestici. Siamo persone di fiducia, riscuotiamo gli affitti, siamo sempre all'erta; ma siamo trattati né più né meno come cani!».
    «È solo questione di fortuna», diceva Cibot andando a riconsegnare un abito.
    «Se avessi lasciato Cibot nella sua portineria e fossi andata a fare la cuoca, averemmo trentamila franchi da parte», esclamava la Cibot parlando con la vicina, le mani sui grossi fianchi. «Mi sono proprio sbagliata, con quella storia dell'alloggio e del riscaldamento dentro una buona portineria, e che non ci sarebbe mancato nulla».

XIII • PROFONDO STUPORE

    Quando nel 1836 i due amici occuparono il secondo piano del vecchio palazzo, provocarono una specie di rivoluzione nelle abitudini della famiglia Cibot. Ecco come. Schmucke aveva, come del resto il suo amico Pons, l'abitudine di servirsi dei portieri o delle portiere delle case in cui abitava, per sbrigare le faccende domestiche. I due musicisti, insediandosi in rue de Normandia, furono entrambi dell'avviso di mettersi d'accordo con la Cibot, che divenne la loro domestica per venticinque franchi al mese, dodici franchi e cinquanta centesimi a testa. Nel giro di un anno la portiera emerita regnò sulla casa dei due vecchi scapoli esattamente come regnava sulla casa del signor Pillerault, il prozio della contessa Popinot; i loro affari divennero i suoi affari, e lei diceva: I miei due signori. Infine, trovando i due schiaccianoci docili come pecore, facili da accontentare, per niente diffidenti, dei veri bambini, con il suo cuore generoso di popolana si mise a proteggerli, ad adorarli, a servirli con una dedizione così sincera che talvolta faceva loro qualche ramanzina e li metteva in guardia contro tutti gli imbrogli che a Parigi fanno aumentare le spese di casa. Con venticinque franchi al mese i due scapoli, senza alcuna premeditazione e senza rendersene conto, acquistarono una madre. Vedendo quanto valeva la Cibot, i due musicisti le avevano ingenuamente rivolto degli elogi, dei ringraziamenti e dei piccoli doni che rafforzarono i legami di quell'unione domestica. La Cibot preferiva mille volte essere apprezzata per il suo valore che essere pagata; sentimento che, ben conosciuto, migliora sempre i salari. Cibot faceva a metà prezzo le commissioni, le riparazioni, tutto ciò che poteva riguardarlo nel servizio ai due signori di sua moglie.
    Poi, dal secondo anno, nell'unione tra il secondo piano e la portineria entrò un nuovo elemento di mutua amicizia. Schmucke concluse con la Cibot un accordo che esaudì la sua pigrizia e il suo desiderio di vivere senza occuparsi di niente. Per trenta soldi al giorno o quarantacinque franchi al mese, la Cibot si incaricò di provvedere al pranzo e alla cena di Schmucke. Pons, trovando molto soddisfacente il pranzo dell'amico, fece un accordo analogo per diciotto franchi. Quest'organizzazione dei pasti, che aumentò di circa novanta franchi le entrate della portineria, fece dei due inquilini degli esseri inviolabili, degli angeli, dei cherubini, degli dei. È molto dubbio che il re dei francesi, che se ne intende, sia servito come lo furono allora i due schiaccianoci. Per loro il latte sgorgava puro dal recipiente; leggevano gratis i giornali degli inquilini del primo e del terzo piano, che si alzavano tardi e ai quali, se fosse stato necessario, si sarebbe detto che i giornali non erano ancora arrivati. La Cibot inoltre teneva l'appartamento, gli abiti, il pianerottolo, in uno stato di pulizia fiamminga. Schmucke era felice come mai avrebbe sperato: la Cibot gli rendeva la vita facile; le dava circa sei franchi al mese per il bucato, cui provvedeva lei stessa, e per le rammendature. Inoltre spendeva quindici franchi al mese per il tabacco. Queste tre voci di spesa formavano un totale mensile di sessantasei franchi che, moltiplicati per dodici, fanno settecentonovantadue franchi. Cibot provvedeva ai vestiti di Schmucke, per una spesa media di centocinquanta franchi. Questo profondo filosofo viveva dunque con milleduecento franchi l'anno. Quanta gente, in Europa, il cui solo pensiero è di stabilirsi a Parigi, rimarrà piacevolmente sorpresa di sapere che vi si può vivere felicemente con una rendita di milleduecento franchi, in rue de Normandie, al Marais, sotto la protezione di una Cibot!
    La Cibot rimase stupita vedendo rientrare il buon Pons alle cinque di sera. Non soltanto non era mai successo, ma per di più il suo signore non la vide neppure, non la salutò.
    «Bene, Cibot», disse al marito, «o il signor Pons è diventato milionario o è impazzito!».
    «Sembra anche a me», rispose Cibot lasciando cadere una manica d'abito cui stava applicando, come si dice nel gergo dei sarti, una giunta.

XIV • UN ESEMPIO VIVENTE DELLA FAVOLA DEI DUE PICCIONI

    Mentre Pons rientrava in casa come un automa, la Cibot aveva appena preparato la cena di Schmucke. La cena consisteva in un certo sugo il cui odore si era sparso per tutto il cortile. Si trattava di avanzi di manzo bollito acquistati da un rosticciere che faceva anche il rivendugliolo, soffritti al burro con cipolla tagliata a fette sottili fino a che il burro non fosse stato assorbito dalla carne e dalla cipolla, in modo che questa pietanza da portiere prendesse l'aspetto di una frittura. Il piatto, preparato amorevolmente per Cibot e Schmucke, tra i quali la Cibot lo avrebbe diviso, accompagnato da una bottiglia di birra e da un pezzo di formaggio, era sufficiente al vecchio maestro di musica tedesco. E siate certi che il re Salomone, nella sua gloria, non cenava meglio di Schmucke. Ora questo piatto di bollito soffritto con cipolla, ora degli avanzi di pollo saltati, ora del lesso freddo in salsa verde, ora del pesce in una salsa inventata dalla Cibot, nella quale una madre avrebbe mangiato il suo bambino senza accorgersene, ora della cacciagione, secondo la qualità e la quantità di ciò che i ristoranti del boulevard rivendevano al rosticciere della rue Boucherat: questo era il vitto abituale di Schmucke, che si accontentava, senza la minima obiezione, di tutto quello che gli serviva la puona sighnora Zipot. E, di giorno in giorno, la buona Cibot aveva diminuito le dosi del vitto in modo che non costasse più di venti soldi.
    «Vado a sentire che gli è successo, n'a quel caro brav'uomo», disse la Cibot al marito, «tanto la cena del signor Schmucke è pronta».
    La Cibot coprì la fondina di terraglia con un piatto di porcellana comune; poi, nonostante l'età, raggiunse l'appartamento dei due amici proprio mentre Schmucke stava aprendo a Pons.
    «Che ha tu, mio puon amico?», chiese il tedesco allarmato dalla faccia stravolta di Pons.
    «Ti dirò tutto; ma vengo a cenare con te...».
    «Cenare! cenare!», esclamò Schmucke lusingato. «Ma essere impossipile!», aggiunse pensando alle abitudini gastrolatriche dell'amico.
    Il vecchio tedesco vide allora la Cibot che stava ascoltando, secondo il suo diritto di donna di servizio ufficiale. Còlto da una di quelle ispirazioni che si accendono solo nel cuore di un vero amico, andò verso la portiera e la condusse sul pianerottolo:
    «Sighnora Zipot, il puon Pons ama le puone cose; andate al Cadran pleu e ordinate una cena speciale: acciuche, maccaroni! Insomma un pasto da Lucullo!».
    «E che vuol dire?», chiese la Cibot.
    «Eppene», rispose Schmucke, «vitello alla finanziera, puon pesce, una pottiglia di Pordeaux, e tutte le migliori leccornie: crocchette di riso, larto affumicato! Ma, silenzio! e domani mattina vi restituirò il denaro».
    Schmucke rientrò tutto allegro, sfregandosi le mani; ma il suo viso riprese gradualmente un'espressione di stupore mentre ascoltava il racconto delle sventure che si erano abbattute nello stesso momento sul cuore del suo amico. Schmucke tentò di consolare Pons descrivendogli la società secondo il suo punto di vista. Parigi era una tempesta continua, gli uomini e le donne venivano trascinati da un movimento di valzer furioso, e non bisognava chiedere nulla alla società, che guarda soltanto all'esteriore e non all'interiorità, disse. Raccontò per la centesima volta che, di anno in anno, le tre uniche allieve che avesse prediletto, e dalle quali era amato, per le quali avrebbe dato la vita, dalle quali riceveva una piccola pensione di novecento franchi cui contribuivano in parti eguali, ognuna con circa trecento franchi, avevano così bene dimenticato, di anno in anno, di venirlo a trovare, ed erano talmente travolte dalla vita parigina, che da tre anni non era più riuscito a farsi ricevere quando andava a trovarle. (È anche vero che Schmucke si presentava a casa di quelle gran dame alle dieci del mattino!) Insomma, i trimestri della pensione gli venivano pagati dai notai.
    «E tuttavia», continuò, «hanno un cuore d'oro. Sono pur sempre le mie piccole sante Cecilie, tonne incantefoli, la sighnora te Bordentuère, la sighnora te Fantenesse, la sighnora ti Dilet. Quando le vedo ai Champs-Elysées, senza essere feduto da loro... mi voghliono tanto pene, e se folessi andare a pranzo ta loro, sareppero pen contente. Potrei anche antare ta loro in campaghnia; ma preferisco stare con il mio amico Pons, che fedo qvando voghlio e tutti i ghiorni».
    Pons prese la mano di Schmucke, la tenne tra le sue, la strinse con un gesto che esprimeva tutta l'anima, ed entrambi rimasero così per qualche minuto, come due amanti che si rivedono dopo una lunga assenza.
    «Chena qvi tutti i ghiorni!...», riprese Schmucke che tra sé benediceva la durezza della presidentessa. «Su, noi pricapracheremo insieme, e il tiafolo non metterà mai la sua cota tra ti noi».
    Per capire queste parole davvero eroiche: noi pricapracheremo insieme! bisogna confessare che Schmucke era di una crassa ignoranza in materia di bricabracologia. Ci voleva tutta la forza della sua amicizia perché non rompesse nulla in salotto e nello studio lasciati a Pons perché ne facesse il suo museo. Schmucke, totalmente preso dalla musica, compositore, considerava tutte le piccole sciocchezze del suo amico come un pesce che avesse ricevuto un biglietto d'invito guarderebbe un'esposizione di fiori al Luxembourg. Rispettava quelle opere meravigliose per la dedizione con la quale Pons spolverava il suo tesoro. E rispondeva: «Siii, feramente crazioso!», alle parole di ammirazione del suo amico, come una madre risponde alle parole insignificanti e ai gesti di un bambino che ancora non sa parlare. Da quando i due amici vivevano insieme, Schmucke aveva visto Pons cambiare orologio sette volte, sempre sostituendone uno meno bello con uno migliore. Ora Pons possedeva il più bell'orologio di Boulle, in ebano intarsiato di rame e decorato di sculture, della prima maniera di Boulle. Boulle ha avuto due maniere, come Raffaello ne ha avute tre. Nella prima univa il rame all'ebano; nella seconda, contro le proprie convinzioni, usava la tartaruga, compiendo dei prodigi per vincere i concorrenti, che avevano inventato l'intaglio in tartaruga. Malgrado le sapienti dimostrazioni di Pons, Schmucke non vedeva la più piccola differenza tra il magnifico orologio della prima maniera di Boulle e gli altri dieci. Ma, in omaggio alla felicità di Pons, Schmucke aveva più cura di tutte quelle cianfrusaglie di quanta ne avesse il suo amico. Non bisogna dunque stupirsi se la sublime frase di
Schmucke ebbe il potere di placare la disperazione di Pons, perché il noi pricapracheremo del tedesco voleva dire: «Se vieni a cena qui, metterò del denaro nel bric-à-brac».
    «I signori sono serviti», disse la Cibot con una sorprendente disinvoltura.
    Si comprenderà facilmente la sorpresa di Pons nel vedere e nell'assaporare quella cena dovuta all'amicizia di Schmucke. Le sensazioni di questo genere, così rare nella vita, non nascono dalla totale devozione per cui due uomini si ripetono costantemente l'un l'altro: «Tu hai in me un altro te stesso» (perché ci si fa l'abitudine); no, nascono dal confronto tra tali testimonianze della felicità della vita interiore e la barbarie della vita sociale. È la società a legare di nuovo, continuamente, due amici o due amanti, quando due grandi anime si sono unite per amore o per amicizia. Così Pons si asciugò due grosse lacrime, mentre Schmucke, per parte sua, era costretto ad asciugarsi gli occhi inumiditi. Non si dissero niente, ma si amarono ancora di più, e si scambiarono dei piccoli cenni con la testa le cui espressioni balsamiche lenirono i dolori di quel sassolino che la presidentessa aveva introdotto nel cuore di Pons. Schmucke si sfregava le mani fino a spellarsele, perché aveva concepito una di quelle idee che stupiscono un tedesco soltanto quando si sono dischiuse all'improvviso nel suo cervello congelato dal rispetto dovuto ai principî supremi.
    «Mio puon Bons?», disse Schmucke.
    «Indovino, vuoi che ceniamo insieme tutti i giorni...».
    «Forrei essere tanto ricco ta poterti offrire ogni ciorno una cena come questa...», rispose malinconico il buon tedesco.
    Allora la Cibot, cui Pons regalava di tanto in tanto dei biglietti per i teatri di boulevard, e ciò gli valeva un posto nel suo cuore allo stesso livello del pensionante Schmucke, fece questa proposta:
    «Perdinci», disse, «per tre franchi, senza il vino, posso fare ogni giorno, per voi due, n'un pranzo da mangiarvi anche il piatto, e da lasciarlo pulito come se fosse stato lavato».
    «Il fatto è», rispose Schmucke, «che io mangio meglio con quello che mi cucina montame Zipod di chi mangia le leccornie del re...».
    Forte della sua speranza, il rispettoso tedesco giunse a imitare l'irriverenza dei giornaletti, insinuando sospetti sul prezzo fisso della mensa reale.
    «Veramente?», disse Pons. «Domani proverò!».
    Udendo questa promessa, Schmucke saltò da un capo all'altro della tavola trascinando la tovaglia, i piatti, le brocche e abbracciò Pons con una stretta simile a quella di un gas che s'impadronisce di un altro gas cui è affine.
    «Che felicità!», gridò.
    «Il signore cenerà qui tutti i giorni!», disse con orgoglio la Cibot, intenerita.
    Senza conoscere l'avvenimento al quale doveva la realizzazione del suo sogno, l'eccellente Cibot scese in portineria e vi entrò come Josépha entra in scena nel Guglielmo Tell. Si liberò dei piatti ed esclamò:
    «Cibot, corri a prendere due tazzine al Café Turc, e di' al ragazzo che sono per me!».
    Poi si mise a sedere appoggiando le mani sulle possenti ginocchia e, guardando dalla finestra il muro di fronte, disse:
    «Stasera andrò a sentire la signora Fontaine!...».

XV • UNA CACCIA AL TESTAMENTO

    La Fontaine faceva le carte a tutte le cuoche, alle cameriere, ai domestici, ai portieri ecc., del Marais.
    «Da quando questi due signori sono venuti ad abitare qui, abbiamo duemila franchi alla cassa di risparmio. In otto anni, che fortuna! È meglio non guadagnare nulla sulla cena del signor Pons e trattenerlo in casa? Me lo diranno le carte della signora Fontaine».
    Non vedendo eredi intorno a Pons né a Schmucke, da circa tre anni la Cibot fantasticava di essere menzionata nel testamento dei suoi signori, e aveva raddoppiato il suo zelo per questo pensiero libidinoso, spuntato assai tardi tra i suoi baffi fino a quel momento colmi di probità. Andando ogni giorno a cena fuori, Pons era sfuggito al completo asservimento nel quale la portiera intendeva tenere i suoi signori. La vita nomade di quel vecchio trovatore-collezionista turbava le vaghe idee di seduzione che volteggiavano nel cervello della Cibot, e che divennero un piano formidabile dopo quella cena memorabile. Dopo un quarto d'ora la Cibot riapparve in sala da pranzo, armata di due eccellenti tazze di caffè accompagnate da due bicchierini di kirschwasser.
    «Effifa la sighnora Zibod!», gridò Schmucke, «mi ha intovinato».
    Dopo qualche cortese protesta dello scroccone, combattuta da Schmucke con le moine che il piccione sedentario dové fare al piccione viaggiatore, i due amici uscirono insieme. Schmucke non volle lasciare l'amico nella situazione in cui l'aveva messo il comportamento dei padroni e della servitù di casa Camusot. Conosceva bene Pons e sapeva che dei pensieri orribilmente tristi avrebbero potuto colpirlo sul podio di direttore d'orchestra, distruggendo così il buon effetto del suo ritorno al nido. Schmucke, riconducendo a casa Pons verso mezzanotte, lo teneva sottobraccio; e, come fa un amante con l'amante adorata, segnalava a Pons dove finiva o ricominciava il marciapiede; avrebbe voluto che il lastricato fosse di cotone, che il cielo fosse azzurro, che gli angeli facessero udire a Pons la musica che stavano suonando per lui. Aveva conquistato l'ultima provincia che ancora non gli apparteneva in quel cuore!
    Per circa tre mesi Pons cenò ogni giorno con Schmucke. Ma, innanzitutto, fu costretto a detrarre ottanta franchi dalla somma che destinava ai suoi acquisti, perché gli servirono circa trentacinque franchi per il vino e quarantacinque per la cena. Poi, malgrado le cure e i lazzi di Schmucke, il vecchio artista rimpianse i piatti squisiti, i bicchierini di liquore, il buon caffè, le chiacchiere, le false cortesie, i commensali e le maldicenze delle case dove andava a cena. Non si rompe sul declino della vita con un'abitudine che dura da trentasei anni. Un barile di vino da centotrenta franchi versa un liquido poco generoso nel bicchiere di un intenditore; così, ogni volta che Pons avvicinava il bicchiere alle labbra, si ricordava con mille rimpianti pungenti i vini squisiti dei suoi anfitrioni. Dunque in capo a tre mesi, i dolori atroci che avevano rischiato di spezzare il cuore delicato di Pons si erano attutiti, ed egli pensava soltanto ai piaceri del vivere in società; esattamente come un vecchio donnaiolo rimpiange un'amante lasciata perché colpevole di troppe infedeltà! Anche se tentava di nascondere la profonda malinconia che lo divorava, il vecchio musicista sembrava evidentemente colpito da una di quelle inesplicabili malattie che s'insediano nel morale.
    Per spiegare questa nostalgia prodotta da un'abitudine infranta, basterà indicare uno dei mille nonnulla che, simili alle maglie di una cotta d'arme, avvolgono l'anima in una rete di ferro. Uno dei piaceri più vivi della vita passata di Pons, una delle gioie dello scroccone d'un tempo, era la sorpresa, l'impressione gastronomica del piatto straordinario, della leccornia aggiunta trionfalmente nelle case borghesi dalla padrona che vuol dare un'aria di festa al suo pranzo! Quella delizia dello stomaco mancava a Pons; la Cibot, per orgoglio, gli preannunciava il menu. Il piccante quotidiano della vita di Pons era totalmente scomparso. Il suo pasto si svolgeva senza l'imprevisto di quello che una volta, nelle case dei nostri vecchi, si chiamava il piatto coperto! Ecco una cosa che Schmucke non poteva capire. Pons era troppo delicato per lamentarsene, e se c'è qualcosa di ancora più triste del genio misconosciuto questo è lo stomaco incompreso. Il cuore in cui l'amore è respinto, dramma di cui si abusa, si basa su un falso bisogno; infatti, se la creatura ci abbandona, si può amare il Creatore, che ha dei tesori da dispensarci. Ma lo stomaco!... Niente può essere confrontato con le sue sofferenze; perché, la vita innanzitutto! Pons rimpiangeva certe creme, delle vere poesie! certe salse bianche, dei capolavori! certi polli tartufati, un amore! e sopra tutto il resto, le famose carpe del Reno che si trovano solo a Parigi, e con quali condimenti! In certi giorni Pons esclamava: «O Sophie!», pensando alla cuoca del conte Popinot. Un passante, udendo questo sospiro, avrebbe creduto che il buonuomo stesse pensando a un'amante, mentre si trattava di qualcosa di più raro: una grossa carpa, accompagnata da una salsa, trasparente nella salsiera e densa sulla lingua, una salsa che avrebbe meritato il premio Montyon! Il ricordo di quelle cene vissute fece dunque dimagrire considerevolmente il direttore d'orchestra, colpito da una nostalgia gastrica.

XVI • UN TIPO TEDESCO

    All'inizio del quarto mese, verso la fine del gennaio 1845, il giovane flautista, che si chiamava Wilhelm come quasi tutti i tedeschi, e Schwab per distinguersi da tutti i Wilhelm, senza distinguersi per questo da tutti gli Schwab, ritenne necessario far notare a Schmucke le condizioni del direttore d'orchestra, di cui a teatro ci si preoccupava. Era il giorno di una prima, che coinvolgeva tutti gli strumenti suonati dal vecchio maestro tedesco.
    «Il buonuomo declina, sembra malato, l'occhio è triste, il movimento del braccio è sempre più debole», disse Wilhelm indicando Pons che saliva sul podio con aria da funerale.
    «A sessant'anni è sempre così», rispose Schmucke.
    Schmucke, simile a quella madre delle Cronache di Canongate che, per godersi il figlio altre ventiquattro ore, lo fa fucilare, era capace di sacrificare Pons al piacere di vederlo cenare tutti i giorni con lui.
    «In teatro tutti sono preoccupati e, come dice la signorina Héloïse Brisetout, nostra prima ballerina, quasi non fa più rumore quando si soffia il naso».
    Quando si soffiava il naso, sembrava che il vecchio musicista suonasse il corno, tanto il suo naso lungo e voluminoso risuonava nel fazzoletto. Questo frastuono era la causa di uno dei più costanti rimproveri della presidentessa al cugino Pons.
    «Non so cosa darei per distrarlo», disse Schmucke, «lo consuma la noia».
    «Credetemi», disse Wilhelm Schwab, «il signor Pons mi sembra un essere talmente superiore a noi poveri diavoli, che non osavo invitarlo alle mie nozze. Mi sposo...».
    «E come?», chiese Schmucke.
    «Oh, molto onestamente», rispose Wilhelm che nella bizzarra domanda di Schmucke trovò del sarcasmo di cui quel perfetto cristiano era incapace.
    «Andiamo, signori, ai vostri posti!», disse Pons, che dopo aver udito il campanello del direttore scrutò il suo piccolo esercito nell'orchestra.
    Fu eseguita l'ouverture della Fiancée du Diable, opera pastorale che ebbe duecento repliche. Al primo intervallo, Wilhelm e Schmucke si ritrovarono soli nell'orchestra deserta. La temperatura della sala aveva raggiunto i trentadue gradi Réaumur.
    «Raccontatemi dunque la vostra storia», disse Schmucke a Wilhelm.
    «Ecco, vedete quel giovane, nel proscenio?... lo riconoscete?».
    «Niente affatto...».
    «Ah! perché porta dei guanti gialli e risplende del bagliore dell'opulenza; ma è il mio amico Fritz Brunner, di Francoforte sul Meno...».
    «Quello che assisteva alle rappresentazioni dall'orchestra, accanto a voi?».
    «Proprio lui. Non è incredibile una simile metamorfosi?».
    Quell'eroe della storia promessa era uno di quei tedeschi il cui aspetto richiama nello stesso tempo il tetro sarcasmo del Mefistofele di Goethe e la bonomia dei romanzi di August Lafontaine, di pacifica memoria; l'astuzia e l'ingenuità, la durezza dei bancari e la calcolata noncuranza di un membro del Jockey Club; ma soprattutto il disgusto che mette la pistola in mano a Werther, assai più annoiato dei principi tedeschi che di Carlotta. Era veramente una figura tipica della Germania: molto ebraismo e molta semplicità, stupidità e coraggio, una cultura che genera noia, un'esperienza vanificata dal minimo infantilismo; l'abuso della birra e del tabacco; e infine, a rendere evidenti tutte queste antitesi, una scintilla diabolica in due begli occhi azzurri, affaticati. Elegante come un banchiere, Fritz Brunner offriva agli sguardi di tutta la sala una testa calva di un colore tizianesco, intorno alla quale si arricciavano i pochi capelli di un biondo ardente, che la dissolutezza e la miseria gli avevano lasciato in modo da poter pagare un barbiere il giorno della sua restaurazione finanziaria. Il suo volto, un tempo bello e fresco, come quello del Gesù Cristo dei pittori, aveva assunto dei toni aspri che i baffi rossi e una barba fulva rendevano quasi sinistri. L'azzurro puro degli occhi si era intorbidato nella lotta con i dispiaceri. Infine le mille prostituzioni di Parigi avevano offuscato le palpebre e il contorno di quegli occhi dove un tempo una madre poteva vedere con ebbrezza una copia divina dei suoi. Questo filosofo precoce, questo giovane vecchio era l'opera di una matrigna.
    Qui inizia la storia curiosa di un figliol prodigo di Francoforte sul Meno, il fatto più straordinario e bizzarro che sia mai accaduto in quella città, saggia anche se al centro di grandi traffici.

XVII • DOVE SI VEDE CHE I FIGLIOLI PRODIGHI FINISCONO PER DIVENTARE BANCHIERI E MILIONARI QUANDO SONO DI FRANCOFORTE SUL MENO

    Il signor Gédéon Brunner, padre di Fritz, uno di quei celebri albergatori di Francoforte sul Meno che praticano, con la complicità dei banchieri, incisioni autorizzate dalle leggi sulla borsa dei turisti, d'altra parte onesto calvinista, aveva sposato un'ebrea convertita alla cui dote doveva la sua ricchezza. L'ebrea morì, lasciando il figlio Fritz, di dodici anni, sotto la tutela del padre e la sorveglianza di uno zio materno, commerciante di pellicce a Lipsia, direttore della casa Virlaz e C. Brunner padre fu costretto dallo zio, che non era tenero come le sue pellicce, a investire il patrimonio del piccolo Fritz in titoli vincolati presso la casa Al-Sartchild. Per vendicarsi di quest'esigenza israelita, Brunner padre si risposò, sostenendo di non poter gestire il suo immenso albergo senza l'occhio e il braccio di una donna. Sposò la figlia di un altro albergatore, che gli sembrava una perla; ma non aveva provato cosa significasse una figlia unica, adulata da un padre e da una madre. La seconda signora Brunner fu quello che sono le giovani tedesche quando sono cattive e leggere; sperperò la propria fortuna, e vendicò la prima signora Brunner rendendo suo marito l'uomo più infelice che fosse conosciuto nel territorio della libera città di Francoforte sul Meno dove, si dice, i milionari vogliono far promulgare una legge municipale che obblighi le donne a preferire esclusivamente loro. Quella tedesca amava i diversi tipi di aceto che i tedeschi chiamano «vino del Reno»; amava gli articoli di lusso parigini; amava montare a cavallo; amava i bei vestiti; insomma, l'unica cosa costosa che non amasse erano le donne. Prese in antipatia il povero Fritz, e l'avrebbe fatto impazzire se quel giovane prodotto del calvinismo e del mosaismo non avesse avuto come culla Francoforte, e la casa Virlaz di Lipsia come tutela; ma lo zio Virlaz, tutto preso dalle sue pellicce, era attento soltanto ai marchi vincolati e lasciò il bambino nelle mani della matrigna.
    Questa iena era tanto più furiosa contro quel cherubino, figlio della bella signora Brunner, perché, malgrado gli sforzi degni di una locomotiva, non riusciva ad avere figli. Spinta da un pensiero diabolico, la criminale tedesca lanciò il giovane Fritz, all'età di ventun anni, in dissolutezze antigermaniche. Sperò che il cavallo inglese, l'aceto del Reno e le Margherite di Goethe divorassero il figlio dell'ebrea e il suo patrimonio; perché lo zio Virlaz aveva lasciato una bella eredità al suo piccolo Fritz quando aveva raggiunto la maggiore età. Ma, se le roulettes delle stazioni termali e i compagni di bagordi, tra i quali Wilhelm Schwab, esaurirono il capitale Virlaz, il giovane figliol prodigo restò, per volere del Signore, un esempio per i cadetti della città di Francoforte sul Meno, dove ogni famiglia lo usa come spauracchio per conservare i loro figli onesti e timorosi nelle loro banche blindate, piene di titoli vincolati. Invece di morire nel fiore degli anni, Fritz Brunner ebbe il piacere di veder sotterrare la matrigna in uno di quegli incantevoli cimiteri dove i tedeschi, col pretesto di onorare i loro morti, si dedicano alla sfrenata passione dell'orticoltura. La seconda signora Brunner morì dunque prima dei suoi autori; il vecchio Brunner perse il denaro che lei aveva prelevato dai suoi scrigni e ne provò tali pene che quest'albergatore di erculea costituzione si ritrovò, a sessantasette anni, indebolito come se fosse stato avvelenato dalla famosa pozione dei Borgia. Il fatto di non ereditare dalla moglie, dopo averla sopportata per dieci anni, fece dell'albergatore una seconda rovina di Heidelberg, ma restaurata continuamente dai Rechnungs dei viaggiatori come si restaura quella di Heidelberg per tenere vivo l'interesse dei turisti che affluiscono per vedere quella bella rovina, conservata così bene. A Francoforte ne parlavano come di un fallimento, e dicevano indicando Brunner:
    «Ecco dove possono condurre una donna malvagia da cui non si eredita nulla, e un figlio educato alla francese!». In Italia e in Germania, i francesi sono la causa di ogni sciagura, il bersaglio di ogni colpo; mais le dieu, poursuivant sa carrière... (Il seguito come nell'ode di Lefranc de Pompignan.)
    La collera del proprietario del grande Hôtel de Hollande non ricadde soltanto sui viaggiatori, i cui conti (Rechnungs) documentarono le sue afflizioni. Quando il figlio fu totalmente rovinato, Gédéon, considerandolo la causa indiretta delle sue disgrazie, gli negò il pane e l'acqua, il sale, il fuoco, l'alloggio e la pipa!, il che rappresenta per un padre albergatore e tedesco l'ultimo grado della maledizione paterna. Le autorità del luogo, non rendendosi conto delle colpe originarie del padre, e vedendo in lui uno degli uomini più sventurati di Francoforte sul Meno, gli vennero in aiuto; espulsero Fritz dal territorio di quella libera città, senza alcun motivo. La giustizia non è più umana né più saggia a Francoforte che altrove, benché questa città sia la sede della Dieta germanica. Raramente un magistrato risale il fiume dei crimini e delle sventure per sapere chi teneva in mano l'urna da cui si versò il primo filo d'acqua. Brunner dimenticò suo figlio, e gli amici albergatori lo imitarono.
    Ah! se questa storia avesse potuto essere rappresentata davanti alla buca del suggeritore per quella sala in cui i giornalisti, i bellimbusti e alcune parigine si stavano chiedendo da dove fosse uscito il volto profondamente tragico di quel tedesco apparso tra la Parigi elegante nel bel mezzo di una prima, solo, in un palco di proscenio, una simile storia sarebbe stata molto più bella dell'opera fantastica La fiancée du diable, anche se si fosse trattato della duecentomillesima replica della sublime parabola rappresentata in Mesopotamia tremila anni prima di Cristo.
    Fritz andò a piedi a Strasburgo, e vi trovò quello che il figliol prodigo della Bibbia non aveva trovato nella patria delle Sacre Scritture. In ciò si rivela la superiorità dell'Alsazia, dove battono tanti cuori generosi, per mostrare alla Germania la bellezza dell'incontro tra lo spirito francese e la solidità tedesca. Wilhelm, da qualche giorno erede del patrimonio del padre e della madre, possedeva centomila franchi; aprì le braccia a Fritz, gli aprì il cuore, la casa e la borsa. Descrivere il momento in cui Fritz, impolverato, malridotto e quasi lebbroso, trovò sull'altra riva del Reno una vera moneta da venti franchi nella mano di un vero amico, sarebbe come voler iniziare un'ode, e solo Pindaro potrebbe lanciarla in greco sull'umanità per riaccendere l'amicizia morente. Affiancate i nomi di Fritz e Wilhelm a quelli di Damone e Pizia, di Castore e Polluce, di Oreste e Pilade, di Dubreuil e Pmeyah, di Schmucke e Pons, e a tutti i nomi di fantasia che diamo ai due amici del Monomotapa, poiché La Fontaine, da uomo di genio che era, ne ha fatto delle sembianze prive di corpo, senza realtà; aggiungete questi due nomi nuovi a quelli illustri già ricordati, ancor più a ragione in quanto Wilhelm mangiò, in compagnia di Fritz, la propria eredità, come Fritz aveva bevuto la sua con Wilhelm, ma fumando, sia chiaro, ogni specie conosciuta di tabacco.
    I due amici divorarono quell'eredità, cosa strana!, nelle birrerie di Strasburgo, nel modo più stupido e comune, insieme con delle comparse del teatro di Strasburgo e delle alsaziane le quali delle loro piccole scope non avevano che il manico. E ogni mattina si dicevano l'un altro:
    «Dobbiamo fermarci, prendere una decisione, fare qualcosa con quello che ci resta!».
    «Bah!, ancora oggi...», diceva Fritz, «ma domani... oh! domani...».
    Nella vita degli scialacquatori Oggi è un gran vanesio, ma Domani è un gran vigliacco, spaventato dal coraggio del suo predecessore; Oggi è il Capitano dell'antica commedia, e Domani è il Pierrot delle nostre pantomime. Giunti al loro ultimo biglietto da mille franchi, i due amici acquistarono due posti alle Messaggerie dette reali, che li condussero a Parigi dove alloggiarono nelle soffitte dell'Hôtel du Rhin, rue du Mail, da Graff, già primo cameriere di Gédéon Brunner. Fritz entrò come commesso a seicento franchi presso i fratelli Keller, banchieri, cui era stato raccomandato da Graff. Graff, padrone dell'Hôtel du Rhin, è il fratello del famoso sarto Graff. Il sarto assunse Wilhelm come contabile. Graff trovò questi due umili impieghi ai due figlioli prodighi, in ricordo del suo apprendistato presso l'Hôtel de Hollande. Questi due fatti: un amico in rovina riconosciuto da un amico ricco, e un albergatore tedesco che s'interessa di due compatrioti senza un soldo, faranno credere a chiunque che questa storia sia un romanzo; ma tutte le cose vere tanto più somigliano a delle favole quanto più la favola, nel nostro tempo, fa degli sforzi inauditi per somigliare alla verità.
    Fritz, commesso a seicento franchi, Wilhelm, contabile con lo stesso stipendio, si resero ben conto della difficoltà di vivere in una città cortigiana come Parigi. Così, dal secondo anno del loro soggiorno, nel 1837, Wilhelm, che aveva un buon talento di flautista, entrò nell'orchestra diretta da Pons, per poter mettere qualche volta un po' di burro sul pane. Quanto a Fritz, riuscì a trovare un po' di soldi solo impiegando l'abilità finanziaria di un figlio di Virlaz. Malgrado la sua assiduità, forse a causa del suo talento, il francofortese giunse a guadagnare duemila franchi solo nel 1843. La miseria, divina matrigna, fece per questi due giovani quello che le loro madri non erano riuscite a fare: insegnò loro l'economia, il mondo e la vita; impartì loro quella grande, quella forte educazione ch'essa dispensa a colpi di frusta ai grandi uomini, tutti infelici nella loro infanzia. Fritz e Wilhelm, che erano uomini piuttosto comuni, non ascoltarono tutte le lezioni della miseria, si difesero dai suoi attacchi, trovarono che aveva il seno duro, le braccia scarne, e non ne trassero affatto quella buona fata Urgèle che cede alle carezze delle persone di genio. Tuttavia impararono a riconoscere il valore della fortuna, e si ripromisero di tagliarle le ali se mai fosse tornata alla loro porta.

XVIII • COME SI FA FORTUNA

    «Ebbene, papà Schmucke», riprese Wilhelm, che raccontò in tedesco per esteso questa storia al pianista, «poche parole vi spiegheranno tutto. Il padre di Brunner è morto. Senza che il figlio né il signor Graff, presso il quale alloggiavamo, ne sapesse niente, egli è stato uno dei fondatori delle ferrovie del Baden, con le quali ha realizzato immensi guadagni, e ha lasciato quattro milioni! Stasera suono il flauto per l'ultima volta. Se non si fosse trattato di una prima, me ne sarei già andato da qualche giorno; non ho voluto far mancare la mia parte».
    «Molto bene, giovanotto», disse Schmucke, «ma chi sposate?».
    «La figlia del signor Graff, nostro ospite e proprietario dell'Hôtel du Rhin. Amo la signorina Émilie da sette anni; ha letto tanti romanzi immorali che ha rifiutato ogni partito per me, senza sapere cosa le sarebbe accaduto. La ragazza sarà molto ricca, è l'unica erede dei Graff, i sarti della rue de Richelieu. Fritz mi dona cinque volte quello che abbiamo consumato insieme a Strasburgo, cinquecentomila franchi!... Mette un milione di franchi in una banca dove il signor Graff, il sarto, ne mette cinquecentomila a sua volta; il padre della mia promessa sposa mi permette di depositarvi la dote, che è di duecentocinquantamila franchi, e ci finanzia per altrettanto. La casa Brunner, Schwab e C. avrà dunque un capitale di due milioni e cinquecentomila franchi. A garanzia del nostro conto, Fritz ha appena acquistato un milione e cinquecentomila franchi in azioni della Banca di Francia. Non è l'intero patrimonio di Fritz; gli restano ancora le case del padre a Francoforte, che sono valutate un milione, e ha già affittato il grande Hôtel de Hollande a un cugino di Graff».
    «State guardando il vostro amico con tristezza», disse Schmucke che aveva ascoltato Wilhelm attentamente, «siete forse geloso di lui?».
    «Sono geloso, ma della felicità di Fritz», rispose Wilhelm. «Vi sembra il volto di un uomo soddisfatto? Ho paura di Parigi per lui; vorrei che prendesse la mia stessa decisione. L'antico dèmone può risvegliarsi in lui. Delle due nostre teste, non è la sua quella in cui è entrata più saggezza. Quell'abbigliamento, quell'occhialino, tutto ciò mi preoccupa. Non ha fatto che guardare le donnine in sala. Ah! se sapeste com'è difficile trovare una moglie per Fritz! Ha orrore di quello che in Francia si dice fare la corte; e invece bisognerebbe lanciarlo nella famiglia, come in Inghilterra si lancia un uomo nell'eternità.
    Durante il tumulto che segna la fine di tutte le prime, il flauto invitò il direttore d'orchestra. Pons accettò con gioia. Allora Schmucke vide, per la prima volta da tre mesi, un sorriso sul volto del suo amico; lo ricondusse in rue de Normandie, in profondo silenzio perché da quel lampo di gioia aveva capito la profondità della malattia che rodeva Pons. Che un uomo veramente nobile come lui, disinteressato, di sentimenti elevati, avesse tali debolezze!... ecco cosa stupiva lo stoico Schmucke, che divenne orribilmente triste perché sentì la necessità di rinunciare a vedere ogni giorno il suo puon Bons a tavola davanti a lui!, nell'interesse della felicità di Pons; e non sapeva se quel sacrificio gli sarebbe stato possibile: la sola idea lo faceva impazzire!

XIX • A PROPOSITO DI UN VENTAGLIO

    Il fiero silenzio mantenuto da Pons, rifugiato sull'Aventino della rue Normandie, aveva inevitabilmente colpito la presidentessa che, liberatasi del suo parassita, se ne dispiaceva poco; pensava, come la sua affascinante figliola, che il cugino avesse capito il senso dello scherzo della piccola Lili; ma non fu così per il presidente. Il presidente Camusot de Marville, piccolo e tondo, di solenne portamento dopo l'avanzamento di grado, ammirava Cicerone, preferiva l'Opéra-Comique al Théâtre des Italiens, faceva confronti tra gli attori, era attento alle mode; ripeteva, come fossero idee sue, tutti gli articoli del giornale ministeriale, e in camera di consiglio parafrasava le idee del consigliere che lo aveva preceduto. Questo magistrato, sufficientemente conosciuto nei tratti essenziali del carattere, costretto dalla posizione a prendere tutto sul serio, teneva soprattutto ai legami familiari. Come la maggior parte dei mariti totalmente dominati dalle mogli, il presidente esibiva nelle piccole cose un'indipendenza che la moglie rispettava. Se, per un mese, il presidente si accontentò delle banali ragioni con cui la presidentessa giustificava la scomparsa di Pons, finì per trovare strano che il vecchio musicista, amico da quarant'anni, non venisse più, soprattutto dopo aver fatto un dono così importante come il ventaglio della Pompadour. Quel ventaglio, considerato un capolavoro dal conte Popinot, procurò alla presidentessa e alle Tuileries, dove quel gioiello passò di mano in mano, complimenti che lusingarono eccessivamente il suo amor proprio; le furono indicate in dettaglio le bellezze delle dieci stecche d'avorio, ognuna delle quali presentava intagli di rara finezza. Una dama russa (le russe credono sempre di essere in Russia) offrì, in casa del conte Popinot, seimila franchi alla presidentessa per quel ventaglio straordinario, sorridendo nel vederlo in tali mani in quanto si trattava, bisogna dirlo, di un ventaglio da duchessa.
    «Non si può negare a quel povero cugino», disse Cécile al padre il giorno dopo quel regalo, «di essere un intenditore di queste piccole sciocchezze!».
    «Piccole sciocchezze!», esclamò il presidente. «Lo Stato pagherà trecentomila franchi per la collezione del defunto consigliere Dusommerard, e spenderà, a metà con il Comune di Parigi, quasi un milione per l'acquisto e il restauro del palazzo di Cluny, per sistemarvi quelle piccole sciocchezze... Quelle piccole sciocchezze, mia cara bambina, spesso sono le uniche testimonianze di civiltà scomparse. Un vaso etrusco, una collana, che talvolta valgono l'uno quaranta, l'altra cinquanta franchi, sono piccole sciocchezze che ci rivelano la perfezione delle arti al tempo dell'assedio di Troia, e ci dimostrano che gli etruschi erano dei troiani rifugiati in Italia!».
    Era questo il genere di battute del corpulento presidente; alla moglie e alla figlia destinava pesanti ironie.
    «L'insieme delle conoscenze che queste piccole sciocchezze esigono, Cécile», continuò, «è una scienza che si chiama archeologia. L'archeologia comprende l'architettura, la scultura, la pittura, l'oreficeria, la ceramica, l'ebanisteria, arte assolutamente moderna; poi i merletti, gli arazzi, insomma ogni creazione del lavoro umano».
    «Ma allora il cugino Pons è un dotto?», chiese Cécile.
    «A proposito, come mai non lo si vede più?», domandò il presidente con l'aria di un uomo che prova un'emozione prodotta da mille osservazioni dimenticate, che all'improvviso si riuniscono e fanno palla, per impiegare un'espressione dei cacciatori.
    «Gli sarà saltata la mosca al naso per qualche inezia», rispose la presidentessa. «Forse sono stata meno sensibile del dovuto al dono del ventaglio. Sapete che sono piuttosto ignorante...».
    «Voi! una delle migliori allieve di Servin», esclamò il presidente, «non conoscete Watteau?».
    «Conosco David, Gérard, Gros, e Girodet, e Guérin, e Forbin, e Turpin de Crissé...».
    «Ma avreste dovuto...».
    «Cosa avrei dovuto, signore?», chiese la presidentessa guardando il marito con un'aria da regina di Saba.
    «Sapere chi è Watteau, mia cara, è molto di moda», rispose il presidente con un tono di umiltà che rivelava tutti i suoi obblighi nei confronti della moglie.
    Questa conversazione aveva preceduto di qualche giorno la prima della Fiancée du diable, quando l'intera orchestra fu colpita dal cattivo stato di salute di Pons. Allora le persone abituate a vedere Pons alla loro tavola, a servirsene come messaggero, se ne erano chieste la ragione, e nell'ambiente nel quale il brav'uomo gravitava s'era sparsa un'inquietudine tanto maggiore proprio per il fatto che in molti lo videro al suo posto in teatro. Malgrado l'attenzione con cui Pons evitava nelle sue passeggiate le antiche conoscenze, s'imbatté nell'ex ministro conte Popinot da Monistrol, uno dei più noti e scaltri negozianti del nuovo boulevard Beaumarchais, di cui Pons aveva parlato alla presidentessa, e il cui astuto entusiasmo fa rincarare di giorno in giorno le curiosità che, come dicono i commercianti, sono ormai divenute così rare da non trovarne più.
    «Mio caro Pons, perché non vi si vede più? Ci mancate molto, e la signora Popinot non sa cosa pensare di quest'abbandono».
    «Signor conte», rispose il buonuomo, «mi hanno fatto capire, in una casa, presso un parente, che alla mia età si è di troppo nel mondo. Non sono mai stato ricevuto con molti riguardi, ma almeno non ero stato ancora insultato. Non ho mai chiesto nulla a nessuno», disse con la fierezza dell'artista. «In cambio di un po' di gentilezza, mi rendevo spesso utile a chi mi accoglieva; ma pare che io mi sia sbagliato, e che dovrei subire imposizioni e servitù, alla mercé degli altri, per l'onore di andare a cena dai miei amici, dai miei parenti... Ebbene, ho dato le mie dimissioni da scroccone. A casa mia trovo ogni giorno quello che nessuna tavola mi ha offerto: un vero amico!».
    Queste parole, ispirate dall'amarezza che il vecchio artista riusciva ancora a mettervi con i gesti e i toni, colpirono talmente il pari di Francia, che lo prese da parte.
    «Ma cosa vi è successo, mio vecchio amico? Non potete confidarmi cosa vi ha offeso? Mi permetterete di farvi notare che in casa mia siete sempre stato trattato con riguardo...».
    «Siete l'unica eccezione che posso fare», disse il buonuomo. «Del resto, siete un gran signore, un uomo di Stato, e le vostre preoccupazioni, in ogni caso, giustificherebbero tutto».
    Pons, circuito dall'abilità diplomatica acquisita da Popinot nel manipolare gli uomini e gli affari, finì per raccontare le sue sventure in casa del presidente de Marville. Popinot sposò con tanto calore le ragioni della vittima che ne parlò subito alla signora Popinot, eccellente e degna donna, che fece le sue rimostranze alla presidentessa appena la incontrò. E poiché l'ex ministro, da parte sua, aveva detto qualche parola in proposito al presidente, ci fu una spiegazione in famiglia, dai Camusot de Marville. Benché Camusot non fosse del tutto padrone in casa sua, la sua rimostranza era troppo fondata di diritto e di fatto perché la moglie e la figlia non ne riconoscessero la verità; si scusarono entrambe, e dettero la colpa ai domestici. Questi, chiamati e redarguiti, ottennero il perdono solo dopo una completa confessione, la quale provò al presidente che il cugino Pons aveva ragione a starsene a casa sua. Come tutti i padroni di casa dominati dalle loro mogli, il presidente usò tutta la sua autorità maritale e giudiziaria, dichiarando ai domestici che sarebbero stati licenziati, e avrebbero così perso tutti i vantaggi che derivavano dal lungo servizio in casa sua, se in futuro il cugino Pons e chiunque gli facesse l'onore di venire in casa non fossero stati trattati come lui stesso. Queste parole fecero sorridere Madeleine.
    «Avete una sola possibilità di salvezza», aggiunse il presidente, «disarmare mio cugino con delle scuse. Andate a dirgli che la vostra permanenza in questa casa dipende interamente da lui, perché io vi licenzio tutti se non vi perdona».

XX • RITORNO DEI BEI GIORNI

    Il giorno dopo, il presidente uscì di buon'ora per poter fare una visita al cugino prima dell'udienza. L'apparizione del signor presidente de Marville, annunciato dalla Cibot, fu un avvenimento. Pons, che riceveva quest'onore per la prima volta in vita sua, capì che era una riparazione.
    «Caro cugino», disse il presidente dopo i convenevoli di rito, «finalmente ho saputo la causa della vostra scomparsa. La vostra condotta aumenta, se è possibile, la stima che ho per voi. A questo proposito vi dirò una sola cosa: i miei domestici sono tutti licenziati. Mia moglie e mia figlia sono disperate; vogliono vedervi, per chiarire tutto. In tutta questa storia, cugino, c'è un innocente, ed è un vecchio giudice; non punitemi dunque per la scappatella di una ragazzina stordita che voleva andare a cena dai Popinot, soprattutto quando vengo a chiedervi la pace riconoscendo che tutti i torti sono dalla nostra parte... Un'amicizia di trentasei anni, anche ammesso che sia deteriorata, ha certo ancora qualche diritto. Su, firmate la pace venendo questa sera a cena da noi...».
    Pons s'ingarbugliò in una risposta prolissa, e concluse facendo notare al cugino che quella sera doveva assistere al fidanzamento di un musicista della sua orchestra, che gettava il flauto alle ortiche per diventare banchiere.
    «Allora domani».
    «Cugino mio, la signora contessa Popinot mi ha fatto l'onore di invitarmi con una lettera di una tale amabilità...».
    «E allora dopodomani...», continuò il presidente.
    «Dopodomani, il socio del mio primo flauto, un tedesco, il signor Brunner, restituirà ai fidanzati la cortesia che oggi riceve da loro...».
    «Siete davvero gradito, se ci si contende in questo modo il piacere di avervi», disse il presidente. «Ebbene, domenica prossima! oggi a otto... come si dice a palazzo di Giustizia».
    «Ma saremo a cena da un certo signor Graff, il suocero del flauto...».
    «E allora sabato! Da qui ad allora avrete avuto il tempo di rassicurare una ragazza che ha già versato delle lacrime sulla sua colpa. Dio non chiede altro che il pentimento; sarete più esigente del Padre eterno con quella povera piccola Cécile?...».
    Pons, preso sul lato debole, ripiegò su formule più che cortesi, e riaccompagnò il presidente fino sul pianerottolo. Un'ora dopo, arrivarono a casa di quel buonuomo di Pons i domestici del presidente; si dimostrarono quello che sono i domestici, vili e ipocriti: piansero! Madeleine prese in disparte Pons e con decisione gli si gettò ai piedi.
    «È tutta colpa mia, signore... e il signore sa bene quanto io l'ami...», disse sciogliendosi in lacrime. «In tutta questa disgraziata vicenda, è con la vendetta che mi ribolliva nel sangue che il signore deve prendersela. Perderemo i nostri vitalizi!... Signore, ero pazza, e non vorrei che i miei compagni subissero le conseguenze della mia pazzia... Mi rendo conto, adesso, che non ero destinata ad essere del signore. Me ne sono fatta una ragione, sono stata troppo ambiziosa, ma vi amo ancora, signore. Per dieci anni non ho sognato altro che la gioia di rendervi felice e di aver cura della vostra casa. Che bel destino!... Oh, se il signore sapesse quanto l'amo! Ma il signore deve essersene accorto per tutte le mie cattiverie. Se morissi domani, cosa si troverebbe?... un testamento in vostro favore, signore... sì, signore, nel mio baule, sotto i miei gioielli!».
    Toccando questa corda, Madeleine consegnò il vecchio scapolo ai sublimi piaceri dell'amor proprio che una passione suscitata da noi stessi, anche se sgradevole, farà sempre nascere. Dopo aver perdonato nobilmente Madeleine, Pons accolse la resa di tutti gli altri, dicendo loro che avrebbe parlato alla cugina presidentessa per ottenere che tutti rimanessero al suo servizio. Con ineffabile piacere, Pons si vide ristabilito in tutti i suoi godimenti abituali, senza aver commesso alcun atto di viltà. Erano stati gli altri a venire da lui, quindi la dignità del suo carattere
ci guadagnava; ma, descrivendo il suo trionfo all'amico Schmucke, ebbe il dolore di vederlo triste e turbato da dubbi inespressi. Tuttavia, alla vista del rapido cambiamento prodotto nella fisionomia di Pons, il buon tedesco finì per rallegrarsi, sacrificando la felicità che aveva gustato nell'aver avuto tutto per sé, per circa quattro mesi, il suo amico. Le malattie morali hanno su quelle fisiche un vantaggio immenso: guariscono immediatamente appena viene soddisfatto il desiderio che le genera, così come nascono dalla privazione: quella mattina Pons fu un altro uomo. Il vecchio triste, moribondo, fece posto al Pons soddisfatto che aveva appena portato alla presidentessa il ventaglio della marchesa Pompadour. Ma Schmucke precipitò in profondi pensieri su quel fenomeno che non riusciva a comprendere perché il vero stoicismo non potrà mai spiegarsi la cortigianeria francese. Pons era un vero francese dell'Impero, nel quale la galanteria dell'ultimo secolo si univa alla devozione per la donna, tanto celebrata nelle romanze come Partant pour la Syrie ecc. Schmucke seppellì il dolore nel cuore, sotto i fiori della sua filosofia tedesca; ma in otto giorni diventò giallo, e la Cibot dovette usare dei sotterfugi per farlo visitare dal medico di quartiere. Il medico sospettò un ittero, e lasciò la Cibot folgorata da questo termine dotto che significa itterizia.
    Forse per la prima volta, i due amici andarono insieme a pranzo fuori; ma per Schmucke era come fare una gita in Germania. Infatti Johann Graff, il padrone dell'Hôtel du Rhin, e sua figlia Émilie; Wolfgang Graff, il sarto, e sua moglie; Fritz Brunner e Wilhelm Schwab, erano tutti tedeschi. Pons e il notaio erano gli unici francesi invitati al banchetto. I sarti, che possedevano un magnifico palazzo in rue de Richelieu, tra la rue Neuve-des-PetitsChamps e la rue Villedot, avevano allevato in casa la nipote, per la quale il padre temeva, a ragione, il contatto con la gente di ogni tipo che frequenta un albergo. Questi degni sarti, che amavano la nipote come se fosse una loro figlia, avevano messo a disposizione degli sposi il pianterreno. Lì doveva insediarsi la Banca Brunner, Schwab e C.
Poiché il pianterreno era stato sistemato da appena un mese, tempo per realizzare l'acquisizione dell'eredità di Brunner, autore di tutta questa felicità, l'appartamento era stato lussuosamente rinnovato e ammobiliato dal famoso sarto. Gli uffici della banca erano stati allestiti nell'ala che collegava una magnifica casa d'affitto costruita sulla via all'antico palazzo situato tra il cortile e il giardino.

XXI • QUANTO COSTA UNA MOGLIE

    Mentre andavano dalla rue de Normandie alla rue de Richelieu, Pons si fece raccontare dal distratto Schmucke i dettagli di questa nuova storia del figliol prodigo, per favorire il quale la Morte aveva ucciso l'albergatore grasso. Pons, appena riconciliato con i suoi parenti più vicini, fu subito preso dal desiderio di far sposare Fritz Brunner con Cécile de Marville. Il caso volle che il notaio dei fratelli Graff fosse proprio il genero e successore di Cardot, ex praticante dello studio, dal quale Pons andava spesso a cena.
    «Oh! come va, signor Berthier?», disse il vecchio musicista tendendo la mano al suo ex anfitrione.
    «Ma perché non ci fate più il piacere di venire a cena da noi?», chiese il notaio. «Mia moglie era in pensiero. Poi vi abbiamo visto alla prima della Fiancée du Diable e la nostra inquietudine è diventata curiosità».
    «I vecchi sono suscettibili», rispose il buonuomo, «hanno il torto di essere in ritardo di un secolo; ma che farci?... è già molto rappresentarne uno, e non possono essere di quello che li vede morire».
    «Ah!», disse il notaio con aria arguta, « non si può vivere in due secoli contemporaneamente».
    «A proposito», disse il buonuomo prendendo in disparte il giovane notaio, «perché non trovate marito a mia cugina Cécile de Marville?».
    «Ah! perché?...», continuò il notaio. «In questo secolo in cui il lusso è entrato perfino nelle portinerie, i giovani esitano a unire la loro sorte a quella della figlia di un presidente della corte reale di Parigi quando ha una dote di soli centomila franchi. Non si conosce ancora una donna che non costi al marito più di tremila franchi l'anno, nella classe alla quale apparterrà il marito della signorina de Marville. Gli interessi di una simile dote possono appena pagare le spese di vestiario di una futura sposa. A uno scapolo che abbia dai quindici ai ventimila franchi di rendita, alloggiato in un grazioso mezzanino, nessuno chiede di strafare; può avere un solo domestico, spende ogni sua rendita in divertimenti, non ha altro decoro da mantenere tranne quello di cui s'incarica il suo sarto. Vezzeggiato da ogni madre previdente, è uno dei re della fashion parigina. Al contrario, una donna esige una casa attrezzata, una carrozza; se va a teatro vuole un palco, mentre allo scapolo basta una sedia; insomma, consuma tutta la ricchezza che lo scapolo si godeva per conto proprio. Supponete che due sposi abbiano una rendita di trentamila franchi: nella società attuale, lo scapolo ricco diventa un povero diavolo che deve stare attento al costo di una gita a Chantilly. Aggiungete dei figli... ed ecco l'indigenza. Poiché il signore e la signora de Marville sono appena sulla cinquantina, le speranze hanno una scadenza di quindici o venti anni; nessuno scapolo se la sente di tenerle così a lungo nel portafoglio; e il calcolo corrompe talmente bene il cuore degli sventati che danzano la polka da Mabille con le donnine allegre, che ogni giovanotto in età di matrimonio studia i due aspetti del problema senza alcun bisogno delle nostre spiegazioni. Detto tra noi, la signorina de Marville lascia ai suoi pretendenti il cuore assai tranquillo perché la testa resti al suo posto, e possono quindi dedicarsi a queste riflessioni antimatrimoniali. Se qualche giovanotto, assennato e provvisto di una rendita di ventimila franchi, traccia in petto un programma matrimoniale per soddisfare dei pensieri ambiziosi, la signorina de Marville è poco adatta...».
    «E perché?», chiese stupito il musicista.
    «Ah!...», rispose il notaio, «oggi quasi tutti questi giovani, anche quando sono brutti come noi due, mio caro Pons, hanno l'impertinenza di esigere una dote di seicentomila franchi, e delle signorine di ottima famiglia, molto belle, molto intelligenti, ottimamente educate, senza difetti, perfette».
    «Dunque per mia cugina sarà difficile sposarsi?».
    «Resterà zitella fino a quando il padre e la madre non si decideranno a darle in dote le proprietà Marville; se l'avessero voluto, sarebbe già la viscontessa Popinot... Ma ecco il signor Brunner; dobbiamo leggere l'atto costitutivo della società Brunner e il contratto di matrimonio».
    Dopo le presentazioni e i convenevoli di rito, Pons, cui era stato chiesto dai parenti di sottoscrivere il contratto, ascoltò la lettura degli atti, e verso le cinque e mezzo si passò in sala da pranzo. La cena fu sontuosa, come quelle offerte dai negozianti quando fanno una tregua nei loro affari, e attestava le relazioni di Graff, il padrone dell'Hôtel du Rhin, con i primi fornitori di Parigi. Mai Pons e Schmucke avevano ricevuto un trattamento simile. Ci furono portate à ravir la pensée!... tagliatelle di una delicatezza inedita, eperlani fritti in modo incomparabile, un ferra del lago di Ginevra in vera salsa ginevrina, e una crema per plumpudding da stupire il famoso dottore che, dicono, l'ha inventata a Londra. Si alzarono da tavola alle dieci di sera. La quantità di vino del Reno e di vini francesi bevuta durante la cena farebbe stupire dei dandy, perché non si può immaginare quanto liquido riescano a ingerire i tedeschi restando calmi e tranquilli. Bisogna mangiare in Germania e vedere le bottiglie che si susseguono le une alle altre come l'onda segue l'onda su una bella spiaggia del Mediterraneo, scomparendo come se i tedeschi avessero lo stesso potere assorbente della spugna e della sabbia; ma armoniosamente, senza il fracasso francese; il discorso si mantiene assennato come le chiacchiere improvvisate di un usuraio; i volti diventano rossi come quelli delle fidanzate dipinte negli affreschi di Cornelius o di Schnorr, cioè impercettibilmente, e i ricordi si diffondono come il fumo della pipa, lentamente.
    Verso le dieci e mezzo, Pons e Schmucke si trovarono su una panca, nel giardino, ognuno a fianco dell'ex flauto, senza sapere bene chi li avesse spinti a raccontarsi i loro caratteri, le loro opinioni e le loro disavventure. In mezzo a quel pot-pourri di confidenze, Wilhelm parlò del suo desiderio di far sposare Fritz, ma con una forza e un'eloquenza un po' ebbre.
    «Che ne direste di questo programma per il vostro amico Fritz...», disse Pons all'orecchio di Wilhelm, «una giovane incantevole, ragionevole, ventiquattro anni, di famiglia assolutamente distinta, il padre in uno dei ruoli più elevati della magistratura, centomila franchi di dote e speranze per un milione?».
    «Aspettate!», rispose Schwab, «vado subito a parlarne a Fritz».
    E i due musicisti videro Brunner e l'amico passeggiare per il giardino, passare e ripassare sotto i loro occhi, ascoltarsi a vicenda. Pons, che aveva la testa un po' pesante e, senza essere ubriaco, aveva tanta leggerezza nelle idee quanta pesantezza nel loro involucro, osservò Fritz Brunner attraverso quella nube diafana che provoca il vino, e volle vedere in quella fisionomia delle aspirazioni alla felicità familiare. Schwab presentò subito al signor Pons il suo amico, il suo socio, che ringraziò molto il vecchio per le sue attenzioni. Iniziò una conversazione, durante la quale Schmucke e Pons, questi due celibi, esaltarono il matrimonio e si permisero, senza malizia, questo gioco di parole: «che significava fine dell'uomo». Quando furono serviti i gelati, il tè, il ponce e i dolci nel futuro appartamento dei futuri sposi, l'ilarità esplose tra quegli onorevoli negozianti, quasi tutti ubriachi, non appena vennero a sapere che l'accomandante della banca stava per imitare il suo socio.
    Schmucke e Pons, alle due del mattino, rientrarono a casa attraverso i boulevards, filosofando in maniera dissennata sull'arrangiamento musicale delle cose in questo basso mondo.


XXII • DOVE PONS PORTA ALLA PRESIDENTESSA UN OGGETTO D'ARTE UN PO' PIÙ PREZIOSO DI UN VENTAGLIO

    L'indomani, Pons andò dalla cugina presidentessa, in preda alla gioia profonda di rendere il bene per il male. Povera cara anima bella!... Certamente raggiunse il sublime, e tutti ne converranno, visto che viviamo in un secolo in cui si dà il premio Montyon a chi fa il proprio dovere, secondo i precetti del Vangelo.
    «Ah! si sentiranno enormemente in debito con il loro scroccone», diceva tra sé, svoltando in rue de Choiseul.
    Un uomo meno immerso nella sua contentezza di quanto non lo fosse Pons, un uomo di mondo, un uomo diffidente, rientrando in quella casa avrebbe osservato la presidentessa e sua figlia; ma quel povero musicista era un bambino, un artista pieno di ingenuità, che credeva solo al bene morale come credeva al bello nelle arti; rimase incantato dei complimenti che gli fecero Cécile e la presidentessa. Il buonuomo, che da dodici anni vedeva rappresentati sotto i suoi occhi il vaudeville, il dramma e la commedia, non riconobbe le smorfie della commedia sociale, che non poteva neppure concepire. Chi frequenta la società parigina e ha imparato a riconoscere l'aridità di spirito e di corpo della presidentessa, smaniosa soltanto di onori e irosa per una virtù ostentata, la sua falsa devozione e l'alterigia di una padrona abituata a comandare in casa propria, può immaginare quale odio nascosto quella donna provasse per il cugino del marito, dopo essere stata costretta a riconoscere il proprio torto. Tutte le moine della presidentessa e della figlia furono dunque accompagnate da un formidabile desiderio di vendetta, evidentemente da rinviare al momento opportuno. Per la prima volta in vita sua, Amélie aveva avuto torto agli occhi del marito, che dominava; eppure doveva mostrarsi affettuosa con l'autore della sua sconfitta!... Hanno qualche analogia con questa situazione certe ipocrisie che durano anni nel sacro collegio dei cardinali o nei capitoli dei capi di ordini religiosi. Alle tre, quando il presidente rientrò dal palazzo di Giustizia, Pons aveva appena finito di raccontare i casi meravigliosi della sua conoscenza con il signor Fritz Brunner, e la cena del giorno prima, che era finita al mattino, e tutto quanto riguardava il suddetto Fritz Brunner. Cécile era andata subito al sodo, chiedendo come vestiva Fritz Brunner, quanto era alto, che aspetto aveva, il colore degli occhi e dei capelli; dopo essersi fatta l'idea che Fritz aveva un'aria distinta, ammirò la generosità del carattere.
    «Donare cinquecentomila franchi al suo compagno di sventura! Oh, mamma, avrò carrozza e palco agli Italiens...».
    E Cécile divenne quasi graziosa mentre pensava alla realizzazione di tutte le pretese di sua madre per lei e delle speranze di cui disperava.
    Quanto alla presidentessa, disse queste sole parole:
    «Cara bambina mia, in quindici giorni puoi essere sposata».
    Tutte le madri chiamano «bambine» le figlie di ventitré anni!
    «Tuttavia», disse il presidente, «prima bisogna prendere informazioni; non darò mai mia figlia al primo venuto...».
    «Quanto alle informazioni, gli atti sono stati stipulati da Berthier», rispose il vecchio artista. «Quanto al giovane, cara cugina, sapete quello che mi avete detto! Ebbene, ha quarant'anni passati ed è mezzo calvo. Nella famiglia vuol trovare un porto contro gli uragani, e io non l'ho certo distolto da quest'idea; ogni gusto è naturale...».
    «Ragione di più per vedere il signor Fritz Brunner», replicò il presidente. «Non voglio dare mia figlia a un valetudinario».
    «Ebbene, cugina, giudicherete voi la mia proposta, entro cinque giorni se volete; secondo le vostre idee un colloquio dovrebbe bastare».
    Cécile e la presidentessa fecero un gesto di viva soddisfazione.
    «Fritz, che è un esperto d'arte, mi ha pregato di lasciargli vedere tutta la mia piccola collezione», continuò il cugino Pons. «Voi non avete mai visto i miei quadri, le mie curiosità; venite», disse alle due parenti, «sarete là come due signore portate dall'amico Schmucke, e così conoscerete il futuro sposo, senza compromettervi. Fritz può ignorare perfettamente chi siete».
    «Benissimo!», esclamò il presidente.
    Si può immaginare quali riguardi furono usati al parassita un tempo tanto disprezzato. Il pover'uomo fu, quel giorno, il cugino della presidentessa. La felice madre, annegando il suo odio nei flutti della gioia, trovò degli sguardi, dei sorrisi, delle parole che mandarono in estasi il buonuomo a causa del bene che faceva, e dell'avvenire che intravedeva. Non avrebbe forse trovato nelle case Brunner, Schwab e Graff delle cene simili a quella per la firma del contratto? Vedeva una vita di cuccagna e una sequela meravigliosa di piatti coperti, di sorprese gastronomiche e di vini squisiti!
    «Se il cugino Pons ci fa concludere un affare di questo genere», disse il presidente alla moglie quando Pons se ne fu andato, «dobbiamo costituire per lui una rendita equivalente ai suoi emolumenti di direttore d'orchestra».
    «Certamente», disse la presidentessa.
    Cécile fu incaricata, nel caso che la persona risultasse di suo gradimento, di far accettare al vecchio musicista quell'ignobile munificenza.
    Il giorno dopo, il presidente, desideroso di avere delle prove autentiche della ricchezza del signor Fritz Brunner, andò dal notaio. Berthier, preavvertito dalla presidentessa, aveva fatto venire il suo nuovo cliente, il banchiere Schwab, l'ex flauto. Abbagliato da una simile parentela (è risaputo quanto i tedeschi rispettino le distinzioni sociali! in Germania, una moglie è la signora generalessa, la signora consigliera, la signora avvocatessa), Schwab fu arrendevole come un collezionista che crede di raggirare un negoziante.
    «Innanzitutto», disse il padre di Cécile a Schwab, «poiché darò per contratto la proprietà di Marville a mia figlia, desidererei maritarla con il regime dotale. Il signor Brunner dovrebbe investire un milione in terreni per aumentare il possedimento di Marville, costituendo un immobile dotale che porrebbe l'avvenire di mia figlia e dei suoi figli al sicuro dagli imprevisti della banca».
    Berthier si accarezzò il mento pensando:
    «Ma bravo il presidente!».
    Schwab, dopo essersi fatto spiegare gli effetti del regime dotale, garantì per l'amico. Quella clausola realizzava il desiderio che aveva udito formulare da parte di Fritz, di trovare una soluzione che gli impedisse una volta per sempre di ricadere in miseria.
    «In questo momento si trovano in vendita fattorie e prati per un milione e duecentomila franchi», disse il presidente.
    «Un milione in azioni della Banca sarà sufficiente», disse Schwab, «a garantire il nostro conto in banca; Fritz non vuole investire più di due milioni negli affari; farà quello che chiedete, signor presidente».
    Il presidente fece quasi impazzire di gioia le sue due donne, comunicando loro queste notizie. Mai pesca tanto ricca si era mostrata talmente compiacente alla rete coniugale.
    «Sarai la signora Brunner de Marville», disse il padre alla figlia, «perché otterrò per tuo marito il permesso di aggiungere questo nome al suo; più tardi riceverà le lettere di naturalità. Se divento pari di Francia, mi succederà!».
    La presidentessa impiegò cinque giorni a preparare la figlia. Il giorno dell'incontro, vestì lei stessa Cécile, con le proprie mani la equipaggiò con la stessa cura che l'ammiraglio della flotta azzurra aveva messo nell'approntare il panfilo della regina d'Inghilterra quando partì per il suo viaggio in Germania.
    Da parte loro, Pons e Schwab pulirono, spolverarono il museo di Pons, l'appartamento, i mobili, con l'agilità con cui i mozzi lavano una nave ammiraglia. Non un grano di polvere nei legni intagliati. Gli ottoni risplendevano. I vetri lasciavano vedere nettamente le opere a pastello di Latour, di Greuze e di Liotard, l'illustre autore della Cioccolataia, miracolo di quella pittura, ahimè!, così passeggera. L'inimitabile smalto dei bronzi fiorentini riluceva cangiante. I vetri colorati splendevano nei loro colori delicati. Ogni cosa brillava nella sua forma e lanciava la sua frase all'anima, in quel concerto di capolavori organizzato da due musicisti, entrambi anche poeti.

XXIII • UN'IDEA TEDESCA

    Assai astute per evitare le difficoltà di un'entrata in scena, le donne arrivarono per prime perché volevano avere il vantaggio del terreno. Pons presentò l'amico Schmucke alle parenti, cui fece l'impressione di essere un idiota.Tutte prese dall'idea di un fidanzato quattro volte milionario, le due ignoranti prestarono un'attenzione mediocre alle spiegazioni artistiche del buon Pons. Guardavano con occhio indifferente gli smalti di Petitot allestiti su velluto rosso entro tre cornici meravigliose. I fiori di Van Huysum, di David di Heim, gli insetti di Abraham Mignon, i Van Eyck, gli Albrecht Dürer, i veri Cranach, il Giorgione, il Sebastiano del Piombo, Backhuyzen, Hobbema, Géricault, le rarità della pittura... niente suscitava la loro curiosità perché erano in attesa del sole che doveva illuminare tutte quelle ricchezze; tuttavia rimasero sorprese della bellezza di qualche gioiello etrusco e del valore reale delle tabacchiere. Stavano fingendo di estasiarsi davanti a dei bronzi fiorentini che tenevano in mano, quando la Cibot annunciò il signor Brunner! Non si voltarono affatto e approfittarono di un superbo specchio veneziano, in un'incredibile cornice di ebano intagliato, per esaminare la fenice dei pretendenti.
    Fritz, preavvertito da Wilhelm, aveva raccolto i pochi capelli che gli restavano in modo da coprire la calvizie; portava dei graziosi pantaloni di colore delicato anche se scuro, un elegantissimo gilet di seta dal taglio originale, una camicia di tela fatta a mano da una tessitrice di Frisia, con punti a giorno, una cravatta blu a righe bianche. La catena dell'orologio era di Florent e Chanor, come il pomo del bastone. Quanto all'abito, era stato tagliato personalmente da Graff nel tessuto migliore. Dei guanti di Svezia denotavano l'uomo che aveva già dissipato il patrimonio della madre. Si sarebbe potuto indovinare il piccolo coupé basso a due cavalli, del banchiere, vedendo luccicare gli stivali di vernice, se l'orecchio delle due donne non ne avesse già udito il rumore nella rue de Normandie.
    Quando il libertino di vent'anni è la crisalide di un banchiere, a quarant'anni libera un osservatore, tanto più acuto in quanto Brunner aveva capito quali vantaggi un tedesco può trarre dalla propria ingenuità. Quella mattina assunse l'aria sognante di un uomo che si trovi a dover scegliere tra la vita familiare e le dissolutezze della vita di scapolo. In un tedesco francesizzato, un tale atteggiamento sembrò a Cécile il massimo del romanticismo. Nel figlio dei Virlaz vide un Werther. Quale ragazza non si concede un romanzetto nella storia del suo matrimonio? Cécile si considerò la più felice delle donne quando Brunner, alla vista delle magnifiche opere raccolte in quarant'anni di paziente collezionismo, si entusiasmò, le apprezzò, per la prima volta, nel loro giusto valore, con grande soddisfazione di Pons.
    «È un poeta!», pensò la signorina de Marville, «ci vede dei milioni. Un poeta è un uomo che non calcola, che lascia la moglie padrona dei capitali, un uomo facile da guidare e che si tiene occupato con delle sciocchezze».
    Ogni riquadro delle due finestre della camera del buonuomo era un vetro di lavorazione svizzera, colorato; il più piccolo valeva mille franchi; Pons possedeva sedici di questi capolavori, oggi molto ricercati dagli intenditori. Nel 1815 questi vetri si vendevano dai sei ai dieci franchi. Il prezzo dei sessanta quadri che componevano quella divina collezione di puri capolavori, originali, autentici, poteva essere conosciuto soltanto nel clima acceso di un'asta. Intorno a ogni quadro sbocciava una cornice di valore immenso, e ce n'erano di tutti i tipi: la cornice veneziana con le sue grandi decorazioni simili a quelle dell'attuale vasellame inglese; la cornice romana, così singolare per quello che gli artisti chiamano il flafla; la cornice spagnola dai fogliami arditi; le cornici fiamminghe e tedesche con i loro ingenui personaggi; la cornice di tartaruga intarsiata di stagno, di rame, di madreperla, d'avorio; la cornice d'ebano, la cornice di bosso, la cornice di rame, la cornice Luigi XIII, Luigi XIV, Luigi XV e Luigi XVI... insomma una collezione unica dei più bei modelli. Pons, più fortunato dei conservatori dei Tesori di Dresda e di Vienna, possedeva una cornice del celebre Brustolon, il Michelangelo del legno.
    Naturalmente la signora de Marville chiese spiegazioni su ogni nuova curiosità. Si fece iniziare da Brunner alla conoscenza di quelle meraviglie. Fu talmente ingenua nelle sue esclamazioni, e sembrò talmente desiderosa di sapere da Fritz il valore, la bellezza di un dipinto, di una scultura, di un bronzo, che il tedesco si sgelò: il suo volto ringiovanì. Insomma, da una parte e dall'altra si andò più avanti di quanto non si chiedesse a questo primo incontro, sempre dovuto al caso.
    La visita durò tre ore. Brunner offrì il braccio a Cécile per scendere le scale. Mentre scendeva i gradini con sapiente lentezza, Cécile, che continuava a parlare di belle arti, rimase stupita dell'ammirazione del suo pretendente per i gingilli del cugino Pons.
    «Credete dunque che tutto quello che abbiamo visto valga molto denaro?».
    «Eh! signorina, se il vostro signor cugino volesse vendermi la sua collezione, gli darei subito ottocentomila franchi, e non farei un cattivo affare. Soltanto i sessanta quadri raggiungerebbero una cifra ancora più alta in un'asta».
    «Ci credo perché lo dite voi», rispose, «e dev'essere così, trattandosi delle cose di cui vi siete occupato di più».
    «Oh, signorina!...», esclamò Brunner. «Come sola risposta a questo rimprovero, chiederò alla vostra signora madre il permesso di farle visita, per avere il piacere di rivedervi».
    «È sveglia la mia bambina!», pensò la presidentessa, che stava alle calcagna della figlia. «Col più grande piacere, signore», disse a voce alta. «Spero che verrete, col nostro cugino Pons, a pranzo da noi; il signor presidente sarà felice di fare la vostra conoscenza... Grazie, cugino».
    Strinse il braccio di Pons in un modo così significativo che la frase sacramentale «Uniti per la vita e per la morte!» non sarebbe stata altrettanto forte. E abbracciò Pons con l'occhiata che accompagnò quel «Grazie, cugino».
    Dopo aver fatto salire la ragazza in carrozza, e quando il coupé scomparve nella rue Charlot, Brunner parlò di bric-à-brac con Pons, che parlava del matrimonio.
    «Insomma, per voi non ci sono difficoltà...», disse Pons.
    «Mah!», replicò Brunner. «La piccola è insignificante, la madre un po' artefatta... vedremo».
    «Con la prospettiva di un bel patrimonio...», fece osservare Pons. «Più di un milione...».
    «A lunedì!», lo interruppe il milionario. «Nel caso che decidiate di vendere la vostra collezione di quadri, offrirei volentieri da cinque a seicentomila franchi...».
    «Ah!», esclamò il buonuomo, che non credeva di essere così ricco, «non riuscirei a separarmi da ciò che mi rende felice... Potrei vendere la mia collezione solo a patto di tenerla con me fino alla morte».
    «Bene, vedremo...».
    «Ecco due affari in corso», si disse il collezionista, che pensava soltanto al matrimonio.
    Brunner salutò Pons e scomparve con il suo splendido equipaggio. Pons guardò allontanarsi il piccolo coupé senza fare attenzione a Rémonencq, che fumava la pipa sulla soglia della sua bottega.

XXIV • CASTELLI IN ARIA

    La sera stessa, la presidentessa de Marville andò a casa del suocero per consigliarsi con lui, e vi trovò la famiglia Popinot. Nel suo desiderio di soddisfare una piccola vendetta, decisamente naturale nel cuore delle madri quando non sono riuscite a catturare un figlio di famiglia, la signora de Marville fece capire che per Cécile si stava preparando un matrimonio eccezionale. «E con chi si sposa Cécile?», fu la domanda che corse su tutte le labbra. Allora, convinta di non tradire i suoi segreti, la presidentessa disse tante mezze parole, fece tante confidenze appena sussurrate, confermate del resto dalla signora Berthier, che il giorno dopo, nell'Empireo borghese nel quale Pons eseguiva le sue evoluzioni gastronomiche, ecco cosa si diceva:
    «Cécile de Marville si sposa con un giovane tedesco che farà il banchiere per umanità, dal momento che già possiede una ricchezza di quattro milioni; è un eroe da romanzo, un vero Werther, affascinante, generoso, uomo di mondo, che ha perso la testa per Cécile; un amore a prima vista, tanto più sicuro in quanto Cécile aveva come rivali tutte le madonne dipinte di Pons», ecc. ecc.
    Due giorni dopo, alcune persone andarono a complimentarsi con la presidentessa solo per sapere se quel prodigio accadeva davvero, e la presidentessa si impegnò in quelle mirabili variazioni sul tema, che le madri potranno consultare come una volta si consultava Il perfetto segretario:
    «Un matrimonio non è perfezionato», diceva alla signora de Chiffreville, «finché non si ritorna dal municipio e dalla chiesa, e noi siamo ancora ai preliminari; conto sulla vostra discrezione che non parliate delle nostre speranze...».
    «Siete veramente fortunata, signora presidentessa, è così difficile oggi concludere dei matrimoni...».
    «Che volete! è un caso; ma i matrimoni avvengono spesso in questo modo».
    «Dunque maritate Cécile?», chiedeva la signora Cardot.
    «Sì», rispondeva la presidentessa cogliendo la malizia di quel dunque. «Eravamo troppo esigenti, e ciò ritardava la sistemazione di Cécile. Ora abbiamo tutto: ricchezza, buona educazione, buon carattere, e un bell'uomo. Del resto, la mia cara bambina se lo meritava. Il signor Brunner è un giovane incantevole, molto distinto; ama il lusso, conosce la vita, ed è pazzo di Cécile che ama sinceramente; e Cécile lo accetta malgrado i suoi tre o quattro milioni... Non avevamo tutte queste pretese... ma il troppo non guasta... A farci decidere non è tanto la ricchezza quanto l'affetto ispirato da mia figlia», diceva la presidentessa alla signora Lebas. «Il signor Brunner ha talmente fretta che vuole sposarsi entro i più stretti termini di legge».
    «È uno straniero?...».
    «Sì, signora; ma confesso che sono molto contenta. No, non avrò un genero, avrò un figlio. Il signor Brunner è di una delicatezza veramente seducente. Non si può immaginare la sua insistenza per un matrimonio sotto regime dotale... Per le famiglie è una grande sicurezza. Acquisterà per un milione e duecentomila franchi dei terreni che un giorno saranno uniti alla proprietà di Marville».
    Il giorno dopo, altre variazioni sul tema. E allora il signor Brunner era un gran signore, e lo era in tutto; non badava a spese; e se il signore de Marville fosse riuscito ad ottenere le lettere patenti di naturalità, il genero sarebbe diventato pari di Francia. Non si conosceva la ricchezza del signor Brunner, ma aveva sicuramente i cavalli più belli e gli equipaggi più belli di Parigi, ecc.
    Il piacere che provavano i Camusot a rendere pubbliche le loro speranze la diceva lunga su quanto quel trionfo fosse insperato.
    Subito dopo l'incontro a casa del cugino Pons, il signor de Marville, spinto dalla moglie, convinse il ministro della giustizia, il primo presidente e il procuratore generale ad andare a cena da lui il giorno della presentazione della fenice dei generi. I tre grandi personaggi accettarono, anche se invitati con breve preavviso; ognuno di loro comprese bene il ruolo che il padre di famiglia gli chiedeva di rappresentare, e accettò con piacere. In Francia, si aiutano volentieri le madri di famiglia che pescano un genero ricco. Anche il conte e la contessa Popinot si prestarono a completare il lusso di quella giornata, nonostante che un simile invito sembrasse loro di cattivo gusto. In tutto erano undici persone. Il nonno di Cécile, il vecchio Camusot, e sua moglie non potevano mancare a quella riunione, che per la posizione dei convitati era destinata a impegnare definitivamente il signor Brunner, presentato - come si è visto - come uno dei più ricchi capitalisti della Germania, uomo di gusto (che amava la bambina), futuro rivale dei Nucingen, dei Keller, dei du Tillet, ecc.
    «È il nostro giorno», disse con studiata semplicità la presidentessa a colui che considerava suo genero mentre gli indicava i convitati, «ci sono solo gli intimi. Innanzitutto il padre di mio marito che, lo sapete, deve essere promosso pari di Francia; poi il signor conte e la signora contessa Popinot, il cui figlio non si è considerato sufficientemente ricco per Cécile, e tuttavia siamo rimasti buoni amici; il nostro ministro della giustizia, il nostro primo presidente, il nostro procuratore generale, infine i nostri amici... Dovremo cenare un po' tardi a causa del tribunale; le udienze non finiscono mai prima delle sei».
    Brunner rivolse a Pons uno sguardo significativo, e Pons si sfregò le mani come per dire: «Ecco i nostri amici, miei amici!...».
    La presidentessa, da donna abile quale era, ebbe qualcosa da dire in privato al cugino, in modo da lasciare soli per un momento Cécile e il suo Werther. Cécile si dette da fare a chiacchierare, e fece in modo che Fritz scorgesse un dizionario tedesco, una grammatica tedesca e un Goethe che aveva nascosti.
    «Ah! state imparando il tedesco?», chiese Brunner arrossendo.
    Solo i francesi inventano questo genere di trappole.
    «Oh!», rispose lei, «siete cattivo!... non sta bene, signore, frugare nei miei nascondigli. Voglio leggere Goethe nell'originale», aggiunse, «e sono due anni che studio il tedesco».
    «La grammatica dev'essere molto difficile da capire... non ci sono neppure dieci pagine tagliate», notò ingenuamente Brunner.
    Cécile, confusa, si voltò per non far vedere il suo rossore. Un tedesco non resiste a testimonianze di questo genere; Fritz prese per mano Cécile, la condusse tutta smarrita sotto il suo sguardo e la guardò come si guardano i fidanzati nei romanzi di August Lafontaine, di pudica memoria.
    «Siete adorabile!», disse Fritz.
    Cécile fece un gesto sbarazzino che significava: «E voi?... chi non vi amerebbe?».
    «Mamma, va bene!», bisbigliò all'orecchio della madre che rientrava con Pons.
    L'aspetto di una famiglia durante una serata simile è indescrivibile. Ognuno era contento di vedere una madre che metteva le mani su un buon partito per la figlia. Ci si felicitava, con parole a doppio senso e a doppio effetto, con Brunner che fingeva di non capire, con Cécile che capiva tutto, con la presidentessa che andava a caccia di complimenti. Tutto il sangue rimbombò negli orecchi di Pons, e gli sembrò di vedere accesi tutti i becchi a gas della ribalta del suo teatro, quando Cécile gli sussurrò, con le cautele più ingegnose, che il padre era intenzionato ad assicurargli una rendita vitalizia di milleduecento franchi, che il vecchio artista rifiutò fermamente, obiettando la rivelazione che Brunner gli aveva fatto a proposito della ricchezza della sua collezione.
    Il ministro, il primo ministro, il procuratore generale, i Popinot, tutte le persone che avevano degli impegni se ne andarono. Ben presto rimasero soltanto il vecchio Camusot e Cardot, l'ex notaio, col genero Berthier. Il buon Pons, considerandosi in famiglia, ringraziò in modo assai maldestro il presidente e la presidentessa per l'offerta di cui Cécile gli aveva appena parlato. Le persone di cuore sono fatte così: sono istintive. Brunner, che in quella rendita offerta vide una specie di percentuale sull'affare, ebbe un impulso di orgoglio israelita e assunse l'atteggiamento freddissimo del calcolatore.
    «La mia collezione, o il denaro che renderà, apparterrà sempre alla nostra famiglia, sia che la venda al nostro amico Brunner, sia che la tenga per me», diceva Pons facendo sapere alla famiglia assai stupefatta che era in possesso di un grande valore.
    Brunner osservò il mutamento che si verificò in tutti quegli ignoranti, a favore di un uomo che passava da una condizione di indigenza alla ricchezza, come aveva già notato le premure della madre e del padre per la loro Cécile, idolo della casa, e allora si divertì a provocare le sorprese e le esclamazioni di quei degni borghesi.
    «Ho detto alla signorina che i quadri del signor Pons per me valgono quella somma; ma, ai prezzi raggiunti dagli oggetti d'arte unici, nessuno può prevedere il valore che la collezione raggiungerebbe in un'asta pubblica. I sessanta quadri potrebbero raggiungere il milione; ne ho visti molti salire fino a cinquecentomila franchi».
    «Fortunato il vostro erede!», disse l'ex notaio a Pons.
    «Il mio erede è mia cugina Cécile», replicò il buonuomo insistendo sulla parentela.
    Un moto di ammirazione si riversò sul musicista.
    «Sarà un'erede molto ricca», disse ridendo Cardot, che se ne andò.
    Furono lasciati soli Camusot padre, il presidente, la presidentessa, Cécile, Brunner, Berthier e Pons; si credeva che stesse per essere chiesta ufficialmente la mano di Cécile. E infatti, appena queste persone furono sole, Brunner cominciò con una domanda che ai parenti sembrò di buon augurio.
    «Mi è sembrato di capire», disse Brunner rivolgendosi alla presidentessa, «che la signorina è figlia unica...».
    «Certamente», rispose lei con orgoglio.
    «Non troverete difficoltà con nessuno», aggiunse il buon Pons per spingere Brunner a fare la sua richiesta.
    Brunner diventò sospettoso, e un fatale silenzio instaurò un clima di strana freddezza. Sembrava che la presidentessa avesse confessato che la sua bambina era epilettica. Il presidente, ritenendo opportuno che la figlia non fosse presente, fece un cenno a Cécile, che capì e uscì. Brunner rimase in silenzio. Si guardarono. La situazione divenne imbarazzante. Il vecchio Camusot, uomo di grande esperienza, condusse il tedesco nella camera della presidentessa col pretesto di mostrargli il ventaglio trovato da Pons, intuendo che fosse insorta qualche difficoltà, e con un gesto chiese a suo figlio, alla nuora e a Pons di lasciarlo solo col futuro sposo.
    «Ecco il capolavoro!», disse il vecchio negoziante di seterie mostrando il ventaglio.
    «Vale mille franchi», rispose Brunner dopo averlo esaminato.
    «Ma non eravate venuto», chiese il futuro pari di Francia, «per chiedere la mano di mia nipote?».
    «Sì, signore», disse Brunner, «e vi prego di credere che nessuna unione potrebbe essere più lusinghiera di questa. Non troverò mai una giovane più bella, più amabile, che mi si addica meglio della signorina Cécile. Ma...».
    «Ah! niente ma», disse il vecchio Camusot, «vediamo subito cosa significano i vostri ma, caro signore...».
    «Signore», proseguì Brunner con tono grave, «sono felice che non ci siamo impegnati reciprocamente, perché la qualità di figlia unica, così preziosa per tutti tranne che per me, qualità che io ignoravo, credetemi, costituisce un ostacolo assoluto...».
    «Ma come, signore», disse il vecchio stupefatto, «considerate negativo quello che è un immenso vantaggio? La vostra condotta è davvero singolare, e vorrei proprio conoscerne le ragioni».
    «Signore», rispose con flemma il tedesco, «sono venuto qui stasera con l'intenzione di chiedere al signor presidente la mano di sua figlia. Volevo costruire un futuro brillante per la signorina Cécile, offrendole tutto quello che avesse voluto accettare della mia ricchezza; ma una figlia unica è una ragazza abituata dall'indulgenza dei genitori a fare quello che vuole, e non sa neppure cosa sia una contrarietà. Accade qui come in molte famiglie, dove ho potuto studiare il culto per queste specie di divinità: non solo vostra nipote è l'idolo della casa, ma per di più la signora presidentessa porta i.... sapete benissimo che cosa! Signore, ho visto la casa di mio padre diventare un inferno per questa ragione. La mia matrigna, causa di tutte le mie disgrazie, figlia unica, adorata, la più incantevole delle fidanzate, è diventata l'incarnazione di un diavolo. Sicuramente la signorina Cécile sarà un'eccezione alla mia teoria; ma io non sono più un ragazzo, ho quarantasei anni, e la differenza tra le nostre età comporta difficoltà che non mi permettono di rendere felice una ragazza abituata ad essere sempre assecondata dalla signora presidentessa, e che la signora presidentessa ascolta come un oracolo. Con quale diritto potrei pretendere che la signorina Cécile cambiasse idee e abitudini? Invece di un padre e di una madre compiacenti a ogni suo capriccio, incontrerebbe l'egoismo di un quarantenne; qualora lei resistesse, sarebbe il quarantenne ad essere sconfitto. Agisco dunque da uomo onesto, e mi ritiro. Del resto, desidero essere io l'unico sacrificato, se fosse necessario spiegare per quale ragione stasera mi sia limitato a fare una visita...».
    «Se sono queste le vostre ragioni, signore», disse il futuro pari di Francia, «per quanto singolari sono plausibili...».
    «Signore, non mettete in dubbio la mia sincerità», lo interruppe vivacemente Brunner. «Se conoscete una povera ragazza, di famiglia numerosa, bene educata, senza mezzi, come se ne trovano tante in Francia, e con un carattere che offra garanzie, io la sposo».
    Durante il silenzio che seguì questa dichiarazione, Fritz lasciò il nonno di Cécile, salutò cortesemente il presidente e la presidentessa, e uscì. Commento vivente del saluto del suo Werther, Cécile apparve, pallida come una moribonda; nascosta nel guardaroba della madre, aveva udito tutto.
    «Rifiutata!...», sussurrò all'orecchio della madre.
    «E perché?», chiese la presidentessa al suocero imbarazzato.
    «Col delizioso pretesto che le figlie uniche sono delle bambine viziate», rispose il vecchio, «e non ha tutti i torti», aggiunse cogliendo l'occasione per rimproverare la nuora, che lo infastidiva da vent'anni.
    «Mia figlia ne morirà! e l'avrete uccisa voi!...», disse la presidentessa a Pons sorreggendo la figlia, che ritenne simpatico giustificare queste parole lasciandosi cadere tra le braccia della madre.
    Il presidente e sua moglie adagiarono Cécile su una poltrona, dove lei finì di svenire. Il nonno suonò per chiamare i domestici.

XXV • PONS SEPOLTO SOTTO I CALCOLI

    «Ora riesco a vedere la trama ordita da questo signore!», disse la madre, furiosa, indicando il povero Pons.
    Pons si drizzò come se avesse sentito risuonare negli orecchi la tromba del giudizio universale.
    «Questo signore», continuò la presidentessa con gli occhi che erano diventate due fontane di bile verde, «ha voluto rispondere a uno scherzo innocente con un insulto. Chi potrà credere al buon senso di quel tedesco? O è complice di un'atroce vendetta o è pazzo. Spero, signor Pons, che in futuro ci risparmierete il dispiacere di vedervi ancora in una casa in cui avete cercato di portare la vergogna e il disonore».
    Pons, che era diventato una statua, teneva gli occhi fissi su una rosetta del tappeto e si girava i pollici.
    «Ebbene, siete ancora qui, mostro d'ingratitudine!...», gridò la presidentessa voltandosi. «Non saremo mai in casa, né il presidente né io, se mai questo signore si dovesse presentare!», disse ai domestici indicando Pons. «Jean, andate a chiamare il dottore. E voi, Madeleine, dell'acqua di corno di cervo!».
    Per la presidentessa le giustificazioni di Brunner non erano altro che un pretesto sotto il quale se ne nascondevano altre; ma il matrimonio saltava a maggior ragione. Con quella rapidità di pensiero tipica delle donne nei momenti importanti, la signora de Marville aveva trovato il solo modo di riparare allo scacco attribuendo a Pons una vendetta premeditata. Questa soluzione, infernale nei confronti di Pons, salvava l'onore della famiglia. Fedele al suo odio contro Pons, aveva trasformato in verità un semplice sospetto di donna. In generale le donne hanno una fede particolare, una propria morale: credono alla realtà di tutto ciò che risponde ai loro interessi e alle loro passioni. La presidentessa andò molto più in là: nel corso della serata riuscì a persuadere il presidente delle proprie congetture, e l'indomani il presidente era convinto della colpevolezza del cugino. Tutti troveranno orribile la condotta della presidentessa; ma in simili circostanze ogni madre imiterà la signora Camusot e preferirà sacrificare l'onore di un estraneo a quello della figlia. Cambieranno i mezzi, ma lo scopo rimarrà lo stesso.
    Il musicista scese in fretta le scale; ma camminò con passo lento sui boulevards fino al teatro dove entrò meccanicamente, e meccanicamente diresse l'orchestra. Durante gli intervalli, rispose in maniera talmente distratta a Schmucke, che Schmucke dissimulò la sua preoccupazione e pensò che Pons fosse impazzito. In una natura infantile come quella di Pons, la scena che si era appena svolta assumeva le proporzioni di una catastrofe... Risvegliare un odio spaventoso là dove aveva voluto portare la felicità, significava capovolgere totalmente l'esistenza. Negli occhi, nei gesti, nella voce della presidentessa aveva riconosciuto un'inimicizia mortale.
    Il giorno dopo, la signora Camusot de Marville prese una grande decisione, dettata del resto dalla situazione, e che fu condivisa dal presidente. Fu deciso di dare in dote a Cécile la proprietà di Marville, il palazzo della rue de Hanovre e centomila franchi. Nella mattinata la presidentessa andò a trovare la contessa Popinot, avendo capito che ad uno scacco simile bisognava rispondere con un matrimonio immediato. Raccontò della spaventosa vendetta e dell'orribile inganno tramati da Pons. Tutto sembrò credibile quando si venne a sapere che il pretesto della rottura era la condizione di figlia unica. Infine la presidentessa fece risplendere abilmente il vantaggio di chiamarsi Popinot de Marville e l'enormità della dote. Al prezzo di valutazione dei beni in Normandia, al due per cento, la proprietà valeva circa novecentomila franchi, e il palazzo della rue de Hanovre era stimato duecentocinquantamila franchi. Nessuna famiglia ragionevole poteva rifiutare una simile unione; così il conte Popinot e sua moglie accettarono; quindi, da persone interessate all'onore della famiglia con cui si legavano, promisero che avrebbero fatto la loro parte per spiegare la catastrofe del giorno prima.
    Poi, in casa dello stesso vecchio Camusot, nonno di Cécile, davanti alle stesse persone che vi si erano trovate qualche giorno prima e alle quali la presidentessa aveva cantato le sue litanie su Brunner, quella stessa presidentessa, che incuteva timore a chiunque, continuò a dare coraggiosamente le sue spiegazioni.
    «Certo oggi», diceva, «non sarebbero mai troppe le precauzioni da prendere quando si tratta di un matrimonio, e soprattutto si ha a che fare con degli stranieri».
    «E perché mai, signora?».
    «Cosa vi è successo?», chiese la signora Chiffreville.
    «Non sapete della nostra avventura con quel Brunner che aveva il coraggio di aspirare alla mano di Cécile?... È figlio di un bettoliere tedesco, nipote di un venditore di pelli di coniglio».
    «È mai possibile? Voi, così attenta!...», disse una signora.
    «Questi avventurieri sono talmente astuti! Ma abbiamo saputo tutto da Berthier. Questo tedesco ha per amico un povero diavolo che suona il flauto! Ha a che fare con un tale che ha una locanda in rue du Mail, con dei sarti... Siamo venuti a sapere che è sempre vissuto nel modo più dissoluto, e nessuna ricchezza può bastare a uno sciagurato che ha già fatto fuori quella della madre...».
    «La signorina vostra figlia sarebbe stata molto infelice!...», disse la signora Berthier.
    «E come vi era stato presentato?», chiese la vecchia signora Lebas.
    «È stata una vendetta del signor Pons; è stato lui a presentarci quel bel tipo per gettarci nel ridicolo... Questo Brunner, che vuol dire «Fontana» (ce ne avevano parlato come di un gran signore), è piuttosto malaticcio, calvo, i denti rovinati; mi è stato sufficiente vederlo una volta per diffidare di lui».
    «E quella grande ricchezza di cui mi parlavate?», domandò timidamente una giovane signora.
    «La sua ricchezza non è considerevole come dicono. I sarti, l'albergatore e lui, tutti hanno raschiato il fondo delle loro casse per fare una banca... Cosa vuol dire oggi aprire una banca? vuol dire la possibilità di rovinarsi. Una donna che si addormenta milionaria può svegliarsi ridotta soltanto al suo. Dalla sua prima parola, vedendolo la prima volta, ci siamo subito fatti la nostra opinione sul conto di quel signore, che non sa niente delle nostre usanze. Si vede dai guanti, dal gilè, che è un operaio, il figlio di un bettoliere tedesco, privo di nobili sentimenti, un bevitore di birra... e che fuma, signora, venticinque pipe al giorno! Cosa sarebbe accaduto alla mia povera Lili?... Ancora ne rabbrividisco. Dio ci ha salvati! D'altra parte quel signore non piaceva affatto a Cécile... Potevamo aspettarci un simile inganno da un parente, da un frequentatore assiduo della nostra casa, che da vent'anni viene a cena da noi due volte la settimana? che abbiamo coperto di favori, e che recitava così bene la commedia da nominare Cécile sua erede alla presenza del guardasigilli, del procuratore generale, del primo presidente?... Quel Brunner e il signor Pons erano d'accordo per dividersi dei milioni!... No, ve lo assicuro: tutte voi, signore mie, sareste rimaste vittime di quest'imbroglio d'artista!».
    In poche settimane le famiglie riunite dei Popinot, dei Camusot e dei loro amici ottennero nel loro ambiente un trionfo facile, perché nessuno prese le difese del miserabile Pons, del parassita, del furbastro, dell'avaro, del falso brav'uomo sepolto sotto il disprezzo, considerato una vipera che si era scaldata in seno alle famiglie, come un uomo di rara malvagità, un saltimbanco pericoloso che bisognava dimenticare.

XXVI • L'ULTIMO COLPO

    Un mese circa dopo il rifiuto del falso Werther, il povero Pons, uscito per la prima volta dal suo letto, dove era rimasto in preda a una febbre nervosa, passeggiava sui boulevards, al sole, appoggiato al braccio di Schmucke. Sul boulevard du Temple nessuno più rideva dei due schiaccianoci, alla vista dello stato miserevole dell'uno e della commovente premura dell'altro per l'amico convalescente. Giunti sul boulevard Poissonnière, Pons aveva ripreso un po' di colore, respirando quell'atmosfera dei boulevards in cui l'aria è tanto forte; infatti, dove la folla abbonda, il fluido è talmente vitale che a Roma è stata notata la mancanza di mala aria nell'infetto Ghetto dove pullulano gli ebrei. Forse agiva sul malato anche la vista di ciò che da sempre gli piaceva vedere, il grande spettacolo di Parigi. Davanti al Théâtre des Variétés, Pons si allontanò da Schmucke, al cui fianco aveva camminato fino a quel momento; infatti di tanto in tanto il convalescente lasciava l'amico per guardare le novità esposte nelle vetrine dei negozi. All'improvviso si trovò faccia a faccia con il conte Popinot, che salutò nel modo più rispettoso dal momento che l'ex ministro era uno degli uomini che Pons stimava e venerava di più.
    «Ah, signore», rispose con tono severo il pari di Francia, «non capisco proprio come abbiate così poco tatto da salutare una persona imparentata con la famiglia che avete tentato di coprire di vergogna e di ridicolo, per una di quelle vendette che solo gli artisti sanno inventare... Sappiate, signore, che da oggi in poi dobbiamo considerarci del tutto estranei. La signora contessa Popinot condivide l'indignazione che il vostro comportamento ha suscitato in tutto il nostro ambiente».
    L'ex ministro si allontanò, lasciando Pons fulminato. Le passioni, la giustizia, la politica, le grandi forze sociali non si preoccupano mai di indagare la condizione dell'essere che vanno a colpire. L'uomo di Stato, spinto dall'interesse della famiglia di distruggere Pons, non si accorse neppure della debolezza fisica di quel temibile nemico.
    «Che hai, bofero amico mio?», esclamò Schmucke impallidendo quanto Pons.
    «Ho appena ricevuto un'altra pugnalata al cuore», rispose il buonuomo appoggiandosi al braccio di Schmucke. «Evidentemente soltanto il Signore ha il diritto di fare del bene; ecco perché tutti coloro che si immischiano nelle sue faccende vengono così crudelmente puniti».
    Questo sarcasmo d'artista fu uno sforzo supremo di quella creatura eccellente per dissolvere i segni della paura sul volto dell'amico.
    «Lo credo anch'io», si limitò a rispondere Schmucke.
    Ma tutto ciò rimase inspiegabile per Pons, al quale né i Camusot né i Popinot avevano inviato la partecipazione di nozze di Cécile. Sul boulevard des Italiens, Pons vide venirgli incontro il signor Cardot. Messo in guardia dall'allocuzione del pari di Francia, Pons si guardò bene dal fermare questo personaggio a casa del quale, nell'ultimo anno, era andato a cena ogni quindici giorni, e si limitò a salutarlo; ma il sindaco, il deputato di Parigi, guardò Pons con aria indignata, senza restituirgli il saluto.
    «Va' un po' a chiedergli cos'hanno tutti contro di me», disse il buonuomo a Schmucke, che conosceva in ogni dettaglio la catastrofe capitata a Pons.
    «Sighnore», disse finemente Schmucke a Cardot, «il mio amico Bons è appena uscito da una brutta malattia, e senza dubbio non l'avete riconosciuto».
    «L'ho riconosciuto perfettamente».
    «Ma cos'avete da rimproverargli?».
    «Avete per amico un mostro d'ingratitudine, un uomo che, se è ancora vivo, è perché, come dice il proverbio, l'erba cattiva cresce nonostante tutto. Fa bene la società a diffidare degli artisti; sono maligni e cattivi come le scimmie. Il vostro amico ha cercato di disonorare la sua stessa famiglia, di compromettere la reputazione di una ragazza per vendicarsi di uno scherzo innocente. Non voglio più avere alcun rapporto con lui; cercherò di dimenticare che l'ho conosciuto, che esiste. Questi sentimenti, signore, sono quelli di tutte le persone della mia famiglia, della sua, e di quanti facevano al signor Pons l'onore di riceverlo...».
    «Ma sighnore, voi siete un uomo ragionevole; se me lo permettete posso spiegarvi la faccenda...».
    «Restategli pure amico, se ne avete la forza; siete libero di farlo, signore», replicò Cardot; «ma non è il caso che continuiate; e credo di dovervi avvertire che coinvolgerò nella stessa riprovazione coloro che tenteranno di giustificarlo, di difenderlo».
    «Di giustificarlo?».
    «Sì, perché la sua condotta è ingiustificabile, e inqualificabile».
    Detto questo, il deputato della Senna continuò per la sua strada senza voler ascoltare una sillaba di più.
    «Ho già contro di me i due poteri dello Stato», disse sorridendo il povero Pons quando Schmucke ebbe finito di riferirgli quelle furiose imprecazioni.
    «Tutto è contro di noi», replicò addolorato Schmucke. «Andiamocene via, per non incontrare altre bestie».
    Era la prima volta nella sua vita, vera vita di pecora, che Schmucke pronunciava parole simili. Mai la sua beatitudine quasi divina era stata turbata; avrebbe sorriso ingenuamente a ogni disgrazia che potesse capitargli; ma veder maltrattare il suo sublime Pons, quell'Aristide sconosciuto, quel genio rassegnato, quell'anima senza fiele, quel tesoro di bontà, quell'oro puro!... provava l'indignazione di Alceste, e chiamava bestie gli anfitrioni di Pons! In un carattere tanto mite, questa reazione equivaleva a tutti i furori di Orlando. Con saggia previsione, Schmucke fece ritornare Pons verso il boulevard du Temple; e Pons si lasciò condurre, poiché il malato si trovava nella condizione di quei lottatori che non contano più i colpi. Il caso volle che l'intera società fosse contro il povero musicista. La valanga che stava per investirlo comprendeva ogni cosa: la Camera dei pari, la Camera dei deputati, la famiglia, gli stranieri, i forti, i deboli, gli innocenti!
    Sul boulevard Poissonnière, tornando a casa, Pons vide venirgli incontro la figlia del signor Cardot, una giovane signora che era stata duramente provata dalle sventure, e ciò l'aveva resa indulgente. Responsabile di una colpa tenuta segreta, si era fatta schiava del marito. Tra tutte le padrone delle case dove cenava, la signora Berthier era l'unica che Pons chiamava per nome; la chiamava «Félicie!», e talvolta credeva che lei lo comprendesse. Quella dolce creatura sembrò contrariata dall'incontro con il cugino Pons; perché, malgrado l'assenza di un legame di parentela con la famiglia della seconda moglie di suo cugino, il vecchio Camusot, Pons era trattato da cugino. Ma, non potendo evitarlo, Félicie si fermò davanti al moribondo.
    «Non vi credevo cattivo, cugino; ma, se di tutto quello che sento dire di voi, un quarto soltanto è vero, siete un uomo veramente falso... Oh! non giustificatevi», aggiunse con tono vivace, a un gesto di Pons, «è inutile per due ragioni: la prima è che io non ho il diritto di accusare, né di giudicare, né di condannare nessuno, sapendo per mia esperienza che coloro che sembrano avere i torti maggiori possono avere delle giustificazioni; la seconda è che le vostre motivazioni non servirebbero a niente. Il signor Berthier, che ha stipulato il contratto tra la signorina de Marville e il visconte Popinot, è talmente irritato con voi che se venisse a sapere che vi ho rivolto la parola, che vi ho parlato sia pure per l'ultima volta, mi sgriderebbe. Tutti sono contro di voi».
    «Lo vedo, signora!», rispose con voce commossa il povero musicista, che salutò rispettosamente la moglie del notaio.
    E penosamente riprese il suo cammino verso la rue de Normandie appoggiandosi al braccio di Schmucke con una pesantezza che rivelò al vecchio tedesco un cedimento fisico combattuto coraggiosamente. Quel terzo incontro fu come il verdetto pronunciato dall'agnello che giace ai piedi di Dio; il corruccio di quest'angelo dei poveri, il simbolo dei popoli, è l'ultima parola del cielo. I due amici giunsero a casa senza aver scambiato una parola. In certe circostanze della vita, è sufficiente sentire la presenza di un amico. La consolazione con le parole irrita la piaga, ne rivela la profondità. Il vecchio pianista aveva, come vedete, il genio dell'amicizia, la delicatezza di chi, avendo sofferto molto, sa come trattare la sofferenza.
    Quella passeggiata doveva essere l'ultima del buon Pons. Il malato passò da una malattia all'altra. Essendo di temperamento sanguigno-bilioso, la bile si riversò nel sangue e provocò una violenta epatite. Poiché le due malattie successive erano le sole che avesse mai avuto, non conosceva nessun medico. Allora la sensibile e devota Cibot ebbe l'eccellente idea, perfino materna, di chiamare il medico del quartiere.

XXVII • IL DISPIACERE TRASFORMATO IN ITTERIZIA

    A Parigi, in ogni quartiere, c'è un medico il cui nome e la cui abitazione sono noti soltanto alla classe inferiore, ai piccoli borghesi, ai portieri, e che perciò è chiamato il medico del quartiere. Questo medico, che si occupa di parti e pratica i salassi, corrisponde, nel campo della medicina, al domestico tuttofare dei «Piccoli annunci». Costretto ad essere buono con i poveri, assai esperto per una lunga pratica, è generalmente amato. Il dottor Poulain, che la Cibot aveva condotto dal nostro malato, e che Schmucke aveva riconosciuto, ascoltò senza prestarvi attenzione le doglianze del vecchio musicista che, durante tutta la notte, si era grattato la pelle diventata completamente insensibile. Gli occhi cerchiati di giallo erano un ulteriore sintomo dell'itterizia.
    «Avete avuto, negli ultimi due giorni, qualche forte dispiacere», disse il dottore al malato.
    «Ahimè, sì», rispose Pons.
    «Avete la malattia che stava per venire al signore», disse indicando Schmucke, «l'itterizia; ma non sarà niente», aggiunse il dottor Poulain scrivendo una ricetta.
    Malgrado quest'ultima parola consolante, il dottore aveva rivolto al malato uno di quegli sguardi ippocratici in cui la sentenza di morte, anche se nascosta da una commiserazione di circostanza, è sempre intuita da occhi interessati a conoscere la verità. Così la Cibot, che affondò negli occhi del dottore uno sguardo da spia, non si fece ingannare né dal tono della frase né dalla fisionomia ipocrita del dottor Poulain, e lo seguì mentre usciva.
    «Credete davvero che non sia niente?», chiese la Cibot al dottore sul pianerottolo.
    «Mia cara signora Cibot, il vostro signore è un uomo morto, non per il travaso di bile nel sangue, ma per la sua debolezza morale. Tuttavia, con molte cure, il vostro malato può ancora cavarsela; bisognerebbe farlo uscire di qui, farlo viaggiare...».
    «E con quali mezzi?...», disse la portiera. «Ha solo il suo stipendio, e il suo amico vive con una piccola rendita che gli è stata assicurata da certe signore assai caritatevoli alle quali, stando a quello che dice, avrebbe reso dei servizi. Sono due bambini, di cui mi occupo da nove anni».
    «Passo la mia vita a vedere gente che muore, non per le loro malattie ma per quella grande e incurabile ferita che è la mancanza di soldi. In quante soffitte, invece di farmi pagare la visita, sono costretto a lasciare cento soldi sul camino!...».
    «Povero caro signor Poulain!...», disse la Cibot. «Ah! se n' aveste le centomila lire di rendita che hanno certi taccagni del quartiere, dei veri diavoli scatenati, sareste il rappresentante di Dio in terra!».
    Il medico, che secondo il parere dei signori portieri della circoscrizione era riuscito a farsi una clientela che bastava appena a sopravvivere, alzò gli occhi al cielo e ringraziò la signora Cibot con una smorfia degna di Tartufo.
    «Dunque, caro signor Poulain, voi dite che, con molte cure, il nostro malato potrebbe cavarsela?».
    «Sì, se non è troppo indebolito nel morale dal dispiacere che ha provato».
    «Poveretto! chi ha potuto avere il coraggio di farlo star male? È n' un brav'uomo che sulla terra non ha eguali, tranne il suo amico, il signor Schmucke!... Voglio proprio sapere cosa gli hanno fatto! Poi ci penserò io a strigliare chi m'ha conciato così il mio signor Pons...».
    «Sentite, cara signora Cibot», disse il medico, che in quel momento si trovava sulla soglia del portone, «una delle principali caratteristiche della malattia del signor Pons è un'impazienza continua senza alcun motivo, e poiché non è verosimile che possa prendere un'infermiera sarete voi ad occuparvene. Allora...».
    «È del signor Pons che state parlando?», chiese il ferravecchio che stava fumando la pipa.
    E si alzò dal paracarro del portone per partecipare alla conversazione tra la portiera e il dottore.
    «Sì, papà Rémonencq!», rispose la Cibot all'alverniate.
    «Ebbene, è più ricco del signor Monistrol e di tutti i negozianti di curiosità... Sono abbastanza esperto del settore per dirvi che il brav'uomo possiede dei tesori!».
    «Ma va'... e io credevo che mi prendeste in giro l'altro giorno, quando vi ho fatto vedere tutte quelle anticaglie mentre i signori erano fuori...», disse la Cibot a Rémonencq.
    A Parigi, dove il selciato ha gli orecchi, e le porte hanno la lingua, e le sbarre delle finestre hanno gli occhi, niente è più pericoloso del parlare sui portoni. Le ultime parole che vi si dicono, e che stanno a una conversazione come un post-scriptum a una lettera, contengono delle indiscrezioni pericolose sia per chi le pronuncia, sia per chi le ascolta. Un solo esempio potrà bastare a corroborare quello presentato da questa storia.

XXVIII • L'ORO È UNA CHIMERA (PAROLE DI SCRIBE, MUSICA DI MEYERBEER, SCENE DI RÉMONENCQ)

    Un giorno, uno dei primi parrucchieri del tempo dell'Impero, epoca in cui gli uomini curavano molto la loro capigliatura, stava uscendo da una casa dove era andato a pettinare una bella signora, e dove serviva tutti i ricchi inquilini. Tra questi spiccava un vecchio scapolo armato di una governante che detestava gli eredi del suo padrone. Costui, gravemente malato, era stato appena sottoposto a un consulto dei medici più famosi, che ancora non venivano chiamati i principi della scienza. Usciti, per caso, nello stesso momento del parrucchiere, i medici, mentre si salutavano sulla soglia del portone, parlavano, con la scienza e la verità alla mano, come parlano tra loro quando la farsa del consulto è terminata. «È un uomo morto», disse il dottor Haudry. «Non gli resta un mese», aggiunse Desplein, «a meno che un miracolo...». Il parrucchiere udì queste parole. Come tutti i parrucchieri, se la intendeva con i domestici. Spinto da una mostruosa avidità, subito risale dallo scapolo e promette alla serva-padrona una bella ricompensa qualora riesca a convincere il padrone a destinare gran parte della sua ricchezza a un vitalizio. Il patrimonio del vecchio scapolo moribondo, di cinquantasei anni che valevano il doppio a causa delle sue campagne amorose, comprendeva una magnifica casa in rue de Richelieu, che allora valeva duecentocinquantamila franchi. Quella casa, oggetto della cupidigia del parrucchiere, gli fu venduta in cambio di una rendita vitalizia di trentamila franchi. Ciò accadeva nel 1806. Il parrucchiere, oggi a riposo, settantenne, nel 1846 paga ancora la rendita. Poiché il suddetto scapolo ha ormai ottantasei anni, è rimbambito e ha sposato la sua signora Evrard, può campare ancora a lungo. Così, poiché il parrucchiere ha dato circa trentamila franchi alla governante, l'immobile gli costa più di un milione; mentre la casa oggi vale da ottocento a novecentomila franchi.
    A imitazione di quel parrucchiere, l'alverniate aveva udito le ultime parole dette da Brunner a Pons davanti al suo negozio, il giorno dell'incontro del fidanzato-fenice con Cécile. Rémonencq, che viveva in buon accordo con i Cibot, fu subito introdotto nell'appartamento dei due amici in loro assenza. Abbagliato da tutta quella ricchezza, vide che c'era la possibilità di un bel colpo, che nel gergo mercantile significa «un bel furto», e da cinque o sei giorni non pensava ad altro.
    «Io scherzo talmente poco», rispose alla Cibot e al dottor Poulain, «che riparleremo della cosa, e se quel bravo signore vuole una rendita vitalizia di cinquantamila franchi, vi pago un cesto di bottiglie di vino del mio paese nel caso che voi mi...».
    «Dite sul serio?», disse il medico a Rémonencq. «Cinquantamila franchi di rendita vitalizia!... Ma se il buonuomo è così ricco, curato da me e assistito dalla signora Cibot può certamente guarire..., perché le malattie di fegato sono gli inconvenienti dei temperamenti molto forti...».
    «Ho detto cinquanta? Ma un signore, lì, sulla soglia del portone, gli ha proposto settecentomila franchi e solo per i quadri!».
    A questa dichiarazione di Rémonencq, la Cibot guardò il dottor Poulain in modo strano; il diavolo accendeva un fuoco sinistro nei suoi occhi arancioni.
    «Su, non diamo retta a simili stupidaggini», replicò il medico, piuttosto contento di sapere che il suo cliente era in grado di pagare tutte le visite che stava per fargli.
    «Signor dottore, se la mia cara signora Cibot, dal momento che il signore è a letto, mi permette di portare il mio esperto, sono sicuro di trovare il denaro in un paio d'ore, anche se si trattasse di settecentomila franchi...».
    «Bene, amico mio!...», rispose il dottore. «Allora, signora Cibot, evitate di contrariare il malato; dovete armarvi di pazienza, perché ogni cosa lo irriterà, lo stancherà, anche le vostre attenzioni; aspettatevi che niente gli vada bene...».
    «Sarà un'impresa difficile», disse la portiera.
    «Ascoltatemi bene», continuò il medico con tono autorevole. «La vita del signor Pons è nelle mani di coloro che lo cureranno; così verrò a vederlo tutti i giorni, forse due volte al giorno. Comincerò il mio giro da lui...».
    Improvvisamente il medico era passato dall'indifferenza profonda che mostrava per la sorte dei suoi malati poveri alla più affettuosa sollecitudine, essendosi reso conto della reale possibilità della ricchezza di Pons dal tono serio con cui lo speculatore ne aveva parlato.
    «Sarà curato come un re», rispose la Cibot con simulato entusiasmo.
    La portiera attese che il medico avesse svoltato nella rue Charlot prima di riprendere la conversazione con Rémonencq. Il ferravecchio stava finendo di fumare la sua pipa, la schiena appoggiata allo stipite della porta della bottega. Non aveva preso a caso questa posizione: voleva veder tornare da lui la portiera.
    La bottega, un tempo occupata da un caffè, era rimasta tale quale l'alverniate l'aveva trovata quando l'aveva presa in affitto. Si leggeva ancora CAFÈ DE NORMANDIE sull'insegna che sovrasta le vetrine dei negozi moderni. L'alverniate aveva fatto dipingere, sicuramente gratis, a pennello e con vernice nera, da qualche garzone imbianchino, nello spazio che rimaneva sotto CAFÈ DE NORMANDIE, queste parole: Rémonencq, ferravecchio, compra oggetti d'occasione. Naturalmente tutto il mobilio del Café de Normandie, gli specchi, i tavoli, gli sgabelli, gli scaffali, era stato venduto. Rémonencq aveva preso in affitto, per seicento franchi, la bottega vuota, il retrobottega, la cucina e una sola camera al mezzanino, dove aveva dormito il primo cameriere, perché l'appartamento annesso al Café de Normandie era stato affittato a parte. Del lusso originario sfoggiato dal venditore di bevande restava soltanto una carta da parati color verde-chiaro, e le forti sbarre di ferro della vetrina con i loro bulloni.

XXIX • ICONOGRAFIA DEL GENERE RIGATTIERE

    Arrivato lì nel 1831, dopo la rivoluzione di Luglio, Rémonencq cominciò a esporre campanelli rotti, piatti incrinati, rottami di ferro, vecchie bilance, antichi pesi non più legali dopo la legge sulle nuove misure che lo Stato è l'unico a non osservare, poiché lascia ancora in circolazione le monete da un soldo e da due soldi che risalgono al regno di Luigi XVI. Successivamente questo alverniate, della forza di cinque alverniati, comprò batterie da cucina, vecchie cornici, vecchi utensili di rame, porcellane sbreccate. Poco a poco, a forza di riempirsi e svuotarsi, la bottega somigliò alle farse di Nicolet: il genere delle merci migliorò. Il ferravecchio seguì quella prodigiosa e sicura martingala, i cui effetti risultano evidenti agli occhi dei fannulloni abbastanza filosofi da studiare la progressione crescente dei valori che guarniscono quelle interessanti botteghe. Alla latta, alle lampade, ai cocci seguono cornici e oggetti di rame. Presto la bottega, trasformata per qualche tempo in crostèo, passa allo stadio di museo. Infine, un giorno, la vetrina polverosa si rischiara, l'interno appare restaurato, l'alverniate lascia il fustagno e le giacche per portare la redingote! Assume l'aspetto di un drago a guardia del tesoro; è circondato di capolavori, è diventato un raffinato esperto, ha decuplicato i suoi capitali e non si lascia più ingannare perché ormai conosce tutti i trucchi del mestiere. Il mostro è là, come una vecchia in mezzo a venti ragazze che offre al pubblico. La bellezza, i miracoli dell'arte sono indifferenti a quest'uomo astuto e insieme grossolano, che fa bene i suoi conti e tratta male gli ignoranti. Divenuto attore, finge di essere affezionato alle sue tele, ai suoi intarsi, oppure di trovarsi in difficoltà economiche, oppure si inventa i prezzi d'acquisto delle merci e offre di mostrare le fatture. È un proteo: è nello stesso tempo Jocrisse, Janot, Codarossa, Mondor, Arpagone e Nicodemo.
    Dopo il terzo anno, si videro da Rémonencq pendole piuttosto belle, armature, quadri antichi; durante le sue assenze faceva custodire la bottega da un'orribile donnona, sua sorella, che dietro sua richiesta era venuta a piedi dal paese. La Rémonencq, una specie d'idiota dallo sguardo vuoto, vestita come un idolo giapponese, non calava di un centesimo il prezzo stabilito dal fratello; era lei a occuparsi delle faccende di casa, risolvendo il problema apparentemente insolubile di vivere delle nebbie della Senna. Rémonencq e sua sorella si nutrivano di pane e aringhe, bucce, avanzi di legumi raccolti nei mucchi di spazzatura che i ristoratori lasciano accanto ai loro paracarri. In due non spendevano dodici soldi al giorno compreso il pane, e la Rémonencq cuciva o filava per guadagnarli.
    Questo inizio dell'attività commerciale di Rémonencq, venuto a Parigi per fare il fattorino, e che dal 1825 al 1831 aveva eseguito commissioni per i negozianti di curiosità del boulevard Beaumarchais e per i calderai della rue de Lappe, è la storia normale di molti negozianti di curiosità. Gli ebrei, i normanni, gli alverniati e i savoiardi, queste quattro razze di uomini hanno gli stessi istinti e fanno fortuna con gli stessi mezzi. Non spendere niente, realizzare piccoli guadagni, e accumulare interessi e guadagni: è questo il loro programma. Ed è un programma che si realizza.
    In quel periodo Rémonencq, riconciliatosi col suo antico padrone Monistrol, in rapporto d'affari con grossi commercianti, andava in cerca di anticaglie nei sobborghi di Parigi che, come sapete, si estendono in un raggio di quaranta leghe. Dopo quattordici anni di esperienza, aveva messo insieme una ricchezza di sessantamila franchi e una bottega ben fornita. Senza imprevisti, nella rue de Normandie dove lo tratteneva il modico affitto, vendeva le sue merci ai commercianti, contentandosi di modesti guadagni. Trattava i suoi affari in dialetto alverniate, detto charabia. Quest'uomo carezzava un sogno! Il suo grande desiderio era stabilirsi sui boulevards; voleva diventare un ricco negoziante di curiosità, per trattare un giorno direttamente con gli amatori. Del resto, era un formidabile negoziante. Sul suo volto era rimasto uno strato polveroso, prodotto dalla limatura di ferro e incollato dal sudore, poiché faceva tutto da solo; ciò rendeva la sua fisionomia tanto più impenetrabile in quanto l'abitudine alla fatica fisica l'aveva dotato della stoica impassibilità dei soldati del 1799. Rémonencq era basso e magro, e gli occhi piccoli, disposti come quelli dei maiali, rivelavano, nelle pupille di un colore azzurro freddo, l'avidità concentrata, l'astuzia sorniona degli ebrei, tranne quella loro apparente umiltà accompagnata da un profondo disprezzo per i cristiani.
    I rapporti tra i Cibot e i Rémonencq erano quelli che si stabiliscono tra il benefattore e il beneficato. La Cibot, convinta della estrema povertà dei due alverniati, vendeva loro a prezzi favolosi gli avanzi di Schmucke e di Cibot. I Rémonencq pagavano due centesimi e mezzo una libbra di croste secche e di mollica di pane, un centesimo e mezzo una scodella di patate, e così via. L'astuto Rémonencq faceva credere che non faceva mai affari per proprio conto. Rappresentava sempre Monistrol, e sosteneva di essere una vittima dei ricchi commercianti; così i Cibot compiangevano sinceramente i Rémonencq. In undici anni l'alverniate non aveva ancora consumato la giacca di fustagno, i pantaloni di fustagno e il gilè di fustagno che indossava sempre; ma questi tre indumenti, tipici degli alverniati, erano pieni di toppe, cucite gratis da Cibot. Come possiamo vedere, non tutti gli ebrei sono in Israele.
    «Non mi state prendendo in giro, Rémonencq?», chiese la portiera. «Com'è possibile che il signor Pons sia così ricco e faccia la vita che fa? Non ha neppure cento franchi!...».
    «Gli amatori sono tutti così», rispose con tono sentenzioso Rémonencq.
    «Così credete davvero che la sua roba valga settecentomila franchi?...».
    «I quadri da soli li valgono... Ne ha uno che se chiedesse cinquantamila franchi li troverei a costo di farmi impiccare. Avete visto quelle piccole cornici di rame smaltato, col velluto rosso e dei ritratti?... Ebbene, sono smalti di Pettitotte per ognuno dei quali il signor ministro del governo, un vecchio droghiere, paga mille scudi...».
    «Ce ne sono trenta nelle due cornici!», disse la portiera spalancando gli occhi.
    «Ebbene, da questo potete capire quanto vale il suo tesoro».
    La Cibot, presa da vertigini, fece un voltafaccia. Le venne subito l'idea di farsi ricordare nel testamento del buon Pons, come tutte le serve-padrone i cui vitalizi suscitavano tante cupidigie nel quartiere del Marais. Immaginando di vivere in un paese nei dintorni di Parigi, già si pavoneggiava in una casa di campagna dove si occupava del pollaio, del giardino, e dove avrebbe finito i suoi giorni, servita come una regina, insieme al povero Cibot che si meritava proprio di star bene, come tutti gli angeli dimenticati, incompresi.
    Nel movimento brusco e ingenuo della portiera, Rémonencq vide la certezza di un successo. Nel mestiere del rigattiere (tale è il nome di chi va alla ricerca di oggetti d'occasione e conclude buoni affari con chi non se ne intende), in questo mestiere la difficoltà consiste nel riuscire a introdursi nelle case. Non si possono immaginare le furbizie da Scapino, i tiri da Sganarello e le seduzioni da Dorina che i rigattieri inventano per entrare nelle case dei borghesi. Sono vere commedie da teatro, sempre fondate - come in questo caso - sulla rapacità dei domestici. I domestici, soprattutto in campagna o in provincia, per trenta franchi in denaro o in merci fanno concludere affari in cui il rigattiere realizza guadagni da mille a duemila franchi. C'è un certo servizio di antico Sèvres, pasta tenera, la cui conquista, se venisse raccontata, rivelerebbe tutte le astuzie diplomatiche del congresso di Münster, tutta l'intelligenza messa in campo a Nimega, a Utrecht, a Rijswijck, a Vienna, superate dai rigattieri la cui comicità è assai più franca di quella dei negoziatori. I rigattieri usano dei mezzi d'azione che penetrano tanto profondamente negli abissi dell'interesse personale, quanto quelli ricercati con tanta fatica dagli ambasciatori per determinare la rottura delle alleanze più solide.
    «Ho infiammato perbene la Cibot», disse il fratello alla sorella mentre lei si rimetteva a sedere su una sedia spagliata. «Ora vado a sentire cosa ne pensa l'unico che se ne intende, il nostro ebreo, quel caro ebreo che ci ha prestato i soldi solo al quindici per cento!».
    Rémonencq aveva letto nel cuore della Cibot. Nelle donne di quella tempra, volere è agire; non indietreggiano dinanzi a nessun mezzo per ottenere il successo; in un attimo passano dalla più completa probità alla più profonda scelleratezza. La probità, come del resto tutti i nostri sentimenti, dovrebbe essere distinta in due probità: una probità negativa e una probità positiva. La probità negativa sarebbe quella dei Cibot, che sono probi finché non si presenta loro l'occasione di arricchirsi. La probità positiva sarebbe quella che resta continuamente in tentazione senza mai cedere, la probità degli esattori.

XXX • DOVE LA CIBOT INIZIA IL PRIMO ATTACCO

    Un fiume di malvage intenzioni irruppe nell'intelligenza e nel cuore della portiera attraverso la chiusa dell'interesse che si era aperta alle parole diaboliche del rigattiere. La Cibot salì, anzi volò, per essere esatti, dalla portineria all'appartamento dei suoi due signori e apparve, con un'espressione di falsa tenerezza, sulla soglia della camera dove Pons e Schmucke gemevano. Vedendo entrare la donna di servizio, Schmucke le fece segno di non dire una sola parola, in presenza del malato, sulle vere opinioni del dottore; infatti l'amico, il sublime tedesco, aveva letto negli occhi del dottore. Lei gli rispose con un altro cenno della testa, esprimendo un profondo dolore.
    «Ebbene, caro signore, come vi sentite?», chiese la Cibot.
    La portiera si fermò ai piedi del letto, i pugni sui fianchi e gli occhi affettuosamente fissi sul malato; ma quali pagliuzze d'oro ne sprizzavano! Un osservatore avrebbe notato che quello sguardo era terribile quanto lo sguardo di una tigre.
    «Malissimo!», rispose il povero Pons, «non ho più il minimo appetito. Ah, il mondo! il mondo!», esclamava stringendo la mano di Schmucke che, seduto al capezzale del letto, teneva la mano di Pons e col quale sicuramente il malato stava parlando delle cause della sua malattia. «Avrei fatto meglio, mio buon Schmucke, a seguire i tuoi consigli! Pranzare qui ogni giorno da quando ci siamo incontrati! Rinunciare a quella società che mi passa sopra come un carretto su un uovo, e poi in cambio di che?...».
    «Su, mio buon signore, niente lamenti», disse la Cibot, «il dottore mi ha detto la verità...».
    Schmucke tirò la portiera per la veste.
    «Sì, potete cavarvela, ma avete bisogno di molte cure... State tranquillo, avete con voi n' un buon amico e, senza vantarmi, una donna che vi curerà come una madre cura il suo primo figlio. Ho tirato fuori Cibot da una malattia, che il signor Poulain l'aveva già condannato e, come si dice, gli aveva già buttato il lenzuolo sul naso, lo davano per morto!... Ebbene, voi che grazie a Dio non siete a questo punto, anche se siete piuttosto malato, contate pure su di me... vi tirerò fuori da sola! Ma state calmo, non agitatevi in questo modo».
    E sistemò la coperta sulle mani del malato.
    «Coraggio, figlio mio», continuò, «il signor Schmucke e io faremo le nottate al vostro capezzale... Sarete assistito meglio di un principe...; e d'altra parte siete abbastanza ricco per non farvi mancare niente di quello che vi serve per curarvi... Sono già d'accordo con Cibot; pover'uomo, come farebbe senza di me!... Ebbene, gli ho fatto capire; vi vogliamo talmente bene che mi permette di restare qui la notte... Eh, per un uomo come lui... è un grande sacrificio... mi ama ancora come il primo giorno. Non so perché... forse la portineria! uno accanto all'altro, sempre!... Ma insomma, non scopritevi!...», disse lanciandosi al capezzale e sistemando le coperte sul petto di Pons. «Se non siete bravo, se non fate perbene tutto quello che ordina il signor Poulain, che è l'immagine del buon Dio in terra, non mi occuperò più di voi... Bisogna obbedirmi...».
    «Sì, sighnora Zipod! vi obbedirà», rispose Schmucke, «perché vuole vivere per il suo amico Schmucke, ve lo garantisco».
    «E soprattutto non vi spazientite, perché la vostra malattia», disse la Cibot, «vi innervosisce già abbastanza e non c'è nessun bisogno che vi ci mettiate anche voi. È Dio che ci manda i nostri mali, mio caro signore, e ci punisce per le nostre colpe; non avrete qualche bel peccatuccio da rimproverarvi?...».
    Il malato fece segno di no con la testa.
    «Oh! andiamo, avrete pur amato in gioventù, avrete avuto le vostre scappatelle, e forse avete da qualche parte un frutto dei vostri amori, magari senza pane, senza fuoco e senza casa... Che mostri gli uomini! Vi amano per un giorno e poi spariscono! Non pensano più a niente, neppure a pagare la balia!... Povere donne!...».
    «Mi hanno voluto bene soltanto Schmucke e la mia povera mamma», disse tristemente il povero Pons.
    «Su! non sarete mica un santo! Siete stato giovane, e a vent'anni dovevate essere un bel ragazzo... Buono come siete, io vi avrei amato...».
    «Sono sempre stato brutto come un rospo!», disse Pons con aria dispiaciuta.
    «Parlate così per modestia, perché siete modesto per natura».
    «Ma no, cara signora Cibot, ve lo ripeto, sono sempre stato brutto e nessuno mi ha mai amato...».
    «Proprio voi!...», disse la portiera. «Ora volete farmi credere che alla vostra età siete una verginella... Ma via! un musicista! un uomo di teatro! Fosse anche una donna a dirmelo, non le crederei».
    «Sighnora Zipod! lo farete irritare!», esclamò Schmucke vedendo che Pons si stava contorcendo nel letto come un verme.
    «Ma tacete anche voi! Siete due vecchi libertini... Avete voglia a essere brutti, non c'è coperchio talmente brutto da non trovare il suo vaso! come dice il proverbio. Cibot è riuscito a farsi amare da una delle più belle ostricaie di Parigi... e voi siete infinitamente meglio di lui... siete buono, voi!... Andiamo, anche voi avete corso la cavallina! e ora Dio vi punisce per aver abbandonato i vostri figli, come Abramo!...».
    Il malato, esausto, trovò la forza per fare ancora un gesto di diniego.
    «Ma state tranquillo, tutto questo non vi impedirà di vivere quanto Matusalemme».
    «Ma insomma, lasciatemi in pace!», gridò Pons. «Non ho mai saputo cosa volesse dire essere amato!... Non ho avuto figli, e su questa terra sono solo!...».
    «Ma è proprio vero?», insisté la portiera. «Siete talmente buono che le donne, che amano la bontà e proprio per questo si affezionano... mi sembra impossibile che ai vostri bei tempi...».
    «Portala via!», disse Pons all'orecchio di Schmucke, «mi irrita!».
    «Invece il signor Schmucke deve averlo qualche figlio... siete tutti uguali voi vecchi scapoli...».
    «Io!», saltò in piedi Schmucke. «Ma...».
    «Allora anche voi sareste senza eredi? Tutti e due siete spuntati dalla terra come funghi...».
    «Insomma, basta!», rispose Schmucke.
    Il buon tedesco prese eroicamente la Cibot per la vita e la spinse in salotto senza ascoltare le sue proteste.

XXXI • UN BELL'ATTO DI CONTINENZA

    «Non vorrete abusare di una povera donna, alla vostra età!...», gridava la Cibot dibattendosi tra le braccia di Schmucke.
    «Non gridate!».
    «Proprio voi, il migliore dei due...», rispose la Cibot. «Ah! ho fatto male a parlare d'amore a due vecchi che non hanno mai toccato una donna! Vi ho messo il fuoco addosso... mostro...», gridò vedendo di occhi di Schmucke, accesi di collera. «Aiuto! Aiuto! Mi rapiscono!».
    «Siete una scema!», rispose il tedesco. «Su, che ha detto il dottore?».
    «Mi maltrattate in questo modo...», rispose in lacrime la Cibot, che ora era libera, «io che mi getterei nel fuoco per voi due! Ma bene! si dice che gli uomini si conoscono solo frequentandoli... com'è vero! Il mio povero Cibot non avrebbe mai osato malmenarmi in questo modo... io che vi tratto come se foste figli miei; perché io non ho figli e proprio ieri, sì, non più tardi di ieri, dicevo a Cibot: «Amico mio, Dio sapeva bene quello che faceva negandoci dei figli, perché due figli li ho, al piano di sopra!». Ecco cosa gli dicevo, per la santa croce di Dio, sull'anima di mia madre...».
    «Sì, ma che ha detto il dottore?», chiese infastidito Schmucke, che per la prima volta in vita sua batté i piedi per terra.
    «Ha detto», rispose la Cibot trascinando Schmucke in sala da pranzo, «che il nostro amatissimo tesoro di malato rischia di morire se non viene curato bene: ma io sono qui per questo, malgrado la vostra brutalità; perché voi, che credevo così dolce, invece siete brutale. Bel carattere avete!... Ah! alla vostra età vorreste ancora abusare di una donna, sporcaccione?...».
    «Sporcaccione! a me?... Voi non capite che io amo soltanto Bons!».
    «Meglio così... mi lascerete in pace...», disse sorridendo a Schmucke. «E sarà meglio perché Cibot romperebbe le ossa a chiunque attentasse al suo onore!».
    «Accuditelo bene, mia piccola sighnora Zibod», disse Schmucke cercando di prendere una mano alla Cibot.
    «Come!... ancora?...».
    «Ascoltatemi dunque! Tutto quello che possiedo sarà vostro, se lo salveremo...».
    «Vado dal farmacista a comprare quello che serve. Vi rendete conto, caro signore, che questa malattia costerà... Come farete?...».
    «Lavorerò! Voglio che Bons sia curato come un principe...».
    «E lo sarà, mio buon signor Schmucke; non preoccupatevi di niente. Cibot ed io abbiamo duemila franchi di risparmi; sono vostri. Del resto, credetemi, è da molto tempo che qui ci metto del mio...».
    «Che buona donna!», esclamò Schmucke asciugandosi gli occhi, «che cuore!».
    «Asciugatevi quelle lacrime che mi onorano: ecco la miglior ricompensa per me!», disse con tono melodrammatico la Cibot. «Sono la persona più disinteressata al mondo; ma non entrate da lui con le lacrime agli occhi... il signor Pons potrebbe credere di essere più malato di quanto non sia».
    Schmucke, commosso da tanta delicatezza, prese una mano alla Cibot e la strinse.
    «Risparmiatemi!», disse l'ex ostricaia rivolgendo a Schmucke uno sguardo tenero.
    «Bons», disse il buon tedesco rientrando nella camera, «la sighnora Zibod è un angelo, un angelo chiacchierone ma un angelo».
    «Credi?... Da un mese a questa parte sono diventato diffidente», rispose il malato scuotendo la testa. «Dopo tutte le mie sventure, credo soltanto a Dio e a te!...».
    «Guarisci, e vivremo tutti e tre come dei re!», esclamò Schmucke.
    «Cibot!», disse la portiera mentre entrava, ansimante, nella portineria. «Amico mio, siamo ricchi! I miei due signori non hanno eredi né figli naturali, niente di niente!... Oh! vado dalla Fontaine a farmi fare le carte per sapere quanto avremo di rendita!...».
    «Moglie», rispose il piccolo sarto, «non contiamo sulle scarpe di un morto per essere ben calzati».
    «Vuoi farmi arrabbiare?», rispose lei dando un colpetto affettuoso a Cibot. «So quello che so! Il signor Poulain ha dato per spacciato il signor Pons! E noi saremo ricchi! Mi metterà nel testamento... Ci penso io. Tu pensa a cucire e bada alla portineria, ma non farai ancora per molto questo mestiere! Ci ritireremo in campagna, a Batignolles. Una bella casa, un bel giardino che ti divertirai a coltivare, e io avrò una serva!...».
    «Allora, vicina, come sta andando lassù?», chiese Rémonencq. «Avete saputo quanto vale la collezione?».
    «No, non ancora! Non è così che bisogna fare, buonuomo. Per quanto mi riguarda, ho cominciato col farmi dire delle cose più importanti...».
    «Più importanti!», esclamò Rémonencq. «Ma cosa c'è di più importante di quello?».
    «Su, birichino! lasciami guidare la barca», disse la portiera con tono autoritario.
    «Col trenta per cento su settecentomila franchi, avreste di che vivere da signori per il resto della vostra vita...».
    «State tranquillo, papà Rémonencq; quando sarà il momento di sapere quanto vale tutta quella roba messa insieme dal brav'uomo, vedremo...».

XXXII • TRATTATO DI SCIENZE OCCULTE

    E la portiera, dopo essere andata dal farmacista a prendere le medicine ordinate dal dottor Poulain, rinviò al giorno dopo la visita alla signora Fontaine, pensando che avrebbe trovato più fresche e più chiare le facoltà dell'oracolo se ci fosse andata di buon mattino, prima degli altri; perché c'è spesso molta gente dalla signora Fontaine.
    Dopo essere stata per quarant'anni l'antagonista della celebre signorina Lenormand, cui era sopravvissuta, a quell'epoca la signora Fontaine era l'oracolo del Marais. Non si può immaginare cosa significano le cartomanti per le classi inferiori parigine e l'enorme influenza che esercitano sulle decisioni delle persone prive di istruzione; infatti le cuoche, le portiere, le mantenute, gli operai, tutti coloro che a Parigi vivono di speranze, consultano quegli esseri privilegiati che possiedono lo strano e inspiegabile potere di leggere il futuro. La credenza nelle scienze occulte è molto più diffusa di quanto non credano gli scienziati, gli avvocati, i notai, i medici, i magistrati e i filosofi. Il popolo ha istinti indelebili. Tra questi istinti, quello che così stupidamente è chiamato superstizione si trova tanto nel sangue del popolo quanto nello spirito delle classi superiori. Più di un uomo di Stato, a Parigi, consulta le cartomanti. Per gli increduli, l'astrologia giudiziaria (alleanza di parole eccessivamente bizzarra) non è altro che lo sfruttamento di un sentimento innato, uno dei più forti della nostra natura, la curiosità. Gli increduli negano dunque completamente i rapporti che la divinazione instaura tra il destino umano e la configurazione che se ne ottiene attraverso i sette o otto mezzi principali che compongono l'astrologia giudiziaria. Ma alle scienze occulte è riservata la stessa sorte di tanti fenomeni naturali rifiutati dagli spiriti forti o dai filosofi materialisti, cioè da quanti si attengono unicamente ai fatti visibili, solidi, ai risultati della storta o delle bilance della fisica e della chimica moderne; eppure esistono e continuano la loro strada, sia pure senza alcun progresso dal momento che da circa due secoli le intelligenze superiori ne hanno abbandonato lo studio.
    Guardando soltanto alla possibilità della divinazione, credere che gli avvenimenti anteriori della vita di un uomo, che i segreti noti a lui soltanto possano essere immediatamente rappresentati dalle carte che l'indovino mischia e poi scopre e divide in mucchietti secondo leggi misteriose, è assurdo; ma è lo stesso assurdo che condannava il vapore, che ancora condanna la navigazione aerea, che condannava le invenzioni della polvere da sparo e della stampa, quella degli occhiali, dell'incisione, e l'ultima grande scoperta della dagherrotipia. Se qualcuno fosse andato a dire a Napoleone che un edificio e un uomo sono continuamente e in ogni istante rappresentati da un'immagine nell'atmosfera, che tutti gli oggetti esistenti vi hanno uno spettro afferrabile, percepibile, l'imperatore avrebbe fatto rinchiudere quest'uomo a Charenton, come Richelieu rinchiuse Salomon de Caux a Bicêtre quando il martire normanno gli portò l'immensa conquista della navigazione a vapore. La stessa cosa è accaduta a Daguerre con la sua scoperta! Ebbene, se Dio ha impresso, per certi occhi chiaroveggenti, il destino di ogni uomo nella sua fisionomia, prendendo questa parola come l'espressione totale del corpo, perché mai la mano non potrebbe riassumere la fisionomia, dal momento che la mano è l'azione umana e l'unico suo mezzo di espressione? Da qui nasce la chiromanzia. La società non imita forse Dio? Predire a un uomo gli avvenimenti della sua vita in base all'aspetto della mano non è un fatto più straordinario, per chi ha ricevuto le facoltà del veggente, del dire a un soldato che combatterà, a un avvocato che parlerà, a un calzolaio che farà delle scarpe e degli stivali, a un coltivatore che concimerà la terra e la lavorerà. Prendiamo un esempio evidente. Il genio è talmente visibile nell'uomo che, passeggiando per Parigi, anche le persone più ignoranti sanno riconoscere un grande artista solo a vederlo passare. È una sorta di sole morale i cui raggi colorano ogni cosa al suo passaggio. Un imbecille non si riconosce forse immediatamente per delle impressioni opposte a quelle suscitate dall'uomo di genio? Un uomo ordinario passa quasi inosservato. La maggior parte degli osservatori della natura sociale e parigina può indovinare la professione di un passante dal suo solo aspetto. Oggi i misteri del sabba, così ben dipinti dai pittori del XVI secolo, non sono più dei misteri. Le egiziane e gli egiziani, padri degli zingari, strana nazione venuta dalle Indie, facevano prendere dell'hascisc ai loro clienti. I fenomeni provocati da quest'impasto spiegano perfettamente le cavalcate sulle scope, le fughe su per i camini, le visioni reali, per così dire, delle vecchie trasformate in giovani, le danze furibonde e le musiche deliziose che componevano le fantasie dei pretesi adoratori del diavolo.
    Oggi, sono talmente tanti i fatti verificati, veri, nati dalle scienze occulte, che un giorno queste scienze saranno professate come si professa la chimica e l'astronomia. È anzi singolare che mentre a Parigi vengono istituite delle cattedre di slavo, di manciù, di letterature assai poco professabili come le letterature del Nord, e i cui titolari ripetono sempre le stesse cose su Shakespeare o sul XVI secolo, non sia stato ristabilito, sotto il nome di antropologia, l'insegnamento della filosofia occulta, una delle glorie dell'antica Università. In questo, la Germania, paese nello stesso tempo così grande e così infantile, ha preceduto la Francia: lì si professa quella scienza, assai più utile delle diverse FILOSOFIE, che sono tutte la stessa cosa.
    Che certe persone abbiano il potere di vedere il futuro nel germe delle cause, come il grande inventore intravede un'industria, una scienza in un fenomeno naturale di cui una persona comune non si accorge, non è più un'eccezione clamorosa; è l'effetto di una facoltà riconosciuta, e che sarebbe in un certo senso il sonnambulismo dello spirito. Se un concetto del genere, sul quale si basano le diverse maniere di decifrare il futuro, sembra assurdo, il fatto comunque esiste.
    Considerate che predire i grandi eventi del futuro non costituisce per il veggente uno sforzo più straordinario di quello d'indovinare il passato. Il passato, il futuro, per gli increduli sono egualmente inconoscibili. Se gli eventi accaduti hanno lasciato delle tracce, è verosimile immaginare che gli eventi futuri abbiano le loro radici. Colui che vi annuncia la buona sorte, dal momento in cui vi spiega dettagliatamente i fatti che voi soli conoscete, nella vostra vita precedente, può anche predirvi gli avvenimenti che saranno prodotti da cause esistenti. Il mondo morale è tagliato, per così dire, sul modello del mondo naturale; vi si devono ritrovare gli stessi effetti, con le differenze specifiche dei loro diversi ambienti. Così, proprio come i corpi si proiettano realmente nell'atmosfera lasciandovi sussistere quello spettro còlto dal dagherrotipo al suo passaggio, le idee, creazioni reali e operanti, s'imprimono in quella che è opportuno definire l'atmosfera del mondo spirituale, vi producono degli effetti, vi vivono spettralmente (è necessario forgiare termini nuovi per indicare fenomeni che ancora non hanno nome), e allora certe creature dotate di facoltà rare possono vedere perfettamente quelle forme o quelle tracce di idee.
    Quanto ai mezzi impiegati per ottenere le visioni, questa è la meraviglia che meglio si spiega, perché è la mano del cliente a disporre gli oggetti con i quali gli si fanno rappresentare i casi della vita. In effetti, nel mondo reale tutto è concatenato. Ogni movimento vi corrisponde a una causa, e ogni causa si collega all'insieme; di conseguenza l'insieme si rappresenta nel più piccolo movimento. Rabelais, il più grande spirito dell'umanità moderna, l'uomo nel quale rivivevano Pitagora, Ippocrate, Aristofane e Dante, ha detto tre secoli fa: «L'uomo è un microcosmo». Un secolo dopo, Swedenborg, il grande profeta svedese, diceva che la terra era un uomo. Il profeta e il precursore dell'incredulità s'incontravano così nella più grande delle formule. Nella vita umana tutto è fatale, come nella vita del nostro pianeta. I più piccoli casi, i più futili, vi sono subordinati. Dunque le grandi cose, i grandi progetti, i grandi pensieri si riflettono necessariamente nelle più piccole azioni, e con una tale fedeltà che, se un cospiratore mischia e alza le carte, in esse scriverà il segreto della sua cospirazione per il veggente chiamato zingaro, ciarlatano, colui che annuncia la buona sorte, ecc. Ammettendo la fatalità, cioè il concatenamento delle cause, è inevitabile riconoscere il valore dell'astrologia, che torna ad essere ciò che era un tempo: una scienza immensa, caratterizzata dalla facoltà di dedurre che rese Cuvier tanto grande; ma spontanea, invece di essere esercitata, come nel caso di quel genio, nelle notti studiose del laboratorio.
    L'astrologia, la divinazione, ha regnato per sette secoli non come oggi sulla gente del popolo ma sulle intelligenze migliori, sui sovrani, sulle regine e sui ricchi. Una delle più grandi scienze dell'antichità, il magnetismo animale, è nata dalle scienze occulte, come la chimica dai fornelli degli alchimisti. Anche la craniologia, la fisiognomica e la neurologia sono scaturite dalle scienze occulte; e gli illustri creatori di queste scienze apparentemente nuove hanno avuto un solo torto, quello di ogni inventore, che consiste nel sistematizzare perfettamente dei fatti isolati la cui causa generatrice sfugge ancora all'analisi. Un giorno la Chiesa cattolica e la filosofia moderna si sono trovate d'accordo con la giustizia per proscrivere, perseguitare, ridicolizzare i misteri della cabala nonché i suoi adepti; ne è derivata una deprecabile lacuna di cento anni nel dominio e nello studio delle scienze occulte. Comunque sia, il popolo e molte persone intelligenti, soprattutto le donne, continuano a pagare il loro contributo al misterioso potere di coloro che possono sollevare il velo del futuro; da loro vanno a comprare un po' di speranza, di coraggio, di forza, cioè quello che solo la religione può dare. Così questa scienza è ancora praticata, non senza qualche rischio. Oggi gli stregoni, al riparo da ogni tortura grazie alla tolleranza di cui siamo debitori agli enciclopedisti del XVIII secolo, sono soggetti alla sola polizia correzionale, e solo nel caso in cui si dedichino a operazioni fraudolente, quando spaventano i loro clienti per estorcere del denaro, il che costituisce una frode. Sventuratamente la frode e spesso il delitto accompagnano l'esercizio di questa sublime facoltà. Vediamo perché.
    I mirabili doni che distinguono il veggente si trovano, generalmente, in quegli individui cui viene affibbiato l'epiteto di «bruti». Questi bruti sono i vasi prediletti nei quali Dio ripone gli elixir che sorprendono l'umanità. Da questi bruti provengono i profeti, i san Pietro, i Pietro l'Eremita. Ogni volta che il pensiero mantiene la propria totalità integra, e non si disperde in chiacchiere, intrighi, opere letterarie, fantasie di scienziati, sforzi politici, congetture d'inventori, servizi militari, è in grado di emanare fuochi di un'intensità prodigiosa, come il brillante mantiene lo splendore delle proprie sfaccettature. Si presenti un'occasione propizia! Subito quell'intelligenza si accenderà, avrà ali per superare le distanze, occhi divini per vedere tutto: ieri era un carbone; il giorno dopo, sotto il getto del fluido sconosciuto che l'attraversa, sarà un diamante splendente. Le persone delle classi superiori, esperte nell'uso della loro intelligenza, non possono mai presentare questo potere supremo, a meno che non si tratti di uno di quei miracoli che tavolta Dio si concede. Per questo gli indovini e le indovine sono quasi sempre dei mendicanti o delle mendicanti di spirito ingenuo, esseri dall'aspetto grossolano, ciottoli rotolati nei torrenti della miseria, nei sentieri della vita, dove non hanno speso nient'altro che sofferenze fisiche. Il profeta, il veggente è insomma quel Martino il contadino che fece tremare Luigi XVIII dicendogli un segreto che solo il re poteva conoscere; è una signorina Lenormand, una cuoca come la signora Fontaine, una negra quasi idiota, un pastore che vive con le sue bestie con le corna, un fachiro che se ne sta seduto accanto a una pagoda e, mortificando la carne, fa entrare in contatto il suo spirito con il grande potere sconosciuto delle facoltà sonnamboliche.
    È in Asia che in ogni epoca si sono trovati gli eroi delle scienze occulte. Spesso, nello stato ordinario, restano ciò che sono, assolvendo in qualche modo le funzioni chimiche e fisiche dei corpi conduttori di elettricità, di volta in volta metalli inerti o canali pieni di fluidi misteriosi; costoro, tornati in sé, si dedicano a pratiche, a progetti che li portano dritti alla polizia correzionale o, come il famoso Balthazar, in corte d'assise e al bagno penale. Infine, e questo dimostra l'immenso potere che la cartomanzia esercita sul popolo, la vita o la morte del povero musicista dipendevano dall'oroscopo che la signora Fontaine avrebbe letto alla Cibot.
    Benché certe ripetizioni siano inevitabili in una narrazione così ampia e piena di dettagli come una storia completa della società francese nel XIX secolo, è inutile descrivere il tugurio della signora Fontaine, già descritto nei Commedianti senza saperlo. È tuttavia necessario notare che la Cibot entrò dalla signora Fontaine, che abita in rue Vieille-du-Temple, allo stesso modo in cui un frequentatore abituale del Café Anglais entra in quel ristorante per cenare. La Cibot, antica cliente, vi portava spesso ragazze e comari divorate dalla curiosità.

XXXIII • IL GRANDE GIOCO

    La vecchia domestica che faceva da assistente alla cartomante aprì la porta del santuario senza avvisare la padrona.
    «È la signora Cibot!... Entrate», aggiunse, «non c'è nessuno».
    «Ebbene, piccola mia, che vi è successo per venire così presto?», chiese la strega.
    La signora Fontaine, che allora aveva sessantotto anni, meritava di essere chiamata in questo modo per il suo aspetto degno di una Parca.
    «Ho il sangue in subbuglio, fatemi il grande gioco», esclamò la Cibot, «si tratta della mia fortuna».
    E spiegò la situazione in cui si trovava, chiedendo una predizione per la sua sordida speranza.
    «Ma voi sapete cos'è il grande gioco?», disse solennemente la signora Fontaine.
    «No, non sono abbastanza ricca per essermi potuta permettere questo lusso!... Cento franchi! scusate se è poco! E dove li avrei presi? Ma oggi mi serve!».
    «Non lo faccio spesso, piccola», rispose la signora Fontaine, «lo faccio ai ricchi solo nelle grandi occasioni, e me lo pagano venticinque luigi; perché mi stanca, mi esaurisce! Lo Spirito mi smuove tutto lo stomaco. È come andare al sabba, come si diceva una volta!».
    «Ma vi dico, mia cara signora Fontaine, che si tratta del mio avvenire...».
    «Insomma, per voi che venite tante volte mi lascerò andare allo Spirito!», rispose la signora Fontaine mentre sul suo volto decrepito appariva un'espressione di terrore che non era simulata.
    Si alzò dalla sua vecchia poltrona unta e bisunta, all'angolo del camino, e andò verso il tavolo coperto da un tappeto verde di cui si potevano contare tutti i fili della logora trama e sul quale, sulla sinistra, dormiva un rospo gigantesco, accanto a una gabbia aperta e abitata da una gallina dalle penne arruffate.
    «Astaroth! qui, figlio mio!», disse dando un colpetto con un lungo ferro da calza sul dorso del rospo, che la guardò con un'espressione intelligente. «E voi, madamigella Cleopatra!... attenzione!», continuò, dando un colpetto sul becco della vecchia gallina.
    La signora Fontaine si concentrò rimanendo immobile per qualche istante; allora prese l'aspetto di una morta, i suoi occhi si rovesciarono all'indietro e divennero bianchi; poi s'irrigidì e disse con voce cavernosa: «Sono qui!».
    Dopo aver sparpagliato automaticamente un po' di miglio per Cleopatra, prese il mazzo delle carte grandi, lo mischiò convulsamente e lo fece alzare dalla Cibot, emettendo sospiri profondi. Quando quest'immagine della Morte in turbante sudicio, in casacca sinistra, scrutò i chicchi di miglio che la gallina stava beccando, e disse al rospo Astaroth di camminare sulle carte sparse, la Cibot sentì un brivido freddo nella schiena e trasalì. Solo le grandi credenze danno grandi emozioni. Avere o non avere rendite, questo era il problema, ha detto Shakespeare.
    Dopo setto o otto minuti durante i quali aprì un libro di magia e vi lesse delle parole con voce sepolcrale, ed esaminò i chicchi rimasti e il percorso compiuto dal rospo mentre si ritirava, la strega decifrò il significato delle carte concentrandovi gli occhi bianchi.
    «Sì, riuscirete! anche se in questa faccenda niente andrà come voi credete», disse. «Dovreste darvi da fare. Ma raccoglierete il frutto delle vostre fatiche. Vi comporterete molto male, come tutti coloro che assistono i malati sperando di avere una parte dell'eredità. In quest'opera malefica sarete aiutata da alcuni personaggi ragguardevoli... Più tardi, vi pentirete nelle angosce della morte, perché morirete assassinata da due forzati evasi, uno piccolo con i capelli rossi e uno vecchio completamente calvo, a causa della ricchezza che vi sarà attribuita nel villaggio dove vi sarete ritirata col vostro secondo marito... Figlia mia, siete libera di agire o di starvene tranquilla».
    L'esaltazione interiore che aveva acceso due torce negli occhi cavi di quello scheletro apparentemente così freddo cessò. Pronunciato l'oroscopo, la signora Fontaine fu come abbagliata e sembrò del tutto simile ai sonnambuli quando vengono svegliati; si guardò intorno con aria stupita; poi riconobbe la Cibot e parve sorpresa di vederla in preda all'orrore che le si leggeva sul volto.

XXXIV • UN PERSONAGGIO DEI RACCONTI DI HOFFMANN

    «Allora, figlia mia», disse con una voce del tutto diversa da quella con cui aveva profetizzato, «siete contenta?...».
    La Cibot guardò la strega con un'aria inebetita, senza riuscire a rispondere.
    «Ah! avete voluto il grande gioco! Vi ho trattata come una vecchia conoscenza. Datemi soltanto cento franchi...».
    «Cibot deve morire?...», esclamò la portiera.
    «Vi ho dunque detto delle cose tanto terribili?...», chiese ingenuamente la signora Fontaine.
    «Ma sì!...», disse la Cibot, tirando fuori di tasca cento franchi e posandoli sul bordo del tavolo, «morire assassinata!...».
    «Eh già, voi volete il grande gioco!... Ma consolatevi, tutte le persone assassinate nelle carte non muoiono».
    «Ma è possibile, signora Fontaine?».
    «Ah, piccola bella, che posso saperne io? Avete voluto bussare alla porta dell'avvenire, io ho tirato il cordone, ecco tutto, e lui è venuto!».
    «Chi lui?», chiese la Cibot.
    «Ma lo Spirito, no?», rispose la strega spazientita.
    «Addio signora Fontaine!», esclamò la portiera. «Non lo conoscevo il grande gioco; mi avete messo una gran paura!...».
    «La signora non si mette mai più di una volta al mese in quello stato!», disse la serva accompagnando la portiera sul pianerottolo. «È faticosissimo, ne potrebbe morire. Ora deve mangiarsi una bistecca e dormire per tre ore...».
    In strada, camminando, la Cibot fece quello che fa chiunque abbia consultato qualcuno ottenendone un qualsivoglia responso. Credette a quanto la profezia offriva di favorevole ai suoi interessi, e dubitò delle sventure annunciate. L'indomani, rassicurata nei suoi propositi, già pensava al modo di diventare ricca facendosi dare una parte del museo Pons. Così per un po' di tempo non ebbe altri pensieri che quello di trovare il modo di riuscirci. Il fenomeno appena spiegato, quello della concentrazione delle forze morali in tutte le persone grossolane che, non consumando le loro facoltà intellettuali, come le persone delle classi superiori, con un dispendio quotidiano, trovano tali energie forti e potenti nel momento in cui agisce nel loro spirito quell'arma paurosa che è chiamata «idea fissa», si manifestò nella Cibot a un grado elevato. Proprio come l'idea fissa produce i miracoli delle evasioni e i miracoli dei sentimenti, la portiera, sostenuta dalla cupidigia, diventò forte quanto un Nucingen senza una lira, e ingegnosa, sotto la sua stupidità, quanto il seducente La Palférine.
    Qualche giorno dopo, verso le sette del mattino, vedendo Rémonencq che stava aprendo la bottega, andò da lui con un'aria da gattamorta.
    «Come si può fare per sapere quanto vale veramente tutta quella roba che è su dai miei padroni?», gli chiese.
    «Ah! è facilissimo», rispose il negoziante di curiosità nel suo spaventoso linguaggio incomprensibile, che per la chiarezza del racconto è meglio non riprodurre. «Se volete giocare a carte scoperte con me, vi indicherò uno stimatore, onestissimo, che conosce il valore dei quadri quasi al centesimo...».
    «Chi?».
    «Il signor Magus, un ebreo che ormai fa affari soltanto per il suo piacere».
    Élie Magus, il cui nome è troppo noto nella COMMEDIA UMANA perché sia necessario parlare di lui, si era ritirato dal commercio dei quadri e delle curiosità, imitando, da commerciante, la scelta adottata da Pons come amatore. I celebri stimatori: il defunto Henry, i signori Pigeot e Moret, Théret, Georges e Roëhn, gli esperti del Museo... erano tutti dei ragazzi al confronto con Élie Magus, che indovinava un capolavoro sotto una crosta centenaria, che conosceva tutte le scuole e le firme di ogni pittore.
    Questo ebreo, venuto a Parigi da Bordeaux, aveva lasciato il commercio nel 1835, conservando il suo aspetto miserabile, secondo le abitudini della maggior parte degli ebrei, tanto quella razza è fedele alle sue tradizioni. Nel medioevo la persecuzione costringeva gli ebrei a vestirsi di stracci per sviare i sospetti, a lamentarsi sempre, a piagnucolare, a pianger miseria. Queste necessità di altri tempi sono divenute, come sempre, un istinto comune, un vizio endemico. Élie Magus, a forza di comprare diamanti e di rivenderli, di commerciare in quadri e merletti, in rarità di pregio, smalti, sculture raffinate e vecchie oreficerie, possedeva una fortuna immensa, sconosciuta, accumulata con questo genere di commercio, divenuto tanto importante. In effetti il numero dei mercanti d'arte è decuplicato in vent'anni a Parigi, la città dove tutte le curiosità del mondo si ritrovano insieme. Quanto ai quadri, si vendono in tre sole città: Roma, Londra e Parigi.
    Élie Magus viveva in chaussée des Minimes, breve e larga via che porta in place Royale, dove possedeva un vecchio palazzo comprato nel 1831 per un pezzo di pane, come si dice. Quella magnifica costruzione conteneva uno dei più fastosi appartamenti decorati del periodo di Louis XV, poiché si trattava dell'antico palazzo Moulaincourt. Costruito dal celebre presidente della corte dei tribunali, il palazzo, grazie alla sua posizione non era stato devastato durante la Rivoluzione. Se il vecchio ebreo si era deciso, contro le leggi israelite, a diventare proprietario, credete pure che aveva le sue buone ragioni. Il vecchio faceva la fine di tutti noi, preso da una mania spinta fino alla follia. Nonostante fosse avaro quanto il suo amico Gobseck, si lasciò conquistare dall'ammirazione per i capolavori in cui commerciava; ma il suo gusto, sempre più sofisticato, sempre più difficile, era diventato una di quelle passioni che sono concesse solo ai re, quando sono ricchi e amano le arti. Simile al secondo re di Prussia, che si entusiasmava per un granatiere soltanto quando il soggetto raggiungeva i sei piedi di altezza, e allora spendeva somme folli per aggiungerlo al suo museo vivente di granatieri, il mercante in ritiro si appassionava soltanto per tele impeccabili, rimaste tali quali il maestro le aveva dipinte, e ritenute di prim'ordine nella sua produzione. Così Élie Magus non mancava a una sola delle grandi vendite, visitava tutti i mercati, e viaggiava per l'intera Europa. Quest'anima votata al lucro, fredda come il ghiaccio, si riscaldava alla vista di un capolavoro, esattamente come un libertino, stanco di donne, si commuove davanti a una fanciulla perfetta, e si dedica alla ricerca di bellezze senza difetti. Questo don Giovanni delle tele, questo adoratore dell'ideale, trovava in tale ammirazione dei godimenti superiori a quelli che la contemplazione dell'oro procura all'avaro. Viveva in un serraglio di bei quadri!
    I capolavori, sistemati come si conviene ai figli dei principi, occupavano l'intero primo piano del palazzo che Élie Magus aveva fatto restaurare, e con quale splendore! Alle finestre pendevano, come tende, i più bei broccati d'oro di Venezia. Sui pavimenti erano stesi i più magnifici tappeti della Savonnerie. I quadri, circa cento, erano incorniciati nelle cornici più splendide, magistralmente ridorate dal solo doratore di Parigi che Élie considerava coscienzioso, da Servais, cui il vecchio ebreo aveva insegnato a dorare con l'oro inglese, infinitamente superiore a quello dei battiloro francesi. Nell'arte della doratura, Servais equivale a ciò che era nell'arte della rilegatura Thouvenin, un artista innamorato delle sue opere. Le finestre dell'appartamento erano protette da imposte rinforzate di lamiera. Élie Magus abitava in due stanze a soffitta, al secondo piano, ammobiliate miseramente, piene dei suoi stracci che sapevano di ebreo, poiché finiva di vivere come sempre aveva vissuto.
    Il pianterreno, interamente occupato dai quadri che l'ebreo continuava a comprare, dalle casse venute dall'estero, conteneva uno studio immenso dove lavorava quasi esclusivamente per lui Moret, il più abile dei nostri restauratori di quadri, uno di quelli che dovrebbero essere impiegati dal Museo. Lì si trovava anche l'appartamento della figlia, il frutto della sua vecchiaia, un'ebrea, bella come tutte le ebree quando il tipo asiatico riappare puro e nobile in loro. Noémi, accudita da due serve fanatiche ed ebree, aveva come avanguardia un ebreo polacco di nome Abramko, compromesso, per un caso incredibile, negli avvenimenti di Polonia, e che Élie Magus aveva salvato per ragioni speculative. Abramko, portiere di quel palazzo muto, triste e deserto, occupava una portineria armata di tre cani di una notevole ferocia: uno di Terranova, uno dei Pirenei e il terzo inglese, un mastino.
    Su queste osservazioni profonde si basava la sicurezza dell'ebreo, che viaggiava senza alcun timore, dormiva tra due guanciali, e non temeva nessun attentato alla figlia, il suo più grande tesoro, né ai suoi quadri, né al suo oro. Abramko riceveva ogni anno duecento franchi in più dell'anno precedente, e non doveva ricevere più nulla alla morte di Magus, che lo addestrava a esercitare l'usura nel quartiere. Abramko non apriva mai a nessuno senza aver prima guardato da uno spioncino con griglia, robustissimo. Questo portiere, di una forza erculea, adorava Magus come Sancio Panza adora Don Chisciotte. I cani, chiusi durante il giorno, non ricevevano cibo; ma la notte Abramko li scioglieva, ed erano condannati dall'astuto calcolo del vecchio a stare fermi, uno nel giardino ai piedi di un palo in cima al quale era appeso un pezzo di carne; l'altro nel cortile, ai piedi di un palo simile; e il terzo nella grande sala del pianterreno. Comprenderete che i cani, che già per istinto facevano la guardia alla casa, erano vigilati dalla loro fame; non avrebbero mai lasciato il loro posto ai piedi dell'albero della cuccagna, neppure per la cagna più bella; non se ne allontanavano mai per nessuna ragione. Se appariva uno sconosciuto, tutti e tre i cani s'immaginavano che il quidam volesse mettere le mani sul cibo che gli veniva dato al mattino, quando Abramko si svegliava. Questo sistema infernale presentava un vantaggio immenso. I cani non abbaiavano mai, il genio di Magus li aveva resi selvaggi, erano diventati sornioni come dei mohicani. Ora, ecco cosa accadde. Un giorno dei malfattori, incoraggiati da tutto quel silenzio, pensarono con molta leggerezza di dare una ripassata alla cassa dell'ebreo. Uno di loro, col compito di dare l'assalto per primo, scavalcò il muro del giardino e scese dall'altra parte; il mastino l'aveva lasciato fare, lo aveva sentito perfettamente; ma appena il piede di quel signore fu alla portata dei suoi denti, glielo staccò di netto e se lo mangiò. Il ladro trovò il coraggio di oltrepassare di nuovo il muro e camminò sull'osso della gamba finché non cadde svenuto tra le braccia dei suoi compagni, che lo portarono via. Questo delizioso episodio delle notti parigine, che la «Gazette des Tribunaux» non mancò di riferire, fu considerato una fandonia.
    Magus, che allora aveva settantacinque anni, poteva arrivare ai cento. Ricco, viveva come vivevano i Rémonencq. Tremila franchi, comprese le prodigalità nei confronti della figlia, coprivano tutte le sue spese.

XXXV • DOVE SI VEDE CHE GLI ESPERTI DI PITTURA NON SONO TUTTI DELL'ACCADEMIA DI BELLE ARTI

    Nessuna esistenza era più regolare di quella del vecchio. Si alzava all'alba, mangiava un po' di pane sfregato con l'aglio, e con questa colazione arrivava fino all'ora di pranzo. Il pranzo, di una frugalità monacale, veniva consumato in famiglia. Da quando si alzava fino a mezzogiorno il maniaco passava il suo tempo ad aggirarsi per l'appartamento tra i suoi capolavori. Spolverava ogni cosa, mobili e quadri, senza stancarsi di ammirare tutto; poi scendeva dalla figlia, si inebriava della felicità dei padri, e poi usciva per le sue commissioni attraverso Parigi, controllando le vendite all'incanto, visitando le esposizioni, ecc. Quando un capolavoro presentava i requisiti che lui ricercava, allora la vita di quell'uomo si animava: ora aveva un colpo da mettere a punto, un affare da concludere, una battaglia di Marengo da vincere. Elaborava astuzie su astuzie per entrare in possesso della sua nuova sultana a buon mercato. Magus aveva una sua carta d'Europa, una carta in cui erano segnati i capolavori, e incaricava i suoi correligionari in ogni parte del mondo di seguire l'affare per suo conto, in cambio di una percentuale. Ma quali ricompense dopo tanta fatica!...
    I due quadri di Raffaello andati perduti e cercati con tanta tenacia dai raffaellisti, li ha Magus! Possiede l'originale dell'Amante di Giorgione, la donna per cui quel pittore è morto, e i pretesi originali sono copie di questa celebre tela, che secondo la stima di Magus vale cinquecentomila franchi. Quest'ebreo conserva il capolavoro di Tiziano, La deposizione, quadro dipinto per Carlo V, che fu inviato dal grande uomo al grande imperatore, accompagnato da una lettera interamente autografa di Tiziano, e questa lettera è incollata in basso, sotto la tela. Dello stesso pittore possiede l'originale, il bozzetto, a partire dal quale sono stati eseguiti tutti i ritratti di Filippo II. Gli altri novantasei quadri sono tutti di quest'importanza e di questa preziosità. Così Magus se la ride del nostro Museo devastato dal sole che, attraverso i vetri la cui azione equivale a quella delle lenti, corrode le tele più belle. Le gallerie di quadri devono essere illuminate solo dal soffitto. Magus chiudeva e apriva lui stesso le imposte del suo museo, trattando i quadri con la stessa cura e cautela che riservava alla figlia, il suo altro idolo! Ah! il vecchio quadromane conosceva bene le leggi della pittura! Secondo lui, i capolavori avevano una vita propria, quotidiana, e la loro bellezza dipendeva dalla luce che dava loro il colore; ne parlava come gli olandesi parlavano un tempo dei loro tulipani, e andava a guardare il tal quadro nell'ora in cui il capolavoro risplendeva in tutta la sua gloria, quando il tempo era sereno e puro.
    E tra quei quadri immobili era un quadro vivente quel vecchietto, vestito con una brutta redingote, un decennale gilè di seta, pantaloni lerci, la testa calva, il volto scavato, la barba nervosa e saettante i suoi peli bianchi, il mento minaccioso e aguzzo, la bocca in disarmo, l'occhio brillante come quello dei suoi cani, le mani ossute e scarne, il naso a obelisco, la pelle rugosa e fredda, mentre sorrideva a quelle belle creazioni del genio! Un ebreo, in mezzo a tre milioni di persone, sarà sempre uno degli spettacoli più belli che l'umanità possa offrire. Robert Médal, il nostro grande attore, non potrà mai, per quanto sia sublime, raggiungere una tale vetta poetica. Parigi è la città del mondo che dà rifugio al maggior numero di originali di questo tipo, che hanno una religione nel cuore. Gli eccentrici di Londra finiscono sempre per disgustarsi delle loro adorazioni, come si stancano di vivere; mentre a Parigi i monomani vivono con la loro fantasia in un felice concubinaggio spirituale. Vi capiterà spesso di incontrarvi dei Pons, degli Élie Magus vestiti assai miseramente, il naso come quello del segretario perpetuo dell'Académie Française, ad ovest!, con l'aria di non tenere a niente, di non sentire niente, di non prestare alcuna attenzione alle donne, ai negozi, mentre se ne vanno - per così dire - alla ventura, con le tasche vuote, persi come dei pazzi, e voi vi chiedete a quale tribù parigina possano appartenere. Ebbene, quei tipi sono dei milionari, dei collezionisti, le persone più appassionate della terra, gente capace di addentrarsi nei terreni fangosi della polizia correzionale per impadronirsi di una tazza, di un quadro, di un pezzo raro, come fece un giorno Élie Magus in Germania.
    Era questo l'esperto dal quale Rémonencq condusse misteriosamente la Cibot. Rémonencq chiedeva consigli a Élie Magus ogni volta che lo incontrava sui boulevards. Più volte l'ebreo, attraverso Abramko, aveva prestato del denaro a quell'ex fattorino della cui probità era sicuro. Poiché la chaussée des Minimes si trova a due passi dalla rue de Normandie, i due complici del colpo da preparare vi giunsero in dieci minuti.
    «State per incontrare», disse Rémonencq alla Cibot, «il più ricco dei vecchi commercianti di curiosità, il maggiore esperto che vi sia a Parigi...».
    La Cibot rimase stupita trovandosi di fronte un vecchietto che indossava una palandrana indegna di passare tra le mani di Cibot per essere accomodata, intento a sorvegliare il lavoro del restauratore, un pittore che stava riparando dei quadri in una stanza gelida del vasto pianterreno; poi, ricevendo uno sguardo di quegli occhi pieni di una malizia fredda come quella dei gatti, tremò.
    «Cosa volete, Rémonencq?», disse.
    «Si tratta di stimare dei quadri; a Parigi solo voi potete dire a un povero calderaio come me quanto può darne, quando non ne ha come voi delle migliaia e delle centinaia!».
    «Dove si trovano?», chiese Élie Magus.
    «Questa è la portiera della casa, che si occupa dell'appartamento del padrone e con la quale mi sono messo d'accordo...».
    «Come si chiama il proprietario?».
    «Il signor Pons!», disse la Cibot.
    «Non lo conosco», rispose Magus con aria ingenua, toccando leggermente col piede il piede del restauratore.
    Moret, il pittore, che conosceva il valore del museo Pons, di colpo aveva sollevato la testa. Una tale finezza non poteva essere azzardata che in presenza di Rémonencq e della Cibot. L'uno e l'altra dovevano ignorare che il buon Pons e Magus avevano incrociato spesso gli artigli. Infatti quei due amatori accaniti si invidiavano. Così si spiega come il vecchio ebreo avesse appena provato una specie di folgorazione interiore. Non avrebbe mai sperato di riuscire a entrare in un serraglio tanto protetto. Il museo Pons era l'unico a Parigi che potesse competere con il museo Magus. L'ebreo aveva avuto, venti anni dopo Pons, la sua stessa idea; ma poiché era un amatore commerciante, il museo Pons era stato precluso sia a lui che a Dusommerard. Pons e Magus avevano nel cuore la stessa gelosia. Né l'uno né l'altro apprezzavano affatto quella fama di cui normalmente vanno alla ricerca coloro che possiedono delle collezioni. Poter esaminare la magnifica collezione del povero musicista dava a Élie Magus la stessa felicità che prova un collezionista di donne quando riesce a infilarsi nel boudoir di una bella amante che un amico gli nasconde. Il grande rispetto che Rémonencq dimostrava per quel bizzarro personaggio e il prestigio esercitato da ogni potere reale anche se misterioso, resero la portiera obbediente e arrendevole. La Cibot perse quel tono autocratico che teneva nella sua portineria con gli inquilini e i suoi due signori, accettò le condizioni di Magus e promise di farlo entrare nel museo Pons quel giorno stesso. Significava portare il nemico nel cuore della piazzaforte, affondare un pugnale nel cuore di Pons, che da dieci anni proibiva alla Cibot di far entrare chiunque, e portava sempre con sé le chiavi di casa, e al quale la Cibot aveva sempre obbedito, fino a quando aveva condiviso le opinioni di Schmucke a proposito di bric-à-brac. Infatti il buon Schmucke, che trattava quelle cose magnifiche come cianfrusaglie e deplorava la mania di Pons, aveva inculcato alla portiera il suo disprezzo per quelle anticaglie, difendendo così il museo Pons da ogni invasione, per molti anni.
    Da quando Pons era costretto a letto, Schmucke lo sostituiva in teatro e nei collegi. Il povero tedesco, che vedeva il suo amico soltanto la mattina e a cena, cercava di mantenere ogni impegno per conservare la comune clientela; ma tutte le sue forze erano assorbite da questo compito, tanto il dolore lo affliggeva. Vedendo il pover'uomo così triste, le allieve e la gente di teatro, tutti da lui informati sulla malattia di Pons, gli chiedevano continuamente notizie, e il dispiacere del pianista era così grande che egli otteneva dagli indifferenti quella smorfia di compassione che a Parigi si accorda alle peggiori catastrofi. Il principio stesso della vita era colpito nel buon tedesco, esattamente come in Pons. Schmucke soffriva nello stesso tempo per il proprio dolore e per la malattia del suo amico. Così parlava di Pons per metà della lezione che dava; interrompeva così ingenuamente una spiegazione per chiedere a se stesso come potesse stare il suo amico, che la giovane allieva lo ascoltava mentre spiegava la malattia del suo amico. Tra una lezione e l'altra correva in rue de Normandie a vedere Pons per un quarto d'ora. Spaventato dal vuoto della cassa sociale, allarmato dalla Cibot che da quindici giorni faceva del suo meglio per aumentare le spese della malattia, il professore di pianoforte sentiva le proprie angosce dominate da un coraggio di cui non si sarebbe mai creduto capace. Per la prima volta in vita sua voleva guadagnare del denaro, perché non mancasse in casa. Quando un'allieva, sinceramente colpita dalla situazione dei due amici, chiedeva a Schmucke come potesse lasciare Pons da solo, allora rispondeva, con il sublime sorriso dei babbei:
    «Sighnorina, ma abbiamo la sighnora Zibod! un tesoro! una perla! Bons è curato come un principe!».
    Ora, appena Schmucke trottava per le strade, la Cibot era la padrona dell'appartamento e del malato. In quale modo Pons, che non mangiava niente da quindici giorni, che giaceva privo di forze, che la Cibot doveva alzare e mettere in una poltrona per rifare il letto, in quale modo avrebbe potuto sorvegliare quel sedicente angelo custode? Naturalmente la Cibot era andata da Élie Magus mentre Schmucke era a pranzo.
    Tornò proprio mentre il tedesco stava salutando il malato; infatti, dal momento della rivelazione della possibile ricchezza di Pons, la Cibot non lasciava più il suo scapolo, se lo covava! Si sprofondava in una buona poltrona, ai piedi del letto, e per distrarre Pons gli raccontava quei pettegolezzi in cui sono bravissime le donne di questo genere. Divenuta adulatrice, dolce, premurosa, apprensiva, s'insinuava nell'animo del buon Pons con un'abilità machiavellica, come stiamo per vedere.

XXXVI • PETTEGOLEZZI E POLITICA DELLE VECCHIE PORTIERE

    Spaventata dalla predizione del grande gioco della signora Fontaine, la Cibot si era ripromessa di riuscire, con le buone maniere, con una scelleratezza esclusivamente morale, a farsi inserire nel testamento del suo signore. Essendo stata all'oscuro per dieci anni del valore del museo Pons, la Cibot vedeva dinanzi a sé dieci anni di attaccamento, probità e disinteresse, e si proponeva di scontare quel magnifico valore. Dal giorno in cui, con parole piene d'oro, Rémonencq aveva liberato nel cuore di quella donna un serpente rinchiuso nel suo guscio per venticinque anni, il desiderio di essere ricca, quella creatura aveva nutrito il serpente di tutti i cattivi germi acquattati nel fondo dei cuori, e ora vedremo in quale modo quella donna seguisse i consigli che il serpente le sibilava.
    «Ebbene, ha bevuto il nostro cherubino? Sta meglio?», chiese a Schmucke.
    «Non molto bene, cara sighnora Zipod! non bene!», rispose il tedesco asciugandosi una lacrima.
    «Ma siete anche voi che vi allarmate troppo, mio caro signore, bisogna prendere le cose come vengono... Se Cibot stesse per morire, non sarei desolata quanto voi. Su! il nostro cherubino è di buona costituzione. E poi, sembra che abbia avuto una vita morigerata... voi non sapete quanto vivono a lungo le persone morigerate! È molto malato, questo è vero, ma con l'attenzione che gli dedico vedrete che lo tiro fuori. State tranquillo, andate per i vostri affari, ci penso io a tenergli compagnia, e a fargli bere le sue pinte d'acqua d'orzo».
    «Senza di voi, morirei di ansia...», disse Schmucke stringendo tra le mani con un gesto di fiducia la mano della sua buona governante.
    La Cibot entrò nella camera di Pons asciugandosi gli occhi.
    «Che avete, signora Cibot?», chiese Pons.
    «È il signor Schmucke che mi mette l'anima sottosopra... vi piange come se foste morto!», rispose lei. «È vero che non state bene, ma non ancora così male da piangervi; mi fa così impressione! Mio Dio, che stupida sono a voler tanto bene alla gente e ad essermi affezionata più a voi che a Cibot! Dopotutto non siete niente per me, siamo parenti soltanto per via di Eva; ebbene, ho il sangue in subbuglio perché si tratta di voi, parola d'onore. Mi farei tagliare una mano, la sinistra s'intende, davanti a voi, per vedervi andare e venire, mangiare, raggirare i negozianti, come fate di solito... Se avessi avuto un figlio, credo che gli avrei voluto bene come a voi! Su, adesso bevete, tesoro, coraggio, un bel bicchiere pieno! Su, bevete! È la prima cosa che ha detto il signor Poulain: «Se non vuole andare al Père-Lachaise, il signor Pons deve bere in una giornata tanta acqua quanta ne vende un alverniate». Su, bevete!...».
    «Ma io bevo, signora Cibot... bevo così tanto che il mio stomaco è annegato...».
    «Ecco, va bene!», disse la portiera prendendo il bicchiere vuoto. «In questo modo vi salverete! Il signor Poulain aveva un malato proprio come voi, che non era assistito da nessuno, abbandonato dai figli, ed è morto di questa stessa malattia, per non aver bevuto!... E allora bisogna bere, cocco mio!... quello è stato sepolto due mesi fa... Sapete che se morite, caro il mio signore, vi portate dietro anche il bravo Schmucke?... È come un bambino, parola d'onore. Ah, quanto vi vuol bene quel caro agnellino d'uomo! No, una donna non ama così un uomo!... Ha smesso di bere e di mangiare, in quindici giorni è dimagrito quanto voi, che siete pelle e ossa... Questo mi rende gelosa, perché vi sono tanto affezionata ma non sono arrivata a quel punto, non ho perduto l'appetito, anzi! A forza di salire e scendere continuamente da un piano all'altro, ho una tale stanchezza nelle gambe che la sera cado giù come un pezzo di piombo. E così, per voi, trascuro il mio povero Cibot, ed è la signorina Rémonencq a fargli da mangiare, e lui mi brontola perché è tutto cattivo! Allora gli dico che bisogna saper soffrire per gli altri, e che voi siete troppo malato per lasciarvi solo... Innanzitutto non potete fare a meno di un'infermiera! Poi non sopporterei un'infermiera qui, quando sono io a occuparmi della vostra casa ormai da dieci anni... Inoltre sono tutte golose, mangiano per dieci, pretendono il vino, lo zucchero, lo scaldino, tutti i loro comodi... E poi derubano i malati, quando non le mettono sul loro testamento... Fate entrare un'infermiera oggi, e domani troveressimo un quadro, qualche oggetto in meno...».
    «Oh! signora Cibot!», esclamò Pons fuori di sé, «non mi lasciate!... Non devono toccare niente!...».
    «Io sono qui!», disse la Cibot. «Finché ne avrò la forza, resterò qui... state tranquillo! Il signor Poulain, che forse è interessato al vostro tesoro, voleva pensarci lui a un'infermiera... Come l'ho sistemato! «Il signore», gli ho detto, «vuole soltanto me; le sue abitudini sono le mie». Eh, allora si è zittito. Un'infermiera!.... sono tutte ladre! Le odio quelle donne!... Ma sentite come sono intriganti. Dunque, un vecchio signore... notate che è stato il signor Poulain a raccontarmi questa storia.... Dunque, una certa signora Sabatier, una donna di trentasei anni, commerciante di pantofole vicino al Tribunale... conoscete senz'altro la galleria che è stata demolita...».
    Pons annuì.
    «... Bene... questa donna non è stata fortunata col marito, che si beveva tutto ed è morto di un'imbustione spontanea; ma è stata una bella donna, bisogna dirlo, ma le è servito poco, anche se dicono che abbia avuto degli avvocati come buoni amici... Dunque, trovandosi in difficoltà si è messa a fare l'infermiera delle partorienti e abita in rue Barre-du-Bec. Ha anche assistito un vecchio signore che, con rispetto parlando, aveva una malattia delle vie lurinarie per cui lo sondavano come un pozzo artesiano, e aveva bisogno di tante di quelle cure che lei dormiva su una branda nella camera di quel signore. Sembra incredibile! Ma voi mi direte: «Gli uomini non hanno rispetto per nulla! sono talmente egoisti!». Insomma, ecco che parlando con lui, voi capite... lei era sempre lì, lo distraeva, gli raccontava delle storie, lo faceva chiacchierare come stiamo facendo noi due in questo momento... insomma, viene a sapere che i suoi nipoti, perché il malato aveva dei nipoti, erano dei mostri, che gli procuravano tanti dispiaceri e che, in fin dei conti, si era ammalato a causa di questi nipoti. Ebbene, mio caro signore, lei lo ha salvato dalla morte ed è divenuta sua moglie, e hanno un bellissimo bambino, e comare Bordevin, la macellaia della rue Charlot, che è parente di questa signora, gli ha fatto da madrina... Questa è fortuna!... Io, sono maritata, ma non ho figli e, posso dirlo, è per colpa di Cibot che mi ama troppo, perché se volessi... Basta così. Che ci sarebbe accaduto con dei figli, a me e al mio Cibot, senza un soldo da parte dopo trent'anni di vita onesta, mio caro signore! Ma quello che mi consola è che non ho un solo centesimo di beni altrui. Non ho mai fatto un torto a nessuno... Vedete, facciamo una semplice supposizione, che si può fare perché entro sei settimane starete sulle vostre gambe, a passeggiare sui boulevards; ebbene, se voi mi metteste nel vostro testamento, non smetterei un attimo di cercare i vostri eredi per restituire... tanto mi fa paura quello che non mi sono guadagnata col sudore della fronte. Mi direte: «Ma, comare Cibot, non tormentatevi in questo modo; ve lo siete guadagnato, avete accudito questi signori come fossero figli vostri, gli avete fatto risparmiare mille franchi l'anno...». Perché, al posto mio, signore, quante cuoche avrebbero già intascato almeno diecimila franchi!... «Ma allora è giusto che questo degno signore vi lasci un piccolo vitalizio!...», mi si potrebbe dire, sempre per supposizione. Ebbene, no! io sono disinteressata... Non so come ci siano delle donne che fanno il bene per interesse... Non è più fare il bene, vero, signore?... Non vado in chiesa, io! Mi manca il tempo. Ma la coscienza mi dice cosa è bene... Non vi agitate così, tesoro!... Mio Dio, come diventate giallo! Siete talmente giallo che sembrate bruno... Che strano, in soli venti giorni diventare giallo come un limone!... L'onestà è il tesoro della povera gente; bisogna pur possedere qualcosa! E poi, se arrivate, supponiamo, al limite estremo, sarei la prima a dirvi di donare tutto quello che possedete al signor Schmucke. Dovete farlo, perché lui solo costituisce tutta la vostra famiglia! Vi vuol bene come un cane vuol bene al suo padrone».
    «Ah! sì», disse Pons, «in tutta la mia vita, soltanto lui mi ha voluto bene...».

XXXVII • DOVE SI VEDE L'EFFETTO DI UN BEL BRACCIO

    «Ah, signore», disse la Cibot, «non siete gentile; e io? Non vi voglio bene, io?...».
    «Non dico questo, cara signora Cibot...».
    «Bene! non mi prenderete mica per una serva, una cuoca qualunque, come se non avessi un cuore! Ah! mio Dio! fatevi in quattro per undici anni per due vecchi scapoli! pensate solo a farli mangiare bene, io che mettevo a soqquadro le botteghe di dieci fruttivendole fino a farmi dire delle scemenze, per trovare del buon formaggio di Brie, e andavo fino alle Halles per farvi avere del burro fresco; e fate ogni cosa con attenzione, che in dieci anni non vi ho rotto nulla, neppure sbreccato... Siate dunque come una madre per i suoi bambini!... per poi sentirvi dire «cara signora Cibot»! È la prova che non c'è il minimo sentimento per voi nel cuore del vecchio signore che state accudendo come il figlio di un re, perché il piccolo re di Roma non è stato accudito come voi!... tant'è vero che è morto nel fiore degli anni... No, signor Pons, non siete giusto!... Siete un ingrato! E tutto questo perché non sono che una povera portiera. Ah, mio Dio! credete dunque che noi siamo dei cani?...».
    «Ma, cara signora Cibot...».
    «Insomma, voi che siete istruito, spiegatemi perché siamo trattati così, noi portieri, che veniamo considerati privi di sentimenti, e veniamo presi in giro, in tempi in cui si parla di eguaglianza!... Dunque io non valgo quanto un'altra donna!... io che sono stata una delle donne più belle di Parigi, che venivo chiamata la bella ostricaia, e ricevevo sette o otto dichiarazioni al giorno!... e se lo volessi, ancora oggi! Avete presente, signor Pons, quella mezza cartuccia di ferravecchio che sta di fianco al portone? Bene, se fossi vedova - è una supposizione - mi sposerebbe ad occhi chiusi, tanto li tiene aperti su di me, e mi dice continuamente: «Che belle braccia che avete, comare Cibot!... stanotte ho sognato che erano pane e io ero burro, e mi ci spalmavo sopra!...». Guardate, signore, che braccia!...».
    Rimboccò una manica e mostrò il più bel braccio del mondo, bianco e fresco quanto la mano era rossa e rovinata; un braccio grassoccio, rotondo, con le fossette, e che, estratto dal suo fodero di lana comune, come si estrae una lama dalla guaina, doveva abbagliare Pons, che non osò guardarlo a lungo.
    «Queste braccia», continuò, «hanno aperto tanti cuori quante ostriche ha aperto il mio coltello! Ebbene, appartengono a Cibot, e io ho avuto il torto di trascurare quel caro uomo, che si getterebbe in un precipizio se glielo dicessi, per voi, signore, che mi chiamate «cara signora Cibot», quando per voi farei l'impossibile...».
    «Sentite», disse il malato, «non posso chiamarvi «madre mia», né «moglie mia»...».
    «No, per il resto della mia vita, non mi affezionerò mai più a nessuno!...».
    «Ma lasciatemi dire!», riprese Pons. «Dunque, innanzitutto ho parlato di Schmucke».
    «Il signor Schmucke! ecco uno di cuore!», disse la Cibot. «Lui sì che mi vuol bene... perché è povero! È la ricchezza a rendere insensibili, e voi siete ricco! E allora chiamate un'infermiera, vedrete che vita vi farà fare! vi tormenterà come un insetto... Il medico dirà che bisogna farvi bere, e lei vi darà solo da mangiare! Vi seppellirà per derubarvi! Non meritate d'avere una Cibot!... Bene, quando verrà il signor Poulain, chiedetegli un'infermiera!».
    «Ma insomma, ascoltatemi!», esclamò il malato in collera. «Non parlavo di donne, parlando del mio amico Schmucke!... So bene che non esistono altre persone che mi vogliano bene sinceramente come voi e Schmucke!...».
    «Smettetela di irritarvi in questo modo!», esclamò la Cibot precipitandosi su Pons e facendolo sdraiare a forza.
    «Come potrei non volervi bene?...», disse il povero Pons.
    «Davvero mi volete bene?... Su, su, scusate, signore!», disse lei piangendo e asciugandosi le lacrime. «Ebbene, sì, voi mi volete bene, ma come si vuol bene a una domestica, ecco... una domestica a cui si getta un vitalizio di seicento franchi, come un tozzo di pane nella cuccia di un cane!...».
    «Oh, signora Cibot!», esclamò Pons, «per chi mi prendete? Voi non mi conoscete!».
    «Ah, dunque mi volete bene anche di più?», riprese a dire dopo uno sguardo di Pons; «vorrete bene alla vostra buona e grassa Cibot come a una madre? E allora va bene; sono vostra madre, e voi siete i miei due figli!... Ah, se conoscessi chi vi ha fatto star male, mi farei portare in corte d'assise e perfino alla correzionale, perché gli strapperei gli occhi!... Quella gente merita di esser fatta morire alla porta Saint-Jacques! ed è ancora troppo poco per simili scellerati!... Voi che siete così buono, così tenero, che avete un cuore d'oro, eravate stato creato per rendere felice una donna... Sì, voi l'averessite resa felice... è evidente, eravate tagliato per questo... All'inizio, vedendo come trattavate il signor Schmucke, mi dicevo: «Il signor Pons ha mancato la sua vita! Era fatto per essere un buon marito...». Confessatelo, le donne vi piacciono!».
    «Ah! sì», disse Pons, «ma non ne ho mai avute!...».
    «Veramente?», esclamò la Cibot con aria provocante, avvicinandosi a Pons e prendendogli una mano. «Non sapete cosa significa avere un'amante che fa i salti mortali per il suo amico? Possibile? Io, al vostro posto, non vorrei andarmene all'altro mondo senza aver conosciuto la più grande felicità che ci sia sulla terra!... Povero cocco! se fossi quella che sono stata, parola d'onore, lascerei Cibot per voi! Con un naso come questo, così fiero, come avete fatto, mio povero cherubino?... Voi mi direte: «Non tutte le donne s'intendono di uomini!...» ed è una disgrazia che si sposino così a caso, che fa proprio pena. Stando alle vostre assenze, ho creduto che aveste amanti a dozzine, ballerine, attrici, duchesse!... Quando vi vedevo uscire, dicevo sempre a Cibot: «Ecco il signor Pons che va a correre la cavallina!». Parola d'onore! dicevo così, tanto vi credevo amato dalle donne! Il cielo vi ha creato per l'amore!... Vedete, mio caro signore, me ne sono resa conto il giorno in cui avete mangiato qui per la prima volta. Oh! eravate commosso per il piacere che procuravate al signor Schmucke! E lui, che il giorno dopo piangeva ancora, dicendomi: «Sighnora Zibod, ha cenato qui!», e anch'io a piangere come una scema. E com'era triste quando avete ricominciato a scorrazzare per la città, e a mangiare fuori! Pover'uomo! non si era mai vista una desolazione simile! Ah, fate proprio bene a farlo vostro erede! È tutta una famiglia per voi, quel degno e caro uomo!... Non dimenticatelo! altrimenti Dio non vi accoglierà in paradiso, dove deve lasciar entrare solo coloro che sono stati riconoscenti con gli amici, lasciandogli delle rendite».

XXXVIII • ESORDIO CON INSINUAZIONE

    Pons si sforzava invano di rispondere, la Cibot parlava con la velocità del vento. Se si è trovato il modo di fermare le macchine a vapore, quello di «stoppare» la lingua di una portiera esaurirà il genio degli inventori.
    «So cosa volete dire!», continuò la Cibot. «Fare testamento quando si è malati non uccide mica; anzi, al vostro posto, nel timore di imprevisti, non vorrei abbandonare quel povero agnellino, che è proprio l'agnellino del buon Dio; non sa niente di niente; non vorrei lasciarlo tra le mani di rapaci uomini d'affari, e di parenti che sono tutti delle canaglie! Insomma, in questi venti giorni è forse venuto qualcuno a trovarvi?... E voi vorreste lasciargli i vostri beni! Lo sapete che si dice che tutto quello che è qui ne vale la pena?».
    «Ma sì», disse Pons.
    «Rémonencq, che vi conosce come collezionista, e che commercia in cose vecchie, dice che vi offrirebbe volentieri trentamila franchi di rendita vitalizia per avere i vostri quadri dopo la vostra... Ecco un vero affare! Al vostro posto, io lo farei! Quando me lo ha detto, ho creduto che mi stesse prendendo in giro... Dovreste dirlo al signor Schmucke quanto vale tutta quella roba, perché è un uomo che si farebbe imbrogliare come un bambino; non ha la minima idea di quanto valgano le belle cose che avete! Lo sospetta talmente poco, che le darebbe via per un pezzo di pane se, per amore vostro, non le conservasse per tutta la vita, sempre che viva dopo di voi, perché la vostra morte lo farà morire. Ma ci sono qua io! Lo difenderò contro tutti!... io e Cibot».
    «Cara signora Cibot», rispose Pons intenerito da queste spaventose chiacchiere, nelle quali il sentimento sembrava sincero e ingenuo come è nella gente del popolo, «che ne sarebbe stato di me senza voi e Schmucke?».
    «Ah, siamo veramente gli unici amici che avete in questo mondo! È proprio così! Ma due cuori affettuosi valgono tutte le famiglie... Non parlatemi della famiglia! È come la lingua, diceva quel vecchio attore, è tutto quello che c'è di meglio e di peggio... Dove sono finiti i vostri parenti? Ma ne avete di parenti?.... io non li ho mai visti...».
    «Sono stati loro a farmi ammalare!...», esclamò Pons con profonda amarezza.
    «Ah! avete dei parenti!...», disse la Cibot saltando in piedi come se la sua poltrona fosse stata di ferro improvvisamente incandescente. «Ah, bene! Sono gentili i vostri parenti! Ma come!... sono venti giorni, sì, stamani sono venti giorni, che state per morire, e non sono ancora venuti a prendere notizie! È il colmo!... Al vostro posto lascerei tutto all'ospizio dell'Infanzia abbandonata piuttosto che lasciare a loro un centesimo!».
    «Ebbene, cara signora Cibot, io volevo lasciare tutto quello che possiedo alla mia cugina di secondo grado, la figlia del mio cugino carnale, il presidente Camusot.... sapete, il magistrato che è venuto una mattina, circa due mesi fa».
    «Ah!, quel tipo basso e grasso, che vi aveva inviato i domestici a chiedervi perdono... per la stupidità di sua moglie... e la cameriera mi fece delle domande su di voi, una vecchia talmente smorfiosa che avevo voglia di spolverarle la mantellina di velluto col manico della scopa. Si è mai vista una cameriera con una mantellina di velluto? No, parola d'onore, il mondo è capovolto! Perché si fanno delle rivoluzioni? Pranzate due volte al giorno, se ne avete i mezzi, pezzenti con i soldi! Ma io dico che le leggi sono inutili, che non c'è più niente di sacro se Luigi Filippo non mantiene le distanze tra i vari ceti; perché insomma, se siamo tutti eguali, non è vero signore?, una cameriera non deve avere una mantellina di velluto mentre io, comare Cibot, con trent'anni di vita onesta, non ce l'ho... Non sono belle queste cose! Si deve vedere chi siete. Una cameriera è una cameriera, come io sono una portiera! Perché dunque i militari si distinguono anche per le spalline? A ognuno il suo grado! Insomma, volete che vi dica fino in fondo come la penso? La Francia è perduta!... E sotto l'imperatore, non è vero signore? tutto era diverso. Così ho detto a Cibot: «Vedi caro mio, una casa dove ci sono cameriere in mantellina di velluto è una casa di gente senza cuore...»».
    «Senza cuore! proprio così», rispose Pons.
    E Pons raccontò le sue delusioni e i suoi dispiaceri alla Cibot, che fu generosa d'invettive contro i parenti, e dimostrò la più eccessiva tenerezza ad ogni frase del triste racconto. E alla fine pianse!
    Per comprendere quest'improvvisa intimità tra il vecchio musicista e la Cibot, basta immaginare la situazione di uno scapolo, gravemente malato per la prima volta in vita sua, steso su un letto di dolore, solo al mondo, costretto a passare la sua giornata in solitudine, che trova la giornata tanto più lunga quanto più è alle prese con le sofferenze indefinibili dell'epatite, capace di rattristare la più bella delle esistenze, e che, privato delle sue numerose occupazioni, cade nel marasma parigino e rimpiange tutto ciò che si vede gratis a Parigi.
    Questa solitudine profonda e tenebrosa, questo dolore che colpisce più il morale che il fisico, il senso di inutilità della vita, tutto questo spinge uno scapolo, soprattutto se ha un carattere debole e un cuore sensibile, fiducioso, ad attaccarsi alla persona che lo assiste, come uno che sta per annegare si attacca a una tavola. Per questo Pons ascoltava rapito i pettegolezzi della Cibot. Schmucke, la Cibot e il dottor Poulain erano l'umanità intera, come la sua camera era l'universo. Se già tutti i malati concentrano la loro attenzione nella sfera delimitata dai loro sguardi, e il loro egoismo consiste nel subordinarsi agli esseri e alle cose di una camera, si può immaginare di cosa sia capace un vecchio scapolo, privo di affetti, che non ha mai conosciuto l'amore. In quei venti giorni, in certi momenti Pons era giunto a rimpiangere di non aver sposato Madeleine Vivet! Così, dopo venti giorni, la Cibot stava facendo immensi progressi nell'animo del malato, che senza di lei si sentiva perduto; infatti, per il povero malato, Schmucke era un secondo Pons. L'arte prodigiosa della Cibot consisteva, senza che lei se ne rendesse conto, nell'esprimere le idee dello stesso Pons.
    «Ah! ecco il dottore», disse la Cibot sentendo dei colpi di campanello.
    E lasciò Pons da solo, sapendo bene che stavano arrivando l'ebreo e Rémonencq.
    «Non fate rumore, signori...», disse, «non deve accorgersi di niente; quando si tratta del suo tesoro, diventa intrattabile».
    «Basterà un rapido giro», disse l'ebreo, armato di lente e occhialetto.

XXXIX • CORRUZIONE NEGOZIATA

    La stanza in cui si trovava la maggior parte del museo Pons era uno di quegli antichi salotti ideati dagli architetti al servizio della nobiltà francese, di venticinque piedi di larghezza, venti di lunghezza e tredici di altezza. I quadri posseduti da Pons, sessantasette, erano sistemati sulle quattro pareti del salotto rivestito di legno, bianco e oro; ma il bianco ingiallito e l'oro arrossato dal tempo avevano tonalità armoniose che non compromettevano l'effetto delle tele. Quattordici statue s'innalzavano su delle colonne, negli angoli, tra i quadri, su piedistalli di Boulle. Alcuni buffet in ebano, tutti intagliati e di un lusso regale, ornavano ad altezza di gomito la parte bassa delle pareti. I buffet contenevano le curiosità. Al centro del salotto, altre credenze in legno intagliato, allineate, esponevano le più grandi rarità del lavoro umano: avori, bronzi, legni, smalti, oreficeria, porcellane ecc.
    Appena l'ebreo si trovò in questo santuario, si diresse immediatamente verso quattro capolavori che riconobbe come i più belli della collezione, e di maestri che mancavano alla sua. Quelle opere rappresentavano per lui quello che per i naturalisti sono i desiderata che fanno compiere viaggi da ponente a levante, ai tropici, nei deserti, nelle pampas, nelle savane, nelle foreste vergini. Il primo quadro era di Sebastiano del Piombo, il secondo di Fra' Bartolomeo della Porta, il terzo era un paesaggio di Hobbema, e l'ultimo un ritratto di donna di Albrecht Dürer; quattro diamanti! Nell'arte della pittura, Sebastiano del Piombo è come un punto brillante nel quale tre scuole si sono incontrate per offrire ognuna le proprie eminenti qualità. Pittore di Venezia, è andato a Roma per imparare lo stile di Raffaello, sotto la guida di Michelangelo, che volle opporlo a Raffaello per lottare, nella persona di uno dei suoi luogotenenti, contro quel sovrano pontefice dell'arte. Così quel pigro genio ha fuso il colore veneziano, la composizione fiorentina e lo stile di Raffaello nei rari quadri che si è degnato di dipingere e i cui cartoni erano disegnati, si dice, da Michelangelo. E possiamo vedere quale perfezione abbia raggiunto quest'uomo, armato di quella triplice forza, quando si studia, al Museo di Parigi, il Ritratto di Baccio Bandinelli, che può essere confrontato senza sfigurare con L'uomo col guanto di Tiziano, col Ritratto di vecchio nel quale Raffaello ha aggiunto la sua perfezione a quella del Correggio, e col Carlo VIII di Leonardo da Vinci. Queste quattro perle offrono la stessa acqua, lo stesso oriente, la stessa rotondità, lo stesso splendore, lo stesso valore. L'arte umana non può andare oltre. È superiore alla natura, che ha fatto vivere l'originale solo per un istante. Di questo grande genio, di questa tavolozza immortale, ma di una pigrizia incurabile, Pons possedeva un Cavaliere di Malta in preghiera, dipinto su ardesia, di una freschezza, di una perfezione e di una profondità perfino superiori alle qualità del Ritratto di Baccio Bandinelli. Il Fra' Bartolomeo, che rappresentava una Sacra Famiglia, sarebbe stato preso per un quadro di Raffaello da molti esperti. L'Hobbema sarebbe salito fino a sessantamila franchi in un'asta pubblica. Quanto all'Albrecht Dürer, quel ritratto di donna era simile al famoso Holzschuer di Norimberga per il quale i re di Baviera, di Olanda e di Prussia hanno offerto più di una volta, ma invano, duecentomila franchi. Si tratta della moglie o della figlia del cavaliere Holzschuer, l'amico di Albrecht Dürer?... L'ipotesi pare una certezza perché la donna del museo Pons ha un atteggiamento che presuppone una figura corrispondente, e gli stemmi dipinti nei due quadri hanno la stessa disposizione. Infine, l'aetatis suae XLI è in perfetta armonia con l'età indicata nel ritratto così religiosamente conservato dalla famiglia Holzschuer di Norimberga, di cui è stata realizzata recentemente l'incisione.
    Élie Magus ebbe le lacrime agli occhi quando vide, uno dopo l'altro, quei quattro capolavori.
    «Vi dò un compenso di duemila franchi per ognuno di questi quadri, se me li fate avere per quarantamila franchi!...», sussurrò all'orecchio della Cibot, stupefatta di tanta fortuna piovuta dal cielo.
    L'ammirazione, o per essere più esatti il delirio, dell'ebreo, aveva prodotto una tale confusione nel suo cervello e nelle sue abitudini di avidità, che l'ebreo vi si perse, come si è visto.
    «E io?...», disse Rémonencq, che non s'intendeva di quadri.
    «Qui tutto ha lo stesso valore», bisbigliò astutamente l'ebreo all'orecchio dell'alverniate. «Prendi dieci quadri a caso e alle stesse condizioni, e farai la tua fortuna!».
    I tre ladri continuavano a scrutarsi, ognuno in preda alla propria voluttà, la più viva di tutte, la soddisfazione del successo in materia di ricchezza, quando la voce del malato risuonò e vibrò come dei colpi di campana...
    «Chi è là?...», stava gridando Pons.
    «Signore, tornate a letto!», disse la Cibot precipitandosi verso Pons e costringendolo a rimettersi a letto. «Ah! volete uccidervi?... No, non è il signor Poulain, è il buon Rémonencq, talmente preoccupato per voi che è venuto a sapere come state!... Vi si vuole così bene che tutta la casa è in agitazione per voi. Di che avete paura?».
    «Ma mi sembra che siate in parecchi...», disse il malato.
    «Parecchi? Questa è buona... State sognando?... Finirete per diventare matto, parola mia... Ecco, guardate».
    La Cibot andò ad aprire la porta, fece segno a Magus di indietreggiare e a Rémonencq di entrare.
    «Sono venuto, caro signore», disse l'alverniate, al quale la Cibot aveva suggerito cosa dire, «per sapere come state, perché tutta la casa è in ansia per voi... A nessuno fa piacere che la morte entri nelle case!... E inoltre papà Monistrol, che conoscete bene, mi ha incaricato di dirvi che se avete bisogno di denaro, è a vostra disposizione...».
    «Vi manda per dare un'occhiata ai miei ninnoli!...», disse il vecchio collezionista con un'acredine piena di diffidenza.
    Nelle malattie di fegato, i soggetti contraggono quasi sempre un'antipatia speciale, momentanea; concentrano il loro malumore su un oggetto o su una persona qualunque. Ora, Pons era convinto che si volessero mettere le mani sul suo tesoro, aveva l'idea fissa di sorvegliarlo, e di tanto in tanto mandava Schmucke a controllare che nessuno fosse penetrato nel santuario.
    «La vostra collezione è talmente bella», rispose astutamente Rémonencq, «da attirare l'attenzione dei rigattieri; io non m'intendo di rarità, ma il signore passa per essere un conoscitore talmente esperto che io, anche se non sono pratico della materia, da voi comprerei ad occhi chiusi... se il signore avesse bisogno di denaro, dal momento che niente costa come queste malattie... mia sorella, in dieci giorni, ha speso trenta soldi in medicine, quando ha avuto quell'agitazione di sangue, e sarebbe guarita anche senza... i medici sono degli imbroglioni, che approfittano della nostra salute per...».
    «Addio, grazie, signore», disse Pons al ferravecchio, guardandolo inquieto.
    «Vado ad accompagnarlo», disse sottovoce la Cibot al suo malato, «non vorrei che toccasse qualcosa».
    «Sì, sì», rispose il malato ringraziando la Cibot con uno sguardo.
    La Cibot chiuse la porta della camera da letto, e ciò risvegliò la diffidenza di Pons. La donna trovò Magus immobile davanti ai quattro quadri. Quest'immobilità, quest'ammirazione, possono essere capite solo da coloro la cui anima è aperta al bello ideale, al sentimento ineffabile suscitato dalla perfezione artistica, e che restano in piedi per delle ore intere al Museo davanti alla Gioconda di Leonardo da Vinci, davanti all'Antiope del Correggio, il capolavoro di quel pittore, davanti all'Amante di Tiziano, alla Sacra Famiglia di Andrea del Sarto, davanti ai Fanciulli tra i fiori del Domenichino, al piccolo monocromo di Raffaello e al suo Ritratto di vecchio, i più grandi capolavori dell'arte.
    «Andate senza fare rumore!», disse la Cibot.
    L'ebreo se ne andò lentamente, indietreggiando, e intanto guardava i quadri come un amante guarda la sua amata mentre le dice «addio».

XL • ASSALTO D'ASTUZIA

    Quando l'ebreo fu sul pianerottolo, la Cibot, cui quella contemplazione aveva fatto venire delle idee, batté sul braccio secco di Magus.
    «Mi darete quattromila franchi a quadro! Altrimenti, niente da fare...».
    «Sono così povero!...», disse Magus. «Se desidero queste tele, mia bella signora, è soltanto per amore, per amore dell'arte!».
    «Sei così secco, figlio mio», disse la portiera, «che lo capisco che amore è. Ma se non mi prometti oggi sedicimila franchi davanti a Rémonencq, domani saranno ventimila».
    «Prometto i sedici», rispose l'ebreo, spaventato dall'avidità della portiera.
    «Su cosa può giurare un ebreo?...», chiese la Cibot a Rémonencq.
    «Potete fidarvi di lui», rispose il ferravecchio, «è onesto come me».
    «Bene, e voi?», chiese la portiera, «se ve li faccio vendere, cosa mi date?...».
    «La metà del guadagno», disse pronto Rémonencq.
    «Preferisco una somma subito, io non sono nel commercio», rispose la Cibot.
    «Sapete farci con gli affari!», disse Élie Magus sorridendo. «Potreste diventare una commerciante famosa».
    «Le offro di diventare mia socia, vita e beni», disse l'alverniate stringendo il braccio grassoccio della Cibot e picchiandovi sopra con la forza di un martello. «Non le chiedo altri capitali che la sua bellezza! Sbagliate a tener tanto a quel turco di Cibot e al suo ago! Come può un povero portiere far diventare ricca una bella donna come voi? Ah! che bella figura fareste in una bottega sul boulevard, tra le curiosità, a chiacchierare con gli amatori, a raggirarli! Lasciate perdere la portineria quando vi sarete fatta un bel gruzzolo qui, e allora vedrete cosa diventeremo noi due insieme!».
    «Farmi un gruzzolo!», disse la Cibot. «Ma io sono incapace di toccare uno spillo, capito Rémonencq!», esclamò la portiera. «Io sono conosciuta in tutto il quartiere come una donna onesta, cosa credete?».
    Gli occhi della Cibot fiammeggiavano.
    «Via, calmatevi!», disse Élie Magus. «Quest'alverniate ha l'aria di amarvi troppo per volervi offendere».
    «Come saprebbe procurarvi i clienti!», esclamò l'alverniate.
    «Siate giusti, figli miei», riprese la Cibot, raddolcita, «e giudicate voi stessi la mia situazione qui!... Sono dieci anni che mi distruggo i nervi per questi due vecchi scapoli, senza che mi abbiano mai dato altro che delle parole... Rémonencq potrà dirvi che do da mangiare ai due vecchi à forfait, e ci perdo dai venti ai trenta soldi al giorno, e così ci ho rimesso tutti i miei risparmi, sull'anima di mia madre!... ché dei miei genitori ho conosciuto soltanto lei, ed è vero quanto è vero che esisto, quanto vero è il sole, e che il mio caffè diventi veleno se dico bugie!... Bene, ecco che uno dei due sta per morire, vero?, ed è il più ricco di questi due uomini che ho trattato come figli!... Crederessite, mio caro signore, che sono venti giorni che gli dico che sta per morire (perché il signor Poulain l'ha dato per spacciato!...) e questo taccagno non parla di mettermi sul testamento, come se neppure lo conoscessi! Parola d'onore, abbiamo quello che ci è dovuto solo se ce lo prendiamo, parola di donna onesta; perché andate a fidarvi degli eredi!... figuriamoci! E poi, sapete com'è: parole al vento, e un mondo in mano alle canaglie!».
    «È vero», disse con aria sorniona Élie Magus, «siamo ancora noi i più onesti...», aggiunse guardando Rémonencq.
    «Ma non sto parlando di voi...», continuò la Cibot. «Chi la dura la vince!, come dice quel vecchio attore. Vi giuro che questi due signori mi devono già quasi tremila franchi, che il poco che avevo se n'è già andato in medicine e in altre faccende, e se non dovessero rimborsarmi tutto quello che ho anticipato... Sono così scema, con la mia onestà, che non ho il coraggio di parlargliene. Voi che siete negli affari, mio caro signore, che ne direste se andassi da un avvocato?».
    «Un avvocato!», esclamò Rémonencq, «ne sapete più voi di tutti gli avvocasti!...».
    Il rumore della caduta di un corpo pesante, sul pavimento della sala da pranzo, risuonò nel vasto spazio della scala.
    «Ah! mio Dio!», gridò la Cibot, «che sta succedendo? Mi sembra che il signore abbia fatto una tombola!...».
    Spinse via i due complici, che agilmente si precipitarono giù per le scale; poi si voltò, corse nella sala da pranzo, e vi trovò Pons completamente disteso per terra, in camicia da notte, svenuto! Prese il vecchio scapolo tra le braccia, lo sollevò come una piuma e lo riportò a letto. Dopo aver disteso il moribondo, gli fece respirare della barbula bruciata, gli inumidì le tempie con acqua di Colonia, lo rianimò. Poi, quando vide che Pons riapriva gli occhi e che la vita era ritornata, si mise i pugni sui fianchi.
    «Senza pantofole! in camicia! da ammazzarvi! E perché poi non vi fidate di me?... Se è così, addio, signore. Dopo dieci anni che vi servo, che metto del mio nelle vostre spese, che i miei risparmi sono spariti, per evitare noie a quel povero Schmucke che piange come un bambino per le scale... ecco la mia ricompensa! Mi stavate spiando... Dio vi ha punito... e ha fatto bene! E io che faccio uno sforzo per portarvi in braccio, a rischio di farmi male per il resto dei miei giorni... Ah! mio Dio! e ho anche lasciato la porta aperta...».
    «Con chi stavate parlando?».
    «Ma che idea!», esclamò la Cibot. «Sono forse la vostra schiava? Ho dei conti da rendervi? Sappiate che se continuate a infastidirmi pianto tutto! Vi prenderete un'infermiera!».
    Pons, spaventato da una tale minaccia, senza rendersene conto fece capire alla Cibot fin dove avrebbe potuto spingersi usando questa spada di Damocle.
    «È colpa della mia malattia!», disse con tono lamentoso.
    «Meno male!», replicò duramente la Cibot.
    E lasciò Pons confuso, in preda a dei rimorsi, pieno di ammirazione per la chiassosa fedeltà della sua infermiera, e a rimproverarsi, senza sentire il male terribile con cui aveva aggravato la sua malattia cadendo sul pavimento della sala da pranzo.

XLI • DOVE IL NODO SI STRINGE

    La Cibot vide Schmucke che stava salendo le scale.
    «Venite, signore... Ci sono brutte notizie! Il signor Pons sta diventando pazzo!... Figuratevi che si è alzato completamente nudo, e mi ha seguito... no, è caduto lungo disteso lì per terra... Chiedetegli perché, dice di non saperne niente... Sta andando male. Non ho fatto niente per provocare in lui violenze simili, a meno di non avergli risvegliato le idee parlandogli dei suoi primi amori... Chi li conosce gli uomini? Sono tutti vecchi libertini... Ho fatto male a mostrargli le braccia; aveva due occhi di brace...».
    Schmucke ascoltava la Cibot, come se stesse parlando in ebraico.
    «Ho fatto uno sforzo tale che ne risentirò per il resto della vita!...», aggiunse la Cibot, fingendo di provare un gran dolore e pensando di sfruttare l'idea che aveva avuto, per caso, sentendo un piccolo indolenzimento nei muscoli. «Sono talmente idiota! Quando l'ho visto lì per terra, l'ho preso in braccio e l'ho portato fino al letto, come un bambino! Ma ora lo sento lo sforzo che ho fatto! Ah! come sto male!... scendo in portineria, pensate voi al malato. Mando Cibot a chiamare il signor Poulain per me! Preferirei morire che rimanere invalida...».
    La Cibot si attaccò alla ringhiera e scese le scale con mille contorsioni e gemiti così lamentosi che tutti gli inquilini, impauriti, uscirono sul pianerottolo dei loro appartamenti. Schmucke sosteneva la malata e intanto piangeva, e spiegava a tutti la dedizione della portiera. Rapidamente l'intero casamento, l'intero quartiere appresero il sublime gesto della Cibot che aveva compiuto uno sforzo mortale, si diceva, sollevando tra le braccia uno dei due schiaccianoci. Schmucke, tornato accanto a Pons, lo informò della condizione spaventosa in cui si trovava la loro factotum, ed entrambi si guardarono dicendo: «Come faremo senza di lei?...». Schmucke, vedendo il cambiamento provocato in Pons dalla sua scappatella, non osò rimproverarlo.
    «Accidenti al bric-à-brac! preferirei bruciare tutto quanto piuttosto che perdere il mio amico!...», esclamò dopo aver saputo da Pons la causa dell'incidente. «Non fidarsi della sighnora Zibod che ci presta i suoi risparmi! Non va bene; ma è la malattia...».
    «E quale malattia! Sono cambiato, lo sento», disse Pons. «Non vorrei farti soffrire, mio buon Schmucke».
    «Rimprovera me e lascia in pace la sighnora Zibod», disse Schmucke.
    In pochi giorni il dottor Poulain fece scomparire l'invalidità da cui si diceva minacciata la Cibot, e la sua fama nel quartiere del Marais acquistò un lustro straordinario per quella guarigione miracolosa. In casa Pons il dottore attribuì quel successo all'eccellente costituzione della malata, che dopo sette giorni riprese servizio presso i due signori, con loro grande soddisfazione. L'avvenimento aumentò del cento per cento l'influenza, la tirannia della portiera sulla vita familiare dei due schiaccianoci che, durante quella settimana, avevano fatto dei debiti che tuttavia furono pagati da lei. La Cibot approfittò della circostanza per ottenere da Schmucke (e con quale facilità!) il riconoscimento della somma di duemila franchi che sosteneva di aver prestato ai due amici.
    «Ah! che medico il signor Poulain!», disse la Cibot a Pons. «Vi salverà, mio caro signore... mi ha proprio tirato fuori dalla bara! Il mio povero Cibot già mi vedeva morta!... Eppure, il signor Poulain ve lo avrà detto, mentre ero a letto non pensavo che a voi. «Mio Dio», dicevo «prendete me, e lasciate vivere il mio caro Pons...»».
    «Povera cara signora Cibot, avete rischiato di restare invalida per causa mia!...».
    «Ah! senza il signor Poulain sarei nella camicia di abete che ci aspetta tutti. Beh, sul bordo del fosso si capitombola, come diceva quel vecchio attore! Ci vuole filosofia. Come avete fatto senza di me?...».
    «Mi ha assistito Schmucke», rispose il malato, «ma la nostra povera cassa e la nostra clientela ne hanno sofferto... Non so come abbia fatto».
    «Calmati, Bons!», esclamò Schmucke. «Ci ha fatto da banchiere papà Zibod...».
    «Non parlate di questo, sciocchino mio! Siete tutti e due figli nostri», esclamò la Cibot. «Depositati da voi, i nostri risparmi sono bene investiti; siete più solidi della Banca! Finché avremo un pezzo di pane, ne avrete la metà...; non vale neppure la pena di parlarne...».
    «Povera sighnora Zibod!», disse Schmucke andandosene.
    Pons rimase in silenzio.
    «Ci crederessite, mio cherubino», disse la Cibot al malato vedendolo inquieto, «che nella mia agonia, perché la morte l'ho vista proprio da vicino!... quello che mi tormentava di più era il fatto di lasciarvi soli, abbandonati a voi stessi, e di lasciare il mio povero Cibot senza un soldo!... Sono così pochi i miei risparmi che ve ne parlo solo pensando alla mia morte e a Cibot, che è un angelo! Mi ha assistito come una regina, e piangeva per me come un vitello!... Ma io contavo su di voi, parola di donna onesta. Gli dicevo: «Vedrai, Cibot, che i miei due signori non ti lasceranno mai senza pane...»».
    Pons non rispose a questo attacco ad testamentum, e la portiera rimase in silenzio in attesa di una parola.
    «Vi raccomanderò a Schmucke», disse finalmente il malato.
    «Ah!», esclamò la portiera, «tutto quello che farete sarà ben fatto! Mi rimetto a voi, al vostro buon cuore... Non parliamone più o mi fate vergognare, angelo mio; pensate solo a guarire! Vivrete più di noi...».
    Una profonda inquietudine s'impadronì del cuore della Cibot, che decise di farsi dare spiegazioni dal suo signore a proposito del legato che pensava di lasciarle; e per prima cosa uscì per andare dal dottor Poulain, di sera, dopo la cena di Schmucke, che mangiava accanto al letto di Pons da quando il suo amico si era ammalato.

XLII • STORIA DI TUTTI GLI INIZI DI CARRIERA A PARIGI

    Il dottor Poulain abitava in rue d'Orléans. Occupava un piccolo appartamento al pianterreno composto di un'anticamera, un salotto e due camere da letto. Un locale di servizio attiguo all'anticamera, che comunicava con una delle due stanze, quella del dottore, era stato trasformato in studio. Una cucina, una camera per la domestica e una piccola cantina erano comprese nell'affitto dell'alloggio situato in un'ala della casa, un immenso edificio costruito durante l'Impero al posto di un vecchio palazzo di cui era rimasto il giardino. Il giardino era diviso tra i tre appartamenti del pianterreno.
    L'appartamento del dottore non era stato toccato da quarant'anni. L'intonaco, la carta da parati, le decorazioni, ogni cosa sapeva d'Impero. Un sudiciume quarantennale, il fumo, avevano scurito gli specchi, le cornici, i disegni dei parati, i soffiti e le tinteggiature. Il piccolo appartamento, in fondo al Marais, costava ancora mille franchi l'anno. La signora Poulain, madre del dottore, di sessantasette anni, passava gli ultimi anni della sua vita nella seconda camera da letto. Lavorava per i pantalonai. Cuciva ghette, calzoni di pelle, bretelle, cinture, insomma tutto ciò che riguarda quest'articolo, oggi piuttosto in disuso.
    Occupata a sorvegliare la casa e l'unica domestica del figlio, non usciva mai, e prendeva un po' d'aria nel giardinetto, dove scendeva attraverso una portafinestra del salotto. Vedova da venti anni, alla morte del marito aveva venduto l'azienda di rifiniture in pelle per pantalonai al suo primo operaio, che le procurava abbastanza lavoro da farla guadagnare circa trenta soldi al giorno. Aveva sacrificato tutto all'educazione dell'unico figlio, con la decisa intenzione di procurargli una condizione sociale superiore a quella del padre. Fiera del suo Esculapio, fiduciosa nei suoi successi, continuava a sacrificargli tutto, felice di accudirlo, di economizzare per lui, pensando soltanto al suo benessere e amandolo con intelligenza, cosa che non tutte le madri sanno fare. Così la signora Poulain, che si ricordava di essere stata una semplice operaia, non voleva nuocere al figlio esponendolo al ridicolo o al disprezzo, perché la buona donna parlava con la S proprio come la Cibot parlava con la N; allora si nascondeva nella propria camera, di sua iniziativa, quando per caso qualche cliente distinto veniva a farsi visitare dal dottore, o quando si presentavano i compagni di università o di ospedale. Perciò il dottore non aveva mai dovuto arrossire a causa di sua madre, che venerava, e la cui mancanza d'istruzione era ben compensata da una sublime tenerezza. La vendita dell'azienda aveva reso circa ventimila franchi, la vedova li aveva investiti in titoli di Stato nel 1820, e i millecento franchi di rendita che riscuoteva rappresentavano tutta la sua ricchezza. Così, per molto tempo, i vicini videro stesa sulle corde, nel giardino, la biancheria del dottore e quella di sua madre. Per fare economie, la domestica e la signora Poulain lavavano tutto in casa. Questo dettaglio domestico nuoceva molto al dottore: vedendolo così povero, non gli veniva riconosciuto del talento. I millecento franchi di rendita finivano nell'affitto. Il lavoro della signora Poulain, buona e grassa vecchietta, nei primi tempi era bastato a tutte le spese della modesta famigliola. Dopo dodici anni di perseveranza nel suo duro cammino, il dottore aveva finito per guadagnare un migliaio di scudi l'anno e la signora Poulain poteva disporre di circa cinquemila franchi. Era, per chi conosce Parigi, lo stretto necessario.
    Il salotto dove i clienti attendevano di essere visitati era miseramente ammobiliato col solito comunissimo canapè di mogano, rivestito di velluto giallo di Utrecht a fiori, quattro poltrone, sei sedie, una consolle e un tavolino da tè, che provenivano dall'eredità del defunto pellettiere, il tutto di sua scelta. La pendola, sempre sotto la sua campana di vetro, tra due candelabri egiziani, raffigurava una lira. C'era da chiedersi grazie a quali tecniche le tendine appese alla finestre avessero potuto resistere così a lungo, dato che erano di calicò giallo a rosoni rossi, della fabbrica di Jouy. Oberkampf aveva ricevuto i complimenti dell'imperatore per questi orribili prodotti dell'industria cotoniera nel 1809. Lo studio del dottore era ammobiliato con quello stesso gusto, impiegando il mobilio della stanza paterna. Era spoglio, povero e freddo. Quale malato poteva credere alla scienza di un medico che, senza fama, era ancora senza mobili in un tempo in cui la pubblicità è onnipotente, e si dorano i lampioni di place de la Concorde per consolare il povero persuadendolo che è un ricco cittadino?
    L'anticamera serviva da sala da pranzo. La domestica vi lavorava quando non era impegnata in cucina o non teneva compagnia alla madre del dottore. Entrando, ci si rendeva conto della miseria decorosa che regnava in quel triste appartamento, deserto per metà giornata, vedendo le tendine di mussola rossa alla finestra della stanza che dava sul cortile. Gli armadi a muro dovevano nascondere resti di pasticcio ammuffito, piatti sbreccati, turaccioli eterni, tovaglioli di una settimana, insomma le ignominie giustificabili delle famigliole parigine, che da quelle case possono finire soltanto nelle gerle degli straccivendoli. Così in questi tempi in cui la moneta da cento soldi se ne sta annidata nel fondo di ogni coscienza, e rotola in ogni discorso, il dottore, trentenne, con una madre senza relazioni sociali, era ancora scapolo. In dieci anni non aveva incontrato il più piccolo pretesto romanzesco nelle famiglie dove la sua professione gli permetteva di entrare, poiché curava persone di condizioni sociali simili alle sue; vedeva soltanto famiglie come la sua, di piccoli impiegati o piccoli artigiani. I suoi clienti più ricchi erano i macellai, i panettieri, i grossi negozianti del quartiere: tutta gente che per lo più attribuiva la guarigione alla natura, per poter pagare le visite del dottore quaranta soldi, vedendolo venire a piedi. In medicina il calesse è più necessario del sapere.
    Una vita ordinaria e senza imprevisti finisce per condizionare anche lo spirito più avventuroso. Un uomo si adatta alla propria sorte, accetta la mediocrità della sua vita. Così il dottor Poulain, dopo dieci anni di pratica, continuava a fare il suo mestiere di Sisifo senza quella disperazione che aveva reso amari i primi anni. Tuttavia accarezzava un sogno, perché ogni parigino ha un suo sogno. Rémonencq pregustava un sogno, anche la Cibot aveva il suo. Il dottor Poulain sperava di essere chiamato da un malato ricco e potente; quindi, di ottenere, grazie all'influenza di questo malato che avrebbe infallibilmente guarito, un posto di primario in ospedale, o di medico delle carceri, o dei teatri di boulevard, o di un ministero. Del resto aveva ottenuto proprio in questo modo il posto di medico comunale. Condotto dalla Cibot, aveva curato e guarito il signor Pillerault, proprietario della casa di cui i Cibot erano portieri. Il signor Pillerault, prozio materno della contessa Popinot, moglie del ministro, che si era interessato di quel giovane la cui segreta miseria era stata da lui accertata durante una visita di ringraziamento, aveva ottenuto dal pronipote, il ministro, che lo venerava, il posto che il dottore occupava da cinque anni, e i cui modesti proventi erano giunti molto a proposito ad impedirgli di prendere una decisione radicale, quella di emigrare. Lasciare la Francia per un francese è un po' come morire. Il dottor Poulain andò a ringraziare il conte Popinot; ma, poiché il medico curante dello statista era l'illustre Bianchon, il questuante capì che non avrebbe potuto entrare in quella casa. Il povero dottore, dopo essersi illuso di ottenere la protezione di uno dei ministri più influenti, una delle dodici o quindici carte che una mano potente mescola da sedici anni sul tappeto verde del tavolo del consiglio, si trovò rituffato nel Marais, dove sguazzava tra i poveri, tra i piccoli borghesi, e dove ebbe l'incarico di constatare i decessi, per milleduecento franchi l'anno.
    Il dottor Poulain, già assistente piuttosto capace, divenuto un medico prudente, non mancava di esperienza. Inoltre i suoi morti non facevano scandalo, e poteva studiare ogni genere di malattia in anima vili. Giudicate voi di quale fiele si nutrisse! Così il suo volto, già di per sé lungo e malinconico, talvolta assumeva un'espressione spaventosa. Mettete su una pergamena gialla gli occhi ardenti di Tartufo e l'acidità di Alceste; poi immaginate l'andatura, l'atteggiamento, gli sguardi di quest'uomo che, considerandosi un bravo medico quanto l'illustre Bianchon, si sentiva relegato in una sfera oscura da una mano di ferro! Il dottor Poulain non poteva fare a meno di confrontare i suoi guadagni di dieci franchi, nei giorni fortunati, con quelli di Bianchon, di cinque o seicento franchi. Non basta per covare tutti i livori della democrazia? Del resto, quest'ambizioso frustrato non aveva niente da rimproverarsi. Aveva già tentato la fortuna inventando delle pillole purgative, simili a quelle di Morisson. Aveva affidato la sfruttamento di quest'invenzione a uno dei suoi colleghi d'ospedale, un assistente che era diventato farmacista; ma il farmacista, innamorato di una comparsa dell'Ambigue-Comique, era fallito, e siccome il brevetto d'invenzione delle pillole purgative era stato rilasciato a suo nome, quella prodigiosa scoperta aveva arricchito il nuovo padrone della farmacia. L'ex assistente era partito per il Messico, la patria dell'oro, portandosi via mille franchi di risparmi del povero Poulain, che come premio di consolazione fu trattato da usuraio dalla comparsa, da cui era andato a reclamare i suoi soldi. Dopo il caso fortunato della guarigione del vecchio Pillerault, non si era più presentato nessun cliente ricco. Poulain correva qua e là per il Marais, a piedi, come un gatto magro, e su venti visite riusciva a trovarne due da quaranta soldi. Il cliente che pagava bene era per lui quell'uccello fantastico chiamato il «merlo bianco» in tutti i mondi sublunari.
    Il giovane avvocato senza cause, il giovane dottore senza clienti, sono le due più grandi espressioni della disperazione dignitosa, tipica di Parigi, quella disperazione muta e fredda, vestita di una giacca e pantaloni neri con cuciture biancastre, che ricordano lo zinco degli abbaini, di un gilè di raso luccicante, di un cappello conservato religiosamente, vecchi guanti e camicie di calicò. È un poema di tristezza, tetra come le segrete della Conciergerie. Le altre miserie, quella del poeta, dell'artista, dell'attore, del musicista, sono allietate dalle giovialità naturali nelle arti, dall'incuranza della bohème, nella quale si entra da giovani e che conduce alle tebaidi del genio! Ma quei due abiti neri che vanno a piedi, portati da due professionisti per i quali tutto è una piaga, ai quali l'umanità mostra soltanto i suoi aspetti vergognosi... quei due uomini, nell'avvilimento dell'inizio della carriera, hanno espressioni sinistre, provocanti, dove l'odio e l'ambizione concentrati sgorgano dai loro sguardi, simili alle prime fiammate di un incendio che stava covando. Quando due amici di collegio s'incontrano, a venti anni di distanza, il ricco evita il compagno povero, non lo conosce più, lo impressiona l'abisso creato tra di loro dalla sorte. L'uno ha percorso la vita sui cavalli focosi della fortuna o sulle nubi dorate del successo; l'altro ha camminato sottoterra nelle fogne parigine, e ne porta i segni. Quanti vecchi amici evitavano il dottore alla vista della redingote e del gilè!
    Ora, è facile capire come mai il dottor Poulain avesse recitato così bene la sua parte nella commedia del rischio corso dalla Cibot. Tutte le bramosie, tutte le ambizioni s'intuiscono. Non trovando nessuna lesione in nessun organo della portiera, constatando con ammirazione la regolarità del polso, la perfetta naturalezza dei movimenti, ma sentendola gridare forte, il dottor Poulain capì che la Cibot doveva avere qualche interesse a dire di essere in punto di morte. Poiché la rapida guarigione di una grave malattia simulata avrebbe fatto parlare di lui nella circoscrizione, esagerò la pretesa ernia della Cibot, e disse che l'avrebbe risolta, essendo riuscito a prenderla in tempo. Quindi sottopose la portiera a pretesi farmaci e a una fantastica operazione che furono coronati da un pieno successo. Cercò, nell'arsenale delle cure straordinarie di Desplein, un caso bizzarro; lo applicò alla Cibot, ne attribuì modestamente la buona riuscita al grande chirurgo, e si fece passare per suo allievo. Tali sono la audacie dei debuttanti a Parigi. Ogni cosa serve loro da scala per salire sulla scena; ma, poiché tutto si logora, anche i gradini della scala, i debuttanti in qualunque professione non sanno più con quale legno farsi delle pedane. In certi momenti il parigino è refrattario al successo. Stanco d'innalzare piedistalli, tiene il broncio come i bambini viziati e non ne vuol più sapere di idoli; o, per dire la verità, le persone di talento talvolta non rispondono ai suoi entusiasmi. La ganga da cui si estrae il genio ha le sue lacune; il parigino allora ricalcitra, non vuol sempre dorare o adorare le mediocrità.

XLIII • CON IL TEMPO E CON LA PAGLIA MATURANO LE NESPOLE

    Entrando con la sua abituale scortesia, la Cibot trovò il dottore a tavola con la vecchia madre, mentre stavano mangiando un'insalata di radicchio, la meno cara di tutte le insalate, con un angolo acuto di formaggio di Brie per dessert, tra un piatto con poca frutta secca dove abbondavano i graspi d'uva e un piatto di mele malconcie.
    «Mamma, potete restare», disse il medico, trattenendo la signora Poulain per un braccio, «è la signora Cibot, di cui vi ho parlato».
    «I miei rispetti, signora; i miei doveri, signore», disse la Cibot sedendosi sulla sedia che il dottore le aveva indicato. «Ah! è vostra madre? È molto fortunata ad avere un figlio così bravo; perché è il mio salvatore, signora, mi ha tirato fuori dall'abisso».
    La vedova Poulain trovò incantevole la Cibot, udendola elogiare il figlio in quel modo.
    «Sono qui per dirvi, caro dottor Poulain, che il povero signor Pons va molto male; devo parlarvi di lui...».
    «Passiamo in salotto», disse il dottor Poulain indicando la domestica alla Cibot con un gesto eloquente.
    Una volta in salotto, la Cibot spiegò con cura il suo rapporto con i due schiaccianoci, ripeté la storia del suo prestito abbellendola un po', e parlò degli immensi servizi che da dieci anni rendeva ai signori Pons e Schmucke. A sentire lei, quei due vecchi sarebbero già morti senza le sue cure materne. Fece l'angelo, e disse tante di quelle bugie irrorate di lacrime che finì per intenerire la vecchia signora Poulain.
    «Capite bene, caro signore», disse concludendo, «che bisognerebbe sapere come comportarsi per quello che il signor Pons conta di fare per me nel caso che debba morire; non me lo auguro affatto, perché accudire quei due innocenti, vedete, è la mia vita; e se verrà a mancarmi uno dei due, curerò l'altro. Vedete, la natura mi ha fatto per essere la rivale della maternità. Senza qualcuno di cui occuparmi, da trattare come un figlio, che ne sarebbe di me... Dunque, se il signor Poulain lo volesse, mi farebbe un piacere che io saprei ricompensare: parlerebbe di me con il signor Pons. Dio mio! cosa mai sarebbe un vitalizio di mille franchi? ditemi voi... Sarebbe tanto di guadagnato per il signor Schmucke... Del resto, il nostro caro malato mi ha detto che mi raccomanderebbe a quel buon tedesco, che dunque nelle sue intenzioni sarebbe il suo erede... Ma come fa uno che non sa mettere insieme due idee in francese e che, d'altra parte, potrebbe anche andarsene in Germania per la disperazione della morte dell'amico...».
    «Cara signora Cibot», rispose il dottore, divenuto serio, «questo genere di affari non riguarda i medici, e mi sarebbe proibito di esercitare la professione se si venisse a sapere che mi sono immischiato nelle disposizioni testamentarie di un paziente. La legge non permette di accettare un lascito del proprio malato...».
    «Che legge idiota! E cosa m'impedirebbe di dividere con voi un lascito fatto a me?», ribatté la Cibot.
    «Dirò di più», disse il dottore, «la mia coscienza mi proibisce di parlare al signor Pons della sua morte. Innanzitutto non è ancora in una condizione di tale pericolo; poi un discorso del genere da parte mia gli provocherebbe un sussulto capace di far insorgere un male reale, e di rendere mortale la sua malattia...».
    «Non metto certo i mezziguanti», esclamò la Cibot, «per dirgli di mettere a posto i suoi affari, e non starà peggio per questo... C'è abituato!... non temete».
    «Non ditemi altro, cara signora Cibot!... Queste cose non riguardano la medicina, ma i notai...».
    «Ma, caro signor Poulain, se il signor Pons vi chiedesse lui stesso in quale stato si trova e se non farebbe bene a cautelarsi... vi rifiutereste di dirgli che il fatto di mettere tutto a posto è un modo eccellente per riacquistare la salute?... E in quel caso potreste dirgli una parolina per me...».
    «Ah! se mi dice che vuol fare testamento, certamente non lo dissuaderò!», disse il dottor Poulain.
    «Ebbene, si tratta proprio di questo!», esclamò la Cibot. «Ero venuta per ringraziarvi delle vostre cure», aggiunse facendo scivolare nella mano del dottore un piccolo cartoccio che conteneva tre monete d'oro. «È tutto quello che posso fare, per il momento. Ah! se fossi ricca lo sareste anche voi, mio caro signor Poulain, voi che siete l'immagine del buon Dio sulla terra... Signora! vostro figlio è un angelo!».
    La Cibot si alzò, la signora Poulain la salutò amabilmente, e il dottore l'accompagnò sul pianerottolo. Lì, quella spaventosa lady Macbeth della strada ebbe una folgorazione infernale: capì che il medico era ormai suo complice, dato che accettava un onorario per una falsa malattia.
    «Ma insomma, mio buon signor Poulain», gli disse, «dopo avermi salvata dal mio incidente, rifiutereste di salvarmi dalla miseria con due semplici parole?...».
    Il medico sentì che si era lasciato prendere dal diavolo per un capello, e quel capello si stava arrotolando sull'unghia implacabile dell'artiglio rosso. Nel timore di perdere la sua fama di onestà per così poco, rispose a quell'idea diabolica con un'idea altrettanto diabolica.
    «Sentite, cara signora Cibot», disse facendola rientrare e dirigendola nello studio, «io voglio pagarvi il debito di riconoscenza che ho con voi: vi devo il mio posto di medico comunale...».
    «Divideremo», disse subito lei.
    «Che cosa?», chiese il dottore.
    «L'eredità», rispose la portiera.
    «Voi non mi conoscete», replicò il dottore assumendo un tono da Valerio Publicola. «Non parliamone più. Ho avuto come compagno di studi un ragazzo molto intelligente, e siamo tanto più legati in quanto nella vita abbiamo avuto le stesse opportunità. Quando io studiavo medicina, lui studiava diritto; quando io ero assistente, lui faceva il giovane di studio presso un avvocato, il signor Couture. Figlio di un calzolaio, come io sono figlio di un pantalonaio, non ha incontrato grandi simpatie, e neppure dei capitali; anche perché, dopotutto, i capitali si ottengono solo per simpatia. Ha potuto avere uno studio soltanto in provincia, a Mantes... Ora, la gente di provincia capisce talmente poco le intelligenze parigine che al mio amico hanno fatto mille dispetti».
    «Canaglie!», esclamò la Cibot.
    «Sì», continuò il dottore, «perché si sono coalizzati contro di lui così bene che è stato costretto a rivendere lo studio per certi fatti che sono riusciti a far apparire colpe; il procuratore del re se n'è occupato, e poiché era del luogo ha dato ragione a quelli del paese. Il povero giovane, anche più magro e malridotto di me, con una casa come la mia, il suo nome è Fraisier, si è rifugiato nella nostra circoscrizione ed è ridotto a patrocinare, poiché è avvocato, davanti al giudice di pace e al tribunale ordinario. Abita qui vicino, in rue de la Perle. Andate al numero 9, salite al terzo piano; giunta sul pianerottolo vedrete impresso in lettere d'oro, su una targhetta di marocchino, STUDIO FRAISIER. Fraisier si occupa in particolare del contenzioso dei signori portieri, degli operai e di tutti i poveri della nostra circoscrizione, a prezzi modesti. È un uomo onesto, perché non ho bisogno di dirvi che con le sue capacità se fosse un briccone andrebbe in giro in carrozza. Vedrò stasera il mio amico Fraisier. Andate da lui domani mattina, presto; conosce il signor Louchard, ispettore del commercio; il signor Tabareau, usciere del giudice di pace; il signor Vitel, giudice di pace; il signor Trognon, notaio. È conosciuto dagli uomini d'affari più stimati del quartiere. Se accetta di occuparsi dei vostri affari, se potete proporlo al signor Pons come consulente, potrete fidarvi di lui come di voi stessa. Ma non andate, come avete fatto con me, a proporgli dei compromessi che feriscono l'onore. È intelligente, v'intenderete. Quanto ai suoi compensi, farò io da intermediario...».
    La Cibot guardò il dottore con aria maliziosa.
    «Ma non è quell'avvocato», disse, «che ha tirato fuori la merciaia della rue Vieille-du-Temple, la signora Florimond, dal brutto pasticcio in cui si trovava, per l'eredità del suo amante?...».
    «Proprio lui», rispose il dottore.
    «Ma non è orribile», esclamò la Cibot, «che dopo aver ottenuto grazie a lui una rendita di duemila franchi, si sia rifiutata di sposarlo e abbia creduto di cavarsela regalandogli dodici camicie di tela d'Olanda, ventiquattro fazzoletti, insomma un corredo?!».
    «Mia cara signora Cibot!», disse il dottore, «quel corredo valeva mille franchi e Fraisier, che era agli inizi della professione nel quartiere, ne aveva bisogno. Del resto, la signora pagò la parcella senza la minima obiezione... E quell'affare ne procurò altri a Fraisier, che oggi ha molto lavoro; anche se in fondo le nostre clientele si equivalgono...».
    «Soltanto i giusti soffrono in questo mondo!», rispose la portiera. «Bene, addio e grazie, caro signor Poulain».
    Qui inizia il dramma, o se preferite la terribile commedia, della morte di uno scapolo, preda, per forza di cose, della rapacità degli avidi che circondano il suo letto e che, in questo caso, ebbero come alleate: la passione più sfrenata, quella di un maniaco collezionista di quadri; l'avidità del signor Fraisier che, visto nella sua caverna, vi farà fremere; e la sete di un alverniate capace di tutto, anche di un delitto, pur di farsi un capitale. Questa commedia, cui la prima parte del racconto fa in un certo senso da prologo, ha per attori tutti i personaggi che sono stati finora in scena.

XLIV • UN LEGULEIO

    Lo svilimento delle parole è una di quelle bizzarrie dei costumi che per poter essere spiegata richiederebbe dei volumi interi. Scrivete a un procuratore legale chiamandolo «leguleio», e lo avrete offeso come offendereste un commerciante all'ingrosso di generi coloniali scrivendogli una lettera con questo indirizzo: «Signor tal dei tali, droghiere». Numerose persone della buona società che dovrebbero conoscere, poiché in ciò consiste tutta la loro scienza, le convenienze del galateo, ancora ignorano che la qualifica di «letterato» è per un autore la più crudele delle ingiurie. Monsieur vuol dire monseigneur. Questo titolo, in altri tempi così importante, riservato oggi ai re per la trasformazione di sieur in sire, ora si dà a tutti; eppure messire, che non è altro che il duplicato della parola monsieur, e le equivale, provoca articoli di protesta nei fogli repubblicani se per caso viene usato in una partecipazione di morte. Magistrati, consiglieri, giureconsulti, giudici, avvocati, pubblici ufficiali, procuratori legali, uscieri, consulenti, causidici e difensori sono le varietà in cui si classificano le persone che amministrano la giustizia e lavorano in questo settore. Gli ultimi due pioli della scala sono l'assistente dell'ufficiale giudiziario e il leguleio. L'assistente dell'ufficiale giudiziario si trova a lavorare nel settore della giustizia solo per caso, con il compito di assicurare l'esecuzione delle sentenze; è, nelle cause civili, un boia occasionale. Quanto al «leguleio», questo termine rappresenta l'ingiuria peggiore per l'intera categoria; sta alla giustizia come il letterato sta alla letteratura. In tutte le professioni, in Francia, la rivalità che le divora ha i suoi termini denigratori. Ogni professione ha i suoi insulti. Il disprezzo riservato ai termini letterato e leguleio si ferma al plurale. Si può dire tranquillamente, senza offendere nessuno, i letterati, i legulei. Ma a Parigi ogni professione ha i suoi omega, cioè individui che declassano il mestiere al livello della clientela di strada, del popolo. Così il leguleio, il semplice causidico, esiste ancora in certi quartieri, come ancora si trova alle Halles lo strozzino che presta a interessi altissimi, che sta alla banca come il signor Fraisier stava alla corporazione dei procuratori. Che cosa strana! La gente del popolo ha paura dei pubblici ufficiali come ha paura dei ristoranti alla moda. Allora si rivolge a degli azzeccagarbugli per la stessa ragione per cui va a bere all'osteria. L'appiattimento su uno stesso livello è la legge generale delle diverse sfere sociali. Soltanto gli esseri eccezionali amano scalare le vette e non soffrono in presenza dei propri superiori, e si creano il proprio spazio, come Beaumarchais quando lasciò che rimanesse per terra l'orologio di un gran signore che voleva umiliarlo; ma anche i nuovi ricchi, soprattutto quelli che sanno far scomparire le tracce della loro origine, costituiscono delle grandiose eccezioni.
    L'indomani, alle sei del mattino, la Cibot esaminava con attenzione, in rue de la Perle, la casa dove abitava il suo futuro consulente, il signor Fraisier, leguleio. Era una di quelle vecchie case abitate dalla piccola borghesia di una volta. Il pianterreno, in parte occupato dalla portineria e dalla bottega di un ebanista il cui laboratorio e i magazzini ingombravano un piccolo cortile interno, era diviso tra l'androne e la tromba delle scale, divorate dal salnitro e dall'umidità. La casa sembrava aggredita dalla lebbra.
    La Cibot si diresse alla portineria, dove trovò un collega di Cibot, calzolaio, sua moglie e due bambini piccoli, che vivevano in uno spazio di tre metri quadri, con una finestra che dava sul cortile interno. Le due donne simpatizzarono subito appena la Cibot ebbe detto che lavoro faceva, come si chiamava, ed ebbe parlato della sua casa in rue de Normandie. Dopo un quarto d'ora di chiacchiere da comari, durante il quale la portiera del signor Fraisier preparava il pranzo per il calzolaio e i bambini, la Cibot portò la conversazione sugli inquilini e sul leguleio.
    «Vengo a consultarlo», disse, «a proposito di certi affari; un suo amico, il dottor Poulain, dovrebbe avergli parlato di me. Conoscete il signor Poulain?».
    «Ma certamente!», disse la portiera di rue de la Perle. «Ha salvato la mia piccina, che aveva la difterite».
    «Ha salvato anche me, signora... Che tipo è questo signor Fraisier?».
    «È un uomo, cara signora», disse la portiera, «cui si strappa molto difficilmente del denaro per le consegne delle sue lettere, alla fine del mese».
    Questa risposta bastò all'intelligente Cibot.
    «Si può essere poveri e onesti», osservò.
    «Lo spero bene», continuò la portiera di Fraisier. «Noi non navighiamo certamente nell'oro, né nell'argento e neppure nei soldi, ma non siamo in debito con nessuno».
    La Cibot si riconobbe in quelle parole.
    «Insomma, mia cara», continuò, «ci si può fidare di lui, vero?».
    «Ah! cara signora, quando il signor Fraisier vuol bene a qualcuno, ho sentito dire dalla signora Florimond che non c'è nessun altro come lui».
    «E allora perché non l'ha sposato», chiese vivacemente la Cibot, «dal momento che gli doveva la sua fortuna? Per una piccola merciaia, mantenuta da un vecchio, non era poca cosa diventare la moglie di un avvocato...».
    «Perché?!», disse la portiera accompagnando la Cibot nell'androne. «State salendo da lui, vero signora?... bene, quando sarete nel suo studio capirete perché».

XLV • UN INTERNO POCO RACCOMANDABILE

    Le scale, con finestre a saracinesca che davano sul piccolo cortile interno, facevano capire che, tranne il proprietario e il signor Fraisier, gli altri inquilini esercitavano dei mestieri artigianali. I gradini infangati portavano il segno di ogni mestiere possibile offrendo allo sguardo ritagli di rame, bottoni spezzati, pezzetti di garza, di sparto. Gli apprendisti dei piani superiori vi disegnavano caricature oscene. Le ultime parole della portiera avevano acceso la curiosità della Cibot, convincendola definitivamente a consultare l'amico del dottor Poulain, ma riservandosi di ricorrere alle sue prestazioni solo dopo averlo visto.
    «Qualche volta mi chiedo come faccia la signora Sauvage a restare al suo servizio», commentò la portiera, che seguiva la Cibot. «Vi accompagno, signora», aggiunse, «salgo a portare al padrone il latte e il giornale».
    Giunta al secondo piano sopra il mezzanino, la Cibot si trovò davanti a una porta dall'aspetto più che squallido. La vernice, di un rosso strano, era coperta per una larghezza di venti centimetri da quello strato nerastro che vi depositano le mani dopo un certo tempo e che gli architetti hanno tentato di combattere applicando dei vetri sopra e sotto le serrature. Lo spioncino, tappato da scorie simili a quelle che inventano i ristoratori per invecchiare bottiglie adulte, serviva soltanto ad attribuire alla porta il soprannome di porta di cella, e si accordava egregiamente alle guarnizioni a forma di trifoglio, ai cardini possenti, ai chiodi dalla grossa capocchia. Qualche avaro o qualche foruncoloso in polemica col mondo intero doveva aver inventato attrezzature del genere. Il tubo di scarico delle acque luride aggiungeva la sua quota di fetore nelle scale, il cui soffitto presentava ovunque arabeschi disegnati con fumo di candela, e quali arabeschi! Il cordone cui era appesa una nappa lurida fece suonare un campanello il cui debole tintinnio rivelava una fenditura nel metallo. Ogni oggetto si accordava all'insieme di quel quadro disgustoso. La Cibot udì il rumore di un passo pesante e l'affanno asmatico di una donna grassa, e apparve la Sauvage. Era una di quelle vecchie immaginate da Adrien Brauwer nelle sue Streghe che vanno al sabba, una donna di quasi un metro e settanta, dal volto militaresco e molto più barbuto di quello della Cibot, di una grassezza malaticcia, con indosso un orribile vestito di cotonina da poco, in testa un fazzoletto di cotone da cui spuntavano i bigodini che si faceva con gli stampati ricevuti gratis dal suo padrone, e agli orecchi delle specie di ruote di carrozza in oro. Questo cerbero femminile teneva in mano un tegame di alluminio, ammaccato, da cui s'era versato del latte che spargeva per le scale un odore di più, che tuttavia si sentiva poco nonostante la sua acidità nauseabonda.
    «In che posso servirvi, signora?», chiese la Sauvage.
    E con aria minacciosa gettò sulla Cibot, che dovette sembrarle troppo ben vestita, uno sguardo tanto più assassino in quanto i suoi occhi erano normalmente iniettati di sangue.
    «Vengo dal signor Fraisier da parte del suo amico dottor Poulain».
    «Entrate, signora», rispose la Sauvage con un tono improvvisamente amabile e che provava come fosse stata preavvertita di quella visita di buon mattino.
    E, dopo aver fatto una teatrale riverenza, la domestica piuttosto maschile del signor Fraisier spalancò bruscamente la porta dello studio che dava sulla strada, dove si trovava l'ex procuratore di Mantes. Lo studio era simile in ogni particolare a quei piccoli uffici di usciere di terz'ordine dove gli scaffali sono di legno annerito, e i fascicoli sono talmente vecchi che hanno la barba, come dicono i chierici, e le cartelle portano i segni dei sollazzi dei topi, e il pavimento è grigio di polvere e il soffitto giallo di fumo. Lo specchio sopra il caminetto era opaco; gli alari di ghisa sostenevano un ceppo di legna scadente; la pendola, a intarsi moderni, del valore di sessanta franchi, era stata acquistata a qualche asta giudiziaria, e i candelabri che le tenevano compagnia erano di zinco anche se esibivano delle forme rococò mal riuscite, e la vernice, scomparsa in molti punti, lasciava scoperto il metallo. Il signor Fraisier, un ometto magro e malaticcio, rossiccio, i cui foruncoli denunciavano un sangue infetto (e si grattava continuamente il braccio destro), e la cui parrucca, tutta all'indietro, lasciava vedere un cranio color mattone dall'aspetto sinistro, si alzò da una poltrona di vimini dove stava seduto su un cuscino di marocchino verde. Assunse un'aria amabile e una voce flautata per dire, porgendo una sedia:
    «La signora Cibot, credo...».
    «Sì, signore», rispose la portiera perdendo la sua sicurezza abituale.
    La Cibot fu spaventata da quella voce che somigliava molto a quella di un campanello, e da uno sguardo ancora più verde degli occhi verdastri del suo futuro consulente. Lo studio era talmente impregnato dell'odore di Fraisier, da far pensare che l'aria della stanza fosse appestata. Allora la Cibot capì per quale ragione la signora Florimond non era diventata la signora Fraisier.
    «Poulain mi ha parlato di voi, cara signora», disse il leguleio con quella voce d'occasione che è definita comunemente «da bambina», ma che restava aspra e acidula come un vino di paese.
    A questo punto il leguleio cercò di ammantarsi, raccogliendo sulle ginocchia aguzze, coperte da un panno ormai logoro, i due lembi di una vecchia vestaglia di calicò stampato la cui ovatta dell'imbottitura si prendeva la libertà di uscire fuori da molti strappi, ma il peso dell'ovatta faceva cadere i lembi e scopriva un giustacuore di flanella diventato nerastro. Dopo aver stretto, con sussiego, il cordone di quella vestaglia refrattaria, per mettere in evidenza la propria linea slanciata, Fraisier avvicinò con un colpo di molle due tizzoni che si evitavano da tempo, come due fratelli nemici. Poi, come preso da un pensiero improvviso, si alzò:
    «Signora Sauvage!», esclamò.
    «Allora?!».
    «Io non ci sono per nessuno».
    «Già! Come al solito», rispose la virago con un tono da padrona.
    «È la mia vecchia balia», disse il leguleio alla Cibot, con aria imbarazzata.
    «Che però ha ancora un bel po' di latte... laido...», replicò l'antica eroina delle Halles.
    Fraisier rise del gioco di parole e mise il chiavistello, perché la domestica non venisse a interrompere le confidenze della Cibot.
    «Bene, signora, spiegatemi il vostro problema», disse sedendosi e cercando ancora di avvolgersi nella veste da camera. «Una persona che mi è raccomandata dall'unico amico che io abbia al mondo può contare su di me... completamente!».
    La Cibot parlò per una mezz'ora senza che il leguleio si permettesse la più piccola interruzione; aveva l'aria incuriosita di un giovane soldato che stia ascoltando un veterano della vecchia guardia. Quel silenzio e l'aspetto sottomesso di Fraisier, l'attenzione che sembrava prestare a quel chiacchiericcio torrenziale, di cui si sono avuti dei saggi nelle scene tra la Cibot e il povero Pons, fecero abbandonare alla diffidente portiera alcune di quelle prevenzioni che tanti particolari ignobili le avevano ispirato poco prima.

XLVI • CONSULTO NON GRATUITO

    Quando la Cibot smise di parlare e rimase in attesa di un consiglio, il piccolo leguleio, i cui occhi verdi punteggiati di nero avevano studiato la futura cliente, fu preso da una tosse detta «da cimitero» e dovette ricorrere a una tazza di maiolica mezzo piena di un infuso che svuotò.
    «Senza Poulain sarei già morto, cara signora Cibot», disse Fraisier rispondendo agli sguardi materni della portiera; «dice che mi restituirà la salute...».
    E sembrò che avesse già dimenticato le confidenze della cliente, che ora pensava di lasciar perdere quel moribondo.
    «Signora, in materia di successioni, prima di dare un consiglio è necessario sapere due cose», riprese a dire l'ex procuratore di Mantes con tono grave. «Primo: se l'entità della successione è tale che vale la pena di occuparsene; secondo: chi sono gli eredi; perché se la l'eredità è il bottino, gli eredi sono i nemici».
    La Cibot parlò di Rémonencq e di Élie Magus, e disse che i due astuti compari valutavano la collezione di quadri seicentomila franchi...
    «La comprerebbero a quel prezzo?...», chiese l'ex procuratore di Mantes. «Perché, vedete, signora, gli uomini d'affari non credono ai quadri. Un quadro può significare quaranta soldi di tela o centomila franchi di pittura! Ora, i dipinti da centomila franchi sono ben conosciuti, e quanti errori si fanno nella stima di quei valori, anche i più celebri! Un famoso finanziere la cui collezione era celebre, visitata e riprodotta in incisioni (riprodotta!) passava per aver speso dei milioni... Poi a un certo punto muore, perché poi si muore; ebbene, la vendita dei suoi quadri autentici non ha reso più di duecentomila franchi! Dovreste portarmi quei signori... Ma passiamo agli eredi».
    E Fraisier riprese il suo atteggiamento di ascoltatore. Quando udì il nome del presidente Camusot, scosse la testa e fece una smorfia che provocò la più viva attenzione della Cibot, che cercò di leggere su quella fronte, su quella faccia atroce, e trovò quella che nel linguaggio degli affari si dice una testa di legno.
    «Sì, caro signore», ripeté la Cibot, «il mio signor Pons è proprio il cugino del presidente Camusot de Marville, me lo ripete dieci volte al giorno. La prima moglie del signor Camusot, commerciante di seterie...».
    «... che è stato nominato pari di Francia...».
    «... era una signorina Pons, cugina carnale del signor Pons...».
    «Cugini, figli di due fratelli...».
    «Non sono più nulla perché hanno litigato».
    Il signor Camusot de Marville era stato per cinque anni presidente presso il tribunale di Mantes, prima di venire a Parigi... Non solo aveva lasciato a Mantes dei ricordi, ma aveva anche conservato delle relazioni; il suo successore, uno dei giudici di cui era stato più amico durante la sua permanenza, ancora presiedeva il tribunale e perciò conosceva bene Fraisier.
    «Ma lo sapete, signora», disse quando la Cibot ebbe chiuso le rosse cateratte della sua bocca torrenziale, «che avreste per nemico capitale un uomo che è in grado di mandare la gente sul patibolo?».
    La portiera fece un tale balzo sulla sedia, che sembrò il fantoccio di quel gioco chiamato la scatola a sorpresa.
    «Calmatevi, mia cara signora», continuò Fraisier. «Che voi ignoraste cosa rappresenta il presidente dell'accusa della corte reale di Parigi è del tutto naturale, ma che il signor Pons avesse un erede legale naturale dovevate saperlo. Il presidente de Marville è il solo e unico erede del vostro malato, ma è collaterale di terzo grado; quindi, a termini di legge, il signor Pons può disporre come vuole della propria fortuna. Voi ignorate anche che la figlia del presidente ha sposato, da almeno sei settimane, il figlio primogenito del conte Popinot, pari di Francia, ex ministro dell'agricoltura e del commercio, uno degli uomini più influenti della politica attuale. Quest'unione rende il presidente ancora più temibile di quanto già non lo sia in qualità di sovrano della corte d'assise».
    A queste parole, la Cibot sobbalzò di nuovo.
    «Sì, proprio lui può spedirvi in corte d'assise! Ah! cara signora, voi non sapete cosa sia una toga rossa! Sarebbe già abbastanza avere contro di sé una toga nera! Se mi vedete qui, rovinato, calvo, moribondo... ebbene, è per aver dato fastidio senza saperlo a un piccolo e provinciale procuratore del re! Mi hanno costretto a svendere il mio studio, in perdita, e ben felice di essermela cavata perdendo soltanto i miei soldi! Se avessi voluto resistere, non avrei più potuto esercitare la professione di avvocato. E poi ignorate un'altra cosa: se si trattasse soltanto del presidente Camusot, non sarebbe ancora niente; ma c'è anche sua moglie!... E se vi trovaste faccia a faccia con quella donna, tremereste come a trovarvi sul primo gradino del patibolo; vi si drizzerebbero in testa i capelli. La presidentessa è talmente vendicativa da passare dieci anni a prepararvi una trappola mortale! Muove suo marito come un bambino fa girare una trottola. Nella sua vita, ha provocato il suicidio di un giovane incantevole, alla Conciergerie; ha fatto venire i capelli bianchi come la neve a un conte che era accusato di falso. Per poco non ha fatto interdire uno dei più potenti signori della corte di Carlo X. Ed è stata lei a causare la rovina del procuratore generale, il signore de Grandville...».
    «... che abitava in rue Vieille-du-Temple all'angolo con la rue Saint-François?», chiese la Cibot.
    «Proprio lui. Dicono che ora vuol far diventare suo marito ministro della giustizia, e non è escluso che ci riesca... Se si mettesse in mente di mandarci tutti e due in corte d'assise e in prigione, io che sono innocente come un bambino appena nato chiederei subito il passaporto e me ne andrei negli Stati Uniti... perché so bene cos'è la giustizia. Ora, cara signora Cibot, per riuscire a maritare la sua unica figlia col giovane visconte Popinot che sarà, si dice, l'erede del vostro padrone di casa, il signor Pillerault, la presidentessa si è spogliata del suo intero patrimonio, al punto che in questo momento il presidente e sua moglie sono ridotti a vivere del solo stipendio della presidenza. E voi credete, mia cara signora, che in una simile situazione la presidentessa trascurerà l'eredità del vostro signor Pons?... Comunque preferirei affrontare dei cannoni caricati a mitraglia piuttosto che sapere contro di me una donna simile...».
    «Ma», disse la Cibot, «hanno litigato...».
    «E che significa?», disse Fraisier. «Ragione di più! Uccidere un parente di cui ci si lamenta, è qualcosa; ma ereditare da lui, è un piacere!».
    «Ma il brav'uomo ha orrore dei suoi eredi; mi ripete sempre che quella gente, mi ricordo i nomi, il signor Cardot, il signor Berthier, ecc., l'hanno schiacciato come un uovo sotto un carico di sassi».
    «E voi volete fare la stessa fine?».
    «Mio Dio! mio Dio!», esclamò la portiera. «Ah! aveva ragione comare Fontaine quando mi diceva che avrei incontrato degli ostacoli; però ha anche detto che riuscirò...».
    «Sentite, cara signora Cibot... Che voi tiriate fuori da questa storia una trentina di migliaia di franchi, è possibile; ma all'eredità non bisogna neppure pensarci... Ieri sera abbiamo discusso, il dottor Poulain e io, di voi e del vostro affare...».
    La Cibot balzò di nuovo sulla sedia.
    «Che vi succede?».
    «Ma se conoscevate il mio affare perché mi avete lasciato chiacchierare come una pica?».
    «Signora Cibot, io conoscevo il vostro affare ma non sapevo niente della signora Cibot! Tanti clienti, tanti caratteri...».
    A questo punto la Cibot rivolse al suo futuro consulente uno strano sguardo in cui apparve tutta la sua diffidenza, e che Fraisier capì al volo.

XLVII • L'ABILE BATTUTA DI FRAISIER

    «Continuo», disse Fraisier. «Dunque il nostro amico Poulain è stato messo da voi in rapporto con il vecchio signor Pillerault, prozio della contessa Popinot, e questa è una delle ragioni del mio riguardo per voi. Poulain va a visitare il vostro padrone di casa ogni quindici giorni (tenetene conto!) e da lui ha saputo tutti questi particolari. Quel vecchio commerciante era presente al matrimonio del suo pronipote (perché è uno zio da cui ereditare, con una rendita di almeno quindicimila franchi; e da venticinque anni vive come un monaco, spendendo appena mille scudi l'anno...), e ha raccontato a Poulain tutto l'affare del matrimonio. Sembra che quella baruffa sia stata provocata proprio dal vostro buon musicista che, per vendicarsi, ha voluto disonorare la famiglia del presidente. Chi ascolta una campana sola, sente un solo suono... Il vostro malato dice di essere innocente, ma tutti lo considerano un mostro...».
    «Non mi stupirebbe se lo fosse!», esclamò la Cibot. «Figuratevi che sono dieci anni che ci rimetto del mio, e lui lo sa bene, usa i miei risparmi e non vuole mettermi nel testamento... No, signore, non vuole farlo, è testardo come un mulo... Sono dieci giorni che gliene parlo, ma il briccone fa finta di nulla. Non apre bocca, e mi guarda con un'aria... Tutto quello che mi ha detto è che mi raccomanderà al signor Schmucke».
    «Pensa dunque di fare testamento a favore di Schmucke?».
    «Lascerà tutto a lui...».
    «Sentite, cara signora Cibot; per farmi un'idea precisa, per fare un piano, bisognerebbe che conoscessi il signor Schmucke, che vedessi gli oggetti che compongono l'eredità, e che avessi un colloquio con quell'ebreo di cui mi avete parlato; insomma, lasciatevi guidare da me...».
    «Vedremo, caro signor Fraisier».
    «Come, vedremo!», disse Fraisier lanciando uno sguardo inviperito alla Cibot, e parlando con il suo tono di voce naturale. «Sono o non sono il vostro consulente? Intendiamoci bene».
    La Cibot si sentì scoperta e avvertì un brivido freddo nella schiena.
    «Avete tutta la mia fiducia», rispose sentendosi tra gli artigli di una tigre.
    «Noi procuratori siamo abituati ai tradimenti dei nostri clienti. Esaminate bene la vostra situazione, che è eccellente. Se seguirete i miei consigli, uno dopo l'altro, otterrete, ve lo garantisco, trenta o quarantamila franchi dell'eredità... Ma questa bella medaglia ha il suo rovescio. Supponete che la presidentessa sappia che l'eredità del signor Pons vale un milione, e che voi intendete intaccarla, perché c'è sempre della gente che si prende la briga di dire queste cose!...», disse tra parentesi.
    La parentesi, aperta e chiusa tra due pause, fece fremere la Cibot, che subito pensò che sarebbe stato proprio Fraisier a denunciarla.
    «Cara cliente, in dieci minuti otterrebbe dal signor Pillerault il vostro licenziamento dalla portineria, e vi darebbero due ore per sloggiare...».
    «E che mi farebbe mai!...», disse la Cibot alzandosi in piedi con un atteggiamento da Bellona. «Resterei in casa di quei due signori come donna di fiducia».
    «Propio per questo vi tenderebbero una trappola, e un bel mattino vi svegliereste in una cella, voi e vostro marito, sotto un'accusa da pena di morte...».
    «Io!», esclamò la Cibot, «io che non ho mai preso un centesimo a nessuno!... Io!... io!...».
    La Cibot parlò per cinque minuti, e Fraisier osservò attentamente quella grande artista mentre eseguiva il suo concerto di elogi a se stessa. Era freddo, beffardo; il suo sguardo attraversava la Cibot come uno stiletto; rideva tra sé, e la parrucca secca gli si muoveva sul cranio. Era Robespierre all'epoca in cui questo Silla francese componeva quartine.
    «E come? e perché? e con quale pretesto?», chiese la donna concludendo.
    «Volete sapere in quale modo potreste essere ghigliottinata?...».
    La Cibot si sedette, pallida come una morta, perché questa frase le cadde tra capo e collo come il coltello della legge. E guardò Fraisier smarrita.
    «Ascoltatemi bene, mia cara bambina...», continuò Fraisier reprimendo un moto di soddisfazione provocato dallo spavento della sua cliente.
    «Preferirei lasciar perdere...», sussurrò la Cibot.
    E fece per alzarsi.
    «Ferma... dovete sapere cosa rischiate, ho il dovere di chiarirvi tutto», disse Fraisier con tono imperioso. «Dunque sareste licenziata dal signor Pillerault, e questo è certo. Mettiamo che diventiate la domestica di quei due signori; benissimo! Ma sarebbe una dichiarazione di guerra tra la presidentessa e voi. Fate di tutto per impadronirvi dell'eredità, per trarne comunque qualche vantaggio...».
    La Cibot fece un gesto.
    «Non vi biasimo, non è compito mio», disse Fraisier rispondendo al gesto della sua cliente. «Quest'impresa è una battaglia, e voi arriverete più lontano di quanto non pensiate! Quando ci si fissa su un'idea, si picchia duro...».
    Altro gesto di diniego della Cibot, che si impettì.
    «Su, su, piccola mia», continuò Fraisier con una orribile familiarità, «che arriverete molto lontano...».
    «Come! mi prendete per una ladra?».
    «Andiamo, mamma, avete già una ricevuta del signor Schmucke che vi è costata poco... E siete qui a confessarvi, signora mia bella... Non mentite al vostro confessore, soprattutto quando il confessore sa leggere nel vostro cuore...».
    La Cibot fu spaventata dalla perspicacia di quell'uomo, e comprese la ragione della profonda attenzione con cui l'aveva ascoltata.
    «Ebbene», continuò Fraisier, «potete prevedere che la presidentessa non si lascerà superare da voi in questa corsa all'eredità... Sarete osservata, spiata... Supponiamo che riusciate a farvi iscrivere nel testamento del signor Pons... Benissimo. Un bel giorno arriva la giustizia, viene sequestrata una tisana, si trova dell'arsenico in fondo alla tazza; voi e vostro marito venite arrestati, giudicati, condannati, come se aveste voluto uccidere il signor Pons, per mettere le mani sul vostro lascito... A Versailles ho difeso una povera donna, verosimilmente innocente come lo sareste voi in una situazione simile; le cose stavano proprio come vi ho detto, e tutto quello che ho potuto fare è stato di salvarle la vita. La sventurata ha avuto vent'anni di lavori forzati e li sta scontando a Saint-Lazare».
    Lo spavento della Cibot raggiunse il massimo. Diventata pallida, guardava quell'ometto magro con gli occhi verdastri, come quella povera Mora, accusata di fedeltà alla sua religione, doveva guardare l'inquisitore nel momento in cui si sentiva condannata al rogo.
    «Dunque voi dite, mio buon signor Fraisier, che lasciando fare a voi, affidandovi la cura dei miei interessi, potrei ottenere qualcosa, senza temere niente?».
    «Vi garantisco trentamila franchi», disse Fraisier molto sicuro del fatto suo.
    «Insomma, voi sapete quanto io voglia bene al caro dottor Poulain», continuò lei con la voce più insinuante, «è stato lui a dirmi di venire da voi; e quel degno uomo non mi ha certo mandato qui per sentirmi dire che sarò ghigliottinata come un'avvelenatrice...».
    Scoppiò in lacrime, tanto l'aveva fatta rabbrividire l'idea della ghigliottina; aveva i nervi scossi, il terrore le attanagliava il cuore, perse la testa. Fraisier godeva del suo trionfo. Accorgendosi dell'esitazione della cliente, si era visto sfuggire l'affare, e allora aveva voluto domare la Cibot, spaventarla, stupirla, dominarla, legata mani e piedi. La portiera, entrata in quello studio come una mosca precipita in una tela di ragno, doveva restarvi impigliata, avvolta e servire da cibo all'ambizione di quel piccolo leguleio. Infatti Fraisier, con quell'affare, voleva garantirsi la vecchiaia, l'agiatezza, il benessere e la considerazione. La sera prima, tutto era stato soppesato, esaminato accuratamente, con la lente, tra Poulain e lui. Il dottore aveva descritto Schmucke all'amico Fraisier e le loro menti vivaci avevano sondato ogni ipotesi, esaminato i vantaggi e i pericoli. In uno slancio di entusiasmo, Fraisier aveva esclamato: «Quest'affare è la nostra fortuna!». E aveva promesso a Poulain un posto di primario all'ospedale di Parigi, e a se stesso di diventare giudice di pace della circoscrizione.
    Giudice di pace! Per quell'uomo pieno di capacità, dottore in legge ma povero, era una chimera talmente remota che vi pensava come gli avvocati-deputati pensano alla zimarra e i preti italiani alla tiara. Era una follia! Il giudice di pace signor Vitel, davanti al quale Fraisier difendeva le sue cause, era un vecchio di sessantanove anni, piuttosto malato, che diceva di voler andare in pensione, e Fraisier parlava a Poulain del suo sogno di esserne il successore, come Poulain fantasticava con Fraisier di una ricca ereditiera da sposare, dopo averle salvato la vita. Non si può immaginare quali bramosie susciti un posto di lavoro a Parigi. Abitare a Parigi è un desiderio universale. Basta che si renda vacante uno spaccio di tabacchi o di francobolli perché cento donne insorgano come un sol uomo e muovano tutti i loro amici per ottenerlo. La sola probabilità che si renda vacante una delle ventiquattro esattorie di Parigi provoca una sommossa di pressioni e richieste alla Camera dei deputati! Questi posti si assegnano in consiglio dei ministri, la nomina è un affare di Stato. Ora, lo stipendio di un giudice di pace a Parigi è di circa seimila franchi. L'incarico di cancelliere del tribunale ne vale centomila. È uno dei posti più invidiati dell'amministrazione giudiziaria. Fraisier, giudice di pace, amico di un primario d'ospedale, avrebbe avuto un ricco matrimonio, e avrebbe fatto sposare anche il dottor Poulain; in questo modo si sarebbero aiutati a vicenda.

XLVIII • DOVE LA CIBOT È PRESA NELLA PROPRIA RETE

    La notte aveva passato il suo rullo di piombo su tutti i pensieri dell'ex procuratore di Mantes, e un piano formidabile era germogliato, un piano intenso, fertile di messi e di intrighi. La Cibot era il perno del dramma. Per questo, la ribellione di quello strumento doveva essere repressa; non era stata prevista, ma l'ex procuratore aveva appena domato l'audace portiera impiegando tutte le forze della sua natura velenosa.
    «Cara signora Cibot, su, rassicuratevi», disse prendendole la mano.
    Quella mano, fredda come la pelle di un serpente, produsse un'impressione terribile sulla portiera: ne risultò una specie di reazione fisica che fece cessare la sua emozione; pensò che era meno pericoloso toccare il rospo Astaroth della signora Fontaine che non quel boccale di veleni coperto da una parrucca rossastra e che parlava cigolando come una porta.
    «Non crediate che io voglia spaventarvi senza motivo», continuò Fraisier dopo aver notato quel nuovo moto di repulsione nella Cibot. «La terribile fama della presidentessa è fondata su fatti talmente noti in tribunale che potreste chiedere informazioni a chiunque. Il gran signore che ha rischiato di essere interdetto è il marchese d'Espard. Il marchese d'Esgrignon è quello che è stato salvato dalla galera. Il giovane, ricco, bello, di belle speranze, che doveva sposare una signorina di una delle prime famiglie di Francia, e che si è impiccato in una cella della Conciergerie, è il celebre Lucien de Rubempré della cui vicenda, a suo tempo, parlò tutta Parigi. Si trattava di un'eredità: l'eredità di una mantenuta, la famosa Esther, che ha lasciato molti milioni, e quel giovane veniva accusato di averla avvelenata poiché era lui l'erede stabilito dal testamento. Quel giovane poeta non era a Parigi quando la ragazza è morta, e non sapeva di essere l'erede!... Non è possibile essere più innocenti di così. Ebbene, dopo essere stato interrogato dal signor Camusot, quel giovane si è impiccato in cella... La giustizia è come la medicina: ha le sue vittime. Nel primo caso, si muore per la società; nel secondo, per la scienza», disse Fraisier con un sorriso raccapricciante. «Come vedete, conosco bene il pericolo... Io, povero, piccolo e oscuro procuratore, sono già stato rovinato dalla giustizia. L'esperienza che ne ho fatto mi è costata cara, ed è tutta a vostra disposizione...».
    «No grazie...», disse la Cibot, «rinuncio a tutto! Vuol dire che avrò creato un ingrato... Voglio soltanto quello che mi spetta... Ho trent'anni di onestà, signore. Il mio signor Pons dice che nel testamento mi raccomanderà al suo amico Schmucke; bene, finirò i miei giorni in pace, in casa di quel bravo tedesco...».
    Fraisier aveva passato il segno: aveva scoraggiato la Cibot; ora doveva cancellare le tristi impressioni che la donna aveva avuto.
    «Non disperiamo», disse, «andate a casa tranquilla. Andrà tutto bene».
    «Ma allora cosa devo fare, mio buon Fraisier, per avere una rendita e...».
    «E non avere rimorsi?», disse lui con vivacità, interrompendo la Cibot. «Eh! ma è proprio per questa ragione che sono stati creati gli uomini d'affari; in questi casi non è possibile ottenere nulla se non ci si attiene ai termini di legge... Voi non conoscete le leggi, io le conosco... Con me, sarete dalla parte della legalità, e vi godrete in pace quello che riuscirete ad avere, perché la coscienza è affare vostro».
    «Ebbene, parlate!», disse la Cibot, resa curiosa e felice da queste parole.
    «Non so; non ho studiato a fondo la questione; per ora mi sono occupato soltanto degli ostacoli. Innanzitutto bisogna spingere perché il testamento venga fatto, e in questo non sbaglierete strada; ma soprattutto cerchiamo di sapere a favore di chi Pons lascerà la sua fortuna perché, se foste voi l'erede...».
    «No, no, non mi vuole bene! Ah! se avessi saputo quanto valevano i suoi gingilli, e avessi saputo prima quello che mi ha detto sui suoi amori, oggi non sarei affatto preoccupata».
    «Insomma», continuò Fraisier, «andate avanti! I moribondi hanno delle strane fantasie, cara signora Cibot, e disattendono tante aspettative. Che faccia testamento, e poi vedremo. Ma prima di tutto si tratta di valutare gli oggetti di cui è composta la successione. Perciò mettetemi in contatto con l'ebreo, con quel Rémonencq, che ci saranno molto utili... Fidatevi completamente di me; sono a vostra disposizione. Io sono l'amico del mio cliente, quando ha fiducia in me, nella buona e nella cattiva sorte. O amico o nemico: il mio carattere è questo».
    «Bene. Mi rimetto a voi», disse la Cibot, «e quanto all'onorario, il signor Poulain...».
    «Non parliamone», disse Fraisier. «Fate in modo che sia sempre Poulain a occuparsi del malato; il dottore è una delle persone più oneste e pure che io conosca; e vi rendete conto che ci serve una persona sicura... Poulain è molto meglio di me, io sono diventato cattivo».
    «Ne avete l'aria», disse la Cibot, «ma mi fiderò di voi...».
    «E farete bene!», disse. «Venite pure da me quando succede qualcosa... Siete una donna di spirito, andrà tutto bene».
    «Arrivederci, caro signor Fraisier; state bene... Serva vostra».
    Fraisier accompagnò la cliente alla porta e lì, come il giorno prima col dottore, le disse l'ultima parola:
    «Se riuscirete a far richiedere la mia assistenza dal signor Pons, sarà un grande passo avanti».
    «Tenterò», rispose la Cibot.
    «Sentite, mamma Cibot», riprese a dire Fraisier facendo rientrare la donna nello studio, «conosco molto bene il signor Trognon, il notaio... è il notaio del quartiere... Se il signor Pons non ha un notaio, parlategli di lui... fateglielo assumere».
    «Capito», rispose la Cibot.
    Mentre usciva, la portiera udì il fruscio di una veste e il rumore di un passo pesante che voleva essere leggero. Una volta sola e in strada, la portiera, dopo aver camminato per un po', ritrovò la sua libertà di spirito. Sebbene fosse rimasta sotto l'influenza di quell'incontro e avesse ancora una gran paura del patibolo, della giustizia, dei giudici, prese una decisione molto naturale e che l'avrebbe messa in una situazione di conflitto sordo con il suo terribile consulente.
    «Ma che bisogno ho», si disse, «di avere dei soci? Prima di tutto mi faccio il gruzzolo, e poi prenderò tutto quello che mi offriranno per servire i loro interessi...».
    Questo pensiero avrebbe affrettato, come stiamo per vedere, la fine dello sventurato musicista.

XLIX • LA CIBOT A TEATRO

    «Ebbene, caro signor Schmucke», disse la Cibot entrando nell'appartamento, «come va il nostro caro adorato malato?».
    «Non bene», rispose il tedesco. «Bons ha delirato per tutta la notte».
    «E cosa diceva?».
    «Sciocchezze! Che voleva lasciarmi tutta la sua fortuna, a condizione di non vendere niente... E piangeva! Pover'uomo! Mi ha fatto tanto male!».
    «Passerà, tesoro mio!», riprese a dire la portiera. «Vi ho fatto aspettare per la colazione... sono le nove passate... Ho avuto molto da fare... per voi. Non abbiamo più un soldo, e ho dovuto procurarmi del denaro!...».
    «E come?», chiese il pianista.
    «Sì, mia zia...».
    «Quale zia?».
    «Oh, che caro uomo! com'è ingenuo! Siete proprio un santo, un amore, un arcivescovo d'innocenza, un uomo da impagliare, come diceva un vecchio attore. Ma come! siete a Parigi da vent'anni, avete visto, che so, la rivoluzione di Luglio, e non conoscete il monte di pietà... le agenzie dove prestano del denaro, impegnando la roba di casa!... Ho impegnato le nostre posate d'argento, otto, scanalate. Vuol dire che Cibot mangerà con posate d'Algeri; come suol dirsi, buon viso a cattivo gioco. E non vale la pena di parlarne al nostro cherubino... lo metterebbe in agitazione, lo farebbe ingiallire, ed è già abbastanza irritato. Prima di tutto salviamolo, e poi vedremo. Ogni cosa a suo tempo. E di necessità faremo virtù, non è vero?...».
    «Che donna buona! cuore sublime!», disse il povero musicista prendendo una mano della Cibot e appoggiandosela sul cuore con un'espressione di tenerezza.
    Quell'angelo sollevò gli occhi al cielo, ed erano pieni di lacrime.
    «Finitela, papà Schmucke, siete buffo. Questa è proprio bella! Sono una vecchia figlia del popolo, ho il cuore in mano. Vedete», disse battendosi il petto, «ne ho tanto quanto ne avete voi due insieme, che siete due anime d'oro...».
    «Papà Schmucke?...», disse il musicista. «No... questo toccare il fondo del dolore, piangere lacrime di sangue, e salire al cielo, tutto questo mi uccide! Non sopravviverò a Bons...».
    «Ah! lo credo bene. Così vi ammazzate... Ascoltate, tesoro...».
    «Tesoro!».
    «Allora, figlio mio...».
    «Figlio?».
    «Cocco mio, allora! se preferite».
    «Non è più chiaro...».
    «Insomma, lasciate che ci pensi io a guidarvi, altrimenti, se continuate così, ne avrò due di malati... Secondo il mio modesto parere, a questo punto dobbiamo dividerci i compiti. Non potete più andare a dare lezioni per Parigi, perché vi stanca e allora non sarete utile in casa, dove invece bisogna fare le nottate perché il signor Pons è sempre più malato. Oggi stesso andrò ad avvertire tutte le vostre allieve che siete malato, va bene?... Così passerete le notti accanto al nostro amico, e dormirete la mattina dalle cinque alle due del pomeriggio, per esempio. Quanto a me, mi occuperò del servizio più faticoso, quello del giorno, perché si tratta di prepararvi la colazione, il pranzo, e accudire il malato, alzarlo dal letto, cambiarlo, medicarlo... Con tutto quello che sto facendo, non potrei continuare dieci giorni. E sono già trenta giorni che siamo sotto pressione. E che vi succederebbe se mi ammalassi?... E anche voi, guardate come siete ridotto, da rabbrividire, per aver vegliato il signore stanotte...».
    Portò Schmucke davanti allo specchio, e Schmucke si vide molto cambiato.
    «Allora, se siete d'accordo, vi servirò subito la colazione. Poi guarderete il nostro amore fino alle due. Datemi la lista delle vostre allieve e farò in fretta; sarete libero per una quindicina di giorni. Andrete a letto al mio ritorno, e riposerete fino a stasera».
    La proposta era talmente saggia, che Schmucke vi aderì immediatamente.
    «Acqua in bocca col signor Pons; capite bene che penserebbe d'essere perduto se gli dicessimo che deve sospendere le sue funzioni in teatro e le lezioni. Il povero signore potrebbe pensare di non ritrovare più le sue allieve... sciocchezze... Il signor Poulain dice che se vogliamo salvare il nostro Beniamino dobbiamo lasciarlo assolutamente tranquillo».
    «Ah, bene, bene! Preparate la colazione, io intanto faccio la lista e gli indirizzi!... Avete ragione, non ce la farei!».
    Un'ora dopo, la Cibot si mise in ghingheri e uscì di casa in pompa magna con grande stupore di Rémonencq, ripromettendosi di rappresentare degnamente la donna di fiducia dei due schiaccianoci nei collegi e nelle famiglie dove si trovavano le allieve dei due musicisti.
    È inutile riferire le diverse chiacchiere, eseguite come variazioni su un tema, cui la Cibot si abbandonò con le direttrici dei collegi e nelle famiglie; basterà la scena che si svolse nell'ufficio direttoriale dell'ILLUSTRE GAUDISSART, dove la portiera entrò superando inaudite difficoltà. A Parigi i direttori di teatro sono protetti meglio dei re e dei ministri. La ragione delle forti barriere tra loro e il resto dei mortali si comprende facilmente: i re devono difendersi soltanto dalle ambizioni; i direttori di teatro devono temere l'amor proprio di artisti e autori.
    La Cibot superò tutte le distanze grazie all'immediata intimità che si stabilì tra lei e la portiera. I portieri si riconoscono tra loro, come tutte le persone della stessa professione. Ogni mestiere ha i suoi shiboleth come ha le sue ingiurie e le sue stigmate.
    «Ah! signora, voi siete la portiera del teatro», aveva detto la Cibot. «Io sono soltanto la povera portiera di una casa di rue de Normandie dove abita il signor Pons, il vostro direttore d'orchestra. Oh! come sarei felice di essere al vostro posto, veder passare gli attori, le ballerine, gli autori! È il bastone di maresciallo del nostro mestiere, come diceva quel vecchio attore».
    «E come sta quel bravo signor Pons?», chiese la portiera.
    «Non sta per niente bene; sono ormai due mesi che non si alza dal letto, ed è certo che lascerà la casa con i piedi in avanti».
    «Sarà una grande perdita...».
    «Sì. Vengo da parte sua a spiegare al vostro direttore la situazione in cui si trova. Fate in modo, mia cara, che ci possa parlare...».
    «Una signora da parte del signor Pons!».
    Fu così che il commesso del teatro addetto all'ufficio del direttore annunciò la Cibot, che gli era stata raccomandata dalla portiera. Gaudissart era appena arrivato per una prova. Il caso volle che nessuno avesse da parlargli, e che gli autori dello spettacolo e gli attori fossero in ritardo; fu contento di avere notizie del suo direttore d'orchestra, fece un gesto napoleonico, e la Cibot entrò.

L • UNA REDDITIZIA IMPRESA TEATRALE

    L'ex commesso viaggiatore, direttore di un teatro alla moda, imbrogliava la sua società in accomandita considerandola la sua legittima sposa. Aveva così conosciuto una prosperità finanziaria che aveva influito sul suo aspetto fisico. Diventato forte e grosso, colorito dalla buona tavola e dal benessere, Gaudissart si era trasformato in un Mondor.
    «Stiamo per diventare Beaujon!», diceva cercando di essere il primo a ridere di se stesso.
    «Per ora sei ancora Turcaret», gli rispose Bixiou, che spesso lo sostituiva nelle grazie della prima ballerina del teatro, la celebre Héloïse Brisetout.
    L'ex ILLUSTRE GAUDISSART sfruttava il suo teatro unicamente e brutalmente nel proprio interesse. Dopo essersi fatto accettare come collaboratore in numerosi balletti, commedie e vaudevilles, ne aveva acquistata l'altra parte approfittando delle difficoltà economiche che assillano sempre gli autori. Le commedie e i vaudevilles, sempre rappresentati dopo i drammi di successo, procuravano a Gaudissart un po' di monete d'oro ogni giorno. Trafficava per procura con i biglietti e se ne era assegnati, come spettanza del direttore, un certo numero che gli permetteva di decimare gli incassi. Queste tre forme di competenze economiche, oltre la vendita dei palchi e i doni delle cattive attrici che avevano l'ambizione di recitare una particina qualunque, di esibirsi in costume da paggio o da regina, aumentavano così bene la sua terza parte dei profitti che gli accomandanti, cui erano versati gli altri due terzi, ricevevano appena il decimo dei proventi. Tuttavia questo decimo costituiva pur sempre un interesse del quindici per cento sul capitale. Così Gaudissart, forte di questo quindici per cento di dividendo, parlava della propria intelligenza, della propria onestà, del proprio zelo e della fortuna dei propri soci. Quando il conte Popinot, fingendosi interessato, chiese al signor Matifat, al generale Gouraud, genero di Matifat, e a Crevel, se fossero contenti di Gaudissart, Gouraud, che era diventato pari di Francia, rispose:
    «Dicono che ci deruba, ma è talmente spiritoso, è un così bravo ragazzo, che noi siamo contenti...».
    «Allora è come nella favola di La Fontaine», disse l'ex ministro sorridendo.
    Gaudissart investiva i suoi capitali in affari fuori del teatro. Avendo valutato bene i Graff, gli Schwab e i Brunner, si associò nelle imprese delle ferrovie lanciate da quella società. Nascondendo la sua abilità sotto la franchezza e la noncuranza del libertino, del debosciato, sembrava che pensasse soltanto ai piaceri e ai vestiti; invece pensava a tutto, e metteva a profitto la grande esperienza che aveva acquisito viaggiando. Questo nuovo ricco, che non si prendeva sul serio, abitava in un appartamento lussuoso, arredato dal suo scenografo, dove offriva cene e feste alla gente famosa. Fastoso, col gusto delle cose fatte bene, si comportava come un uomo alla mano, e sembrava tanto meno pericoloso in quanto aveva conservato la loquacità del suo antico mestiere, come lui stesso diceva, aggiungendovi il gergo delle quinte. Ora, poiché in teatro gli artisti parlano chiaro, Gaudissart si ispirava molto allo spirito delle quinte, che hanno un loro spirito tipico, per darsi l'aria di uomo superiore, accompagnandola all'allegra facezia del commesso viaggiatore. In quel periodo pensava di vendere i suoi diritti e passare, secondo una sua espressione, ad altri esercizi. Voleva dirigere una società ferroviaria, diventare una persona seria, un amministratore, e sposare la figlia di uno dei più ricchi sindaci di Parigi, la signorina Minard. Sperava di essere nominato deputato sulla sua linea e arrivare, grazie alla protezione di Popinot, al consiglio di Stato.
    «A chi ho l'onore di parlare?», disse Gaudissart fermando sulla Cibot uno sguardo direttoriale.
    «Sono la donna di fiducia del signor Pons, signore».
    «Ebbene, come sta quel bravo ragazzo?».
    «Male, molto male, signore».
    «Diavolo! diavolo! mi dispiace... Andrò a trovarlo, perché è uno di quei rari uomini...».
    «Ah, sì, signore, un vero cherubino... Ancora mi chiedo come potesse un uomo simile trovarsi bene in un teatro...».
    «Ma, signora, il teatro è un luogo di correzione dei costumi...», disse Gaudissart. «Povero Pons!... parola d'onore, bisognerebbe avere il seme per conservare quella specie... è un uomo modello, e che talento!... Quando pensate che potrà riprendere servizio? Perché il teatro, disgraziatamente, somiglia alle diligenze che, vuote o piene, quando è ora devono partire... Qui il sipario si alza tutti i giorni alle sei... e staremmo freschi a commuoverci! non ne verrebbe fuori della buona musica... Ma insomma, in che stato è?».
    «Ahimè, mio buon signore», disse la Cibot estraendo il fazzoletto e portandoselo agli occhi, «è terribile dirlo, ma credo che avremo la sventura di perderlo, anche se lo curiamo come la pupilla dei nostri occhi... il signor Schmucke e io...; anzi, vengo a dirvi che non dovete più contare su quel degno signor Schmucke, che dovrà farsi tutte le nottate... Non si può fare a meno di fare come se ci fosse ancora qualche speranza, e tentare di strappare alla morte quel degno e caro uomo... Il medico non ci spera più...».
    «E di che muore?».
    «Di dolore, d'itterizia, di fegato, e tutto questo complicato da molte faccende di famiglia».
    «... e dal medico», disse Gaudissart. «Avrebbe dovuto prendere il dottor Lebrun, il nostro medico; non gli sarebbe costato nulla...».
    «Il signore ne ha uno che è un dio...; ma cosa può fare un medico, malgrado il suo talento, contro così tante cause?».
    «Avevo proprio bisogno di quei due schiaccianoci per la musica del mio nuovo spettacolo...».
    «Posso fare io qualcosa?...», disse la Cibot con un'aria degna di Jocrisse.
    Gaudissart scoppiò a ridere.
    «Signore, io sono la donna di fiducia, e ci sono molte cose che quei signori...».
    Sentendo ridere Gaudissart, una donna esclamò:
    «Se ridi si può entrare, vecchio mio».
    E la prima ballerina irruppe nell'ufficio gettandosi sull'unico divano che c'era. Era Héloïse Brisetout, avvolta in una di quelle magnifiche sciarpe chiamate «algerine»...
    «Cos'è che ti fa ridere?... La signora?... È qui per una scrittura?...», chiese la ballerina lanciando uno di quegli sguardi da artista a artista che potrebbe essere il soggetto di un quadro.
    Héloïse, ragazza eccessivamente letteraria, famosa nell'ambiente della bohème, amica di grandi artisti, elegante, raffinata, graziosa, era più intelligente di quanto non siano comunemente le prime ballerine; mentre faceva quella domanda, aspirava delle essenze intense da un bruciaprofumi.
    «Signora, tutte le donne si equivalgono quando sono belle, e se io non aspiro un po' di peste in bottiglia e non mi metto della polvere di mattone sulle guance...».
    «Con tutta la roba che la natura vi ha già messo, sarebbe un vero pleonasmo, figlia mia!», disse Héloïse lanciando uno sguardo al suo direttore.
    «Sono una donna perbene...».
    «Peggio per voi», disse Héloïse, «non tutte riescono a farsi mantenere! e io, signora, ci sono riuscita proprio bene!».
    «Come, peggio per me! Potete portare addosso tutte le «algerine» che volete e aggiustarvi i capelli», disse la Cibot, «non riceverete mai tutte le dichiarazioni che ho ricevuto io, signora! E non varrete mai quanto la bella ostricaia del Cadran bleu...».
    La ballerina si alzò di scatto, si mise sull'attenti e portò il dorso della mano destra alla fronte, come un soldato che saluti il suo generale.
    «Come!», disse Gaudissart, «voi sareste la bella ostricaia di cui mi parlava mio padre?».
    «Allora la signora non conosce la cachucha né la polka!... visto che ha cinquant'anni passati!...», disse Héloïse.
    La ballerina assunse una posa drammatica e declamò questo verso:

    Siamo amici, Cinna!...

    «Su, Héloïse, la signora non ne ha voglia, lasciala in pace».
    «La signora sarebbe la nuova Héloïse?...», disse la portiera con una finta ingenuità piena di sarcasmo.
    «Mica male la vecchia!», esclamò Gaudissart.
    «Detto e stradetto», disse la ballerina, «questo gioco di parole ha la barba grigia; trovatene un altro, vecchia... o prendete una sigaretta».
    «Scusatemi, signora», disse la Cibot, «sono troppo triste per continuare a rispondervi; i miei due padroni sono molto malati... e io ho dovuto impegnare, per dargli da mangiare ed evitargli dei dispiaceri, perfino gli abiti di mio marito, proprio stamani, e questa è la ricevuta...».
    «Oh! la cosa diventa drammatica!», esclamò la bella Héloïse, «di che si tratta?».
    «La signora», continuò la Cibot, «irrompe qui come...».
    «Come una prima ballerina», disse Héloïse. «Su, vi suggerisco io, médème!».
    «Su, ora ho da fare!», disse Gaudissart. «Basta con queste storie. Héloïse, la signora è la donna di fiducia del nostro povero direttore d'orchestra che sta morendo; è venuta a dirmi di non contare più su di lui; questo mi mette in difficoltà».
    «Ah, pover'uomo! bisogna fare una rappresentazione a suo beneficio».
    «Sarebbe la sua rovina!», disse Gaudissart. «Rischierebbe di dover dare cinquecento franchi agli ospizi, che non risconoscono altri sventurati a Parigi tranne i loro. No, prendete, mia buona donna, poiché concorrete al premio Montyon...»
    Gaudissart suonò, e subito si presentò l'inserviente del teatro.
    «Dite al cassiere di portarmi un biglietto da mille franchi. Sedetevi, signora...».
    «Ah, la poveretta!... eccola che piange!...», esclamò la ballerina. «È stupido... Su, mammina, andremo a trovarlo, consolatevi... Ma tu, cinese, dimmi un po'«, disse al direttore spingendolo in un angolo, «tu vuoi darmi la parte della protagonista nel balletto di Arianna. È perché ti sposi, e sai che potrei darti delle noie!...».
    «Héloïse, ho il cuore ricoperto di rame, come una fregata!».
    «Tirerò fuori i figli che ho avuto da te! Me li farò prestare!».
    «Ho parlato apertamente della nostra relazione...».
    «Sii buono, dai il posto di Pons a Garangeot; quel povero ragazzo ha del talento e non ha un soldo. Ti prometto di lasciarti in pace».
    «Ma aspetta che Pons sia morto... il poveretto potrebbe anche tornare».
    «Oh! questo proprio no, signore...», disse la Cibot. «Dalla notte passata è fuori di testa, sta delirando. Purtroppo è alla fine».
    «E allora fai fare l'interim a Garangeot!», disse Héloïse. «Ha tutta la stampa dalla sua...».
    In quel momento entrò il cassiere con in mano due biglietti da cinquecento franchi.
    «Dateli alla signora», disse Gaudissart. «Addio, brava donna; curate bene quella cara persona e ditegli che andrò a trovarlo, domani o nei prossimi giorni... appena potrò».
    «Un uomo in mare», disse Héloïse.
    «Ah, signore, dei cuori come il vostro si trovano solo a teatro. Che Dio vi benedica!».
    «Su quale conto registriamo la somma?», chiese il cassiere.
    «Vi firmo il mandato, e voi lo registrate in conto gratificazioni».
    Prima di uscire, la Cibot fece una bella riverenza alla ballerina, e poté udire questa domanda di Gaudissart all'ex amante:
    «Garangeot è in grado di farmi la musica del nostro balletto dei Mohicani in dodici giorni? Se mi risolve il problema, avrà il posto di Pons.

LI • CASTELLI IN ARIA

    La portiera, ricompensata meglio per aver causato del male che se avesse fatto una buona azione, eliminò ogni entrata dei due amici e li privò di ogni mezzo di sussistenza, nel caso che Pons recuperasse la salute. Questa perfida manovra doveva produrre in pochi giorni il risultato desiderato dalla Cibot: la vendita dei quadri tanto agognati da Élie Magus. Per realizzare questa prima spoliazione, la Cibot doveva tener buono il terribile collaboratore che si era procurata, l'avvocato Fraisier, e ottenere una totale discrezione da parte di Élie Magus e di Rémonencq.
    Quanto all'alverniate, era arrivato per gradi a una di quelle passioni quali sono concepite da persone prive d'istruzione che vengono a Parigi dalla provincia, con le idee fisse che ispira l'isolamento nelle campagne, con l'ignoranza delle nature primitive e la brutalità dei loro desideri che si trasformano in idee fisse. La bellezza virile della Cibot, la sua vivacità, il suo spirito da mercato, erano stati notati dal rigattiere, che voleva farne la propria amante portandola via a Cibot: una specie di bigamia cha a Parigi è più comune di quanto non si creda, nelle classi inferiori. Ma l'avarizia fu un nodo scorsoio che serrò il suo cuore ogni giorno di più e finì per soffocare la ragione. Così Rémonencq, valutando quarantamila franchi le spettanze di Élie Magus e le sue, passò dalla colpa all'omicidio desiderando la Cibot come moglie legittima. Questo amore assolutamente interessato lo portò, durante le sue lunghe fantasticherie di fumatore, appoggiato allo stipite della porta, a desiderare la morte del piccolo sarto. Così vedeva quasi triplicati i suoi capitali, e pensava quale eccellente commerciante sarebbe stata la Cibot e che bella figura avrebbe fatto in un magnifico negozio sul boulevard. Questa duplice ingordigia inebriava Rémonencq. Ecco che affittava una bottega sul boulevard de la Madeleine, lo riempiva delle più belle curiosità della collezione del defunto Pons. Poi, dopo essersi coricato tra lenzuola d'oro e aver visto milioni tra le volute azzurre della sua pipa, si risvegliava e si trovava davanti il piccolo sarto che stava spazzando il cortile, l'ingresso e la strada, mentre l'alverniate apriva la vetrina della bottega ed esponeva gli oggetti; perché, da quando Pons si era ammalato, Cibot sostituiva la moglie nelle sue mansioni. Dunque l'alverniate considerava quel sartino olivastro, abbronzato, l'unico ostacolo che si opponesse alla sua felicità, e si chiedeva in quale modo avrebbe potuto liberarsene. Quella passione nascente riempiva di orgoglio la Cibot, che ormai aveva l'età in cui le donne cominciano a capire che possono invecchiare.
    Una mattina la Cibot, mentre cominciava la sua giornata, si mise a guardare con aria pensierosa Rémonencq che stava sistemando in vetrina le sue cianfrusaglie, e volle vedere fino a che punto sarebbe arrivato il suo amore.
    «Ebbene», le si avvicinò l'alverniate, «le cose vanno come volete?».
    «Siete voi a preoccuparmi», gli rispose la Cibot. «Mi state compromettendo», aggiunse, «i vicini finiranno per accorgersi degli sguardi che mi rivolgete».
    Lasciò il portone ed entrò nella bottega.
    «Questa sì che è un'idea!», disse Rémonencq.
    «Devo parlarvi», disse la Cibot. «Gli eredi del signor Pons stanno per muoversi, e sono in grado di procurarci molti guai. Dio solo sa cosa non ci capiterebbe se mandassero delle persone di loro fiducia a ficcare il naso dappertutto, come cani da caccia. Io posso convincere il signor Schmucke a vendere qualche quadro soltanto se mi volete così bene da mantenere il segreto... oh! ma uno di quei segreti da non dire una parola neppure con la testa sul ceppo... né da dove vengono i quadri, né chi li ha venduti. Capite, una volta che il signor Pons sia morto e sotterrato, che si trovino cinquantatré quadri invece di sessantasette, chi ne saprà mai nulla! Del resto, se il signor Pons ne avesse venduto qualcuno mentre era ancora vivo, non ci sarebbe niente da dire...».
    «Sì», rispose Rémonencq, «per me non è un problema; ma il signor Élie Magus vorrà delle ricevute regolari».
    «Avrete anche voi la vostra ricevuta! Credete che ve la farei io?... La farà il signor Schmucke! Ma voi direte al vostro ebreo», continuò la portiera, «di essere discreto quanto voi».
    «Saremo muti come pesci. È una regola del nostro mestiere. Io so leggere ma non so scrivere; per questo ho bisogno di una donna istruita e capace come voi!... Io che ho sempre pensato soltanto a guadagnarmi il pane per la vecchiaia, vorrei tanto avere dei piccoli Rémonencq... Finitela con quel vostro Cibot!».
    «Ecco qua il vostro ebreo», disse la portiera. «Possiamo metterci d'accordo».
    «Ebbene, cara signora», disse Élie Magus, che arrivava ogni tre giorni, la mattina presto, per sapere quando avrebbe potuto comprare i suoi quadri, «a che punto siamo?».
    «Nessuno vi ha parlato del signor Pons e dei suoi aggeggi?», gli chiese la Cibot.
    «Ho ricevuto», rispose Élie Magus, «una lettera di un avvocato; ma siccome è un tipo che mi dà l'impressione di essere un piccolo intrigante, e di quella gente non mi fido, non gli ho neanche risposto. Dopo tre giorni è venuto a casa mia e ha lasciato un biglietto da visita; ho detto al portiere che per quel tipo non sarò mai in casa...».
    «Siete un amore d'ebreo», disse la Cibot che non conosceva bene la prudenza di Élie Magus. «Bene, figli miei, nel giro di pochi giorni convincerò il signor Schmucke a vendervi sette o otto quadri, al massimo dieci; ma a due condizioni. La prima, segreto assoluto. Sarà stato il signor Schmucke a farvi venire qui, siamo d'accordo, signore? E sarà stato il signor Rémonencq a proporvi come acquirente al signor Schmucke. Insomma, qualunque cosa accada, io non devo entrarci nel modo più assoluto. Siete disposto a offrire quarantaseimila franchi per i quattro quadri?».
    «Va bene», sospirò l'ebreo.
    «Benissimo», continuò la portiera. «La seconda condizione è che voi mi consegnerete quarantatremila franchi, e comprerete i quadri per tremila dal signor Schmucke; Rémonencq ne comprerà quattro per duemila, e darà a me la differenza... In questo modo, capite, caro signor Magus, faccio fare a voi e a Rémonencq un grande affare, a condizione di dividerne il guadagno tra noi tre. Vi porterò da quell'avvocato, o sarà l'avvocato a venire qui. Stimerete al prezzo conveniente per voi tutto quello che c'è in casa del signor Pons, in modo che il signor Fraisier possa sapere con certezza il valore dell'eredità. Ma non deve venire qui prima della vendita, avete capito?...».
    «Capito», disse l'ebreo, «ma ci vuole del tempo per vedere le cose e stabilirne il prezzo».
    «Avrete una mezza giornata. A questo penso io... Parlatene tra voi, figli miei; e dopodomani si farà l'affare. Vado a parlare con quel Fraisier, perché viene a sapere dal dottor Poulain tutto quello che succede qui, ed è una vera seccatura farlo star buono, quel tipo».
    A metà strada tra la rue de Normandie e la rue de la Perle la Cibot incontrò Fraisier che stava andando da lei, tanto era impaziente di entrare in possesso, così diceva, degli elementi dell'affare.
    «Ma guarda! stavo proprio venendo da voi», disse la Cibot.
    Fraisier si lamentò di non essere stato ricevuto da Élie Magus; ma la portiera spense il lampo di diffidenza che stava spuntando dagli occhi del leguleio dicendogli che Magus era appena tornato da un viaggio, e che al più tardi tra due giorni gli avrebbe procurato un incontro con lui nell'appartamento di Pons, per definire il valore della collezione.
    «Comportatevi lealmente con me», le rispose Fraisier. «Quasi certamente sarò incaricato di curare gli interessi degli eredi del signor Pons. In tale posizione potrò esservi ancora più utile».
    Queste parole furono dette con un tono così deciso che la Cibot tremò. Evidentemente quel faccendiere famelico manovrava nel proprio interesse, come stava facendo lei; così decise di accelerare la vendita dei quadri. Nelle sue congetture la Cibot non si sbagliava. L'avvocato e il medico si erano accollati la spesa di un abito nuovo per Fraisier, perché potesse presentarsi, vestito decentemente, in casa della signora presidentessa Camusot de Marville. Il tempo necessario alla confezione dell'abito era la sola ragione del ritardo di quel colloquio, dal quale dipendeva la sorte dei due amici. Dopo la visita alla Cibot, Fraisier si era riproposto di andare a provare l'abito, il gilet e i pantaloni. Trovò tutto pronto. Poi tornò a casa, si mise una parrucca nuova, e in un calesse a nolo si avviò, intorno alle dieci del mattino, verso la rue de Hanovre, dove sperava di poter ottenere udienza dalla presidentessa. Fraisier, in cravatta bianca, guanti gialli, parrucca nuova, profumato d'acqua di Portogallo, somigliava a uno di quei veleni conservati in una fiala di cristallo e tappati da una pergamena bianca, la cui etichetta, e tutto quanto, perfino il filo, è vezzoso, e a maggior ragione pericoloso. La sua aria risoluta, la faccia brufolosa, gli occhi verdi, l'impressione di cattiveria, colpivano come nubi in un cielo blu. Nel suo studio, così come si era presentato alla Cibot, era il volgare coltello col quale un assassino ha commesso un crimine; ma alla porta della presidentessa, era l'elegante pugnale che una giovane signora ripone nel suo piccolo scrittoio.

LII • IL FRAISIER IN FIORE

    In rue de Hanovre c'era stato un grande cambiamento. Il visconte e la viscontessa Popinot, l'ex ministro e sua moglie, non avevano voluto che il presidente e la presidentessa andassero ad abitare in un appartamento d'affitto, lasciando la casa che davano in dote alla figlia. Dunque il presidente e sua moglie si sistemarono al secondo piano, liberato dalla vecchia signora che voleva andare a finire i suoi giorni in campagna. La signora Camusot, che continuò ad avere con sé Madeleine Vivet, la cuoca e il domestico, era tornata alle ristrettezze del punto di partenza, addolcite da un appartamento da quattromila franchi, libero da canone d'affitto, e da uno stipendio di diecimila franchi. Questa aurea mediocritas già soddisfaceva poco la signora de Marville che pretendeva una condizione economica pari alla sua ambizione; ma la cessione di tutti i beni alla figlia comportava per il presidente la soppressione del censo di eleggibilità. Ora, Amélie voleva fare di suo marito un deputato, poiché non rinunciava facilmente ai suoi piani, e non disperava affatto di riuscire a ottenere l'elezione del presidente nella circoscrizione che comprendeva Marville. Così da due mesi tormentava il barone Camusot, poiché il pari di Francia aveva ottenuto il titolo di barone, per strappargli centomila franchi di anticipo sull'eredità, allo scopo, diceva lei, di acquistare una piccola tenuta che si trovava all'interno della proprietà di Marville e che rendeva circa duemila franchi al netto d'imposta. In questo modo lei e suo marito sarebbero stati in casa loro e vicini ai figli; un tale acquisto avrebbe completato e aumentato la tenuta di Marville. La presidentessa faceva valere agli occhi del suocero la spoliazione cui era stata costretta per maritare la figlia al conte Popinot, e chiedeva al vecchio se poteva, proprio lui, negare al primogenito la via degli onori supremi della magistratura, che non sarebbero stati concessi senza una forte posizione parlamentare, che suo marito avrebbe potuto costruire facendosi temere dai ministri.
    «Quella gente concede dei favori soltanto a chi le stringe la cravatta al collo fino a farle tirar fuori la lingua», disse la presidentessa. «Sono dei tali ingrati!... Che cosa non devono a Camusot! Provocando le ordinanze di Luglio, è stato Camusot a far salire sul trono la casa d'Orléans!...».
    Il vecchio sosteneva di essersi impegnato nelle ferrovie al di là dei propri mezzi, e quindi rinviava la sua liberalità, di cui riconosceva senz'altro la necessità, al momento di un previsto rialzo delle azioni.
    Questa mezza promessa, strappata qualche giorno prima, aveva precipitato la presidentessa nella desolazione. L'ex proprietario di Marville aveva ben poche probabilità di partecipare alle elezioni della nuova Camera, dal momento che non poteva risultare proprietario da almeno un anno.
    Fraisier giunse senza difficoltà fino a Madeleine Vivet. Quelle due vipere, uscite dallo stesso uovo, si riconobbero immediatamente.
    «Signorina», disse Fraisier in tono sdolcinato, «desidererei ottenere un attimo di udienza dalla signora presidentessa per un affare che la riguarda personalmente, e che concerne la sua fortuna; si tratta, diteglielo chiaramente, di un'eredità... Non ho l'onore di essere conosciuto dalla signora presidentessa, perciò il mio cognome non le direbbe nulla... Non ho l'abitudine di allontanarmi dal mio studio, ma so bene quali riguardi siano dovuti alla moglie di un presidente, e ho pensato di venire di persona, anche perché l'affare non ammette il minimo ritardo».
    La richiesta, posta in questi termini, ripetuta e amplificata dalla cameriera, trovò naturalmente una risposta favorevole. Quel momento era decisivo per le due ambizioni che nutriva Fraisier. Così, malgrado la sua sfacciataggine di piccolo avvocato di provincia, imperioso, aspro e incisivo, provò ciò che provano i capitani all'inizio di una battaglia da cui dipende il successo della campagna. Passando nel salottino in cui lo stava aspettando Amélie, gli accadde quello che nessun sudorifero, per quanto potente, era mai riuscito a produrre su quella pelle refrattaria e coperta di orrende malattie. Sentì un leggero sudore nella schiena e sulla fronte.
    «Anche se non divento ricco», pensò, «sono salvo, perché Poulain mi ha garantito la salute il giorno in cui si fosse ristabilita la traspirazione». «Signora...», disse vedendo la presidentessa che stava entrando, in vestaglia.
    E Fraisier si arrestò per salutare, con quella condiscendenza che, nei pubblici funzionari, è il riconoscimento della condizione superiore di coloro cui si rivolgono.
    «Sedetevi, signore», disse la presidentessa riconoscendo subito un uomo dell'ambiente giudiziario.
    «Signora presidentessa, se mi sono preso la libertà di rivolgermi a voi per un affare che riguarda il signor presidente, è perché sono sicuro che il signor de Marville, con la sua alta posizione, forse lascerebbe stare le cose come sono, e perderebbe da sette a ottocentomila franchi che le signore, che secondo me s'intendono degli affari privati molto più dei migliori magistrati, non disdegnano affatto...».
    «Avete parlato di un'eredità...», disse la presidentessa interrompendolo.
    Amélie, abbagliata dalla cifra e volendo tenere nascosto il proprio stupore, imitava quei lettori impazienti che corrono alla conclusione di un romanzo.
    «Sì, signora, di un'eredità perduta per voi, oh! interamente perduta, ma che io posso, che saprò farvi ottenere...».
    «Parlate, signore!», disse con freddezza la signora de Marville, squadrando Fraisier e scrutandolo con occhio sagace.
    «Signora, conosco le vostre grandi capacità; io sono di Mantes. Il signor Leboeuf, il presidente del tribunale, l'amico del signor de Marville, potrà fornire informazioni su di me...».
    La presidentessa ebbe un sobbalzo all'indietro così crudelmente significativo che Fraisier fu costretto ad aprire e chiudere in fretta una parentesi nel suo discorso:
    «Una donna distinta come voi capirà immediatamente per quale ragione parlo subito di me. È la via più breve per arrivare all'eredità».
    La presidentessa rispose senza parlare, con un gesto, a questa fine considerazione.
    «Signora», proseguì Fraisier, autorizzato da quel gesto a raccontare la propria storia, «ero procuratore legale a Mantes, e il mio posto avrebbe potuto essere la mia fortuna, poiché già stavo trattando per lo studio del signor Levroux che certamente avrete conosciuto...».
    La presidentessa annuì.
    «Con del denaro che mi era stato prestato e diecimila franchi miei, avevo lasciato lo studio di Desroches, uno dei più abili procuratori di Parigi, dove per sei anni ero stato sostituto. Ho avuto la sventura di non piacere al procuratore del re di Mantes, il signor...».
    «Olivier Vinet».
    «Il figlio del procuratore generale, sì, signora. Faceva la corte a una signora minuta...».
    «Lui?».
    «La signora Vatinelle...».
    «Ah! la signora Vatinelle... Era molto graziosa, e molto... ai miei tempi».
    «Era gentile con me: inde irae», continuò Fraisier. «Io mi davo molto da fare, volevo rimborsare gli amici e sposarmi; avevo bisogno di affari, li cercavo; presto ne accaparrai da solo assai più di tutti gli altri pubblici funzionari. Tuttavia ebbi contro di me i procuratori di Mantes, i notai, perfino gli uscieri. Trovarono dei pretesti. Sapete bene, signora, che nel nostro orribile mestiere, quando si vuol rovinare qualcuno, si fa presto. Mi colsero in fallo mentre rappresentavo in una causa entrambe le parti. È una leggerezza, ma in certi casi a Parigi si fa, e i procuratori si reggono il sacco a vicenda. Ma a Mantes non succede. Il signor Bouyonnert, cui avevo reso questo piccolo servizio, sollecitato dai colleghi e istigato dal procuratore del re, mi tradì. Ci fu un'insurrezione generale. Ero un briccone; mi hanno dipinto più nero di Marat. Così sono stato costretto a vendere, e ho perduto tutto. Ora sto a Parigi, dove ho cercato di mettere in piedi uno studio legale, ma la mia salute compromessa mi lasciava appena due ore sulle ventiquattro di una giornata. Oggi ho un'unica ambizione, piuttosto meschina. Un giorno forse sarete la moglie di un guardasigilli o di un primo presidente; io invece, povero e malaticcio, non ho altro desiderio che quello di avere un posto dove finire in pace i miei giorni, un vicolo cieco, un posto dove vegetare. Voglio diventare giudice di pace a Parigi. Ottenere la nomina è una cosa da nulla per voi e per il presidente; dovete oscurare non poco l'attuale guardasigilli, perciò gli farà piacere rendervi suoi debitori... E non è tutto, signora», aggiunse Fraisier vedendo che la presidentessa stava per parlare, e facendole un gesto. «Io sono amico del medico del vecchio da cui il signor presidente dovrebbe ereditare. Vedete che ci stiamo arrivando... Questo medico, la cui collaborazione è indispensabile, si trova nella mia stessa situazione: talento, ma niente fortuna!... È da lui che ho saputo quanto siano colpiti i vostri interessi perché, mentre vi parlo, è probabile che sia già tutto finito, che il testamento in cui si disereda il signor presidente sia già stato fatto... Questo medico desidera essere nominato primario in un ospedale o in qualche regio istituto; insomma, capite, deve farsi una posizione a Parigi, equivalente alla mia... Scusatemi se ho parlato di queste due cose delicate, ma nel nostro affare non deve esserci la più piccola ambiguità. Il medico è del resto un uomo molto apprezzato, capace, e che ha salvato il signor Pillerault, il prozio di vostro genero, il visconte Popinot. Ora, se avrete la bontà di promettermi questi due posti, quello di giudice di pace e la sinecura medica per il mio amico, io mi impegnerò a garantirvi l'eredità quasi intatta... Dico quasi intatta, perché sarà gravata degli obblighi che bisognerà assumere nei confronti del legatario e di alcune persone la cui collaborazione sarà davvero indispensabile. Manterrete le vostre promesse soltanto dopo che io avrò mantenuto le mie».

LIII • CONDIZIONI DEL CONTRATTO

    La presidentessa, che aveva incrociato le braccia come una persona costretta a subire una predica, le lasciò ricadere, guardò Fraisier e gli disse:
    «Signore, voi avete il merito della chiarezza per tutto quello che vi riguarda, ma per quello che riguarda me siete di una tale oscurità!...».
    «Bastano due parole a chiarire tutto, signora», disse Fraisier. «Il signor presidente è il solo ed unico erede di terzo grado del signor Pons. Il signor Pons è molto malato; sta per fare testamento, se non l'ha già fatto, in favore di un suo amico tedesco, il signor Schmucke, e il valore della successione sarà di oltre settecentomila franchi. Entro tre giorni spero di avere informazioni precise sulla cifra...».
    «Se è così», pensò ad alta voce la presidentessa, folgorata dalla possibilità di mettere le mani su una cifra simile, «ho fatto male a scontrarmi con lui, umiliandolo...».
    «No, signora, perché senza quella rottura oggi sarebbe allegro come un fringuello e vivrebbe più a lungo di voi, del signor presidente e di me... La Provvidenza ha le sue vie: non indaghiamole!», aggiunse per mascherare l'odiosità di un tale pensiero. «Che volete farci!... noi uomini d'affari vediamo l'aspetto positivo delle cose. Ora voi capite bene, signora, che nell'alta posizione in cui si trova, il presidente de Marville non farebbe niente, non potrebbe fare niente, nella situazione attuale. Ha rotto completamente con suo cugino; voi non vedete più Pons, l'avete bandito dal vostro ambiente; avete senza dubbio delle ottime ragioni per agire in questo modo; ma il brav'uomo è malato, e lascia i suoi beni all'unico amico che ha. Uno dei presidenti della corte reale di Parigi non può eccepire nulla contro un testamento regolare, fatto in circostanze simili. Ma, detto tra noi, signora, quando si ha diritto a un'eredità dai sette agli ottocentomila franchi... che so, forse un milione, e si è l'unico erede designato per legge, è ben doloroso non riuscire ad avere quello che ti spetta... Soltanto, per raggiungere lo scopo, ci si trova in mezzo a sordidi intrighi, talmente difficili e complicati, e bisogna trattare con gente di condizioni così infime, domestici, persone di sott'ordine, e bisogna stargli talmente dietro, che nessun procuratore legale, nessun notaio di Parigi può seguire un affare del genere. In questi casi serve un avvocato senza cause, come me, di sicura capacità, di provata dedizione, la cui posizione, disgraziatamente precaria, sia allo stesso livello delle posizioni di quel genere di gente... Io mi occupo, nella mia circoscrizione, degli affari dei piccoli borghesi, degli operai, della gente comune... Sì, signora, ecco in quale stato mi ha ridotto l'inimicizia di un procuratore del re che oggi è sostituto a Parigi, e che non mi ha mai perdonato la mia superiorità... Vi conosco, signora, so quanto sia potente la vostra protezione, e ho intravisto, nel prestarvi un tale servizio, la fine delle mie miserie e il trionfo del dottor Poulain, mio amico...».
    La presidentessa rimaneva pensierosa. Per Fraisier fu un momento di spaventosa angoscia. Vinet, uno degli oratori del centro, procuratore generale da sedici anni, designato dieci volte per indossare la zimarra della cancelleria, il padre del procuratore del re di Mantes, nominato sostituto a Parigi da un anno, era un antagonista per l'astiosa presidentessa... L'altèro procuratore generale non nascondeva il suo disprezzo per il presidente Camusot. Fraisier ignorava e doveva ignorare questa circostanza.
    «Non avete sulla coscienza il fatto di aver difeso contemporaneamente le due parti?», chiese fissando Fraisier.
    «La signora presidentessa può chiedere al signor Leboeuf; il signor Leboeuf mi era favorevole».
    «Siete sicuro che il signor Leboeuf darà buone informazioni sul vostro conto al signor de Marville, al conte Popinot?».
    «Ne rispondo di persona, anche perché il signor Olivier Vinet non è più a Mantes; perché, detto tra noi, quel piccolo magistrato seco faceva paura al buon signor Leboeuf. Del resto, signora presidentessa, se me lo permettete, andrò a trovare a Mantes il signor Leboeuf. Ciò non comporterà alcun ritardo, perché solo tra due o tre giorni conoscerò in modo certo il valore della successione. Io voglio e devo nascondere alla signora presidentessa tutti i meccanismi dell'affare; ma il premio che mi aspetto per il mio totale impegno non è già per lei una garanzia di successo?».
    «Ebbene, fate in modo che il signor Leboeuf sia ben disposto verso di voi, e se l'eredità sarà consistente come dite, e io ne dubito, vi prometto i due posti, beninteso in caso di successo...».
    «Ne rispondo io, signora. Soltanto, avrete la bontà di far venire qui il vostro notaio, il vostro procuratore, quando avrò bisogno di loro, per rilasciarmi una procura che mi dia la possibilità di agire in nome del signor presidente; e direte a questi signori di seguire le mie istruzioni, e di non fare niente di testa loro».
    «Voi avete la responsabilità», disse con tono solenne la presidentessa, «e quindi dovete avere pieni poteri. Ma il signor Pons è davvero molto malato?», chiese sorridendo.
    «Sono convinto, signora, che potrebbe cavarsela, soprattutto perché è curato da un uomo così coscienzioso come il dottore Poulain... perché il mio amico, signora, è una spia innocente guidata da me nel vostro interesse, ed è in grado si salvare quel vecchio musicista; ma accanto al malato c'è una portiera che per trentamila franchi lo spingerebbe nella fossa... No, non lo ucciderà, non gli darà l'arsenico, non sarà caritatevole fino a questo punto; farà di peggio: lo assassinerà moralmente, renderà la sua vita un'ansia continua. Il povero vecchio, in un ambiente silenzioso, tranquillo, ben curato, trattato con affetto da amici, in campagna, si ristabilirebbe; invece, infastidito da una certa signora Évrard che in gioventù era stata una delle trenta belle ostricaie celebrate da Parigi, avida, chiacchierona, brutale, tormentato da lei per fare un testamento in cui essere abbondantemente ricompensata, il malato finirà fatalmente per rovinarsi del tutto il fegato; forse già in questo momento si saranno formati dei calcoli, e per estrarli sarà necessario ricorrere a un'operazione che non sopporterà... Il dottore, un'anima pura... si trova in una situazione terribile. Dovrebbe far licenziare quella donna...».
    «Ma questa megera è un mostro!», esclamò la presidentessa con una vocina flautata.
    Questa somiglianza tra la terribile presidentessa e lui, fece sorridere interiormente Fraisier, che sapeva bene interpretare le dolci modulazioni artificiose di una voce naturalmente aspra. Si ricordò di quel presidente, eroe di uno dei racconti di Luigi XI, che questo monarca ha firmato con la sua ultima parola. Quel magistrato, provvisto di una moglie tagliata sul modello di quella di Socrate, ma privo della filosofia di quel grand'uomo, fece mettere del sale nell'avena dei suoi cavalli ordinando di privarli dell'acqua. Quando sua moglie andò in campagna, lungo la Senna, i cavalli si precipitarono con lei nell'acqua per bere, e il magistrato ringraziò la Provvidenza che l'aveva liberato della moglie così naturalmente. In quel momento la signora de Marville ringraziava Dio per aver messo accanto a Pons una donna che gliel'avrebbe tolto di mezzo onestamente.
    «Non vorrei un milione», lei disse, «a prezzo di un'indelicatezza... Il vostro amico deve informare il signor Pons e far licenziare la portiera».
    «Innanzitutto, signora, i signori Schmucke e Pons credono che quella donna sia un angelo, e licenzierebbero il mio amico. Poi l'atroce ostricaia è la benefattrice del dottore, in quanto l'ha introdotto presso il signor Pillerault. Il dottore raccomanda a quella donna la massima attenzione per il malato, ma le sue raccomandazioni le indicano i mezzi per farlo peggiorare».
    «Cosa pensa il vostro amico delle condizioni di mio cugino?», chiese la presidentessa.
    Fraisier fece tremare la presidentessa per la precisione della sua risposta, e per la lucidità con cui era penetrato nel suo cuore, avido quanto quello della Cibot.
    «Entro sei settimane la successione sarà aperta».
    La presidentessa abbassò gli occhi.
    «Poveretto!», disse cercando, ma invano, di assumere un'espressione afflitta.
    «La signora presidentessa ha qualcosa da dire al signor Leboeuf? Io vado a Mantes in treno».
    «Sì, aspettate un momento; gli scrivo di venire a cena da noi domani; ho bisogno di vederlo per accordarci sul modo di riparare all'ingiustizia di cui siete stato vittima».
    Quando la presidentessa l'ebbe lasciato, Fraisier, che già si vedeva giudice di pace, non somigliò più a se stesso: ora sembrava grosso, respirava a pieni polmoni l'aria della felicità e il buon vento del successo. Attingendo alla riserva sconosciuta della volontà nuove e forti dosi di quell'essenza divina, si sentì capace, come Rémonencq, di commettere un delitto pur di riuscire, a condizione di non lasciare tracce. Si era esposto spavaldamente con la presidentessa, convertendo le congetture in realtà, facendo affermazioni gratuite, con l'unico scopo di farsi commissionare da lei il salvataggio di quell'eredità e di ottenere la sua protezione. Rappresentante di due immense miserie e di desideri non meno grandi, respingeva con un piede sdegnoso la sua orribile esistenza in rue de la Perle. Intravedeva mille scudi di onorari da parte della Cibot, e cinquemila franchi dal presidente. Significava guadagnarsi un appartamento di tutto rispetto. E per finire si sdebitava col dottor Poulain. Alcune di queste nature astiose, aspre e disposte alla malvagità dalla sofferenza o dalla malattia, provano sentimenti contrari, a un eguale grado di violenza: Richelieu era un buon amico quanto un nemico crudele. Riconoscente a Poulain per i suoi aiuti, Fraisier si sarebbe fatto ammazzare per lui. La presidentessa, tornando con una lettera in mano, senza essere vista guardò quell'uomo che stava pensando a una vita felice e agiata, e lo trovò meno brutto di quanto non le fosse sembrato alla prima impressione; del resto, stava per renderle un servigio, e uno strumento che ci appartiene lo si guarda in un modo diverso da come si guarda quello del vicino.
    «Signor Fraisier», disse, «mi avete dimostrato di essere un uomo intelligente; vi credo capace di essere franco».
    Fraisier fece un gesto eloquente.
    «Ebbene», continuò la presidentessa, «vi ingiungo di rispondere sinceramente a questa domanda: il signor de Marville o io, potremmo essere compromessi a causa delle vostre iniziative?...».
    «Non sarei venuto a parlare con voi, signora, se un giorno potessi rimproverarmi di aver gettato del fango su di voi, anche se fosse delle dimensioni di una capocchia di spillo, perché allora la macchia sembrerebbe grande come la luna. Voi dimenticate, signora, che per diventare giudice di pace a Parigi, dovrò avervi soddisfatta. Ho avuto in vita mia una prima lezione, ed è stata troppo dura perché io mi esponga a ricevere ancora simili scudisciate. E poi, un'ultima parola, signora. Ogni mia iniziativa, quando vi riguarderà, vi sarà sottoposta preventivamente...».
    «Benissimo. Ecco la lettera per il signor Leboeuf. Resto in attesa delle informazioni sul valore della successione».
    «Appunto», disse con tono astuto Fraisier, salutando la presidentessa con tutta la grazia che la sua faccia gli permetteva di avere.
    «Che fortuna!», pensò la signora Camusot de Marville. «Ah! dunque sarò ricca! Camusot sarà deputato, perché sguinzagliando questo Fraisier nella circoscrizione di Bolbec, ci farà ottenere la maggioranza. Che strumento!».
    «Che fortuna!», pensava Fraisier scendendo le scale, «e che comare la signora Camusot! Mi servirebbe una moglie di quel genere! E ora all'opera!».
    E partì per Mantes, dove era necessario ottenere l'appoggio di un uomo che conosceva molto poco; ma contava sulla signora Vatinelle, cui doveva tutte le sue disgrazie, perché i dispiaceri d'amore sono spesso come la cambiale protestata di un buon debitore, che frutta degli interessi.

LIV • AVVERTIMENTO AI VECCHI SCAPOLI

    Tre giorni dopo, mentre Schmucke dormiva, perché la Cibot e il vecchio musicista si erano già divisi il fardello di accudire e vegliare il malato, la Cibot aveva avuto quello che lei chiamava un battibecco col povero Pons. Non è inutile far notare una triste particolarità dell'epatite. I malati il cui fegato è più o meno aggredito sono inclini all'impazienza, alla collera, e gli scatti d'ira procurano loro un momentaneo sollievo; così come, durante un accesso di febbre, sentiamo dispiegarsi in noi delle forze eccessive. Passato l'accesso, arriva la prostrazione, il collapsus, come dicono i medici, e le perdite subite dall'organismo sono allora valutabili in tutta la loro gravità. Così, nelle malattie di fegato, soprattutto in quelle provocate da forti dispiaceri, dopo gli attacchi d'ira il paziente precipita in uno stato di prostrazione tanto più pericoloso in quanto è sottoposto a una dieta rigorosa. È una specie di febbre che agita il suo sistema umorale, dal momento che non si sviluppa né nel sangue né nel cervello. Quest'irritazione dell'intero organismo produce una malinconia per la quale il malato finisce per odiare se stesso. In una condizione simile, tutto può provocare una pericolosa irritazione. La Cibot, malgrado le raccomandazioni del dottore, non credeva affatto, da popolana priva di esperienza e di istruzione, a questi stiramenti del sistema nervoso provocati dal sistema umorale. Le spiegazioni del signor Poulain erano per lei idee da medico. Voleva assolutamente, come tutta la gente del popolo, nutrire Pons, e per impedirle di dargli di nascosto del prosciutto, una buona frittata o della cioccolata alla vainiglia, era necessario che il dottor Poulain le dicesse nel modo più perentorio:
    «Date anche un solo boccone di qualunque cosa al signor Pons, e lo ucciderete come con un colpo di pistola».
    La testardaggine delle classi popolari è così grande a questo proposito, che l'ostilità dei malati ad andare in ospedale nasce dal fatto che il popolo crede che vi si uccida la gente non dandole da mangiare. La mortalità provocata dai viveri portati di nascosto dalle mogli ai loro mariti è così alta da costringere i medici a ordinare una rigorosissima perquisizione personale nei giorni in cui i parenti visitano i malati. Allo scopo di provocare uno screzio momentaneo, necessario alla realizzazione dei suoi vantaggi immediati, la Cibot raccontò la visita al direttore del teatro, senza dimenticare il battibecco con la signorina Héloïse, la ballerina.
    «Ma che ci siete andata a fare?», le chiese per la terza volta il malato, che non riusciva a fermare la Cibot quando si lanciava nelle sue chiacchiere.
    «Allora, quando le ho detto il fatto suo, la signorina Héloïse, che ha capito con chi aveva a che fare, ha abbassato la cresta e siamo diventate le migliori amiche del mondo. Mi state chiedendo che cosa sono andata a fare in teatro?», disse ripetendo la domanda di Pons.
    Certi chiacchieroni, chiacchieroni di genio, accumulano in questo modo le interrogazioni, le obiezioni e le osservazioni come si trattasse di provviste, per alimentare i loro discorsi; nel caso che la sorgente un giorno potesse esaurirsi.
    «Ci sono andata per togliere dagli impicci il vostro signor Gaudissart; ha bisogno della musica per un nuovo balletto, e voi non siete proprio in condizione, mio caro, di fare scarabocchi sulla carta e di compiere il vostro dovere... Mi sembra di aver sentito che chiameranno un certo signor Garangeot per arrangiare in musica I Mohicani...».
    «Garangeot!», esclamò Pons infuriato. «Garangeot, un uomo senza alcun talento, che non ho voluto come primo violino! È una persona molto intelligente, che fa assai bene la critica musicale sui giornali... ma non è assolutamente in grado di comporre un'aria!... E come diavolo vi è venuto in mente di andare in teatro?».
    «Ma è proprio ostinato, questo demonio!... Allora, piccolo mio, vediamo di non bollire subito... Siete forse in grado di scrivere della musica nello stato in cui siete? Ma non vi siete guardato allo specchio? Volete uno specchio? Siete pelle e ossa... debole come un passerotto... e vi credete capace di fare le vostre note... ma non sareste buono a fare neppure le mie... Mi fate venire in mente che devo salire da quella del terzo piano, che ci deve diciassette franchi... e ci fanno proprio comodo diciassette franchi, perché, pagato il farmacista, non ci restano venti franchi... E allora bisognava dire a quell'uomo, che ha tutta l'aria di essere un brav'uomo, al signor Gaudissart... mi piace quel nome... è un vero Roger Bontemps che mi andrebbe bene... non si ammalerà mai di fegato, quel tipo!... Dunque bisognava dirgli in che stato vi trovate... Perdio! voi non state bene, e allora vi ha momentaneamente rimpiazzato...».
    «Rimpiazzato!», gridò Pons con una voce formidabile, alzandosi a sedere sul letto.
    Generalmente i malati, soprattutto quelli che già si trovano nel raggio della falce della Morte, si aggrappano al loro posto di lavoro con un furore pari a quello degli esordienti per ottenerlo. Così la sua sostituzione sembrò già una prima morte al povero moribondo.
    «Ma il dottore mi dice», proseguì, «che tutto procede bene! che presto riprenderò la mia vita normale. Voi mi avete ucciso, rovinato, assassinato!...».
    «Bla bla bla bla!», esclamò la Cibot. «Ecco che siete partito! Già, io sono il vostro carnefice, e dite sempre gentilezze del genere, accidenti, al signor Schmucke quando giro le spalle. Sento bene quello che dite, sapete!... Siete un mostro d'ingratitudine».
    «Ma voi non sapete che, se la mia convalescenza dovesse durare quindici giorni di più, quando mi ripresenterò mi diranno che sono un parruccone, che sono vecchio, che ho fatto il mio tempo, che sono dell'epoca dell'Impero, in stile rococò!», esclamò il malato che voleva vivere. «Garangeot si sarà fatto degli amici in teatro, dal botteghino al loggione! Avrà abbassato il diapason per un'attrice senza voce, avrà leccato gli stivali del signor Gaudissart; attraverso i suoi amici avrà pubblicato sui giornali gli elogi di tutti quanti; e allora, signora Cibot, in una bottega come quella si fa presto a trovare dei pidocchi sulla testa di un calvo!... Quale demonio vi ha fatto andare là?...».
    «Ma insomma! Il signor Schmucke ha discusso la cosa con me per otto giorni. Ma che volete? Non pensate ad altro che a voi! siete un egoista che per guarire ammazzerebbe il prossimo!... È ormai un mese che quel povero signor Schmucke regge l'anima coi denti, non sta in piedi, non può andare da nessuna parte né dare lezioni, né fare il suo lavoro a teatro; possibile che non vi accorgiate di niente? Lui vi assiste di notte, e io di giorno. Oggi come oggi, se ancora dovessi passare le notti in bianco come ho cercato di fare all'inizio, credendo che non aveste niente di serio, mi toccherebbe dormire durante il giorno! E chi penserebbe alla casa e al pane?... Ma che volete farci, la malattia è la malattia!...».
    «È impossibile che Schmucke abbia avuto quell'idea...».
    «Non vorrete dire che è venuta in testa a me! Credete che siamo di ferro? Se il signor Schmucke avesse continuato il suo mestiere di dare sette o otto lezioni durante il giorno e poi di passare la serata a teatro, dalle sei e mezzo alle undici, a dirigere l'orchestra, sarebbe morto nel giro di dieci giorni... Volete la morte di quel degno uomo, che darebbe il sangue per voi? Sull'anima dei miei genitori, non si è mai visto un malato come voi... Che avete fatto del vostro cervello, l'avete messo al monte di pietà? Qui tutti si stanno massacrando per voi, si fa tutto nel migliore dei modi, e voi non siete contento... Volete farci diventare pazzi da legare?... Io, tanto per cominciare, sono già sfinita, in attesa del resto!».
    La Cibot poteva parlare quanto voleva, perché la collera impediva a Pons di dire una sola parola; si rotolava nel letto, articolava penosamente delle interiezioni, si sentiva morire. Come sempre, giunta a questo punto, la discussione volgeva improvvisamente al tenero. L'infermiera si precipitò sul malato, gli afferrò la testa, lo costrinse a sdraiarsi, e gli sistemò le coperte.
    «Ma si può ridursi in questo stato? Dopotutto, tesoruccio, è la vostra malattia! È quello che dice il buon signor Poulain. Su, calmatevi. Siate gentile, figliolino caro. Voi siete l'idolo di chiunque vi si avvicini; lo stesso dottore viene a visitarvi anche due volte al giorno! Che direbbe se vi trovasse così agitato? Mi fate uscire dai gangheri! non è bello da parte vostra... Quando si ha mamma Cibot per infermiera, va trattata con riguardo... Voi gridate, voi parlate... e vi è stato proibito, lo sapete bene. Parlare vi irrita... E perché poi andare in collera? Siete voi ad avere tutti i torti... mi stuzzicate sempre! Su, ragioniamo! Il signor Schmucke e io, che vi voglio bene come alle mie viscere, abbiamo creduto di fare bene?.... allora, angelo mio, abbiamo fatto bene!».
    «Schmucke non può avervi detto di andare in teatro senza prima consultarmi...».
    «Devo svegliare quel caro buonuomo che se la sta dormendo della grossa, e farlo venire qui a testimoniare?».
    «No, no!», esclamò Pons. «Se il caro e tenero Schmucke ha preso questa decisione, forse sto peggio di quanto io non creda», disse Pons rivolgendo uno sguardo pieno di malinconia agli oggetti d'arte che decoravano la sua stanza. «Bisognerà dire addio ai miei cari quadri, a tutte queste cose che erano diventate i miei amici... e al mio divino Schmucke! Oh, è proprio vero?...».
    La Cibot, da atroce commediante quale era, si mise il fazzoletto sugli occhi. Questa muta risposta fece precipitare il malato in una tetra meditazione. Abbattuto da quei due colpi assestati in punti tanto sensibili, la vita sociale e la salute, la perdita della sua posizione e la prospettiva della morte, rimase talmente prostrato che non ebbe più la forza di adirarsi. E rimase spento come un tisico dopo la sua agonia.
    «Vedete, nell'interesse del signor Schmucke», disse la Cibot constatando che la sua vittima era completamente vinta, «fareste bene a far venire il notaio del quartiere, il signor Trognon, una bravissima persona».
    «Mi parlate sempre di questo Trognon...», disse il malato.
    «Ah! per me lui o un altro sono la stessa cosa... per quello che mi lascerete!».
    E scosse la testa in segno di disprezzo per il denaro. Il silenzio si ristabilì.

LV • LA CIBOT FA LA VITTIMA

    In quel momento, Schmucke, che dormiva da più di sei ore, svegliato dalla fame si alzò, entrò nella camera di Pons e stette a guardarlo per qualche istante senza dire nulla, perché la Cibot si era messa un dito sulle labbra facendo:
    «Ssst!».
    Poi lei si alzò, si avvicinò al tedesco per parlargli all'orecchio, e gli disse:
    «Grazie a Dio! finalmente si addormenta, è cattivo come un diavolo!... Che volete! si difende dalla malattia...».
    «No, al contrario, io sono molto paziente», rispose la vittima con un tono dolente che rivelava uno spaventoso abbattimento; «ma, caro Schmucke, è andata in teatro a farmi licenziare».
    Si interruppe, e non ebbe la forza di continuare. La Cibot approfittò della pausa per raffigurare a Schmucke, con un gesto, la condizione di una testa abbandonata dalla ragione, e disse:
    «Non lo contrariate, potrebbe morire...».
    «E inoltre», riprese Pons guardando l'onesto Schmucke, «dice che sei stato tu a mandarcela...».
    «Sì», rispose Schmucke eroicamente, «bisognava farlo. Non parlare!... lasciati salvare!... È stupido che ti affatichi a lavorare, quando hai un tesoro... Guarisci, venderemo qualche bric-à-brac e finiremo tranquillamente i nostri giorni in un piccolo paese, con questa buona signora Cibot...».
    «Ti ha pervertito!», rispose dolorosamente Pons.
    Il malato, non vedendo più la Cibot che si era messa dietro il letto per nascondere a Pons i segni che faceva a Schmucke, credette che fosse uscita dalla stanza.
    «Mi sta assassinando!», aggiunse.
    «Come, vi assassino!...», disse lei mostrandosi con lo sguardo acceso e i pugni sui fianchi. «Ecco la ricompensa di una devozione da barboncino!... Dio mio!».
    Scoppiò in lacrime, si lasciò cadere su una poltrona, e questo movimento tragico provocò in Pons il più funesto sconvolgimento.
    «Ebbene», disse lei alzandosi e mostrando ai due amici quegli sguardi di donna in preda all'odio che sparano contemporaneamente colpi di pistola e di veleno, «sono stanca di non combinare niente di buono, rovinandomi la salute. Vi prenderete un'infermiera!».
    I due amici si guardarono spaventati.
    «Oh! guardatevi pure come dei commedianti! L'ho detto. Vado a pregare il dottor Poulain di cercarvi un'infermiera! E faremo i nostri conti. Mi restituirete il denaro che ho speso per voi... e che non vi avrei mai richiesto... io che sono andata dal signor Pillerault a chiedergli in prestito altri cinquecento franchi...».
    «È la malattia!», disse Schmucke precipitandosi sulla Cibot e afferrandola per la vita, «abbiate pazienza!».
    «Voi, voi siete un angelo, che bacerei la terra dove camminate», disse lei. «Ma il signor Pons non mi ha mai voluto bene, mi ha sempre odiata!... Del resto, può credere che io voglio essere messa sul suo testamento...».
    «Ssst! lo ucciderete!», esclamò Schmucke.
    «Addio, signore», disse la Cibot a Pons fulminandolo con uno sguardo. «Per il male che vi voglio, statevi bene. Quando sarete più gentile con me, quando crederete che quello che faccio è ben fatto, allora tornerò! Fino ad allora, me ne starò a casa mia... Vi trattavo come un figlio; e da quando in qua si sono visti i figli ribellarsi contro le madri?... No, no, signor Schmucke, non voglio sentire niente... Vi porterò la vostra cena, ve la servirò; ma prendete un'infermiera, chiedetene una al signor Poulain».
    E uscì sbattendo la porta con tanta violenza che gli oggetti fragili e preziosi tremarono. Il malato udì un tintinnio di porcellana che rappresentò, nella sua tortura, il colpo di grazia nel supplizio della ruota.
    Un'ora dopo la Cibot, invece di entrare nella stanza di Pons, andò a chiamare Schmucke attraverso la porta della camera da letto dicendogli che la cena era pronta nella sala da pranzo. Il povero tedesco arrivò con il volto pallido e bagnato di lacrime.
    «Il mio povero Pons farnetica», disse, «ed è convinto che voi siate una scellerata. È la sua malattia», disse per intenerire la Cibot senza accusare Pons.
    «Oh! ne ho abbastanza della sua malattia! Sentite: quest'uomo non è né mio padre, né mio marito, né mio fratello, né mio figlio. Mi ha preso in antipatia; va bene, ma adesso basta! Voi, lo sapete, vi seguirei in capo al mondo; ma quando si dà la propria vita, il proprio cuore, tutti i propri risparmi, quando si trascura un marito, e anche Cibot si sta ammalando, per sentirsi trattare da scellerata... è un caffè un po' troppo forte...».
    «Caffè?».
    «Sì, caffè! ma lasciamo perdere le parole inutili. E veniamo al sodo. Fino ad oggi mi dovete tre mesi a centonovanta franchi, che fa cinquecentosettanta! più l'affitto che ho pagato due volte, ecco qua le ricevute, e fanno seicento franchi con le varie imposte; dunque milleduecento franchi meno qualcosa più gli altri duemila, senza interessi s'intende; in totale, tremilacentonovantadue franchi... E pensate che ve ne serviranno almeno duemila per l'infermiera, il medico, le medicine e il vitto dell'infermiera. Per questo mi ero fatta prestare mille franchi dal signor Pillerault», disse mostrando il biglietto da mille franchi che le aveva dato Gaudissart.
    Schmucke ascoltava questo conto con uno stupore ben comprensibile, perché era finanziere come i gatti sono musicisti.
    «Signora Cibot, Pons è fuori di testa! Perdonatelo, continuate ad assisterlo, restate la nostra provvidenza... ve lo chiedo in ginocchio».
    E il tedesco si prosternò davanti alla Cibot, baciando le mani di quel carnefice.
    «Sentite, amore mio», disse lei risollevando Schmucke e baciandolo sulla fronte, «Cibot si è ammalato, è a letto, ho appena mandato a chiamare il dottor Poulain. In questa situazione devo pensare alle mie cose. Del resto, Cibot, che mi ha visto rientrare in lacrime, si è talmente infuriato che non vuole che io rimetta più piede qui dentro. È lui che reclama il suo denaro, che è suo, capite bene. Noialtre donne in questi casi non possiamo fare nulla. Ma restituendogli i suoi soldi, tremiladuecento franchi, forse si calmerà. È tutto quello che ha, pover'uomo, i suoi risparmi di ventisei anni di lavoro, il frutto del suo sudore; il denaro gli serve domani, c'è poco da tergiversare... Voi non conoscete Cibot: quando è arrabbiato, ucciderebbe un uomo. Ma forse potrei ottenere da lui di continuare ad assistervi tutti e due. State tranquillo, mi lascerò dire tutto quello che gli passerà per la testa. Subirò quel martirio per amore vostro, che siete un angelo».
    «No, non sono altro che un pover'uomo che vuol bene al suo amico, che darebbe la propria vita per salvarlo...».
    «Ma, e i soldi?... Mio caro signor Schmucke, supponiamo che non mi ridiate niente... bisogna pur trovare tremila franchi per le vostre necessità! Sapete che farei al vostro posto? Non ci penserei un momento, venderei sette od otto brutti quadri, e li rimpiazzerei con qualcuno di quelli che sono nella vostra stanza, appoggiati contro la parete per mancanza di spazio! Un quadro o un altro, che importa?».
    «E perché?».
    «È talmente diffidente!... è la malattia, perché quando è in salute è un agnellino! È capace di alzarsi, di curiosare, e se per caso venisse in salotto, anche se è talmente debole che non riuscirebbe a passare la soglia, troverebbe lo stesso numero di quadri!...».
    «È giusto!».
    «Ma noi gli diremo della vendita quando sarà completamente guarito. Se invece volete proprio confessarglielo, allora date la colpa a me, alla necessità di pagarmi. Ho spalle robuste».
    «Non posso disporre di cose che non mi appartengono...», rispose semplicemente il buon tedesco.
    «E allora vi denuncio, voi e il signor Pons».
    «Ma significa ucciderlo...».
    «Scegliete!... Mio Dio! vendete i quadri e diteglielo dopo... gli farete vedere la denuncia...».
    «Ebbene, denunciateci... sarà la mia scusa... gli mostrerò il documento...».
    Il giorno stesso, alle sette, la Cibot, che era andata a consigliarsi con un ufficiale giudiziario, chiamò Schmucke. Il tedesco si trovò di fronte il signor Tabareau, che gli ingiunse di pagare; e, dopo la risposta di uno Schmucke tremante dalla testa ai piedi, fu convocato con Pons davanti al tribunale per essere condannato al pagamento. L'aspetto di quell'uomo, la carta bollata scarabocchiata, produssero un tale effetto su Schmucke che non fece più alcuna resistenza.
    «Vendete i quadri», disse con le lacrime agli occhi.
    L'indomani, alle sei del mattino, Élie Magus e Rémonencq staccarono ognuno i loro quadri. Furono preparate due ricevute di duemilacinquecento franchi perfettamente regolari:

    Io sottoscritto, garante per il signor Pons, riconosco di aver ricevuto dal signor Élie Magus la somma di duemilacinquecento franchi per quattro quadri che gli ho venduto, dovendo la suddetta somma essere impiegata per le necessità del signor Pons. Uno dei quadri, attribuito a Dürer, è un ritratto di donna; anche il secondo, di scuola italiana, è un ritratto; il terzo è un paesaggio olandese di Breughel; il quarto, un quadro fiorentino che rappresenta una Sacra Famiglia di autore ignoto.

    La ricevuta rilasciata da Rémonencq era negli stessi termini e comprendeva un Greuze, un Claude Lorrain, un Rubens e un Van Dyck, nascosti sotto i nomi di quadri di scuola francese e di scuola fiamminga.
    «Questo denaro mi fa quasi credere che questi gingilli valgono qualcosa...», disse Schmucke ricevendo i cinquemila franchi.
    «Qualcosa vale...», disse Rémonencq. «Per tutto quanto sarei disposto a dare centomila franchi».
    L'alverniate, pregato di rendere quel piccolo servizio, rimpiazzò gli otto quadri con altri di eguale dimensione
e in eguali cornici, scegliendoli tra quelli di minore importanza che Pons aveva depositato nella stanza di Schmucke.

LVI • LA PARTE DEL LEONE

    Élie Magus, una volta in possesso dei quattro capolavori, portò la Cibot in casa sua, col pretesto di fare i conti. Lì si mise a piangere miseria, trovò dei difetti alle tele, disse che bisognava risistemarle, e offrì alla Cibot trentamila franchi di provvigione; glieli fece accettare mostrandole le carte scintillanti su cui la Banca ha inciso la parola MILLE FRANCHI! Magus condannò Rémonencq a dare alla Cibot la stessa somma, prestandogliela sui quattro quadri che si fece lasciare in deposito. I quattro quadri di Rémonencq sembrarono così magnifici a Magus, che l'ebreo non riuscì a restituirli e l'indomani portò un compenso di seimila franchi al rigattiere, che gli cedette le sue quattro tele al prezzo d'acquisto. La Cibot, ricca di sessantottomila franchi, pretese ancora una volta dai suoi due complici il segreto più totale; pregò l'ebreo di indicarle come investire quella somma in modo che nessuno ne venisse a conoscenza.
    «Comprate azioni delle ferrovie d'Orléans; sono a trenta franchi sotto la pari, in tre anni raddoppierete il capitale, e avrete dei pezzi di carta da tenere in un portafoglio».
    «Restate qui, signor Magus, mentre io vado da quel tale che segue gli affari della famiglia del signor Pons; vuol sapere a quale prezzo sareste disposto a comprare tutte le carabattole che lassù... Vado a cercarvelo».
    «Ah, se fosse vedova!», disse Rémonencq a Magus, «sarebbe la mia fortuna, perché ormai è ricca...».
    «Soprattutto se investe i suoi soldi nelle ferrovie di Orléans; in due anni raddoppieranno. Io vi ho investito soltanto i miei piccoli risparmi», disse l'ebreo, «la dote di mia figlia... Andiamo a fare un giretto sul boulevard in attesa dell'avvocato...».
    «Se Dio volesse chiamare a sé quel Cibot, che è già abbastanza malato», riprese Rémonencq, «avrei una brava moglie cui affidare il negozio, e io potrei occuparmi del commercio in grande...».
    «Buongiorno, caro signor Fraisier», disse la Cibot con tono mellifluo entrando nello studio del suo consigliere. «Ma cos'è questa storia che mi ha detto il portiere, che ve ne andate di qui?...».
    «Sì, cara signora Cibot; prendo, nella casa del dottor Poulain, l'appartamento al primo piano, sopra il suo. Sto cercando due o tremila franchi in prestito per ammobiliare in modo dignitoso l'appartamento, che è veramente grazioso; il proprietario l'ha rimesso a nuovo. Come vi ho detto, ho ricevuto l'incarico di seguire gli interessi del presidente de Marville e i vostri... Smetto di fare l'agente d'affari, sto per iscrivermi all'albo degli avvocati, e allora diventa indispensabile abitare in una bella casa. Gli avvocati di Parigi permettono l'iscrizione all'albo solo a chi possiede un mobilio decoroso, una biblioteca, ecc. Io sono dottore in diritto, ho fatto il mio tirocinio, e ho già dei protettori potenti... Bene, a che punto siamo?».
    «Se volete accettare i miei risparmi depositati in banca...», gli disse la Cibot. «Non è molto, tremila franchi, il frutto di venticinque anni di risparmi e di privazioni... In questo caso mi darete una cambiale, come dice Rémonencq, perché io sono ignorante, so soltanto quello che m'insegnano...».
    «No, gli statuti dell'ordine vietano a un avvocato di firmare cambiali; vi darò una ricevuta con l'interesse del cinque per cento, e voi me la restituirete se vi farò avere milleduecento franchi di rendita vitalizia dall'eredità del buon Pons».
    La Cibot, presa in trappola, rimase in silenzio.
    «Chi tace acconsente», continuò Fraisier. «Portatemi il denaro domani».
    «Ah! vi pagherò molto volentieri in anticipo il vostro onorario», disse la Cibot, «sono sicurissima che avrò il mio vitalizio».
    «A che punto siamo?», riprese Fraisier, con un cenno affermativo della testa. «Ho visto Poulain ieri sera, sembra che vi stiate occupando proprio bene del vostro malato... Ancora un attacco come quello di ieri, e gli si formeranno dei calcoli nella cistifellea... Andateci piano, cara signora Cibot... non bisogna procurarsi dei rimorsi... non fanno vivere a lungo».
    «E lasciatemi in pace coi vostri rimorsi!... Non mi parlerete di nuovo della ghigliottina!... Il signor Pons è un vecchio ostinato, voi non lo conoscete, è lui che mi fa andare in bestia! Non esiste un uomo più malvagio di lui; avevano ragione i parenti: è ipocrita, vendicativo e ostinato... Il signor Magus è a casa, come vi ho detto, e vi sta aspettando».
    «Bene!... ci sarò contemporaneamente a voi. La cifra della vostra rendita dipende dal valore della collezione; se è di ottocentomila franchi, avrete un vitalizio di millecinquecento franchi... una fortuna!».
    «Allora vado a dirgli di valutare coscienziosamente ogni cosa».
    Un'ora dopo, mentre Pons dormiva profondamente avendo preso dalle mani di Schmucke una pozione calmante, prescritta dal medico ma la cui dose era stata raddoppiata dalla Cibot all'insaputa del tedesco, Fraisier, Rémonencq e Magus, questi tre personaggi patibolari, esaminavano pezzo per pezzo i millesettecento oggetti di cui si componeva la collezione del vecchio musicista. Schmucke stava dormendo; quei corvi, fiutando odore di cadavere, erano padroni del campo.
    «Non fate rumore», diceva la Cibot ogni volta che Magus andava in estasi e discuteva con Rémonencq, iniziandolo al valore di una bella opera.
    Era uno spettacolo straziante vedere quelle quattro diverse bramosie intente a valutare l'eredità durante il sonno di colui la cui morte era l'oggetto della loro ingordigia. La stima dei valori che si trovavano nel salotto durò tre ore.
    «In media», disse il vecchio sordido ebreo, «ogni oggetto vale mille franchi».
    «Sarebbe un milione e settecentomila franchi!», esclamò Fraisier stupefatto.
    «Non per me», continuò Magus i cui occhi presero dei toni freddi. «Non darei più di ottocentomila franchi; perché non si può sapere per quanto tempo questa roba resterebbe in magazzino... Ci sono capolavori che non si vendono prima di dieci anni, e il prezzo d'acquisto viene raddoppiato dagli interessi composti; però pagherei in contanti».
    «In camera da letto ci sono vetrate, smalti, miniature, tabacchiere d'oro e d'argento», fece notare Rémonencq.
    «Possiamo vedere?», chiese Fraisier.
    «Vado a vedere se sta dormendo», rispose la Cibot.
    E, a un cenno della portiera, i tre uccelli da preda entrarono.
    «Là ci sono i capolavori!», disse indicando il salotto Magus, la cui barba bianca tremava per l'emozione, «ma qui ci sono le ricchezze! E quali ricchezze! i sovrani non hanno niente di più bello nei loro tesori».
    Gli occhi di Rémonencq, infiammati dalle tabacchiere, scintillavano come braci. Fraisier, calmo, freddo come un serpente che si fosse drizzato sulla coda, allungava la testa piatta e aveva l'atteggiamento con cui i pittori raffigurano Mefistofele. Quei tre diversi avari, assetati d'oro come i diavoli lo sono di rugiada del paradiso, senza nessun accordo volsero lo sguardo sul proprietario di tante ricchezze, che aveva appena avuto uno di quei movimenti provocati da un incubo. All'improvviso, sotto il fuoco di quei tre raggi diabolici, il malato aprì gli occhi e lanciò delle grida acute.
    «I ladri!... eccoli! Aiuto! Mi uccidono!...».
    Era evidente che continuava a sognare pur essendo sveglio, seduto sul letto, con gli occhi spalancati, bianchi, fissi, senza riuscire a muoversi».
    Élie Magus e Rémonencq raggiunsero la porta, ma rimasero inchiodati sull'uscio da queste parole:
    «Magus qui!... sono stato tradito!...».
    Il malato era stato svegliato dall'istinto di conservazione del suo tesoro, sentimento forte quanto quello di conservazione della propria vita.
    «Signora Cibot, chi è questo signore?», gridò rabbrividendo alla vista di Fraisier, che era rimasto immobile.
    «Non potevo mica metterlo alla porta!», disse lei strizzando l'occhio e facendo segno a Fraisier. «Il signore si è presentato proprio ora a nome della vostra famiglia...».
    Fraisier si lasciò sfuggire un gesto di ammirazione per la Cibot.
    «Sì, signore, vengo da parte della signora presidentessa de Marville, di suo marito, di sua figlia, a testimoniarvi il loro rammarico; hanno saputo per caso della vostra malattia, e vorrebbero assistervi loro stessi... Vi offrono di recarvi nella proprietà di Marville, per ristabilirvi in salute; la signora viscontessa Popinot, la piccola Cécile cui volete tanto bene, sarà la vostra infermiera... è stata lei a prendere le vostre difese presso sua madre, e l'ha fatta ricredere sull'errore in cui era caduta».
    «E vi hanno mandato qui, i miei eredi», esclamò Pons indignato, «dandovi per guida il più abile conoscitore, il più raffinato esperto di Parigi?... Ah! bell'incarico!», continuò con un riso da pazzo. «Voi venite a stimare i miei quadri, le mie curiosità, le mie tabacchiere, le mie miniature!... Fatelo! avete qui un uomo che non soltanto è un esperto in tutto ma che può comprare, perché è dieci volte milionario... I miei cari parenti non dovranno attendere a lungo la mia eredità», disse con ironia profonda, «perché mi hanno dato il colpo di grazia... Ah! signora Cibot, dite di essere mia madre e poi fate entrare qui dentro i mercanti, il mio concorrente e i Camusot mentre sto dormendo!... Fuori tutti!...».
    E lo sventurato, sovreccitato dalla doppia azione della collera e della paura, si alzò dal letto, pelle e ossa.
    «Lasciate che vi aiuti, signore», disse la Cibot precipitandosi su Pons per impedirgli di cadere. «Calmatevi dunque, quei signori sono usciti».
    «Voglio vedere il mio salotto!...», disse il moribondo.
    La Cibot fece segno ai tre corvi di sparire; poi prese Pons, lo sollevò come una piuma e lo rimise a letto nonostante le sue grida. Vedendo che lo sventurato collezionista era del tutto esausto, andò a chiudere la porta dell'appartamento. I tre carnefici di Pons erano ancora sul pianerottolo; quando la Cibot li vide, disse loro di aspettarla, mentre udiva queste parole di Fraisier a Magus:
    «Scrivetemi una lettera firmata da voi due, con la quale vi impegnate a pagare novecentomila franchi in contanti la collezione del signor Pons, e vedremo di farvi fare un bel guadagno».
    Poi sussurò all'orecchio della Cibot una parola, una sola, che nessuno poté udire, e scese in portineria coi due mercanti.

LVII • DOVE SCHMUCKE SI INNALZA FINO AL TRONO DI DIO

    «Signora Cibot», disse lo sventurato Pons quando la portiera rientrò, «se ne sono andati?...».
    «Chi... andati?...», chiese lei.
    «Quegli uomini...».
    «Quali uomini?... Avete visto degli uomini?!», disse. «Avete avuto un attacco di febbre con delirio, che senza di me vi sareste buttato dalla finestra, e ancora mi parlate di uomini... Volete rimanere ancora in quello stato?...».
    «Ma come, poco fa non c'era qui un signore che diceva di essere stato inviato dalla mia famiglia?...».
    «E allora continuate», proseguì lei. «Parola mia, sapete dove bisognerebbe mettervi? A Charenton!... Ora vedete degli uomini!...».
    «Élie Magus! Rémonencq!...».
    «Ah, quanto a Rémonencq potete averlo visto, perché è venuto a dirmi che il povero Cibot sta così male che ora devo proprio lasciarvi alle vostre storie. Prima di tutto c'è il mio Cibot! Quando mio marito è malato, non vedo più nessun altro. Cercate di stare tranquillo e di dormire un paio d'ore; ho già mandato a chiamare il dottor Poulain, e tornerò con lui... Bevete e state buono».
    «Non c'era nessuno qui in camera, prima, quando mi sono svegliato?...».
    «Nessuno!», disse la Cibot. «Avete visto il signor Rémonencq nello specchio».
    «Avete ragione, signora Cibot», disse il malato, divenuto docile come un agnellino.
    «Ecco che ora siete ragionevole... Addio, angelo mio, state tranquillo, torno tra un momento».
    Quando Pons sentì chiudere la porta dell'appartamento, raccolse le sue ultime forze per alzarsi, dicendo tra sé:
    «M'ingannano! mi svaligiano! Schmucke è un bambino che si lascerebbe legare dentro un sacco!...».
    E il malato, animato dal desiderio di veder chiaro in quella scena terribile che gli era sembrata troppo reale per essere una visione, riuscì a raggiungere la porta della camera, l'aprì con grande fatica, e si trovò nel salotto, dove la vista delle sue amate tele, delle sue statue, dei suoi bronzi fiorentini, delle sue porcellane, lo rianimò. Il collezionista, in vestaglia, con le gambe nude, la testa in fiamme, riuscì a fare il giro dei due passaggi tracciati dalle credenze e dagli armadi che, allineati, dividevano il salotto in due parti. Con una prima occhiata da padrone, contò tutto e verificò che nel suo museo non mancava niente. Stava per tornare in camera quando il suo sguardo fu attirato da un ritratto di Greuze al posto del Cavaliere di Malta di Sebastiano del Piombo. Il sospetto solcò la sua intelligenza come un lampo stria un cielo tempestoso. Guardò il posto occupato dai suoi otto quadri più importanti, e li trovò tutti sostituiti. Sugli occhi del pover'uomo calò all'istante un velo nero; le forze svanirono, cadde sul pavimento. Lo svenimento fu così completo che Pons rimase a terra per due ore; fu trovato da Schmucke, quando il tedesco, ormai sveglio, uscì dalla propria camera per andare a vedere il suo amico. Schmucke faticò molto per rialzare il moribondo e rimetterlo a letto; ma quando rivolse la parola a quel mezzo cadavere, ricevendone uno sguardo gelido, parole vaghe e balbettate, il povero tedesco, invece di perdere la testa, divenne un eroe dell'amicizia. Sotto la spinta della disperazione, quell'uomo-bambino ebbe alcune di quelle ispirazioni che hanno solo le amanti o le madri. Fece scaldare delle salviette (trovò delle salviette!), riuscì ad avvolgerle intorno alle mani di Pons, gliene mise sullo stomaco; poi prese tra le mani quella fronte bagnata di sudore freddo, vi richiamò la vita con una forza di volontà degna di Apollonio di Tiana. Baciò l'amico sugli occhi come quelle Marie che i grandi scultori italiani hanno scolpito nei loro bassorilievi, nelle Pietà, nell'atto di baciare il Cristo. Quegli sforzi divini, quell'effusione di una vita in un'altra, quell'opera di madre e amante, furono coronati da un pieno successo. Dopo una mezz'ora, Pons, riscaldato, riprese sembianze umane: il colore vitale tornò negli occhi, il calore esterno richiamò il movimento negli organi. Schmucke fece bere a Pons l'acqua di melissa mescolata al vino, lo spirito vitale s'infuse nel corpo, l'intelligenza si riaccese su quella fronte poco prima insensibile come una pietra. Allora Pons comprese a quale santa devozione, a quale forza d'amicizia fosse dovuta la sua resurrezione.
    «Senza di te sarei morto!», disse sentendosi il viso teneramente bagnato dalle lacrime del buon tedesco, che insieme rideva e piangeva.
    Udendo queste parole, attese nel delirio della speranza, che vale quanto quello della disperazione, il povero Schmucke, le cui forze erano completamente esaurite, s'afflosciò come un pallone bucato. Questa volta fu lui a cadere, si lasciò andare su una poltrona, giunse le mani e ringraziò Dio con una fervida preghiera. Secondo lui si era appena compiuto un miracolo! Non credeva al potere della sua preghiera in atto, ma al potere di Dio che aveva invocato. Invece quel miracolo era un effetto naturale che i medici hanno spesso constatato.
    Un malato circondato di affetto, accudito da persone interessate alla sua vita, a eguali opportunità si salva, mentre un malato affidato a dei mercenari soccombe. I medici non vogliono vedervi gli effetti di un magnetismo involontario, e attribuiscono questo risultato alle cure intelligenti, all'esatta osservanza delle loro prescrizioni; ma molte madri conoscono bene la virtù delle ardenti irradiazioni di un desiderio costante.
    «Mio buon Schmucke!...».
    «Non parlare, ti sento col cuore... Riposati! riposati!», disse il musicista sorridendo.
    «Povero amico mio! Nobile creatura! Figlio di Dio vivente in Dio! L'unica persona che mi abbia voluto bene!...», esclamò Pons, con modulazioni inconsuete della voce.
    L'anima, vicina a volarsene via, era tutta in queste parole, che procurarono a Schmucke felicità quasi eguali a quelle dell'amore.
    «Vivi! vivi! e diventerò un leone! lavorerò per due».
    «Ascolta, mio buono e fedele, adorabile amico! Lasciami parlare, il tempo stringe, perché sono morto e non mi riavrò più da queste crisi ripetute».
    Schmucke pianse come un bambino.
    «Ascolta, piangerai dopo...», disse Pons. «Da cristiano quale sei, devi rassegnarti. Mi hanno derubato, è stata la Cibot... Prima di lasciarti, devo illuminarti sulle cose della vita, che non conosci.... Hanno preso otto quadri che valevano somme considerevoli».
    «Perdonami, li ho venduti io...».
    «Tu?».
    «Io...», disse il povero tedesco. «Eravamo citati in tribunale...».
    «Citati!... e da chi?...».
    «Aspetta!...».
    Schmucke andò a prendere la carta bollata lasciata dall'ufficiale giudiziario e la portò a Pons.
    Pons lesse attentamente quella diavoleria. Dopo averlo letto, lasciò cadere a terra il foglio e rimase in silenzio. Quell'osservatore del lavoro umano, che fino ad allora aveva trascurato le questioni della morale, finì per capire tutti i fili della trama ordita dalla Cibot. La sua vivacità di artista, la sua intelligenza di allievo dell'Académie de Rome, tutta la sua giovinezza gli ritornarono per qualche istante.
    «Mio buon Schmucke, obbediscimi militarmente. Ascolta! Scendi in portineria e dì a quell'orribile donna che vorrei rivedere la persona che mi è stata inviata dal mio cugino presidente, e che se non viene lascerò la mia collezione al Museo; si tratta del mio testamento».
    Schmucke fece la commissione; ma alla sua prima parola la Cibot rispose con un sorriso.
    «Il nostro caro malato, caro signor Schmucke, ha avuto un attacco di febbre con delirio e ha creduto di vedere delle persone in camera sua. Vi do la mia parola di donna onesta che non è venuto nessuno da parte della famiglia del nostro caro malato...».
    Schmucke tornò con questa risposta, che ripeté testualmente a Pons.
    «È più forte, più scaltra, più astuta, più machiavellica di quanto non credessi», disse Pons sorridendo, «mente perfino in portineria! Figurati che stamani ha portato qui un ebreo che si chiama Élie Magus, Rémonencq e un terzo che non conosco ma che è più orribile lui da solo che gli altri due insieme. Ha contato sul mio sonno per far stimare la mia eredità; il caso ha voluto che mi svegliassi, e così li ho visti tutti e tre che soppesavano le mie tabacchiere. Allora lo sconosciuto ha detto di essere stato mandato dai Camusot; ho parlato con lui... Quell'infame della Cibot mi ha detto che mi ero sognato tutto... Mio buon Schmucke, non stavo sognando affatto!... Ho sentito benissimo quell'uomo, mi ha parlato... I due mercanti si sono spaventati e sono fuggiti... Pensavo che la Cibot si sarebbe smentita!... ma il tentativo è stato inutile. Adesso provo con un'altra trappola in cui far cadere quella scellerata... Mio povero amico, tu consideri la Cibot un angelo; ma è una donna che da un mese a questa parte mi ha assassinato per avidità. Non ho voluto credere che ci fosse tanta cattiveria in una donna che ci aveva servito fedelmente per qualche anno. Quel dubbio mi ha rovinato... Quanto ti hanno dato per gli otto quadri?...».
    «Cinquemila franchi».
    «Mio Dio, ne valevano venti volte tanto!», esclamò Pons. «È il fiore della mia collezione. Non ho il tempo d'intentare un processo; e del resto significherebbe chiamarti in causa come lo zimbello di quei mascalzoni... Un processo ti ucciderebbe! Tu non sai cos'è la giustizia! È la fogna di tutte le infamie morali... Alla vista di tanti orrori, anime come la tua soccombono. E poi sarai comunque abbastanza ricco. Questi quadri mi sono costati quarantamila franchi, li possiedo da trentasei anni... Ma siamo stati derubati con un'abilità sorprendente. Io ormai sono sul bordo della fossa, mi preoccupo soltanto di te... di te, il migliore degli uomini. Ora, non voglio che tu sia depredato, perché tutto quello che possiedo è tuo. Perciò devi diffidare di tutti, anche se non sei mai stato diffidente. Dio ti protegge, lo so; ma può dimenticarsi di te per un istante, e saresti saccheggiato come un mercantile. La Cibot è un mostro, mi sta uccidendo! e tu vedi in lei un angelo; voglio fartela conoscere; va a pregarla di indicarti un notaio che riceva il mio testamento..., e te la mostrerò con le mani nel sacco».
    Schmucke ascoltava Pons come se gli avesse raccontato l'Apocalisse. Il fatto che esistesse una natura così perversa come quella della Cibot, se Pons aveva ragione, era per lui la negazione della Provvidenza.
    «Il mio povero amico Pons sta così male», disse il tedesco entrando in portineria e rivolgendosi alla Cibot, «che vuol fare testamento; andate a chiamare un notaio...».
    Queste parole furono dette in presenza di molte persone, perché le condizioni di Cibot erano quasi disperate. Rémonencq, sua sorella, due portiere accorse dalle abitazioni vicine, tre domestici degli inquilini e l'inquilino dell'appartamento al primo piano che dava sulla strada, sostavano sul portone.
    «Ah! andatevelo a chiamare per conto vostro, il notaio», esclamò la Cibot con le lacrime agli occhi, «e fatevi fare il testamento da chi vi pare... Non lascio certo il letto del mio Cibot che sta per morire... Darei tutti i Pons del mondo per salvare Cibot... un uomo che non mi ha mai dato il minimo dispiacere in trent'anni di matrimonio!...».
    E rientrò, lasciando Schmucke interdetto.
    «Signore», disse a Schmucke l'inquilino del primo piano, «il signor Pons sta dunque molto male?...».
    Questo inquilino, di nome Jolivard, era un impiegato del registro, presso il Tribunale.
    «È stato sul punto di morire poco fa!», rispose Schmucke profondamente addolorato.
    «Qui vicino, in rue Saint-Louis, c'è il notaio Trognon», fece osservare il signor Jolivard. «È il notaio del quartiere».
    «Volete che vada a chiamarlo?», chiese Rémonencq a Schmucke.
    «Molto volentieri...», rispose Schmucke, «perché, se la signora Cibot non può assistere il mio amico, non vorrei lasciarlo solo nello stato in cui si trova...».
    «La signora Cibot ci diceva che sta diventando pazzo!...», continuò Jolivard.
    «Pons pazzo?!», esclamò Schmucke atterrito. «Non è mai stato tanto lucido... ed è proprio questo che mi preoccupa per la sua salute».
    Tutte le persone che componevano il gruppo ascoltavano questa conversazione con una curiosità del tutto naturale, che la incise nella loro memoria. Schmucke, che non conosceva Fraisier, non poté accorgersi della sua testa satanica e dei suoi occhi scintillanti. Fraisier, bisbigliando due parole all'orecchio della Cibot, era stato l'autore di quella scena ardita, forse al di sopra delle capacità della Cibot, ma che lei aveva recitato in modo sublime. Far passare per pazzo il moribondo era una delle pietre angolari della costruzione del leguleio. L'incidente del mattino era servito molto a Fraisier; e senza di lui, forse, la Cibot, nella sua confusione, si sarebbe smentita quando l'innocente Schmucke era andato a tenderle una trappola, pregandola di richiamare l'inviato della famiglia. Rémonencq, che vide sopraggiungere il dottor Poulain, non chiese di meglio che sparire. Ecco perché.

LVIII • UN CRIMINE PUNIBILE

    Da dieci giorni Rémonencq rappresentava la parte della Provvidenza, e ciò dispiaceva particolarmente alla Giustizia che ha la pretesa di esserne la sola rappresentante. Rémonencq voleva sbarazzarsi ad ogni costo dell'unico ostacolo che si opponeva alla sua felicità. Per lui, la felicità consisteva nello sposare l'appetitosa portiera e nel triplicare i propri capitali. Ora, Rémonencq, vedendo il sartino intento a bere la sua tisana, aveva avuto l'idea di convertire la sua indisposizione in una malattia mortale, e il suo mestiere di ferravecchio gliene aveva fornito il mezzo.
    Una mattina, mentre fumava la sua pipa, appoggiato di schiena allo stipite della porta della bottega, e stava pensando a quel bel negozio sul boulevard de la Madeleine dove avrebbe troneggiato la Cibot in abiti sfarzosi, lo sguardo gli cadde su un dischetto di rame molto ossidato. All'improvviso gli venne l'idea di pulire economicamente quel dischetto nella tisana di Cibot. Legò il disco di rame, tondo come una moneta da cento soldi, con uno spago; e mentre la Cibot era occupata coi suoi padroni, andava tutti i giorni a informarsi sulla salute del suo amico sarto. Durante la sua visita di qualche minuto, immergeva il dischetto di rame nella tisana; quando se ne andava, lo estraeva grazie allo spago. Questa leggera aggiunta di ossido di rame, comunemente chiamato verderame, introdusse segretamente un principio deleterio nella tisana benefica, ma in proporzioni omeopatiche, il che produsse devastazioni incalcolabili. Ecco quali furono i risultati di questa omeopatia criminale. Al terzo giorno, i capelli del povero Cibot caddero, i denti tremarono negli alveoli, e l'equilibrio dell'organismo fu sconvolto dall'impercettibile dose di veleno. Il dottor Poulain si scervellò osservando l'effetto del decotto, perché era abbastanza esperto per riconoscere l'azione di un agente distruttivo. Senza che nessuno lo sapesse, portò via con sé la tisana e la analizzò di persona; ma non trovò niente. Il caso volle che quel giorno Rémonencq, spaventato della sua opera, non vi avesse immerso il fatale dischetto. Il dottor Poulain se la cavò con se stesso e con la scienza supponendo che, in conseguenza di una vita sedentaria, in una portineria umida, il sangue del sarto rattrappito su un tavolo, davanti a quella finestra con l'inferriata, avesse potuto decomporsi per mancanza di movimento, e soprattutto per la continua inspirazione delle esalazioni di un fetido ruscello. La rue de Normandie è una di quelle vecchie vie, con la carreggiata percorsa da un solco, in cui il comune di Parigi non ha ancora costruito fontane, e dove un rigagnolo nero trascina faticosamente le acque luride di tutte le case, che s'infiltrano sotto il selciato producendo quella fanghiglia tipica della città di Parigi.
    La Cibot andava e veniva, mentre il marito, intrepido lavoratore, stava sempre davanti a quella finestra, seduto come un fachiro. I ginocchi del sarto erano anchilosati, il sangue si fermava alla vita; le gambe dimagrite, deformate, diventavano membra quasi inutili. Così il colorito molto scuro di Cibot sembrava naturalmente malaticcio da molto tempo. La buona salute della donna e la malattia dell'uomo sembrarono al dottore un fatto naturale.
    «Insomma, che malattia ha il mio povero Cibot?», aveva chiesto la portiera al dottor Poulain.
    «Cara signora Cibot», rispose il dottore, «sta morendo della malattia dei portieri... Il suo deperimento generale rivela un incurabile vizio del sangue».
    Un crimine immotivato, senza alcun guadagno, senza alcun interesse, finì per cancellare dalla mente del dottor Poulain i primi sospetti. Chi poteva voler uccidere Cibot? Sua moglie? Il dottore la vide assaggiare la tisana di Cibot mentre la zuccherava. Un gran numero di delitti sfugge alla vendetta della società; e in generale sono quelli che si commettono, come questo, senza le prove flagranti di una violenza qualunque: il sangue versato, lo strangolamento, le percosse, i comportamenti maldestri; ma soprattutto quando l'omicidio è stato commesso senza un interesse apparente, e ad opera delle classi inferiori. Il delitto è sempre denunciato dalla sua avanguardia: odii, avidità evidenti e ben note alle persone accanto alle quali si vive. Ma, nelle circostanze in cui si trovavano il sartino, Rémonencq e la Cibot, nessuno aveva interesse a cercare la causa della morte, tranne il medico. Quel portiere malaticcio, di pelle scura, spiantato, adorato dalla moglie, non aveva nemici. I motivi e la passione del rigattiere si nascondevano nell'ombra, proprio come la ricchezza della Cibot. Il medico conosceva a fondo la portiera e i suoi sentimenti, e la riteneva capace di tormentare Pons; ma sapeva che non aveva né l'interesse né la forza di compiere un delitto; del resto, beveva un cucchiaio di tisana prima di darla al marito, ogni volta che il dottore veniva. Poulain, l'unica persona che poteva trovare una spiegazione, credette a qualche imprevisto della malattia, una di quelle singolari eccezioni che fanno della medicina un mestiere tanto pericoloso. E in effetti il sartino si trovò, sventuratamente, in condizioni di salute talmente precarie che quell'aggiunta impercettibile di ossido di rame bastò a farlo morire. Le comari, i vicini, si comportarono in modo da non mettere in discussione l'innocenza di Rémonencq, giustificando quella morte improvvisa.
    «Ah!», esclamava uno, «da molto tempo dicevo che Cibot non stava bene».
    «Quell'uomo lavorava troppo!», diceva un altro. «Si è bruciato il sangue».
    «Non voleva ascoltarmi», esclamava un vicino, «gli consigliavo di andare a passeggiare la domenica, di riposare il lunedì, perché due giorni la settimana per divertirsi non è certo troppo».
    Insomma le chiacchiere del quartiere, così delatrici, che la giustizia ascolta con gli orecchi del commissario di polizia, questo re del ceto basso, spiegavano perfettamente la morte del sartino. Eppure l'aria pensierosa, gli occhi inquieti del signor Poulain imbarazzavano molto Rémonencq; così, vedendo arrivare il dottore, propose immediatamente a Schmucke di andare di persona a chiamare quel signor Trognon che Fraisier conosceva.
    «Sarò di ritorno per quando si farà il testamento», disse Fraisier all'orecchio della Cibot, «e malgrado il vostro dolore bisogna curare gli interessi».
    L'avvocaticchio, che scomparve con la leggerezza di un'ombra, incontrò il suo amico medico.
    «Eh! Poulain», esclamò, «va tutto bene. Siamo a cavallo!... Stasera ti dirò perché! Scegli il posto che preferisci, lo avrai! Io, sono giudice di pace! Tabareau non mi rifiuterà più sua figlia... Quanto a te, m'incarico di farti sposare la signorina Vitel, la nipote del nostro giudice di pace».
    Fraisier lasciò Poulain stupefatto da quelle folli parole, e saltò sul boulevard come una palla; fece segno all'omnibus e dopo dieci minuti fu lasciato da quel cocchio moderno all'altezza della rue de Choiseul. Erano le quattro circa. Fraisier era sicuro di trovare la presidentessa sola, perché i magistrati non escono dal tribunale prima delle cinque.
    La signora de Marville accolse Fraisier con una cortesia che provava, secondo la promessa fatta alla signora Vatinelle, come il signor Leboeuf avesse parlato favorevolmente dell'ex procuratore di Mantes. Addirittura Amélie fece quasi la civetta con Fraisier, come la duchessa di Montpensier con Jacques Clément; infatti quell'avvocaticchio era il suo coltello. Ma quando Fraisier le mostrò la lettera collettiva con la quale Élie Magus e Rémonencq si impegnavano ad acquistare in blocco la collezione di Pons per una somma di novecentomila franchi in contanti, la presidentessa gli lanciò uno sguardo da cui sgorgava quella somma. Un torrente di cupidigia investì il leguleio.
    «Il signor presidente», disse la presidentessa, «mi ha incaricata d'invitarvi a cena domani; saremo in famiglia: avrete per commensali il signor Godeschal, successore del signor Desroches, mio procuratore; poi Berthier, nostro notaio; mio genero e mia figlia... Dopocena, voi ed io, il notaio e il procuratore, avremo il colloquio che avete richiesto, nel corso del quale vi affiderò i pieni poteri. Questi due signori obbediranno, come chiedete, alle vostre direttive, e faranno in modo che tutto proceda bene. Avrete la procura del signor de Marville appena vi sarà necessaria...».
    «Mi servirà il giorno del decesso...».
    «La terremo pronta».
    «Signora presidentessa, se chiedo una procura, se voglio che il vostro procuratore non compaia, è più nel vostro interesse che nel mio... Quando prendo un impegno, ci metto tutto me stesso. Per questo, signora, chiedo in cambio ai miei protettori la stessa fedeltà, la stessa fiducia; non oso dire, in questo caso, ai miei clienti... Potrete forse credere che facendo così io voglia aggrapparmi all'affare; no, no, signora; se si dovessero compiere delle azioni riprovevoli... perché, in materia di successioni, capita di essere travolti... soprattutto da un peso di novecentomila franchi... bene, non potreste mai sconfessare un uomo come Godeschal, la probità in persona; ma si potrà buttare tutto sulle spalle di un pessimo uomo d'affari...».
    La presidentessa guardò Fraisier con ammirazione.
    «Andrete molto in alto o molto in basso», gli disse. «Al vostro posto, invece di aspirare alla pensione di giudice di pace, vorrei diventare procuratore del re... a Mantes! e fare una grande carriera».
    «Lasciate fare a me, signora! Il ruolo di giudice di pace è un cavallo da curato per il signor Vitel, ma io ne farò un cavallo da battaglia».
    La presidentessa fece allora la sua ultima confidenza a Fraisier.
    «Mi sembrate così totalmente dedito ai nostri interessi», disse, «che voglio farvi conoscere le difficoltà della nostra situazione e quelle che sono le nostre speranze. Il presidente, al momento del progettato matrimonio tra sua figlia e un intrigante che poi è diventato banchiere, desiderava vivamente aumentare la proprietà di Marville con numerose praterie, allora in vendita. Ci siamo privati di quella magnifica residenza per maritare mia figlia, come sapete; ma desidero assai, poiché abbiamo quella figlia sola, acquistare ciò che è rimasto di quelle praterie. Sono già state vendute in parte a un inglese che, dopo avervi abitato per venti anni, torna in Inghilterra; ha costruito un delizioso cottage in una posizione incantevole, tra il parco di Marville e i prati che un tempo facevano parte della proprietà, e ha riscattato, per farsi un parco, delle macchie, dei boschetti, dei giardini, a prezzi folli. Il cottage e i suoi annessi formano un bel fabbricato nel paesaggio, attiguo ai muri del parco di mia figlia. Si potrebbero avere le praterie e la residenza per settecentomila franchi, dato che il reddito netto dei prati è di ventimila franchi... Ma, se il signor Wadman viene a sapere che siamo noi gli acquirenti, vorrà sicuramente due o trecentomila franchi in più, che altrimenti perderebbe e, come avviene in materia rurale, non si calcola l'abitazione...».
    «Ma, signora, voi potete, secondo me, contare con tanta sicurezza sull'eredità che mi offro io di fare la parte dell'acquirente per vostro conto, e mi impegno a farvi avere la proprietà al miglior prezzo possibile con una scrittura privata, come in genere usano fare gli intermediari di beni immobili... E in questa veste mi presenterò all'inglese. Conosco bene questo genere di affari; a Mantes erano la mia specialità. Vatinelle aveva raddoppiato il valore del suo studio, perché io lavoravo sotto il suo nome...».
    «E così nacque la vostra relazione con la piccola signora Vatinelle... Il notaio sarà molto ricco oggi...».
    «Ma la signora Vatinelle spende molto... In ogni caso state tranquilla, signora; vi servirò l'inglese cotto al punto giusto...».
    «Se ci riuscirete, avrete diritto alla mia eterna riconoscenza... Addio, caro signor Fraisier. A domani...».
    Fraisier uscì salutando la presidentessa con meno servilismo della volta precedente.
    «Domani sono a cena dal presidente de Marville!...», diceva tra sé Fraisier. «Bene, li tengo in pugno. Soltanto, per essere il padrone assoluto dell'affare, bisognerebbe che io fossi il consulente di quel tedesco, nella veste di Tabareau, l'ufficiale giudiziario del giudice di pace! Quel Tabareau, che mi rifiuta sua figlia, figlia unica, me la darà se io divento giudice di pace. La signorina Tabareau, allampanata, rossa e tisica, è proprietaria, per parte di madre, di una casa in place Royale; dunque sarò eleggibile. Per di più alla morte del padre avrà seimila lire di rendita. Non è bella; ma, perdio! poiché si tratta di passare da zero a diciottomila franchi di rendita, non è il caso di fare troppe storie!...».
    E, tornando attraverso i boulevards in rue de Normandie, si abbandonava a quel sogno d'oro: si lasciava andare alla felicità di liberarsi per sempre dal bisogno; pensava di far sposare al suo amico Poulain la signorina Vitel, la figlia del giudice di pace. Già si vedeva, insieme al dottore, uno dei re del quartiere; avrebbe dominato sulle elezioni municipali, militari e politiche. I boulevards sembrano più brevi quando, passeggiandovi si porta con sé la propria ambizione a cavallo della fantasia.

LIX • LE ASTUZIE DI UN TESTATORE

    Quando Schmucke risalì dal suo amico Pons, gli disse che Cibot stava morendo e che Rémonencq era andato a chiamare il notaio Trognon. Pons rimase colpito da quel nome, che la Cibot gli ripeteva continuamente nei suoi discorsi interminabili, raccomandandogli quel notaio come l'onestà in persona. Allora il malato, la cui diffidenza era divenuta totale dopo quella mattina, ebbe un'idea luminosa che gli permise di completare il suo piano per giocare la Cibot e smascherarla agli occhi del credulo Schmucke.
    «Schmucke», gli disse prendendo la mano al povero tedesco inebetito da tanti avvenimenti, «deve esserci una grande confusione in casa; se il portiere sta per morire, siamo quasi liberi per qualche momento, cioè senza spie, perché stai sicuro che ci stanno spiando! Esci, prendi un calesse, va' in teatro, di' alla signorina Héloïse, la nostra prima ballerina, che voglio vederla prima di morire, e che venga alle dieci e mezzo dopo lo spettacolo. Poi va' dai tuoi due amici Schwab e Brunner, e pregali di venire qui domani, alle nove del mattino, a chiedere mie notizie, fingendo di passare di qui per caso e di salire a trovarmi...».
    Ecco il piano ideato dal vecchio artista che si sentiva morire. Voleva arricchire Schmucke, istituendolo suo erede universale; per sottrarlo a ogni possibile cavillo, si proponeva di dettare il testamento a un notaio in presenza di testimoni, perché non si potesse credere che era fuori di testa, e per togliere ai Camusot ogni pretesto per impugnare le sue ultime disposizioni. Quel nome, Trognon, gli fece intravedere qualche macchinazione; pensò a qualche vizio di forma predisposto in anticipo, a qualche infedeltà premeditata dalla Cibot, e decise di servirsi di quel Trognon per farsi dettare un testamento olografo che avrebbe sigillato e poi nascosto in un cassetto del comò. Voleva mostrare a Schmucke, facendolo nascondere in uno stanzino dell'alcova, la Cibot mentre s'impadroniva del testamento, rompeva il sigillo, lo leggeva e lo sigillava di nuovo. Poi, il giorno dopo alle nove, avrebbe annullato il testamento olografo con un altro testamento fatto alla presenza di un notaio, formalmente regolare e inoppugnabile. Quando la Cibot l'aveva trattato da pazzo, da visionario, aveva riconosciuto l'odio e la vendetta, l'avidità della presidentessa; infatti, a letto da due mesi, il pover'uomo, durante le sue insonnie, nelle lunghe ore di solitudine, aveva ripassato al setaccio gli avvenimenti della sua vita.
    Gli scultori antichi e moderni hanno spesso collocato, a ogni lato della tomba, dei geni che impugnano torce accese. Quei bagliori rischiarano ai morenti il quadro delle loro colpe, dei loro errori, e illuminano i sentieri della morte. In questo caso la scultura rappresenta grandi idee, formula un fatto umano. L'agonia ha una sua saggezza. Spesso si vedono ingenue fanciulle, nella più tenera età, dotate di una ragione centenaria, diventare profetesse, giudicare la loro famiglia, non cadere in alcun inganno. È la poesia della morte. Ma, cosa strana e degna di nota! si muore in due modi diversi. Quella poesia della profezia, il dono di vedere sia in avanti che indietro, riguarda soltanto i morenti colpiti nella carne, che muoiono a causa della distruzione degli organi della vita corporea. Così le persone colpite, come Luigi XIV, dalla cancrena, i tisici, i malati che muoiono di febbre come Pons, di stomaco come la signora de Mortsauf, o i soldati che muoiono per ferite ricevute nel pieno della loro vitalità, tutti costoro possiedono quella sublime lucidità, e fanno una fine sorprendente, ammirevole. Invece coloro che muoiono di malattie, per così dire, dell'intelligenza, il cui male risiede nel cervello, nel sistema nervoso che fa da intermediario al corpo per fornirgli il combustibile del pensiero, muoiono totalmente. In costoro lo spirito e il corpo sprofondano insieme. Gli uni, anime senza corpo, pervengono alle visioni bibliche; gli altri sono dei cadaveri. Quell'uomo vergine, quel Catone goloso, quel giusto quasi senza peccato, penetrò troppo tardi nelle sacche di fiele che componevano il cuore della presidentessa. Capì il mondo quando fu sul punto di lasciarlo. Così, da qualche ora, aveva serenamente preso la sua decisione, come un artista gioioso per il quale ogni cosa è un pretesto per facezie e scherzi. Gli ultimi legami che lo univano alla vita, le catene dell'ammirazione, i nodi possenti che legavano l'intenditore ai capolavori dell'arte, quella mattina erano stati sciolti. Vedendosi derubato dalla Cibot, Pons aveva detto cristianamente addio alle pompe e alle vanità dell'arte, alla sua collezione, alle sue simpatie per i creatori di tante belle cose, e voleva pensare soltanto alla morte, come i nostri antenati che la consideravano una delle feste del cristiano. Nel suo affetto per Schmucke, Pons intendeva proteggerlo dal fondo della sua tomba. Questo pensiero paterno fu la ragione per cui scelse la prima ballerina come aiuto contro le perfidie che lo circondavano, e che non avrebbero sicuramente risparmiato il suo erede universale.
    Héloïse Brisetout era una di quelle creature che restano autentiche in una posizione falsa, capaci di qualunque scherzo ai danni degli adoratori paganti, una figlia della scuola delle Jenny Cadine e delle Josépha; ma una buona compagna, che non temeva nessun potere a forza di vedere le debolezze umane e abituata com'era ad affrontare le guardie municipali al ballo poco campestre di Mabille e al carnevale.
    «Se ha fatto dare il mio posto al suo protetto Garangeot, si sentirà tanto più in obbligo nei miei confronti», pensò Pons.
    Schmucke poté uscire senza che nessuno se ne accorgesse, data la confusione che regnava nella portineria, e tornò con la massima rapidità per non lasciare troppo a lungo Pons solo.
    Il signor Trognon giunse per il testamento contemporaneamente a Schmucke. Sebbene Cibot fosse in punto di morte, sua moglie accompagnò il notaio, lo fece entrare nella camera da letto e si ritirò, lasciando insieme Schmucke, il signor Trognon e Pons; ma si armò di uno specchietto congegnato in modo tale da essere infilato nella porta lasciata socchiusa. Così la Cibot poteva non soltanto udire ma anche vedere tutto ciò che si sarebbe detto e sarebbe accaduto in quel momento per lei supremo.
    «Signore», disse Pons, «sono purtroppo nelle mie piene facoltà perché sento che sto per morire; e certo per volontà di Dio, nessuna delle sofferenze della morte mi viene risparmiata!... Questo è il signor Schmucke...».
    Il notaio salutò Schmucke.
    «È il solo amico che io abbia sulla terra», disse Pons, «e voglio istituirlo mio erede universale; ditemi quale forma deve avere il testamento affinché il mio amico, che è tedesco e non sa nulla delle nostre leggi, possa ricevere l'eredità senza alcuna contestazione».
    «Si può sempre contestare tutto, signore», disse il notaio, «è l'inconveniente della giustizia umana. Ma in materia di testamenti, ve ne sono di inoppugnabili...».
    «Quali?», chiese Pons.
    «Un testamento fatto davanti al notaio, in presenza di testimoni che dichiarino che il testatore è nel pieno delle sue facoltà, e se non ha né moglie, né figli, né padre, né fratello...».
    «Non ho niente di tutto questo, tutti i miei affetti sono concentrati nel mio caro amico Schmucke qui presente...».
    Schmucke piangeva.
    «Se dunque avete soltanto dei collaterali lontani, poiché la legge vi lascia libero di disporre dei vostri beni mobili e immobili, sempre che non li leghiate a condizioni moralmente riprovevoli, e avrete senz'altro sentito parlare di testamenti impugnati a causa della bizzarria dei testatori, un testamento fatto davanti al notaio è inoppugnabile. Infatti l'identità della persona non può essere negata, il notaio ha constatato il pieno possesso delle facoltà mentali, e la firma non può dar luogo a discussioni... Tuttavia, anche un testamento olografo, steso in buona forma e chiaro, è sostanzialmente inoppugnabile».
    «Decido, per ragioni personali, di scrivere sotto vostra dettatura un testamento olografo, e di affidarlo a questo mio amico... Si può fare?...».
    «Certamente!», disse il notaio. «Se volete scrivere, ve lo detto...».
    «Schmucke, dammi il mio piccolo scrittoio di Boulle... Signore, dettatemi a bassa voce perché», aggiunse, «qualcuno potrebbe ascoltarci».
    «Ditemi allora, prima di tutto, quali sono le vostre intenzioni?», chiese il notaio.
    Dopo dieci minuti la Cibot, che Pons intravedeva in uno specchio, vide sigillare il testamento dopo che il notaio l'ebbe esaminato, mentre Schmucke accendeva una candela; poi Pons lo consegnò a Schmucke dicendogli di chiuderlo in un nascondiglio dello scrittoio; il testatore ne chiese la chiave, l'annodò a un angolo del fazzoletto e mise il tutto sotto il guanciale. Il notaio, chiamato per gentilezza esecutore testamentario, e al quale Pons lasciava un quadro di valore, una di quelle cose che la legge permette di donare a un notaio, uscì e trovò la signora Cibot nel salotto.
    «Ebbene, signore, il signor Pons ha pensato a me?».
    «Non aspettatevi, mia cara, che un notaio tradisca i segreti che gli sono affidati», rispose il signor Trognon. «Tutto quello che posso dirvi è che ci saranno molte bramosie frustrate e molte aspettative deluse. Il signor Pons ha fatto un bel testamento, pieno di buon senso, un testamento patriottico, che approvo pienamente».
    Non si può immaginare fino a che punto arrivò la curiosità della Cibot, stimolata da tali parole. Scese e passò la notte accanto a Cibot, ripromettendosi di farsi sostituire dalla signora Rémonencq, e di andare a leggere il testamento tra le due e le tre del mattino.

LX • IL FINTO TESTAMENTO

    La visita della signorina Héloïse Brisetout, alle dieci e mezzo di sera, sembrò assai naturale alla Cibot; ma siccome aveva paura che la ballerina parlasse dei mille franchi dati da Gaudissart, accompagnò la prima ballerina prodigandole cortesie e complimenti come a una sovrana.
    «Ah! mia cara, siete molto meglio sul vostro terreno che a teatro», disse Héloïse salendo le scale. «Vi consiglio di non lasciare mai il vostro lavoro!».
    Héloïse, che era stata accompagnata in vettura da Bixiou, il suo amico del cuore, era vestita con sfarzo, perché stava andando da Mariette, una delle più famose prime ballerine dell'Opéra. Il signor Chapoulot, vecchio negoziante di passamaneria della rue Saint-Denis, l'inquilino del primo piano, che stava tornando dall'Ambigu-Comique con la figlia, rimase abbagliato, insieme alla moglie, incontrando sulle scale una creatura così incantevole, con un tale abbigliamento.
    «Ma chi è, signora Cibot?», chiese il signor Chapoulot.
    «È una nullità!... una saltatrice che si può vedere quasi nuda tutte le sere per quaranta soldi...», rispose la portiera all'orecchio di sua moglie.
    «Victorine», disse la signora Chapoulot alla figlia, «piccina, fai passare la signora!».
    Questo grido di madre spaventata fu capito da Héloïse, che si girò dicendo:
    «Vostra figlia è dunque peggio dell'esca, signora, se avete paura che s'infiammi solo a sfiorarmi?!...».
    Héloïse guardò il signor Chapoulot con simpatia e sorridendo.
    «Accidenti, è proprio carina, anche fuori del teatro!», disse il signor Chapoulot rimanendo sul pianerottolo.
    La signora Chapoulot dette un pizzicotto al marito, da farlo gridare, e lo spinse dentro l'appartamento.
    «Ecco un secondo piano», disse Héloïse, «che ha tutta l'aria di essere un quarto».
    «Eppure la signorina è abituata a montare», disse la Cibot aprendo la porta dell'appartamento.
    «Allora, vecchio mio», disse Héloïse entrando nella camera e vedendo il povero musicista disteso, pallido, il volto scavato, «non va tanto bene, vero? A teatro sono tutti preoccupati per voi; ma sapete bene come succede: per quanto si abbia un buon cuore, ognuno ha i suoi impegni, ed è difficile trovare un'ora per andare a visitare gli amici. Tutti i giorni Gaudissart dice che vuol venire a trovarvi, e poi ogni mattina è preso dai fastidi dell'amministrazione. Comunque vi vogliamo tutti bene...».
    «Signora Cibot», disse il malato, «fatemi il piacere di lasciarci soli con la signorina; dobbiamo parlare di cose di teatro e del mio posto di direttore d'orchestra... Schmucke riaccompagnerà la signora».
    Schmucke, a un cenno di Pons, mise la Cibot alla porta e tirò il chiavistello.
    «Ah! furfante d'un tedesco! ecco che si guasta pure lui!...», pensò la Cibot sentendo quel rumore significativo. «È Pons a insegnargli queste cose orribili... Ma me la pagherete, miei piccoli amici...», disse tra sé la Cibot scendendo le scale. «Bah! se quell'acrobata gli parla dei mille franchi, gli dirò che è stato tutto uno scherzo da teatro».
    E si sedette al capezzale di Cibot, che si lamentava di avere il fuoco nello stomaco, perché Rémonencq gli aveva appena dato da bere, in assenza della moglie.
    «Mia cara bambina», disse Pons alla ballerina mentre Schmucke portava fuori la Cibot, «mi fido soltanto di voi per la scelta di un notaio onesto, che venga domani mattina, alle nove e mezzo precise, a ricevere il mio testamento. Voglio lasciare tutta la mia fortuna al mio amico
Schmucke. Nel caso che questo povero tedesco dovesse subire delle persecuzioni, conto su questo notaio per consigliarlo e difenderlo. Per questo desidero un notaio stimato, molto ricco, superiore alle influenze che fanno spesso piegare gli uomini di legge; il mio povero legatario dovrà trovare in lui un sostegno. Non mi fido di Berthier, successore di Cardot; voi che conoscete così tanta gente...».
    «Ho quello che ti serve!», disse la ballerina. «Il notaio di Florine, della contessa de Bruel: Léopold Hannequin, una persona seria che non sa neppure cosa sia una donnina allegra! È proprio come un padre, un brav'uomo che vi impedisce di fare sciocchezze col denaro guadagnato; io lo chiamo il padre dei topi, perché ha inculcato dei principî di economia a tutte le mie amiche. Innanzitutto, mio caro, ha sessantamila franchi di rendita oltre il suo studio. Poi è notaio come lo si era una volta! È notaio quando cammina, è notaio quando dorme: deve aver messo al mondo soltanto dei piccoli notai e delle piccole notaie... Insomma, è un uomo noioso e pedante, ma è anche un uomo che non si piega davanti a nessun potente, quando svolge le sue funzioni... Non ha mai avuto addosso amanti sanguisughe, è un padre di famiglia fossile! ed è adorato dalla moglie, che non lo tradisce mai, pur essendo moglie di notaio... Che vuoi di più? A Parigi non c'è un notaio migliore. È un patriarca; non è buffo e divertente come lo era Cardot con Malaga, ma non si ritirerà mai, come quel piccoletto che viveva con Antonia! Te lo manderò domani mattina, alle otto... Puoi dormire tranquillo. Prima di tutto spero che guarirai, e che ci farai ancora della bella musica; ma insomma, che vuoi farci, la vita è davvero triste, gli impresari mercanteggiano, i re scroccano, i ministri trafficano, i ricchi economizzano... Gli artisti non hanno più questo!», disse battendosi il cuore. «Sono tempi da morire... Addio, vecchio!».
    «Soprattutto, Héloïse, ti chiedo la massima discrezione».
    «Non è un affare di teatro», rispose, «è una cosa sacra per un artista».
    «Chi è il tuo amico, piccola?».
    «Il sindaco della tua circoscrizione, il signor Beaudoyer, un uomo stupido quanto il defunto Crevel; avrai saputo che Crevel, uno dei vecchi soci di Gaudissart, è morto qualche giorno fa, e non mi ha lasciato niente, neppure un vasetto di pomata. E per questo ti dico che il nostro secolo è disgustoso».
    «E di cosa è morto?».
    «Di sua moglie!... Se fosse rimasto con me, sarebbe ancora vivo! Addio, mio caro! Ti parlo di morte perché sono sicura di vederti tra quindici giorni a spasso per i boulevards, a caccia di deliziose piccole curiosità, perché tu non sei malato... non ti ho mai visto due occhi così vivaci...».
    E la ballerina se ne andò, sicura che il suo protetto Garangeot avrebbe avuto per sempre la bacchetta di direttore d'orchestra. Garangeot era suo cugino carnale... Ogni porta era socchiusa, e ogni inquilino, appostato, vide passare la prima ballerina. Per la casa fu un avvenimento.
    Fraisier, simile a quei mastini che non mollano mai il boccone addentato, sostava in portineria, accanto alla Cibot, quando la ballerina raggiunse il portone e chiese che venisse aperto. Sapeva che il testamento era stato fatto, e veniva a sondare le intenzioni della portiera; infatti il notaio Trognon si era rifiutato di dire una sola parola sul testamento, tanto a Fraisier che alla Cibot. Naturalmente il leguleio, vedendo la ballerina, si propose di trarre un vantaggio da quella visita in extremis.
    «Mia cara signora Cibot», disse Fraisier, «questo è per voi il momento critico».
    «Ah! sì...», disse lei, «mio povero Cibot!... Quando penso che non si godrà quello che riuscirò ad avere...».
    «Il problema è sapere se il signor Pons vi ha lasciato qualcosa; insomma, se siete nel testamento oppure se siete stata dimenticata», disse Fraisier continuando. «Io rappresento gli eredi naturali, e voi potrete avere qualcosa soltanto da loro, in ogni caso... Il testamento è olografo, e di conseguenza è assai vulnerabile... Sapete dove il nostro uomo l'abbia messo?».
    «In un nascondiglio dello scrittoio, e ha preso la chiave», rispose la Cibot, «l'ha annodata a un angolo del fazzoletto, e ha messo il fazzoletto sotto il cuscino... Ho visto tutto».
    «Il testamento è sigillato?».
    «Ahimè, sì!».
    «Sottrarre un testamento e distruggerlo è un grave reato; leggerlo non è altrettanto grave. E in ogni caso si tratta di peccatucci senza testimoni! Ha il sonno duro il nostro uomo?...».
    «Sì; ma quando volevate esaminare e stimare ogni cosa, avrebbe dovuto dormire come un ghiro e invece s'è svegliato... Comunque, vado a vedere! Stamattina andrò a dare il cambio al signor Schmucke verso le quattro; se volete venire, potrete avere il testamento per una diecina di minuti...».
    «Bene! d'accordo, mi alzerò verso le quattro, e busserò piano...».
    «La signorina Rémonencq, che prenderà il mio posto accanto a Cibot, sarà avvisata e vi aprirà; ma bussate alla finestra, in modo da non svegliare nessuno».
    «D'accordo», disse Fraisier, «mi darete voi un lume? Basterà una candela...».
    A mezzanotte, il povero tedesco, seduto in una poltrona, straziato dal dolore, stava guardando Pons, il cui volto contratto, da moribondo, si stava rilassando dopo tante tensioni, da far credere che stesse per spirare.
    «Penso che mi resti la forza per arrivare a domani sera», disse Pons con filosofia. «La mia agonia arriverà certamente, mio povero Schmucke, domani notte. Dopo che il notaio e i tuoi due amici saranno usciti, andrai a chiamare il nostro buon abate Duplanty, il vicario della chiesa di Saint-François. Quel degno uomo non sa che sono malato, e voglio ricevere i sacramenti domani a mezzogiorno...».
    Ci fu una lunga pausa.
    «Dio non ha voluto che la vita fosse per me come la sognavo», riprese Pons. «Mi sarebbe piaciuto tanto avere una moglie, dei figli, una famiglia!... Essere amato da qualcuno, in una casa, era la mia unica ambizione! La vita è amara per tutti, perché ho visto gente che aveva tutto quello che io desideravo invano, ma non era felice... Alla fine della mia esistenza, il buon Dio mi ha fatto trovare una consolazione insperata, dandomi un amico come te!... E io non ho certo da rimproverarmi di non averti saputo apprezzare, mio buon Schmucke; perché ti ho dato il mio cuore e tutto il mio affetto... Non piangere, Schmucke, o tacerò! ed è così dolce per me parlarti di noi... Se ti avessi dato ascolto, vivrei ancora. Avrei lasciato il mondo e le mie abitudini, e non vi avrei ricevuto delle ferite mortali. Ma ora voglio pensare solo a te!...».
    «Hai torto!...».
    «Non contrariarmi, ascoltami, amico mio... Tu hai l'ingenuità, il candore di un bambino di sei anni che non abbia mai lasciato la madre, e ciò è degno di grande rispetto; penso che Dio in persona dovrebbe occuparsi degli esseri come te. Eppure, gli uomini sono così malvagi che devo metterti in guardia contro di loro. Dunque perderai la tua nobile fiducia, la tua santa credulità, questa grazia delle anime pure che soltanto le persone di genio e di cuore come te possiedono... Tra poco vedrai la signora Cibot, che ci ha osservati dall'uscio socchiuso, venire a prendere il finto testamento... Presumo che la briccona farà questa spedizione stamattina, quando crederà che tu stia dormendo. Ascoltami bene, e segui alla lettera le mie istruzioni... Hai capito?», chiese il malato.

LXI • PROFONDO DISAPPUNTO

    Schmucke, affranto dal dolore, colto da una terribile palpitazione, aveva abbandonato la testa sulla spalliera della poltrona e sembrava svenuto.
    «Sì, ti ascolto! ma come se tu fossi a duecento passi da me... mi sembra di sprofondare nella tomba con te!...», disse il tedesco, straziato dal dolore.
    Si avvicinò a Pons, gli prese una mano che tenne tra le sue, e pronunciò mentalmente una fervida preghiera.
    «Cosa stai borbottando in tedesco?...».
    «Ho pregato Dio di chiamarci a sé tutti e due insieme!...», rispose con semplicità dopo aver terminato la sua preghiera.
    Pons si chinò a fatica, perché stava soffrendo dolori insopportabili al fegato. Riuscì ad abbassarsi fino a Schmucke e lo baciò sulla fronte, spargendo la sua anima come una benedizione su quell'essere comparabile all'agnello che riposa ai piedi di Dio.
    «Su, ascoltami, mio buon Schmucke, bisogna obbedire a chi sta morendo...».
    «Ti ascolto!».
    «La tua camera comunica con la mia attraverso la porticina della tua alcova, che dà in uno dei ripostigli della mia».
    «Sì, ma è ingombro di quadri».
    «Vai subito a liberare la porta, senza far rumore!...».
    «Sì...».
    «Libera il passaggio dai due lati, dal mio e dal tuo; lascia l'uscio socchiuso dalla tua parte. Quando la Cibot verrà a darti il cambio (stamani è capace di arrivare un'ora prima), te ne andrai a dormire come al solito, e fingerai di essere molto stanco. Cerca di sembrare già quasi addormentato... Appena si sarà seduta nella poltrona, esci dalla tua porta e resta lì a guardare, socchiudendo la tendina di mussola della porta a vetri, e osserva quello che succede... Hai capito?».
    «Ho capito: pensi che la scellerata brucerà il testamento...».
    «Non so cosa farà, ma sono sicuro che dopo non la crederai più un angelo. Ora suonami un po' di musica, rallegrami con qualcuna delle tue improvvisazioni... Ti farà passare un po' di tempo, dimenticherai i cattivi pensieri e riempirai questa mia notte nera con i tuoi poemi...».
    Schmucke si mise al piano. Dopo qualche istante, l'ispirazione musicale, eccitata dal tremito del dolore e dall'irritazione che ciò gli procurava, trasportò il buon tedesco, come sempre gli accadeva, in un'altra dimensione. Trovò temi sublimi sui quali ricamò capricci eseguiti ora con il dolore e la perfezione raffaellesca di Chopin, ora con la foga e la grandiosità dantesca di Listz, le due strutture musicali che più si avvicinano a quella di Paganini. L'esecuzione, giunta a un tale grado di perfezione, pone apparentemente l'esecutore alla stessa altezza del poeta, e sta al compositore come l'attore sta all'autore, un divino traduttore di cose divine. Ma in quella notte in cui Schmucke fece udire a Pons in anticipo i concerti del Paradiso, quella musica deliziosa che fa cadere dalle mani di santa Cecilia i suoi strumenti, fu contemporaneamente Beethoven e Paganini, il creatore e l'interprete! Inesauribile come un usignolo, sublime come il cielo sotto il quale canta, vario, frondoso come la foresta che riempie dei suoi trilli, superò se stesso, e mandò il vecchio musicista che lo ascoltava in quell'estasi dipinta da Raffaello, che si può vedere a Bologna. Quella poesia fu interrotta da un terribile scampanellio. La domestica degli inquilini del primo piano venne a pregare Schmucke, da parte dei suoi padroni, di farla finita con quel sabba. La signora, il signore, la signorina Chapoulot si erano svegliati, non riuscivano a riprendere sonno, e facevano notare che le prove di musica per il teatro potevano essere eseguite durante il giorno, e che in una casa del Marais non si doveva strimpellare di notte... Erano circa le tre del mattino. Alle tre e mezzo, secondo le previsioni di Pons, che sembrava avesse udito la conversazione tra Fraisier e la Cibot, apparve la portiera. Il malato lanciò a Schmucke uno sguardo significativo che voleva dire: «Non avevo indovinato?», e si mise nella posizione di uno che dorma profondamente.
    L'innocenza di Schmucke costituiva una tale certezza per la Cibot, e questo è uno dei grandi mezzi e la ragione del successo di tutte le astuzie dell'infanzia, che non poté neppure sospettare che stesse fingendo quando lo vide avvicinarsi a lei per dirle con aria dolente e insieme gioiosa: «Ha avuto una notte orribile! Un'agitazione diabolica! Per calmarlo sono stato costretto a suonare della musica, e gli inquilini del primo piano sono saliti a farmi smettere!... È vergognoso, perché si trattava della vita del mio amico. Sono così stanco per aver suonato tutta la notte... sono sfinito...».
    «Anche il mio povero Cibot sta molto male: un'altra giornata come quella di ieri, e non ce la farà più... che volete farci! è la volontà di Dio!».
    «Avete un cuore talmente onesto, e un'anima così bella che, se il povero Pons muore, vivremo insieme...», disse l'astuto Schmucke.
    Quando le persone semplici e oneste si mettono a simulare, diventano terribili, proprio come i bambini che tendono le loro trappole con la perfezione dei selvaggi.
    «Bene, andate a dormire, figlio mio!», disse la Cibot. «Avete gli occhi così stanchi... gonfi come pugni... Su! l'unica cosa che potrebbe consolarmi della perdita di Cibot è pensare che potrei finire i miei giorni con un buonuomo come voi. State tranquillo, ci penso io alla signora Chapoulot!... Una bottegaia a riposo non può avere simili esigenze!...».
    Schmucke andò a mettersi nel punto d'osservazione che si era preparato.
    La Cibot aveva lasciato la porta dell'appartamento socchiusa e Fraisier, dopo essere entrato, la chiuse piano piano, quando Schmucke si fu ritirato nella propria camera. L'avvocato era munito di una candela accesa e di un filo d'ottone sottilissimo per dissigillare il testamento. La Cibot poté prendere facilmente il fazzoletto cui era annodata la chiave dello scrittoio e che era sotto il guanciale di Pons, perché il malato aveva deliberatamente fatto in modo che il fazzoletto si trovasse sotto il capezzale, e si prestava alla manovra della Cibot tenendo il viso verso la parete, in una posizione che permetteva di prendere facilmente il fazzoletto. La Cibot andò dritta allo scrittoio, l'aprì cercando di fare il minor rumore possibile, trovò il congegno del nascondiglio e corse, col testamento in mano, nel salotto. Questa circostanza accese incredibilmente la curiosità di Pons. Quanto a Schmucke, tremava dalla testa ai piedi, come se avesse commesso un delitto.
    «Tornate al vostro posto», disse Fraisier prendendo alla Cibot il testamento, «perché, se si sveglia, deve trovarvi accanto a lui».
    Dopo aver dissigillato la busta con un'abilità che provava che non era alla sua prima esperienza, Fraisier rimase immerso in uno stupore profondo leggendo questo atto curioso:

            QUESTO È IL MIO TESTAMENTO

    «Oggi, quindici aprile milleottocentoquarantacinque, nel pieno possesso delle mie facoltà, come questo testamento, redatto in accordo con il signor Trognon, notaio, dimosterà; sentendomi vicino a morire della malattia che mi ha colpito nei primi giorni del febbraio scorso, ho dovuto, volendo disporre dei miei beni, indicare le mie ultime volontà, come segue:

    «Mi hanno sempre colpito gli inconvenienti che danneggiano i capolavori della pittura e che spesso hanno provocato la loro distruzione. Mi ha sempre addolorato che le belle tele fossero condannate a viaggiare di paese in paese, senza mai fermarsi in un solo luogo dove gli ammiratori di questi capolavori possano andare a vederli. Ho sempre pensato che le pagine veramente immortali dei maestri illustri dovrebbero essere di proprietà nazionale, costantemente davanti agli occhi dei popoli, così come la luce, capolavoro di Dio, serve a tutti i suoi figli.
    «Ora, poiché ho passato la mia vita a raccogliere, a scegliere quadri, gloriose opere dei più grandi maestri, autentiche, senza ritocchi né restauri, non ho mai pensato senza dolore che queste tele che hanno fatto la felicità della mia vita potessero essere vendute all'asta, e finire disperse, le une in Inghilterra, le altre in Russia, com'erano prima di essere raccolte da me; ho dunque deciso di sottrarle a queste miserie, e questo vale anche per le magnifiche cornici, opera di abili artigiani.
    «Dunque, per queste ragioni, dono e lascio in legato al re, perché entrino a far parte del Museo del Louvre, i quadri che compongono la mia collezione, a condizione, se il legato è accettato, di assegnare al mio amico Wilhelm Schmucke una rendita vitalizia di duemilaquattrocento franchi.
    «Qualora il re, in qualità di usufruttuario del Museo, non accetti questo legato a tale condizione, i suddetti quadri faranno allora parte del legato che istituisco a favore del mio amico Schmucke, comprendente tutti i beni che possiedo, con l'obbligo di consegnare la Testa di scimmia di Goya a mio cugino, il presidente Camusot; il quadro dei Fiori di Abraham Mignon, con tulipani, al notaio signor Trognon, che nomino esecutore testamentario, e di assegnare duecento franchi di rendita alla signora Cibot, che da dieci anni si occupa della mia casa.
    «Infine, il mio amico Schmucke donerà la Deposizione di Rubens, schizzo del celebre dipinto di Anversa, alla mia parrocchia, perché se ne decori una cappella, in ringraziamento per la bontà del signor vicario Duplanty, grazie al quale mi è data la possibilità di morire da cristiano, da cattolico». Ecc.

    «È la rovina!», pensò Fraisier. «La rovina di tutte le mie speranze! Ah! comincio a credere a tutto quello che mi ha detto la presidentessa sulla malizia di questo vecchio artista!...».
    «Ebbene?», chiese la Cibot.
    «Il vostro padrone è un mostro, lascia tutto al Museo dello Stato. E non si può certo fare causa allo Stato!... Il testamento è inoppugnabile! Siamo derubati, spogliati, assassinati!...».
    «Che mi ha lasciato?».
    «Un vitalizio di duecento franchi...».
    «Bello sforzo!... Che mascalzone!...».
    «Andate a dare un'occhiata», disse Fraisier, «vado a rimettere nella busta il testamento del vostro mascalzone».

LXII • PRIMA CATASTROFE

    Appena la Cibot ebbe voltato le spalle, Fraisier si affrettò a sostituire un foglio di carta bianca al testamento, che si mise in tasca. Poi sigillò di nuovo la busta con una tale abilità che quando la Cibot tornò le mostrò il sigillo, chiedendole se fosse in grado di scorgervi la più piccola traccia dell'operazione. La Cibot prese la busta, la tastò, la sentì piena e sospirò profondamente. Aveva sperato che Fraisier avesse provveduto a bruciare quel documento fatale.
    «E adesso che facciamo, caro signor Fraisier?», chiese.
    «Ah, è un problema vostro. Io non eredito nulla; ma se avessi anche il più piccolo diritto su questa roba», disse indicando la collezione, «saprei bene come fare...».
    «È proprio quello che vi chiedo...», disse con aria ingenua la Cibot.
    «C'è del fuoco nel caminetto...», replicò Fraisier alzandosi per andare via.
    «Di fatto lo sapremmo soltanto voi ed io...», disse la Cibot.
    «Non si può mai provare che un testamento sia esistito!», continuò il leguleio.
    «E voi?».
    «Io?... Se il signor Pons muore senza testamento, vi garantisco centomila franchi».
    «Ma bene!», disse lei. «Ti promettono montagne d'oro e poi, quando si stringe e si tratta di pagare, ti fregano come...».
    Si fermò giusto in tempo, perché stava per parlare a Fraisier di Élie Magus...
    «Io me ne vado!», disse Fraisier. «Nessuno, nel vostro interesse, deve vedermi nell'appartamento; ci troviamo giù, in portineria».
    Chiusa la porta, la Cibot ritornò, con il testamento in mano e con la ferma intenzione di gettarlo nel fuoco; ma, appena rientrò nella stanza e si avvicinò al caminetto,
si sentì afferrare per le braccia!... E si trovò tra Pons e Schmucke, che si erano appoggiati entrambi al tramezzo, ai due lati della porta.
    «Ah!», gridò la Cibot.
    Cadde con la faccia in avanti, in preda a terribili convulsioni, vere o simulate, non si seppe mai la verità. Questo spettacolo fece una tale impressione a Pons che fu preso da una debolezza mortale, e Schmucke lasciò la Cibot a terra per riaccompagnare a letto Pons. I due amici tremavano come chi, nell'esecuzione di un compito ingrato, si sia spinto oltre le proprie forze. Quando Pons fu a letto, e Schmucke ebbe ripreso un po' di forze, udì dei singhiozzi. La Cibot, in ginocchio, si scioglieva in lacrime e tendeva le mani ai due amici supplicandoli con una pantomima assai espressiva.
    «È stata solo curiosità!», disse vedendosi al centro dell'attenzione dei due amici, «mio buon signor Pons! È il difetto delle donne, lo sapete! Ma non ho saputo come fare a leggere il vostro testamento, e lo stavo riportando!...».
    «Andate via!», disse Schmucke, che si era drizzato sui piedi, e sembrava più grande per la grandezza della sua indignazione. «Siete un mostro! Avete cercato di uccidere il mio buon Pons. Ha ragione lui! Siete peggio di un mostro, siete un'anima dannata!».
    La Cibot, vedendo l'orrore dipinto sul volto del candido tedesco, si alzò fiera come Tartufo, lanciò a Schmucke uno sguardo che lo fece tremare, e uscì nascondendo sotto il grembiule un sublime quadretto di Metzu che Élie Magus aveva ammirato molto e di cui aveva detto: «È un diamante!». In portineria la Cibot trovò Fraisier, che la stava aspettando, sperando che avesse bruciato la busta e il foglio bianco con cui aveva sostituito il testamento; fu veramente stupito di vedere la sua cliente spaventata e col viso stravolto.
    «Che è successo?».
    «È successo, caro signor Fraisier, che col pretesto di darmi dei buoni consigli e di guidarmi, mi avete fatto perdere per sempre la mia rendita e la fiducia di quei signori...».
    E si lanciò in una di quelle trombe marine di parole in cui eccelleva.
    «Non parlate a vanvera», esclamò bruscamente Fraisier interrompendo la sua cliente. «I fatti! Veniamo ai fatti, e in fretta».
    «Bene, ecco com'è andata».
    E raccontò la scena, come si era svolta.
    «Non vi ho fatto perdere proprio niente», rispose Fraisier. «Quei due signori dubitavano della vostra onestà, e per questo vi hanno teso quella trappola; vi stavano aspettando, vi spiavano!... Ma voi non mi dite tutto...», aggiunse l'uomo d'affari lanciando uno sguardo di tigre alla portiera.
    «Io! nascondervi qualcosa!... dopo tutto quello che abbiamo fatto insieme!...», disse rabbrividendo.
    «Ma, mia cara, io non ho commesso proprio nulla di riprovevole!», disse Fraisier manifestando l'intenzione di negare la sua visita notturna nell'appartamento di Pons.
    La Cibot si sentì bruciare i capelli in testa, e un freddo glaciale la avvolse.
    «Come!?...», disse inebetita.
    «Ecco il reato!... Potete essere accusata di sottrazione di testamento», rispose Fraisier con freddezza.
    La Cibot fece un gesto di orrore.
    «Rassicuratevi, sono il vostro consigliere», continuò. «Ho soltanto voluto provarvi come sia facile, in un modo o nell'altro, realizzare quello che vi dicevo. Vediamo: cosa avete fatto perché quel tedesco così ingenuo si nascondesse in camera, a vostra insaputa?...».
    «Niente... è a causa della scena dell'altro giorno, quando ho detto al signor Pons che aveva avuto le visioni. Da quel giorno quei due signori sono cambiati completamente nei miei confronti. Dunque siete voi la causa di tutte le mie disgrazie perché, anche se non avevo più alcuna influenza sul signor Pons, almeno ero sicura del tedesco, che già parlava di sposarmi o di tenermi con sé, che poi è la stessa cosa!».
    Questa valutazione era talmente plausibile che Fraisier fu costretto ad accontentarsene.
    «Non temete», riprese. «Vi ho promesso una rendita e manterrò la parola. Fino ad ora tutto, in quest'affare, era ipotetico; ma ora l'affare vale dei biglietti di banca... Avrete un vitalizio di non meno di milleduecento franchi... Ma bisognerà, cara signora Cibot, obbedire ai miei ordini ed eseguirli con attenzione».
    «Sì, mio caro signor Fraisier», disse la portiera con servile docilità, completamente domata.
    «Ebbene, addio», disse Fraisier uscendo dalla portineria e portando con sé quel pericoloso testamento.
    Rientrò in casa sua tutto allegro perché quel testamento era un'arma terribile.
    «Avrò», pensava, «una buona garanzia contro la malafede della presidentessa de Marville. Qualora pensasse di non mantenere la parola, perderebbe la successione.

LXIII • PROPOSTE FALLACI

    La mattina presto, dopo aver aperto la bottega dove lasciò la sorella, Rémonencq andò, secondo un'abitudine presa da qualche giorno, a vedere come stava il suo buon amico Cibot, e trovò la portiera che osservava il quadro di Metzu e si stava chiedendo come potesse valere tanto una tavoletta dipinta.
    «Ah! ah!», disse Rémonencq guardando sopra le spalle della Cibot, «è l'unico quadro che il signor Magus rimpiangeva di non avere; dice che questa cosuccia lo renderebbe completamente felice».
    «Quanto darebbe?», chiese la Cibot.
    «Ma, se mi promettete di sposarmi entro l'anno della vedovanza», rispose Rémonencq, «mi impegno a ottenere ventimila franchi da Élie Magus; se invece non mi sposate, non riuscirete mai a vendere il quadro a più di mille franchi».
    «E perché?».
    «Perché sareste obbligata a firmare una ricevuta come proprietaria, e allora dovreste affrontare un processo con gli eredi. Se sarete mia moglie, lo venderò io a Magus; ad un negoziante non si chiede altro che la registrazione sul suo libro degli acquisti, e io scriverò che me l'ha venduto il signor Schmucke. Anzi, tenete il quadro nella mia bottega... Se vostro marito morisse, potreste avere dei fastidi, e nessuno troverà strano che ci sia un quadro da me... Mi conoscete bene. Comunque, se volete, vi darò una ricevuta...».
    Nella situazione illegale in cui era stata sorpresa, l'avida portiera accettò questa proposta che l'avrebbe legata per sempre al rigattiere.
    «Avete ragione, preparatemi la ricevuta», disse chiudendo il quadro nel comò.
    «Vicina», disse il rigattiere a bassa voce, spingendo la Cibot sulla soglia della porta, «mi sembra chiaro che non riusciremo a salvare il nostro amico Cibot; il dottor Poulain ieri sera lo dava per spacciato, diceva che non avrebbe superato la giornata... È una grande disgrazia! Ma, dopotutto, voi qui eravate fuori posto... Il vostro posto è in un bel negozio di curiosità sul boulevard des Capucines. Sapete bene che ho guadagnato più o meno centomila franchi in dieci anni e che, se un giorno ne avrete altrettanti, provvederò io a farvi mettere insieme una bella fortuna... se diventerete mia moglie... Sarete una borghese... ben servita da mia sorella che penserebbe alla casa, e...».
    Il seduttore fu interrotto dai lamenti strazianti del sartino, che stava entrando in agonia.
    «Andate via», disse la Cibot, «siete un mostro a parlarmi di queste cose mentre il mio povero marito sta morendo in queste condizioni...».
    «Ah! è che vi amo», disse Rémonencq, «tanto da andare in confusione per avervi...».
    «Se mi amate, non dite niente in questo momento», rispose lei.
    E Rémonencq rientrò in casa sua, sicuro che avrebbe sposato la Cibot.
    Verso le dieci, ci fu alla porta di casa una specie di sommossa, perché vennero somministrati i sacramenti a Cibot. Tutti gli amici di Cibot, i portieri, le portiere della rue de Normandie e delle vie adiacenti occupavano la portineria, la soglia del portone e la parte di strada antistante. Nessuno notò il signor Léopold Hannequin che arrivò con uno dei suoi colleghi, né Schwab e Brunner che poterono raggiungere Pons senza essere visti dalla Cibot. La portiera della casa vicina, cui il notaio si rivolse per sapere a quale piano abitasse Pons, gli indicò l'appartamento. Quanto a Brunner, che arrivò con Schwab, era già venuto a vedere il museo Pons; passò senza dire nulla, e indicò la strada al socio... Pons annullò formalmente il testamento della vigilia, e nominò Schmucke erede universale. Terminata la cerimonia, Pons, dopo aver ringraziato Schwab e Brunner, e aver raccomandato vivamente al signor Léopold Hannequin gli interessi di Schmucke, cadde in un tale stato di debolezza, a causa delle energie spese sia nella scena notturna con la Cibot che in quell'ultimo atto della vita sociale, che Schmucke pregò Schwab di andare a chiamare l'abate Duplanty, perché non voleva lasciare il capezzale dell'amico, e Pons chiedeva i sacramenti.
    Seduta ai piedi del letto del marito, la Cibot, che del resto era stata messa alla porta dai due amici, non si occupò affatto del pranzo di Schmucke; ma gli avvenimenti di quella mattina, lo spettacolo dell'agonia rassegnata di Pons, che moriva eroicamente, aveva talmente stretto il cuore di Schmucke da non fargli sentire la fame.
    Tuttavia, verso le due, non avendo visto il vecchio tedesco, la portiera, sia per curiosità sia per interesse, pregò la sorella di Rémonencq di andare a vedere se Schmucke non avesse bisogno di qualcosa. In quello stesso momento l'abate Duplanty, cui il povero musicista aveva reso la sua ultima confessione, gli somministrava l'estrema unzione. Dunque la signorina Rémonencq turbò quella cerimonia con ripetute scampanellate. Ora, siccome Pons aveva fatto giurare a Schmucke che non avrebbe fatto entrare nessuno, dalla paura che aveva di essere derubato, Schmucke lasciò suonare la signorina Rémonencq, che scese molto impaurita e disse alla Cibot che Schmucke non le aveva aperto la porta. Questa circostanza singolare fu notata da Fraisier. Schmucke, che non aveva mai visto morire nessuno, stava per provare tutte le difficoltà in cui ci si trova a Parigi con un morto sulle braccia, soprattutto quando non si ha un aiuto, un rappresentante, un soccorso. Fraisier, che sapeva come i parenti veramente afflitti perdono la testa, e che dalla mattina, dopo la colazione, sostava in portineria continuando a confabulare con il dottor Poulain, ebbe allora l'idea di dirigere ogni movimento di Schmucke.
    Ecco come i due amici, il dottor Poulain e Fraisier, si misero d'accordo per ottenere questo importante risultato.
    Il sacrestano della chiesa di San Francesco, vecchio commerciante di vetri, di nome Cantinet, abitava in rue d'Orléans, nello stesso edificio in cui abitava il dottor Poulain. Ora, la signora Cantinet, una delle noleggiatrici delle sedie, era stata curata gratuitamente dal dottor Poulain, cui era naturalmente riconoscente e al quale aveva raccontato spesso tutte le disgrazie della sua vita. I due schiaccianoci, che ogni domenica e in tutti i giorni di festa partecipavano alle funzioni in San Francesco, avevano buoni rapporti col sacrestano, lo «svizzero», l'addetto all'acqua benedetta, insomma con quella milizia ecclesiastica che a Parigi è chiamata «il basso clero», cui i fedeli finiscono per dare piccole mance. Dunque la signora Cantinet conosceva bene Schmucke, come Schmucke conosceva bene lei. Quella donna era afflitta da due piaghe che permettevano a Fraisier di farne un cieco e involontario strumento. Il giovane Cantinet, appassionato di teatro, aveva rifiutato la carriera ecclesiastica, dove avrebbe potuto diventare «svizzero», debuttando tra le comparse del Cirque-Olympique, e conduceva una vita disordinata che angosciava sua madre, la cui borsa era spesso prosciugata da prestiti forzati. Per di più Cantinet, dedito ai liquori e all'ozio, era stato costretto a lasciare il commercio a causa di questi due vizi. Non pensando affatto a correggersi, lo sciagurato aveva trovato nelle sue funzioni un alimento per le sue due passioni: non faceva nulla, e beveva con i cocchieri dei matrimoni, con gli addetti alle pompe funebri, con gli assistiti della parrocchia, in modo da colorirsi la faccia di un bel rosso cardinalizio, da mezzogiorno in poi.
    La signora Cantinet si vedeva condannata a una vecchiaia di miseria, dopo aver portato al marito, così diceva, una dote di dodicimila franchi. La storia delle sue disgrazie, raccontata mille volte al dottor Poulain, gli suggerì l'idea di servirsi di lei per piazzare in casa di Pons e di Schmucke la Sauvage, come cuoca e donna di fatica. Presentare la Sauvage era impossibile; infatti la diffidenza dei due schiaccianoci era ormai assoluta, e il rifiuto di aprire la porta alla signorina Rémonencq aveva sufficientemente chiarito le cose a Fraisier. Ma sembrò evidente ai due amici che i pii musicisti avrebbero accettato ciecamente una persona che fosse proposta dall'abate Duplanty. Nel loro piano, la signora Cantinet sarebbe stata accompagnata dalla Sauvage; e la domestica di Fraisier, una volta lì, era come se vi si fosse trovato lo stesso Fraisier.

LXIV • DOVE RIAPPARE LA DONNA SELVAGGIA

    Quando l'abate Duplanty giunse sul portone, fu fermato un attimo dalla folla degli amici di Cibot che testimoniavano il loro affetto per il più vecchio e più stimato dei portieri del quartiere.
    Il dottor Poulain salutò l'abate Duplanty, lo prese da parte e gli disse:
    «Sto andando a visitare il povero signor Pons; potrebbe ancora cavarsela; ma bisognerebbe convincerlo a sottoporsi all'estrazione dei calcoli che si sono formati nella cistifellea; si sentono al tatto, determinano un'infiammazione che causerà la morte. Forse siamo ancora in tempo a intervenire. Voi dovreste usare tutta la vostra influenza sul penitente per indurlo ad affrontare l'operazione. Garantisco io per la sua vita, sempre che durante l'intervento non si verifichi nessuno spiacevole incidente.
    «Dopo che avrò riportato in chiesa il santo ciborio ritornerò», disse l'abate Duplanty, «perché il signor Schmucke è in uno stato che richiede dei conforti religiosi».
    «Ho appena saputo che ora è solo», disse il dottor Poulain. «Quel buon tedesco ha avuto stamani un piccolo alterco con la signora Cibot, che da più di dieci anni si occupa della casa di quei signori, e hanno interrotto ogni rapporto, senza dubbio momentaneamente. Ma non può rimanere senza alcun aiuto nelle circostanze in cui verrà a trovarsi. È un'opera di carità occuparsi di lui».
    «Sentite, Cantinet», disse il dottore chiamando il sacrestano, «chiedete a vostra moglie se vuole assistere il signor Pons, e occuparsi della casa del signor Schmucke per qualche giorno, al posto della Cibot... che del resto, anche senza quel litigio che c'è stato, avrebbe sempre avuto bisogno di farsi sostituire».
    «È una donna onesta», disse il dottore all'abate Duplanty.
    «Non si potrebbe scegliere meglio», rispose il buon prete, «è la persona incaricata del noleggio delle sedie».
    Poco dopo, il dottor Poulain seguiva al capezzale del letto il progredire dell'agonia di Pons, che Schmucke supplicava invano di lasciarsi operare. Il vecchio musicista rispondeva alle preghiere disperate del buon tedesco soltanto con dei cenni della testa, negativi, accompagnati da gesti d'insofferenza. Finalmente il moribondo raccolse le forze, lanciò a Schmucke uno sguardo terrificante e gli disse:
    «E lasciami morire in pace!».
    Per poco Schmucke non morì di dolore; ma prese una mano di Pons, la baciò con dolcezza e la tenne tra le sue mani cercando di infondergli ancora una volta la propria vita. Fu allora che il dottor Poulain sentì suonare e andò ad aprire all'abate Duplanty.
    «Il nostro povero malato», disse Poulain, «comincia a dibattersi nella stretta della morte. Spirerà in poche ore. Manderete certamente un prete a vegliarlo questa notte. Ma è il momento che la signora Cantinet e una donna di fatica aiutino il signor Schmucke; non è in grado di pensare a niente, sono preoccupato per la sua ragione, e qui ci sono valori che devono essere custoditi da persone sicuramente oneste.
    L'abate Duplanty, bravo e degno prete, privo di diffidenza e malizia, ritenne giuste le considerazioni del dottore Poulain; del resto era convinto dell'onestà del medico di quartiere; dunque fece segno a Schmucke di avvicinarsi, restando sulla soglia della camera mortuaria. Schmucke non riuscì a lasciare la mano di Pons, che si contorceva e stringeva la sua come se stesse cadendo in un precipizio e volesse aggrapparsi a qualcosa per non cadervi. Ma, come è noto, i morenti sono in preda a un'allucinazione che li spinge a impossessarsi di tutto, come gente che abbia fretta di portar via, in un incendio, gli oggetti più preziosi; e Pons lasciò Schmucke per afferrare le sue coperte e stringersele intorno al corpo con un orribile e significativo gesto di avarizia e di fretta.
    «Come farete, solo, con il vostro amico morto?», disse il buon prete al tedesco, che si era avvicinato per ascoltare le sue parole. «Siete senza la Cibot...».
    «È un mostro, ha ucciso Pons!», disse.
    «Ma vi serve qualcuno», proseguì il dottor Poulain, «perché stanotte bisogna vegliare il corpo».
    «Lo veglierò io, pregando Dio!», rispose l'innocente tedesco.
    «Ma bisogna mangiare!... Chi cucinerà?», chiese il dottore.
    «Il dolore mi toglie l'appetito!...», rispose ingenuamente Schmucke.
    «Ma», disse Poulain, «bisogna andare a denunciare il decesso con dei testimoni, spogliare la salma, cucirla in un lenzuolo, ordinare il carro funebre, dare da mangiare alla persona e al prete che veglieranno il morto: farete tutto questo da solo?... Non si muore come cani nella capitale del mondo civile!».
    Schmucke spalancò gli occhi terrorizzati e fu colto da un breve attacco di follia.
    «Ma Pons non morirà!... io lo salverò!...».
    «Non reggerete a lungo senza dormire un po'; e allora chi vi sostituirà? Perché bisogna occuparsi del signor Pons, dargli da bere, preparare le medicine...».
    «Ah! è vero...», disse il tedesco.
    «Ebbene», riprese a dire l'abate Duplanty, «penso di mandarvi la signora Cantinet, una brava e onesta donna...».
    I dettagli dei suoi doveri sociali verso l'amico morto inebetirono talmente Schmucke che avrebbe voluto morire insieme con Pons.
    «È un bambino!», disse il dottor Poulain all'abate Duplanty.
    «Un bambino!...», ripeté meccanicamente Schmucke.
    «Su!», disse il vicario, «vado a parlare con la signora Cantinet e ve la mando».
    «Non disturbatevi», disse il dottore, «abita vicino a me, e io torno a casa».
    La morte è come un assassino invisibile contro il quale il morente lotta; nell'agonia riceve gli ultimi colpi, cerca di restituirli, e si dibatte. Pons era giunto a questa scena suprema, e gemeva e gridava. Schmucke, l'abate Duplanty e Poulain corsero al letto del moribondo. Improvvisamente Pons, colpito nella sua vitalità da quell'ultima ferita che spezza i legami tra il corpo e l'anima, ritrovò per qualche istante la perfetta quiete che segue l'agonia, tornò in sé, con la serenità della morte sul viso, e guardò con un'espressione quasi sorridente quanti lo circondavano.
    «Ah! dottore, quanto ho sofferto... ma avete ragione, ora sto meglio... Grazie, mio buon abate; mi stavo chiedendo dov'era Schmucke...».
    «Schmucke non mangia da ieri sera, e sono le quattro! Non avete più nessuno accanto a voi, e sarebbe pericoloso richiamare la Cibot...».
    «È capace di tutto», disse Pons manifestando il suo orrore al solo udire il nome della Cibot. «È vero, Schmucke ha bisogno di qualcuno veramente onesto».
    «L'abate Duplanty ed io», disse allora Poulain, «abbiamo pensato a voi due...».
    «Ah!, grazie», disse Pons, «io non ci pensavo...».
    «E l'abate vi propone la signora Cantinet...».
    «Ah! la noleggiatrice di sedie!», esclamò Pons. «Sì, è un'ottima persona».
    «Non può soffrire la Cibot», proseguì il dottore, «e avrà cura del signor Schmucke...».
    «Mandatemela, mio buon signor Duplanty... lei e suo marito... sarò tranquillo. Con loro, qui non ruberanno nulla...».
    Schmucke aveva ripreso la mano di Pons e la teneva felice, credendo che la salute fosse ritornata.
    «Andiamocene, signor abate», disse il dottore. «Manderò subito la signora Cantinet. Me ne intendo; dubito che troverà il signor Pons vivo».

LXV • LA MORTE COME È

    Mentre l'abate Duplanty convinceva il moribondo a prendere come infermiera la signora Cantinet, Fraisier aveva chiamato a casa sua la noleggiatrice di sedie, e la stava sottoponendo alla sua conversazione corruttrice, alle astuzie della sua forza leguleia, cui era difficile resistere. Così la signora Cantinet, donna magra e gialla, con grandi denti, labbra fredde, inebetita dalle disgrazie, come molte donne del popolo, e giunta al punto di trovare la felicità nei più modesti profitti quotidiani, ben presto acconsentì a prendere con sé la signora Sauvage come donna di servizio. La domestica di Fraisier aveva già ricevuto le sue istruzioni. Aveva promesso di tramare una tela di fil di ferro intorno ai due musicisti, e di vegliare su di loro come il ragno sorveglia una mosca catturata. Come compenso per le sue fatiche la Sauvage avrebbe ricevuto uno spaccio di tabacchi. In questo modo Fraisier si liberava della sua sedicente nutrice e piazzava alle costole della signora Cantinet una spia e un gendarme nella persona della Sauvage. Poiché facevano parte dell'appartamento dei due amici una camera per la servitù e una piccola cucina, la Sauvage poteva dormire su una branda e far da mangiare a Schmucke. Quando le due donne si presentarono, accompagnate dal dottor Poulain, Pons aveva appena reso l'ultimo respiro, senza che Schmucke se ne fosse accorto. Il tedesco teneva ancora tra le sue mani la mano dell'amico, il cui calore se ne andava poco a poco; fece segno alla signora Cantinet di non parlare, ma l'aspetto soldatesco della signora Sauvage lo sorprese talmente che si lasciò sfuggire un moto di paura; quella virago c'era abituata.
    «Della signora», disse la signora Cantinet, «risponde il signor Duplanty; è stata cuoca di un vescovo, è l'onestà in persona, si occuperà della cucina».
    «Ah! potete parlare a voce alta!», esclamò la possente e asmatica Sauvage. «Il povero signore è morto!... è appena trapassato».
    Schmucke gettò un grido straziante, sentì che la mano gelida di Pons si stava irrigidendo, e rimase con gli occhi sbarrati, fissi su quelli di Pons, la cui espressione lo avrebbe fatto impazzire se non fosse stata presente la signora Sauvage che, certamente abituata a scene di quel genere, si diresse verso il letto con uno specchio in mano, lo avvicinò alle labbra del morto e, poiché nessun respiro aveva appannato lo specchio, staccò con decisione la mano di Schmucke dalla mano del morto.
    «Lasciatela, signore... non potreste più toglierla... voi non sapete come s'induriscano le ossa! I morti si gelano in fretta. Se non si prepara un morto quando è ancora tiepido, poi bisogna spezzargli le membra...».
    Fu dunque quella donna terribile a chiudere gli occhi al povero musicista spirato; poi, con la disinvoltura delle infermiere, mestiere che aveva esercitato per dieci anni, spogliò Pons, lo distese, dispose le braccia lungo i fianchi, e lo coprì con la coperta fin sopra il naso, proprio come un commesso quando fa un pacco in un negozio.
    «Serve un lenzuolo per seppellirlo; dove se ne può trovare uno?...», chiese a Schmucke, terrorizzato da questo spettacolo.
    Dopo essere stato testimone della profonda spiritualità di quella creatura destinata a un grande avvenire in cielo, quella specie d'imballaggio in cui il suo amico era trattato come una cosa provocò a Schmucke un dolore tale da fargli perdere la ragione.
    «Fate come volete!...», rispose meccanicamente Schmucke.
    Quell'innocente creatura vedeva morire un uomo per la prima volta, e quell'uomo era Pons, il suo unico amico, il solo essere che lo avesse capito e amato!...
    «Vado a chiedere alla signora Cibot dove sono i lenzuoli», disse la Sauvage.
    «Serve una branda su cui far dormire questa donna», disse la signora Cantinet a Schmucke.
    Schmucke fece un cenno con la testa e si sciolse in lacrime; la signora Cantinet lasciò in pace lo sventurato; ma, dopo un'ora, tornò e gli disse:
    «Signore, avete dei soldi per andare a comprare quello che serve?».
    Schmucke rivolse alla signora Cantinet uno sguardo tale da disarmare gli odi più feroci; indicò il volto bianco, secco e aguzzo del morto, come la ragione che spiegava tutto.
    «Prendete tutto, e lasciatemi piangere in pace!», disse inginocchiandosi.
    La signora Sauvage era andata ad annunciare la morte di Pons a Fraisier, che si precipitò in calesse dalla presidentessa a chiederle, per il giorno dopo, la procura che gli dava il diritto di rappresentare gli eredi.
    «Signore», disse a Schmucke la signora Cantinet, «un'ora dopo la sua ultima domanda, sono andata dalla signora Cibot che è pratica della vostra casa, perché mi dicesse dove stanno le cose. Ma siccome ha appena perduto il signor Cibot, mi ha detto un sacco di insolenze... Quindi ascoltatemi, signore!...».
    Schmucke guardò quella donna che non sospettava neppure la propria crudeltà; perché la gente del popolo è abituata a subire passivamente i più grandi dolori morali.
    «Signore, serve la tela per un lenzuolo, servono i soldi per comprare una branda per far dormire questa signora; ne servono per comprare una batteria da cucina, piatti, bicchieri, perché sta per arrivare un prete per la veglia al morto, e questa donna non trova proprio niente in cucina».
    «Signore», ripeté la Sauvage, «mi serve la legna, e il carbone, per preparare il pranzo, e qui non vedo niente! Del resto non c'è da stupirsi, perché era la Cibot a rifornirvi di tutto...».
    «Mia cara signora», disse la signora Cantinet indicando Schmucke che giaceva ai piedi del morto in uno stato di totale insensibilità, «voi non volete credermi: è incapace di rispondere».
    «Allora, cara piccina», disse la Sauvage «vi faccio vedere come si fa in questi casi».
    La Sauvage si guardò intorno nella stanza, con lo sguardo con cui i ladri cercano di indovinare i nascondigli dove potrebbe trovarsi il denaro. Andò dritta al comò di Pons, aprì il primo cassetto, vide il sacchetto in cui Schmucke aveva messo i denari provenienti dalla vendita dei quadri, e lo mostrò a Schmucke che fece meccanicamente un cenno di assenso.
    «Ecco qua un po' di soldi, piccina mia!», disse la Sauvage alla signora Cantinet. «Li conto e prendo quello che serve per comprare del vino, dei viveri, candele, insomma tutto, perché questi non hanno niente... Cercatemi nel comò un lenzuolo per avvolgervi il corpo. Me l'avevano detto che questo signore è un sempliciotto; ma non so che cosa sia, è peggio. È come un neonato, bisognerà imboccarlo...».
    Schmucke guardava le due donne e quello che stavano facendo, proprio come le avrebbe guardate un pazzo. Spezzato dal dolore, assorto in uno stato quasi catalettico, non smetteva di contemplare il volto affascinante di Pons, i cui lineamenti si stavano affilando per effetto del riposo assoluto della morte. Sperava di morire; tutto gli era indifferente. Se la camera fosse stata divorata da un incendio, non si sarebbe mosso.
    «Ci sono milleduecentocinquantasei franchi...», gli disse la Sauvage.
    Schmucke alzò le spalle. Quando la Sauvage iniziò a preparare il feretro, a misurare la tela sul corpo per tagliare il lenzuolo e cucirlo, ci fu una lotta terribile tra lei e il povero tedesco. Schmucke sembrava un cane che morde tutti coloro che vogliono toccare il cadavere del suo padrone. La Sauvage, spazientita, afferrò il tedesco, lo mise in una poltrona e ve lo trattenne con una forza erculea.
    «Su, piccina, cucite il morto nel suo lenzuolo», disse alla signora Cantinet.
    Conclusa l'operazione, la Sauvage rimise Schmucke al suo posto, ai piedi del letto, e gli disse:
    «Lo capite, no? bisognava pure acconciare questo pover'uomo da morto».
    Schmucke si mise a piangere; le due donne lo lasciarono e andarono a prendere possesso della cucina, dove portarono rapidamente e da sole tutte le cose necessarie alla vita.

LXVI • SENSIBILITÀ DI UN'INFERMIERA

    Dopo aver fatto un primo conto di trecentosessanta franchi, la Sauvage si mise a preparare una cena per quattro persone, e che cena! C'era il fagiano dei calzolai, cioè un'oca grassa come piatto forte, una frittata con la marmellata, un'insalata di legumi e il rituale pot-au-feu con tutti i suoi ingredienti in quantità talmente esagerate che il brodo sembrava gelatina di carne. Alle nove di sera, il prete inviato dal vicario per vegliare Pons giunse insieme con Cantinet, che portò quattro ceri e quattro candelieri di chiesa. Il prete trovò Schmucke disteso sul letto, accanto al suo amico che teneva strettamente abbracciato. Ci volle tutta l'autorità della religione per ottenere che Schmucke si separasse dal cadavere. Il tedesco si mise in ginocchio, e il prete si sedette comodamente in poltrona. Mentre il prete leggeva le sue preghiere e Schmucke, inginocchiato davanti al corpo di Pons, pregava Dio di riunirlo con un miracolo a Pons, per essere sepolto nella stessa fossa dell'amico, la signora Sauvage era andata al Temple a comprare una branda e tutti gli annessi per la signora Cantinet; la borsa con i milleduecentocinquantasei franchi era ormai liberamente saccheggiata. Alle undici di sera la signora Cantinet venne a vedere se Schmucke volesse mangiare un boccone. Il tedesco fece segno che lo lasciassero in pace.
    «La cena è pronta, signor Pastelot», disse allora la noleggiatrice di sedie al prete.
     Rimasto solo, Schmucke sorrise come un folle che si sente finalmente libero di soddisfare una voglia simile a quella delle donne incinte. Si gettò su Pons e ancora una volta lo tenne strettamente abbracciato. A mezzanotte il prete tornò e Schmucke, rimproverato, lasciò Pons e si rimise a pregare. All'alba il prete se ne andò. Alle sette del mattino il dottor Poulain venne a trovare Schmucke, e tentò affettuosamente di costringerlo a mangiare; ma il tedesco rifiutò.
    «Se non mangiate ora, avrete fame al ritorno», gli disse il dottore, «perché dovete andare in Comune con un testimone a dichiarare il decesso del signor Pons e far stendere l'atto...».
    «Io!», disse il tedesco con sgomento.
    «E chi altrimenti?... Non ne potete fare a meno, poiché siete l'unica persona che lo ha visto morire...».
    «Non sto in piedi...», rispose Schmucke implorando l'assistenza del dottor Poulain.
    «Chiamate una vettura», rispose cortesemente l'ipocrita dottore. «Ho già constatato il decesso. Chiedete a qualcuno della casa di accompagnarvi. Queste due donne sorveglieranno l'appartamento durante la vostra assenza».
    Non è facile immaginare cosa siano questi morsi della legge per un dolore vero. C'è di che odiare la civiltà, e preferire i costumi dei selvaggi. Alle nove, la signora Sauvage fece scendere Schmucke sorreggendolo; salito in vettura, fu costretto a pregare il signor Rémonencq di andare con lui in Comune a dichiarare il decesso di Pons. In ogni circostanza, a Parigi, si manifesta l'ineguaglianza delle condizioni sociali, in questo paese ebbro di eguaglianza. Quest'immutabile forza delle cose appare perfino nelle conseguenze della morte. Nelle famiglie ricche, un parente, un amico, pratici d'affari, risparmiano questi orrendi dettagli a chi è in lacrime; ma in questo caso, come nella ripartizione delle tasse, il popolo, i proletari indifesi subiscono tutto il peso del dolore.
    «Ah! quanto avete ragione a rimpiangerlo», disse Rémonencq ad un lamento del povero martire, «perché era proprio un brav'uomo, onestissimo, che lascia una bella collezione; eppure, signore, siccome siete straniero vi troverete in grandi difficoltà, perché tutti dicono che siete l'unico erede del signor Pons».
    Schmucke non ascoltava; era immerso in un dolore da impazzire. Come il corpo, l'anima ha il suo tetano.
    «E fareste bene a farvi rappresentare da un consulente, da un uomo d'affari».
    «Un uomo d'affari!», ripeté Schmucke meccanicamente.
    «Vedrete che avrete bisogno di farvi rappresentare. Al vostro posto mi servirei di un uomo che abbia esperienza, conosciuto nel quartiere, un uomo di fiducia... Io, per tutti i miei piccoli affari, mi servo di Tabareau... l'ufficiale giudiziario... Dando la vostra procura al suo primo impiegato, non avrete alcun fastidio.
    Questo suggerimento, insinuato da Fraisier, concordato tra Rémonencq e la Cibot, restò nella memoria di Schmucke; infatti, nei momenti in cui il dolore paralizza
per così dire l'anima, arrestandone le funzioni, la memoria riceve tutte le impronte che il caso vi imprime. Schmucke ascoltava Rémonencq guardandolo con un occhio talmente spento che il rigattiere non gli disse più nulla.
    «Se rimane così rimbecillito», pensò Rémonencq, «potrei comprare da lui tutte le sue carabattole, se diventano sue, per centomila franchi... Signore, eccoci arrivati al Comune».
    Rémonencq dovette aiutare Schmucke a scendere dalla vettura, sostenendolo per farlo arrivare fino all'ufficio degli atti di stato civile, dove Schmucke s'imbatté in un matrimonio. Qui dovette attendere il suo turno perché, per uno di quei casi assai frequenti a Parigi, l'impiegato doveva stendere cinque o sei atti di morte. Nell'attesa, il povero tedesco doveva essere in preda a una passione eguale a quella di Gesù.
    «Il signore è il signor Schmucke?», chiese un uomo vestito di nero rivolgendosi al tedesco stupefatto di sentirsi chiamare per nome.
    Schmucke guardò quell'uomo con la stessa aria inebetita con cui aveva risposto a Rémonencq.
    «Ma», disse il rigattiere allo sconosciuto, «cosa volete? Lasciate in pace quest'uomo, non vedete che sta soffrendo?».
    «Il signore ha appena perduto il suo amico, e certamente vorrà onorarne degnamente la memoria essendone l'erede», disse lo sconosciuto. «Il signore non lesinerà di certo: acquisterà un terreno in perpetuo per la sua sepoltura. Il signor Pons amava talmente le arti! Sarebbe un vero peccato non mettere sulla sua tomba la Musica, la Pittura e la Scultura... tre belle figure in piedi, piangenti...».
    Rémonencq fece un gesto da alverniate per allontanare quell'uomo, che rispose a sua volta con altro gesto, diciamo commerciale, che significava: «Lasciatemi fare i miei affari!», e che il rigattiere capì bene.
    «Sono l'incaricato della ditta Sonnet e C., imprenditori di monumenti funebri», continuò l'agente, che Walter Scott avrebbe soprannominato il giovane delle tombe. Se il signore volesse incaricarci dell'ordinazione, gli eviteremmo la noia di andare in Comune per l'acquisto del terreno necessario alla sepoltura dell'amico che le arti hanno perduto...».
    Rémonencq scosse la testa in segno di assenso e toccò il gomito di Schmucke.
    «Ogni giorno ci occupiamo di queste formalità per conto delle famiglie», continuava a dire l'agente, incoraggiato da questo gesto dell'alverniate. «Nei primi momenti del dolore è molto difficile per un erede occuparsi di persona di tali dettagli, e noi rendiamo abitualmente questi piccoli servizi ai nostri clienti. I monumenti funebri di nostra costruzione, signore, costano un tanto al metro, a seconda che siano in pietra da taglio o in marmo... Pensiamo noi a scavare le fosse per le tombe di famiglia... Ci occupiamo noi di tutto, al prezzo più conveniente. La nostra ditta ha eseguito il magnifico monumento della bella Esther Gobseck e di Lucien de Rubempré, uno dei più grandiosi del Père-Lachaise. Abbiamo gli operai migliori, e consiglio il signore di diffidare dei piccoli imprenditori... che fanno della robaccia», aggiunse vedendo arrivare un altro tipo vestito di nero che veniva a parlare di un'altra ditta di marmi e sculture.

LXVII • DOVE SI VEDE CHE SOLTANTO I MORTI NON VENGONO TORMENTATI

    Si è detto spesso che la morte è la fine di un viaggio, ma non si sa quanto sia vera a Parigi tale similitudine. Un morto, soprattutto un morto importante, è accolto sul tetro lido come un viaggiatore che, appena sbarcato, viene assediato e infastidito dalle raccomandazioni degli albergatori. Nessuno, ad eccezione di qualche filosofo o di qualche famiglia che, sicura di vivere a lungo, si fa costruire una tomba come se si trattasse di un palazzo, nessuno pensa alla morte e alle sue conseguenze sociali. La morte arriva sempre troppo presto; e del resto un sentimento condiviso impedisce agli eredi di ritenerla possibile. Così quasi tutti coloro che perdono il padre, la madre, la moglie o i figli sono immediatamente assaliti da questi procacciatori d'affari, che approfittano del turbamento provocato dal dolore per arraffare un'ordinazione. Un tempo gli imprenditori di monumenti funebri, riuniti nei dintorni del celebre cimitero del Père-Lachaise, in quella che si potrebbe chiamare la via delle tombe, assalivano gli eredi intorno alla tomba o all'uscita del cimitero; ma, insensibilmente, la concorrenza, il genio della speculazione, hanno fatto guadagnare loro terreno, e sono scesi nella città, fino alle porte degli uffici comunali. Oggi gli agenti entrano addirittura nell'obitorio, con un progetto di tomba in mano.
    «Sono in trattativa col signore», disse l'agente della ditta Sonet a quello che si stava presentando.
    «Decesso Pons!... Dove sono i testimoni?...», disse l'impiegato dell'ufficio.
    «Venite, signore», disse l'agente rivolgendosi a Rémonencq.
    Rémonencq lo pregò di sollevare Schmucke, che era abbandonato su una panca come una massa inerte; lo portarono alla balaustrata dietro la quale l'impiegato addetto alla stesura degli atti di morte si difende dai pubblici dolori. Rémonencq, la provvidenza di Schmucke, fu aiutato dal dottor Poulain che fornì i dati necessari sull'età e il luogo di nascita di Pons. Il tedesco sapeva una cosa sola: che Pons era suo amico. Firmato l'atto, Rémonencq e il dottore, seguiti dall'agente delle pompe funebri, misero il povero tedesco in vettura, nella quale s'infilò il tenace agente, che voleva concludere con l'ordinazione. La Sauvage, in osservazione sul portone di casa, aiutò a salire Schmucke quasi svenuto tra le sue braccia, aiutata da Rémonencq e dall'agente della ditta Sonet.
    «Sta per sentirsi male!...», esclamò l'agente, che voleva concludere l'affare che riteneva avviato.
    «Lo credo bene!», rispose la signora Sauvage, «piange da ventiquattro ore e non ha voluto mangiare nulla. Niente scava lo stomaco come il dolore».
    «Ma, caro cliente», gli disse l'agente della ditta Sonet, «prendete almeno un brodo. Avete tante cose da fare: dovete andare in Comune, acquistare il terreno necessario per il monumento che volete erigere alla memoria di quell'amico delle arti, e che deve testimoniare la vostra riconoscenza».
    «Ma insomma un po' di buon senso!», disse la signora Cantinet a Schmucke, arrivando con un brodo e del pane.
    «Pensate, mio caro signore, se siete così debole», disse Rémonencq, «a incaricare qualcuno, perché ne avete di cose da fare: bisogna ordinare il trasporto! Non vorrete che il vostro amico sia sepolto come un povero».
    «Su, su, caro signore!», disse la Sauvage cogliendo un momento in cui Schmucke aveva la testa abbandonata sulla spalliera della poltrona.
    E infilò nella bocca di Schmucke una cucchiaiata di minestra, e gli dette da mangiare quasi per forza come a un bambino.
    «Ora, signore, se foste saggio, dal momento che volete lasciarvi andare tranquillamente al vostro dolore, incarichereste qualcuno per le cose che ci sono da fare...».
    «Poiché il signore», disse l'agente delle pompe funebri, «è intenzionato a erigere un magnifico monumento alla memoria del suo amico, ha solo da incaricare me, e io mi occuperò di tutto...».
    «Che cosa? che cosa?...», disse la Sauvage. «Il signore vi ha incaricato di qualcosa? E chi siete?».
    «Uno degli agenti della ditta Sonet, cara signora, i più forti imprenditori di monumenti funebri...», disse tirando fuori un biglietto da visita e presentandolo alla possente Sauvage.
    «Va bene, va bene... verremo da voi quando lo riterremo opportuno; ma non bisogna abusare dello stato in cui si trova il signore. Vedete bene che non ragiona...».
    «Se fate in modo di farci avere l'ordinazione», sussurrò l'agente della ditta Sonet all'orecchio della signora Sauvage spingendola sul pianerottolo, «sono autorizzato ad offrirvi quaranta franchi...».
    «Bene, datemi il vostro indirizzo», disse la signora Sauvage diventando più umana.
    Schmucke, vedendo che era rimasto solo e sentendosi meglio dopo aver mangiato un po' di minestra, tornò subito nella camera di Pons, e si mise a pregare. Si era perduto negli abissi del suo dolore, quando un giovane vestito di nero lo tirò fuori dal suo profondo annientamento, dicendogli per l'undicesima volta un «Signore!» che il povero martire udì in quanto contemporaneamente si sentì scosso per la manica della giacca.
    «Che c'è ancora?...».
    «Signore, dobbiamo al dottor Gannal una scoperta sublime; non contestiamo la sua gloria, perché ha rinnovato i miracoli dell'Egitto; ma ci sono stati dei perfezionamenti, e abbiamo ottenuto dei risultati sorprendenti. Così, se volete rivedere il vostro amico, tale quale era da vivo...».
    «Rivederlo!...», esclamò Schmucke; «e mi parlerà?».
    «Non totalmente!... Non gli mancherà che la parola», continuò il procacciatore di imbalsamazioni, «ma rimarrà in eterno come l'imbalsamazione ve lo mostrerà. L'operazione richiede pochi minuti. Bastano un'incisione nella carotide e un'iniezione; ma il tempo stringe... Se aspettate ancora un quarto d'ora, non potrete più avere la dolce soddisfazione di aver conservato il corpo...».
    «Andate al diavolo!... Pons è un'anima!... e la sua anima è in cielo».
    «Quell'uomo non ha il senso della riconoscenza», disse il giovane agente di uno dei rivali del celebre Gannal, uscendo dal portone; «rifiuta di far imbalsamare il suo amico!».
    «Che volete, signore», disse la Cibot, che aveva appena fatto imbalsamare il suo caro, «è uno che ha ereditato, è un legatario. Concluso l'affare, per loro il morto non conta più niente».

LXVIII • DOVE S'IMPARERÀ COME SI MUORE A PARIGI

    Un'ora dopo, Schmucke vide entrare nella stanza la signora Sauvage, seguita da un uomo vestito di nero e che sembrava un operaio.
    «Signore», disse la Sauvage, «Cantinet ha avuto la cortesia di inviarvi questo signore, che è il fornitore di bare della parrocchia».
    Il fornitore di bare s'inchinò con un'aria di commiserazione e condoglianza, ma da uomo sicuro del fatto suo e che sa di essere indispensabile; e guardò il morto da intenditore...».
    «Come la desidera il signore?... di abete, di quercia semplice, o di quercia foderata di piombo? La quercia foderata di piombo è quanto vi è di meglio. Il corpo è di misura normale...».
    Tastò i piedi per misurare il corpo.
    «Un metro e settanta!», aggiunse. «Il signore pensa certamente di ordinare il funerale in chiesa...».
    Schmucke lanciò a quell'uomo sguardi simili a quelli che hanno i pazzi prima di compiere un gesto inconsulto.
    «Signore», disse la Sauvage, «dovreste incaricare qualcuno che si occupi di tutte queste faccende».
    «Sì», disse finalmente la vittima.
    «Volete che vada a chiamarvi il signor Tabareau, visto che avete tante cose da fare? Vedete, il signor Tabareau è la persona più onesta del quartiere».
    «Sì, il signor Tabareau! Me ne hanno parlato...», rispose Schmucke, ormai vinto.
    «Bene, così il signore potrà stare tranquillo e sarà padrone di abbandonarsi al suo dolore, dopo aver parlato col suo fiduciario».
    Intorno alle due, il primo commesso del signor Tabareau, un giovane avviato alla carriera di ufficiale giudiziario, si presentò con aspetto dimesso. La giovinezza ha dei privilegi sorprendenti: non incute timore. Quel giovane, di nome Villemot, si sedé accanto a Schmucke e attese il momento di parlare. Questo riserbo fu molto apprezzato da Schmucke.
    «Signore», gli disse, «io sono il primo commesso del signor Tabareau, che mi ha incaricato di curare i vostri interessi, e di occuparmi di tutti i dettagli della sepoltura del vostro amico... Siete d'accordo?».
    «Voi non mi salverete la vita, perché non ho molto da vivere... ma almeno mi lascerete in pace?».
    «Oh! non avrete il minimo disturbo», rispose Villemot.
    «Ebbene, cosa bisogna fare?».
    «Firmate questa carta in cui nominate il signor Tabareau vostro fiduciario per tutte le pratiche della successione».
    «Bene, date qui!», disse il tedesco, che voleva firmare subito.
    «No, devo leggervi l'atto».
    «Leggete!».
    Schmucke non prestò la minima attenzione alla lettura di quella procura generale, e la firmò. Il giovane prese da Schmucke le consegne per il trasporto, per l'acquisto del terreno, dove il tedesco volle avere anche la propria tomba, e per la funzione in chiesa, dicendogli che non avrebbe avuto alcun disturbo, e nessuna richiesta di denaro.
    «Per avere un po' di pace, darei tutto quello che possiedo», disse lo sventurato, inginocchiandosi ancora una volta davanti al corpo dell'amico.
    Era il trionfo di Fraisier: il legatario non avrebbe potuto fare un solo movimento fuori dal cerchio in cui lo teneva rinchiuso per mezzo della Sauvage e di Villemot.
    Non c'è dolore che il sonno non riesca a vincere. Così, verso la fine della giornata, la Sauvage trovò Schmucke disteso ai piedi del letto dove giaceva il corpo di Pons, addormentato; lo alzò da lì e lo sistemò maternamente nel suo letto, dove il tedesco dormì fino al giorno dopo. Quando Schmucke si svegliò, cioè quando fu restituito a tutti i suoi dolori dopo quella tregua, il corpo di Pons era esposto nell'androne, la camera ardente cui hanno diritto i funerali di terza classe; quindi cercò invano l'amico nell'appartamento che gli sembrò immenso e dove non trovò altro che orribili ricordi. La Sauvage, che accudiva Schmucke con l'autorità di una balia sul suo marmocchio, lo costrinse a mangiare prima di andare in chiesa. Mentre quella povera vittima si sforzava di farlo, la Sauvage gli fece notare, con lamentazioni degne di Geremia, che non possedeva un abito nero. Il guardaroba di Schmucke, cui provvedeva Cibot, prima della malattia di Pons era ridotto, come il cibo, alla sua più semplice espressione: due paia di pantaloni e due redingotes!...
    «Pensate di andare vestito così al funerale del vostro amico? Sarebbe una mostruosità da farci coprire di vergogna in tutto il quartiere!...».
    «E come volete che ci vada?».
    «Ma in lutto!...».
    «In lutto!...».
    «Le convenienze...».
    «Le convenienze!... me ne infischio di tutte quelle scemenze!», disse il pover'uomo che ormai era giunto all'estremo grado di esasperazione cui il dolore possa portare un'anima infantile.
    «Ma è un mostro d'ingratitudine!», disse la Sauvage rivolgendosi a un signore che apparve all'improvviso nell'appartamento, e che fece fremere Schmucke.
    Quel funzionario, fastosamente vestito di panno nero, pantaloni neri, calze di seta nera, polsini bianchi, decorato di una catena d'argento con appesa una medaglia, cravatta di mussola bianca elegantissima, guanti bianchi; questo personaggio ufficiale, coniato nello stampo dei pubblici dolori, teneva in mano una bacchetta d'ebano, insegna delle sue funzioni, e sotto il braccio sinistro un tricorno con coccarda tricolore.
    «Sono il cerimoniere», disse quel personaggio con voce gentile.
    Abituato per le sue funzioni a dirigere ogni giorno dei funerali, ad attraversare famiglie immerse in uno stesso dolore, reale o finto, quell'uomo, come tutti i suoi colleghi, parlava a bassa voce e amabilmente; era decoroso, educato, professionalmente cortese, come una statua che rappresenti il genio della morte. La dichiarazione del suo ruolo provocò in Schmucke un tremito nervoso, come se avesse visto il carnefice.
    «Il signore è il figlio, il fratello, il padre del defunto?...», chiese il cerimoniere.
    «Sono tutto questo, e anche di più... sono il suo amico!...», disse Schmucke in un torrente di lacrime.
    «Siete l'erede?».
    «L'erede?...», ripeté Schmucke. «Tutto mi è indifferente».
    E Schmucke riprese la sua espressione di tetro dolore.
    «Dove sono i parenti, gli amici?», chiese il cerimoniere.
    «Eccoli tutti!...», esclamò Schmucke indicando i quadri e le curiosità. «Quelli non hanno mai fatto soffrire il mio buon Pons!... Ecco tutto quello che amava, oltre me!».
    «È pazzo, signore», disse la Sauvage al cerimoniere, «è inutile ascoltarlo».
    Schmucke si era seduto e aveva ripreso il suo contegno da idiota, asciugandosi meccanicamente le lacrime. In quel momento apparve Villemot, il primo commesso di Tabareau; e il cerimoniere, riconoscendo colui che era andato a ordinare il funerale, gli disse:
    «Bene, signore, bisogna andare... il carro è arrivato; ma raramente ho visto funerali come questo. Dove sono i parenti, gli amici?...».
    «Non abbiamo avuto molto tempo», rispose il signor Villemot, «il signore è precipitato in un tale dolore che non pensava a niente; c'è un solo parente...».
    Il cerimoniere rivolse a Schmucke uno sguardo compassionevole, perché quell'esperto di dolore sapeva distinguere il vero dal falso, e gli si avvicinò:
    «Su, coraggio, mio caro signore!... Pensate a onorare la memoria del vostro amico».
    «Abbiamo dimenticato di inviare le partecipazioni, ma ho provveduto a spedire un espresso al signor presidente de Marville, l'unico parente di cui vi parlavo... Non ci sono amici... E non credo verrà la gente del teatro dove il defunto era direttore d'orchestra... Credo che il signore sia erede universale».
    «Allora deve guidare il corteo», disse il cerimoniere. «Non avete un abito nero?», chiese osservando il vestito di Schmucke.
    «Io sono tutto nero dentro!...», disse il povero tedesco con una voce straziante, «e così nero che sento la morte dentro di me... Dio mi farà la grazia di unirmi al mio amico nella tomba, e io lo ringrazierò!...».
    E congiunse le mani.
    «L'ho già detto alla nostra amministrazione, che ha già introdotto tanti miglioramenti», continuò il cerimoniere rivolgendosi a Villemot; «dovrebbe avere un guardaroba, e affittare abiti da erede... è sempre più necessario... Ma, poiché il signore eredita, dovrà almeno indossare il mantello da lutto, e quello che ho portato lo avvolgerà completamente, e così nessuno si accorgerà dell'inadeguatezza del suo vestito...».
    «Volete avere la bontà di alzarvi?», disse a Schmucke.
    Schmucke si alzò, ma vacillò sulle gambe.
    «Sostenetelo», disse il cerimoniere al primo commesso, «voi siete il suo fiduciario».
    Villemot sostenne Schmucke, tenendolo sotto le braccia, e allora il cerimoniere prese quell'enorme e orribile mantello nero che si mette addosso agli eredi per seguire il carro funebre dalla casa del morto alla chiesa, allacciandoglielo sotto il mento con dei cordoni di seta.
    E Schmucke fu addobbato da erede.

LXIX • UN FUNERALE DA SCAPOLO

    «A questo punto sorge una grande difficoltà», disse il cerimoniere. «Dobbiamo guarnire i quattro cordoni del drappo funebre... Se non c'è nessuno, chi li tiene?... Sono le dieci e mezzo», disse guardando l'orologio, «ci aspettano in chiesa».
    «Ah, ecco Fraisier!», esclamò assai imprudentemente Villemot.
    Ma nessuno poté cogliere questa confessione di complicità.
    «Chi è questo signore?», chiese il cerimoniere.
    «Oh! la famiglia...».
    «Quale famiglia?».
    «La famiglia diseredata. È il fiduciario del signor presidente Camusot».
    «Bene!», disse soddisfatto il cerimoniere. «Avremo almeno due persone per reggere i cordoni del drappo, uno voi e l'altro lui».
    Il cerimoniere, felice di poter guarnire due cordoni, andò a prendere due magnifiche paia di guanti bianchi di daino, e cortesemente le porse a Fraisier e quindi a Villemot.
    «I signori vogliono prendere ognuno un cordone?...», disse.
    Fraisier, tutto in nero, vestito pretenziosamente, cravatta bianca, aria ufficiale, incuteva timore: era un vero e proprio archivio legale.
    «Volentieri, signore», rispose.
    «Se venissero altre due persone soltanto», disse il cerimoniere, «i quattro cordoni sarebbero guarniti».
    In quel momento arrivò l'infaticabile agente della ditta Sonet, seguito dall'unico uomo che si ricordasse di Pons e pensasse di rendergli un estremo omaggio. Quell'uomo era un inserviente del teatro, incaricato di disporre gli spartiti sui leggii degli orchestrali, e al quale Pons dava ogni mese cinque franchi, sapendo che era un padre di famiglia.
    «Ah! Topinard!», esclamò Schmucke riconoscendolo. «Tu vuoi bene a Pons!...».
    «Ma, signore, io sono venuto tutti i giorni, la mattina, a chiedere notizie del signore...».
    «Tutti i giorni! povero Topinard!...», disse Schmucke stringendogli la mano.
    «Ma forse mi prendevano per un parente, perché mi trattavano così male! Avevo un bel dire che ero del teatro e venivo a chiedere notizie del signor Pons; mi dicevano che erano tutte scuse. Io chiedevo di poter vedere quel povero caro malato, ma non mi hanno mai lasciato salire».
    «L'infame Cibot!...», disse Schmucke stringendo al cuore la mano callosa dell'inserviente.
    «Era il migliore degli uomini, quel bravo signor Pons. Ogni mese mi dava cento soldi... sapeva che ho moglie e tre figli. Mia moglie è in chiesa».
    «Dividerò il mio pane con te!», esclamò Schmucke, felice di avere accanto a sé un uomo che voleva bene a Pons.
    «Il signore vuol tenere uno dei cordoni del drappo?», disse il cerimoniere. «Così li avremo tutti e quattro».
    Il cerimoniere aveva convinto facilmente l'agente della ditta Sonet a prendere uno dei cordoni, soprattutto quando gli aveva mostrato il bel paio di guanti che, secondo l'usanza, sarebbe rimasto a lui.
    «Sono le dieci e tre quarti!... Bisogna assolutamente scendere... Ci attendono in chiesa», disse il cerimoniere.
    E quelle sei persone si avviarono per le scale.
    «Chiudete bene l'appartamento e restateci», disse l'atroce Fraisier alle due donne che erano sul pianerottolo, «soprattutto se volete diventare la custode, signora Cantinet. Sono quaranta soldi al giorno!...».
    Per un caso che non è affatto straordinario a Parigi, nell'androne c'erano due catafalchi e di conseguenza due erano i funerali: quello di Cibot, il defunto portiere, e quello di Pons. Nessuno veniva a rendere la minima testimonianza d'affetto allo smagliante catafalco dell'amico delle arti, mentre tutti i portieri del vicinato affluivano e cospargevano con l'aspersorio la spoglia mortale del portiere. Questo contrasto, tra la folla accorsa al funerale di Cibot, e la solitudine nella quale veniva lasciato Pons, si verificò non soltanto all'interno del portone, ma anche in strada, dove la bara di Pons fu seguita dal solo Schmucke, sostenuto da un becchino perché l'erede vacillava ad ogni passo. Dalla rue de Normandie alla rue d'Orléans, dove si trova la chiesa di Saint-François, i due cortei funebri passarono tra due ali di curiosi perché, come si è detto, in quel quartiere ogni cosa costituisce un avvenimento. Dunque si notava lo splendore del carro bianco, da cui pendeva uno stemma su cui era stata ricamata una grande P, e che era seguito da un uomo soltanto; mentre il carro semplice, di ultima classe, era accompagnato da una folla immensa. Per fortuna Schmucke, inebetito dalla gente alle finestre e dalla siepe formata dai curiosi, non capiva niente e vedeva quel concorso di persone soltanto attraverso un velo di lacrime.
    «Ah! è lo schiaccianoci...», diceva uno, «il musicista, sapete!».
    «E chi sono quelli che tengono i cordoni?...».
    «Bah! attori!».
    «Ecco, guarda il trasporto del povero papà Cibot! Un lavoratore in meno, e che lavoratore!».
    «Quell'uomo non usciva mai!».
    «Non ha mai fatto un lunedì».
    «E come amava la moglie!».
    «La sventurata!».
    Rémonencq era dietro il carro della sua vittima, e riceveva condoglianze per la perdita del vicino.

LXX • LA MORTE È UN ABBEVERATOIO PER MOLTA GENTE A PARIGI

    I due cortei funebri giunsero alla chiesa dove Cantinet, d'accordo con lo «svizzero», ebbe cura che nessun mendicante infastidisse Schmucke; Villemot aveva promesso all'erede che niente lo avrebbe disturbato e avrebbe pensato lui a tutte le spese, proteggendo il cliente. Il modesto carro funebre di Cibot, scortato dalle settanta alle ottanta persone, fu accompagnato da tutti fino al cimitero. All'uscita dalla chiesa, il carro di Pons fu seguito da quattro vetture: una per il clero, le altre tre per i parenti; ma una sola bastò, perché l'agente della ditta Sonet era andato, durante la messa, ad avvertire il signor Sonet che il convoglio funebre era partito, in modo che potesse presentare all'erede universale, all'uscita dal cimitero, il disegno e il preventivo del monumento. Fraisier, Villemot, Schmucke e Topinard andarono in un'unica vettura. Le altre due, invece di tornare alla sede della ditta, andarono vuote al Père-Lachaise. Questo viaggio inutile di vetture vuote accade spesso. Quando i morti non godono di alcuna celebrità, non attirano alcun concorso di gente, e le vetture sono sempre troppe. I morti devono essere stati molto amati in vita perché a Parigi, dove tutti vorrebbero che una giornata fosse di venticinque ore, si accompagni un parente o un amico fino al cimitero. Così, piene o vuote, le vetture giungono in chiesa, al cimitero, e tornano alla casa del morto dove i cocchieri chiedono la mancia. Non si ha un'idea del numero di persone per le quali la morte è un abbeveratoio. Il basso clero della parrocchia, i poveri, i becchini, i cocchieri, tutti questi esseri spugnosi si ritraggono gonfiati dopo essersi immersi in un carro funebre. Dalla chiesa, dove l'erede, uscendo, fu assalito da un nugolo di poveri, subito disperso dallo «svizzero», fino al Père-Lachaise, il povero Schmucke andò avanti come i criminali andavano dal tribunale alla place de Grève. Alla testa del suo corteo, teneva per mano l'inserviente Topinard, l'unica persona che avesse nel cuore un vero dolore per la morte di Pons. Topinard, estremamente commosso dell'onore che gli era stato reso facendogli tenere uno dei cordoni del drappo funebre, e contento di andare in vettura, padrone di un paio di guanti, cominciava a vedere nel funerale di Pons una delle giornate importanti della sua vita. Stremato dal dolore, sostenuto dal contatto di quella mano cui corrispondeva un cuore, Schmucke si lasciava condurre esattamente come quei poveri vitelli che, su un carretto, vengono portati al macello. Sulla parte anteriore della vettura stavano Fraisier e Villemot. Ora, coloro che hanno avuto la disgrazia di accompagnare molti dei loro congiunti al campo del riposo sanno bene che in vettura cessa ogni ipocrisia durante il tragitto, spesso assai lungo, dalla chiesa al cimitero dell'Est: tra i cimiteri parigini quello dove si sono concentrati tutti i lussi e le vanità, così ricco di monumenti sontuosi. Gli indifferenti cominciano a conversare, e anche i più affranti finiscono per ascoltarli e distrarsi.
    «Il signor presidente era già uscito per andare in udienza», diceva Fraisier a Villemot, «e non ho ritenuto necessario andare a distoglierlo dai suoi impegni in tribunale; in ogni caso sarebbe arrivato troppo tardi. Essendo l'erede naturale e legale, ma diseredato a favore del signor Schmucke, ho pensato che qui fosse sufficiente la presenza del suo fiduciario...».
    Topinard tese l'orecchio.
    «Ma chi è quello strano tipo che teneva il quarto cordone?», chiese Fraisier a Villemot.
    «È l'agente di una ditta che esegue monumenti funebri, che vorrebbe ottenere l'ordinazione di una tomba in cui si propone di scolpire tre figure in marmo: la Musica, la Pittura e la Scultura che versano lacrime sul defunto.
    «È un'idea», disse Fraisier. «Il buonuomo lo merita certamente, ma un monumento del genere costerà da sette a ottomila franchi».
    «Oh, sì!».
    «Se il signor Schmucke fa l'ordinazione, ciò non può riguardare la successione, perché simili spese potrebbero assorbire un'eredità...».
    «Significa fare causa, ma si vincerebbe...».
    «Ebbene», continuò Fraisier, «sarà un problema suo! È un bello scherzo da fare a questi imprenditori...», disse all'orecchio di Villemot, «perché, se il testamento viene annullato, e a questo m'impegno io... o se non ci fosse testamento, chi pagherebbe?».
    Villemot sorrise come una scimmia. Il primo commesso di Tabareau e il leguleio si parlarono sottovoce e all'orecchio; eppure, malgrado il rollio della vettura e tutti i rumori, l'inserviente di teatro, abituato a indovinare tutto nel mondo delle quinte, intuì che quei due tipi dell'ambiente giudiziario pensavano di mettere in gravi difficoltà il povero tedesco, e finì per udire la parola significativa di Clichy! Da quel momento il degno e onesto servitore del mondo teatrale decise di vegliare sull'amico di Pons.
    Al cimitero, dove, grazie alle cure dell'agente della ditta Sonet, Villemot aveva acquistato tre metri di terra dal Comune, dichiarando che vi sarebbe stato costruito un magnifico monumento, Schmucke fu condotto dal cerimoniere, attraverso una folla di curiosi, alla fossa dove stavano per calare Pons. Ma alla vista di quel buco quadrato sopra il quale quattro uomini reggevano con delle corde la bara di Pons, sulla quale il clero recitava l'ultima preghiera, il tedesco provò una tale stretta al cuore che svenne.

LXXI • PER APRIRE UNA SUCCESSIONE SI CHIUDONO TUTTE LE PORTE

    Topinard, aiutato dall'agente della ditta Sonet e dallo stesso signor Sonet, condusse nello stabilimento del marmista il povero tedesco, cui furono prodigate le cure più premurose e affettuose dalla signora Sonet e dalla signora Vitelot, moglie del socio del signor Sonet. Topinard rimase lì, avendo visto Fraisier, con la sua faccia patibolare, intrattenersi con l'agente della ditta Sonet.
    Il povero innocente tedesco riprese i sensi dopo un'ora, verso le due e mezzo. Da due giorni a Schmucke sembrava di sognare. Pensava che si sarebbe risvegliato e avrebbe ritrovato Pons vivo. Gli misero tante di quelle salviette bagnate sulla fronte, e gli fecero inspirare tanti di quei sali e aceti, che riaprì gli occhi. La signora Sonet costrinse Schmucke a bere un buon brodo grasso, perché era stato preparato il pot-au-feu in casa dei marmisti.
    «Non ci capita spesso di assistere in questo modo dei clienti che provano tanto dolore; anche se ogni due anni accade...».
    Finalmente Schmucke disse che voleva tornare in rue de Normandie.
    «Signore», disse allora Sonet, «ecco il progetto che Vitelot ha fatto apposta per voi, passandoci tutta la notte!... È un progetto geniale! Sarà un bel monumento!...».
    «Sarà uno dei più belli del Père-Lachaise!...», disse la piccola signora Sonet. «Del resto dovete pur onorare la memoria di un amico che vi ha lasciato tutta la sua fortuna...».
    Il progetto, fatto passare per nuovo, in realtà era stato preparato per de Marsay, il famoso ministro; ma la vedova aveva voluto affidare la progettazione del monumento a Stidmann; così il progetto di questi imprenditori era stato rifiutato, perché prefigurava un monumento di scarso valore. Nel progetto originario le tre figure rappresentavano le giornate di Luglio, durante le quali si era rivelato quel grande ministro. In seguito, con qualche modifica, Sonet e Vitelot avevano fatto delle tre gloriose l'Esercito, la Finanza e la Famiglia per il monumento di Charles Keller, poi eseguito anche questo da Stidmann. Da undici anni quel progetto veniva adattato a tutte le circostanze di famiglia; ma nel ricalcarlo Vitelot aveva trasformato le tre figure in quelle dei geni della musica, della scultura e della pittura.
    «Il costo è minimo se si pensa ai dettagli e alla costruzione; anche se in sei mesi ce la faremo», disse Vitelot. «Signore, ecco il preventivo e l'ordinazione... settemila franchi, non compreso il lavoro degli sbozzatori».
    «Se il signore preferisce il marmo», disse Sonet, marmista specializzato, «il costo sale a dodicimila franchi, e il signore s'immortalerà insieme col suo amico...».
    «Ho appena saputo che il testamento sarà impugnato», disse Topinard all'orecchio di Vitelot, «e che gli eredi rientreranno in possesso dell'eredità; andate a trattare col signor presidente Camusot, perché questo povero innocente non avrà un soldo...».
    «Ci portate sempre clienti di questo genere!», disse la signora Vitelot all'agente, cominciando a litigare.
    Topinard riaccompagnò Schmucke, a piedi, fino in rue de Normandie, perché le vetture del funerale vi si erano già avviate.
    «Non mi lasciate!...», disse Schmucke a Topinard.
    Topinard voleva andarsene, dopo aver rimesso il povero musicista tra le mani della signora Sauvage.
    «Sono le quattro, caro signor Schmucke, devo andare a mangiare... Mia moglie, che fa la maschera, non sa dove sia finito. Lo sapete, il teatro apre alle cinque e tre quarti...».
    «Sì, lo so... ma pensate che sono solo al mondo, senza un amico. Voi che avete pianto Pons, fatemi capire, sono in una notte profonda, e Pons mi ha detto che sono circondato da farabutti...».
    «Me ne sono già accorto, e vi ho appena evitato di andare a dormire a Clichy!».
    «Clichy?...», esclamò Schmucke, «non capisco...».
    «Pover'uomo! Ebbene, state tranquillo, verrò a trovarvi, addio».
    «Addio, a presto!...», disse Schmucke cadendo quasi morto di stanchezza.
    «Addio, signore!», disse la signora Sauvage a Topinard, con un tono che colpì l'inserviente.
    «Che avete, cameriera?...», disse beffardo Topinard. «Sembra che recitiate la parte del traditore in un melodramma».
    «Traditore siete voi! Di che v'impicciate? Vorreste occuparvi degli affari del signore per imbrogliarlo?...».
    «Imbrogliarlo!... Serva!...», rispose fieramente Topinard. «Sono soltanto un povero inserviente di teatro, ma vivo con gli artisti, e sappiate non ho mai chiesto nulla a nessuno! Vi ho forse chiesto qualcosa? Avanzate qualcosa, vecchia?...».
    «Siete inserviente di teatro, e vi chiamate?...», chiese la virago.
    «Topinard, per servirvi...».
    «Saluti a casa», disse la Sauvage, «e i miei complimenti alla signora, se il signore è sposato... È tutto quello che volevo sapere».
    «Che avete, bella mia?...», disse arrivando la signora Cantinet.
    «Ho, piccina, che voi resterete qui a occuparvi della cena, mentre faccio un salto in camera dal signore...».
    «È giù, sta parlando con quella povera signora Cibot, che è in un lago di lacrime», rispose la Cantinet.
    La Sauvage si precipitò per le scale con una tale rapidità che gli scalini tremavano sotto i suoi piedi.
    «Signore...», disse a Fraisier, traendolo a sé, a qualche passo dalla Cibot.
    E indicò Topinard nel momento in cui l'inserviente di teatro stava passando, fiero di aver già pagato il suo debito al proprio benefattore, evitando con un'astuzia ispirata dal palcoscenico, dove tutti sono più o meno spiritosi, che l'amico di Pons cadesse in una trappola. Infatti l'inserviente si riprometteva di proteggere il musicista della sua orchestra dalle trappole che sarebbero state tese alla sua buona fede.
    «Guardate bene quel piccolo miserabile!... È una specie di onest'uomo che vuol ficcare il naso negli affari del signor Schmucke...».
    «E chi è?», chiese Fraisier.
    «Oh! una nullità...».
    «Non ci sono nullità negli affari...».
    «È un inserviente di teatro», disse, «si chiama Topinard...».
    «Bene, signora Sauvage! Continuate così e avrete il vostro spaccio di tabacchi».
    E Fraisier riprese a parlare con la Cibot.
    «Dicevo, cara cliente, che non siete stata leale con noi, e che noi non abbiamo alcun obbligo nei confronti di un socio che c'inganna!».
    «E in cosa vi avrei ingannato?...», disse la Cibot con i pugni sui fianchi. «Credete di farmi paura con i vostri sguardi aspri e quella faccia da vipera?... State cercando dei pretesti per non mantenere la parola, e poi dite di essere onesto! Sapete cosa siete? Siete una canaglia! Sì, sì, grattatevi pure il braccio!... ma prendetevi questa!...».
    «Basta con le chiacchiere, e niente collera, amica mia», disse Fraisier. «Ascoltatemi! Avete già fatto il vostro gruzzolo... Stamani, durante i preparativi del funerale, ho trovato questo catalogo, in doppia copia, interamente scritto di pugno dal signor Pons e, per caso, mi sono caduti gli occhi su questo... E lesse, aprendo il catalogo manoscritto:

    »n. 7. Magnifico ritratto dipinto su marmo da Sebastiano del Piombo nel 1546, venduto da una famiglia che l'ha fatto portar via dalla cattedrale di Terni. Il ritratto, che era abbinato a quello di un vescovo, comprato da un inglese, rappresenta un cavaliere di Malta in preghiera, e si trovava al di sopra della tomba della famiglia Rossi. Senza la data, si potrebbe attribuire l'opera a Raffaello. Questo pezzo mi sembra superiore al ritratto di Baccio Bandinelli, del Museo, che è un po' secco, mentre questo cavaliere di Malta è di una freschezza dovuta alla conservazione della pittura sulla LAVAGNA (ardesia)».

    «Guardando», continuò Fraisier, «al posto del n. 7, ho invece trovato un ritratto di dama firmato Chardin, senza l'indicazione del n. 7!... Mentre il cerimoniere completava il numero delle persone che dovevano tenere i cordoni del drappo funebre, ho controllato i quadri, e ho verificato che otto opere indicate come le più importanti dal defunto signor Pons non ci sono più, e sono state sostituite con tele ordinarie e senza numero... Inoltre manca una piccola tavola di Metzu, definita un capolavoro...».
    «Ero forse la guardiana dei quadri, io?», chiese la Cibot.
    «No, ma eravate la donna di fiducia, che si occupava della casa e degli affari del signor Pons, e qui si tratta di furto...».
    «Furto! Sappiate, signore, che i quadri sono stati venduti dal signor Schmucke, secondo le disposizioni del signor Pons, per far fronte alle sue necessità».
    «A chi?».
    «Ai signori Élie Magus e Rémonencq...».
    «Quanto?».
    «Non mi ricordo!...».
    «Ascoltate, cara signora Cibot, voi vi siete fatto il vostro gruzzolo, ed è anche grassoccio!...», continuò Fraisier. «Vi terrò d'occhio, vi tengo in pugno... Servitemi e non parlerò! In ogni caso, capite bene che non potete contare per niente sul signor presidente Camusot, dal momento che avete ritenuto opportuno derubarlo».
    «Sapevo bene, mio caro signor Fraisier, che per me tutto sarebbe andato in fumo...», rispose la Cibot, addolcita dalle parole «Non parlerò!».

LXXII • DEL PERICOLO D'IMMISCHIARSI NEGLI AFFARI DELLA GIUSTIZIA

    «Ecco», disse Rémonencq arrivando, «che ve la prendete con la signora; non sta bene! La vendita dei quadri è stata fatta in pieno accordo tra il signor Pons, il signor Magus e me, e ci sono voluti tre giorni per accordarci col defunto, che sui suoi quadri ci sognava! Abbiamo regolari ricevute e se abbiamo dato, come si fa sempre, qualche moneta da quaranta franchi alla signora, ha avuto quello che diamo in tutte le case borghesi dove concludiamo un affare. Ah! mio caro signore, se pensate di poter ingannare una donna indifesa, potreste pentirvene!... Capito, signor uomo d'affari? Il signor Magus è il padrone della piazza, e se voi non rigate dritto con la signora e non le date quello che le avete promesso, vi aspetto alla vendita della collezione; allora vedrete cosa perderete avendo contro di voi il signor Magus e me... vi metteremo contro i mercanti... Invece di sette, ottocentomila franchi, non farete neppure duecentomila franchi!».
    «Va bene, va bene, vedremo! Non venderemo», disse Fraisier, «o venderemo a Londra».
    «Conosciamo bene Londra!», disse Rémonencq. «Il signor Magus lì è potente quanto a Parigi».
    «Addio, signora, vado a spulciare i vostri affari», disse Fraisier; «a meno che non mi obbediate».
    «Piccolo imbroglione!...».
    «Attenta», disse Fraisier, «sto per diventare giudice di pace!».
    Si separarono con minacce la cui portata era ben apprezzata da una parte e dall'altra.
    «Grazie, Rémonencq!», disse la Cibot, «è una fortuna per una povera vedova trovare un difensore».
    La sera, verso le dieci, in teatro, Gaudissart chiamò nel suo ufficio l'inserviente addetto all'orchestra. Gaudissart, in piedi davanti al caminetto, era in posa napoleonica, assunta da quando dirigeva tutto un mondo di attori, ballerini, comparse, musicisti, macchinisti, da quando trattava con gli autori. Infilava abitualmente la mano destra nel gilè, con la sinistra attaccata alla bretella, la testa di tre quarti e lo sguardo nel vuoto.
    «Ah, Topinard... avete rendite?».
    «No, signore».
    «Cercate un posto migliore di quello che avete?», chiese il direttore.
    «No, signore...», rispose l'inserviente impallidendo.
    «Diavolo!... Tua moglie fa la maschera alle prime... con lei ho rispettato le disposizioni del mio predecessore... A te ho dato l'incarico di pulire le lampade delle quinte, di giorno; hai anche l'incarico delle partiture. E non è tutto! hai un compenso di venti soldi per fare i mostri e organizzare i diavoli quando si rappresenta l'inferno. Hai una posizione invidiata da tutti gli altri inservienti, che sono gelosi, amico mio... in teatro hai dei nemici».
    «Dei nemici!...», disse Topinard.
    «E hai tre figli, e il maggiore fa le parti di bambino con un compenso di cinquanta centesimi!...».
    «Signore...».
    «Lasciami parlare...», disse Gaudissart con voce roboante. «Con una tale posizione, tu vuoi lasciare il teatro...».
    «Signore...».
    «Vuoi metterti in affari, mettere il dito in questioni di eredità!... Sciagurato! saresti schiacciato come un uovo! Ho come protettore Sua Eccellenza il signor conte Popinot, uomo intelligente di grande carattere, che il re ha avuto la grande accortezza di chiamare a far parte del suo consiglio... Quest'uomo di Stato, questo politico superiore, parlo del conte Popinot, ha dato in moglie al suo primogenito la figlia del presidente de Marville, uno degli uomini più considerevoli e più considerati dei più alti gradi della magistratura, una delle celebrità della corte, in tribunale. Conosci il tribunale? Ebbene, il conte Popinot è l'erede di suo cugino Pons, il nostro vecchio direttore d'orchestra, al cui funerale sei andato stamani. Non ti rimprovero per essere andato a dare l'ultimo saluto a quel poveretto... Ma non conserverai il tuo posto se ti occuperai degli affari di quel brav'uomo del signor Schmucke, cui voglio molto bene ma che sta per entrare in conflitto con gli eredi di Pons... E siccome di quel tedesco m'importa poco, mentre m'importa molto del presidente e del conte Popinot, ti chiedo di lasciare che quel degno tedesco sbrogli da solo i suoi affari. C'è un dio particolare per i tedeschi... ti troveresti male in qualità di vice-dio! Pensa a fare l'inserviente!... non puoi fare di meglio!».
    «Basta, signor direttore», disse Topinard, afflitto.
    Così Schmucke, che si aspettava di vedere l'indomani il povero inserviente, l'unico essere che avesse pianto Pons, perse il solo protettore che il caso gli avesse inviato. L'indomani, il povero tedesco si rese conto, al suo risveglio, dell'immensa perdita che aveva subito, trovando l'appartamento vuoto. Alla vigilia, due giorni prima, gli avvenimenti e lo sconquasso della morte avevano prodotto intorno a lui quell'agitazione, quel movimento che distraggono gli occhi. Ma il silenzio che segue la scomparsa di un amico, di un padre, di un figlio, di una donna amata, lo scialbo e freddo silenzio dell'indomani è terribile, è glaciale. Attratto da una forza irresistibile nella camera di Pons, il pover'uomo non riuscì a sopportarne la vista, tornò indietro, andò a sedersi in sala da pranzo, dove la signora Sauvage serviva la colazione. Schmucke si sedette ma non riuscì a mangiare niente.

LXXIII • APPARIZIONE DI TRE UOMINI NERI

    Improvvisamente risuonò una forte scampanellata, e apparvero tre uomini vestiti di nero, che la signora Cantinet e la signora Sauvage avevano lasciato entrare. Erano il signor Vitel, giudice di pace, e il suo cancelliere; il terzo era Fraisier, più aspro che mai, per il disappunto di un testamento regolare che annullava la sua arma potente, rubata con tanta audacia.
    «Veniamo, signore», disse il giudice di pace a Schmucke, gentilmente, «ad apporre i sigilli...».
    Schmucke, per il quale queste parole erano greco, guardò sgomento i tre uomini.
    «Veniamo su richiesta del signor Fraisier, avvocato, fiduciario del signor Camusot de Marville, erede di suo cugino, il defunto signor Pons...», aggiunse il cancelliere.
    «Le collezioni si trovano in quel grande salotto e nella camera da letto del defunto», disse Fraisier.
    «Allora andiamo... Scusate, signore, pranzate pure...», disse il giudice di pace.
    L'invasione di quei tre uomini neri aveva gelato di terrore il povero tedesco.
    «Signore», disse Fraisier rivolgendo a Schmucke uno di quegli sguardi velenosi che magnetizzano le vittime come un ragno magnetizza una mosca, «signore, chi ha saputo far fare un testamento a proprio vantaggio davanti a un notaio, doveva certo aspettarsi qualche resistenza da parte della famiglia. Una famiglia non si lascia spogliare da un estraneo senza combattere, e vedremo, signore, chi la vincerà: se la frode e la corruzione, o la famiglia!... Come eredi abbiamo il diritto di chiedere l'apposizione dei sigilli, i sigilli saranno messi, e io intendo controllare personalmente che ques'atto conservativo sia eseguito con il massimo rigore, e così sarà».
    «Mio Dio, mio Dio! ma che ho fatto di male?», disse l'innocente Schmucke.
    «Si parla molto di voi nella casa», disse la Sauvage. «Mentre stavate dormendo è venuto un giovanotto, tutto vestito di nero, un damerino, il primo giovane di studio del signor Hannequin, e voleva parlarvi ad ogni costo; ma siccome dormivate e vi eravate talmente stancato nella cerimonia di ieri, gli ho detto che avevate firmato una procura al signor Villemot, il primo commesso di Tabareau, e che andasse a parlare con lui se si trattava di affari. «Ah, tanto meglio», ha detto il damerino, « m'intenderò bene con lui. Stiamo per depositare il testamento in tribunale, dopo averlo presentato al presidente». Allora l'ho pregato di mandare qui il signor Villemot, appena gli fosse possibile. State tranquillo, mio caro signore», disse la Sauvage, «avrete chi vi difenderà. Non vi mangeranno la lana addosso. State per incontrare uno che ha becco e unghie! Il signor Villemot dirà a quei signori il fatto loro! Io, mi sono già arrabbiata con quella terribile mascalzona della Cibot, una portiera che s'immischia nelle faccende degli inquilini e va in giro a dire che derubate gli eredi, che avete tenuto prigioniero il signor Pons, che l'avete tormentato, che era pazzo da legare. L'ho rigirata nel migliore dei modi, quella scellerata: «Siete una ladra e una canaglia!», le ho detto, «e finirete in tribunale per tutto quello che avete rubato ai vostri padroni...». E lei non ha aperto bocca».
    «Il signore», disse il cancelliere avvicinandosi a Schmucke, «vuol essere presente all'apposizione dei sigilli nella camera da letto?».
    «Fate, fate!», disse Schmucke, «posso almeno sperare di morire in pace?».
    «Si ha sempre il diritto di morire», disse il cancelliere ridendo, «e le successioni sono il nostro affare migliore. Ma raramente ho visto degli eredi universali seguire i testatori nella tomba».
    «Io ci andrò!», disse Schmucke che sentiva, dopo tanti colpi, dei dolori insopportabili al cuore.
    «Ah! ecco il signor Villemot!», esclamò la Sauvage.
    «Signor Villemot», disse il povero tedesco, «rappresentatemi voi...».
    «Eccomi», disse il primo commesso. «Vengo a informarvi che il testamento è assolutamente in regola, e sarà certamente omologato dal tribunale, che vi riconoscerà possessore di tutto. Avrete una bella fortuna».
    «Io, una bella fortuna!», esclamò Schmucke, disperato all'idea di essere sospettato di avidità.
    «Nell'attesa», disse la Sauvage, «che sta facendo di là il giudice di pace, con quelle candele e quei nastri?».
    «Ah! mette i sigilli... Venite, signor Schmucke, avete il diritto di assistere...».
    «No, andateci voi...».
    «Ma perché i sigilli, se il signore è in casa sua, e la roba è tutta sua?», disse la Sauvage parlando di diritto alla maniera delle donne, che applicano il Codice a loro piacimento.
    «Il signore non è in casa sua, signora, è in casa del signor Pons; diverrà certamente proprietario di tutto ma, quando si è legatari, si può entrare in possesso dei beni che costituiscono la successione soltanto attraverso quella che noi chiamiamo un'entrata in possesso. Questo atto è emanato dal tribunale. Ora, se gli eredi, privati della successione per volontà del testatore, si oppongono all'entrata in possesso, allora si fa un processo... E poiché non si sa a chi toccherà la successione, ogni valore viene posto sotto sigilli, e i notai degli eredi e del legatario procedono all'inventario nel tempo stabilito dalla legge... Ecco tutto».
    Udendo questo linguaggio per la prima volta in vita sua, Schmucke perse del tutto la testa, e l'abbandonò sulla spalliera della poltrona in cui era seduto; la sentiva così pesante, che gli fu impossibile sostenerla. Villemot andò a parlare con il cancelliere e con il giudice di pace, e assisté, col sangue freddo di chi è pratico di queste situazioni, all'apposizione dei sigilli che, quando non è presente alcun erede, non avviene mai senza qualche scherzo o qualche considerazione su quanto viene sequestrato fino al giorno della spartizione. Finalmente i quattro chiusero il salotto e rientrarono nella sala da pranzo, dove si spostò il cancelliere. Schmucke assisté passivamente a quell'operazione che consiste nel sigillare col sigillo del giudice di pace un nastro su ogni battente delle porte, quando sono a due battenti, o nel sigillare gli armadi e le porte a un solo battente apponendo i sigilli sulla fessura.
    «Passiamo a questa camera», disse Fraisier indicando la camera di Schmucke, la cui porta si apriva sulla sala da pranzo.
    «Ma è la camera del signore!», esclamò la Sauvage mettendosi tra la porta e gli uomini della giustizia.
    «Ecco il contratto di affitto dell'appartamento», disse l'orribile Fraisier, «l'abbiamo trovato tra le carte, e non
è a nome dei signori Pons e Schmucke, ma del solo signor Pons. L'intero appartamento fa parte della successione... E del resto», disse aprendo la porta della camera di Schmucke, «come vedete, signor giudice di pace, è piena di quadri».
    «Infatti», disse il giudice di pace, che dette subito ragione a Fraisier.

LXXIV • I FRUTTI DEL FRAISIER

    «Calma, signori», disse Villemot. «Pensate di poter mettere alla porta il legatario universale, il cui ruolo non è stato finora contestato?».
    «Sì, sì!», disse Fraisier, «noi ci opponiamo alla consegna del legato».
    «E con quale pretesto?».
    «Lo saprete, mio caro!», disse beffardo Fraisier. «In questo momento non ci opponiamo a che il legatario ritiri da questa camera quello che dichiarerà di sua proprietà; ma la camera sarà sigillata. E il signore andrà ad abitare dove vorrà».
    «No», disse Villemot, «il signore resterà nella sua camera!...».
    «E in che modo?».
    «Chiederò un giudizio per direttissima», continuò Villemot, «per far dichiarare che noi siamo affittuari di metà appartamento, e voi non riuscirete a mandarci via... Togliete i quadri, separate ciò che appartiene al defunto da quanto appartiene al mio cliente... mio caro!...».
    «Me ne andrò!», disse il vecchio musicista, che ritrovò un po' d'energia ascoltando quel penoso dibattito.
    «E sarà meglio!», disse Fraisier. «Questa scelta vi risparmierà delle spese, perché perdereste. Il contratto è chiarissimo...».
    «Il contratto! il contratto!», disse Villemot. «È una questione di buona fede!...».
    «Ma non può essere provata, come nelle cause penali, attraverso dei testimoni... Volete cacciarvi nelle perizie, nelle verifiche... nelle sentenze provvisorie, nell'intera procedura?...».
    «No! no!», esclamò Schmucke terrorizzato. «Me ne vado, vado via...».
    La vita di Schmucke era quella di un filosofo, cinico senza saperlo, tanto era semplice. Possedeva soltanto due paia di scarpe, un paio di stivali, due vestiti completi, dodici camicie, dodici foulards, dodici fazzoletti, quattro gilè, e una pipa superba che Pons gli aveva regalato, con una borsa da tabacco ricamata. Entrò in camera, sovreccitato dalla febbre dell'indignazione; prese tutte le sue cose e le mise su una sedia.
    «Tutto questo è mio!...», disse con una semplicità degna di Cincinnato. « Anche il pianoforte è mio».
    «Signora...», disse Fraisier alla Sauvage, «fatevi aiutare a spostare quel pianoforte, mettetelo sul pianerottolo!».
    «Siete troppo duro», disse Villemot a Fraisier; «soltanto il giudice di pace può dare ordini, solo lui è sovrano in questa materia».
    «Qui ci sono dei valori», disse il cancelliere indicando la camera.
    «Del resto», fece osservare il giudice di pace, «il signore esce di sua volontà».
    «Non si sono mai visti clienti simili!», disse Villemot indignato, rivolgendosi a Schmucke. «Siete molle come un cencio!...».
    «Che importa dove si muore?», disse Schmucke uscendo dalla sua camera. «Questi uomini hanno facce da tigre... Manderò a prendere le mie povere cose...», aggiunse.
    «Dove va il signore?».
    «Dove Dio vorrà!», rispose il legatario universale con un gesto di sublime indifferenza.
    «Fatemelo sapere», disse Villemot.
    «Seguilo», disse Fraisier all'orecchio del primo commesso.
    La signora Cantinet fu nominata consegnataria, e le fu assegnata un'indennità di cinquanta franchi, presi dal denaro liquido trovato in casa.
    «Va molto bene», disse Fraisier al signor Vitel appena Schmucke fu uscito; «se volete dare le dimissioni a mio favore, andate a parlare con la signora presidentessa de Marville, e vi accorderete con lei».
    «Avete trovato un uomo di burro!», disse il giudice di pace indicando Schmucke, che stava guardando dal cortile, per l'ultima volta, le finestre dell'appartamento.
    «Sì, l'affare è concluso!», rispose Fraisier. «Potete tranquillamente dare in moglie vostra figlia a Poulain, che sarà primario dei Quinze-Vingts.
    «Vedremo! Addio, signor Fraisier», disse il giudice di pace con fare cameratesco.
    «È uno che ci sa fare», disse il cancelliere; «andrà lontano, quel briccone!».
    Erano ormai le undici, quando il vecchio tedesco prese meccanicamente la strada che era solito fare con Pons, e intanto pensava proprio a lui; continuava a vederlo, se lo sentiva accanto, e giunse davanti al teatro da cui stava uscendo l'amico Topinard, che aveva finito di pulire le lampade delle quinte e pensava alla tirannia del suo direttore.
    «Ah! eccoti a proposito!», esclamò Schmucke fermando il povero inserviente. «Topinard, tu hai un alloggio?...».
    «Sì, signore».
    «Una famiglia?...».
    «Sì, signore».
    «Vuoi prendermi a pensione? Oh! pagherò bene, ho una rendita di novecento franchi... e non mi resta molto da vivere... Non ti darò alcun fastidio... Mangio di tutto... La mia sola passione è fumare la pipa... E siccome sei l'unico che abbia pianto Pons con me, ti voglio bene».
    «Signore, sarebbe un vero piacere; ma, sapete, il signor Gaudissart mi ha rifilato una parrucca ben pettinata...».
    «Una parrucca?».
    «È un modo di dire: mi ha dato una lavata di testa».
    «Lavata di testa?».
    «Mi ha rimproverato per essermi interessato a voi... Bisognerà essere molto discreti, se verrete ad abitare in casa mia! Ma dubito che ci vogliate rimanere, perché voi non sapete cosa sia la casa di un povero diavolo come me...».
    «Preferisco la povera casa di un uomo di cuore che ha pianto Pons, alle Tuileries con uomini dalla faccia di tigre! Ho appena visto delle tigri in casa di Pons... vogliono mangiare tutto...».
    «Venite, signore», disse l'inserviente, «e vedrete... ma... insomma, c'è un soppalco... sentiamo la signora Topinard».
    Schmucke seguì come una pecora Topinard, che lo condusse in una di quelle orribili località che potrebbero essere definite i cancri di Parigi. Si chiama rione Bordin. È un passaggio stretto, fiancheggiato da case costruite come si costruisce per speculazione, che sbocca in rue de Bondy, in quel punto della via messo in ombra dall'immenso edificio del teatro della Porte-Saint-Martin, una delle piaghe di Parigi. Questo passaggio, il cui piano stradale si trova a un livello più basso della carreggiata, scende per un pendio verso la rue des Mathurins-du-Temple. Il rione finisce con una strada interna che lo chiude, raffigurando una T. Le due viuzze, così disposte, racchiudono una trentina di case a sei e sette piani, nei cui cortili e appartamenti hanno sede magazzini, industrie, fabbriche di ogni genere. È, in miniatura, il faubourg Saint-Antoine. Vi si costruiscono mobili, si cesellano rami, si cuciono costumi teatrali, si lavora il vetro, si dipingono porcellane, insomma vi si fabbricano tutti i capricci e tutte le varietà dell'articolo parigino. Sudicio e produttivo come il commercio, questo passaggio, sempre pieno di gente che va e viene, di carrette, di carri, ha un aspetto ripugnante, e la popolazione che vi brulica è in armonia con le cose e i luoghi. È il popolo delle fabbriche, popolo intelligente nei lavori manuali, che ne assorbono l'intelligenza. Topinard viveva in quel rione fiorente di attività, perché gli affitti erano bassi. Abitava nel secondo fabbricato, entrando nel passaggio a sinistra. Il suo appartamento, al sesto piano, dava su quella zona di giardini che ancora esistono e che dipendono dai tre o quattro grandi palazzi della rue de Bondy.
    L'alloggio di Topinard consisteva in una cucina e due camere. Nella prima stavano i bambini. Vi si vedevano due lettini di legno bianco e una culla. La seconda era la camera dei coniugi Topinard. Si mangiava in cucina. Sopra, a sei piedi di altezza, c'era una specie di solaio rivestito di zinco, con un telaio a tabacchiera come finestra. Vi si saliva attraverso una scala di legno bianco che nel gergo del fabbricato veniva chiamata la scala del mugnaio. Questo vano, dato per camera della donna di servizio, permetteva di considerare l'alloggio di Topinard un appartamento completo, e di affittarlo a quattrocento franchi. Nell'ingresso, per nascondere la cucina, c'era un tamburo centinato, illuminato da un finestrino ovale che dava sulla cucina, formato dalla porta della prima camera e da quella della cucina unite insieme: in tutto, tre porte. In questi tre vani, con pavimento di mattoni, tappezzati con un'orrenda carta da parati da sei soldi il rotolo, decorati con caminetti detti alla cappuccina, volgarmente dipinti color legno, viveva quella famiglia di cinque persone, di cui tre bambini. Ognuno può immaginare i graffi profondi lasciati sui muri dai tre bambini, fino all'altezza che le loro braccia potevano raggiungere.

LXXV • UN INTERNO POCO CONFORTEVOLE

    I ricchi non potrebbero immaginare la semplicità della batteria da cucina, che consisteva in un fornello, un paiolo, una graticola, una casseruola, due o tre bricchi e una padella per friggere. Le stoviglie, di maiolica bruna o bianca, potevano valere dodici franchi. Il tavolo serviva sia come tavolo da cucina che come tavola da pranzo. Il mobilio era composto di due sedie e due sgabelli. Sotto il fornello con la cappa c'era la provvista del carbone e della legna. E in un angolo c'era il mastello in cui si lavava, spesso di notte, la biancheria di casa. La stanza dove stavano i bambini, attraversata da corde per stendere i panni, era variopinta di manifesti di teatro e di disegni ritagliati dai giornali o dagli opuscoli pubblicitari dei libri illustrati. Evidentemente era il maggiore dei figli dei Topinard, i cui libri di scuola erano visibili in un angolo, a occuparsi della casa quando, alle sei, il padre e la madre andavano a lavorare in teatro. In molte famiglie della classe inferiore, quando un bambino raggiunge l'età di sei o sette anni, fa da madre alle sorelle e ai fratelli.
    Da questo rapido schizzo si capisce come i Topinard fossero, secondo l'espressione divenuta proverbiale, poveri ma onesti. Topinard aveva circa quarant'anni, e sua moglie, che era stata corista, amante, si diceva, del direttore fallito cui era succeduto Gaudissart, doveva averne trenta. Lolotte era stata una bella donna, ma le disavventure della precedente amministrazione avevano talmente influito su di lei da costringerla a contrarre con Topinard un matrimonio da gente di teatro. Era sicura che, appena si fosse potuto contare su un'entrata di centocinquanta franchi, Topinard avrebbe regolarizzato i suoi impegni davanti alla legge, se non altro per legittimare i bambini, che adorava. La mattina, nei momenti liberi, la signora Topinard cuciva per il magazzino del teatro. Questi due coraggiosi inservienti mettevano insieme, al prezzo di lavori giganteschi, novecento franchi l'anno.
    «Un piano ancora!», diceva, dopo il terzo, Topinard a Schmucke, che non sapeva neppure se stesse salendo o scendendo, tanto era sprofondato nel suo dolore.
    Nel momento in cui l'inserviente, vestito di tela bianca come tutte le persone di servizio, aprì la porta della camera, si udì la voce della signora Topinard che gridava:
    «Silenzio, bambini! ecco papà!».
    E poiché evidentemente i bambini facevano del padre quello che volevano, il grande continuò a guidare una carica in ricordo del Cirque-Olympique, a cavallo di un manico di scopa, il secondo a soffiare in uno zufolo di latta, e il terzo a seguire come poteva il grosso dell'esercito. La madre stava cucendo un costume teatrale.
    «Zitti», gridò Topinard con un vocione, «o ve le suono!». «Bisogna dirgli sempre così», aggiunse sottovoce a Schmucke. «Ecco, piccola», disse l'inserviente alla donna, «ecco il signor Schmucke, l'amico del povero signor Pons; non sa dove andare, e vorrebbe venire qui da noi; ho avuto un bel dirgli che non ce la spassiamo, che siamo al sesto piano, che possiamo offrirgli soltanto un soppalco, ma lui insiste...».
    Schmucke si era seduto su una sedia che la donna gli aveva avvicinato, e i bambini, stupiti per l'arrivo di uno sconosciuto, si erano raccolti in gruppo per dedicarsi a quell'esame approfondito, muto e veloce che è tipico dei bambini, abituati, come i cani, a fiutare più che a giudicare. Schmucke si mise a guardare quel gruppo così grazioso di cui faceva parte una bambina di cinque anni, quella che stava soffiando nello zufolo e aveva dei magnifici capelli biondi.
    «Sembra una piccola tedesca!», disse Schmucke facendole segno di avvicinarsi.
    «Il signore starà molto male lassù», disse la donna; «se non fosse che devo avere i bambini vicino, gli darei volentieri la nostra camera».
    Aprì la camera e vi fece entrare Schmucke. Quella camera era tutto il lusso dell'appartamento. Il letto di acagiù era adorno di tendine di calicò azzurro, bordato di frange bianche. Tendine dello stesso calicò azzurro adornavano la finestra. Il comò, lo scrittoio, le sedie, anche se di acagiù, erano puliti. Sul caminetto c'erano una pendola e dei candelieri, dono, evidentemente, del direttore fallito, il cui ritratto, uno spaventoso ritratto eseguito da Pierre Grassou, era appeso sopra il comò. Così i bambini, cui era proibito di entrare in quel luogo riservato, cercarono di gettarvi qualche sguardo curioso.
    «Il signore starebbe bene qui», disse la donna.
    «No, no», rispose Schmucke, «non mi resta molto da vivere, mi basta un angolino per morire».
    Chiusa la porta della camera, salirono sul soppalco, e quando Schmucke vi giunse esclamò: «Ecco quello che fa per me!... Prima di andare a stare da Pons, non avevo mai alloggiato meglio di così».
    «Allora non resta che comprare una branda, due materassi, un traversino, un guanciale, due sedie e un tavolo. Non è la morte di un uomo... potrà costare cinquanta scudi, con il catino, la brocca e uno scendiletto...».
    Si misero d'accordo. Mancavano soltanto i cinquanta scudi. Schmucke, che si trovava a due passi dal teatro, pensò naturalmente di andare a chiedere il proprio stipendio al direttore, vista la miseria dei suoi nuovi amici... Andò subito in teatro, e vi trovò Gaudissart. Il direttore accolse Schmucke con quella cortesia un po' sostenuta con cui trattava gli artisti, e rimase sorpreso della richiesta di un mese di stipendio avanzata da Schmucke. Tuttavia, dopo una verifica, risultò che la richiesta era legittima.
    «Ma bravo!», gli disse il direttore, «i tedeschi sanno sempre far bene i loro conti, anche tra le lacrime... Pensavo che foste rimasto contento della gratifica di mille franchi! Un'intero anno di stipendio, che equivaleva a una liquidazione!».
    «Ma noi non abbiamo ricevuto nulla», disse il buon tedesco. «E se io sono qui da voi, è perché mi trovo in mezzo alla strada e senza un soldo... A chi avete consegnato la gratifica?».
    «Alla vostra portiera!...».
    «La signora Cibot!», esclamò il musicista. «È stata lei a uccidere Pons, e a derubarlo... Voleva bruciare il suo testamento... È una mascalzona! un mostro!».
    «Ma, mio caro, come mai siete senza un soldo, per la strada, senza casa, nella vostra posizione di legatario universale? Non è logico, come diciamo noi».
    «Mi hanno messo alla porta... Sono straniero, non so niente delle leggi...».
    «Poveretto!», pensò Gaudissart intravedendo la probabile conclusione di una lotta ineguale. «Sentite», gli disse, «sapete cosa dovete fare?».
    «Ho un uomo d'affari!».
    «Bene, fate subito una transazione con gli eredi; avrete da loro una somma e una rendita vitalizia, così vivrete tranquillo...».
    «Non chiedo altro!», rispose Schmucke.
    «Ebbene, lasciate fare a me», disse Gaudissart, al quale Fraisier, il giorno prima, aveva esposto il suo piano.

LXXVI • DOVE GAUDISSART SI DIMOSTRA GENEROSO

    Gaudissart pensò di procurarsi un merito presso la giovane viscontessa Popinot e sua madre, con la conclusione di quello sporco affare, e di poter essere un giorno nominato consigliere di Stato.
    «Avete pieni poteri...».
    «Bene, vediamo! Innanzitutto», disse il Napoleone dei teatri di boulevard, «ecco cento scudi...».
    Prese dal portamonete quindici luigi e li porse al musicista.
    «Sono per voi: sei mesi di stipendio anticipati; se lascerete il teatro, me li restituirete. Facciamo i conti: quanto spendete all'anno? quanto vi serve per stare tranquillo? Su, su! garantitevi una vita da Sardanapalo!...».
    «Mi bastano un vestito per l'inverno e uno per l'estate...».
    «Trecento franchi!», disse Gaudissart.
    «Quattro paia di scarpe...».
    «Sessanta franchi».
    «Dei calzini...».
    «Dodici paia! fanno trentasei franchi».
    «Sei camicie».
    «Sei camicie di calicò, ventiquattro franchi; altrettante di tela, quarantotto; diciamo settantadue. Siamo a quattrocentosessantotto, mettiamo cinquecento con le cravatte e i fazzoletti, e cento franchi di lavandaia... seicento lire! Che altro vi serve per vivere?... tre franchi al giorno?».
    «No, è troppo!...».
    «Vi servono anche dei cappelli... Fa un totale di millecinquecento franchi, più cinquecento di affitto, duemila. Volete che vi faccia ottenere duemila franchi di rendita vitalizia... sicuri?...».
    «E il mio tabacco?».
    «Duemilaquattrocento franchi! Ah, papà Schmucke! E questo lo chiamate il tabacco?... D'accordo, ci sarà anche il tabacco. Dunque, una rendita vitalizia di duemilaquattrocento franchi...».
    «Non è tutto! voglio una somma in contanti...».
    «Gli spiccioli!... Ah, questi tedeschi! e poi sarebbero ingenui! vecchio Robert Macaire!», pensò Gaudissart. «E quanto volete? Ma poi basta».
    «È per pagare un debito sacro».
    «Un debito!», pensò Gaudissart; «che furfante! è peggio di un figlio viziato! ora s'inventa delle cambiali! qui bisogna finirla! quel Fraisier non è mica un granché!». «Quale debito? dite...».
    «C'è un solo uomo che abbia pianto Pons insieme con me... Ha una bella bambina con dei magnifici capelli, e poco fa mi è sembrato di vedere la razza della mia povera Germania, che non avrei mai dovuto lasciare... Parigi non va bene per i tedeschi, ci si prende gioco di loro...», disse con un cenno della testa, come di chi crede di veder chiaro nelle cose di questo basso mondo.
    «È pazzo», pensò Gaudissart.
    E, mosso dalla pietà per quell'innocente, il direttore sentì spuntare una lacrima.
    «Ah, voi mi capite, signor direttore! Ebbene, l'uomo che ha quella bambina è Topinard, l'inserviente dell'orchestra, che accende le lampade; Pons gli voleva bene e lo aiutava; è l'unico che abbia accompagnato il mio solo amico al funerale, in chiesa, al cimitero... Voglio tremila franchi per lui e tremila per la bambina...».
    «Pover'uomo!..», pensò Gaudissart.
    Questo feroce arricchito rimase colpito da quella nobiltà e da quella riconoscenza per una cosa da nulla agli occhi del mondo, ma che agli occhi di quell'agnello divino pesava, come il bicchier d'acqua di Bossuet, più delle vittorie dei conquistatori. Gaudissart nascondeva sotto le sue vanità, sotto la sua brutale ansia di arrivare e di elevarsi fino al livello del suo amico Popinot, un buon cuore e un buon carattere. Perciò cancellò i giudizi temerari sul conto di Schmucke e passò dalla sua parte.
    «Avrete tutto questo! Ma io farò di più, mio caro Schmucke. Topinard è un uomo onesto...».
    «Sì, l'ho visto poco fa, nella sua povera casa, dove vive contento con i suoi bambini...».
    «Gli darò il posto di cassiere, perché Baudrand se ne va...».
    «Ah! che Dio vi benedica!», esclamò Schmucke.
    «Bene, mio buono e bravo uomo, venite alle quattro, stasera, dal signor Berthier, notaio; tutto sarà pronto, e voi sarete tranquillo per il resto dei vostri giorni... Avrete i vostri seimila franchi, e farete, con lo stesso stipendio, insieme a Garangeot, quello che facevate con Pons».
    «No!», disse Schmucke, «non vivrò a lungo... non ho più forza... mi sento malato...».
    «Povero agnellino!», pensò Gaudissart salutando il tedesco che se ne andava. «Dopo tutto si vive di costolette. E, come dice il sublime Béranger,

    Povere pecore, vi toseranno sempre!».

    E canticchiò quest'opinione politica per scacciare la sua emozione.
    «Fate venire la mia carrozza!», disse all'usciere.
    Poi scese e gridò al cocchiere:
    «Rue de Hanovre!».
    L'ambizioso era completamente riapparso! Ora vedeva il consiglio di Stato.

LXXVII • MANIERA DI RECUPERARE UNA SUCCESSIONE

    In quel momento Schmucke stava comprando dei fiori, che portò quasi allegro, insieme con dei dolci, ai bambini di Topinard.
    «Porto i regali!...», disse con un sorriso.
    Quel sorriso era il primo sulle sue labbra dopo tre mesi, e chi l'avesse visto si sarebbe commosso.
    «Li do a una condizione».
    «Siete troppo buono, signore», disse la madre.
    «La piccola mi darà un bacio e metterà i fiori tra i suoi capelli, intrecciandoli come fanno le bambine tedesche!».
    «Olga, figlia mia, fate quello che dice il signore...», disse la donna assumendo un tono severo.
    «Non rimproverate la mia piccola tedesca!...», esclamò Schmucke, che in quella bambina vedeva la sua cara Germania.
    «Sta arrivando tutta la roba sulle spalle di tre facchini!...», disse Topinard entrando.
    «Ah!», fece il tedesco, «amico mio, ecco duecento franchi per pagare tutto... Avete una brava compagna, e la sposerete, vero? Vi darò mille scudi... La piccina avrà una dote di mille scudi che depositerete a suo nome. E voi non sarete più un inserviente... sarete il cassiere del teatro...».
    «Io... il posto di Baudrand?».
    «Sì».
    «Chi ve lo ha detto?».
    «Il signor Gaudissart!».
    «Oh! c'è da impazzire di gioia!... Rosalie, t'immagini che invidia in teatro?... Ma non è possibile...», continuò.
    «Il nostro benefattore non può stare in una soffitta...».
    «Mah! per i pochi giorni che mi restano da vivere!», disse Schmucke, «va benissimo!... Addio! vado al cimitero... a vedere che ne hanno fatto di Pons... e a ordinare dei fiori per la sua tomba!».
    La signora Camusot de Marville era in preda al più vivo allarme. Fraisier si stava consultando in casa sua con Godeschal e Berthier. Il notaio Berthier e l'avvocato Godeschal consideravano inoppugnabile il testamento fatto da due notai alla presenza di due testimoni, a causa della precisione formale con cui Léopold Hannequin l'aveva formulato. Secondo l'onesto Godeschal, Schmucke, anche se il suo attuale consulente fosse riuscito a ingannarlo, avrebbe finito per vederci chiaro, se non altro a causa di uno di quegli avvocati che, per distinguersi, fanno ricorso ad atti di generosità, di delicatezza. I due pubblici ufficiali lasciarono dunque la presidentessa, consigliandole di non fidarsi di Fraisier, su cui naturalmente avevano preso informazioni. In quel momento, Fraisier, tornato dopo aver partecipato all'apposizione dei sigilli, stava redigendo una citazione nello studio del presidente, dove la signora de Marville lo aveva fatto entrare su invito dei due pubblici ufficiali, che consideravano l'affare troppo sporco perché un presidente vi si cacciasse, come loro dicevano e che avevano voluto esprimere la loro opinione alla signora de Marville senza che Fraisier potesse udirli.
    «Ebbene, signora, dove sono quei signori?», chiese l'ex procuratore di Mantes.
    «Andati via!... dicendomi di rinunciare all'affare!», rispose la signora de Marville.
    «Rinunciare!», disse Fraisier con un accento di rabbia trattenuta. «Ascoltate, signora...».
    E lesse il testo che segue:

    «Su richiesta di, ecc... (tralascio lo sproloquio)
    «Considerato che è stato depositato nelle mani del signor presidente del tribunale di prima istanza un testamento ricevuto dai signori Léopold Hannequin e Alexandre Crottat, notai a Parigi, accompagnati da due testimoni, i signori Brunner e Schwab, stranieri domiciliati a Parigi, col quale testamento il signor Pons, deceduto, ha disposto del suo patrimonio, in pregiudizio del ricorrente, suo erede naturale e legale, a favore del signor Schmucke, tedesco;
    «Considerato che il ricorrente intende dimostrare che il testamento è l'opera di un'odiosa captazione e il risultato di manovre illegittime; che sarà provato da persone eminenti come l'intenzione del testatore fosse di lasciare il suo patrimonio alla signorina Cécile, figlia del suddetto signore de Marville; e che il testamento di cui il ricorrente chiede l'annullamento è stato carpito al testatore mentre si trovava in uno stato di totale demenza;
    «Considerato che il signor Schmucke, per ottenere questo legato universale, ha tenuto prigioniero in casa il testatore, ha impedito alla famiglia di avvicinarsi al suo letto di morte e, ottenuto il risultato, si è abbandonato a pubblici atti di ingratitudine che hanno scandalizzato gli inquilini e gli abitanti del quartiere che, per caso, erano presenti per rendere l'estremo saluto al portiere della casa in cui è morto il testatore;
    «Considerato che fatti ancora più gravi, di cui il ricorrente sta cercando in questo momento le prove, saranno esposti ai signori giudici del tribunale;
    «Io, usciere sottoscritto, ecc. ecc., a nome del predetto, ho citato il signor Schmucke a comparire davanti ai signori giudici componenti la prima sezione del tribunale, per farsi dichiarare che il testamento ricevuto dai signori Hannequin e Crottat, essendo il risultato di una captazione evidente, sarà considerato nullo e di nessun effetto; e ho inoltre, a nome del predetto, fatto opposizione contro la qualità e la capacità di legatario universale che potrebbe assumere il signor Schmucke, intendendo il ricorrente opporsi, come infatti si oppone, con la sua citazione in data odierna, presentata al signor presidente, all'entrata in possesso richiesta dal predetto signor Schmucke, al quale ho lasciato copia del presente atto, del costo di...» ecc.

    «Conosco il mio uomo, signora presidentessa; quando avrà letto questo biglietto amoroso, chiederà una transazione. Si consulterà con Tabareau. Tabareau gli dirà di accettare le nostre proposte! Siete disposta a concedere i mille franchi di rendita vitalizia?».
    «Certo! Vorrei già poter pagare la prima rata».
    «Sarà fatto entro tre giorni... La citazione lo coglierà nel primo stordimento del suo dolore, perché è affranto per la morte di Pons, quel povero diavolo. Ha preso molto sul serio la sua perdita».
    «Una citazione presentata si può ritirare?», disse la presidentessa.
    «Certamente, signora, si può desistere in ogni momento».
    «E allora, signore», disse la signora Camusot, «andate avanti!... Sì, l'affare che state combinando ne vale la pena! Del resto ho già risolto la questione delle dimissioni di Vitel, ma sarete voi a pagare i sessantamila franchi a Vitel, prendendoli dalla successione di Pons... Come vedete, bisogna riuscirci...».
    «Avete le sue dimissioni?».
    «Sì, signore; il signor Vitel si fida del signor de Marville...».
    «Ebbene, signora, vi ho già fatto risparmiare sessantamila franchi che calcolavo dovessero essere dati a quell'ignobile portiera, la signora Cibot. Ma tengo ancora ad avere lo spaccio di tabacchi per la signora Sauvage, e la nomina del mio amico Poulain al posto vacante di primario dei Quinze-Vingts».
    «Siamo d'accordo, tutto è combinato».
    «Ebbene, ci siamo detti tutto... Sono tutti dalla vostra parte in questa faccenda, compreso Gaudissart, il direttore del teatro, che sono andato a trovare ieri e che mi ha promesso di rendere innocuo l'inserviente, che potrebbe sconvolgere i nostri progetti».
    «Oh! lo so. Il signor Gaudissart è molto legato ai Popinot!».
    Fraisier uscì. Sventuratamente non incontrò Gaudissart, e la fatale citazione fu subito notificata.
    Tutte le persone avide comprenderanno, e le persone oneste esecreranno, la gioia della presidentessa alla quale, venti minuti dopo che Fraisier se n'era andato, Gaudissart riferì il colloquio con il povero Schmucke. La presidentessa approvò tutto, e fu molto grata al direttore del teatro per averle tolto ogni scrupolo con considerazioni che trovò piene di buon senso.
    «Signora presidentessa», disse Gaudissart, «mentre venivo qui pensavo che quel povero diavolo non saprebbe che farsene di tanta ricchezza! È di una semplicità patriarcale! È ingenuo, è tedesco, è da impagliare, è da mettere sotto vetro come un Gesù bambino di cera! Voglio dire che a mio avviso è già piuttosto imbarazzato coi suoi duemilacinquecento franchi di rendita, e voi lo spingete alla dissolutezza...».
    «È un gesto di grande nobiltà», disse la presidentessa, «arricchire quello scapolo che rimpiange nostro cugino. Ma, per quanto mi riguarda, deploro quel piccolo battibecco che interruppe le relazioni tra il signor Pons e me; se fosse tornato, tutto gli sarebbe stato perdonato. Sapeste quanto manca a mio marito! Il signor de Marville si è disperato per non essere stato informato della sua morte, lui che ha il culto dei doveri familiari; avrebbe assistito alla funzione religiosa, al funerale, alla sepoltura... io stessa sarei andata alla messa...».
    «Allora, bella signora», disse Gaudissart, «fate preparare l'atto; alle quattro porterò con me il tedesco... Raccomandatemi, signora, alla benevolenza della vostra incantevole figlia, la viscontessa Popinot; che dica al mio illustre amico, al suo caro ed eccellente padre, a quel grande uomo di Stato, quanto io sia devoto a tutti i suoi, e che continui a riservarmi il suo prezioso favore. Ho dovuto la vita a suo zio, il giudice, e gli devo la mia fortuna... Vorrei ricevere da voi e da vostra figlia quell'alta considerazione che si ha per le persone potenti e autorevoli. Voglio lasciare il teatro, e diventare un uomo serio».
    «Ma voi lo siete, signore!», disse la presidentessa.
    «Adorabile!», proseguì Gaudissart baciando l'arida mano della signora de Marville.

CONCLUSIONE

    Alle quattro si trovavano riuniti nello studio del signor Berthier, notaio, innanzitutto Fraisier, estensore della transazione, poi Tabareau, fiduciario di Schmucke, e lo stesso Schmucke che era stato portato da Gaudissart. Fraisier aveva pensato di mettere bene in vista, in biglietti di banca, i seimila franchi richiesti e i seicento franchi della prima rata del vitalizio, sulla scrivania del notaio e sotto gli occhi del tedesco che, stupito di vedere tanto denaro, non prestò la minima attenzione al documento che gli veniva letto. Il pover'uomo, che Gaudissart era andato a prendere al ritorno dal cimitero, dove si era intrattenuto con Pons e gli aveva promesso di raggiungerlo, non era nel pieno possesso delle sue facoltà, gravemente scosse da tanti colpi. Dunque non ascoltò il preambolo dell'atto, nel quale compariva come assistito di Tabareau, ufficiale giudiziario, suo fiduciario e consulente, e dove si ricordavano le ragioni della causa intentata dal presidente nell'interesse della figlia. Il tedesco ci faceva una gran brutta figura, e firmando l'atto avallava le spaventose affermazioni di Fraisier; ma fu talmente contento di vedere il denaro che avrebbe dato alla famiglia Topinard, così felice di far diventare ricco, come credeva nel suo piccolo, l'unico uomo che avesse voluto bene a Pons, che non udì una sola parola di quell'atto di transazione. A metà lettura del documento, entrò nella stanza un giovane di studio.
    «Signore», disse al notaio, «c'è di là un uomo che chiede di parlare con il signor Schmucke...».
    Il notaio, a un gesto di Fraisier, alzò le spalle in modo significativo.
    «Non disturbateci mai quando firmiamo un atto! Chiedete il nome di quel... è un uomo qualunque o un signore? È un creditore?...».
    Il giovane tornò e disse:
    «Vuole assolutamente parlare con il signor Schmucke».
    «Come si chiama?».
    «Topinard».
    «Vado io. Firmate tranquillamente», disse Gaudissart a Schmucke. «Concludete, vado a sentire cosa vuole».
    Gaudissart aveva capito cosa voleva dire Fraisier con il suo gesto, e ognuno di loro fiutava un pericolo.
    «Che vieni a fare qui?», disse il direttore all'inserviente. «Non vuoi diventare cassiere? Il primo merito di un cassiere è la discrezione».
    «Signore...».
    «Pensa agli affari tuoi, non sarai mai nessuno se t'immischi in quelli degli altri».
    «Signore, io non mangerò del pane che mi rimarrebbe in gola a ogni boccone!... Signor Schmucke!», gridava.
    Schmucke, che aveva firmato e teneva in mano il denaro, venne incontro a Topinard di cui aveva udito la voce.
    «Questo è per la piccola tedesca e per voi...».
    «Ah! caro signor Schmucke, avete arricchito dei mostri, della gente che vuole infamarvi. Ho portato questa carta a un brav'uomo, un procuratore che conosce quel Fraisier, e dice che voi dovete punire tanta scelleratezza accettando il processo, e che loro dovranno ritirarsi... Leggete».
    E quell'amico imprudente gli consegnò la citazione che era stata inviata a Schmucke, rione Bordin. Schmucke la prese, la lesse, e vedendosi trattato in quel modo, non comprendendo i termini procedurali, ricevette un colpo mortale. Quel calcolo gli ostruì il cuore. Cadde tra le braccia di Topinard mentre si trovavano entrambi sul portone del notaio. In quel momento passava una vettura, e Topinard vi fece salire il povero tedesco; una congestione sierosa al cervello gli provocava forti dolori. La vista era offuscata; ma il musicista ebbe ancora la forza di porgere il denaro a Topinard. Schmucke non fu ucciso da quel primo attacco, ma non ritrovò mai più la ragione; faceva soltanto dei movimenti inconsapevoli. Smise di mangiare. Morì in dieci giorni, senza lamentarsi perché non parlò più. Fu assistito dalla signora Topinard, e fu sepolto oscuramente accanto a Pons, grazie a Topinard, l'unica persona che seguì il funerale di quel figlio della Germania.
    Fraisier, nominato giudice di pace, è oggi intimo amico della famiglia del presidente, molto apprezzato dalla presidentessa che non ha voluto che sposasse la figlia di Tabareau, e che promette un partito infinitamente migliore all'uomo cui deve, così dice, non solo l'acquisto dei prati di Marville e del cottage, ma la stessa elezione del signor presidente de Marville a deputato, nelle elezioni generali del 1846.
    Tutti vorranno sicuramente sapere che ne è stato dell'eroina di questa storia, disgraziatamente troppo veritiera nei suoi dettagli, e che, sovrapposta alla precedente di cui è gemella, dimostra come la grande forza sociale sia il carattere. Voi indovinate, collezionisti, esperti e mercanti, che si tratta della collezione di Pons! Basterà assistere a una conversazione che si è svolta in casa del conte Popinot, che pochi giorni fa mostrava la sua magnifica collezione ad alcuni stranieri.
    «Signor conte», diceva uno straniero assai distinto, «voi possedete dei tesori!».
    «Oh, milord!», rispose con modestia il conte Popinot, «in materia di quadri nessuno, non dico a Parigi, ma in Europa, può vantarsi di competere con uno sconosciuto, un ebreo che si chiama Élie Magus, un vecchio maniaco, il capo dei quadromani. Costui ha raccolto più di cento quadri, di una tale qualità da scoraggiare gli amatori che pensino di iniziare altre collezioni. La Francia dovrebbe sacrificare da sette a otto milioni di franchi per comprare la sua galleria, alla morte di quel riccastro... Quanto alle curiosità, la mia collezione è abbastanza bella perché se ne parli...».
    «Ma come ha fatto un uomo impegnato come voi, la cui ricchezza iniziale è stata guadagnata nell'onesto commercio...».
    «... di generi coloniali», disse Popinot, «e ha potuto continuare a occuparsi di droghe...».
    «No, non dico questo», continuò lo straniero. «Dove trovate il tempo per cercare gli oggetti? Le curiosità non vi entrano certo in casa da sole...».
    «Mio padre aveva già», disse la viscontessa Popinot, «un primo nucleo della collezione; amava le arti, le belle opere; ma la maggior parte di queste ricchezze proviene da me!».
    «Da voi, signora?... Così giovane, avevate già quel vizio?...», disse un principe russo.
    I russi sono talmente inclini all'imitazione che tutte le malattie della civiltà si ripercuotono su di loro. La bricobracomania furoreggia a Pietroburgo e, a causa del coraggio naturale di quel popolo, ne consegue che i russi hanno provocato un tale aumento dei prezzi nell'articolo, come direbbe Rémonencq, che le collezioni diverranno impossibili. E quel principe si trovava a Parigi per una sola ragione: collezionare.
    «Principe», disse la viscontessa, «ho avuto questo tesoro in eredità da un cugino che mi voleva molto bene e che aveva passato più di quarant'anni, dal 1805 in poi, a raccogliere in ogni paese, soprattutto in Italia, questi capolavori...».
    «Come si chiamava?», chiese il milord.
    «Pons!», disse il presidente Camusot.
    «Era un uomo incantevole», continuò la presidentessa con la sua vocina flautata, «intelligentissimo, originale, e di gran cuore. Il ventaglio che state ammirando, milord, e che appartenne alla Pompadour, me lo donò un mattino con un complimento che mi permetterete di non ripetere...».
    E lanciò uno sguardo alla figlia.
    «Ditecelo», chiese il principe russo, «signora viscontessa».
    «Il complimento vale il ventaglio!...», rispose la viscontessa, che ripeteva sempre le stesse parole. «Disse a mia madre che era ormai tempo che ciò che era stato nelle mani del vizio passasse nelle mani della virtù».
    Il milord guardò la signora Camusot de Marville con un'aria dubbiosa assai lusinghiera per una donna così arida.
    «Cenava da me tre o quattro volte la settimana», proseguì la presidentessa, «ci voleva così bene! Noi sapevamo apprezzarlo, e gli artisti stanno volentieri con chi apprezza il loro spirito. Del resto, mio marito era il suo unico parente. E quando il signor de Marville ha ricevuto quest'eredità, che non si aspettava affatto, il signor conte ha preferito acquistare tutto in blocco piuttosto che lasciar vendere all'asta la collezione; anche noi abbiamo preferito venderla in questo modo, perché è talmente penoso veder disperdere delle belle cose che avevano tanto divertito il nostro caro cugino! Il perito fu Élie Magus; è così, milord, che ho potuto avere il cottage costruito da vostro zio, dove ci farete l'onore di venire a trovarci».
    Il cassiere del teatro, la cui concessione ceduta da Gaudissart è passata da un anno in altre mani, è sempre il signor Topinard; ma il signor Topinard è diventato tetro, misantropo, e parla poco; passa per aver commesso un crimine, e in teatro i maligni sostengono che il suo malumore deriverebbe dall'avere sposato Lolotte. Il nome di Fraisier fa sussultare l'onesto Topinard. Forse sembrerà strano che l'unica anima degna di Pons sia stata trovata nei sotterranei di un teatro di boulevard.
    La signora Rémonencq, colpita dalla predizione della signora Fontaine, non vuole ritirarsi in campagna, e rimane nel suo magnifico negozio sul boulevard de la Madeleine, di nuovo vedova. Infatti l'alverniate, dopo essersi fatto attribuire per contratto di matrimonio i beni al superstite, aveva messo a portata di mano della moglie un bicchierino di vetriolo, contando su un errore; ma poiché la moglie, con le migliori intenzioni, aveva messo altrove il bicchierino, Rémonencq se lo bevve. Questa fine, degna di quello scellerato, testimonia a favore della Provvidenza, che i pittori dei costumi sociali sono accusati di dimenticare, forse a causa dei finali dei drammi che ne abusano.
    Scusate gli errori del copista.

Parigi, luglio 1846 - maggio 1847.