Honoré deBalzac
Il cugino Pons
I • UN GLORIOSO RELITTO DELL'IMPERO
Verso le tre del pomeriggio, nell'ottobre del
1844, un uomo di una sessantina d'anni che ne dimostrava molti di
più camminava lungo il boulevard des Italiens, naso a terra e aria
soddisfatta, come un negoziante che avesse appena concluso un affare
eccellente o un ragazzo appena uscito tutto soddisfatto da un
boudoir. A Parigi è questa l'espressione più eloquente dell'umana
soddisfazione. Scorgendo da lontano quel vecchio, le persone che
stavano lì ogni giorno sedute sulla sedia, abbandonandosi al piacere
di osservare i passanti, lasciavano affiorare sul volto quel sorriso
tipico dei parigini, ironico, beffardo o compassionevole, che
tuttavia per animare l'espressione di un parigino, abituato a ogni
genere di spettacoli, richiede una dose di curiosità non comune.
Un aneddoto può far capire sia il valore
archeologico di quel brav'uomo, sia la ragione di quel sorriso che
si ripeteva come un'eco in ogni sguardo. Fu chiesto a Hyacinthe, un
attore celebre per le sue battute, dove mai si facesse fare quei
cappelli che alla loro apparizione suscitavano esplosioni di risate
in sala. Rispose: «Non li faccio fare! Io li conservo». Ebbene, nel
milione d'attori che compone la grande compagnia di Parigi
s'incontrano degli Hyacinthe che non sanno di esserlo: questi attori
inconsapevoli sono un vero concentrato di tutte le ridicolaggini di
un'epoca e sembrano impersonare un intero periodo storico, per
strapparvi una ventata di buonumore mentre passeggiate ingoiando
qualche amaro dispiacere provocato dal tradimento di un ex amico.
Mantenendosi comunque fedele, in qualche
particolare dell'abbigliamento, alla moda del 1806, quel passante
ricordava l'Impero senza sembrare una caricatura. Per gli
osservatori, una tale finezza rende estremamente preziose le
rievocazioni di questo genere. Ma quell'insieme di piccoli dettagli
richiedeva l'attenzione analitica di cui sono dotati i più consumati
perdigiorno; e, per provocare il riso da lontano, quel passante
doveva offrire uno di quei paradossi che saltano immediatamente agli
occhi e che gli attori ricercano per garantirsi il successo
dell'entrata in scena. Il vecchio, asciutto e magro, portava uno
spencer color nocciola sopra una giacca verdastra con bottoni di
metallo bianco!... Un uomo in spencer nel 1844 è come se Napoleone
si fosse degnato di resuscitare per un paio d'ore.
Lo spencer fu inventato, come dice il nome, da un
lord certamente orgoglioso del proprio portamento. Prima della pace
di Amiens quest'inglese aveva risolto il problema di coprire il
busto senza schiacciare il corpo sotto il peso di quell'orribile
carrick che oggi è finito sulle spalle dei vecchi fiaccherai; ma
poiché le figure snelle sono rare, la moda dello spencer da uomo in
Francia riscosse un successo effimero, nonostante si trattasse di
un'invenzione inglese. Alla vista dello spencer le persone tra i
quaranta e i cinquant'anni rivestivano mentalmente quel signore di
stivali con i risvolti, di pantaloni di casimir verde pistacchio con
nastri annodati, e si rivedevano negli abiti della giovinezza! Le
vecchie si ricordavano delle loro conquiste! Quanto ai giovani, si
chiedevano perché mai quel vecchio Alcibiade avesse tagliato la coda
al paltò. Tutto si accordava talmente bene con quello spencer che
non avreste esitato a definire quel passante «un uomo Impero», così
come si dice un «mobile Impero»; ma era un simbolo dell'Impero solo
per coloro ai quali quell'epoca magnifica e grandiosa è nota almeno
de visu; infatti richiedeva una certa fedeltà ai ricordi in materia
di moda. L'Impero è già talmente lontano da noi che non tutti
possono immaginarlo nella sua realtà gallo-greca.
Il cappello all'indietro lasciava scoperta quasi
interamente la fronte, con quell'atteggiamento di spavalderia con
cui gli impiegati e i borghesi, in quegli anni, cercavano di
rispondere a quella dei militari. Era un orribile cappello di seta
da quattordici franchi, sui cui bordi interni due orecchi alti e
larghi avevano impresso delle macchie biancastre, combattute invano
dalla spazzola. Il tessuto di seta applicato malamente, come sempre,
sul cartone della forma, faceva qua e là delle pieghe e pareva
aggredito dalla lebbra nonostante la mano che ogni mattina lo
lisciava.
Sotto il cappello, che sembrava sul punto di
sfondarsi, si stendeva una di quelle facce strane e comiche che
soltanto i cinesi sanno inventare per le loro statuine grottesche.
Il volto largo, bucherellato come una schiumarola i cui fori
formavano delle ombre, e scavato come una maschera romana, smentiva
tutte le leggi dell'anatomia. Lo sguardo non riusciva a scorgervi
alcuna struttura. Là dove il disegno esigeva delle ossa, la carne
presentava dei piani gelatinosi, e là dove i volti hanno di solito
delle cavità, il suo sporgeva in flaccide protuberanze. Quella
faccia grottesca, schiacciata a forma di fungo, intristita dagli
occhi grigi sormontati da due linee rosse al posto delle
sopracciglia, era sovrastata da un naso alla don Chisciotte, come
una pianura è dominata da un masso erratico. Un naso simile esprime,
come ebbe a notare Cervantes, una naturale tendenza a quella
dedizione ai grandi ideali che degenera in stupidità. Eppure quella
bruttezza, perfino comica, non faceva ridere affatto. L'estrema
malinconia che traboccava dagli occhi smorti del pover'uomo colpiva
la persona beffarda e le gelava il sarcasmo sulle labbra. Veniva
subito da pensare che la natura avesse proibito a quel brav'uomo di
esprimere affetto, a meno di suscitare il riso di una donna o di
affliggerla. Il francese ammutolisce di fronte alla sventura che
considera la più crudele di tutte: non poter piacere!
II • UN ABBIGLIAMENTO COME SE NE VEDONO POCHI
Quell'uomo trattato così male dalla natura era
vestito come i nobili decaduti ai quali i ricchi cercano spesso di
somigliare. Le scarpe erano coperte da ghette, sul modello di quelle
della guardia imperiale, che certamente gli permettevano di tenere
gli stessi calzini per un certo tempo. I pantaloni di panno nero
avevano dei riflessi rossastri e, sulle pieghe, linee bianche o
lucide le quali, non meno del taglio, facevano risalire a tre anni
prima la data dell'acquisto. L'ampiezza dell'abito nascondeva
malamente una magrezza dovuta più alla costituzione fisica che a un
regime vegetariano; infatti il buonuomo, dotato di una bocca
sensuale dalle labbra carnose, quando sorrideva mostrava dei denti
bianchi degni di un pescecane. Il panciotto a scialle, anch'esso di
panno nero, sopra un altro panciotto bianco sotto il quale luccicava
in terza linea l'orlo di una maglia rosa, vi riportava alla memoria
i cinque panciotti di Garat. Un'enorme cravatta di mussola bianca il
cui nodo pretenzioso era stato creato da qualche bellimbusto per
incantare le femmes charmantes del 1809, oltrepassava talmente il
mento che la faccia sembrava sprofondarvi come in un abisso. Un
cordone di seta intrecciata che simulava dei capelli attraversava la
camicia e proteggeva l'orologio da un improbabile furto. La giacca
verdastra, decisamente pulita, aveva almeno tre anni più dei
pantaloni; ma il colletto di velluto nero e i bottoni di metallo
bianco rinnovati da poco rivelavano meticolose cure domestiche.
Quel modo di tenere il cappello sulla nuca, il
triplice panciotto, l'immensa cravatta nella quale sprofondare il
mento, le ghette, i bottoni di metallo sulla giacca verdastra, tutte
queste vestigia delle mode imperiali si armonizzavano con il sapore
antico della civetteria degli Incroyables, con quel non so che di
minuto nelle pieghe, di corretto e di essenziale nell'insieme, che
ricordava la scuola di David e gli slanciati mobili di Jacob. Si
riconosceva del resto a prima vista un uomo ben educato in preda a
qualche vizio segreto, o una di quelle persone la cui rendita è così
modesta e condiziona a tal punto le loro spese che un vetro rotto,
uno strappo al vestito o la sciagura di una colletta filantropica
bastano da soli a cancellare i loro piccoli piaceri per un mese
intero. Se vi foste trovati lì, vi sareste chiesti perché mai il
sorriso animasse quella faccia grottesca la cui espressione abituale
doveva essere triste e fredda, come quella di tutti coloro che
lottano oscuramente per far fronte alle triviali necessità
dell'esistenza. Ma, osservando la precauzione materna con cui quel
vecchio singolare teneva nella mano destra un oggetto sicuramente
prezioso, sotto i due lembi sinistri della sua doppia giacca per
proteggerlo da urti imprevisti; e soprattutto notando in lui l'aria
indaffarata che assumono gli oziosi incaricati di qualche
commissione, vi sarebbe sorto il sospetto che avesse ritrovato
qualcosa di equivalente al cagnolino di una marchesa e che lo stesse
riportando trionfante, con la premurosa galanteria di un «uomo
Impero», all'incantevole dama sessantenne che ancora non ha saputo
rinunciare alla visita quotidiana del suo cicisbeo. Parigi è l'unica
città al mondo dove potreste assistere a spettacoli del genere, che
fanno dei suoi boulevards un dramma ininterrotto, rappresentato
gratis dai francesi a profitto dell'Arte.
III • LA FINE DI UN GRAND PRIX DE ROME
Dato il profilo di quell'uomo ossuto e nonostante
il suo audace spencer, difficilmente lo avreste classificato nella
categoria degli artisti parigini: individui convenzionali che hanno
la grande capacità, quasi come i monelli di Parigi, di risvegliare
nell'immaginazione dei borghesi le giovialità più mirabolanti, visto
che è stato riportato in auge questo termine disusato e pittoresco.
Eppure quel passante era un grand prix, l'autore della prima cantata
premiata all'Institut nel momento in cui fu di nuovo insediata
l'Académie de Rome, insomma si trattava di Sylvain Pons!... l'autore
di celebri romanze gorgheggiate dalle nostre madri, di due o tre
opere rappresentate nel 1815 e nel 1816, e di alcune partiture
inedite. Quell'uomo di valore era finito come direttore d'orchestra
in un teatro dei boulevards. Grazie al suo aspetto, era professore
in qualche pensionato per fanciulle, e non aveva altra rendita che i
suoi emolumenti e le sue lezioni. Correre dietro alle lezioni
private a quell'età!... Quanti misteri in una situazione così poco
romantica!
Quell'ultimo porta-spencer portava dunque su di
sé ben altro che i simboli dell'Impero; portava anche un grande
insegnamento scritto sui suoi tre panciotti. Mostrava gratis una
delle numerose vittime di quel fatale e funesto sistema chiamato
«concorso», che ancora regna in Francia dopo cent'anni di esperienze
senza risultati. Questo torchio delle intelligenze fu inventato da
Poisson de Martigny, il fratello di madame de Pompadour, nominato
direttore delle Belle Arti nel 1746. Ora, provate a contare sulle
dita le persone di genio che sono uscite in un secolo dalle file
degli artisti laureati! Anzitutto, nessuno sforzo amministrativo o
scolastico sostituirà mai i miracoli del caso, cui si devono i
grandi uomini. Tra tutti i misteri della nascita è questo il più
inaccessibile alla nostra ambiziosa analisi moderna. Poi, cosa
pensereste degli egiziani che, si dice, inventarono dei forni per
far schiudere le uova, se non avessero subito imbeccato i pulcini?
Così tuttavia si comporta la Francia, che cerca di produrre degli
artisti con la «serra calda» del concorso; e una volta ottenuti con
questo procedimento meccanico lo scultore, il pittore, l'incisore,
il musicista, non se ne occupa più di quanto il dandy si curi la
sera del fiore che ha messo all'occhiello. Accade così che l'uomo di
talento è Greuze o Watteau, Félicien David o Pagnest, Géricault o
Decamps, Auber o David d'Angers, Eugène Delacroix o Meissonier,
persone del tutto noncuranti dei grands prix e nate in piena terra
sotto i raggi di quel sole invisibile che si chiama vocazione.
Inviato dallo Stato a Roma perché diventasse un
grande musicista, Sylvain Pons ne aveva riportato il gusto delle
antichità e della bellezza artistica. S'intendeva mirabilmente di
tutte quelle cose, capolavori della mano e del pensiero, che il
gergo popolare indicava con il nuovo termine di bric-à-brac. Questo
figlio di Euterpe tornò dunque a Parigi, intorno al 1810,
collezionista accanito, carico di quadri, statuine, cornici,
sculture in avorio, in legno, smalti, porcellane ecc. che, durante
il suo soggiorno accademico a Roma, avevano assorbito la maggior
parte dell'eredità paterna sia per le spese di trasporto che per
quelle di acquisto. Aveva impiegato nello stesso modo l'eredità
materna durante il viaggio in Italia, al termine dei tre anni del
soggiorno ufficiale a Roma. Allora visitò in assoluta libertà
Venezia, Milano, Firenze, Bologna, Napoli, soggiornando in ogni
città da sognatore, da filosofo, con la noncuranza dell'artista che
per vivere conta sul proprio talento, come le ragazze di vita
contano sulla propria bellezza. Durante quello splendido viaggio,
Pons fu felice quanto poteva esserlo un uomo sensibile e delicato
cui la bruttezza impediva successi con le donne, per usare una
celebre espressione del 1809, e che trovava le cose della vita
sempre al di sotto del tipo ideale che se ne era creato, e aveva
tratto profitto da questa discordanza tra il suono della sua anima e
la realtà. Questo sentimento del bello, conservato puro e vivo nel
suo cuore, fu certamente all'origine delle melodie ingegnose, fini,
piene di grazia, che gli procurarono una certa notorietà tra il 1810
e il 1814. In Francia ogni notorietà che si fondi sul successo,
sulla moda, sulle follie effimere di Parigi, produce dei Pons. Non
esiste un altro paese dove si sia tanto severi nei confronti delle
grandi cose, e così sdegnosamente indulgenti verso le piccole. Se
Pons, ben presto annegato nei flutti dell'armonia tedesca e nella
produzione rossiniana, nel 1824 era ancora un musicista piacevole e
noto per qualche ultima romanza, figuratevi cosa poteva essere nel
1831! Così nel 1844, l'anno in cui ebbe inizio l'unico dramma della
sua vita oscura, Sylvain Pons aveva raggiunto il valore di una croma
antidiluviana; i negozianti di musica ignoravano completamente la
sua esistenza, benché componesse - a prezzi modesti - la musica per
qualche spettacolo nei teatri della zona.
Quel brav'uomo, del resto, rendeva giustizia ai
celebri maestri del nostro tempo; una bella esecuzione di qualche
brano scelto lo faceva piangere; ma la sua religione non giungeva
fino a rasentare la mania come nei Kreisler di Hoffmann; non la
lasciava apparire e godeva dentro di sé alla maniera dei fumatori di
hashish o dei teriaschi. Il genio dell'ammirazione, della
comprensione, la sola facoltà grazie alla quale un uomo ordinario
diventa fratello di un grande poeta, è talmente raro a Parigi, dove
tutte le idee somigliano a viaggiatori di passaggio in una locanda,
che a Pons deve essere accordata una stima piena di rispetto.
L'insuccesso del brav'uomo può sembrare eccessivo, ma era lui stesso
a confessare ingenuamente la sua debolezza in armonia: aveva
trascurato lo studio del contrappunto; e la strumentazione moderna,
ampliata oltre misura, gli sembrò inaccessibile nel momento in cui,
grazie a nuovi studi, avrebbe potuto rimanere tra i compositori
moderni e diventare non certo Rossini ma Hérold. Allora trovò nei
piaceri del collezionista così vive compensazioni alla gloria
mancata che, se avesse dovuto scegliere tra il possesso delle sue
«curiosità» e il nome di Rossini - lo credereste? -, Pons avrebbe
optato per il suo caro cabinet. Il vecchio musicista applicava
l'assioma di Chenavard, l'esperto collezionista di preziose
incisioni, secondo cui non può procurare alcun piacere la
contemplazione di un Ruysdael, di un Hobbéma, di un Holbein, di un
Raffaello, di un Murillo, un Greuze, un Sebastiano del Piombo, un
Giorgione, un Albrecht Dürer, quando il quadro sia costato più di
cinquanta franchi. Pons non concepiva acquisti al di sopra dei cento
franchi; e, per pagare un oggetto cinquanta franchi, doveva valerne
tremila. La cosa più bella del mondo, se costava trecento franchi
per lui non esisteva. Le occasioni erano state rare; ma egli
possedeva i tre elementi del successo: le gambe del cervo, il tempo
degli sfaccendati e la pazienza dell'israelita.
Questo sistema, praticato per quarant'anni sia a
Roma che a Parigi, aveva dato i suoi frutti. Dopo aver speso, da
quando era tornato da Roma, circa duemila franchi all'anno, Pons
nascondeva ad ogni sguardo una collezione di capolavori d'ogni
genere il cui catalogo raggiungeva ormai il favoloso numero 1907.
Dal 1811 al 1816, nelle sue corse attraverso
Parigi, aveva trovato per dieci franchi ciò che oggi si paga dai
mille ai milleduecento franchi. Si trattava di quadri selezionati
tra i quarantacinquemila che ogni anno sono esposti in vendita a
Parigi; di porcellane di Sèvres, pasta tenera, acquistate dagli
alverniati, satelliti della «banda nera», che riportavano sui
carretti le meraviglie della Francia ai tempi della Pompadour. Poi
aveva raccolto i resti del Seicento e del Settecento rendendo
giustizia agli uomini di spirito e di genio della scuola francese,
quei grandi sconosciuti come i Lepautre, i Lavallée-Poussin ecc.,
che hanno creato il genere Luigi XV, il genere Luigi XVI, e le cui
opere oggi alimentano le sedicenti invenzioni dei nostri artisti,
continuamente curvi sui tesori del Cabinet des estampes per creare
il nuovo attraverso abili rifacimenti. Pons doveva molti dei suoi
pezzi agli scambi: ineffabile gioia dei collezionisti! Il piacere di
acquistare delle curiosità non è che il secondo; il primo è il
baratto. Pons aveva iniziato per primo a collezionare tabacchiere e
miniature. Non essendo una celebrità nella «bricabracologia», dal
momento che non frequentava le aste, non si faceva vedere presso i
mercanti più noti. E ignorava il valore commerciale del suo tesoro.
Il defunto Dusommerard aveva tentato di entrare
in rapporto con il musicista; ma il principe del bric-à-brac morì
senza essere riuscito a entrare nel museo Pons, l'unico che avrebbe
potuto competere con la famosa collezione Sauvageot. Pons e
Sauvageot avevano qualcosa in comune. Sauvageot, musicista come
Pons, e come lui senza grandi risorse, aveva proceduto nello stesso
modo, con gli stessi mezzi, con lo stesso amore per l'arte, con lo
stesso odio per quegli illustri ricchi che mettono insieme le loro
collezioni per fare concorrenza ai mercanti d'arte. Proprio come il
suo rivale, il suo emulo, il suo antagonista, per tutte quelle opere
della mano dell'uomo, per quei prodigi del lavoro, Pons sentiva nel
cuore un'insaziabile avarizia, l'amore dell'innamorato per una bella
amante, e l'asta, nelle sale della rue des Jeûneurs, coi colpi di
martello dei periti, gli sembrava un crimine di leso bric-à-brac.
Possedeva il suo museo per goderne ad ogni ora, perché le anime
create per ammirare le grandi opere hanno la sublime facoltà dei
veri amanti; provano oggi lo stesso piacere di ieri, non si stancano
mai, e i capolavori restano sempre giovani. Perciò quell'oggetto
tenuto con atteggiamento tanto paterno doveva essere una di quelle
cose trovate per caso, che si portano via con quella passione che
voi, amatori, conoscete così bene!
Ai primi tratti di questo profilo biografico,
tutti esclameranno: «Ecco, malgrado la sua bruttezza, l'uomo più
felice della terra!». In effetti, nessun fastidio, nessun malumore
resiste alla ventosa che afferra l'anima quando si cede a una mania.
Tutti voi che non potete più bere a quella che in ogni tempo è stata
chiamata la coppa del piacere, mettetevi a collezionare qualunque
cosa (si sono fatte collezioni di manifesti), e ritroverete il
lingotto della felicità in spiccioli. Una mania è il piacere
trasferito allo stato di idea! Tuttavia non invidiate quel brav'uomo
di Pons; questo sentimento, come ogni passione del genere, si
fonderebbe su un errore.
Quest'uomo delicatissimo, la cui anima viveva di
un'ammirazione inesauribile per la magnificenza del lavoro umano, la
nobile gara con le opere della natura, era lo schiavo di quello dei
sette peccati capitali che forse Dio punisce meno severamente: Pons
era goloso. I suoi mezzi limitati e la sua passione per il
bric-à-brac gli imponevano un regime dietetico talmente orribile per
la sua gola raffinata, che all'inizio lo scapolo aveva risolto il
problema andando tutti i giorni a pranzo fuori. Ora, sotto l'Impero,
si ebbe più che ai giorni nostri un vero culto per le celebrità,
forse a causa del loro piccolo numero e delle loro modeste ambizioni
politiche. Si diventava poeti, scrittori, musicisti così facilmente!
Pons, considerato il probabile rivale dei Nicolò, dei Paer e dei
Berton, ricevette in quel periodo così tanti inviti che fu costretto
ad annotarli su un'agenda, come gli avvocati annotano le loro
udienze. Comportandosi, del resto, da artista, offriva esemplari
delle sue romanze a tutti i suoi anfitrioni, suonava il piano in
casa loro, e offriva palchi al Feydeau, il teatro per cui lavorava e
dove organizzava concerti; talvolta suonava il violino a casa dei
suoi parenti e improvvisava ballabili.
IV • DOVE SI VEDE CHE UN FAVORE NON È SEMPRE RICAMBIATO
In quel tempo gli uomini più belli di Francia
scambiavano colpi di spada con gli uomini più belli della
coalizione; la bruttezza di Pons fu quindi chiamata «originalità»,
secondo la grande legge promulgata da Molière nel famoso couplet di
Éliante. Avendo reso qualche servizio a una «bella dama», talvolta
si sentì definire «un uomo delizioso», ma la sua fortuna non andò
mai oltre questa parola.
Durante questo periodo, che durò circa sei anni,
dal 1810 al 1816, Pons contrasse la funesta abitudine di concedersi
dei buoni pranzi, di vedere che chi lo invitava si accollava delle
spese per procurarsi le primizie, stappare i vini migliori, curare
il dessert, il caffè, i liquori, e trattarlo nel migliore dei modi
come usava sotto l'Impero quando in molte case si imitavano gli
splendori dei re, delle regine e dei principi di cui Parigi era
piena. Si giocava molto alla regalità, come oggi si gioca alla
Camera creando un gran numero di società con presidenti,
vicepresidenti e segretari; società linicola, vinicola, serica,
agricola, industriale ecc. Si è giunti a frugare tra le piaghe
sociali per costituire in società i guaritori! È inevitabile che uno
stomaco educato in questo modo influisca sul morale e lo corrompa in
ragione della grande sapienza culinaria che acquisisce. La voluttà,
acquattata in ogni piega del cuore, vi parla da sovrana, batte in
breccia la volontà, l'onore, esige d'essere soddisfatta ad ogni
costo. Non si sono mai descritte le esigenze della gola, che
sfuggono alla critica letteraria a causa della necessità di vivere;
ma non ci si immagina quanta gente sia stata rovinata dalla tavola.
In questo senso la tavola è a Parigi l'emula della cortigiana; del
resto, la prima costituisce l'entrata e la seconda l'uscita. Quando,
da invitato perpetuo, Pons raggiunse - per la sua decadenza
d'artista - la condizione di scroccone, gli fu impossibile passare
da quelle tavole così ben servite al brodetto spartano di un
ristorante da quaranta soldi. Ahimè!, rabbrividì al pensiero che la
sua indipendenza gli costava tali sacrifici, e si sentì capace delle
più grandi viltà pur di continuare a vivere bene, ad assaporare ogni
primizia al momento giusto, insomma a far baldoria (termine popolare
ma espressivo) con manicaretti ben curati. Uccello spigolatore, in
fuga col gozzo pieno, e cinguettando un'arietta in segno di
ringraziamento, Pons provava del resto un certo piacere a passarsela
bene a spese della società, che si limitava a chiedergli in cambio
un po' di chiacchiere. Abituato, come ogni scapolo che ha in orrore
la propria casa e vive a casa degli altri, a quelle formule, a
quelle smorfie sociali che in società sostituiscono i sentimenti, si
serviva dei complimenti come fossero moneta spicciola; nel rapporto
con le persone si accontentava delle etichette senza affondare una
mano curiosa nelle borse.
Questa fase assai sopportabile durò altri dieci
anni; ma che anni! Un autunno piovoso. Durante quel periodo Pons si
mantenne gratuitamente a tavola, rendendosi necessario in ogni casa
che frequentasse. Imboccò una strada fatale occupandosi di una serie
di commissioni, sostituendo i portieri e i domestici in molte e
molte occasioni. Incaricato di vari acquisti, divenne la spia onesta
e innocente inviata da una famiglia all'altra; ma nessuno dimostrò
la sua gratitudine per tante corse e tante bassezze.
«Pons è un ragazzo», dicevano, «non sa come
impiegare il suo tempo, è tutto contento di trottare per noi... che
altro potrebbe fare?».
Assai presto apparve quella freddezza che un
vecchio diffonde intorno a sé. Quel vento gelido si comunica,
produce il suo effetto nella temperatura morale, soprattutto quando
il vecchio è brutto e povero. Non si diventa, allora, vecchi tre
volte? Giunse l'inverno della vita, l'inverno col naso rosso, le
guance smunte, con ogni sorta di congelamenti!
Dal 1836 al 1843 Pons fu invitato raramente. Non
essendo alla ricerca di uno scroccone, ogni famiglia lo accettava
come si accetta una tassa; di lui non si faceva più alcun caso,
neppure dei suoi servigi. Le famiglie presso le quali il brav'uomo
eseguiva le sue evoluzioni, tutte senza rispetto per le arti, in
adorazione soltanto davanti ai risultati, apprezzavano solo quanto
avevano conquistato dopo il 1830: ricchezze o posizioni sociali
eminenti. Ora, poiché Pons non aveva abbastanza prestigio nell'animo
e neppure nei modi per incutere quel timore che lo spirito o il
genio provocano nel borghese, aveva naturalmente finito per
diventare meno che niente, senza tuttavia essere completamente
disprezzato. Nonostante provasse, in un ambiente simile, forti
sofferenze, come tutti i timidi soffriva in silenzio. In fondo si
era abituato, un po' alla volta, a reprimere i propri sentimenti, a
fare del suo cuore un santuario nel quale ritirarsi. Molte persone
superficiali traducono questo fenomeno con il termine «egoismo».
Dev'esserci una somiglianza notevole tra il solitario e l'egoista se
i maldicenti sembrano aver ragione contro l'uomo di cuore,
soprattutto a Parigi dove nessuno s'impegna ad osservare, e tutto è
rapido come l'onda, e tutto passa come un ministero!
Il cugino Pons rimase schiacciato sotto un'accusa
di egoismo, retroattiva perché la società finisce sempre per
condannare coloro che accusa. Ma si sa davvero fino a che punto un
discredito immeritato può affliggere i timidi? Chi mai descriverà le
sventure della timidezza? Questa situazione, che si aggravava di
giorno in giorno, spiega la tristezza impressa sul viso di quel
povero musicista che viveva di capitolazioni infamanti. Ma le
bassezze che ogni passione esige sono altrettanti legami; più la
passione ne reclama, più essa vi lega; essa trasforma qualsiasi
sacrificio in un ideale tesoro negativo in cui l'uomo vede ricchezze
immense. Dopo essere stato oggetto dello sguardo insolentemente
protettivo di un borghese tronfio di stupidità, Pons gustava come
una vendetta il bicchiere di vino di Porto, la quaglia al gratin che
aveva iniziato ad assaporare, e intanto diceva tra sé: «Non è
costato troppo!».
Agli occhi del moralista, in quella vita c'erano
tuttavia delle circostanze attenuanti. In effetti l'uomo esiste
soltanto nelle soddisfazioni che riesce a procurarsi. Un uomo privo
di passioni, il giusto perfetto, è un mostro, un mezzo angelo che
non ha ancora le ali. Gli angeli, nella mitologia cattolica, hanno
soltanto la testa. Sulla terra, un giusto è quel noioso Grandisson
secondo il quale perfino la Venere dei marciapiedi sarebbe priva di
sesso. Ora, tranne le rare e volgari avventure del suo viaggio in
Italia, dove il clima fu senza dubbio la causa dei suoi successi,
Pons non aveva mai visto sorridergli una donna. A molti uomini è
riservato questo destino fatale. Pons era un mostro nato; suo padre
e sua madre l'avevano avuto quando erano già vecchi, e portava le
stigmate di questa nascita fuori stagione sul suo colore cadaverico
che sembrava essere stato contratto in uno di quei vasi di alcool in
cui la scienza conserva certi feti straordinari. Quest'artista,
dotato di un'anima sensibile, sognatrice e delicata, costretto ad
accettare il carattere che il viso gli imponeva, non aveva alcuna
speranza d'essere amato. Il celibato fu dunque per lui più una
necessità che un'inclinazione. La ghiottoneria, il peccato dei
monaci virtuosi, gli tese le braccia: e lui vi si precipitò come si
era precipitato nell'adorazione delle opere d'arte e nel culto della
musica. La buona tavola e il bric-à-brac sostituirono per lui la
donna; infatti la musica era la sua professione, e trovatemi un uomo
che ami la professione di cui vive! Alla lunga con una professione
accade come per il matrimonio: se ne avvertono soltanto gli
inconvenienti.
Brillat-Savarin ha giustificato per partito preso
i gusti dei gastronomi; ma forse non ha insistito abbastanza sul
vero piacere che l'uomo prova a tavola. Nell'impiegare le energie
dell'uomo, la digestione è un'intima lotta che per i gastrolatri
equivale ai più alti godimenti dell'amore. Si avverte un così ampio
dispiegamento della capacità vitale che il cervello si annulla a
favore del secondo cervello situato nel diaframma, e l'ebbrezza
sopraggiunge per l'inerzia stessa di ogni facoltà. I boa che hanno
ingurgitato un toro sono talmente ebbri che si fanno uccidere.
Passati i quarant'anni, chi ha il coraggio di lavorare dopo
pranzo?... Perciò tutti i grandi uomini sono stati sobri.
Ai convalescenti di una malattia grave, ai quali
si misura il cibo con tanta parsimonia, è dato talvolta di provare
quella specie di ebbrezza gastrica provocata da una semplice ala di
pollo. Il saggio Pons, i cui soli godimenti erano concentrati nello
stomaco, si trovava continuamente nella situazione di quei
convalescenti; chiedeva alla buona tavola tutte le sensazioni che
essa può dare, e fino ad allora le aveva ottenute tutti i giorni.
Nessuno osa dire addio a un'abitudine. Molti suicidi si sono fermati
sulla soglia della morte al ricordo del caffè dove ogni sera vanno a
giocare una partita a domino.
V • I DUE SCHIACCIANOCI
Nel 1835 il caso vendicò Pons dell'indifferenza
del gentil sesso; gli offrì quello che in stile familiare si chiama
un bastone per la vecchiaia. Quell'uomo nato già vecchio trovò
nell'amicizia un sostegno per la vita, contraendo l'unico matrimonio
che la società gli permettesse: sposò un uomo, un vecchio, un
musicista come lui. Senza la divina favola di La Fontaine, questo
schizzo avrebbe avuto per titolo I due amici. Ma non sarebbe stato
un attentato letterario, una profanazione di fronte alla quale ogni
vero scrittore indietreggerà? Il capolavoro del nostro favolista,
nello stesso tempo confessione della sua anima e storia dei suoi
sogni, deve avere l'eterno privilegio di quel titolo. Quella pagina
in cima alla quale il poeta ha inciso queste tre parole, I DUE
AMICI, è una di quelle proprietà sacre, un tempio in cui ogni
generazione entrerà con rispetto e che l'universo visiterà finché
durerà la tipografia.
L'amico di Pons era un professore di pianoforte,
la cui vita e i cui costumi simpatizzavano talmente con i suoi, che
Pons diceva di averlo conosciuto troppo tardi per la sua felicità;
infatti la loro conoscenza, nata in occasione di una premiazione, in
un collegio, risaliva soltanto al 1834. Mai forse due anime si
scoprirono tanto simili nell'oceano umano che sgorgò dal paradiso
terrestre contro la volontà di Dio. I due musicisti divennero in
poco tempo necessari l'uno all'altro. Uniti da una fiducia
reciproca, in otto giorni diventarono come due fratelli. Schmucke
non credeva che potesse esistere un Pons, più di quanto Pons non
credeva che potesse esistere uno Schmucke. Già questo basterebbe a
descrivere i due; ma non tutti gli intelletti amano la brevità delle
sintesi. Per gli increduli è necessaria una rapida dimostrazione.
Quel pianista, come tutti i pianisti, era un
tedesco, tedesco come il grande Listz e il grande Mendelssohn,
tedesco come Steibelt, tedesco come Mozart e Dusseck, tedesco come
Meyer, tedesco come Doelher, tedesco come Thalberg, come Dreschok,
come Hiller, come Léopold Mayer, come Crammer, come Zimmerman e
Kalkbrenner, come Herz, Woëtz, Karr, Wolff, Pixis, Clara Wieck, e in
particolare tutti i tedeschi. Nonostante fosse un grande
compositore, Schmucke non poteva essere che un esecutore, tanto il
suo carattere si negava l'audacia necessaria all'uomo di genio per
rivelarsi musicalmente. In molti tedeschi l'ingenuità non è eterna,
anzi scompare; ciò che ne è rimasto a una certa età è attinto, come
l'acqua da un canale, alla fonte della loro giovinezza, ed essi se
ne servono per rendere più fertili i loro successi in ogni campo:
scienza, arte o denaro, allontanano la diffidenza. In Francia, certi
personaggi astuti sostituiscono tale ingenuità con la stupidità del
droghiere parigino. Ma Schmucke aveva conservato tutta la sua
ingenuità infantile, come Pons conservava in sé le reliquie
dell'Impero senza neppure rendersene conto. Quell'autentico e nobile
tedesco era contemporaneamente lo spettacolo e gli spettatori, e si
accompagnava da solo con la musica. Abitava a Parigi come un
usignolo nella foresta e vi cantava, unico di tutta la sua specie,
da vent'anni, fino a quando incontrò in Pons un altro se stesso.
(Vedi Una figlia di Eva.)
Pons e Schmucke possedevano in abbondanza, nel
cuore e nel carattere, quelle puerilità sentimentali che
caratterizzano i tedeschi: come la passione dei fiori o l'adorazione
dei fenomeni naturali, che li porta a piantare grandi bottiglie nei
loro giardini per osservare in piccolo il paesaggio che hanno in
grande sotto gli occhi; o quella predisposizione alle ricerche che
fa fare a uno scienziato tedesco cento leghe a piedi per trovare una
verità che lo guarda ridendo, seduta sul bordo del pozzo, sotto un
gelsomino del cortile; oppure, infine, quel bisogno di attribuire un
significato psichico ai dettagli più insignificanti della creazione,
che produce le opere inspiegabili di Jean Paul Richter, le ebbrezze
stampate di Hoffmann e le barriere in-folio che la Germania innalza
intorno alle questioni più semplici, indagate come abissi, in fondo
alle quali non si trova nient'altro che un tedesco. Cattolici
entrambi, andando insieme alla messa assolvevano ai doveri religiosi
come bambini che non hanno mai nulla da dire al confessore. Erano
fermamente convinti che la musica, la lingua del cielo, fosse per le
idee e i sentimenti quello che le idee e i sentimenti sono per la
parola, e conversavano all'infinito su questa teoria, rispondendosi
l'un l'altro con orge di musica per dimostrare a se stessi le
proprie convinzioni, come due amanti. Schmucke era tanto distratto
quanto Pons era attento. Se Pons era un collezionista, Schmucke era
un sognatore; questo studiava le belle cose morali, l'altro salvava
le belle cose materiali. Pons vedeva e acquistava una tazza di
porcellana nel tempo che Schmucke impiegava per soffiarsi il naso
pensando a qualche motivo di Rossini, di Bellini, di Beethoven o di
Mozart, cercando nel mondo dei sentimenti dove si potessero
rintracciare l'origine o la replica di una frase musicale. Schmucke,
le cui economie erano amministrate dalla distrazione, e Pons,
prodigo per passione, giungevano entrambi allo stesso risultato:
tasche vuote al San Silvestro di ogni anno.
Senza quell'amicizia, forse Pons sarebbe rimasto
schiacciato sotto i suoi dispiaceri; invece, dal giorno in cui ebbe
un cuore in cui riversare il suo, la vita gli divenne sopportabile.
La prima volta che manifestò le sue pene al cuore di Schmucke, il
buon tedesco gli consigliò di vivere come lui, a pane e formaggio ma
in casa propria, piuttosto che accettare pranzi che gli costavano
così cari. Ahimè! Pons non osò confessare a Schmucke che in lui il
cuore e lo stomaco erano nemici, che lo stomaco si accontentava di
ciò che faceva soffrire il cuore, e che gli era indispensabile un
buon pranzo da gustare come un uomo galante ha bisogno di un'amante
da stuzzicare. Col tempo Schmucke riuscì a capire il povero Pons,
perché era troppo tedesco per avere la rapidità d'osservazione di un
francese, e lo amò ancora di più. Niente rafforza l'amicizia come il
fatto che, tra due amici, l'uno si creda superiore all'altro. Un
angelo non avrebbe avuto niente da dire vedendo Schmucke che si
sfregava le mani quando scoprì la forza della ghiottoneria nel suo
amico. E il giorno dopo il buon tedesco ornò il pranzo di leccornie
che era andato a cercare personalmente, e fece in modo di averne
ogni giorno di nuove per il suo amico; infatti dal giorno della loro
unione pranzavano sempre insieme a casa.
Bisognerebbe non conoscere Parigi per credere che
ai due amici fosse stato possibile sfuggire al sarcasmo parigino,
che non ha mai avuto rispetto per niente. Schmucke e Pons, unendo le
loro ricchezze e le loro miserie, avevano avuto l'idea economica di
abitare insieme, e dividevano in parti eguali l'affitto di un
appartamento diviso in due parti assai diseguali, in una tranquilla
casa della tranquilla rue de Normandie, al Marais. Poiché uscivano
spesso insieme e percorrevano gli stessi boulevards l'uno di fianco
all'altro, i perdigiorno del quartiere li avevano soprannominati i
due schiaccianoci. Il soprannome ci risparmia la descrizione di
Schmucke, che stava a Pons come la nutrice di Niobe, la famosa
statua del Vaticano, sta alla Venere della Tribuna.
La signora Cibot, la portiera, era il perno sul
quale ruotava la vita quotidiana dei due schiaccianoci; ma essa
svolge un ruolo talmente importante nel dramma che pose termine a
quella duplice esistenza che conviene riservare il suo ritratto al
momento della sua entrata in scena.
Ciò che resta da dire sul morale di questi due
esseri è decisamente la cosa più difficile da far capire al
novantanove per cento dei lettori nel quarantasettesimo anno del XIX
secolo, probabilmente a causa del prodigioso sviluppo finanziario
dovuto all'installazione delle ferrovie. È poco ed è molto. Si
tratta infatti di dare un'idea dell'eccessiva delicatezza di questi
due cuori. Prendiamo un'immagine alle strade ferrate, se non altro a
titolo di rimborso di quanto esse prendono a noi. Oggi i convogli,
scorrendo sui binari, vi frantumano impercettibili granelli di
sabbia. Introducete uno di questi granelli di polvere, invisibili ai
viaggiatori, nei loro reni; proveranno i dolori della malattia più
temibile, i calcoli, di cui si muore. Ebbene, ciò che per la nostra
società lanciata sulla sua strada metallica con una velocità da
locomotiva è il granello di sabbia invisibile di cui essa non si
cura affatto, quel granello - incessantemente gettato nelle fibre di
quei due esseri, e ad ogni proposito - causava loro dei calcoli nel
cuore. Eccessivamente sensibile alle sofferenze altrui, ognuno dei
due si lamentava della propria impotenza; quanto alla loro
percezione, erano entrambi di una sensitivà quasi morbosa. Niente,
né la vecchiaia, né i continui spettacoli del dramma parigino, aveva
indurito quelle due anime fresche, infantili e pure. Più andavano
avanti e più aumentavano le loro intime sofferenze. Ahimè! ciò
accade alle nature caste, ai pensatori tranquilli e ai veri poeti
che non sono caduti in alcun eccesso.
Da quando questi due vecchi si erano uniti, le
loro occupazioni, più o meno simili, avevano preso quell'andatura
fraterna che a Parigi distingue i cavalli del fiacre. Dopo essersi
alzati verso le sette, d'estate come d'inverno, dopo aver fatto
colazione andavano a fare lezione nei collegi dove, quando c'era
bisogno, si supplivano a vicenda. Verso mezzogiorno Pons si recava
al suo teatro, quando vi era chiamato da una prova, e in ogni
momento libero se ne andava a zonzo. Poi i due amici si ritrovavano
la sera a teatro, dove Pons aveva fatto assumere Schmucke. Ecco in
quale modo.
VI • UN UOMO SFRUTTATO COME SE NE VEDONO TANTI
Quando Pons incontrò Schmucke aveva appena
ricevuto, senza averlo chiesto, il bastone di maresciallo dei
compositori sconosciuti: una bacchetta di direttore d'orchestra!
Grazie al conte Popinot, allora ministro, quel posto era stato
assegnato al povero musicista nel momento in cui quell'eroe borghese
della rivoluzione di Luglio aveva fatto avere in concessione un
teatro ad uno di quegli amici di cui un arricchito si vergogna
quando, andando in carrozza, vede in una strada di Parigi un vecchio
compagno di gioventù, malridotto, senza sottopiedi, con indosso una
finanziera dai colori inverosimili, assorto in affari troppo
ambiziosi per capitali effimeri. Vecchio commesso viaggiatore,
quell'amico, di nome Gaudissart, era stato un tempo molto utile al
successo della grande casa Popinot. Divenuto conte, divenuto pari di
Francia, dopo essere stato due volte ministro, Popinot non rinnegò
L'ILLUSTRE GAUDISSART! Anzi, volle mettere il commesso viaggiatore
in grado di rinnovare il guardaroba e di riempirsi la borsa; la
politica, le vanità della corte cittadina non avevano guastato il
cuore del vecchio mercante di droghe. Gaudissart, sempre pazzo per
le donne, chiese in concessione un teatro che era appena fallito, e
il ministro, concedendoglielo, ebbe cura di inviargli qualche
vecchio cultore del gentil sesso, abbastanza ricco per creare una
potente accomandita amorosa di ciò che nascondono le calzemaglie
delle ballerine. Pons, parassita del palazzo Popinot, fu una
clausola della concessione. La compagnia Gaudissart, che fece
fortuna, nel 1834 decise di realizzare una grande idea: un teatro
dell'opera per il popolo. La musica dei balletti e delle pantomime
richiedeva un direttore d'orchestra passabile e che fosse anche un
po' compositore. L'amministrazione cui succedeva la compagnia
Gaudissart era da troppo tempo in stato fallimentare per avere
ancora un copista. Allora Pons introdusse Schmucke nel teatro in
qualità di copista d'orchestra, mestiere oscuro che richiede
conoscenze musicali impegnative. Su consiglio di Pons, Schmucke si
accordò con il capo di questo servizio all'Opéra-Comique e in questo
modo ne evitò la fatica materiale. La società Schmucke-Pons produsse
un risultato meraviglioso. Schmucke, molto bravo in armonia come
tutti i tedeschi, curò la parte strumentale delle partiture, mentre
la parte del canto spettò a Pons. Quando gli esperti ammirarono
alcune nuove composizioni che accompagnavano due o tre pezzi di
grande successo, le spiegarono con il termine «progresso», senza
cercarne gli autori. Pons e Schmucke si eclissarono nella gloria,
come certe persone annegano nella vasca da bagno. A Parigi,
soprattutto dopo il 1830, nessuno ha successo senza sgomitare,
quibuscumque viis, e molto, in una massa spaventosa di concorrenti;
allora è indispensabile tanta forza di reni, e i due amici avevano
nel cuore quella renella che intralcia ogni ambizione.
Di solito Pons andava a teatro verso le otto di
sera, l'ora in cui si danno i pezzi di maggiore successo, quando le
ouvertures e gli accompagnamenti richiedono la tirannia della
bacchetta. Questa tolleranza è abituale nella maggior parte dei
piccoli teatri; ma Pons si sentiva tanto più a suo agio quanto meno
si curava dei suoi rapporti con l'amministrazione. Del resto, quando
c'era bisogno veniva sostituito da Schmucke. Col tempo la posizione
di Schmucke nell'orchestra si era rafforzata. L'illustre Gaudissart
aveva riconosciuto, sia pure tacitamente, il valore e l'utilità del
collaboratore di Pons. Si rese necessario introdurre nell'orchestra
un pianoforte, come nei grandi teatri. Il piano, suonato gratis da
Schmucke, fu installato accanto al leggìo del direttore d'orchestra,
dove prendevano posto i volontari in soprannumero. Quando quel buon
tedesco, senza ambizioni né pretese, fu conosciuto per quello che
era, venne accettato da tutti gli orchestrali. Per un modesto
compenso, l'amministrazione affidò a Schmucke quegli strumenti che
non fanno parte della dotazione dei teatri di boulevard ma che sono
spesso necessari, come il pianoforte, la viola d'amore, il corno
inglese, il violoncello, l'arpa, le nacchere per accompagnare la
cachucha, i campanelli e le invenzioni di Sax, ecc. I tedeschi,
anche se non sanno fare uso dei grandi strumenti della libertà,
sanno suonare istintivamente ogni strumento musicale.
I due vecchi artisti, eccessivamente apprezzati a
teatro, vi vivevano da filosofi. Si erano messi una benda sugli
occhi per non vedere gli aspetti negativi di un ambiente teatrale
quando promiscuamente vi lavorano un corpo di ballo, attori e
attrici, uno dei peggiori assortimenti che la necessità delle
entrate abbiano creato, per il tormento dei direttori, degli autori
e dei musicisti. Un grande rispetto per gli altri e per se stesso
aveva procurato la stima generale al buono e modesto Pons. Del
resto, in ogni ambiente una vita limpida, un'onestà senza macchia,
impongono una sorta di ammirazione perfino ai cuori più malvagi. A
Parigi una bella virtù ottiene il successo di un grosso diamante, di
una curiosità rara. Nessun attore, nessun autore, nessuna ballerina,
per sfacciata che fosse, si sarebbero permessi il più piccolo
scherzo o qualche burla nei confronti di Pons o del suo amico.
Qualche volta Pons appariva nel ridotto; ma Schmucke conosceva
soltanto il corridoio sotterraneo che portava dall'esterno del
teatro all'orchestra. Negli intervalli, quando assisteva a una
rappresentazione, il buon vecchio tedesco si arrischiava a sbirciare
in sala e talvolta faceva domande al primo flauto, un giovanotto
nato a Strasburgo da una famiglia tedesca di Kehl, sui personaggi
eccentrici che quasi sempre coloriscono i palchi del proscenio. Poco
a poco l'immaginazione infantile di Schmucke, della cui educazione
sociale si fece carico quel flautista, ammise l'esistenza favolosa
della donna di facili costumi, la possibilità dei matrimoni nella
«tredicesima circoscrizione», gli sperperi di una prima attrice, e i
traffici equivoci delle palchettaie. Gli aspetti innocenti del vizio
sembrarono a quel degno uomo l'estrema manifestazione delle
depravazioni babilonesi, ed egli ne sorrideva come di fronte ad
arabeschi cinesi. Le persone intelligenti devono capire che Pons e
Schmucke erano sfruttati, per usare una parola alla moda; ma ciò che
persero in denaro lo guadagnarono in stima e in cortesia.
Dopo il successo di un balletto, che diede inizio
alla rapida fortuna della compagnia Gaudissart, i direttori
inviarono a Pons un gruppo in argento attribuito a Benvenuto
Cellini, il cui prezzo esorbitante era stato oggetto di
conversazione nel ridotto del teatro. Si trattava di milleduecento
franchi! Il povero onest'uomo voleva restituire il dono! A
Gaudissart non fu facile farglielo accettare.
«Ah! potessimo trovare attori di questo stampo!»,
disse al suo socio.
Questa duplice vita, apparentemente così calma,
era turbata soltanto dal vizio al quale Pons sacrificava, cioè il
bisogno feroce di mangiare fuori. Così, ogni volta che Schmucke si
trovava in casa quando Pons si preparava per uscire, il buon tedesco
deplorava quella funesta abitudine.
«Almeno lo facesse ingrassare!», esclamava
spesso.
E Schmucke pensava al modo di guarire l'amico dal
suo vizio degradante, perché i veri amici sono dotati, nella sfera
morale, della perfezione che distingue l'odorato dei cani; fiutano i
dispiaceri dei loro amici, ne intuiscono le cause, se ne
preoccupano.
Pons, che ancora portava al mignolo della mano
destra un anello con brillante, tollerato durante l'Impero e oggi
ridicolo, Pons, eccessivamente troubadour e troppo francese, non
presentava nella sua fisionomia quella divina serenità che attenuava
l'orribile bruttezza di Schmucke. Il tedesco aveva riconosciuto
nell'espressione malinconica del volto del suo amico le crescenti
difficoltà che rendevano sempre più penoso il mestiere di parassita.
In effetti, nell'ottobre 1834, il numero delle case dove Pons andava
a pranzo si era naturalmente assai ridotto. Il povero direttore
d'orchestra, costretto a percorrere il cerchio familiare, aveva un
po' troppo esteso il significato della parola «famiglia», come si
vedrà.
L'ex «laureato» del pensionato era cugino carnale
della prima moglie del signor Camusot, il ricco commerciante di
seterie di rue des Bourdonnais, una signorina Pons, unica erede di
uno dei famosi fratelli Pons, i ricamatori di corte, azienda in cui
il padre e la madre del musicista erano accomandatari dopo averla
fondata prima della Rivoluzione del 1789, e che il signor Rivet
acquistò nel 1815 dal padre della prima signora Camusot. Camusot,
che da ormai dieci anni si era ritirato dagli affari, nel 1844 era
membro del consiglio generale delle manifatture, deputato ecc.
Accolto con amicizia dalla tribù dei Camusot, quel buonuomo di Pons
si considerò cugino dei figli che il commerciante di seterie aveva
avuto dal secondo letto, sebbene con loro non ci fosse nessun legame
e neppure affinità.
Poiché la seconda signora Camusot era una
signorina Cardot, Pons s'introdusse - in qualità di parente dei
Camusot - nella rumorosa famiglia dei Cardot, seconda tribù borghese
che grazie alle sue parentele costituiva un'intera società non meno
potente di quella dei Camusot. Il notaio Cardot, fratello della
seconda signora Camusot, aveva sposato una signorina Chiffreville.
La celebre famiglia dei Chiffreville, la regina dei prodotti
chimici, era legata alla «grande drogheria» diretta per molto tempo
da quell'Anselme Popinot che la rivoluzione di Luglio aveva lanciato
- come tutti sanno - nel cuore della politica più dinastica. Così
Pons si introdusse, al seguito dei Camusot e dei Cardot, in casa dei
Chiffreville; e da lì in quella dei Popinot, sempre in qualità di
cugino dei cugini.
Questa rapida rassegna delle ultime relazioni del
vecchio musicista fa capire come potesse essere ancora accolto
familiarmente nel 1844: 1°, dal conte Popinot, pari di Francia, già
ministro dell'agricoltura e del commercio; 2°, dal signor Cardot,
già notaio, sindaco e deputato di una circoscrizione di Parigi; 3°,
dal vecchio signor Camusot, deputato, membro del consiglio comunale
di Parigi e del consiglio generale delle manifatture, vicino alla
nomina di pari; 4°, dal signor Camusot de Marville, figlio di primo
letto, e pertanto l'unico vero cugino di Pons, anche se di secondo
grado.
Questo Camusot, che per distinguersi dal padre e
dal fratellastro aveva aggiunto al proprio nome quello della terra
di Marville, nel 1844 era presidente di sezione presso la Corte
reale di Parigi.
Poiché l'ex notaio Cardot aveva maritato la
figlia al suo successore, tale Berthier, Pons, che faceva parte dei
doveri, seppe conservarsi quel pranzo: «ratificato da un notaio»,
diceva.
Era questo il firmamento borghese che Pons
chiamava la sua famiglia, e dove aveva così penosamente difeso il
suo diritto di forchetta.
Di queste dieci case, quella in cui l'artista
poteva essere accolto meglio, la casa del presidente Camusot, era
oggetto delle sue maggiori attenzioni. Ma, ahimè!, la presidentessa,
figlia del defunto messere Thirion, cerimoniere di corte dei re
Luigi XVIII e Carlo X, non aveva mai trattato bene il cugino di suo
marito. Nel tentativo di ammorbidire quella parente terribile, Pons
aveva perso il suo tempo poiché, dopo aver dato gratuitamente delle
lezioni alla signorina Camusot, non gli era riuscito di fare una
musicista di quella ragazza rossiccia.
Ora, Pons, con in mano il prezioso oggetto, si
stava appunto dirigendo verso la casa del cugino presidente dove,
entrando, gli sembrava di essere alle Tuileries, tanto i solenni
drappi verdi, le tappezzerie grigie, i tappeti, i mobili imponenti
dell'appartamento in cui si respirava l'aria della più severa
magistratura, agivano sul suo morale. Che strano! Si sentiva a suo
agio nel palazzo Popinot, in rue Basse-du-Rempart, senza dubbio a
causa degli oggetti d'arte che vi si trovavano; infatti l'ex
ministro, dopo il suo ingresso nella vita politica, aveva contratto
la mania di collezionare le cose belle, certamente per
controbilanciare la politica, che segretamente colleziona le azioni
più turpi.
VII • UNA DELLE MILLE GIOIE DEI COLLEZIONISTI
Il presidente de Marville abitava in rue de
Hanovre, in una casa acquistata dieci anni prima dalla presidentessa
dopo la morte del padre e della madre, il signore e la signora
Thirion, che le avevano lasciato circa centocinquantamila franchi di
risparmi. La casa, di aspetto piuttosto tetro dalla parte della
strada dove la facciata è esposta a nord, guarda a mezzogiorno sul
cortile, oltre il quale si trova un giardino assai bello. Il
magistrato occupa l'intero primo piano, che durante il regno di
Luigi XV aveva ospitato uno dei più potenti finanzieri del tempo.
Con il secondo piano affittato a una ricca e vecchia signora, la
casa ha un aspetto tranquillo e decoroso che si addice alla
magistratura. I resti della magnifica terra di Marville, per il cui
acquisto il magistrato aveva impiegato le sue economie di vent'anni,
oltre all'eredità materna, consistono nel castello, splendido
monumento come se ne vedono ancora in Normandia, e in una solida
fattoria che rende dodicimila franchi. Un parco di cento ettari
circonda il castello. Questo lusso, oggi principesco, costa al
presidente un migliaio di scudi e così la terra fa entrare «in
tasca», come si dice, non più di novemila franchi. Questi novemila
franchi e il suo stipendio assicuravano al presidente una rendita di
circa ventimila franchi, apparentemente sufficiente, soprattutto in
previsione della metà dell'eredità paterna che avrebbe ricevuto,
essendo l'unico figlio di primo letto; ma la vita a Parigi e gli
obblighi della loro posizione sociale avevano costretto il signore e
la signora de Marville a dissipare la quasi totalità delle loro
entrate. Fino al 1834 si erano trovati in difficoltà.
Quest'inventario spiega perché la signorina de
Marville, ragazza di ventitré anni, non fosse ancora sposata
nonostante una dote di centomila franchi e l'attrattiva delle sue
speranze, abilmente e frequentemente esibite, ma invano. Da cinque
anni il cugino Pons ascoltava le doglianze della presidentessa, che
vedeva tutti i sostituti prender moglie, i nuovi giudici di
tribunale già padri, avendo fatto brillare inutilmente le speranze
della signorina de Marville di fronte agli occhi poco incantati del
giovane visconte Popinot, figlio maggiore del gallo della
«drogheria», a profitto del quale, secondo gli invidiosi del
quartiere dei Lombardi, era stata fatta la rivoluzione di Luglio;
almeno tanto quanto a profitto del figlio del ramo cadetto.
Giunto in rue de Choiseul e sul punto di svoltare
in rue de Hanovre, Pons provò quell'inspiegabile emozione che
tormenta le coscienze pure, che infligge loro i supplizi provati dai
più grandi scellerati alla vista di un gendarme, provocata da
quest'unica domanda: come sarebbe stato accolto dalla presidentessa?
Quel granello di sabbia che gli lacerava le fibre del cuore non si
era mai arrotondato; gli spigoli diventavano sempre più aguzzi, e le
persone della casa facevano del loro meglio per renderli sempre più
acuminati. Infatti la scarsa considerazione dei Camusot nei
confronti del cugino Pons, la sua svalutazione all'interno della
famiglia, agivano sui domestici che, senza mancargli di rispetto, lo
consideravano una varietà della specie Povero.
Il nemico giurato di Pons era una certa Madeleine
Vivet, una vecchia zitella secca e minuta, cameriera della signora
C. de Marville e di sua figlia. Madeleine, malgrado una carnagione
chiazzata di macchie rosse, forse proprio a causa di questo e della
sua lunghezza viperina, si era messa in testa di diventare la
signora Pons. Invano aveva sfoggiato ventimila franchi di risparmi
davanti agli occhi del vecchio celibe; Pons aveva rifiutato quella
felicità eccessivamente maculata. Così quella Didone d'anticamera,
che voleva diventare cugina dei suoi padroni, giocava i tiri più
malvagi al vecchio musicista. Appena sentiva che il brav'uomo stava
salendo le scale, e facendo in modo di farsi udire, esclamava: «Ah!,
ecco lo scroccone!». Quando serviva a tavola, in assenza del
cameriere, versava poco vino e molta acqua nel bicchiere della sua
vittima, imponendogli il difficile compito di avvicinare alle labbra
un bicchiere troppo pieno senza versarne una goccia. Dimenticava di
servire il brav'uomo, e se lo faceva dire dalla presidentessa (con
quale tono?... il cugino ne arrossiva!), oppure gli versava della
salsa sugli abiti. Era, in definitiva, la guerra dell'inferiore che
sa di godere l'impunità contro un superiore sfortunato.
VIII • DOVE LO SFORTUNATO CUGINO VIENE ACCOLTO MOLTO MALE
Donna di fatica e cameriera, Madeleine aveva
seguito i signori Camusot fino dal loro matrimonio. Aveva visto i
suoi padroni nelle difficoltà dei primi tempi, in provincia, quando
il signore era giudice presso il tribunale di Alençon; li aveva
aiutati a sopravvivere quando, presidente del tribunale di Mantes,
nel 1828 il signor Camusot era venuto a Parigi, ed era stato
nominato giudice istruttore. Dunque apparteneva troppo alla famiglia
per non avere delle ragioni di vendetta. Il desiderio di giocare
all'orgogliosa e ambiziosa presidentessa il tiro di diventare la
cugina del signore, doveva nascondere uno di quei sordi odî generati
da uno di quei sassolini che formano le valanghe.
«Signora, ecco il vostro signor Pons, e sempre in
spencer!», andò a dire Madeleine alla presidentessa. «Dovrebbe
proprio dirmi come fa a conservarlo da venticinque anni!».
Udendo il passo di un uomo nel salottino che si
trovava tra il salotto e la camera da letto, la signora Camusot
guardò la figlia e alzò le spalle.
«Mi avvertite sempre con tanta intelligenza,
Madeleine, che non mi resta il tempo di decidere», disse la
presidentessa.
«Signora, Jean è uscito, io ero sola, il signor
Pons ha suonato, gli ho aperto la porta, e siccome è quasi di casa
non potevo impedirgli di venirmi dietro: ora è lì che si toglie lo
spencer».
«Mia povera piccola», disse la presidentessa alla
figlia, «non c'è scampo! ora dobbiamo pranzare in casa. Vediamo»,
continuò, alla vista dell'espressione rattristata della sua cara
piccina, «vogliamo liberarcene per sempre?».
«Oh, pover'uomo!», rispose la signorina Camusot,
«privarlo di uno dei suoi pranzi!».
Il salottino risuonò della falsa tosse di un uomo
che in questo modo voleva dire: «Vi sto ascoltando».
«Ebbene, fatelo entrare!», disse la signora
Camusot a Madeleine con un gesto delle spalle.
«Siete venuto così presto, caro cugino», disse
Cécile Camusot con un'aria da piccola smorfiosa, «che ci avete
sorpreso proprio mentre mia madre stava per vestirsi».
Il cugino Pons, cui non era sfuggito il gesto di
spalle della presidentessa, fu così crudelmente colpito che non
riuscì a trovare un complimento adatto alla situazione, e si
accontentò di queste profonde parole: «Siete sempre incantevole,
cuginetta mia!».
Poi, voltandosi verso la madre e salutandola:
«Cara cugina», proseguì, «non me ne vorrete se
sono venuto un po' prima del solito; vi porto ciò che mi avete fatto
il piacere di chiedermi...».
E il povero Pons, che irritava enormemente il
presidente, la presidentessa e Cécile ogni volta che li chiamava
«cugino» o «cugina», estrasse dalla tasca uno splendido astuccio
oblungo in legno di Santa Lucia, divinamente intagliato.
«Ah, me ne ero dimenticata!», disse con freddezza
la presidentessa.
Una tale esclamazione non era forse atroce? non
toglieva ogni merito alla premura del parente, colpevole soltanto di
essere un parente povero?
«Siete troppo buono, cugino mio», aggiunse lei.
«Vi devo molto denaro per questa piccola sciocchezza?».
La domanda provocò una specie di sussulto
interiore nel cugino, che pensava di saldare tutti i suoi pranzi con
l'offerta di quel gioiello.
«Ho pensato che mi avreste permesso di
offrirvelo», disse con un filo di voce.
«Come! come!», riprese la presidentessa, «tra noi
niente complimenti; ci conosciamo abbastanza per lavare in famiglia
i nostri panni. Lo so che non siete abbastanza ricco e non voglio
peggiorare la vostra situazione. Non vi siete disturbato già
abbastanza perdendo il vostro tempo a correre da un negozio
all'altro?...».
«Non vorreste questo ventaglio, mia cara cugina,
dovendone pagare il giusto prezzo», replicò offeso il pover'uomo,
«perché è un capolavoro di Watteau, che lo ha dipinto sui due lati;
ma state tranquilla cugina mia, non l'ho pagato la centesima parte
del suo valore artistico».
Dire a un ricco: «Voi siete povero!», è come dire
all'arcivescovo di Granada che le sue omelie non valgono niente. La
presidentessa era troppo orgogliosa della posizione del marito,
della proprietà di Marville e degli inviti ai balli di corte per non
essere ferita da una simile osservazione, soprattutto perché veniva
da un miserabile musicista nei cui confronti si atteggiava a
benefattrice.
«Sono così stupidi quelli da cui comprate questa
roba?...», disse vivacemente la presidentessa.
«A Parigi non ci sono negozianti stupidi»,
replicò Pons seccamente.
«Allora siete voi molto abile», disse Cécile per
calmare gli spiriti.
«Cara cuginetta, sono abile a riconoscere
Lancret, Pater, Watteau, Greuze; ma avevo soprattutto il desiderio
di compiacere la vostra cara mamma».
Ignorante e vanitosa, la signora de Marville non
voleva avere l'aria di ricevere qualcosa dal suo scroccone e la sua
ignoranza le servì a meraviglia: Watteau, non sapeva neppure chi
fosse. Se qualcosa può esprimere fino a che punto arrivi l'amor
proprio dei collezionisti, che certamente è tra i più vivi perché
compete con l'amor proprio degli artisti, è sicuramente l'audacia
che Pons aveva appena dimostrato nel tener testa alla cugina, per la
prima volta in vent'anni. Stupito della sua temerarietà, Pons
riprese un contegno pacifico descrivendo a Cécile, in ogni
dettaglio, la bellezza della fine scultura delle stecche di quel
ventaglio meraviglioso. Ma, per comprendere profondamente la
trepidazione di cuore che agitava il brav'uomo, è necessario
tracciare un rapido profilo della presidentessa.
A quarantasei anni la signora de Marville, un
tempo piccola, bionda, grassa e fresca, pur essendo rimasta piccola
era diventata secca. La fronte bombata, la bocca rientrante, che la
giovinezza un tempo aveva decorato con tinte delicate, avevano reso
arcigna la sua espressione, sdegnosa per natura. L'abitudine a un
dominio assoluto in casa aveva reso dura e sgradevole la sua
fisionomia. Col passare degli anni i capelli biondi erano diventati
di un castano stridente. Gli occhi, ancora vivaci e caustici,
esprimevano una tracotanza giudiziaria carica di un'invidia
contenuta. In effetti la presidentessa si ritrovava quasi povera
nella società di borghesi arricchiti dove Pons si recava a pranzo.
Ella non perdonava al ricco mercante di droghe, ex presidente del
tribunale di commercio, d'essere diventato successivamente deputato,
ministro, conte e pari. Non perdonava al suocero d'essersi fatto
nominare, a scapito del primogenito, deputato della propria
circoscrizione, quando Popinot era stato promosso pari. Dopo
diciotto anni di servizio a Parigi, ella ancora attendeva per
Camusot il posto di consigliere presso la Corte di cassazione, dal
quale d'altra parte lo escludeva un'incapacità ben nota a palazzo di
Giustizia. Il ministro in carica nel 1844 deprecava la nomina di
Camusot alla presidenza, ottenuta nel 1834; ma l'avevano sistemato
alla procura dove, grazie a una lunga esperienza di giudice
istruttore, faceva qualcosa compilando delle sentenze.
IX • UNA BUONA TROVATA
Questi errori di calcolo avevano logorato la
presidentessa, che del resto non si faceva illusioni sul valore di
suo marito, e l'avevano resa terribile. Il suo carattere, già duro,
si era inasprito. Più invecchiata che vecchia, si mostrava aspra e
rude come una spazzola per ottenere con la paura ciò che gli altri
volevano rifiutarle. Mordace fino all'eccesso, aveva poche amiche.
Era molto invadente, anche grazie ad alcune vecchie bigotte del suo
tipo, di cui si era circondata e che la sostenevano, ricambiate a
loro volta. Così i rapporti del povero Pons con questo diavolo in
gonnella erano quelli di uno scolaro con un maestro che parla
soltanto a frustate. Per questo la presidentessa non si spiegava
l'improvvisa audacia del cugino; il fatto è che ignorava il valore
del dono.
«Ma dove l'avete trovato?», chiese Cécile
esaminando il ventaglio.
«In rue de Lappe, da un antiquario che l'aveva
trovato in un castello demolito, presso Dreux, il castello di Aulnay
abitato talvolta dalla Pompadour prima della costruzione di Ménars;
ne sono state salvate le più splendide boiseries che si conoscano;
sono talmente belle che Liénard, il nostro celebre scultore in
legno, ne ha conservate, come nec-plus-ultra dell'arte, due cornici
ovali da tenere come modelli... C'erano dei veri tesori. Il mio
antiquario ha trovato questo ventaglio in uno scrittoio intarsiato
che avrei acquistato se facessi la collezione di quel genere di
oggetti; ma è inavvicinabile... un mobile di Riesener vale dai tre
ai quattromila franchi! A Parigi si comincia a riconoscere che i
famosi intarsiatori tedeschi e francesi dei secoli XVI, XVII e XVIII
hanno creato dei veri e propri quadri in legno. Il merito del
collezionista è la capacità di precedere la moda. Siatene certa!
entro cinque anni le porcellane di Frankenthal, che io colleziono da
vent'anni, a Parigi si pagheranno due volte più care della pasta
tenera di Sèvres».
«Cos'è il Frankenthal?», chiese Cécile.
«È il nome della fabbrica di porcellane
dell'elettore palatino; è più antica della nostra manifattura di
Sèvres; come i famosi giardini di Heidelberg, rovinati da Turenne,
hanno avuto la sventura di esistere prima di quelli di Versailles.
Sèvres ha copiato molto Frankenthal... I tedeschi, bisogna
riconoscerlo, hanno creato prima di noi cose meravigliose in
Sassonia e nel Palatinato».
La madre e la figlia si guardavano come se Pons
avesse parlato in cinese, perché non si può immaginare quanto i
parigini siano ignoranti ed esclusivi: sanno soltanto quello che
viene loro insegnato, quando vogliono impararlo.
«E da cosa riconoscete il Frankenthal?».
«Ma dalla firma!», rispose Pons infervorato.
«Quei capolavori incantevoli sono tutti firmati. Il Frankenthal ha
una C e una T (Charles-Théodore) intrecciati sotto una corona
principesca. La porcellana antica di Sassonia ha due spade e il
numero d'ordine in oro. Vincennes firmava con un corno. Vienna ha
una V chiusa e barrata. Berlino ha due barre. Magonza ha la ruota.
Sèvres ha due LL, e la porcellana della regina una A che significa
Antoinette, sovrastata da una corona reale. Nel XVIII secolo tutti i
sovrani d'Europa hanno gareggiato nella fabbricazione della
porcellana. Ci si contendevano gli operai. Watteau disegnava dei
servizi per la manifattura di Dresda, e le sue opere hanno raggiunto
prezzi folli. (Bisogna intendersene, perché oggi Dresda li riproduce
copiandoli). In quel periodo si sono fabbricate cose mirabili, che
non si faranno mai più...».
«Suvvia!».
«Sì, cugina, non si faranno più certi intarsi,
certe porcellane, come non si faranno più dei Raffaello, dei
Tiziano, dei Rembrandt, dei Van Eyck, dei Cranach!... Vedete, i
cinesi sono molto abili, molto esperti... ebbene, oggi copiano dei
bei modelli di porcellana «gran-mandarino»... Ora, due vasi di
gran-mandarino antico, del formato più grande, valgono sei, otto,
diecimila franchi, quando se ne può avere una copia moderna per
duecento franchi!».
«State scherzando!».
«Cugina, questi prezzi vi stupiscono, ma è ancora
niente. Un servizio completo da tavola per dodici in pasta tenera di
Sèvres, che non è porcellana, vale centomila franchi. Un servizio
del genere veniva pagato cinquantamila franchi a Sèvres nel 1750. Ho
visto delle fatture originali.
«Torniamo a questo ventaglio», disse Cécile alla
quale quell'oggetto sembrava troppo vecchio.
«È evidente che appena la vostra cara mamma mi ha
fatto l'onore di chiedermi un ventaglio mi sono messo in caccia. Ho
ispezionato tutti i negozi d'antiquariato di Parigi senza trovarvi
niente di bello; infatti per la cara presidentessa volevo un
capolavoro, volevo donarle il ventaglio di Maria Antonietta, il più
bello di tutti i ventagli celebri. Ma ieri sono rimasto abbagliato
da questo divino capolavoro, certamente commissionato da Luigi XV.
Perché mai sono andato a cercare un ventaglio in rue de Lappe, nel
negozio di un alverniate che vende rame, ferro vecchio, mobili
dorati? Io credo all'intelligenza degli oggetti d'arte; essi
conoscono gli intenditori, li chiamano, dicono loro: «Ehi, tu!».
La presidentessa alzò le spalle e lanciò un
rapido sguardo alla figlia, senza che Pons se ne accorgesse.
«Li conosco tutti quegli spilorci! «Che avete di
nuovo, papà Monistrol? Avete dei soprapporta?», ho chiesto a quel
negoziante, che mi permette di dare un'occhiata ai suoi acquisti
prima che li vedano i grandi antiquari. A questa domanda, Monistrol
mi racconta come Liénard, che scolpiva nella cappella di Dreux delle
cose molto belle per la corte reale, avesse salvato le boiseries
intagliate, all'asta di Aulnay, dalle mani di alcuni antiquari
parigini che erano interessati soltanto alle porcellane e ai mobili
intarsiati. «Non ho ottenuto molto», mi disse, «ma posso ripagarmi
il viaggio con questa». E mi mostrò lo scrittoio, una meraviglia!
Dei disegni di Boucher eseguiti a intarsio con un'arte!... da
gettarsi in ginocchio! «Guardate, signore», mi disse, «poco fa ho
trovato in un cassettino chiuso, senza chiave, che ho forzato,
questo ventaglio! Volete dirmi a chi potrei venderlo?». E tira fuori
quest'astuccio intagliato, in legno di Santa Lucia. «Guardate! È in
quello stile Pompadour che sembra gotico fiorito». «Oh», gli ho
risposto, «l'astuccio è grazioso e potrebbe anche interessarmi,
l'astuccio! perché, quanto al ventaglio, mio vecchio Monistrol, non
ho una signora Pons cui donare questo vecchio gioiello; del resto,
se ne fanno di nuovi, molto graziosi. Oggi si dipingono queste
pergamene in modo miracoloso e assai a buon mercato. E voi sapete
bene che a Parigi ci sono duemila pittori!». E intanto aprivo con
indifferenza il ventaglio trattenendo la mia ammirazione, osservando
freddamente questi due quadretti dipinti con tanta facilità, con una
tecnica meravigliosa. Avevo il ventaglio della Pompadour! Watteau ha
fatto prodigi in questo lavoro! «Quanto volete del mobile?». «Oh,
mille franchi. Me li danno già!». Gli offro una cifra per il
ventaglio, che corrispondeva alle spese presunte del suo viaggio.
Allora ci guardiamo nel bianco degli occhi e mi rendo conto che
l'accordo è fatto. Subito ripongo il ventaglio nell'astuccio per
evitare che l'alverniate si metta a esaminarlo, e vado in estasi
dinanzi all'intaglio dell'astuccio che è un vero gioiello. «Se lo
compro», dico a Monistrol, «è per questo, vedete, è solo l'astuccio
a interessarmi. Quanto a questo scrittoio, ne ricaverete più di
mille franchi; guardate come sono cesellati questi ottoni! sono dei
modelli... si possono sfruttare... sono pezzi unici, si facevano
solo pezzi unici per la Pompadour...». E il mio uomo, tutto preso
dalla sua scrivania, dimentica il ventaglio e me lo lascia per
niente, in cambio della mia rivelazione sulla bellezza di quel
mobile di Riesener. Ecco fatto! Ma ci vuole dell'esperienza per
concludere trattative simili! Sono combattimenti a colpi di sguardi,
e che occhio è quello di un ebreo o di un alverniate!».
La mirabile pantomima, il brio del vecchio
artista che facevano di lui - mentre raccontava il trionfo della sua
intelligenza sull'ignoranza del rigattiere - un modello degno di un
pennello olandese... tutto ciò non fu neppure percepito dalla
presidentessa e dalla figlia che si dissero, scambiandosi degli
sguardi freddi e sdegnosi:
«Che originale!...».
«Dunque tutto ciò vi diverte?», chiese la
presidentessa.
Pons, gelato da una simile domanda, ebbe voglia
di prendere a sberle la presidentessa.
«Ma, cara cugina», rispose, «è la caccia ai
capolavori! E ci si trova faccia a faccia con avversari che
difendono la selvaggina! È una lotta di astuzia! Un capolavoro nelle
mani di un normanno, di un ebreo o di un alverniate è come, nelle
fiabe, una principessa prigioniera di un mago!».
«E come fate a sapere che è un Wat....? come
dite?».
«Watteau! cugina mia, uno dei più grandi pittori
francesi del XVIII secolo! Guardate, non vedete la firma?», disse,
indicandole una delle scene pastorali che rappresentava una ronde
danzata da false contadine e da aristocratici pastori. «Che
vitalità! Che brio! Che colore! E tutto di getto, come lo svolazzo
di un maestro di calligrafia. Non si sente più il lavoro! E
sull'altro lato, guardate: un ballo in un salotto. L'inverno e
l'estate! Che decorazioni! E come si è conservato bene! Guardate la
ghiera, è d'oro e da entrambi i lati termina in un piccolo rubino
che ho ripulito».
«Se è così, cugino mio, non posso accettare da
voi un oggetto di così grande valore. È meglio che lo vendiate»,
disse la presidentessa che non chiedeva di meglio che entrare in
possesso di quel magnifico ventaglio.
«È tempo che ciò che è servito al vizio passi
nelle mani della virtù!», disse il brav'uomo riacquistando
sicurezza. «Ci saranno voluti cento anni perché si compisse un
simile miracolo. Siate certa che a corte nessuna principessa avrà
qualcosa di paragonabile a questo capolavoro; perché,
sventuratamente, è proprio della natura umana fare di più per una
Pompadour che per una regina virtuosa!».
«Ebbene, l'accetto», disse ridendo la
presidentessa. «Cécile, angelino mio, vai a vedere con Madeleine che
il pranzo sia degno di nostro cugino».
La presidentessa voleva pareggiare il conto.
Quella raccomandazione ad alta voce, contrariamente alle regole del
buon gusto, somigliava talmente al saldo di un pagamento che Pons
arrossì come una fanciulla colta in fallo. Quel granello di sabbia
un po' troppo grosso gli circolò per un po' nel cuore. Cécile,
ragazza dai capelli rossicci il cui atteggiamento, viziato dalla
pedanteria, esibiva il tono giudiziario del presidente e risentiva
della durezza materna, scomparve lasciando il povero Pons alle prese
con la terribile presidentessa.
X • UNA RAGAZZA DA MARITARE
«È proprio graziosa la mia piccola Lili», disse
la presidentessa usando ancora il diminutivo infantile dato un tempo
al nome di Cécile.
«Incantevole!», rispose il vecchio musicista
roteando i pollici.
«Non capisco niente del tempo in cui viviamo»,
proseguì la presidentessa. «A che serve dunque avere per padre un
presidente della corte reale di Parigi, e commendatore della Legion
d'onore, per nonno un deputato milionario, un futuro pari di
Francia, il più ricco commerciante all'ingrosso di seterie?».
Le devozione del presidente alla nuova dinastia
gli aveva procurato da poco il titolo di commendatore, favore
attribuito da qualche invidioso all'amicizia che lo univa a Popinot.
Questo ministro, malgrado la sua modestia, come abbiamo visto si era
lasciato nominare conte. «Per mio figlio», aveva detto ai suoi
numerosi amici.
«Oggi si cerca soltanto il denaro», rispose il
cugino Pons, «si ha riguardo soltanto per i ricchi, e...».
«E in quale situazione ci troveremmo», esclamò la
presidentessa, «se il cielo mi avesse lasciato il mio piccolo
Charles!...».
«Oh! con due figli sareste povera!», continuò il
cugino. «È l'effetto della divisione dei beni in parti eguali; ma,
state tranquilla mia bella cugina, prima o poi Cécile si sposerà.
Non ho mai visto una signorina così educata».
Ecco fino a qual punto Pons aveva umiliato la sua
anima nelle case dei suoi anfitrioni: ripeteva le loro idee, gliele
commentava nel modo più banale, alla maniera dei cori antichi. Non
osava abbandonarsi all'originalità che distingue gli artisti e che
nella sua giovinezza anche lui aveva avuto, con caratteri assai
fini, ma che l'abitudine di farsi da parte aveva allora quasi
eliminata, e che veniva rifiutata, come un attimo prima, appena si
riaffacciava.
«Ma io mi sono sposata con una dote di ventimila
franchi soltanto...».
«Nel 1819, cugina!», disse Pons interrompendola.
«E si trattava di voi, donna di qualità, protetta dal re Luigi
XVIII!».
«Dopotutto mia figlia è un angelo di perfezione e
di spirito; ha un gran cuore, una dote di centomila franchi, senza
contare le più belle speranze, eppure è ancora a nostro carico...».
La signora de Marville parlò di sua figlia e di
se stessa per venti minuti, abbandonandosi alle lamentele delle
madri che hanno figlie in età da marito. Dopo venti anni che il
vecchio musicista pranzava in casa del suo unico cugino Camusot, il
pover'uomo era ancora in attesa di una parola sui suoi affari, sulla
sua vita, sulla sua salute. Del resto Pons era ovunque una specie di
fogna delle confidenze domestiche: egli offriva le migliori garanzie
per la sua discrezione ben nota e necessaria, perché una sola parola
di troppo gli avrebbe sbarrato la porta di dieci case; la sua parte
di ascoltatore era perciò accompagnata da una costante approvazione;
sorrideva su ogni cosa, non accusava né difendeva nessuno; per lui
avevano ragione tutti. In questo modo non contava più come uomo: era
uno stomaco! Nella sua lunga tirata la presidentessa confessò al
cugino, non senza qualche precauzione, di essere disposta ad
accettare per la figlia, quasi a occhi chiusi, un partito qualunque.
Giunse a considerare un buon affare un uomo di quarantotto anni,
sempre che possedesse una rendita di ventimila franchi.
«Cécile ha ventitré anni, e se disgraziatamente
arrivasse ai venticinque o ai ventisei sarebbe difficilissimo
maritarla. Allora la gente si chiederebbe come mai una ragazza sia
rimasta in attesa tanto a lungo. Nel nostro ambiente si chiacchiera
fin troppo di questa situazione. Ormai abbiamo esaurito le ragioni
più ovvie: «È troppo giovane. - Ama troppo i genitori per lasciarli.
- È felice in casa sua. - Fa la difficile. Pretende un bel nome!».
Stiamo diventando ridicoli, lo so bene. D'altra parte anche Cécile è
stanca di aspettare; soffre, povera piccola...».
«E di che?», chiese scioccamente Pons.
«Ma», riprese la madre con un tono da governante,
«è umiliata di vedere tutte le sue amiche sposarsi prima di lei».
«Cugina mia, cosa è mai cambiato dall'ultima
volta che ho avuto il piacere di pranzare qui, perché pensiate a un
uomo di quarantotto anni?», chiese umilmente il povero musicista.
«C'è che», rispose la presidentessa, «dovevamo
avere un incontro da un consigliere di corte il cui figlio ha
trent'anni, provvisto di una fortuna considerevole e per il quale il
signore de Marville avrebbe ottenuto, grazie al denaro, un posto di
referendario presso la corte dei conti. Il giovane vi si trova già
come aggiunto. Ci hanno appena detto che questo giovanotto ha
commesso la follia di partire per l'Italia, correndo dietro a una
ballerina. È un rifiuto mascherato. Ci viene negato un giovane la
cui madre è morta, e che già gode di una rendita di trentamila
franchi, in attesa della fortuna paterna. Così dovete perdonarci il
nostro malumore, caro cugino: siete arrivato in un momento di
crisi.».
Mentre Pons stava cercando una di quelle risposte
complimentose che gli venivano sempre troppo tardi in casa degli
anfitrioni che lo intimorivano, entrò Madeleine, consegnò un
biglietto alla presidentessa e rimase in attesa della risposta. Nel
biglietto c'era scritto:
«Chi ha portato questo biglietto del signore?»,
chiese la presidentessa con tono brusco.
«Un commesso del Tribunale», rispose
sfrontatamente la secca Madeleine.
Con questa risposta la vecchia fantesca faceva
capire alla padrona che era stata lei a ordire il complotto,
d'accordo con la spazientita Cécile.
«Dite che mia figlia ed io saremo lì alle cinque
e mezzo».
XI • UNO DEI MILLE OLTRAGGI CHE DEVE SUBIRE UNO SCROCCONE
Uscita Madeleine, la presidentessa guardò il
cugino Pons con quella falsa amabilità che su un'anima delicata
produce un effetto pari a quello di un miscuglio di latte e aceto
sulla lingua di un ghiotto:
«Caro cugino, il pranzo è pronto; pranzerete
senza di noi perché mio marito mi scrive dall'udienza per informarmi
che si riprende il progetto di matrimonio con il consigliere, e così
andiamo a pranzo da lui. Tra di noi non facciamo certo dei
complimenti. Fate come se foste a casa vostra. Vedete con quanta
franchezza vi tratto; con voi non ho segreti... Non vorreste far
saltare il matrimonio di quell'angioletto, vero?».
«Al contrario, cugina, vorrei trovarle io un
marito; ma nell'ambiente in cui vivo...».
«Ah, è improbabile», interruppe con insolenza la
presidentessa. «Insomma, rimanete? Cécile vi terrà compagnia mentre
mi preparo».
«Oh, cugina, posso pranzare altrove», disse il
brav'uomo.
Anche se offeso crudelmente dal modo usato dalla
presidentessa per rimproverargli la sua indigenza, era ancora più
impaurito dalla prospettiva di trovarsi solo con i domestici.
«Ma perché?... il pranzo è pronto, si
mangerebbero tutto i domestici...».
Udendo questa frase orribile, Pons si alzò come
se fosse stato colpito dalla scarica di una pila galvanica, salutò
freddamente la cugina e andò a riprendersi lo spencer. La porta
della camera da letto di Cécile, che dava su un salottino, era
semiaperta in modo che, guardando davanti in uno specchio, Pons
scorse la ragazza in preda al riso mentre, rivolta alla madre,
faceva dei cenni con la testa e dei gesti che rivelarono una qualche
ignobile mistificazione a danno del vecchio artista. Pons scese
lentamente le scale trattenendo le lacrime: si vedeva scacciato da
quella casa senza sapere perché.
«Ormai sono troppo vecchio», disse tra sé, «la
gente ha orrore della vecchiaia e della povertà, due brutte cose.
Non voglio più andare da nessuna parte senza essere stato invitato».
Parole eroiche!...
La porta della cucina, a pianterreno, di fronte
alla portineria, rimaneva spesso aperta come accade nelle case
abitate dai proprietari, mentre il portone resta sempre chiuso: così
poté udire le risate della cuoca e del domestico ai quali Madeleine
stava raccontando il tiro giocato a Pons, perché non pensava che il
brav'uomo se ne sarebbe andato tanto in fretta. Il domestico
approvava in pieno quello scherzo riservato a un frequentatore
abituale della casa che, diceva, non dava mai più di un piccolo
scudo per le feste!
«Sì, ma se gli salta la mosca al naso e non torna
più», fece osservare la cuoca, «per noi saranno tre franchi in meno
a capodanno».
«Ma come potrebbe saperlo?», disse il domestico
rispondendo alla cuoca.
«Prima o poi», riprese Madeleine, «a noi che
importa? Annoia talmente i padroni delle case dove pranza, che lo
scacceranno dappertutto».
In quel momento il vecchio musicista gridò alla
portiera: «Aprite, per favore!». Quel grido doloroso fu accolto in
cucina dal più profondo silenzio.
«Stava ascoltando», disse il domestico.
«Ebbene, tanto peggio, o piuttosto tanto meglio»,
replicò Madeleine, «ha finito di fare il topo».
Il brav'uomo, che non aveva perduto una parola di
quanto era stato detto in cucina, udì anche quest'ultima frase.
Tornò a casa per i boulevards nello stato in cui si troverebbe una
vecchia dopo una lotta accanita con degli assassini. Parlando a se
stesso, camminava con velocità convulsa; l'onore ferito lo
sospingeva come una paglia trascinata da un vento furioso.
Finalmente si trovò, alle cinque, sul boulevard du Temple senza
sapere come vi fosse giunto; ma, cosa straordinaria, non avvertiva
il minimo appetito.
Ma, per capire la rivoluzione che il ritorno di
Pons a quell'ora avrebbe provocato in casa sua, sono a questo punto
necessarie le spiegazioni promesse a proposito della signora Cibot.
XII • TIPO DI PORTIERE (MASCHIO E FEMMINA)
La rue de Normandie è una di quelle vie dove uno
può credere di trovarsi in provincia: vi fiorisce l'erba, un
passante rappresenta un avvenimento, e tutti si conoscono. Le case
risalgono all'epoca in cui, sotto Enrico IV, iniziò la costruzione
di un quartiere in cui ogni via doveva portare il nome di una
provincia, con al centro una bella piazza dedicata alla Francia.
L'idea del quartiere dell'Europa fu la riproposta di quel piano. Il
mondo si ripete in ogni cosa, ovunque, anche nelle idee. La casa in
cui abitavano i due musicisti è un vecchio palazzo tra il cortile e
il giardino; ma la facciata, sulla via, risaliva al periodo della
grande fortuna del Marais nell'ultimo secolo. I due amici occupavano
tutto il secondo piano del vecchio palazzo; i due appartamenti in
cui era diviso erano di proprietà del signor Pillerault, un
ottuagenario che ne aveva affidato l'amministrazione ai coniugi
Cibot, suoi portieri da ventisei anni. Ora, poiché lo stipendio di
un portiere del Marais non pemette di vivere del solo portierato,
Cibot univa alla percentuale sugli affitti e sui carichi di legna le
risorse dell'ingegno personale: come molti portieri, faceva il
sarto. Col tempo Cibot aveva smesso di lavorare per le sartorie;
infatti, grazie alla fiducia della piccola borghesia del quartiere,
godeva del privilegio incontestabile di rammendare, accomodare e
rimettere a nuovo tutti gli abiti in un perimetro di tre strade. La
portineria era grande e pulita, con accanto una camera. Così la
famiglia Cibot era considerata una delle più agiate tra i signori
portieri della circoscrizione.
Cibot, piccolo e rinsecchito, diventato quasi
olivastro a forza di stare sempre seduto, alla turca, su un tavolo
collocato all'altezza della finestra con la grata che dava sulla
strada, col suo mestiere guadagnava circa quaranta soldi al giorno.
Lavorava ancora nonostante i suoi cinquantotto anni; ma i
cinquantotto anni sono l'età migliore per i portieri; hanno passato
una vita nella portineria, che per loro è divenuta ciò che è il
guscio per le ostriche, e sono conosciuti nel quartiere!
La signora Cibot, che un tempo era stata una
bella ostricaia, aveva lasciato il suo posto al Cadran bleu per
amore di Cibot, all'età di ventotto anni, dopo tutte le avventure
che una bella ostricaia incontra senza neppure cercarle. La bellezza
delle donne del popolo dura poco, soprattutto quando stanno di
spalle all'ingresso di un ristorante. I caldi vapori della cucina si
proiettano sui lineamenti, che si induriscono; i resti delle
bottiglie bevuti in compagnia dei camerieri s'infiltrano nel
colorito, e nessun fiore matura più in fretta di quello di una bella
ostricaia. Fortunatamente per la Cibot, il matrimonio legittimo e la
vita di portiera giunsero in tempo per salvarla; ed ella si mantenne
come una modella di Rubens, conservando una bellezza virile che le
rivali della rue de Normandie calunniavano, definendola una
cicciona. I colori della sua carnagione potevano essere paragonati
agli appetitosi pendii dei pani di burro d'Isigny; e, nonostante la
sua grassezza, dava prova di un'incomparabile agilità nello
svolgimento delle sue mansioni. La Cibot era giunta all'età in cui
le donne di quel genere sono costrette a farsi la barba. Non è come
dire che aveva quarantotto anni? Una portiera con i baffi è una
delle maggiori garanzie d'ordine e di sicurezza per un proprietario.
Se Delacroix avesse potuto vedere la Cibot appoggiata fieramente
alla sua scopa, certamente ne avrebbe fatto una Bellona!
La posizione dei coniugi Cibot, in stile d'atto
d'accusa, un giorno avrebbe stranamente influenzato quella dei due
amici; così lo storico, per essere fedele, è obbligato a entrare in
qualche dettaglio a proposito della portineria. La casa rendeva
circa ottomila franchi, perché era composta di tre appartamenti
completi, di eguale estensione, sulla via, e tre nella parte più
vecchia del palazzo, tra il cortile e il giardino. Inoltre un
ferravecchio di nome Rémonencq occupava una bottega sulla via.
Questo Rémonencq, che da qualche mese era divenuto un negoziante di
curiosità, conosceva così bene il valore di Pons come esperto di
bric-à-brac, che lo salutava dal fondo della sua bottega ogni volta
che il musicista entrava o usciva. Così, la percentuale sugli
affitti rendeva circa quattrocento franchi alla famiglia Cibot, che
inoltre aveva gratuitamente l'alloggio e la legna. Ora, dal momento
che lo stipendio di Cibot era in media di sette-ottocento franchi
l'anno, i coniugi mettevano insieme, con le mance, un'entrata di
milleseicento franchi che i Cibot letteralmente si mangiavano,
vivendo meglio di quanto non faccia la gente del popolo. «Si vive
una volta sola!», diceva la Cibot. Nata durante la Rivoluzione,
ignorava, come si vede, il catechismo.
Dei suoi rapporti con il Cadran bleu questa
portiera dall'occhio arancione e severo aveva conservato qualche
nozione culinaria che rendeva il marito oggetto dell'invidia di
tutti i suoi colleghi. Perciò, ormai giunti alla maturità, sulla
soglia della vecchiaia, i Cibot non avevano neppure cento franchi di
risparmi. D'altra parte, ben vestiti e ben nutriti, godevano nel
quartiere di una stima dovuta a ventisei anni di rigorosa onestà. Se
non possedevano niente, non dovevano neppure n'un centesimo a
nessuno, secondo una loro espressione, perché la Cibot prodigava le
n nel suo modo di parlare. Diceva al marito: «Tu sei n'un amore!».
Perché? Tanto varrebbe chiedere la ragione della sua indifferenza in
materia di religione. Fieri entrambi di quella vita alla luce del
sole, della stima di sei o sette vie, e dell'autocrazia sulla casa
che il poprietario accordava loro, erano segretamente addolorati di
non avere alcuna rendita. Cibot lamentava dolori alle mani e alle
gambe, e la Cibot deplorava che il suo povero Cibot, alla sua età,
fosse ancora costretto a lavorare. Verrà un giorno in cui, dopo
trent'anni di una vita simile, un portiere accuserà il governo
d'ingiustizia e pretenderà la decorazione della Legion d'onore! Ogni
volta che dalle chiacchiere di quartiere venivano a sapere che a una
tale domestica, dopo otto o dieci anni di servizio, era stato
intestato un vitalizio di tre o quattrocento franchi, di portineria
in portineria si alzavano grandi lamentele, che possono dare un'idea
della gelosia che a Parigi divora i mestieri più umili.
«Ecco, a noi non capiterà mai di essere messi su
un testamento! Non abbiamo fortuna! Eppure siamo più utili dei
domestici. Siamo persone di fiducia, riscuotiamo gli affitti, siamo
sempre all'erta; ma siamo trattati né più né meno come cani!».
«È solo questione di fortuna», diceva Cibot
andando a riconsegnare un abito.
«Se avessi lasciato Cibot nella sua portineria e
fossi andata a fare la cuoca, averemmo trentamila franchi da parte»,
esclamava la Cibot parlando con la vicina, le mani sui grossi
fianchi. «Mi sono proprio sbagliata, con quella storia dell'alloggio
e del riscaldamento dentro una buona portineria, e che non ci
sarebbe mancato nulla».
XIII • PROFONDO STUPORE
Quando nel 1836 i due amici occuparono il secondo
piano del vecchio palazzo, provocarono una specie di rivoluzione
nelle abitudini della famiglia Cibot. Ecco come. Schmucke aveva,
come del resto il suo amico Pons, l'abitudine di servirsi dei
portieri o delle portiere delle case in cui abitava, per sbrigare le
faccende domestiche. I due musicisti, insediandosi in rue de
Normandia, furono entrambi dell'avviso di mettersi d'accordo con la
Cibot, che divenne la loro domestica per venticinque franchi al
mese, dodici franchi e cinquanta centesimi a testa. Nel giro di un
anno la portiera emerita regnò sulla casa dei due vecchi scapoli
esattamente come regnava sulla casa del signor Pillerault, il prozio
della contessa Popinot; i loro affari divennero i suoi affari, e lei
diceva: I miei due signori. Infine, trovando i due schiaccianoci
docili come pecore, facili da accontentare, per niente diffidenti,
dei veri bambini, con il suo cuore generoso di popolana si mise a
proteggerli, ad adorarli, a servirli con una dedizione così sincera
che talvolta faceva loro qualche ramanzina e li metteva in guardia
contro tutti gli imbrogli che a Parigi fanno aumentare le spese di
casa. Con venticinque franchi al mese i due scapoli, senza alcuna
premeditazione e senza rendersene conto, acquistarono una madre.
Vedendo quanto valeva la Cibot, i due musicisti le avevano
ingenuamente rivolto degli elogi, dei ringraziamenti e dei piccoli
doni che rafforzarono i legami di quell'unione domestica. La Cibot
preferiva mille volte essere apprezzata per il suo valore che essere
pagata; sentimento che, ben conosciuto, migliora sempre i salari.
Cibot faceva a metà prezzo le commissioni, le riparazioni, tutto ciò
che poteva riguardarlo nel servizio ai due signori di sua moglie.
Poi, dal secondo anno, nell'unione tra il secondo
piano e la portineria entrò un nuovo elemento di mutua amicizia.
Schmucke concluse con la Cibot un accordo che esaudì la sua pigrizia
e il suo desiderio di vivere senza occuparsi di niente. Per trenta
soldi al giorno o quarantacinque franchi al mese, la Cibot si
incaricò di provvedere al pranzo e alla cena di Schmucke. Pons,
trovando molto soddisfacente il pranzo dell'amico, fece un accordo
analogo per diciotto franchi. Quest'organizzazione dei pasti, che
aumentò di circa novanta franchi le entrate della portineria, fece
dei due inquilini degli esseri inviolabili, degli angeli, dei
cherubini, degli dei. È molto dubbio che il re dei francesi, che se
ne intende, sia servito come lo furono allora i due schiaccianoci.
Per loro il latte sgorgava puro dal recipiente; leggevano gratis i
giornali degli inquilini del primo e del terzo piano, che si
alzavano tardi e ai quali, se fosse stato necessario, si sarebbe
detto che i giornali non erano ancora arrivati. La Cibot inoltre
teneva l'appartamento, gli abiti, il pianerottolo, in uno stato di
pulizia fiamminga. Schmucke era felice come mai avrebbe sperato: la
Cibot gli rendeva la vita facile; le dava circa sei franchi al mese
per il bucato, cui provvedeva lei stessa, e per le rammendature.
Inoltre spendeva quindici franchi al mese per il tabacco. Queste tre
voci di spesa formavano un totale mensile di sessantasei franchi
che, moltiplicati per dodici, fanno settecentonovantadue franchi.
Cibot provvedeva ai vestiti di Schmucke, per una spesa media di
centocinquanta franchi. Questo profondo filosofo viveva dunque con
milleduecento franchi l'anno. Quanta gente, in Europa, il cui solo
pensiero è di stabilirsi a Parigi, rimarrà piacevolmente sorpresa di
sapere che vi si può vivere felicemente con una rendita di
milleduecento franchi, in rue de Normandie, al Marais, sotto la
protezione di una Cibot!
La Cibot rimase stupita vedendo rientrare il buon
Pons alle cinque di sera. Non soltanto non era mai successo, ma per
di più il suo signore non la vide neppure, non la salutò.
«Bene, Cibot», disse al marito, «o il signor Pons
è diventato milionario o è impazzito!».
«Sembra anche a me», rispose Cibot lasciando
cadere una manica d'abito cui stava applicando, come si dice nel
gergo dei sarti, una giunta.
XIV • UN ESEMPIO VIVENTE DELLA FAVOLA DEI DUE PICCIONI
Mentre Pons rientrava in casa come un automa, la
Cibot aveva appena preparato la cena di Schmucke. La cena consisteva
in un certo sugo il cui odore si era sparso per tutto il cortile. Si
trattava di avanzi di manzo bollito acquistati da un rosticciere che
faceva anche il rivendugliolo, soffritti al burro con cipolla
tagliata a fette sottili fino a che il burro non fosse stato
assorbito dalla carne e dalla cipolla, in modo che questa pietanza
da portiere prendesse l'aspetto di una frittura. Il piatto,
preparato amorevolmente per Cibot e Schmucke, tra i quali la Cibot
lo avrebbe diviso, accompagnato da una bottiglia di birra e da un
pezzo di formaggio, era sufficiente al vecchio maestro di musica
tedesco. E siate certi che il re Salomone, nella sua gloria, non
cenava meglio di Schmucke. Ora questo piatto di bollito soffritto
con cipolla, ora degli avanzi di pollo saltati, ora del lesso freddo
in salsa verde, ora del pesce in una salsa inventata dalla Cibot,
nella quale una madre avrebbe mangiato il suo bambino senza
accorgersene, ora della cacciagione, secondo la qualità e la
quantità di ciò che i ristoranti del boulevard rivendevano al
rosticciere della rue Boucherat: questo era il vitto abituale di
Schmucke, che si accontentava, senza la minima obiezione, di tutto
quello che gli serviva la puona sighnora Zipot. E, di giorno in
giorno, la buona Cibot aveva diminuito le dosi del vitto in modo che
non costasse più di venti soldi.
«Vado a sentire che gli è successo, n'a quel caro
brav'uomo», disse la Cibot al marito, «tanto la cena del signor
Schmucke è pronta».
La Cibot coprì la fondina di terraglia con un
piatto di porcellana comune; poi, nonostante l'età, raggiunse
l'appartamento dei due amici proprio mentre Schmucke stava aprendo a
Pons.
«Che ha tu, mio puon amico?», chiese il tedesco
allarmato dalla faccia stravolta di Pons.
«Ti dirò tutto; ma vengo a cenare con te...».
«Cenare! cenare!», esclamò Schmucke lusingato.
«Ma essere impossipile!», aggiunse pensando alle abitudini
gastrolatriche dell'amico.
Il vecchio tedesco vide allora la Cibot che stava
ascoltando, secondo il suo diritto di donna di servizio ufficiale.
Còlto da una di quelle ispirazioni che si accendono solo nel cuore
di un vero amico, andò verso la portiera e la condusse sul
pianerottolo:
«Sighnora Zipot, il puon Pons ama le puone cose;
andate al Cadran pleu e ordinate una cena speciale: acciuche,
maccaroni! Insomma un pasto da Lucullo!».
«E che vuol dire?», chiese la Cibot.
«Eppene», rispose Schmucke, «vitello alla
finanziera, puon pesce, una pottiglia di Pordeaux, e tutte le
migliori leccornie: crocchette di riso, larto affumicato! Ma,
silenzio! e domani mattina vi restituirò il denaro».
Schmucke rientrò tutto allegro, sfregandosi le
mani; ma il suo viso riprese gradualmente un'espressione di stupore
mentre ascoltava il racconto delle sventure che si erano abbattute
nello stesso momento sul cuore del suo amico. Schmucke tentò di
consolare Pons descrivendogli la società secondo il suo punto di
vista. Parigi era una tempesta continua, gli uomini e le donne
venivano trascinati da un movimento di valzer furioso, e non
bisognava chiedere nulla alla società, che guarda soltanto
all'esteriore e non all'interiorità, disse. Raccontò per la
centesima volta che, di anno in anno, le tre uniche allieve che
avesse prediletto, e dalle quali era amato, per le quali avrebbe
dato la vita, dalle quali riceveva una piccola pensione di novecento
franchi cui contribuivano in parti eguali, ognuna con circa trecento
franchi, avevano così bene dimenticato, di anno in anno, di venirlo
a trovare, ed erano talmente travolte dalla vita parigina, che da
tre anni non era più riuscito a farsi ricevere quando andava a
trovarle. (È anche vero che Schmucke si presentava a casa di quelle
gran dame alle dieci del mattino!) Insomma, i trimestri della
pensione gli venivano pagati dai notai.
«E tuttavia», continuò, «hanno un cuore d'oro.
Sono pur sempre le mie piccole sante Cecilie, tonne incantefoli, la
sighnora te Bordentuère, la sighnora te Fantenesse, la sighnora ti
Dilet. Quando le vedo ai Champs-Elysées, senza essere feduto da
loro... mi voghliono tanto pene, e se folessi andare a pranzo ta
loro, sareppero pen contente. Potrei anche antare ta loro in
campaghnia; ma preferisco stare con il mio amico Pons, che fedo
qvando voghlio e tutti i ghiorni».
Pons prese la mano di Schmucke, la tenne tra le
sue, la strinse con un gesto che esprimeva tutta l'anima, ed
entrambi rimasero così per qualche minuto, come due amanti che si
rivedono dopo una lunga assenza.
«Chena qvi tutti i ghiorni!...», riprese Schmucke
che tra sé benediceva la durezza della presidentessa. «Su, noi
pricapracheremo insieme, e il tiafolo non metterà mai la sua cota
tra ti noi».
Per capire queste parole davvero eroiche: noi
pricapracheremo insieme! bisogna confessare che Schmucke era di una
crassa ignoranza in materia di bricabracologia. Ci voleva tutta la
forza della sua amicizia perché non rompesse nulla in salotto e
nello studio lasciati a Pons perché ne facesse il suo museo.
Schmucke, totalmente preso dalla musica, compositore, considerava
tutte le piccole sciocchezze del suo amico come un pesce che avesse
ricevuto un biglietto d'invito guarderebbe un'esposizione di fiori
al Luxembourg. Rispettava quelle opere meravigliose per la dedizione
con la quale Pons spolverava il suo tesoro. E rispondeva: «Siii,
feramente crazioso!», alle parole di ammirazione del suo amico, come
una madre risponde alle parole insignificanti e ai gesti di un
bambino che ancora non sa parlare. Da quando i due amici vivevano
insieme, Schmucke aveva visto Pons cambiare orologio sette volte,
sempre sostituendone uno meno bello con uno migliore. Ora Pons
possedeva il più bell'orologio di Boulle, in ebano intarsiato di
rame e decorato di sculture, della prima maniera di Boulle. Boulle
ha avuto due maniere, come Raffaello ne ha avute tre. Nella prima
univa il rame all'ebano; nella seconda, contro le proprie
convinzioni, usava la tartaruga, compiendo dei prodigi per vincere i
concorrenti, che avevano inventato l'intaglio in tartaruga. Malgrado
le sapienti dimostrazioni di Pons, Schmucke non vedeva la più
piccola differenza tra il magnifico orologio della prima maniera di
Boulle e gli altri dieci. Ma, in omaggio alla felicità di Pons,
Schmucke aveva più cura di tutte quelle cianfrusaglie di quanta ne
avesse il suo amico. Non bisogna dunque stupirsi se la sublime frase
di
Schmucke ebbe il potere di placare la disperazione di Pons, perché
il noi pricapracheremo del tedesco voleva dire: «Se vieni a cena
qui, metterò del denaro nel bric-à-brac».
«I signori sono serviti», disse la Cibot con una
sorprendente disinvoltura.
Si comprenderà facilmente la sorpresa di Pons nel
vedere e nell'assaporare quella cena dovuta all'amicizia di
Schmucke. Le sensazioni di questo genere, così rare nella vita, non
nascono dalla totale devozione per cui due uomini si ripetono
costantemente l'un l'altro: «Tu hai in me un altro te stesso»
(perché ci si fa l'abitudine); no, nascono dal confronto tra tali
testimonianze della felicità della vita interiore e la barbarie
della vita sociale. È la società a legare di nuovo, continuamente,
due amici o due amanti, quando due grandi anime si sono unite per
amore o per amicizia. Così Pons si asciugò due grosse lacrime,
mentre Schmucke, per parte sua, era costretto ad asciugarsi gli
occhi inumiditi. Non si dissero niente, ma si amarono ancora di più,
e si scambiarono dei piccoli cenni con la testa le cui espressioni
balsamiche lenirono i dolori di quel sassolino che la presidentessa
aveva introdotto nel cuore di Pons. Schmucke si sfregava le mani
fino a spellarsele, perché aveva concepito una di quelle idee che
stupiscono un tedesco soltanto quando si sono dischiuse
all'improvviso nel suo cervello congelato dal rispetto dovuto ai
principî supremi.
«Mio puon Bons?», disse Schmucke.
«Indovino, vuoi che ceniamo insieme tutti i
giorni...».
«Forrei essere tanto ricco ta poterti offrire
ogni ciorno una cena come questa...», rispose malinconico il buon
tedesco.
Allora la Cibot, cui Pons regalava di tanto in
tanto dei biglietti per i teatri di boulevard, e ciò gli valeva un
posto nel suo cuore allo stesso livello del pensionante Schmucke,
fece questa proposta:
«Perdinci», disse, «per tre franchi, senza il
vino, posso fare ogni giorno, per voi due, n'un pranzo da mangiarvi
anche il piatto, e da lasciarlo pulito come se fosse stato lavato».
«Il fatto è», rispose Schmucke, «che io mangio
meglio con quello che mi cucina montame Zipod di chi mangia le
leccornie del re...».
Forte della sua speranza, il rispettoso tedesco
giunse a imitare l'irriverenza dei giornaletti, insinuando sospetti
sul prezzo fisso della mensa reale.
«Veramente?», disse Pons. «Domani proverò!».
Udendo questa promessa, Schmucke saltò da un capo
all'altro della tavola trascinando la tovaglia, i piatti, le brocche
e abbracciò Pons con una stretta simile a quella di un gas che
s'impadronisce di un altro gas cui è affine.
«Che felicità!», gridò.
«Il signore cenerà qui tutti i giorni!», disse
con orgoglio la Cibot, intenerita.
Senza conoscere l'avvenimento al quale doveva la
realizzazione del suo sogno, l'eccellente Cibot scese in portineria
e vi entrò come Josépha entra in scena nel Guglielmo Tell. Si liberò
dei piatti ed esclamò:
«Cibot, corri a prendere due tazzine al Café
Turc, e di' al ragazzo che sono per me!».
Poi si mise a sedere appoggiando le mani sulle
possenti ginocchia e, guardando dalla finestra il muro di fronte,
disse:
«Stasera andrò a sentire la signora
Fontaine!...».
XV • UNA CACCIA AL TESTAMENTO
La Fontaine faceva le carte a tutte le cuoche,
alle cameriere, ai domestici, ai portieri ecc., del Marais.
«Da quando questi due signori sono venuti ad
abitare qui, abbiamo duemila franchi alla cassa di risparmio. In
otto anni, che fortuna! È meglio non guadagnare nulla sulla cena del
signor Pons e trattenerlo in casa? Me lo diranno le carte della
signora Fontaine».
Non vedendo eredi intorno a Pons né a Schmucke,
da circa tre anni la Cibot fantasticava di essere menzionata nel
testamento dei suoi signori, e aveva raddoppiato il suo zelo per
questo pensiero libidinoso, spuntato assai tardi tra i suoi baffi
fino a quel momento colmi di probità. Andando ogni giorno a cena
fuori, Pons era sfuggito al completo asservimento nel quale la
portiera intendeva tenere i suoi signori. La vita nomade di quel
vecchio trovatore-collezionista turbava le vaghe idee di seduzione
che volteggiavano nel cervello della Cibot, e che divennero un piano
formidabile dopo quella cena memorabile. Dopo un quarto d'ora la
Cibot riapparve in sala da pranzo, armata di due eccellenti tazze di
caffè accompagnate da due bicchierini di kirschwasser.
«Effifa la sighnora Zibod!», gridò Schmucke, «mi
ha intovinato».
Dopo qualche cortese protesta dello scroccone,
combattuta da Schmucke con le moine che il piccione sedentario dové
fare al piccione viaggiatore, i due amici uscirono insieme. Schmucke
non volle lasciare l'amico nella situazione in cui l'aveva messo il
comportamento dei padroni e della servitù di casa Camusot. Conosceva
bene Pons e sapeva che dei pensieri orribilmente tristi avrebbero
potuto colpirlo sul podio di direttore d'orchestra, distruggendo
così il buon effetto del suo ritorno al nido. Schmucke, riconducendo
a casa Pons verso mezzanotte, lo teneva sottobraccio; e, come fa un
amante con l'amante adorata, segnalava a Pons dove finiva o
ricominciava il marciapiede; avrebbe voluto che il lastricato fosse
di cotone, che il cielo fosse azzurro, che gli angeli facessero
udire a Pons la musica che stavano suonando per lui. Aveva
conquistato l'ultima provincia che ancora non gli apparteneva in
quel cuore!
Per circa tre mesi Pons cenò ogni giorno con
Schmucke. Ma, innanzitutto, fu costretto a detrarre ottanta franchi
dalla somma che destinava ai suoi acquisti, perché gli servirono
circa trentacinque franchi per il vino e quarantacinque per la cena.
Poi, malgrado le cure e i lazzi di Schmucke, il vecchio artista
rimpianse i piatti squisiti, i bicchierini di liquore, il buon
caffè, le chiacchiere, le false cortesie, i commensali e le
maldicenze delle case dove andava a cena. Non si rompe sul declino
della vita con un'abitudine che dura da trentasei anni. Un barile di
vino da centotrenta franchi versa un liquido poco generoso nel
bicchiere di un intenditore; così, ogni volta che Pons avvicinava il
bicchiere alle labbra, si ricordava con mille rimpianti pungenti i
vini squisiti dei suoi anfitrioni. Dunque in capo a tre mesi, i
dolori atroci che avevano rischiato di spezzare il cuore delicato di
Pons si erano attutiti, ed egli pensava soltanto ai piaceri del
vivere in società; esattamente come un vecchio donnaiolo rimpiange
un'amante lasciata perché colpevole di troppe infedeltà! Anche se
tentava di nascondere la profonda malinconia che lo divorava, il
vecchio musicista sembrava evidentemente colpito da una di quelle
inesplicabili malattie che s'insediano nel morale.
Per spiegare questa nostalgia prodotta da
un'abitudine infranta, basterà indicare uno dei mille nonnulla che,
simili alle maglie di una cotta d'arme, avvolgono l'anima in una
rete di ferro. Uno dei piaceri più vivi della vita passata di Pons,
una delle gioie dello scroccone d'un tempo, era la sorpresa,
l'impressione gastronomica del piatto straordinario, della leccornia
aggiunta trionfalmente nelle case borghesi dalla padrona che vuol
dare un'aria di festa al suo pranzo! Quella delizia dello stomaco
mancava a Pons; la Cibot, per orgoglio, gli preannunciava il menu.
Il piccante quotidiano della vita di Pons era totalmente scomparso.
Il suo pasto si svolgeva senza l'imprevisto di quello che una volta,
nelle case dei nostri vecchi, si chiamava il piatto coperto! Ecco
una cosa che Schmucke non poteva capire. Pons era troppo delicato
per lamentarsene, e se c'è qualcosa di ancora più triste del genio
misconosciuto questo è lo stomaco incompreso. Il cuore in cui
l'amore è respinto, dramma di cui si abusa, si basa su un falso
bisogno; infatti, se la creatura ci abbandona, si può amare il
Creatore, che ha dei tesori da dispensarci. Ma lo stomaco!... Niente
può essere confrontato con le sue sofferenze; perché, la vita
innanzitutto! Pons rimpiangeva certe creme, delle vere poesie! certe
salse bianche, dei capolavori! certi polli tartufati, un amore! e
sopra tutto il resto, le famose carpe del Reno che si trovano solo a
Parigi, e con quali condimenti! In certi giorni Pons esclamava: «O
Sophie!», pensando alla cuoca del conte Popinot. Un passante, udendo
questo sospiro, avrebbe creduto che il buonuomo stesse pensando a
un'amante, mentre si trattava di qualcosa di più raro: una grossa
carpa, accompagnata da una salsa, trasparente nella salsiera e densa
sulla lingua, una salsa che avrebbe meritato il premio Montyon! Il
ricordo di quelle cene vissute fece dunque dimagrire
considerevolmente il direttore d'orchestra, colpito da una nostalgia
gastrica.
XVI • UN TIPO TEDESCO
All'inizio del quarto mese, verso la fine del
gennaio 1845, il giovane flautista, che si chiamava Wilhelm come
quasi tutti i tedeschi, e Schwab per distinguersi da tutti i
Wilhelm, senza distinguersi per questo da tutti gli Schwab, ritenne
necessario far notare a Schmucke le condizioni del direttore
d'orchestra, di cui a teatro ci si preoccupava. Era il giorno di una
prima, che coinvolgeva tutti gli strumenti suonati dal vecchio
maestro tedesco.
«Il buonuomo declina, sembra malato, l'occhio è
triste, il movimento del braccio è sempre più debole», disse Wilhelm
indicando Pons che saliva sul podio con aria da funerale.
«A sessant'anni è sempre così», rispose Schmucke.
Schmucke, simile a quella madre delle Cronache di
Canongate che, per godersi il figlio altre ventiquattro ore, lo fa
fucilare, era capace di sacrificare Pons al piacere di vederlo
cenare tutti i giorni con lui.
«In teatro tutti sono preoccupati e, come dice la
signorina Héloïse Brisetout, nostra prima ballerina, quasi non fa
più rumore quando si soffia il naso».
Quando si soffiava il naso, sembrava che il
vecchio musicista suonasse il corno, tanto il suo naso lungo e
voluminoso risuonava nel fazzoletto. Questo frastuono era la causa
di uno dei più costanti rimproveri della presidentessa al cugino
Pons.
«Non so cosa darei per distrarlo», disse
Schmucke, «lo consuma la noia».
«Credetemi», disse Wilhelm Schwab, «il signor
Pons mi sembra un essere talmente superiore a noi poveri diavoli,
che non osavo invitarlo alle mie nozze. Mi sposo...».
«E come?», chiese Schmucke.
«Oh, molto onestamente», rispose Wilhelm che
nella bizzarra domanda di Schmucke trovò del sarcasmo di cui quel
perfetto cristiano era incapace.
«Andiamo, signori, ai vostri posti!», disse Pons,
che dopo aver udito il campanello del direttore scrutò il suo
piccolo esercito nell'orchestra.
Fu eseguita l'ouverture della Fiancée du Diable,
opera pastorale che ebbe duecento repliche. Al primo intervallo,
Wilhelm e Schmucke si ritrovarono soli nell'orchestra deserta. La
temperatura della sala aveva raggiunto i trentadue gradi Réaumur.
«Raccontatemi dunque la vostra storia», disse
Schmucke a Wilhelm.
«Ecco, vedete quel giovane, nel proscenio?... lo
riconoscete?».
«Niente affatto...».
«Ah! perché porta dei guanti gialli e risplende
del bagliore dell'opulenza; ma è il mio amico Fritz Brunner, di
Francoforte sul Meno...».
«Quello che assisteva alle rappresentazioni
dall'orchestra, accanto a voi?».
«Proprio lui. Non è incredibile una simile
metamorfosi?».
Quell'eroe della storia promessa era uno di quei
tedeschi il cui aspetto richiama nello stesso tempo il tetro
sarcasmo del Mefistofele di Goethe e la bonomia dei romanzi di
August Lafontaine, di pacifica memoria; l'astuzia e l'ingenuità, la
durezza dei bancari e la calcolata noncuranza di un membro del
Jockey Club; ma soprattutto il disgusto che mette la pistola in mano
a Werther, assai più annoiato dei principi tedeschi che di Carlotta.
Era veramente una figura tipica della Germania: molto ebraismo e
molta semplicità, stupidità e coraggio, una cultura che genera noia,
un'esperienza vanificata dal minimo infantilismo; l'abuso della
birra e del tabacco; e infine, a rendere evidenti tutte queste
antitesi, una scintilla diabolica in due begli occhi azzurri,
affaticati. Elegante come un banchiere, Fritz Brunner offriva agli
sguardi di tutta la sala una testa calva di un colore tizianesco,
intorno alla quale si arricciavano i pochi capelli di un biondo
ardente, che la dissolutezza e la miseria gli avevano lasciato in
modo da poter pagare un barbiere il giorno della sua restaurazione
finanziaria. Il suo volto, un tempo bello e fresco, come quello del
Gesù Cristo dei pittori, aveva assunto dei toni aspri che i baffi
rossi e una barba fulva rendevano quasi sinistri. L'azzurro puro
degli occhi si era intorbidato nella lotta con i dispiaceri. Infine
le mille prostituzioni di Parigi avevano offuscato le palpebre e il
contorno di quegli occhi dove un tempo una madre poteva vedere con
ebbrezza una copia divina dei suoi. Questo filosofo precoce, questo
giovane vecchio era l'opera di una matrigna.
Qui inizia la storia curiosa di un figliol
prodigo di Francoforte sul Meno, il fatto più straordinario e
bizzarro che sia mai accaduto in quella città, saggia anche se al
centro di grandi traffici.
XVII • DOVE SI VEDE CHE I FIGLIOLI PRODIGHI FINISCONO PER DIVENTARE
BANCHIERI E MILIONARI QUANDO SONO DI FRANCOFORTE SUL MENO
Il signor Gédéon Brunner, padre di Fritz, uno di
quei celebri albergatori di Francoforte sul Meno che praticano, con
la complicità dei banchieri, incisioni autorizzate dalle leggi sulla
borsa dei turisti, d'altra parte onesto calvinista, aveva sposato
un'ebrea convertita alla cui dote doveva la sua ricchezza. L'ebrea
morì, lasciando il figlio Fritz, di dodici anni, sotto la tutela del
padre e la sorveglianza di uno zio materno, commerciante di pellicce
a Lipsia, direttore della casa Virlaz e C. Brunner padre fu
costretto dallo zio, che non era tenero come le sue pellicce, a
investire il patrimonio del piccolo Fritz in titoli vincolati presso
la casa Al-Sartchild. Per vendicarsi di quest'esigenza israelita,
Brunner padre si risposò, sostenendo di non poter gestire il suo
immenso albergo senza l'occhio e il braccio di una donna. Sposò la
figlia di un altro albergatore, che gli sembrava una perla; ma non
aveva provato cosa significasse una figlia unica, adulata da un
padre e da una madre. La seconda signora Brunner fu quello che sono
le giovani tedesche quando sono cattive e leggere; sperperò la
propria fortuna, e vendicò la prima signora Brunner rendendo suo
marito l'uomo più infelice che fosse conosciuto nel territorio della
libera città di Francoforte sul Meno dove, si dice, i milionari
vogliono far promulgare una legge municipale che obblighi le donne a
preferire esclusivamente loro. Quella tedesca amava i diversi tipi
di aceto che i tedeschi chiamano «vino del Reno»; amava gli articoli
di lusso parigini; amava montare a cavallo; amava i bei vestiti;
insomma, l'unica cosa costosa che non amasse erano le donne. Prese
in antipatia il povero Fritz, e l'avrebbe fatto impazzire se quel
giovane prodotto del calvinismo e del mosaismo non avesse avuto come
culla Francoforte, e la casa Virlaz di Lipsia come tutela; ma lo zio
Virlaz, tutto preso dalle sue pellicce, era attento soltanto ai
marchi vincolati e lasciò il bambino nelle mani della matrigna.
Questa iena era tanto più furiosa contro quel
cherubino, figlio della bella signora Brunner, perché, malgrado gli
sforzi degni di una locomotiva, non riusciva ad avere figli. Spinta
da un pensiero diabolico, la criminale tedesca lanciò il giovane
Fritz, all'età di ventun anni, in dissolutezze antigermaniche. Sperò
che il cavallo inglese, l'aceto del Reno e le Margherite di Goethe
divorassero il figlio dell'ebrea e il suo patrimonio; perché lo zio
Virlaz aveva lasciato una bella eredità al suo piccolo Fritz quando
aveva raggiunto la maggiore età. Ma, se le roulettes delle stazioni
termali e i compagni di bagordi, tra i quali Wilhelm Schwab,
esaurirono il capitale Virlaz, il giovane figliol prodigo restò, per
volere del Signore, un esempio per i cadetti della città di
Francoforte sul Meno, dove ogni famiglia lo usa come spauracchio per
conservare i loro figli onesti e timorosi nelle loro banche
blindate, piene di titoli vincolati. Invece di morire nel fiore
degli anni, Fritz Brunner ebbe il piacere di veder sotterrare la
matrigna in uno di quegli incantevoli cimiteri dove i tedeschi, col
pretesto di onorare i loro morti, si dedicano alla sfrenata passione
dell'orticoltura. La seconda signora Brunner morì dunque prima dei
suoi autori; il vecchio Brunner perse il denaro che lei aveva
prelevato dai suoi scrigni e ne provò tali pene che
quest'albergatore di erculea costituzione si ritrovò, a
sessantasette anni, indebolito come se fosse stato avvelenato dalla
famosa pozione dei Borgia. Il fatto di non ereditare dalla moglie,
dopo averla sopportata per dieci anni, fece dell'albergatore una
seconda rovina di Heidelberg, ma restaurata continuamente dai
Rechnungs dei viaggiatori come si restaura quella di Heidelberg per
tenere vivo l'interesse dei turisti che affluiscono per vedere
quella bella rovina, conservata così bene. A Francoforte ne
parlavano come di un fallimento, e dicevano indicando Brunner:
«Ecco dove possono condurre una donna malvagia da
cui non si eredita nulla, e un figlio educato alla francese!». In
Italia e in Germania, i francesi sono la causa di ogni sciagura, il
bersaglio di ogni colpo; mais le dieu, poursuivant sa carrière...
(Il seguito come nell'ode di Lefranc de Pompignan.)
La collera del proprietario del grande Hôtel de
Hollande non ricadde soltanto sui viaggiatori, i cui conti
(Rechnungs) documentarono le sue afflizioni. Quando il figlio fu
totalmente rovinato, Gédéon, considerandolo la causa indiretta delle
sue disgrazie, gli negò il pane e l'acqua, il sale, il fuoco,
l'alloggio e la pipa!, il che rappresenta per un padre albergatore e
tedesco l'ultimo grado della maledizione paterna. Le autorità del
luogo, non rendendosi conto delle colpe originarie del padre, e
vedendo in lui uno degli uomini più sventurati di Francoforte sul
Meno, gli vennero in aiuto; espulsero Fritz dal territorio di quella
libera città, senza alcun motivo. La giustizia non è più umana né
più saggia a Francoforte che altrove, benché questa città sia la
sede della Dieta germanica. Raramente un magistrato risale il fiume
dei crimini e delle sventure per sapere chi teneva in mano l'urna da
cui si versò il primo filo d'acqua. Brunner dimenticò suo figlio, e
gli amici albergatori lo imitarono.
Ah! se questa storia avesse potuto essere
rappresentata davanti alla buca del suggeritore per quella sala in
cui i giornalisti, i bellimbusti e alcune parigine si stavano
chiedendo da dove fosse uscito il volto profondamente tragico di
quel tedesco apparso tra la Parigi elegante nel bel mezzo di una
prima, solo, in un palco di proscenio, una simile storia sarebbe
stata molto più bella dell'opera fantastica La fiancée du diable,
anche se si fosse trattato della duecentomillesima replica della
sublime parabola rappresentata in Mesopotamia tremila anni prima di
Cristo.
Fritz andò a piedi a Strasburgo, e vi trovò
quello che il figliol prodigo della Bibbia non aveva trovato nella
patria delle Sacre Scritture. In ciò si rivela la superiorità
dell'Alsazia, dove battono tanti cuori generosi, per mostrare alla
Germania la bellezza dell'incontro tra lo spirito francese e la
solidità tedesca. Wilhelm, da qualche giorno erede del patrimonio
del padre e della madre, possedeva centomila franchi; aprì le
braccia a Fritz, gli aprì il cuore, la casa e la borsa. Descrivere
il momento in cui Fritz, impolverato, malridotto e quasi lebbroso,
trovò sull'altra riva del Reno una vera moneta da venti franchi
nella mano di un vero amico, sarebbe come voler iniziare un'ode, e
solo Pindaro potrebbe lanciarla in greco sull'umanità per
riaccendere l'amicizia morente. Affiancate i nomi di Fritz e Wilhelm
a quelli di Damone e Pizia, di Castore e Polluce, di Oreste e
Pilade, di Dubreuil e Pmeyah, di Schmucke e Pons, e a tutti i nomi
di fantasia che diamo ai due amici del Monomotapa, poiché La
Fontaine, da uomo di genio che era, ne ha fatto delle sembianze
prive di corpo, senza realtà; aggiungete questi due nomi nuovi a
quelli illustri già ricordati, ancor più a ragione in quanto Wilhelm
mangiò, in compagnia di Fritz, la propria eredità, come Fritz aveva
bevuto la sua con Wilhelm, ma fumando, sia chiaro, ogni specie
conosciuta di tabacco.
I due amici divorarono quell'eredità, cosa
strana!, nelle birrerie di Strasburgo, nel modo più stupido e
comune, insieme con delle comparse del teatro di Strasburgo e delle
alsaziane le quali delle loro piccole scope non avevano che il
manico. E ogni mattina si dicevano l'un altro:
«Dobbiamo fermarci, prendere una decisione, fare
qualcosa con quello che ci resta!».
«Bah!, ancora oggi...», diceva Fritz, «ma
domani... oh! domani...».
Nella vita degli scialacquatori Oggi è un gran
vanesio, ma Domani è un gran vigliacco, spaventato dal coraggio del
suo predecessore; Oggi è il Capitano dell'antica commedia, e Domani
è il Pierrot delle nostre pantomime. Giunti al loro ultimo biglietto
da mille franchi, i due amici acquistarono due posti alle
Messaggerie dette reali, che li condussero a Parigi dove
alloggiarono nelle soffitte dell'Hôtel du Rhin, rue du Mail, da
Graff, già primo cameriere di Gédéon Brunner. Fritz entrò come
commesso a seicento franchi presso i fratelli Keller, banchieri, cui
era stato raccomandato da Graff. Graff, padrone dell'Hôtel du Rhin,
è il fratello del famoso sarto Graff. Il sarto assunse Wilhelm come
contabile. Graff trovò questi due umili impieghi ai due figlioli
prodighi, in ricordo del suo apprendistato presso l'Hôtel de
Hollande. Questi due fatti: un amico in rovina riconosciuto da un
amico ricco, e un albergatore tedesco che s'interessa di due
compatrioti senza un soldo, faranno credere a chiunque che questa
storia sia un romanzo; ma tutte le cose vere tanto più somigliano a
delle favole quanto più la favola, nel nostro tempo, fa degli sforzi
inauditi per somigliare alla verità.
Fritz, commesso a seicento franchi, Wilhelm,
contabile con lo stesso stipendio, si resero ben conto della
difficoltà di vivere in una città cortigiana come Parigi. Così, dal
secondo anno del loro soggiorno, nel 1837, Wilhelm, che aveva un
buon talento di flautista, entrò nell'orchestra diretta da Pons, per
poter mettere qualche volta un po' di burro sul pane. Quanto a
Fritz, riuscì a trovare un po' di soldi solo impiegando l'abilità
finanziaria di un figlio di Virlaz. Malgrado la sua assiduità, forse
a causa del suo talento, il francofortese giunse a guadagnare
duemila franchi solo nel 1843. La miseria, divina matrigna, fece per
questi due giovani quello che le loro madri non erano riuscite a
fare: insegnò loro l'economia, il mondo e la vita; impartì loro
quella grande, quella forte educazione ch'essa dispensa a colpi di
frusta ai grandi uomini, tutti infelici nella loro infanzia. Fritz e
Wilhelm, che erano uomini piuttosto comuni, non ascoltarono tutte le
lezioni della miseria, si difesero dai suoi attacchi, trovarono che
aveva il seno duro, le braccia scarne, e non ne trassero affatto
quella buona fata Urgèle che cede alle carezze delle persone di
genio. Tuttavia impararono a riconoscere il valore della fortuna, e
si ripromisero di tagliarle le ali se mai fosse tornata alla loro
porta.
XVIII • COME SI FA FORTUNA
«Ebbene, papà Schmucke», riprese Wilhelm, che
raccontò in tedesco per esteso questa storia al pianista, «poche
parole vi spiegheranno tutto. Il padre di Brunner è morto. Senza che
il figlio né il signor Graff, presso il quale alloggiavamo, ne
sapesse niente, egli è stato uno dei fondatori delle ferrovie del
Baden, con le quali ha realizzato immensi guadagni, e ha lasciato
quattro milioni! Stasera suono il flauto per l'ultima volta. Se non
si fosse trattato di una prima, me ne sarei già andato da qualche
giorno; non ho voluto far mancare la mia parte».
«Molto bene, giovanotto», disse Schmucke, «ma chi
sposate?».
«La figlia del signor Graff, nostro ospite e
proprietario dell'Hôtel du Rhin. Amo la signorina Émilie da sette
anni; ha letto tanti romanzi immorali che ha rifiutato ogni partito
per me, senza sapere cosa le sarebbe accaduto. La ragazza sarà molto
ricca, è l'unica erede dei Graff, i sarti della rue de Richelieu.
Fritz mi dona cinque volte quello che abbiamo consumato insieme a
Strasburgo, cinquecentomila franchi!... Mette un milione di franchi
in una banca dove il signor Graff, il sarto, ne mette
cinquecentomila a sua volta; il padre della mia promessa sposa mi
permette di depositarvi la dote, che è di duecentocinquantamila
franchi, e ci finanzia per altrettanto. La casa Brunner, Schwab e C.
avrà dunque un capitale di due milioni e cinquecentomila franchi. A
garanzia del nostro conto, Fritz ha appena acquistato un milione e
cinquecentomila franchi in azioni della Banca di Francia. Non è
l'intero patrimonio di Fritz; gli restano ancora le case del padre a
Francoforte, che sono valutate un milione, e ha già affittato il
grande Hôtel de Hollande a un cugino di Graff».
«State guardando il vostro amico con tristezza»,
disse Schmucke che aveva ascoltato Wilhelm attentamente, «siete
forse geloso di lui?».
«Sono geloso, ma della felicità di Fritz»,
rispose Wilhelm. «Vi sembra il volto di un uomo soddisfatto? Ho
paura di Parigi per lui; vorrei che prendesse la mia stessa
decisione. L'antico dèmone può risvegliarsi in lui. Delle due nostre
teste, non è la sua quella in cui è entrata più saggezza.
Quell'abbigliamento, quell'occhialino, tutto ciò mi preoccupa. Non
ha fatto che guardare le donnine in sala. Ah! se sapeste com'è
difficile trovare una moglie per Fritz! Ha orrore di quello che in
Francia si dice fare la corte; e invece bisognerebbe lanciarlo nella
famiglia, come in Inghilterra si lancia un uomo nell'eternità.
Durante il tumulto che segna la fine di tutte le
prime, il flauto invitò il direttore d'orchestra. Pons accettò con
gioia. Allora Schmucke vide, per la prima volta da tre mesi, un
sorriso sul volto del suo amico; lo ricondusse in rue de Normandie,
in profondo silenzio perché da quel lampo di gioia aveva capito la
profondità della malattia che rodeva Pons. Che un uomo veramente
nobile come lui, disinteressato, di sentimenti elevati, avesse tali
debolezze!... ecco cosa stupiva lo stoico Schmucke, che divenne
orribilmente triste perché sentì la necessità di rinunciare a vedere
ogni giorno il suo puon Bons a tavola davanti a lui!, nell'interesse
della felicità di Pons; e non sapeva se quel sacrificio gli sarebbe
stato possibile: la sola idea lo faceva impazzire!
XIX • A PROPOSITO DI UN VENTAGLIO
Il fiero silenzio mantenuto da Pons, rifugiato
sull'Aventino della rue Normandie, aveva inevitabilmente colpito la
presidentessa che, liberatasi del suo parassita, se ne dispiaceva
poco; pensava, come la sua affascinante figliola, che il cugino
avesse capito il senso dello scherzo della piccola Lili; ma non fu
così per il presidente. Il presidente Camusot de Marville, piccolo e
tondo, di solenne portamento dopo l'avanzamento di grado, ammirava
Cicerone, preferiva l'Opéra-Comique al Théâtre des Italiens, faceva
confronti tra gli attori, era attento alle mode; ripeteva, come
fossero idee sue, tutti gli articoli del giornale ministeriale, e in
camera di consiglio parafrasava le idee del consigliere che lo aveva
preceduto. Questo magistrato, sufficientemente conosciuto nei tratti
essenziali del carattere, costretto dalla posizione a prendere tutto
sul serio, teneva soprattutto ai legami familiari. Come la maggior
parte dei mariti totalmente dominati dalle mogli, il presidente
esibiva nelle piccole cose un'indipendenza che la moglie rispettava.
Se, per un mese, il presidente si accontentò delle banali ragioni
con cui la presidentessa giustificava la scomparsa di Pons, finì per
trovare strano che il vecchio musicista, amico da quarant'anni, non
venisse più, soprattutto dopo aver fatto un dono così importante
come il ventaglio della Pompadour. Quel ventaglio, considerato un
capolavoro dal conte Popinot, procurò alla presidentessa e alle
Tuileries, dove quel gioiello passò di mano in mano, complimenti che
lusingarono eccessivamente il suo amor proprio; le furono indicate
in dettaglio le bellezze delle dieci stecche d'avorio, ognuna delle
quali presentava intagli di rara finezza. Una dama russa (le russe
credono sempre di essere in Russia) offrì, in casa del conte
Popinot, seimila franchi alla presidentessa per quel ventaglio
straordinario, sorridendo nel vederlo in tali mani in quanto si
trattava, bisogna dirlo, di un ventaglio da duchessa.
«Non si può negare a quel povero cugino», disse
Cécile al padre il giorno dopo quel regalo, «di essere un
intenditore di queste piccole sciocchezze!».
«Piccole sciocchezze!», esclamò il presidente.
«Lo Stato pagherà trecentomila franchi per la collezione del defunto
consigliere Dusommerard, e spenderà, a metà con il Comune di Parigi,
quasi un milione per l'acquisto e il restauro del palazzo di Cluny,
per sistemarvi quelle piccole sciocchezze... Quelle piccole
sciocchezze, mia cara bambina, spesso sono le uniche testimonianze
di civiltà scomparse. Un vaso etrusco, una collana, che talvolta
valgono l'uno quaranta, l'altra cinquanta franchi, sono piccole
sciocchezze che ci rivelano la perfezione delle arti al tempo
dell'assedio di Troia, e ci dimostrano che gli etruschi erano dei
troiani rifugiati in Italia!».
Era questo il genere di battute del corpulento
presidente; alla moglie e alla figlia destinava pesanti ironie.
«L'insieme delle conoscenze che queste piccole
sciocchezze esigono, Cécile», continuò, «è una scienza che si chiama
archeologia. L'archeologia comprende l'architettura, la scultura, la
pittura, l'oreficeria, la ceramica, l'ebanisteria, arte
assolutamente moderna; poi i merletti, gli arazzi, insomma ogni
creazione del lavoro umano».
«Ma allora il cugino Pons è un dotto?», chiese
Cécile.
«A proposito, come mai non lo si vede più?»,
domandò il presidente con l'aria di un uomo che prova un'emozione
prodotta da mille osservazioni dimenticate, che all'improvviso si
riuniscono e fanno palla, per impiegare un'espressione dei
cacciatori.
«Gli sarà saltata la mosca al naso per qualche
inezia», rispose la presidentessa. «Forse sono stata meno sensibile
del dovuto al dono del ventaglio. Sapete che sono piuttosto
ignorante...».
«Voi! una delle migliori allieve di Servin»,
esclamò il presidente, «non conoscete Watteau?».
«Conosco David, Gérard, Gros, e Girodet, e
Guérin, e Forbin, e Turpin de Crissé...».
«Ma avreste dovuto...».
«Cosa avrei dovuto, signore?», chiese la
presidentessa guardando il marito con un'aria da regina di Saba.
«Sapere chi è Watteau, mia cara, è molto di
moda», rispose il presidente con un tono di umiltà che rivelava
tutti i suoi obblighi nei confronti della moglie.
Questa conversazione aveva preceduto di qualche
giorno la prima della Fiancée du diable, quando l'intera orchestra
fu colpita dal cattivo stato di salute di Pons. Allora le persone
abituate a vedere Pons alla loro tavola, a servirsene come
messaggero, se ne erano chieste la ragione, e nell'ambiente nel
quale il brav'uomo gravitava s'era sparsa un'inquietudine tanto
maggiore proprio per il fatto che in molti lo videro al suo posto in
teatro. Malgrado l'attenzione con cui Pons evitava nelle sue
passeggiate le antiche conoscenze, s'imbatté nell'ex ministro conte
Popinot da Monistrol, uno dei più noti e scaltri negozianti del
nuovo boulevard Beaumarchais, di cui Pons aveva parlato alla
presidentessa, e il cui astuto entusiasmo fa rincarare di giorno in
giorno le curiosità che, come dicono i commercianti, sono ormai
divenute così rare da non trovarne più.
«Mio caro Pons, perché non vi si vede più? Ci
mancate molto, e la signora Popinot non sa cosa pensare di
quest'abbandono».
«Signor conte», rispose il buonuomo, «mi hanno
fatto capire, in una casa, presso un parente, che alla mia età si è
di troppo nel mondo. Non sono mai stato ricevuto con molti riguardi,
ma almeno non ero stato ancora insultato. Non ho mai chiesto nulla a
nessuno», disse con la fierezza dell'artista. «In cambio di un po'
di gentilezza, mi rendevo spesso utile a chi mi accoglieva; ma pare
che io mi sia sbagliato, e che dovrei subire imposizioni e servitù,
alla mercé degli altri, per l'onore di andare a cena dai miei amici,
dai miei parenti... Ebbene, ho dato le mie dimissioni da scroccone.
A casa mia trovo ogni giorno quello che nessuna tavola mi ha
offerto: un vero amico!».
Queste parole, ispirate dall'amarezza che il
vecchio artista riusciva ancora a mettervi con i gesti e i toni,
colpirono talmente il pari di Francia, che lo prese da parte.
«Ma cosa vi è successo, mio vecchio amico? Non
potete confidarmi cosa vi ha offeso? Mi permetterete di farvi notare
che in casa mia siete sempre stato trattato con riguardo...».
«Siete l'unica eccezione che posso fare», disse
il buonuomo. «Del resto, siete un gran signore, un uomo di Stato, e
le vostre preoccupazioni, in ogni caso, giustificherebbero tutto».
Pons, circuito dall'abilità diplomatica acquisita
da Popinot nel manipolare gli uomini e gli affari, finì per
raccontare le sue sventure in casa del presidente de Marville.
Popinot sposò con tanto calore le ragioni della vittima che ne parlò
subito alla signora Popinot, eccellente e degna donna, che fece le
sue rimostranze alla presidentessa appena la incontrò. E poiché l'ex
ministro, da parte sua, aveva detto qualche parola in proposito al
presidente, ci fu una spiegazione in famiglia, dai Camusot de
Marville. Benché Camusot non fosse del tutto padrone in casa sua, la
sua rimostranza era troppo fondata di diritto e di fatto perché la
moglie e la figlia non ne riconoscessero la verità; si scusarono
entrambe, e dettero la colpa ai domestici. Questi, chiamati e
redarguiti, ottennero il perdono solo dopo una completa confessione,
la quale provò al presidente che il cugino Pons aveva ragione a
starsene a casa sua. Come tutti i padroni di casa dominati dalle
loro mogli, il presidente usò tutta la sua autorità maritale e
giudiziaria, dichiarando ai domestici che sarebbero stati
licenziati, e avrebbero così perso tutti i vantaggi che derivavano
dal lungo servizio in casa sua, se in futuro il cugino Pons e
chiunque gli facesse l'onore di venire in casa non fossero stati
trattati come lui stesso. Queste parole fecero sorridere Madeleine.
«Avete una sola possibilità di salvezza»,
aggiunse il presidente, «disarmare mio cugino con delle scuse.
Andate a dirgli che la vostra permanenza in questa casa dipende
interamente da lui, perché io vi licenzio tutti se non vi perdona».
XX • RITORNO DEI BEI GIORNI
Il giorno dopo, il presidente uscì di buon'ora
per poter fare una visita al cugino prima dell'udienza.
L'apparizione del signor presidente de Marville, annunciato dalla
Cibot, fu un avvenimento. Pons, che riceveva quest'onore per la
prima volta in vita sua, capì che era una riparazione.
«Caro cugino», disse il presidente dopo i
convenevoli di rito, «finalmente ho saputo la causa della vostra
scomparsa. La vostra condotta aumenta, se è possibile, la stima che
ho per voi. A questo proposito vi dirò una sola cosa: i miei
domestici sono tutti licenziati. Mia moglie e mia figlia sono
disperate; vogliono vedervi, per chiarire tutto. In tutta questa
storia, cugino, c'è un innocente, ed è un vecchio giudice; non
punitemi dunque per la scappatella di una ragazzina stordita che
voleva andare a cena dai Popinot, soprattutto quando vengo a
chiedervi la pace riconoscendo che tutti i torti sono dalla nostra
parte... Un'amicizia di trentasei anni, anche ammesso che sia
deteriorata, ha certo ancora qualche diritto. Su, firmate la pace
venendo questa sera a cena da noi...».
Pons s'ingarbugliò in una risposta prolissa, e
concluse facendo notare al cugino che quella sera doveva assistere
al fidanzamento di un musicista della sua orchestra, che gettava il
flauto alle ortiche per diventare banchiere.
«Allora domani».
«Cugino mio, la signora contessa Popinot mi ha
fatto l'onore di invitarmi con una lettera di una tale
amabilità...».
«E allora dopodomani...», continuò il presidente.
«Dopodomani, il socio del mio primo flauto, un
tedesco, il signor Brunner, restituirà ai fidanzati la cortesia che
oggi riceve da loro...».
«Siete davvero gradito, se ci si contende in
questo modo il piacere di avervi», disse il presidente. «Ebbene,
domenica prossima! oggi a otto... come si dice a palazzo di
Giustizia».
«Ma saremo a cena da un certo signor Graff, il
suocero del flauto...».
«E allora sabato! Da qui ad allora avrete avuto
il tempo di rassicurare una ragazza che ha già versato delle lacrime
sulla sua colpa. Dio non chiede altro che il pentimento; sarete più
esigente del Padre eterno con quella povera piccola Cécile?...».
Pons, preso sul lato debole, ripiegò su formule
più che cortesi, e riaccompagnò il presidente fino sul pianerottolo.
Un'ora dopo, arrivarono a casa di quel buonuomo di Pons i domestici
del presidente; si dimostrarono quello che sono i domestici, vili e
ipocriti: piansero! Madeleine prese in disparte Pons e con decisione
gli si gettò ai piedi.
«È tutta colpa mia, signore... e il signore sa
bene quanto io l'ami...», disse sciogliendosi in lacrime. «In tutta
questa disgraziata vicenda, è con la vendetta che mi ribolliva nel
sangue che il signore deve prendersela. Perderemo i nostri
vitalizi!... Signore, ero pazza, e non vorrei che i miei compagni
subissero le conseguenze della mia pazzia... Mi rendo conto, adesso,
che non ero destinata ad essere del signore. Me ne sono fatta una
ragione, sono stata troppo ambiziosa, ma vi amo ancora, signore. Per
dieci anni non ho sognato altro che la gioia di rendervi felice e di
aver cura della vostra casa. Che bel destino!... Oh, se il signore
sapesse quanto l'amo! Ma il signore deve essersene accorto per tutte
le mie cattiverie. Se morissi domani, cosa si troverebbe?... un
testamento in vostro favore, signore... sì, signore, nel mio baule,
sotto i miei gioielli!».
Toccando questa corda, Madeleine consegnò il
vecchio scapolo ai sublimi piaceri dell'amor proprio che una
passione suscitata da noi stessi, anche se sgradevole, farà sempre
nascere. Dopo aver perdonato nobilmente Madeleine, Pons accolse la
resa di tutti gli altri, dicendo loro che avrebbe parlato alla
cugina presidentessa per ottenere che tutti rimanessero al suo
servizio. Con ineffabile piacere, Pons si vide ristabilito in tutti
i suoi godimenti abituali, senza aver commesso alcun atto di viltà.
Erano stati gli altri a venire da lui, quindi la dignità del suo
carattere
ci guadagnava; ma, descrivendo il suo trionfo all'amico Schmucke,
ebbe il dolore di vederlo triste e turbato da dubbi inespressi.
Tuttavia, alla vista del rapido cambiamento prodotto nella
fisionomia di Pons, il buon tedesco finì per rallegrarsi,
sacrificando la felicità che aveva gustato nell'aver avuto tutto per
sé, per circa quattro mesi, il suo amico. Le malattie morali hanno
su quelle fisiche un vantaggio immenso: guariscono immediatamente
appena viene soddisfatto il desiderio che le genera, così come
nascono dalla privazione: quella mattina Pons fu un altro uomo. Il
vecchio triste, moribondo, fece posto al Pons soddisfatto che aveva
appena portato alla presidentessa il ventaglio della marchesa
Pompadour. Ma Schmucke precipitò in profondi pensieri su quel
fenomeno che non riusciva a comprendere perché il vero stoicismo non
potrà mai spiegarsi la cortigianeria francese. Pons era un vero
francese dell'Impero, nel quale la galanteria dell'ultimo secolo si
univa alla devozione per la donna, tanto celebrata nelle romanze
come Partant pour la Syrie ecc. Schmucke seppellì il dolore nel
cuore, sotto i fiori della sua filosofia tedesca; ma in otto giorni
diventò giallo, e la Cibot dovette usare dei sotterfugi per farlo
visitare dal medico di quartiere. Il medico sospettò un ittero, e
lasciò la Cibot folgorata da questo termine dotto che significa
itterizia.
Forse per la prima volta, i due amici andarono
insieme a pranzo fuori; ma per Schmucke era come fare una gita in
Germania. Infatti Johann Graff, il padrone dell'Hôtel du Rhin, e sua
figlia Émilie; Wolfgang Graff, il sarto, e sua moglie; Fritz Brunner
e Wilhelm Schwab, erano tutti tedeschi. Pons e il notaio erano gli
unici francesi invitati al banchetto. I sarti, che possedevano un
magnifico palazzo in rue de Richelieu, tra la rue
Neuve-des-PetitsChamps e la rue Villedot, avevano allevato in casa
la nipote, per la quale il padre temeva, a ragione, il contatto con
la gente di ogni tipo che frequenta un albergo. Questi degni sarti,
che amavano la nipote come se fosse una loro figlia, avevano messo a
disposizione degli sposi il pianterreno. Lì doveva insediarsi la
Banca Brunner, Schwab e C.
Poiché il pianterreno era stato sistemato da appena un mese, tempo
per realizzare l'acquisizione dell'eredità di Brunner, autore di
tutta questa felicità, l'appartamento era stato lussuosamente
rinnovato e ammobiliato dal famoso sarto. Gli uffici della banca
erano stati allestiti nell'ala che collegava una magnifica casa
d'affitto costruita sulla via all'antico palazzo situato tra il
cortile e il giardino.
XXI • QUANTO COSTA UNA MOGLIE
Mentre andavano dalla rue de Normandie alla rue
de Richelieu, Pons si fece raccontare dal distratto Schmucke i
dettagli di questa nuova storia del figliol prodigo, per favorire il
quale la Morte aveva ucciso l'albergatore grasso. Pons, appena
riconciliato con i suoi parenti più vicini, fu subito preso dal
desiderio di far sposare Fritz Brunner con Cécile de Marville. Il
caso volle che il notaio dei fratelli Graff fosse proprio il genero
e successore di Cardot, ex praticante dello studio, dal quale Pons
andava spesso a cena.
«Oh! come va, signor Berthier?», disse il vecchio
musicista tendendo la mano al suo ex anfitrione.
«Ma perché non ci fate più il piacere di venire a
cena da noi?», chiese il notaio. «Mia moglie era in pensiero. Poi vi
abbiamo visto alla prima della Fiancée du Diable e la nostra
inquietudine è diventata curiosità».
«I vecchi sono suscettibili», rispose il
buonuomo, «hanno il torto di essere in ritardo di un secolo; ma che
farci?... è già molto rappresentarne uno, e non possono essere di
quello che li vede morire».
«Ah!», disse il notaio con aria arguta, « non si
può vivere in due secoli contemporaneamente».
«A proposito», disse il buonuomo prendendo in
disparte il giovane notaio, «perché non trovate marito a mia cugina
Cécile de Marville?».
«Ah! perché?...», continuò il notaio. «In questo
secolo in cui il lusso è entrato perfino nelle portinerie, i giovani
esitano a unire la loro sorte a quella della figlia di un presidente
della corte reale di Parigi quando ha una dote di soli centomila
franchi. Non si conosce ancora una donna che non costi al marito più
di tremila franchi l'anno, nella classe alla quale apparterrà il
marito della signorina de Marville. Gli interessi di una simile dote
possono appena pagare le spese di vestiario di una futura sposa. A
uno scapolo che abbia dai quindici ai ventimila franchi di rendita,
alloggiato in un grazioso mezzanino, nessuno chiede di strafare; può
avere un solo domestico, spende ogni sua rendita in divertimenti,
non ha altro decoro da mantenere tranne quello di cui s'incarica il
suo sarto. Vezzeggiato da ogni madre previdente, è uno dei re della
fashion parigina. Al contrario, una donna esige una casa attrezzata,
una carrozza; se va a teatro vuole un palco, mentre allo scapolo
basta una sedia; insomma, consuma tutta la ricchezza che lo scapolo
si godeva per conto proprio. Supponete che due sposi abbiano una
rendita di trentamila franchi: nella società attuale, lo scapolo
ricco diventa un povero diavolo che deve stare attento al costo di
una gita a Chantilly. Aggiungete dei figli... ed ecco l'indigenza.
Poiché il signore e la signora de Marville sono appena sulla
cinquantina, le speranze hanno una scadenza di quindici o venti
anni; nessuno scapolo se la sente di tenerle così a lungo nel
portafoglio; e il calcolo corrompe talmente bene il cuore degli
sventati che danzano la polka da Mabille con le donnine allegre, che
ogni giovanotto in età di matrimonio studia i due aspetti del
problema senza alcun bisogno delle nostre spiegazioni. Detto tra
noi, la signorina de Marville lascia ai suoi pretendenti il cuore
assai tranquillo perché la testa resti al suo posto, e possono
quindi dedicarsi a queste riflessioni antimatrimoniali. Se qualche
giovanotto, assennato e provvisto di una rendita di ventimila
franchi, traccia in petto un programma matrimoniale per soddisfare
dei pensieri ambiziosi, la signorina de Marville è poco adatta...».
«E perché?», chiese stupito il musicista.
«Ah!...», rispose il notaio, «oggi quasi tutti
questi giovani, anche quando sono brutti come noi due, mio caro
Pons, hanno l'impertinenza di esigere una dote di seicentomila
franchi, e delle signorine di ottima famiglia, molto belle, molto
intelligenti, ottimamente educate, senza difetti, perfette».
«Dunque per mia cugina sarà difficile sposarsi?».
«Resterà zitella fino a quando il padre e la
madre non si decideranno a darle in dote le proprietà Marville; se
l'avessero voluto, sarebbe già la viscontessa Popinot... Ma ecco il
signor Brunner; dobbiamo leggere l'atto costitutivo della società
Brunner e il contratto di matrimonio».
Dopo le presentazioni e i convenevoli di rito,
Pons, cui era stato chiesto dai parenti di sottoscrivere il
contratto, ascoltò la lettura degli atti, e verso le cinque e mezzo
si passò in sala da pranzo. La cena fu sontuosa, come quelle offerte
dai negozianti quando fanno una tregua nei loro affari, e attestava
le relazioni di Graff, il padrone dell'Hôtel du Rhin, con i primi
fornitori di Parigi. Mai Pons e Schmucke avevano ricevuto un
trattamento simile. Ci furono portate à ravir la pensée!...
tagliatelle di una delicatezza inedita, eperlani fritti in modo
incomparabile, un ferra del lago di Ginevra in vera salsa ginevrina,
e una crema per plumpudding da stupire il famoso dottore che,
dicono, l'ha inventata a Londra. Si alzarono da tavola alle dieci di
sera. La quantità di vino del Reno e di vini francesi bevuta durante
la cena farebbe stupire dei dandy, perché non si può immaginare
quanto liquido riescano a ingerire i tedeschi restando calmi e
tranquilli. Bisogna mangiare in Germania e vedere le bottiglie che
si susseguono le une alle altre come l'onda segue l'onda su una
bella spiaggia del Mediterraneo, scomparendo come se i tedeschi
avessero lo stesso potere assorbente della spugna e della sabbia; ma
armoniosamente, senza il fracasso francese; il discorso si mantiene
assennato come le chiacchiere improvvisate di un usuraio; i volti
diventano rossi come quelli delle fidanzate dipinte negli affreschi
di Cornelius o di Schnorr, cioè impercettibilmente, e i ricordi si
diffondono come il fumo della pipa, lentamente.
Verso le dieci e mezzo, Pons e Schmucke si
trovarono su una panca, nel giardino, ognuno a fianco dell'ex
flauto, senza sapere bene chi li avesse spinti a raccontarsi i loro
caratteri, le loro opinioni e le loro disavventure. In mezzo a quel
pot-pourri di confidenze, Wilhelm parlò del suo desiderio di far
sposare Fritz, ma con una forza e un'eloquenza un po' ebbre.
«Che ne direste di questo programma per il vostro
amico Fritz...», disse Pons all'orecchio di Wilhelm, «una giovane
incantevole, ragionevole, ventiquattro anni, di famiglia
assolutamente distinta, il padre in uno dei ruoli più elevati della
magistratura, centomila franchi di dote e speranze per un milione?».
«Aspettate!», rispose Schwab, «vado subito a
parlarne a Fritz».
E i due musicisti videro Brunner e l'amico
passeggiare per il giardino, passare e ripassare sotto i loro occhi,
ascoltarsi a vicenda. Pons, che aveva la testa un po' pesante e,
senza essere ubriaco, aveva tanta leggerezza nelle idee quanta
pesantezza nel loro involucro, osservò Fritz Brunner attraverso
quella nube diafana che provoca il vino, e volle vedere in quella
fisionomia delle aspirazioni alla felicità familiare. Schwab
presentò subito al signor Pons il suo amico, il suo socio, che
ringraziò molto il vecchio per le sue attenzioni. Iniziò una
conversazione, durante la quale Schmucke e Pons, questi due celibi,
esaltarono il matrimonio e si permisero, senza malizia, questo gioco
di parole: «che significava fine dell'uomo». Quando furono serviti i
gelati, il tè, il ponce e i dolci nel futuro appartamento dei futuri
sposi, l'ilarità esplose tra quegli onorevoli negozianti, quasi
tutti ubriachi, non appena vennero a sapere che l'accomandante della
banca stava per imitare il suo socio.
Schmucke e Pons, alle due del mattino,
rientrarono a casa attraverso i boulevards, filosofando in maniera
dissennata sull'arrangiamento musicale delle cose in questo basso
mondo.
XXII • DOVE PONS PORTA ALLA PRESIDENTESSA UN OGGETTO D'ARTE UN PO'
PIÙ PREZIOSO DI UN VENTAGLIO
L'indomani, Pons andò dalla cugina presidentessa,
in preda alla gioia profonda di rendere il bene per il male. Povera
cara anima bella!... Certamente raggiunse il sublime, e tutti ne
converranno, visto che viviamo in un secolo in cui si dà il premio
Montyon a chi fa il proprio dovere, secondo i precetti del Vangelo.
«Ah! si sentiranno enormemente in debito con il
loro scroccone», diceva tra sé, svoltando in rue de Choiseul.
Un uomo meno immerso nella sua contentezza di
quanto non lo fosse Pons, un uomo di mondo, un uomo diffidente,
rientrando in quella casa avrebbe osservato la presidentessa e sua
figlia; ma quel povero musicista era un bambino, un artista pieno di
ingenuità, che credeva solo al bene morale come credeva al bello
nelle arti; rimase incantato dei complimenti che gli fecero Cécile e
la presidentessa. Il buonuomo, che da dodici anni vedeva
rappresentati sotto i suoi occhi il vaudeville, il dramma e la
commedia, non riconobbe le smorfie della commedia sociale, che non
poteva neppure concepire. Chi frequenta la società parigina e ha
imparato a riconoscere l'aridità di spirito e di corpo della
presidentessa, smaniosa soltanto di onori e irosa per una virtù
ostentata, la sua falsa devozione e l'alterigia di una padrona
abituata a comandare in casa propria, può immaginare quale odio
nascosto quella donna provasse per il cugino del marito, dopo essere
stata costretta a riconoscere il proprio torto. Tutte le moine della
presidentessa e della figlia furono dunque accompagnate da un
formidabile desiderio di vendetta, evidentemente da rinviare al
momento opportuno. Per la prima volta in vita sua, Amélie aveva
avuto torto agli occhi del marito, che dominava; eppure doveva
mostrarsi affettuosa con l'autore della sua sconfitta!... Hanno
qualche analogia con questa situazione certe ipocrisie che durano
anni nel sacro collegio dei cardinali o nei capitoli dei capi di
ordini religiosi. Alle tre, quando il presidente rientrò dal palazzo
di Giustizia, Pons aveva appena finito di raccontare i casi
meravigliosi della sua conoscenza con il signor Fritz Brunner, e la
cena del giorno prima, che era finita al mattino, e tutto quanto
riguardava il suddetto Fritz Brunner. Cécile era andata subito al
sodo, chiedendo come vestiva Fritz Brunner, quanto era alto, che
aspetto aveva, il colore degli occhi e dei capelli; dopo essersi
fatta l'idea che Fritz aveva un'aria distinta, ammirò la generosità
del carattere.
«Donare cinquecentomila franchi al suo compagno
di sventura! Oh, mamma, avrò carrozza e palco agli Italiens...».
E Cécile divenne quasi graziosa mentre pensava
alla realizzazione di tutte le pretese di sua madre per lei e delle
speranze di cui disperava.
Quanto alla presidentessa, disse queste sole
parole:
«Cara bambina mia, in quindici giorni puoi essere
sposata».
Tutte le madri chiamano «bambine» le figlie di
ventitré anni!
«Tuttavia», disse il presidente, «prima bisogna
prendere informazioni; non darò mai mia figlia al primo venuto...».
«Quanto alle informazioni, gli atti sono stati
stipulati da Berthier», rispose il vecchio artista. «Quanto al
giovane, cara cugina, sapete quello che mi avete detto! Ebbene, ha
quarant'anni passati ed è mezzo calvo. Nella famiglia vuol trovare
un porto contro gli uragani, e io non l'ho certo distolto da
quest'idea; ogni gusto è naturale...».
«Ragione di più per vedere il signor Fritz
Brunner», replicò il presidente. «Non voglio dare mia figlia a un
valetudinario».
«Ebbene, cugina, giudicherete voi la mia
proposta, entro cinque giorni se volete; secondo le vostre idee un
colloquio dovrebbe bastare».
Cécile e la presidentessa fecero un gesto di viva
soddisfazione.
«Fritz, che è un esperto d'arte, mi ha pregato di
lasciargli vedere tutta la mia piccola collezione», continuò il
cugino Pons. «Voi non avete mai visto i miei quadri, le mie
curiosità; venite», disse alle due parenti, «sarete là come due
signore portate dall'amico Schmucke, e così conoscerete il futuro
sposo, senza compromettervi. Fritz può ignorare perfettamente chi
siete».
«Benissimo!», esclamò il presidente.
Si può immaginare quali riguardi furono usati al
parassita un tempo tanto disprezzato. Il pover'uomo fu, quel giorno,
il cugino della presidentessa. La felice madre, annegando il suo
odio nei flutti della gioia, trovò degli sguardi, dei sorrisi, delle
parole che mandarono in estasi il buonuomo a causa del bene che
faceva, e dell'avvenire che intravedeva. Non avrebbe forse trovato
nelle case Brunner, Schwab e Graff delle cene simili a quella per la
firma del contratto? Vedeva una vita di cuccagna e una sequela
meravigliosa di piatti coperti, di sorprese gastronomiche e di vini
squisiti!
«Se il cugino Pons ci fa concludere un affare di
questo genere», disse il presidente alla moglie quando Pons se ne fu
andato, «dobbiamo costituire per lui una rendita equivalente ai suoi
emolumenti di direttore d'orchestra».
«Certamente», disse la presidentessa.
Cécile fu incaricata, nel caso che la persona
risultasse di suo gradimento, di far accettare al vecchio musicista
quell'ignobile munificenza.
Il giorno dopo, il presidente, desideroso di
avere delle prove autentiche della ricchezza del signor Fritz
Brunner, andò dal notaio. Berthier, preavvertito dalla
presidentessa, aveva fatto venire il suo nuovo cliente, il banchiere
Schwab, l'ex flauto. Abbagliato da una simile parentela (è risaputo
quanto i tedeschi rispettino le distinzioni sociali! in Germania,
una moglie è la signora generalessa, la signora consigliera, la
signora avvocatessa), Schwab fu arrendevole come un collezionista
che crede di raggirare un negoziante.
«Innanzitutto», disse il padre di Cécile a
Schwab, «poiché darò per contratto la proprietà di Marville a mia
figlia, desidererei maritarla con il regime dotale. Il signor
Brunner dovrebbe investire un milione in terreni per aumentare il
possedimento di Marville, costituendo un immobile dotale che
porrebbe l'avvenire di mia figlia e dei suoi figli al sicuro dagli
imprevisti della banca».
Berthier si accarezzò il mento pensando:
«Ma bravo il presidente!».
Schwab, dopo essersi fatto spiegare gli effetti
del regime dotale, garantì per l'amico. Quella clausola realizzava
il desiderio che aveva udito formulare da parte di Fritz, di trovare
una soluzione che gli impedisse una volta per sempre di ricadere in
miseria.
«In questo momento si trovano in vendita fattorie
e prati per un milione e duecentomila franchi», disse il presidente.
«Un milione in azioni della Banca sarà
sufficiente», disse Schwab, «a garantire il nostro conto in banca;
Fritz non vuole investire più di due milioni negli affari; farà
quello che chiedete, signor presidente».
Il presidente fece quasi impazzire di gioia le
sue due donne, comunicando loro queste notizie. Mai pesca tanto
ricca si era mostrata talmente compiacente alla rete coniugale.
«Sarai la signora Brunner de Marville», disse il
padre alla figlia, «perché otterrò per tuo marito il permesso di
aggiungere questo nome al suo; più tardi riceverà le lettere di
naturalità. Se divento pari di Francia, mi succederà!».
La presidentessa impiegò cinque giorni a
preparare la figlia. Il giorno dell'incontro, vestì lei stessa
Cécile, con le proprie mani la equipaggiò con la stessa cura che
l'ammiraglio della flotta azzurra aveva messo nell'approntare il
panfilo della regina d'Inghilterra quando partì per il suo viaggio
in Germania.
Da parte loro, Pons e Schwab pulirono,
spolverarono il museo di Pons, l'appartamento, i mobili, con
l'agilità con cui i mozzi lavano una nave ammiraglia. Non un grano
di polvere nei legni intagliati. Gli ottoni risplendevano. I vetri
lasciavano vedere nettamente le opere a pastello di Latour, di
Greuze e di Liotard, l'illustre autore della Cioccolataia, miracolo
di quella pittura, ahimè!, così passeggera. L'inimitabile smalto dei
bronzi fiorentini riluceva cangiante. I vetri colorati splendevano
nei loro colori delicati. Ogni cosa brillava nella sua forma e
lanciava la sua frase all'anima, in quel concerto di capolavori
organizzato da due musicisti, entrambi anche poeti.
XXIII • UN'IDEA TEDESCA
Assai astute per evitare le difficoltà di
un'entrata in scena, le donne arrivarono per prime perché volevano
avere il vantaggio del terreno. Pons presentò l'amico Schmucke alle
parenti, cui fece l'impressione di essere un idiota.Tutte prese
dall'idea di un fidanzato quattro volte milionario, le due ignoranti
prestarono un'attenzione mediocre alle spiegazioni artistiche del
buon Pons. Guardavano con occhio indifferente gli smalti di Petitot
allestiti su velluto rosso entro tre cornici meravigliose. I fiori
di Van Huysum, di David di Heim, gli insetti di Abraham Mignon, i
Van Eyck, gli Albrecht Dürer, i veri Cranach, il Giorgione, il
Sebastiano del Piombo, Backhuyzen, Hobbema, Géricault, le rarità
della pittura... niente suscitava la loro curiosità perché erano in
attesa del sole che doveva illuminare tutte quelle ricchezze;
tuttavia rimasero sorprese della bellezza di qualche gioiello
etrusco e del valore reale delle tabacchiere. Stavano fingendo di
estasiarsi davanti a dei bronzi fiorentini che tenevano in mano,
quando la Cibot annunciò il signor Brunner! Non si voltarono affatto
e approfittarono di un superbo specchio veneziano, in un'incredibile
cornice di ebano intagliato, per esaminare la fenice dei
pretendenti.
Fritz, preavvertito da Wilhelm, aveva raccolto i
pochi capelli che gli restavano in modo da coprire la calvizie;
portava dei graziosi pantaloni di colore delicato anche se scuro, un
elegantissimo gilet di seta dal taglio originale, una camicia di
tela fatta a mano da una tessitrice di Frisia, con punti a giorno,
una cravatta blu a righe bianche. La catena dell'orologio era di
Florent e Chanor, come il pomo del bastone. Quanto all'abito, era
stato tagliato personalmente da Graff nel tessuto migliore. Dei
guanti di Svezia denotavano l'uomo che aveva già dissipato il
patrimonio della madre. Si sarebbe potuto indovinare il piccolo
coupé basso a due cavalli, del banchiere, vedendo luccicare gli
stivali di vernice, se l'orecchio delle due donne non ne avesse già
udito il rumore nella rue de Normandie.
Quando il libertino di vent'anni è la crisalide
di un banchiere, a quarant'anni libera un osservatore, tanto più
acuto in quanto Brunner aveva capito quali vantaggi un tedesco può
trarre dalla propria ingenuità. Quella mattina assunse l'aria
sognante di un uomo che si trovi a dover scegliere tra la vita
familiare e le dissolutezze della vita di scapolo. In un tedesco
francesizzato, un tale atteggiamento sembrò a Cécile il massimo del
romanticismo. Nel figlio dei Virlaz vide un Werther. Quale ragazza
non si concede un romanzetto nella storia del suo matrimonio? Cécile
si considerò la più felice delle donne quando Brunner, alla vista
delle magnifiche opere raccolte in quarant'anni di paziente
collezionismo, si entusiasmò, le apprezzò, per la prima volta, nel
loro giusto valore, con grande soddisfazione di Pons.
«È un poeta!», pensò la signorina de Marville,
«ci vede dei milioni. Un poeta è un uomo che non calcola, che lascia
la moglie padrona dei capitali, un uomo facile da guidare e che si
tiene occupato con delle sciocchezze».
Ogni riquadro delle due finestre della camera del
buonuomo era un vetro di lavorazione svizzera, colorato; il più
piccolo valeva mille franchi; Pons possedeva sedici di questi
capolavori, oggi molto ricercati dagli intenditori. Nel 1815 questi
vetri si vendevano dai sei ai dieci franchi. Il prezzo dei sessanta
quadri che componevano quella divina collezione di puri capolavori,
originali, autentici, poteva essere conosciuto soltanto nel clima
acceso di un'asta. Intorno a ogni quadro sbocciava una cornice di
valore immenso, e ce n'erano di tutti i tipi: la cornice veneziana
con le sue grandi decorazioni simili a quelle dell'attuale vasellame
inglese; la cornice romana, così singolare per quello che gli
artisti chiamano il flafla; la cornice spagnola dai fogliami arditi;
le cornici fiamminghe e tedesche con i loro ingenui personaggi; la
cornice di tartaruga intarsiata di stagno, di rame, di madreperla,
d'avorio; la cornice d'ebano, la cornice di bosso, la cornice di
rame, la cornice Luigi XIII, Luigi XIV, Luigi XV e Luigi XVI...
insomma una collezione unica dei più bei modelli. Pons, più
fortunato dei conservatori dei Tesori di Dresda e di Vienna,
possedeva una cornice del celebre Brustolon, il Michelangelo del
legno.
Naturalmente la signora de Marville chiese
spiegazioni su ogni nuova curiosità. Si fece iniziare da Brunner
alla conoscenza di quelle meraviglie. Fu talmente ingenua nelle sue
esclamazioni, e sembrò talmente desiderosa di sapere da Fritz il
valore, la bellezza di un dipinto, di una scultura, di un bronzo,
che il tedesco si sgelò: il suo volto ringiovanì. Insomma, da una
parte e dall'altra si andò più avanti di quanto non si chiedesse a
questo primo incontro, sempre dovuto al caso.
La visita durò tre ore. Brunner offrì il braccio
a Cécile per scendere le scale. Mentre scendeva i gradini con
sapiente lentezza, Cécile, che continuava a parlare di belle arti,
rimase stupita dell'ammirazione del suo pretendente per i gingilli
del cugino Pons.
«Credete dunque che tutto quello che abbiamo
visto valga molto denaro?».
«Eh! signorina, se il vostro signor cugino
volesse vendermi la sua collezione, gli darei subito ottocentomila
franchi, e non farei un cattivo affare. Soltanto i sessanta quadri
raggiungerebbero una cifra ancora più alta in un'asta».
«Ci credo perché lo dite voi», rispose, «e
dev'essere così, trattandosi delle cose di cui vi siete occupato di
più».
«Oh, signorina!...», esclamò Brunner. «Come sola
risposta a questo rimprovero, chiederò alla vostra signora madre il
permesso di farle visita, per avere il piacere di rivedervi».
«È sveglia la mia bambina!», pensò la
presidentessa, che stava alle calcagna della figlia. «Col più grande
piacere, signore», disse a voce alta. «Spero che verrete, col nostro
cugino Pons, a pranzo da noi; il signor presidente sarà felice di
fare la vostra conoscenza... Grazie, cugino».
Strinse il braccio di Pons in un modo così
significativo che la frase sacramentale «Uniti per la vita e per la
morte!» non sarebbe stata altrettanto forte. E abbracciò Pons con
l'occhiata che accompagnò quel «Grazie, cugino».
Dopo aver fatto salire la ragazza in carrozza, e
quando il coupé scomparve nella rue Charlot, Brunner parlò di
bric-à-brac con Pons, che parlava del matrimonio.
«Insomma, per voi non ci sono difficoltà...»,
disse Pons.
«Mah!», replicò Brunner. «La piccola è
insignificante, la madre un po' artefatta... vedremo».
«Con la prospettiva di un bel patrimonio...»,
fece osservare Pons. «Più di un milione...».
«A lunedì!», lo interruppe il milionario. «Nel
caso che decidiate di vendere la vostra collezione di quadri,
offrirei volentieri da cinque a seicentomila franchi...».
«Ah!», esclamò il buonuomo, che non credeva di
essere così ricco, «non riuscirei a separarmi da ciò che mi rende
felice... Potrei vendere la mia collezione solo a patto di tenerla
con me fino alla morte».
«Bene, vedremo...».
«Ecco due affari in corso», si disse il
collezionista, che pensava soltanto al matrimonio.
Brunner salutò Pons e scomparve con il suo
splendido equipaggio. Pons guardò allontanarsi il piccolo coupé
senza fare attenzione a Rémonencq, che fumava la pipa sulla soglia
della sua bottega.
XXIV • CASTELLI IN ARIA
La sera stessa, la presidentessa de Marville andò
a casa del suocero per consigliarsi con lui, e vi trovò la famiglia
Popinot. Nel suo desiderio di soddisfare una piccola vendetta,
decisamente naturale nel cuore delle madri quando non sono riuscite
a catturare un figlio di famiglia, la signora de Marville fece
capire che per Cécile si stava preparando un matrimonio eccezionale.
«E con chi si sposa Cécile?», fu la domanda che corse su tutte le
labbra. Allora, convinta di non tradire i suoi segreti, la
presidentessa disse tante mezze parole, fece tante confidenze appena
sussurrate, confermate del resto dalla signora Berthier, che il
giorno dopo, nell'Empireo borghese nel quale Pons eseguiva le sue
evoluzioni gastronomiche, ecco cosa si diceva:
«Cécile de Marville si sposa con un giovane
tedesco che farà il banchiere per umanità, dal momento che già
possiede una ricchezza di quattro milioni; è un eroe da romanzo, un
vero Werther, affascinante, generoso, uomo di mondo, che ha perso la
testa per Cécile; un amore a prima vista, tanto più sicuro in quanto
Cécile aveva come rivali tutte le madonne dipinte di Pons», ecc.
ecc.
Due giorni dopo, alcune persone andarono a
complimentarsi con la presidentessa solo per sapere se quel prodigio
accadeva davvero, e la presidentessa si impegnò in quelle mirabili
variazioni sul tema, che le madri potranno consultare come una volta
si consultava Il perfetto segretario:
«Un matrimonio non è perfezionato», diceva alla
signora de Chiffreville, «finché non si ritorna dal municipio e
dalla chiesa, e noi siamo ancora ai preliminari; conto sulla vostra
discrezione che non parliate delle nostre speranze...».
«Siete veramente fortunata, signora
presidentessa, è così difficile oggi concludere dei matrimoni...».
«Che volete! è un caso; ma i matrimoni avvengono
spesso in questo modo».
«Dunque maritate Cécile?», chiedeva la signora
Cardot.
«Sì», rispondeva la presidentessa cogliendo la
malizia di quel dunque. «Eravamo troppo esigenti, e ciò ritardava la
sistemazione di Cécile. Ora abbiamo tutto: ricchezza, buona
educazione, buon carattere, e un bell'uomo. Del resto, la mia cara
bambina se lo meritava. Il signor Brunner è un giovane incantevole,
molto distinto; ama il lusso, conosce la vita, ed è pazzo di Cécile
che ama sinceramente; e Cécile lo accetta malgrado i suoi tre o
quattro milioni... Non avevamo tutte queste pretese... ma il troppo
non guasta... A farci decidere non è tanto la ricchezza quanto
l'affetto ispirato da mia figlia», diceva la presidentessa alla
signora Lebas. «Il signor Brunner ha talmente fretta che vuole
sposarsi entro i più stretti termini di legge».
«È uno straniero?...».
«Sì, signora; ma confesso che sono molto
contenta. No, non avrò un genero, avrò un figlio. Il signor Brunner
è di una delicatezza veramente seducente. Non si può immaginare la
sua insistenza per un matrimonio sotto regime dotale... Per le
famiglie è una grande sicurezza. Acquisterà per un milione e
duecentomila franchi dei terreni che un giorno saranno uniti alla
proprietà di Marville».
Il giorno dopo, altre variazioni sul tema. E
allora il signor Brunner era un gran signore, e lo era in tutto; non
badava a spese; e se il signore de Marville fosse riuscito ad
ottenere le lettere patenti di naturalità, il genero sarebbe
diventato pari di Francia. Non si conosceva la ricchezza del signor
Brunner, ma aveva sicuramente i cavalli più belli e gli equipaggi
più belli di Parigi, ecc.
Il piacere che provavano i Camusot a rendere
pubbliche le loro speranze la diceva lunga su quanto quel trionfo
fosse insperato.
Subito dopo l'incontro a casa del cugino Pons, il
signor de Marville, spinto dalla moglie, convinse il ministro della
giustizia, il primo presidente e il procuratore generale ad andare a
cena da lui il giorno della presentazione della fenice dei generi. I
tre grandi personaggi accettarono, anche se invitati con breve
preavviso; ognuno di loro comprese bene il ruolo che il padre di
famiglia gli chiedeva di rappresentare, e accettò con piacere. In
Francia, si aiutano volentieri le madri di famiglia che pescano un
genero ricco. Anche il conte e la contessa Popinot si prestarono a
completare il lusso di quella giornata, nonostante che un simile
invito sembrasse loro di cattivo gusto. In tutto erano undici
persone. Il nonno di Cécile, il vecchio Camusot, e sua moglie non
potevano mancare a quella riunione, che per la posizione dei
convitati era destinata a impegnare definitivamente il signor
Brunner, presentato - come si è visto - come uno dei più ricchi
capitalisti della Germania, uomo di gusto (che amava la bambina),
futuro rivale dei Nucingen, dei Keller, dei du Tillet, ecc.
«È il nostro giorno», disse con studiata
semplicità la presidentessa a colui che considerava suo genero
mentre gli indicava i convitati, «ci sono solo gli intimi.
Innanzitutto il padre di mio marito che, lo sapete, deve essere
promosso pari di Francia; poi il signor conte e la signora contessa
Popinot, il cui figlio non si è considerato sufficientemente ricco
per Cécile, e tuttavia siamo rimasti buoni amici; il nostro ministro
della giustizia, il nostro primo presidente, il nostro procuratore
generale, infine i nostri amici... Dovremo cenare un po' tardi a
causa del tribunale; le udienze non finiscono mai prima delle sei».
Brunner rivolse a Pons uno sguardo significativo,
e Pons si sfregò le mani come per dire: «Ecco i nostri amici, miei
amici!...».
La presidentessa, da donna abile quale era, ebbe
qualcosa da dire in privato al cugino, in modo da lasciare soli per
un momento Cécile e il suo Werther. Cécile si dette da fare a
chiacchierare, e fece in modo che Fritz scorgesse un dizionario
tedesco, una grammatica tedesca e un Goethe che aveva nascosti.
«Ah! state imparando il tedesco?», chiese Brunner
arrossendo.
Solo i francesi inventano questo genere di
trappole.
«Oh!», rispose lei, «siete cattivo!... non sta
bene, signore, frugare nei miei nascondigli. Voglio leggere Goethe
nell'originale», aggiunse, «e sono due anni che studio il tedesco».
«La grammatica dev'essere molto difficile da
capire... non ci sono neppure dieci pagine tagliate», notò
ingenuamente Brunner.
Cécile, confusa, si voltò per non far vedere il
suo rossore. Un tedesco non resiste a testimonianze di questo
genere; Fritz prese per mano Cécile, la condusse tutta smarrita
sotto il suo sguardo e la guardò come si guardano i fidanzati nei
romanzi di August Lafontaine, di pudica memoria.
«Siete adorabile!», disse Fritz.
Cécile fece un gesto sbarazzino che significava:
«E voi?... chi non vi amerebbe?».
«Mamma, va bene!», bisbigliò all'orecchio della
madre che rientrava con Pons.
L'aspetto di una famiglia durante una serata
simile è indescrivibile. Ognuno era contento di vedere una madre che
metteva le mani su un buon partito per la figlia. Ci si felicitava,
con parole a doppio senso e a doppio effetto, con Brunner che
fingeva di non capire, con Cécile che capiva tutto, con la
presidentessa che andava a caccia di complimenti. Tutto il sangue
rimbombò negli orecchi di Pons, e gli sembrò di vedere accesi tutti
i becchi a gas della ribalta del suo teatro, quando Cécile gli
sussurrò, con le cautele più ingegnose, che il padre era
intenzionato ad assicurargli una rendita vitalizia di milleduecento
franchi, che il vecchio artista rifiutò fermamente, obiettando la
rivelazione che Brunner gli aveva fatto a proposito della ricchezza
della sua collezione.
Il ministro, il primo ministro, il procuratore
generale, i Popinot, tutte le persone che avevano degli impegni se
ne andarono. Ben presto rimasero soltanto il vecchio Camusot e
Cardot, l'ex notaio, col genero Berthier. Il buon Pons,
considerandosi in famiglia, ringraziò in modo assai maldestro il
presidente e la presidentessa per l'offerta di cui Cécile gli aveva
appena parlato. Le persone di cuore sono fatte così: sono istintive.
Brunner, che in quella rendita offerta vide una specie di
percentuale sull'affare, ebbe un impulso di orgoglio israelita e
assunse l'atteggiamento freddissimo del calcolatore.
«La mia collezione, o il denaro che renderà,
apparterrà sempre alla nostra famiglia, sia che la venda al nostro
amico Brunner, sia che la tenga per me», diceva Pons facendo sapere
alla famiglia assai stupefatta che era in possesso di un grande
valore.
Brunner osservò il mutamento che si verificò in
tutti quegli ignoranti, a favore di un uomo che passava da una
condizione di indigenza alla ricchezza, come aveva già notato le
premure della madre e del padre per la loro Cécile, idolo della
casa, e allora si divertì a provocare le sorprese e le esclamazioni
di quei degni borghesi.
«Ho detto alla signorina che i quadri del signor
Pons per me valgono quella somma; ma, ai prezzi raggiunti dagli
oggetti d'arte unici, nessuno può prevedere il valore che la
collezione raggiungerebbe in un'asta pubblica. I sessanta quadri
potrebbero raggiungere il milione; ne ho visti molti salire fino a
cinquecentomila franchi».
«Fortunato il vostro erede!», disse l'ex notaio a
Pons.
«Il mio erede è mia cugina Cécile», replicò il
buonuomo insistendo sulla parentela.
Un moto di ammirazione si riversò sul musicista.
«Sarà un'erede molto ricca», disse ridendo
Cardot, che se ne andò.
Furono lasciati soli Camusot padre, il
presidente, la presidentessa, Cécile, Brunner, Berthier e Pons; si
credeva che stesse per essere chiesta ufficialmente la mano di
Cécile. E infatti, appena queste persone furono sole, Brunner
cominciò con una domanda che ai parenti sembrò di buon augurio.
«Mi è sembrato di capire», disse Brunner
rivolgendosi alla presidentessa, «che la signorina è figlia
unica...».
«Certamente», rispose lei con orgoglio.
«Non troverete difficoltà con nessuno», aggiunse
il buon Pons per spingere Brunner a fare la sua richiesta.
Brunner diventò sospettoso, e un fatale silenzio
instaurò un clima di strana freddezza. Sembrava che la presidentessa
avesse confessato che la sua bambina era epilettica. Il presidente,
ritenendo opportuno che la figlia non fosse presente, fece un cenno
a Cécile, che capì e uscì. Brunner rimase in silenzio. Si
guardarono. La situazione divenne imbarazzante. Il vecchio Camusot,
uomo di grande esperienza, condusse il tedesco nella camera della
presidentessa col pretesto di mostrargli il ventaglio trovato da
Pons, intuendo che fosse insorta qualche difficoltà, e con un gesto
chiese a suo figlio, alla nuora e a Pons di lasciarlo solo col
futuro sposo.
«Ecco il capolavoro!», disse il vecchio
negoziante di seterie mostrando il ventaglio.
«Vale mille franchi», rispose Brunner dopo averlo
esaminato.
«Ma non eravate venuto», chiese il futuro pari di
Francia, «per chiedere la mano di mia nipote?».
«Sì, signore», disse Brunner, «e vi prego di
credere che nessuna unione potrebbe essere più lusinghiera di
questa. Non troverò mai una giovane più bella, più amabile, che mi
si addica meglio della signorina Cécile. Ma...».
«Ah! niente ma», disse il vecchio Camusot,
«vediamo subito cosa significano i vostri ma, caro signore...».
«Signore», proseguì Brunner con tono grave, «sono
felice che non ci siamo impegnati reciprocamente, perché la qualità
di figlia unica, così preziosa per tutti tranne che per me, qualità
che io ignoravo, credetemi, costituisce un ostacolo assoluto...».
«Ma come, signore», disse il vecchio stupefatto,
«considerate negativo quello che è un immenso vantaggio? La vostra
condotta è davvero singolare, e vorrei proprio conoscerne le
ragioni».
«Signore», rispose con flemma il tedesco, «sono
venuto qui stasera con l'intenzione di chiedere al signor presidente
la mano di sua figlia. Volevo costruire un futuro brillante per la
signorina Cécile, offrendole tutto quello che avesse voluto
accettare della mia ricchezza; ma una figlia unica è una ragazza
abituata dall'indulgenza dei genitori a fare quello che vuole, e non
sa neppure cosa sia una contrarietà. Accade qui come in molte
famiglie, dove ho potuto studiare il culto per queste specie di
divinità: non solo vostra nipote è l'idolo della casa, ma per di più
la signora presidentessa porta i.... sapete benissimo che cosa!
Signore, ho visto la casa di mio padre diventare un inferno per
questa ragione. La mia matrigna, causa di tutte le mie disgrazie,
figlia unica, adorata, la più incantevole delle fidanzate, è
diventata l'incarnazione di un diavolo. Sicuramente la signorina
Cécile sarà un'eccezione alla mia teoria; ma io non sono più un
ragazzo, ho quarantasei anni, e la differenza tra le nostre età
comporta difficoltà che non mi permettono di rendere felice una
ragazza abituata ad essere sempre assecondata dalla signora
presidentessa, e che la signora presidentessa ascolta come un
oracolo. Con quale diritto potrei pretendere che la signorina Cécile
cambiasse idee e abitudini? Invece di un padre e di una madre
compiacenti a ogni suo capriccio, incontrerebbe l'egoismo di un
quarantenne; qualora lei resistesse, sarebbe il quarantenne ad
essere sconfitto. Agisco dunque da uomo onesto, e mi ritiro. Del
resto, desidero essere io l'unico sacrificato, se fosse necessario
spiegare per quale ragione stasera mi sia limitato a fare una
visita...».
«Se sono queste le vostre ragioni, signore»,
disse il futuro pari di Francia, «per quanto singolari sono
plausibili...».
«Signore, non mettete in dubbio la mia
sincerità», lo interruppe vivacemente Brunner. «Se conoscete una
povera ragazza, di famiglia numerosa, bene educata, senza mezzi,
come se ne trovano tante in Francia, e con un carattere che offra
garanzie, io la sposo».
Durante il silenzio che seguì questa
dichiarazione, Fritz lasciò il nonno di Cécile, salutò cortesemente
il presidente e la presidentessa, e uscì. Commento vivente del
saluto del suo Werther, Cécile apparve, pallida come una moribonda;
nascosta nel guardaroba della madre, aveva udito tutto.
«Rifiutata!...», sussurrò all'orecchio della
madre.
«E perché?», chiese la presidentessa al suocero
imbarazzato.
«Col delizioso pretesto che le figlie uniche sono
delle bambine viziate», rispose il vecchio, «e non ha tutti i
torti», aggiunse cogliendo l'occasione per rimproverare la nuora,
che lo infastidiva da vent'anni.
«Mia figlia ne morirà! e l'avrete uccisa
voi!...», disse la presidentessa a Pons sorreggendo la figlia, che
ritenne simpatico giustificare queste parole lasciandosi cadere tra
le braccia della madre.
Il presidente e sua moglie adagiarono Cécile su
una poltrona, dove lei finì di svenire. Il nonno suonò per chiamare
i domestici.
XXV • PONS SEPOLTO SOTTO I CALCOLI
«Ora riesco a vedere la trama ordita da questo
signore!», disse la madre, furiosa, indicando il povero Pons.
Pons si drizzò come se avesse sentito risuonare
negli orecchi la tromba del giudizio universale.
«Questo signore», continuò la presidentessa con
gli occhi che erano diventate due fontane di bile verde, «ha voluto
rispondere a uno scherzo innocente con un insulto. Chi potrà credere
al buon senso di quel tedesco? O è complice di un'atroce vendetta o
è pazzo. Spero, signor Pons, che in futuro ci risparmierete il
dispiacere di vedervi ancora in una casa in cui avete cercato di
portare la vergogna e il disonore».
Pons, che era diventato una statua, teneva gli
occhi fissi su una rosetta del tappeto e si girava i pollici.
«Ebbene, siete ancora qui, mostro
d'ingratitudine!...», gridò la presidentessa voltandosi. «Non saremo
mai in casa, né il presidente né io, se mai questo signore si
dovesse presentare!», disse ai domestici indicando Pons. «Jean,
andate a chiamare il dottore. E voi, Madeleine, dell'acqua di corno
di cervo!».
Per la presidentessa le giustificazioni di
Brunner non erano altro che un pretesto sotto il quale se ne
nascondevano altre; ma il matrimonio saltava a maggior ragione. Con
quella rapidità di pensiero tipica delle donne nei momenti
importanti, la signora de Marville aveva trovato il solo modo di
riparare allo scacco attribuendo a Pons una vendetta premeditata.
Questa soluzione, infernale nei confronti di Pons, salvava l'onore
della famiglia. Fedele al suo odio contro Pons, aveva trasformato in
verità un semplice sospetto di donna. In generale le donne hanno una
fede particolare, una propria morale: credono alla realtà di tutto
ciò che risponde ai loro interessi e alle loro passioni. La
presidentessa andò molto più in là: nel corso della serata riuscì a
persuadere il presidente delle proprie congetture, e l'indomani il
presidente era convinto della colpevolezza del cugino. Tutti
troveranno orribile la condotta della presidentessa; ma in simili
circostanze ogni madre imiterà la signora Camusot e preferirà
sacrificare l'onore di un estraneo a quello della figlia.
Cambieranno i mezzi, ma lo scopo rimarrà lo stesso.
Il musicista scese in fretta le scale; ma camminò
con passo lento sui boulevards fino al teatro dove entrò
meccanicamente, e meccanicamente diresse l'orchestra. Durante gli
intervalli, rispose in maniera talmente distratta a Schmucke, che
Schmucke dissimulò la sua preoccupazione e pensò che Pons fosse
impazzito. In una natura infantile come quella di Pons, la scena che
si era appena svolta assumeva le proporzioni di una catastrofe...
Risvegliare un odio spaventoso là dove aveva voluto portare la
felicità, significava capovolgere totalmente l'esistenza. Negli
occhi, nei gesti, nella voce della presidentessa aveva riconosciuto
un'inimicizia mortale.
Il giorno dopo, la signora Camusot de Marville
prese una grande decisione, dettata del resto dalla situazione, e
che fu condivisa dal presidente. Fu deciso di dare in dote a Cécile
la proprietà di Marville, il palazzo della rue de Hanovre e
centomila franchi. Nella mattinata la presidentessa andò a trovare
la contessa Popinot, avendo capito che ad uno scacco simile
bisognava rispondere con un matrimonio immediato. Raccontò della
spaventosa vendetta e dell'orribile inganno tramati da Pons. Tutto
sembrò credibile quando si venne a sapere che il pretesto della
rottura era la condizione di figlia unica. Infine la presidentessa
fece risplendere abilmente il vantaggio di chiamarsi Popinot de
Marville e l'enormità della dote. Al prezzo di valutazione dei beni
in Normandia, al due per cento, la proprietà valeva circa
novecentomila franchi, e il palazzo della rue de Hanovre era stimato
duecentocinquantamila franchi. Nessuna famiglia ragionevole poteva
rifiutare una simile unione; così il conte Popinot e sua moglie
accettarono; quindi, da persone interessate all'onore della famiglia
con cui si legavano, promisero che avrebbero fatto la loro parte per
spiegare la catastrofe del giorno prima.
Poi, in casa dello stesso vecchio Camusot, nonno
di Cécile, davanti alle stesse persone che vi si erano trovate
qualche giorno prima e alle quali la presidentessa aveva cantato le
sue litanie su Brunner, quella stessa presidentessa, che incuteva
timore a chiunque, continuò a dare coraggiosamente le sue
spiegazioni.
«Certo oggi», diceva, «non sarebbero mai troppe
le precauzioni da prendere quando si tratta di un matrimonio, e
soprattutto si ha a che fare con degli stranieri».
«E perché mai, signora?».
«Cosa vi è successo?», chiese la signora
Chiffreville.
«Non sapete della nostra avventura con quel
Brunner che aveva il coraggio di aspirare alla mano di Cécile?... È
figlio di un bettoliere tedesco, nipote di un venditore di pelli di
coniglio».
«È mai possibile? Voi, così attenta!...», disse
una signora.
«Questi avventurieri sono talmente astuti! Ma
abbiamo saputo tutto da Berthier. Questo tedesco ha per amico un
povero diavolo che suona il flauto! Ha a che fare con un tale che ha
una locanda in rue du Mail, con dei sarti... Siamo venuti a sapere
che è sempre vissuto nel modo più dissoluto, e nessuna ricchezza può
bastare a uno sciagurato che ha già fatto fuori quella della
madre...».
«La signorina vostra figlia sarebbe stata molto
infelice!...», disse la signora Berthier.
«E come vi era stato presentato?», chiese la
vecchia signora Lebas.
«È stata una vendetta del signor Pons; è stato
lui a presentarci quel bel tipo per gettarci nel ridicolo... Questo
Brunner, che vuol dire «Fontana» (ce ne avevano parlato come di un
gran signore), è piuttosto malaticcio, calvo, i denti rovinati; mi è
stato sufficiente vederlo una volta per diffidare di lui».
«E quella grande ricchezza di cui mi parlavate?»,
domandò timidamente una giovane signora.
«La sua ricchezza non è considerevole come
dicono. I sarti, l'albergatore e lui, tutti hanno raschiato il fondo
delle loro casse per fare una banca... Cosa vuol dire oggi aprire
una banca? vuol dire la possibilità di rovinarsi. Una donna che si
addormenta milionaria può svegliarsi ridotta soltanto al suo. Dalla
sua prima parola, vedendolo la prima volta, ci siamo subito fatti la
nostra opinione sul conto di quel signore, che non sa niente delle
nostre usanze. Si vede dai guanti, dal gilè, che è un operaio, il
figlio di un bettoliere tedesco, privo di nobili sentimenti, un
bevitore di birra... e che fuma, signora, venticinque pipe al
giorno! Cosa sarebbe accaduto alla mia povera Lili?... Ancora ne
rabbrividisco. Dio ci ha salvati! D'altra parte quel signore non
piaceva affatto a Cécile... Potevamo aspettarci un simile inganno da
un parente, da un frequentatore assiduo della nostra casa, che da
vent'anni viene a cena da noi due volte la settimana? che abbiamo
coperto di favori, e che recitava così bene la commedia da nominare
Cécile sua erede alla presenza del guardasigilli, del procuratore
generale, del primo presidente?... Quel Brunner e il signor Pons
erano d'accordo per dividersi dei milioni!... No, ve lo assicuro:
tutte voi, signore mie, sareste rimaste vittime di quest'imbroglio
d'artista!».
In poche settimane le famiglie riunite dei
Popinot, dei Camusot e dei loro amici ottennero nel loro ambiente un
trionfo facile, perché nessuno prese le difese del miserabile Pons,
del parassita, del furbastro, dell'avaro, del falso brav'uomo
sepolto sotto il disprezzo, considerato una vipera che si era
scaldata in seno alle famiglie, come un uomo di rara malvagità, un
saltimbanco pericoloso che bisognava dimenticare.
XXVI • L'ULTIMO COLPO
Un mese circa dopo il rifiuto del falso Werther,
il povero Pons, uscito per la prima volta dal suo letto, dove era
rimasto in preda a una febbre nervosa, passeggiava sui boulevards,
al sole, appoggiato al braccio di Schmucke. Sul boulevard du Temple
nessuno più rideva dei due schiaccianoci, alla vista dello stato
miserevole dell'uno e della commovente premura dell'altro per
l'amico convalescente. Giunti sul boulevard Poissonnière, Pons aveva
ripreso un po' di colore, respirando quell'atmosfera dei boulevards
in cui l'aria è tanto forte; infatti, dove la folla abbonda, il
fluido è talmente vitale che a Roma è stata notata la mancanza di
mala aria nell'infetto Ghetto dove pullulano gli ebrei. Forse agiva
sul malato anche la vista di ciò che da sempre gli piaceva vedere,
il grande spettacolo di Parigi. Davanti al Théâtre des Variétés,
Pons si allontanò da Schmucke, al cui fianco aveva camminato fino a
quel momento; infatti di tanto in tanto il convalescente lasciava
l'amico per guardare le novità esposte nelle vetrine dei negozi.
All'improvviso si trovò faccia a faccia con il conte Popinot, che
salutò nel modo più rispettoso dal momento che l'ex ministro era uno
degli uomini che Pons stimava e venerava di più.
«Ah, signore», rispose con tono severo il pari di
Francia, «non capisco proprio come abbiate così poco tatto da
salutare una persona imparentata con la famiglia che avete tentato
di coprire di vergogna e di ridicolo, per una di quelle vendette che
solo gli artisti sanno inventare... Sappiate, signore, che da oggi
in poi dobbiamo considerarci del tutto estranei. La signora contessa
Popinot condivide l'indignazione che il vostro comportamento ha
suscitato in tutto il nostro ambiente».
L'ex ministro si allontanò, lasciando Pons
fulminato. Le passioni, la giustizia, la politica, le grandi forze
sociali non si preoccupano mai di indagare la condizione dell'essere
che vanno a colpire. L'uomo di Stato, spinto dall'interesse della
famiglia di distruggere Pons, non si accorse neppure della debolezza
fisica di quel temibile nemico.
«Che hai, bofero amico mio?», esclamò Schmucke
impallidendo quanto Pons.
«Ho appena ricevuto un'altra pugnalata al cuore»,
rispose il buonuomo appoggiandosi al braccio di Schmucke.
«Evidentemente soltanto il Signore ha il diritto di fare del bene;
ecco perché tutti coloro che si immischiano nelle sue faccende
vengono così crudelmente puniti».
Questo sarcasmo d'artista fu uno sforzo supremo
di quella creatura eccellente per dissolvere i segni della paura sul
volto dell'amico.
«Lo credo anch'io», si limitò a rispondere
Schmucke.
Ma tutto ciò rimase inspiegabile per Pons, al
quale né i Camusot né i Popinot avevano inviato la partecipazione di
nozze di Cécile. Sul boulevard des Italiens, Pons vide venirgli
incontro il signor Cardot. Messo in guardia dall'allocuzione del
pari di Francia, Pons si guardò bene dal fermare questo personaggio
a casa del quale, nell'ultimo anno, era andato a cena ogni quindici
giorni, e si limitò a salutarlo; ma il sindaco, il deputato di
Parigi, guardò Pons con aria indignata, senza restituirgli il
saluto.
«Va' un po' a chiedergli cos'hanno tutti contro
di me», disse il buonuomo a Schmucke, che conosceva in ogni
dettaglio la catastrofe capitata a Pons.
«Sighnore», disse finemente Schmucke a Cardot,
«il mio amico Bons è appena uscito da una brutta malattia, e senza
dubbio non l'avete riconosciuto».
«L'ho riconosciuto perfettamente».
«Ma cos'avete da rimproverargli?».
«Avete per amico un mostro d'ingratitudine, un
uomo che, se è ancora vivo, è perché, come dice il proverbio, l'erba
cattiva cresce nonostante tutto. Fa bene la società a diffidare
degli artisti; sono maligni e cattivi come le scimmie. Il vostro
amico ha cercato di disonorare la sua stessa famiglia, di
compromettere la reputazione di una ragazza per vendicarsi di uno
scherzo innocente. Non voglio più avere alcun rapporto con lui;
cercherò di dimenticare che l'ho conosciuto, che esiste. Questi
sentimenti, signore, sono quelli di tutte le persone della mia
famiglia, della sua, e di quanti facevano al signor Pons l'onore di
riceverlo...».
«Ma sighnore, voi siete un uomo ragionevole; se
me lo permettete posso spiegarvi la faccenda...».
«Restategli pure amico, se ne avete la forza;
siete libero di farlo, signore», replicò Cardot; «ma non è il caso
che continuiate; e credo di dovervi avvertire che coinvolgerò nella
stessa riprovazione coloro che tenteranno di giustificarlo, di
difenderlo».
«Di giustificarlo?».
«Sì, perché la sua condotta è ingiustificabile, e
inqualificabile».
Detto questo, il deputato della Senna continuò
per la sua strada senza voler ascoltare una sillaba di più.
«Ho già contro di me i due poteri dello Stato»,
disse sorridendo il povero Pons quando Schmucke ebbe finito di
riferirgli quelle furiose imprecazioni.
«Tutto è contro di noi», replicò addolorato
Schmucke. «Andiamocene via, per non incontrare altre bestie».
Era la prima volta nella sua vita, vera vita di
pecora, che Schmucke pronunciava parole simili. Mai la sua
beatitudine quasi divina era stata turbata; avrebbe sorriso
ingenuamente a ogni disgrazia che potesse capitargli; ma veder
maltrattare il suo sublime Pons, quell'Aristide sconosciuto, quel
genio rassegnato, quell'anima senza fiele, quel tesoro di bontà,
quell'oro puro!... provava l'indignazione di Alceste, e chiamava
bestie gli anfitrioni di Pons! In un carattere tanto mite, questa
reazione equivaleva a tutti i furori di Orlando. Con saggia
previsione, Schmucke fece ritornare Pons verso il boulevard du
Temple; e Pons si lasciò condurre, poiché il malato si trovava nella
condizione di quei lottatori che non contano più i colpi. Il caso
volle che l'intera società fosse contro il povero musicista. La
valanga che stava per investirlo comprendeva ogni cosa: la Camera
dei pari, la Camera dei deputati, la famiglia, gli stranieri, i
forti, i deboli, gli innocenti!
Sul boulevard Poissonnière, tornando a casa, Pons
vide venirgli incontro la figlia del signor Cardot, una giovane
signora che era stata duramente provata dalle sventure, e ciò
l'aveva resa indulgente. Responsabile di una colpa tenuta segreta,
si era fatta schiava del marito. Tra tutte le padrone delle case
dove cenava, la signora Berthier era l'unica che Pons chiamava per
nome; la chiamava «Félicie!», e talvolta credeva che lei lo
comprendesse. Quella dolce creatura sembrò contrariata dall'incontro
con il cugino Pons; perché, malgrado l'assenza di un legame di
parentela con la famiglia della seconda moglie di suo cugino, il
vecchio Camusot, Pons era trattato da cugino. Ma, non potendo
evitarlo, Félicie si fermò davanti al moribondo.
«Non vi credevo cattivo, cugino; ma, se di tutto
quello che sento dire di voi, un quarto soltanto è vero, siete un
uomo veramente falso... Oh! non giustificatevi», aggiunse con tono
vivace, a un gesto di Pons, «è inutile per due ragioni: la prima è
che io non ho il diritto di accusare, né di giudicare, né di
condannare nessuno, sapendo per mia esperienza che coloro che
sembrano avere i torti maggiori possono avere delle giustificazioni;
la seconda è che le vostre motivazioni non servirebbero a niente. Il
signor Berthier, che ha stipulato il contratto tra la signorina de
Marville e il visconte Popinot, è talmente irritato con voi che se
venisse a sapere che vi ho rivolto la parola, che vi ho parlato sia
pure per l'ultima volta, mi sgriderebbe. Tutti sono contro di voi».
«Lo vedo, signora!», rispose con voce commossa il
povero musicista, che salutò rispettosamente la moglie del notaio.
E penosamente riprese il suo cammino verso la rue
de Normandie appoggiandosi al braccio di Schmucke con una pesantezza
che rivelò al vecchio tedesco un cedimento fisico combattuto
coraggiosamente. Quel terzo incontro fu come il verdetto pronunciato
dall'agnello che giace ai piedi di Dio; il corruccio di quest'angelo
dei poveri, il simbolo dei popoli, è l'ultima parola del cielo. I
due amici giunsero a casa senza aver scambiato una parola. In certe
circostanze della vita, è sufficiente sentire la presenza di un
amico. La consolazione con le parole irrita la piaga, ne rivela la
profondità. Il vecchio pianista aveva, come vedete, il genio
dell'amicizia, la delicatezza di chi, avendo sofferto molto, sa come
trattare la sofferenza.
Quella passeggiata doveva essere l'ultima del
buon Pons. Il malato passò da una malattia all'altra. Essendo di
temperamento sanguigno-bilioso, la bile si riversò nel sangue e
provocò una violenta epatite. Poiché le due malattie successive
erano le sole che avesse mai avuto, non conosceva nessun medico.
Allora la sensibile e devota Cibot ebbe l'eccellente idea, perfino
materna, di chiamare il medico del quartiere.
XXVII • IL DISPIACERE TRASFORMATO IN ITTERIZIA
A Parigi, in ogni quartiere, c'è un medico il cui
nome e la cui abitazione sono noti soltanto alla classe inferiore,
ai piccoli borghesi, ai portieri, e che perciò è chiamato il medico
del quartiere. Questo medico, che si occupa di parti e pratica i
salassi, corrisponde, nel campo della medicina, al domestico
tuttofare dei «Piccoli annunci». Costretto ad essere buono con i
poveri, assai esperto per una lunga pratica, è generalmente amato.
Il dottor Poulain, che la Cibot aveva condotto dal nostro malato, e
che Schmucke aveva riconosciuto, ascoltò senza prestarvi attenzione
le doglianze del vecchio musicista che, durante tutta la notte, si
era grattato la pelle diventata completamente insensibile. Gli occhi
cerchiati di giallo erano un ulteriore sintomo dell'itterizia.
«Avete avuto, negli ultimi due giorni, qualche
forte dispiacere», disse il dottore al malato.
«Ahimè, sì», rispose Pons.
«Avete la malattia che stava per venire al
signore», disse indicando Schmucke, «l'itterizia; ma non sarà
niente», aggiunse il dottor Poulain scrivendo una ricetta.
Malgrado quest'ultima parola consolante, il
dottore aveva rivolto al malato uno di quegli sguardi ippocratici in
cui la sentenza di morte, anche se nascosta da una commiserazione di
circostanza, è sempre intuita da occhi interessati a conoscere la
verità. Così la Cibot, che affondò negli occhi del dottore uno
sguardo da spia, non si fece ingannare né dal tono della frase né
dalla fisionomia ipocrita del dottor Poulain, e lo seguì mentre
usciva.
«Credete davvero che non sia niente?», chiese la
Cibot al dottore sul pianerottolo.
«Mia cara signora Cibot, il vostro signore è un
uomo morto, non per il travaso di bile nel sangue, ma per la sua
debolezza morale. Tuttavia, con molte cure, il vostro malato può
ancora cavarsela; bisognerebbe farlo uscire di qui, farlo
viaggiare...».
«E con quali mezzi?...», disse la portiera. «Ha
solo il suo stipendio, e il suo amico vive con una piccola rendita
che gli è stata assicurata da certe signore assai caritatevoli alle
quali, stando a quello che dice, avrebbe reso dei servizi. Sono due
bambini, di cui mi occupo da nove anni».
«Passo la mia vita a vedere gente che muore, non
per le loro malattie ma per quella grande e incurabile ferita che è
la mancanza di soldi. In quante soffitte, invece di farmi pagare la
visita, sono costretto a lasciare cento soldi sul camino!...».
«Povero caro signor Poulain!...», disse la Cibot.
«Ah! se n' aveste le centomila lire di rendita che hanno certi
taccagni del quartiere, dei veri diavoli scatenati, sareste il
rappresentante di Dio in terra!».
Il medico, che secondo il parere dei signori
portieri della circoscrizione era riuscito a farsi una clientela che
bastava appena a sopravvivere, alzò gli occhi al cielo e ringraziò
la signora Cibot con una smorfia degna di Tartufo.
«Dunque, caro signor Poulain, voi dite che, con
molte cure, il nostro malato potrebbe cavarsela?».
«Sì, se non è troppo indebolito nel morale dal
dispiacere che ha provato».
«Poveretto! chi ha potuto avere il coraggio di
farlo star male? È n' un brav'uomo che sulla terra non ha eguali,
tranne il suo amico, il signor Schmucke!... Voglio proprio sapere
cosa gli hanno fatto! Poi ci penserò io a strigliare chi m'ha
conciato così il mio signor Pons...».
«Sentite, cara signora Cibot», disse il medico,
che in quel momento si trovava sulla soglia del portone, «una delle
principali caratteristiche della malattia del signor Pons è
un'impazienza continua senza alcun motivo, e poiché non è verosimile
che possa prendere un'infermiera sarete voi ad occuparvene.
Allora...».
«È del signor Pons che state parlando?», chiese
il ferravecchio che stava fumando la pipa.
E si alzò dal paracarro del portone per
partecipare alla conversazione tra la portiera e il dottore.
«Sì, papà Rémonencq!», rispose la Cibot
all'alverniate.
«Ebbene, è più ricco del signor Monistrol e di
tutti i negozianti di curiosità... Sono abbastanza esperto del
settore per dirvi che il brav'uomo possiede dei tesori!».
«Ma va'... e io credevo che mi prendeste in giro
l'altro giorno, quando vi ho fatto vedere tutte quelle anticaglie
mentre i signori erano fuori...», disse la Cibot a Rémonencq.
A Parigi, dove il selciato ha gli orecchi, e le
porte hanno la lingua, e le sbarre delle finestre hanno gli occhi,
niente è più pericoloso del parlare sui portoni. Le ultime parole
che vi si dicono, e che stanno a una conversazione come un
post-scriptum a una lettera, contengono delle indiscrezioni
pericolose sia per chi le pronuncia, sia per chi le ascolta. Un solo
esempio potrà bastare a corroborare quello presentato da questa
storia.
XXVIII • L'ORO È UNA CHIMERA (PAROLE DI SCRIBE, MUSICA DI MEYERBEER,
SCENE DI RÉMONENCQ)
Un giorno, uno dei primi parrucchieri del tempo
dell'Impero, epoca in cui gli uomini curavano molto la loro
capigliatura, stava uscendo da una casa dove era andato a pettinare
una bella signora, e dove serviva tutti i ricchi inquilini. Tra
questi spiccava un vecchio scapolo armato di una governante che
detestava gli eredi del suo padrone. Costui, gravemente malato, era
stato appena sottoposto a un consulto dei medici più famosi, che
ancora non venivano chiamati i principi della scienza. Usciti, per
caso, nello stesso momento del parrucchiere, i medici, mentre si
salutavano sulla soglia del portone, parlavano, con la scienza e la
verità alla mano, come parlano tra loro quando la farsa del consulto
è terminata. «È un uomo morto», disse il dottor Haudry. «Non gli
resta un mese», aggiunse Desplein, «a meno che un miracolo...». Il
parrucchiere udì queste parole. Come tutti i parrucchieri, se la
intendeva con i domestici. Spinto da una mostruosa avidità, subito
risale dallo scapolo e promette alla serva-padrona una bella
ricompensa qualora riesca a convincere il padrone a destinare gran
parte della sua ricchezza a un vitalizio. Il patrimonio del vecchio
scapolo moribondo, di cinquantasei anni che valevano il doppio a
causa delle sue campagne amorose, comprendeva una magnifica casa in
rue de Richelieu, che allora valeva duecentocinquantamila franchi.
Quella casa, oggetto della cupidigia del parrucchiere, gli fu
venduta in cambio di una rendita vitalizia di trentamila franchi.
Ciò accadeva nel 1806. Il parrucchiere, oggi a riposo, settantenne,
nel 1846 paga ancora la rendita. Poiché il suddetto scapolo ha ormai
ottantasei anni, è rimbambito e ha sposato la sua signora Evrard,
può campare ancora a lungo. Così, poiché il parrucchiere ha dato
circa trentamila franchi alla governante, l'immobile gli costa più
di un milione; mentre la casa oggi vale da ottocento a novecentomila
franchi.
A imitazione di quel parrucchiere, l'alverniate
aveva udito le ultime parole dette da Brunner a Pons davanti al suo
negozio, il giorno dell'incontro del fidanzato-fenice con Cécile.
Rémonencq, che viveva in buon accordo con i Cibot, fu subito
introdotto nell'appartamento dei due amici in loro assenza.
Abbagliato da tutta quella ricchezza, vide che c'era la possibilità
di un bel colpo, che nel gergo mercantile significa «un bel furto»,
e da cinque o sei giorni non pensava ad altro.
«Io scherzo talmente poco», rispose alla Cibot e
al dottor Poulain, «che riparleremo della cosa, e se quel bravo
signore vuole una rendita vitalizia di cinquantamila franchi, vi
pago un cesto di bottiglie di vino del mio paese nel caso che voi
mi...».
«Dite sul serio?», disse il medico a Rémonencq.
«Cinquantamila franchi di rendita vitalizia!... Ma se il buonuomo è
così ricco, curato da me e assistito dalla signora Cibot può
certamente guarire..., perché le malattie di fegato sono gli
inconvenienti dei temperamenti molto forti...».
«Ho detto cinquanta? Ma un signore, lì, sulla
soglia del portone, gli ha proposto settecentomila franchi e solo
per i quadri!».
A questa dichiarazione di Rémonencq, la Cibot
guardò il dottor Poulain in modo strano; il diavolo accendeva un
fuoco sinistro nei suoi occhi arancioni.
«Su, non diamo retta a simili stupidaggini»,
replicò il medico, piuttosto contento di sapere che il suo cliente
era in grado di pagare tutte le visite che stava per fargli.
«Signor dottore, se la mia cara signora Cibot,
dal momento che il signore è a letto, mi permette di portare il mio
esperto, sono sicuro di trovare il denaro in un paio d'ore, anche se
si trattasse di settecentomila franchi...».
«Bene, amico mio!...», rispose il dottore.
«Allora, signora Cibot, evitate di contrariare il malato; dovete
armarvi di pazienza, perché ogni cosa lo irriterà, lo stancherà,
anche le vostre attenzioni; aspettatevi che niente gli vada
bene...».
«Sarà un'impresa difficile», disse la portiera.
«Ascoltatemi bene», continuò il medico con tono
autorevole. «La vita del signor Pons è nelle mani di coloro che lo
cureranno; così verrò a vederlo tutti i giorni, forse due volte al
giorno. Comincerò il mio giro da lui...».
Improvvisamente il medico era passato
dall'indifferenza profonda che mostrava per la sorte dei suoi malati
poveri alla più affettuosa sollecitudine, essendosi reso conto della
reale possibilità della ricchezza di Pons dal tono serio con cui lo
speculatore ne aveva parlato.
«Sarà curato come un re», rispose la Cibot con
simulato entusiasmo.
La portiera attese che il medico avesse svoltato
nella rue Charlot prima di riprendere la conversazione con
Rémonencq. Il ferravecchio stava finendo di fumare la sua pipa, la
schiena appoggiata allo stipite della porta della bottega. Non aveva
preso a caso questa posizione: voleva veder tornare da lui la
portiera.
La bottega, un tempo occupata da un caffè, era
rimasta tale quale l'alverniate l'aveva trovata quando l'aveva presa
in affitto. Si leggeva ancora CAFÈ DE NORMANDIE sull'insegna che
sovrasta le vetrine dei negozi moderni. L'alverniate aveva fatto
dipingere, sicuramente gratis, a pennello e con vernice nera, da
qualche garzone imbianchino, nello spazio che rimaneva sotto CAFÈ DE
NORMANDIE, queste parole: Rémonencq, ferravecchio, compra oggetti
d'occasione. Naturalmente tutto il mobilio del Café de Normandie,
gli specchi, i tavoli, gli sgabelli, gli scaffali, era stato
venduto. Rémonencq aveva preso in affitto, per seicento franchi, la
bottega vuota, il retrobottega, la cucina e una sola camera al
mezzanino, dove aveva dormito il primo cameriere, perché
l'appartamento annesso al Café de Normandie era stato affittato a
parte. Del lusso originario sfoggiato dal venditore di bevande
restava soltanto una carta da parati color verde-chiaro, e le forti
sbarre di ferro della vetrina con i loro bulloni.
XXIX • ICONOGRAFIA DEL GENERE RIGATTIERE
Arrivato lì nel 1831, dopo la rivoluzione di
Luglio, Rémonencq cominciò a esporre campanelli rotti, piatti
incrinati, rottami di ferro, vecchie bilance, antichi pesi non più
legali dopo la legge sulle nuove misure che lo Stato è l'unico a non
osservare, poiché lascia ancora in circolazione le monete da un
soldo e da due soldi che risalgono al regno di Luigi XVI.
Successivamente questo alverniate, della forza di cinque alverniati,
comprò batterie da cucina, vecchie cornici, vecchi utensili di rame,
porcellane sbreccate. Poco a poco, a forza di riempirsi e svuotarsi,
la bottega somigliò alle farse di Nicolet: il genere delle merci
migliorò. Il ferravecchio seguì quella prodigiosa e sicura
martingala, i cui effetti risultano evidenti agli occhi dei
fannulloni abbastanza filosofi da studiare la progressione crescente
dei valori che guarniscono quelle interessanti botteghe. Alla latta,
alle lampade, ai cocci seguono cornici e oggetti di rame. Presto la
bottega, trasformata per qualche tempo in crostèo, passa allo stadio
di museo. Infine, un giorno, la vetrina polverosa si rischiara,
l'interno appare restaurato, l'alverniate lascia il fustagno e le
giacche per portare la redingote! Assume l'aspetto di un drago a
guardia del tesoro; è circondato di capolavori, è diventato un
raffinato esperto, ha decuplicato i suoi capitali e non si lascia
più ingannare perché ormai conosce tutti i trucchi del mestiere. Il
mostro è là, come una vecchia in mezzo a venti ragazze che offre al
pubblico. La bellezza, i miracoli dell'arte sono indifferenti a
quest'uomo astuto e insieme grossolano, che fa bene i suoi conti e
tratta male gli ignoranti. Divenuto attore, finge di essere
affezionato alle sue tele, ai suoi intarsi, oppure di trovarsi in
difficoltà economiche, oppure si inventa i prezzi d'acquisto delle
merci e offre di mostrare le fatture. È un proteo: è nello stesso
tempo Jocrisse, Janot, Codarossa, Mondor, Arpagone e Nicodemo.
Dopo il terzo anno, si videro da Rémonencq
pendole piuttosto belle, armature, quadri antichi; durante le sue
assenze faceva custodire la bottega da un'orribile donnona, sua
sorella, che dietro sua richiesta era venuta a piedi dal paese. La
Rémonencq, una specie d'idiota dallo sguardo vuoto, vestita come un
idolo giapponese, non calava di un centesimo il prezzo stabilito dal
fratello; era lei a occuparsi delle faccende di casa, risolvendo il
problema apparentemente insolubile di vivere delle nebbie della
Senna. Rémonencq e sua sorella si nutrivano di pane e aringhe,
bucce, avanzi di legumi raccolti nei mucchi di spazzatura che i
ristoratori lasciano accanto ai loro paracarri. In due non
spendevano dodici soldi al giorno compreso il pane, e la Rémonencq
cuciva o filava per guadagnarli.
Questo inizio dell'attività commerciale di
Rémonencq, venuto a Parigi per fare il fattorino, e che dal 1825 al
1831 aveva eseguito commissioni per i negozianti di curiosità del
boulevard Beaumarchais e per i calderai della rue de Lappe, è la
storia normale di molti negozianti di curiosità. Gli ebrei, i
normanni, gli alverniati e i savoiardi, queste quattro razze di
uomini hanno gli stessi istinti e fanno fortuna con gli stessi
mezzi. Non spendere niente, realizzare piccoli guadagni, e
accumulare interessi e guadagni: è questo il loro programma. Ed è un
programma che si realizza.
In quel periodo Rémonencq, riconciliatosi col suo
antico padrone Monistrol, in rapporto d'affari con grossi
commercianti, andava in cerca di anticaglie nei sobborghi di Parigi
che, come sapete, si estendono in un raggio di quaranta leghe. Dopo
quattordici anni di esperienza, aveva messo insieme una ricchezza di
sessantamila franchi e una bottega ben fornita. Senza imprevisti,
nella rue de Normandie dove lo tratteneva il modico affitto, vendeva
le sue merci ai commercianti, contentandosi di modesti guadagni.
Trattava i suoi affari in dialetto alverniate, detto charabia.
Quest'uomo carezzava un sogno! Il suo grande desiderio era
stabilirsi sui boulevards; voleva diventare un ricco negoziante di
curiosità, per trattare un giorno direttamente con gli amatori. Del
resto, era un formidabile negoziante. Sul suo volto era rimasto uno
strato polveroso, prodotto dalla limatura di ferro e incollato dal
sudore, poiché faceva tutto da solo; ciò rendeva la sua fisionomia
tanto più impenetrabile in quanto l'abitudine alla fatica fisica
l'aveva dotato della stoica impassibilità dei soldati del 1799.
Rémonencq era basso e magro, e gli occhi piccoli, disposti come
quelli dei maiali, rivelavano, nelle pupille di un colore azzurro
freddo, l'avidità concentrata, l'astuzia sorniona degli ebrei,
tranne quella loro apparente umiltà accompagnata da un profondo
disprezzo per i cristiani.
I rapporti tra i Cibot e i Rémonencq erano quelli
che si stabiliscono tra il benefattore e il beneficato. La Cibot,
convinta della estrema povertà dei due alverniati, vendeva loro a
prezzi favolosi gli avanzi di Schmucke e di Cibot. I Rémonencq
pagavano due centesimi e mezzo una libbra di croste secche e di
mollica di pane, un centesimo e mezzo una scodella di patate, e così
via. L'astuto Rémonencq faceva credere che non faceva mai affari per
proprio conto. Rappresentava sempre Monistrol, e sosteneva di essere
una vittima dei ricchi commercianti; così i Cibot compiangevano
sinceramente i Rémonencq. In undici anni l'alverniate non aveva
ancora consumato la giacca di fustagno, i pantaloni di fustagno e il
gilè di fustagno che indossava sempre; ma questi tre indumenti,
tipici degli alverniati, erano pieni di toppe, cucite gratis da
Cibot. Come possiamo vedere, non tutti gli ebrei sono in Israele.
«Non mi state prendendo in giro, Rémonencq?»,
chiese la portiera. «Com'è possibile che il signor Pons sia così
ricco e faccia la vita che fa? Non ha neppure cento franchi!...».
«Gli amatori sono tutti così», rispose con tono
sentenzioso Rémonencq.
«Così credete davvero che la sua roba valga
settecentomila franchi?...».
«I quadri da soli li valgono... Ne ha uno che se
chiedesse cinquantamila franchi li troverei a costo di farmi
impiccare. Avete visto quelle piccole cornici di rame smaltato, col
velluto rosso e dei ritratti?... Ebbene, sono smalti di Pettitotte
per ognuno dei quali il signor ministro del governo, un vecchio
droghiere, paga mille scudi...».
«Ce ne sono trenta nelle due cornici!», disse la
portiera spalancando gli occhi.
«Ebbene, da questo potete capire quanto vale il
suo tesoro».
La Cibot, presa da vertigini, fece un
voltafaccia. Le venne subito l'idea di farsi ricordare nel
testamento del buon Pons, come tutte le serve-padrone i cui vitalizi
suscitavano tante cupidigie nel quartiere del Marais. Immaginando di
vivere in un paese nei dintorni di Parigi, già si pavoneggiava in
una casa di campagna dove si occupava del pollaio, del giardino, e
dove avrebbe finito i suoi giorni, servita come una regina, insieme
al povero Cibot che si meritava proprio di star bene, come tutti gli
angeli dimenticati, incompresi.
Nel movimento brusco e ingenuo della portiera,
Rémonencq vide la certezza di un successo. Nel mestiere del
rigattiere (tale è il nome di chi va alla ricerca di oggetti
d'occasione e conclude buoni affari con chi non se ne intende), in
questo mestiere la difficoltà consiste nel riuscire a introdursi
nelle case. Non si possono immaginare le furbizie da Scapino, i tiri
da Sganarello e le seduzioni da Dorina che i rigattieri inventano
per entrare nelle case dei borghesi. Sono vere commedie da teatro,
sempre fondate - come in questo caso - sulla rapacità dei domestici.
I domestici, soprattutto in campagna o in provincia, per trenta
franchi in denaro o in merci fanno concludere affari in cui il
rigattiere realizza guadagni da mille a duemila franchi. C'è un
certo servizio di antico Sèvres, pasta tenera, la cui conquista, se
venisse raccontata, rivelerebbe tutte le astuzie diplomatiche del
congresso di Münster, tutta l'intelligenza messa in campo a Nimega,
a Utrecht, a Rijswijck, a Vienna, superate dai rigattieri la cui
comicità è assai più franca di quella dei negoziatori. I rigattieri
usano dei mezzi d'azione che penetrano tanto profondamente negli
abissi dell'interesse personale, quanto quelli ricercati con tanta
fatica dagli ambasciatori per determinare la rottura delle alleanze
più solide.
«Ho infiammato perbene la Cibot», disse il
fratello alla sorella mentre lei si rimetteva a sedere su una sedia
spagliata. «Ora vado a sentire cosa ne pensa l'unico che se ne
intende, il nostro ebreo, quel caro ebreo che ci ha prestato i soldi
solo al quindici per cento!».
Rémonencq aveva letto nel cuore della Cibot.
Nelle donne di quella tempra, volere è agire; non indietreggiano
dinanzi a nessun mezzo per ottenere il successo; in un attimo
passano dalla più completa probità alla più profonda scelleratezza.
La probità, come del resto tutti i nostri sentimenti, dovrebbe
essere distinta in due probità: una probità negativa e una probità
positiva. La probità negativa sarebbe quella dei Cibot, che sono
probi finché non si presenta loro l'occasione di arricchirsi. La
probità positiva sarebbe quella che resta continuamente in
tentazione senza mai cedere, la probità degli esattori.
XXX • DOVE LA CIBOT INIZIA IL PRIMO ATTACCO
Un fiume di malvage intenzioni irruppe
nell'intelligenza e nel cuore della portiera attraverso la chiusa
dell'interesse che si era aperta alle parole diaboliche del
rigattiere. La Cibot salì, anzi volò, per essere esatti, dalla
portineria all'appartamento dei suoi due signori e apparve, con
un'espressione di falsa tenerezza, sulla soglia della camera dove
Pons e Schmucke gemevano. Vedendo entrare la donna di servizio,
Schmucke le fece segno di non dire una sola parola, in presenza del
malato, sulle vere opinioni del dottore; infatti l'amico, il sublime
tedesco, aveva letto negli occhi del dottore. Lei gli rispose con un
altro cenno della testa, esprimendo un profondo dolore.
«Ebbene, caro signore, come vi sentite?», chiese
la Cibot.
La portiera si fermò ai piedi del letto, i pugni
sui fianchi e gli occhi affettuosamente fissi sul malato; ma quali
pagliuzze d'oro ne sprizzavano! Un osservatore avrebbe notato che
quello sguardo era terribile quanto lo sguardo di una tigre.
«Malissimo!», rispose il povero Pons, «non ho più
il minimo appetito. Ah, il mondo! il mondo!», esclamava stringendo
la mano di Schmucke che, seduto al capezzale del letto, teneva la
mano di Pons e col quale sicuramente il malato stava parlando delle
cause della sua malattia. «Avrei fatto meglio, mio buon Schmucke, a
seguire i tuoi consigli! Pranzare qui ogni giorno da quando ci siamo
incontrati! Rinunciare a quella società che mi passa sopra come un
carretto su un uovo, e poi in cambio di che?...».
«Su, mio buon signore, niente lamenti», disse la
Cibot, «il dottore mi ha detto la verità...».
Schmucke tirò la portiera per la veste.
«Sì, potete cavarvela, ma avete bisogno di molte
cure... State tranquillo, avete con voi n' un buon amico e, senza
vantarmi, una donna che vi curerà come una madre cura il suo primo
figlio. Ho tirato fuori Cibot da una malattia, che il signor Poulain
l'aveva già condannato e, come si dice, gli aveva già buttato il
lenzuolo sul naso, lo davano per morto!... Ebbene, voi che grazie a
Dio non siete a questo punto, anche se siete piuttosto malato,
contate pure su di me... vi tirerò fuori da sola! Ma state calmo,
non agitatevi in questo modo».
E sistemò la coperta sulle mani del malato.
«Coraggio, figlio mio», continuò, «il signor
Schmucke e io faremo le nottate al vostro capezzale... Sarete
assistito meglio di un principe...; e d'altra parte siete abbastanza
ricco per non farvi mancare niente di quello che vi serve per
curarvi... Sono già d'accordo con Cibot; pover'uomo, come farebbe
senza di me!... Ebbene, gli ho fatto capire; vi vogliamo talmente
bene che mi permette di restare qui la notte... Eh, per un uomo come
lui... è un grande sacrificio... mi ama ancora come il primo giorno.
Non so perché... forse la portineria! uno accanto all'altro,
sempre!... Ma insomma, non scopritevi!...», disse lanciandosi al
capezzale e sistemando le coperte sul petto di Pons. «Se non siete
bravo, se non fate perbene tutto quello che ordina il signor
Poulain, che è l'immagine del buon Dio in terra, non mi occuperò più
di voi... Bisogna obbedirmi...».
«Sì, sighnora Zipod! vi obbedirà», rispose
Schmucke, «perché vuole vivere per il suo amico Schmucke, ve lo
garantisco».
«E soprattutto non vi spazientite, perché la
vostra malattia», disse la Cibot, «vi innervosisce già abbastanza e
non c'è nessun bisogno che vi ci mettiate anche voi. È Dio che ci
manda i nostri mali, mio caro signore, e ci punisce per le nostre
colpe; non avrete qualche bel peccatuccio da rimproverarvi?...».
Il malato fece segno di no con la testa.
«Oh! andiamo, avrete pur amato in gioventù,
avrete avuto le vostre scappatelle, e forse avete da qualche parte
un frutto dei vostri amori, magari senza pane, senza fuoco e senza
casa... Che mostri gli uomini! Vi amano per un giorno e poi
spariscono! Non pensano più a niente, neppure a pagare la balia!...
Povere donne!...».
«Mi hanno voluto bene soltanto Schmucke e la mia
povera mamma», disse tristemente il povero Pons.
«Su! non sarete mica un santo! Siete stato
giovane, e a vent'anni dovevate essere un bel ragazzo... Buono come
siete, io vi avrei amato...».
«Sono sempre stato brutto come un rospo!», disse
Pons con aria dispiaciuta.
«Parlate così per modestia, perché siete modesto
per natura».
«Ma no, cara signora Cibot, ve lo ripeto, sono
sempre stato brutto e nessuno mi ha mai amato...».
«Proprio voi!...», disse la portiera. «Ora volete
farmi credere che alla vostra età siete una verginella... Ma via! un
musicista! un uomo di teatro! Fosse anche una donna a dirmelo, non
le crederei».
«Sighnora Zipod! lo farete irritare!», esclamò
Schmucke vedendo che Pons si stava contorcendo nel letto come un
verme.
«Ma tacete anche voi! Siete due vecchi
libertini... Avete voglia a essere brutti, non c'è coperchio
talmente brutto da non trovare il suo vaso! come dice il proverbio.
Cibot è riuscito a farsi amare da una delle più belle ostricaie di
Parigi... e voi siete infinitamente meglio di lui... siete buono,
voi!... Andiamo, anche voi avete corso la cavallina! e ora Dio vi
punisce per aver abbandonato i vostri figli, come Abramo!...».
Il malato, esausto, trovò la forza per fare
ancora un gesto di diniego.
«Ma state tranquillo, tutto questo non vi
impedirà di vivere quanto Matusalemme».
«Ma insomma, lasciatemi in pace!», gridò Pons.
«Non ho mai saputo cosa volesse dire essere amato!... Non ho avuto
figli, e su questa terra sono solo!...».
«Ma è proprio vero?», insisté la portiera. «Siete
talmente buono che le donne, che amano la bontà e proprio per questo
si affezionano... mi sembra impossibile che ai vostri bei tempi...».
«Portala via!», disse Pons all'orecchio di
Schmucke, «mi irrita!».
«Invece il signor Schmucke deve averlo qualche
figlio... siete tutti uguali voi vecchi scapoli...».
«Io!», saltò in piedi Schmucke. «Ma...».
«Allora anche voi sareste senza eredi? Tutti e
due siete spuntati dalla terra come funghi...».
«Insomma, basta!», rispose Schmucke.
Il buon tedesco prese eroicamente la Cibot per la
vita e la spinse in salotto senza ascoltare le sue proteste.
XXXI • UN BELL'ATTO DI CONTINENZA
«Non vorrete abusare di una povera donna, alla
vostra età!...», gridava la Cibot dibattendosi tra le braccia di
Schmucke.
«Non gridate!».
«Proprio voi, il migliore dei due...», rispose la
Cibot. «Ah! ho fatto male a parlare d'amore a due vecchi che non
hanno mai toccato una donna! Vi ho messo il fuoco addosso...
mostro...», gridò vedendo di occhi di Schmucke, accesi di collera.
«Aiuto! Aiuto! Mi rapiscono!».
«Siete una scema!», rispose il tedesco. «Su, che
ha detto il dottore?».
«Mi maltrattate in questo modo...», rispose in
lacrime la Cibot, che ora era libera, «io che mi getterei nel fuoco
per voi due! Ma bene! si dice che gli uomini si conoscono solo
frequentandoli... com'è vero! Il mio povero Cibot non avrebbe mai
osato malmenarmi in questo modo... io che vi tratto come se foste
figli miei; perché io non ho figli e proprio ieri, sì, non più tardi
di ieri, dicevo a Cibot: «Amico mio, Dio sapeva bene quello che
faceva negandoci dei figli, perché due figli li ho, al piano di
sopra!». Ecco cosa gli dicevo, per la santa croce di Dio, sull'anima
di mia madre...».
«Sì, ma che ha detto il dottore?», chiese
infastidito Schmucke, che per la prima volta in vita sua batté i
piedi per terra.
«Ha detto», rispose la Cibot trascinando Schmucke
in sala da pranzo, «che il nostro amatissimo tesoro di malato
rischia di morire se non viene curato bene: ma io sono qui per
questo, malgrado la vostra brutalità; perché voi, che credevo così
dolce, invece siete brutale. Bel carattere avete!... Ah! alla vostra
età vorreste ancora abusare di una donna, sporcaccione?...».
«Sporcaccione! a me?... Voi non capite che io amo
soltanto Bons!».
«Meglio così... mi lascerete in pace...», disse
sorridendo a Schmucke. «E sarà meglio perché Cibot romperebbe le
ossa a chiunque attentasse al suo onore!».
«Accuditelo bene, mia piccola sighnora Zibod»,
disse Schmucke cercando di prendere una mano alla Cibot.
«Come!... ancora?...».
«Ascoltatemi dunque! Tutto quello che possiedo
sarà vostro, se lo salveremo...».
«Vado dal farmacista a comprare quello che serve.
Vi rendete conto, caro signore, che questa malattia costerà... Come
farete?...».
«Lavorerò! Voglio che Bons sia curato come un
principe...».
«E lo sarà, mio buon signor Schmucke; non
preoccupatevi di niente. Cibot ed io abbiamo duemila franchi di
risparmi; sono vostri. Del resto, credetemi, è da molto tempo che
qui ci metto del mio...».
«Che buona donna!», esclamò Schmucke asciugandosi
gli occhi, «che cuore!».
«Asciugatevi quelle lacrime che mi onorano: ecco
la miglior ricompensa per me!», disse con tono melodrammatico la
Cibot. «Sono la persona più disinteressata al mondo; ma non entrate
da lui con le lacrime agli occhi... il signor Pons potrebbe credere
di essere più malato di quanto non sia».
Schmucke, commosso da tanta delicatezza, prese
una mano alla Cibot e la strinse.
«Risparmiatemi!», disse l'ex ostricaia rivolgendo
a Schmucke uno sguardo tenero.
«Bons», disse il buon tedesco rientrando nella
camera, «la sighnora Zibod è un angelo, un angelo chiacchierone ma
un angelo».
«Credi?... Da un mese a questa parte sono
diventato diffidente», rispose il malato scuotendo la testa. «Dopo
tutte le mie sventure, credo soltanto a Dio e a te!...».
«Guarisci, e vivremo tutti e tre come dei re!»,
esclamò Schmucke.
«Cibot!», disse la portiera mentre entrava,
ansimante, nella portineria. «Amico mio, siamo ricchi! I miei due
signori non hanno eredi né figli naturali, niente di niente!... Oh!
vado dalla Fontaine a farmi fare le carte per sapere quanto avremo
di rendita!...».
«Moglie», rispose il piccolo sarto, «non contiamo
sulle scarpe di un morto per essere ben calzati».
«Vuoi farmi arrabbiare?», rispose lei dando un
colpetto affettuoso a Cibot. «So quello che so! Il signor Poulain ha
dato per spacciato il signor Pons! E noi saremo ricchi! Mi metterà
nel testamento... Ci penso io. Tu pensa a cucire e bada alla
portineria, ma non farai ancora per molto questo mestiere! Ci
ritireremo in campagna, a Batignolles. Una bella casa, un bel
giardino che ti divertirai a coltivare, e io avrò una serva!...».
«Allora, vicina, come sta andando lassù?», chiese
Rémonencq. «Avete saputo quanto vale la collezione?».
«No, non ancora! Non è così che bisogna fare,
buonuomo. Per quanto mi riguarda, ho cominciato col farmi dire delle
cose più importanti...».
«Più importanti!», esclamò Rémonencq. «Ma cosa
c'è di più importante di quello?».
«Su, birichino! lasciami guidare la barca», disse
la portiera con tono autoritario.
«Col trenta per cento su settecentomila franchi,
avreste di che vivere da signori per il resto della vostra vita...».
«State tranquillo, papà Rémonencq; quando sarà il
momento di sapere quanto vale tutta quella roba messa insieme dal
brav'uomo, vedremo...».
XXXII • TRATTATO DI SCIENZE OCCULTE
E la portiera, dopo essere andata dal farmacista
a prendere le medicine ordinate dal dottor Poulain, rinviò al giorno
dopo la visita alla signora Fontaine, pensando che avrebbe trovato
più fresche e più chiare le facoltà dell'oracolo se ci fosse andata
di buon mattino, prima degli altri; perché c'è spesso molta gente
dalla signora Fontaine.
Dopo essere stata per quarant'anni l'antagonista
della celebre signorina Lenormand, cui era sopravvissuta, a
quell'epoca la signora Fontaine era l'oracolo del Marais. Non si può
immaginare cosa significano le cartomanti per le classi inferiori
parigine e l'enorme influenza che esercitano sulle decisioni delle
persone prive di istruzione; infatti le cuoche, le portiere, le
mantenute, gli operai, tutti coloro che a Parigi vivono di speranze,
consultano quegli esseri privilegiati che possiedono lo strano e
inspiegabile potere di leggere il futuro. La credenza nelle scienze
occulte è molto più diffusa di quanto non credano gli scienziati,
gli avvocati, i notai, i medici, i magistrati e i filosofi. Il
popolo ha istinti indelebili. Tra questi istinti, quello che così
stupidamente è chiamato superstizione si trova tanto nel sangue del
popolo quanto nello spirito delle classi superiori. Più di un uomo
di Stato, a Parigi, consulta le cartomanti. Per gli increduli,
l'astrologia giudiziaria (alleanza di parole eccessivamente
bizzarra) non è altro che lo sfruttamento di un sentimento innato,
uno dei più forti della nostra natura, la curiosità. Gli increduli
negano dunque completamente i rapporti che la divinazione instaura
tra il destino umano e la configurazione che se ne ottiene
attraverso i sette o otto mezzi principali che compongono
l'astrologia giudiziaria. Ma alle scienze occulte è riservata la
stessa sorte di tanti fenomeni naturali rifiutati dagli spiriti
forti o dai filosofi materialisti, cioè da quanti si attengono
unicamente ai fatti visibili, solidi, ai risultati della storta o
delle bilance della fisica e della chimica moderne; eppure esistono
e continuano la loro strada, sia pure senza alcun progresso dal
momento che da circa due secoli le intelligenze superiori ne hanno
abbandonato lo studio.
Guardando soltanto alla possibilità della
divinazione, credere che gli avvenimenti anteriori della vita di un
uomo, che i segreti noti a lui soltanto possano essere
immediatamente rappresentati dalle carte che l'indovino mischia e
poi scopre e divide in mucchietti secondo leggi misteriose, è
assurdo; ma è lo stesso assurdo che condannava il vapore, che ancora
condanna la navigazione aerea, che condannava le invenzioni della
polvere da sparo e della stampa, quella degli occhiali,
dell'incisione, e l'ultima grande scoperta della dagherrotipia. Se
qualcuno fosse andato a dire a Napoleone che un edificio e un uomo
sono continuamente e in ogni istante rappresentati da un'immagine
nell'atmosfera, che tutti gli oggetti esistenti vi hanno uno spettro
afferrabile, percepibile, l'imperatore avrebbe fatto rinchiudere
quest'uomo a Charenton, come Richelieu rinchiuse Salomon de Caux a
Bicêtre quando il martire normanno gli portò l'immensa conquista
della navigazione a vapore. La stessa cosa è accaduta a Daguerre con
la sua scoperta! Ebbene, se Dio ha impresso, per certi occhi
chiaroveggenti, il destino di ogni uomo nella sua fisionomia,
prendendo questa parola come l'espressione totale del corpo, perché
mai la mano non potrebbe riassumere la fisionomia, dal momento che
la mano è l'azione umana e l'unico suo mezzo di espressione? Da qui
nasce la chiromanzia. La società non imita forse Dio? Predire a un
uomo gli avvenimenti della sua vita in base all'aspetto della mano
non è un fatto più straordinario, per chi ha ricevuto le facoltà del
veggente, del dire a un soldato che combatterà, a un avvocato che
parlerà, a un calzolaio che farà delle scarpe e degli stivali, a un
coltivatore che concimerà la terra e la lavorerà. Prendiamo un
esempio evidente. Il genio è talmente visibile nell'uomo che,
passeggiando per Parigi, anche le persone più ignoranti sanno
riconoscere un grande artista solo a vederlo passare. È una sorta di
sole morale i cui raggi colorano ogni cosa al suo passaggio. Un
imbecille non si riconosce forse immediatamente per delle
impressioni opposte a quelle suscitate dall'uomo di genio? Un uomo
ordinario passa quasi inosservato. La maggior parte degli
osservatori della natura sociale e parigina può indovinare la
professione di un passante dal suo solo aspetto. Oggi i misteri del
sabba, così ben dipinti dai pittori del XVI secolo, non sono più dei
misteri. Le egiziane e gli egiziani, padri degli zingari, strana
nazione venuta dalle Indie, facevano prendere dell'hascisc ai loro
clienti. I fenomeni provocati da quest'impasto spiegano
perfettamente le cavalcate sulle scope, le fughe su per i camini, le
visioni reali, per così dire, delle vecchie trasformate in giovani,
le danze furibonde e le musiche deliziose che componevano le
fantasie dei pretesi adoratori del diavolo.
Oggi, sono talmente tanti i fatti verificati,
veri, nati dalle scienze occulte, che un giorno queste scienze
saranno professate come si professa la chimica e l'astronomia. È
anzi singolare che mentre a Parigi vengono istituite delle cattedre
di slavo, di manciù, di letterature assai poco professabili come le
letterature del Nord, e i cui titolari ripetono sempre le stesse
cose su Shakespeare o sul XVI secolo, non sia stato ristabilito,
sotto il nome di antropologia, l'insegnamento della filosofia
occulta, una delle glorie dell'antica Università. In questo, la
Germania, paese nello stesso tempo così grande e così infantile, ha
preceduto la Francia: lì si professa quella scienza, assai più utile
delle diverse FILOSOFIE, che sono tutte la stessa cosa.
Che certe persone abbiano il potere di vedere il
futuro nel germe delle cause, come il grande inventore intravede
un'industria, una scienza in un fenomeno naturale di cui una persona
comune non si accorge, non è più un'eccezione clamorosa; è l'effetto
di una facoltà riconosciuta, e che sarebbe in un certo senso il
sonnambulismo dello spirito. Se un concetto del genere, sul quale si
basano le diverse maniere di decifrare il futuro, sembra assurdo, il
fatto comunque esiste.
Considerate che predire i grandi eventi del
futuro non costituisce per il veggente uno sforzo più straordinario
di quello d'indovinare il passato. Il passato, il futuro, per gli
increduli sono egualmente inconoscibili. Se gli eventi accaduti
hanno lasciato delle tracce, è verosimile immaginare che gli eventi
futuri abbiano le loro radici. Colui che vi annuncia la buona sorte,
dal momento in cui vi spiega dettagliatamente i fatti che voi soli
conoscete, nella vostra vita precedente, può anche predirvi gli
avvenimenti che saranno prodotti da cause esistenti. Il mondo morale
è tagliato, per così dire, sul modello del mondo naturale; vi si
devono ritrovare gli stessi effetti, con le differenze specifiche
dei loro diversi ambienti. Così, proprio come i corpi si proiettano
realmente nell'atmosfera lasciandovi sussistere quello spettro còlto
dal dagherrotipo al suo passaggio, le idee, creazioni reali e
operanti, s'imprimono in quella che è opportuno definire l'atmosfera
del mondo spirituale, vi producono degli effetti, vi vivono
spettralmente (è necessario forgiare termini nuovi per indicare
fenomeni che ancora non hanno nome), e allora certe creature dotate
di facoltà rare possono vedere perfettamente quelle forme o quelle
tracce di idee.
Quanto ai mezzi impiegati per ottenere le
visioni, questa è la meraviglia che meglio si spiega, perché è la
mano del cliente a disporre gli oggetti con i quali gli si fanno
rappresentare i casi della vita. In effetti, nel mondo reale tutto è
concatenato. Ogni movimento vi corrisponde a una causa, e ogni causa
si collega all'insieme; di conseguenza l'insieme si rappresenta nel
più piccolo movimento. Rabelais, il più grande spirito dell'umanità
moderna, l'uomo nel quale rivivevano Pitagora, Ippocrate, Aristofane
e Dante, ha detto tre secoli fa: «L'uomo è un microcosmo». Un secolo
dopo, Swedenborg, il grande profeta svedese, diceva che la terra era
un uomo. Il profeta e il precursore dell'incredulità s'incontravano
così nella più grande delle formule. Nella vita umana tutto è
fatale, come nella vita del nostro pianeta. I più piccoli casi, i
più futili, vi sono subordinati. Dunque le grandi cose, i grandi
progetti, i grandi pensieri si riflettono necessariamente nelle più
piccole azioni, e con una tale fedeltà che, se un cospiratore
mischia e alza le carte, in esse scriverà il segreto della sua
cospirazione per il veggente chiamato zingaro, ciarlatano, colui che
annuncia la buona sorte, ecc. Ammettendo la fatalità, cioè il
concatenamento delle cause, è inevitabile riconoscere il valore
dell'astrologia, che torna ad essere ciò che era un tempo: una
scienza immensa, caratterizzata dalla facoltà di dedurre che rese
Cuvier tanto grande; ma spontanea, invece di essere esercitata, come
nel caso di quel genio, nelle notti studiose del laboratorio.
L'astrologia, la divinazione, ha regnato per
sette secoli non come oggi sulla gente del popolo ma sulle
intelligenze migliori, sui sovrani, sulle regine e sui ricchi. Una
delle più grandi scienze dell'antichità, il magnetismo animale, è
nata dalle scienze occulte, come la chimica dai fornelli degli
alchimisti. Anche la craniologia, la fisiognomica e la neurologia
sono scaturite dalle scienze occulte; e gli illustri creatori di
queste scienze apparentemente nuove hanno avuto un solo torto,
quello di ogni inventore, che consiste nel sistematizzare
perfettamente dei fatti isolati la cui causa generatrice sfugge
ancora all'analisi. Un giorno la Chiesa cattolica e la filosofia
moderna si sono trovate d'accordo con la giustizia per proscrivere,
perseguitare, ridicolizzare i misteri della cabala nonché i suoi
adepti; ne è derivata una deprecabile lacuna di cento anni nel
dominio e nello studio delle scienze occulte. Comunque sia, il
popolo e molte persone intelligenti, soprattutto le donne,
continuano a pagare il loro contributo al misterioso potere di
coloro che possono sollevare il velo del futuro; da loro vanno a
comprare un po' di speranza, di coraggio, di forza, cioè quello che
solo la religione può dare. Così questa scienza è ancora praticata,
non senza qualche rischio. Oggi gli stregoni, al riparo da ogni
tortura grazie alla tolleranza di cui siamo debitori agli
enciclopedisti del XVIII secolo, sono soggetti alla sola polizia
correzionale, e solo nel caso in cui si dedichino a operazioni
fraudolente, quando spaventano i loro clienti per estorcere del
denaro, il che costituisce una frode. Sventuratamente la frode e
spesso il delitto accompagnano l'esercizio di questa sublime
facoltà. Vediamo perché.
I mirabili doni che distinguono il veggente si
trovano, generalmente, in quegli individui cui viene affibbiato
l'epiteto di «bruti». Questi bruti sono i vasi prediletti nei quali
Dio ripone gli elixir che sorprendono l'umanità. Da questi bruti
provengono i profeti, i san Pietro, i Pietro l'Eremita. Ogni volta
che il pensiero mantiene la propria totalità integra, e non si
disperde in chiacchiere, intrighi, opere letterarie, fantasie di
scienziati, sforzi politici, congetture d'inventori, servizi
militari, è in grado di emanare fuochi di un'intensità prodigiosa,
come il brillante mantiene lo splendore delle proprie sfaccettature.
Si presenti un'occasione propizia! Subito quell'intelligenza si
accenderà, avrà ali per superare le distanze, occhi divini per
vedere tutto: ieri era un carbone; il giorno dopo, sotto il getto
del fluido sconosciuto che l'attraversa, sarà un diamante
splendente. Le persone delle classi superiori, esperte nell'uso
della loro intelligenza, non possono mai presentare questo potere
supremo, a meno che non si tratti di uno di quei miracoli che
tavolta Dio si concede. Per questo gli indovini e le indovine sono
quasi sempre dei mendicanti o delle mendicanti di spirito ingenuo,
esseri dall'aspetto grossolano, ciottoli rotolati nei torrenti della
miseria, nei sentieri della vita, dove non hanno speso nient'altro
che sofferenze fisiche. Il profeta, il veggente è insomma quel
Martino il contadino che fece tremare Luigi XVIII dicendogli un
segreto che solo il re poteva conoscere; è una signorina Lenormand,
una cuoca come la signora Fontaine, una negra quasi idiota, un
pastore che vive con le sue bestie con le corna, un fachiro che se
ne sta seduto accanto a una pagoda e, mortificando la carne, fa
entrare in contatto il suo spirito con il grande potere sconosciuto
delle facoltà sonnamboliche.
È in Asia che in ogni epoca si sono trovati gli
eroi delle scienze occulte. Spesso, nello stato ordinario, restano
ciò che sono, assolvendo in qualche modo le funzioni chimiche e
fisiche dei corpi conduttori di elettricità, di volta in volta
metalli inerti o canali pieni di fluidi misteriosi; costoro, tornati
in sé, si dedicano a pratiche, a progetti che li portano dritti alla
polizia correzionale o, come il famoso Balthazar, in corte d'assise
e al bagno penale. Infine, e questo dimostra l'immenso potere che la
cartomanzia esercita sul popolo, la vita o la morte del povero
musicista dipendevano dall'oroscopo che la signora Fontaine avrebbe
letto alla Cibot.
Benché certe ripetizioni siano inevitabili in una
narrazione così ampia e piena di dettagli come una storia completa
della società francese nel XIX secolo, è inutile descrivere il
tugurio della signora Fontaine, già descritto nei Commedianti senza
saperlo. È tuttavia necessario notare che la Cibot entrò dalla
signora Fontaine, che abita in rue Vieille-du-Temple, allo stesso
modo in cui un frequentatore abituale del Café Anglais entra in quel
ristorante per cenare. La Cibot, antica cliente, vi portava spesso
ragazze e comari divorate dalla curiosità.
XXXIII • IL GRANDE GIOCO
La vecchia domestica che faceva da assistente
alla cartomante aprì la porta del santuario senza avvisare la
padrona.
«È la signora Cibot!... Entrate», aggiunse, «non
c'è nessuno».
«Ebbene, piccola mia, che vi è successo per
venire così presto?», chiese la strega.
La signora Fontaine, che allora aveva sessantotto
anni, meritava di essere chiamata in questo modo per il suo aspetto
degno di una Parca.
«Ho il sangue in subbuglio, fatemi il grande
gioco», esclamò la Cibot, «si tratta della mia fortuna».
E spiegò la situazione in cui si trovava,
chiedendo una predizione per la sua sordida speranza.
«Ma voi sapete cos'è il grande gioco?», disse
solennemente la signora Fontaine.
«No, non sono abbastanza ricca per essermi potuta
permettere questo lusso!... Cento franchi! scusate se è poco! E dove
li avrei presi? Ma oggi mi serve!».
«Non lo faccio spesso, piccola», rispose la
signora Fontaine, «lo faccio ai ricchi solo nelle grandi occasioni,
e me lo pagano venticinque luigi; perché mi stanca, mi esaurisce! Lo
Spirito mi smuove tutto lo stomaco. È come andare al sabba, come si
diceva una volta!».
«Ma vi dico, mia cara signora Fontaine, che si
tratta del mio avvenire...».
«Insomma, per voi che venite tante volte mi
lascerò andare allo Spirito!», rispose la signora Fontaine mentre
sul suo volto decrepito appariva un'espressione di terrore che non
era simulata.
Si alzò dalla sua vecchia poltrona unta e
bisunta, all'angolo del camino, e andò verso il tavolo coperto da un
tappeto verde di cui si potevano contare tutti i fili della logora
trama e sul quale, sulla sinistra, dormiva un rospo gigantesco,
accanto a una gabbia aperta e abitata da una gallina dalle penne
arruffate.
«Astaroth! qui, figlio mio!», disse dando un
colpetto con un lungo ferro da calza sul dorso del rospo, che la
guardò con un'espressione intelligente. «E voi, madamigella
Cleopatra!... attenzione!», continuò, dando un colpetto sul becco
della vecchia gallina.
La signora Fontaine si concentrò rimanendo
immobile per qualche istante; allora prese l'aspetto di una morta, i
suoi occhi si rovesciarono all'indietro e divennero bianchi; poi
s'irrigidì e disse con voce cavernosa: «Sono qui!».
Dopo aver sparpagliato automaticamente un po' di
miglio per Cleopatra, prese il mazzo delle carte grandi, lo mischiò
convulsamente e lo fece alzare dalla Cibot, emettendo sospiri
profondi. Quando quest'immagine della Morte in turbante sudicio, in
casacca sinistra, scrutò i chicchi di miglio che la gallina stava
beccando, e disse al rospo Astaroth di camminare sulle carte sparse,
la Cibot sentì un brivido freddo nella schiena e trasalì. Solo le
grandi credenze danno grandi emozioni. Avere o non avere rendite,
questo era il problema, ha detto Shakespeare.
Dopo setto o otto minuti durante i quali aprì un
libro di magia e vi lesse delle parole con voce sepolcrale, ed
esaminò i chicchi rimasti e il percorso compiuto dal rospo mentre si
ritirava, la strega decifrò il significato delle carte
concentrandovi gli occhi bianchi.
«Sì, riuscirete! anche se in questa faccenda
niente andrà come voi credete», disse. «Dovreste darvi da fare. Ma
raccoglierete il frutto delle vostre fatiche. Vi comporterete molto
male, come tutti coloro che assistono i malati sperando di avere una
parte dell'eredità. In quest'opera malefica sarete aiutata da alcuni
personaggi ragguardevoli... Più tardi, vi pentirete nelle angosce
della morte, perché morirete assassinata da due forzati evasi, uno
piccolo con i capelli rossi e uno vecchio completamente calvo, a
causa della ricchezza che vi sarà attribuita nel villaggio dove vi
sarete ritirata col vostro secondo marito... Figlia mia, siete
libera di agire o di starvene tranquilla».
L'esaltazione interiore che aveva acceso due
torce negli occhi cavi di quello scheletro apparentemente così
freddo cessò. Pronunciato l'oroscopo, la signora Fontaine fu come
abbagliata e sembrò del tutto simile ai sonnambuli quando vengono
svegliati; si guardò intorno con aria stupita; poi riconobbe la
Cibot e parve sorpresa di vederla in preda all'orrore che le si
leggeva sul volto.
XXXIV • UN PERSONAGGIO DEI RACCONTI DI HOFFMANN
«Allora, figlia mia», disse con una voce del
tutto diversa da quella con cui aveva profetizzato, «siete
contenta?...».
La Cibot guardò la strega con un'aria inebetita,
senza riuscire a rispondere.
«Ah! avete voluto il grande gioco! Vi ho trattata
come una vecchia conoscenza. Datemi soltanto cento franchi...».
«Cibot deve morire?...», esclamò la portiera.
«Vi ho dunque detto delle cose tanto
terribili?...», chiese ingenuamente la signora Fontaine.
«Ma sì!...», disse la Cibot, tirando fuori di
tasca cento franchi e posandoli sul bordo del tavolo, «morire
assassinata!...».
«Eh già, voi volete il grande gioco!... Ma
consolatevi, tutte le persone assassinate nelle carte non muoiono».
«Ma è possibile, signora Fontaine?».
«Ah, piccola bella, che posso saperne io? Avete
voluto bussare alla porta dell'avvenire, io ho tirato il cordone,
ecco tutto, e lui è venuto!».
«Chi lui?», chiese la Cibot.
«Ma lo Spirito, no?», rispose la strega
spazientita.
«Addio signora Fontaine!», esclamò la portiera.
«Non lo conoscevo il grande gioco; mi avete messo una gran
paura!...».
«La signora non si mette mai più di una volta al
mese in quello stato!», disse la serva accompagnando la portiera sul
pianerottolo. «È faticosissimo, ne potrebbe morire. Ora deve
mangiarsi una bistecca e dormire per tre ore...».
In strada, camminando, la Cibot fece quello che
fa chiunque abbia consultato qualcuno ottenendone un qualsivoglia
responso. Credette a quanto la profezia offriva di favorevole ai
suoi interessi, e dubitò delle sventure annunciate. L'indomani,
rassicurata nei suoi propositi, già pensava al modo di diventare
ricca facendosi dare una parte del museo Pons. Così per un po' di
tempo non ebbe altri pensieri che quello di trovare il modo di
riuscirci. Il fenomeno appena spiegato, quello della concentrazione
delle forze morali in tutte le persone grossolane che, non
consumando le loro facoltà intellettuali, come le persone delle
classi superiori, con un dispendio quotidiano, trovano tali energie
forti e potenti nel momento in cui agisce nel loro spirito
quell'arma paurosa che è chiamata «idea fissa», si manifestò nella
Cibot a un grado elevato. Proprio come l'idea fissa produce i
miracoli delle evasioni e i miracoli dei sentimenti, la portiera,
sostenuta dalla cupidigia, diventò forte quanto un Nucingen senza
una lira, e ingegnosa, sotto la sua stupidità, quanto il seducente
La Palférine.
Qualche giorno dopo, verso le sette del mattino,
vedendo Rémonencq che stava aprendo la bottega, andò da lui con
un'aria da gattamorta.
«Come si può fare per sapere quanto vale
veramente tutta quella roba che è su dai miei padroni?», gli chiese.
«Ah! è facilissimo», rispose il negoziante di
curiosità nel suo spaventoso linguaggio incomprensibile, che per la
chiarezza del racconto è meglio non riprodurre. «Se volete giocare a
carte scoperte con me, vi indicherò uno stimatore, onestissimo, che
conosce il valore dei quadri quasi al centesimo...».
«Chi?».
«Il signor Magus, un ebreo che ormai fa affari
soltanto per il suo piacere».
Élie Magus, il cui nome è troppo noto nella
COMMEDIA UMANA perché sia necessario parlare di lui, si era ritirato
dal commercio dei quadri e delle curiosità, imitando, da
commerciante, la scelta adottata da Pons come amatore. I celebri
stimatori: il defunto Henry, i signori Pigeot e Moret, Théret,
Georges e Roëhn, gli esperti del Museo... erano tutti dei ragazzi al
confronto con Élie Magus, che indovinava un capolavoro sotto una
crosta centenaria, che conosceva tutte le scuole e le firme di ogni
pittore.
Questo ebreo, venuto a Parigi da Bordeaux, aveva
lasciato il commercio nel 1835, conservando il suo aspetto
miserabile, secondo le abitudini della maggior parte degli ebrei,
tanto quella razza è fedele alle sue tradizioni. Nel medioevo la
persecuzione costringeva gli ebrei a vestirsi di stracci per sviare
i sospetti, a lamentarsi sempre, a piagnucolare, a pianger miseria.
Queste necessità di altri tempi sono divenute, come sempre, un
istinto comune, un vizio endemico. Élie Magus, a forza di comprare
diamanti e di rivenderli, di commerciare in quadri e merletti, in
rarità di pregio, smalti, sculture raffinate e vecchie oreficerie,
possedeva una fortuna immensa, sconosciuta, accumulata con questo
genere di commercio, divenuto tanto importante. In effetti il numero
dei mercanti d'arte è decuplicato in vent'anni a Parigi, la città
dove tutte le curiosità del mondo si ritrovano insieme. Quanto ai
quadri, si vendono in tre sole città: Roma, Londra e Parigi.
Élie Magus viveva in chaussée des Minimes, breve
e larga via che porta in place Royale, dove possedeva un vecchio
palazzo comprato nel 1831 per un pezzo di pane, come si dice. Quella
magnifica costruzione conteneva uno dei più fastosi appartamenti
decorati del periodo di Louis XV, poiché si trattava dell'antico
palazzo Moulaincourt. Costruito dal celebre presidente della corte
dei tribunali, il palazzo, grazie alla sua posizione non era stato
devastato durante la Rivoluzione. Se il vecchio ebreo si era deciso,
contro le leggi israelite, a diventare proprietario, credete pure
che aveva le sue buone ragioni. Il vecchio faceva la fine di tutti
noi, preso da una mania spinta fino alla follia. Nonostante fosse
avaro quanto il suo amico Gobseck, si lasciò conquistare
dall'ammirazione per i capolavori in cui commerciava; ma il suo
gusto, sempre più sofisticato, sempre più difficile, era diventato
una di quelle passioni che sono concesse solo ai re, quando sono
ricchi e amano le arti. Simile al secondo re di Prussia, che si
entusiasmava per un granatiere soltanto quando il soggetto
raggiungeva i sei piedi di altezza, e allora spendeva somme folli
per aggiungerlo al suo museo vivente di granatieri, il mercante in
ritiro si appassionava soltanto per tele impeccabili, rimaste tali
quali il maestro le aveva dipinte, e ritenute di prim'ordine nella
sua produzione. Così Élie Magus non mancava a una sola delle grandi
vendite, visitava tutti i mercati, e viaggiava per l'intera Europa.
Quest'anima votata al lucro, fredda come il ghiaccio, si riscaldava
alla vista di un capolavoro, esattamente come un libertino, stanco
di donne, si commuove davanti a una fanciulla perfetta, e si dedica
alla ricerca di bellezze senza difetti. Questo don Giovanni delle
tele, questo adoratore dell'ideale, trovava in tale ammirazione dei
godimenti superiori a quelli che la contemplazione dell'oro procura
all'avaro. Viveva in un serraglio di bei quadri!
I capolavori, sistemati come si conviene ai figli
dei principi, occupavano l'intero primo piano del palazzo che Élie
Magus aveva fatto restaurare, e con quale splendore! Alle finestre
pendevano, come tende, i più bei broccati d'oro di Venezia. Sui
pavimenti erano stesi i più magnifici tappeti della Savonnerie. I
quadri, circa cento, erano incorniciati nelle cornici più splendide,
magistralmente ridorate dal solo doratore di Parigi che Élie
considerava coscienzioso, da Servais, cui il vecchio ebreo aveva
insegnato a dorare con l'oro inglese, infinitamente superiore a
quello dei battiloro francesi. Nell'arte della doratura, Servais
equivale a ciò che era nell'arte della rilegatura Thouvenin, un
artista innamorato delle sue opere. Le finestre dell'appartamento
erano protette da imposte rinforzate di lamiera. Élie Magus abitava
in due stanze a soffitta, al secondo piano, ammobiliate miseramente,
piene dei suoi stracci che sapevano di ebreo, poiché finiva di
vivere come sempre aveva vissuto.
Il pianterreno, interamente occupato dai quadri
che l'ebreo continuava a comprare, dalle casse venute dall'estero,
conteneva uno studio immenso dove lavorava quasi esclusivamente per
lui Moret, il più abile dei nostri restauratori di quadri, uno di
quelli che dovrebbero essere impiegati dal Museo. Lì si trovava
anche l'appartamento della figlia, il frutto della sua vecchiaia,
un'ebrea, bella come tutte le ebree quando il tipo asiatico riappare
puro e nobile in loro. Noémi, accudita da due serve fanatiche ed
ebree, aveva come avanguardia un ebreo polacco di nome Abramko,
compromesso, per un caso incredibile, negli avvenimenti di Polonia,
e che Élie Magus aveva salvato per ragioni speculative. Abramko,
portiere di quel palazzo muto, triste e deserto, occupava una
portineria armata di tre cani di una notevole ferocia: uno di
Terranova, uno dei Pirenei e il terzo inglese, un mastino.
Su queste osservazioni profonde si basava la
sicurezza dell'ebreo, che viaggiava senza alcun timore, dormiva tra
due guanciali, e non temeva nessun attentato alla figlia, il suo più
grande tesoro, né ai suoi quadri, né al suo oro. Abramko riceveva
ogni anno duecento franchi in più dell'anno precedente, e non doveva
ricevere più nulla alla morte di Magus, che lo addestrava a
esercitare l'usura nel quartiere. Abramko non apriva mai a nessuno
senza aver prima guardato da uno spioncino con griglia,
robustissimo. Questo portiere, di una forza erculea, adorava Magus
come Sancio Panza adora Don Chisciotte. I cani, chiusi durante il
giorno, non ricevevano cibo; ma la notte Abramko li scioglieva, ed
erano condannati dall'astuto calcolo del vecchio a stare fermi, uno
nel giardino ai piedi di un palo in cima al quale era appeso un
pezzo di carne; l'altro nel cortile, ai piedi di un palo simile; e
il terzo nella grande sala del pianterreno. Comprenderete che i
cani, che già per istinto facevano la guardia alla casa, erano
vigilati dalla loro fame; non avrebbero mai lasciato il loro posto
ai piedi dell'albero della cuccagna, neppure per la cagna più bella;
non se ne allontanavano mai per nessuna ragione. Se appariva uno
sconosciuto, tutti e tre i cani s'immaginavano che il quidam volesse
mettere le mani sul cibo che gli veniva dato al mattino, quando
Abramko si svegliava. Questo sistema infernale presentava un
vantaggio immenso. I cani non abbaiavano mai, il genio di Magus li
aveva resi selvaggi, erano diventati sornioni come dei mohicani.
Ora, ecco cosa accadde. Un giorno dei malfattori, incoraggiati da
tutto quel silenzio, pensarono con molta leggerezza di dare una
ripassata alla cassa dell'ebreo. Uno di loro, col compito di dare
l'assalto per primo, scavalcò il muro del giardino e scese
dall'altra parte; il mastino l'aveva lasciato fare, lo aveva sentito
perfettamente; ma appena il piede di quel signore fu alla portata
dei suoi denti, glielo staccò di netto e se lo mangiò. Il ladro
trovò il coraggio di oltrepassare di nuovo il muro e camminò
sull'osso della gamba finché non cadde svenuto tra le braccia dei
suoi compagni, che lo portarono via. Questo delizioso episodio delle
notti parigine, che la «Gazette des Tribunaux» non mancò di
riferire, fu considerato una fandonia.
Magus, che allora aveva settantacinque anni,
poteva arrivare ai cento. Ricco, viveva come vivevano i Rémonencq.
Tremila franchi, comprese le prodigalità nei confronti della figlia,
coprivano tutte le sue spese.
XXXV • DOVE SI VEDE CHE GLI ESPERTI DI PITTURA NON SONO TUTTI
DELL'ACCADEMIA DI BELLE ARTI
Nessuna esistenza era più regolare di quella del
vecchio. Si alzava all'alba, mangiava un po' di pane sfregato con
l'aglio, e con questa colazione arrivava fino all'ora di pranzo. Il
pranzo, di una frugalità monacale, veniva consumato in famiglia. Da
quando si alzava fino a mezzogiorno il maniaco passava il suo tempo
ad aggirarsi per l'appartamento tra i suoi capolavori. Spolverava
ogni cosa, mobili e quadri, senza stancarsi di ammirare tutto; poi
scendeva dalla figlia, si inebriava della felicità dei padri, e poi
usciva per le sue commissioni attraverso Parigi, controllando le
vendite all'incanto, visitando le esposizioni, ecc. Quando un
capolavoro presentava i requisiti che lui ricercava, allora la vita
di quell'uomo si animava: ora aveva un colpo da mettere a punto, un
affare da concludere, una battaglia di Marengo da vincere. Elaborava
astuzie su astuzie per entrare in possesso della sua nuova sultana a
buon mercato. Magus aveva una sua carta d'Europa, una carta in cui
erano segnati i capolavori, e incaricava i suoi correligionari in
ogni parte del mondo di seguire l'affare per suo conto, in cambio di
una percentuale. Ma quali ricompense dopo tanta fatica!...
I due quadri di Raffaello andati perduti e
cercati con tanta tenacia dai raffaellisti, li ha Magus! Possiede
l'originale dell'Amante di Giorgione, la donna per cui quel pittore
è morto, e i pretesi originali sono copie di questa celebre tela,
che secondo la stima di Magus vale cinquecentomila franchi.
Quest'ebreo conserva il capolavoro di Tiziano, La deposizione,
quadro dipinto per Carlo V, che fu inviato dal grande uomo al grande
imperatore, accompagnato da una lettera interamente autografa di
Tiziano, e questa lettera è incollata in basso, sotto la tela. Dello
stesso pittore possiede l'originale, il bozzetto, a partire dal
quale sono stati eseguiti tutti i ritratti di Filippo II. Gli altri
novantasei quadri sono tutti di quest'importanza e di questa
preziosità. Così Magus se la ride del nostro Museo devastato dal
sole che, attraverso i vetri la cui azione equivale a quella delle
lenti, corrode le tele più belle. Le gallerie di quadri devono
essere illuminate solo dal soffitto. Magus chiudeva e apriva lui
stesso le imposte del suo museo, trattando i quadri con la stessa
cura e cautela che riservava alla figlia, il suo altro idolo! Ah! il
vecchio quadromane conosceva bene le leggi della pittura! Secondo
lui, i capolavori avevano una vita propria, quotidiana, e la loro
bellezza dipendeva dalla luce che dava loro il colore; ne parlava
come gli olandesi parlavano un tempo dei loro tulipani, e andava a
guardare il tal quadro nell'ora in cui il capolavoro risplendeva in
tutta la sua gloria, quando il tempo era sereno e puro.
E tra quei quadri immobili era un quadro vivente
quel vecchietto, vestito con una brutta redingote, un decennale gilè
di seta, pantaloni lerci, la testa calva, il volto scavato, la barba
nervosa e saettante i suoi peli bianchi, il mento minaccioso e
aguzzo, la bocca in disarmo, l'occhio brillante come quello dei suoi
cani, le mani ossute e scarne, il naso a obelisco, la pelle rugosa e
fredda, mentre sorrideva a quelle belle creazioni del genio! Un
ebreo, in mezzo a tre milioni di persone, sarà sempre uno degli
spettacoli più belli che l'umanità possa offrire. Robert Médal, il
nostro grande attore, non potrà mai, per quanto sia sublime,
raggiungere una tale vetta poetica. Parigi è la città del mondo che
dà rifugio al maggior numero di originali di questo tipo, che hanno
una religione nel cuore. Gli eccentrici di Londra finiscono sempre
per disgustarsi delle loro adorazioni, come si stancano di vivere;
mentre a Parigi i monomani vivono con la loro fantasia in un felice
concubinaggio spirituale. Vi capiterà spesso di incontrarvi dei
Pons, degli Élie Magus vestiti assai miseramente, il naso come
quello del segretario perpetuo dell'Académie Française, ad ovest!,
con l'aria di non tenere a niente, di non sentire niente, di non
prestare alcuna attenzione alle donne, ai negozi, mentre se ne vanno
- per così dire - alla ventura, con le tasche vuote, persi come dei
pazzi, e voi vi chiedete a quale tribù parigina possano appartenere.
Ebbene, quei tipi sono dei milionari, dei collezionisti, le persone
più appassionate della terra, gente capace di addentrarsi nei
terreni fangosi della polizia correzionale per impadronirsi di una
tazza, di un quadro, di un pezzo raro, come fece un giorno Élie
Magus in Germania.
Era questo l'esperto dal quale Rémonencq condusse
misteriosamente la Cibot. Rémonencq chiedeva consigli a Élie Magus
ogni volta che lo incontrava sui boulevards. Più volte l'ebreo,
attraverso Abramko, aveva prestato del denaro a quell'ex fattorino
della cui probità era sicuro. Poiché la chaussée des Minimes si
trova a due passi dalla rue de Normandie, i due complici del colpo
da preparare vi giunsero in dieci minuti.
«State per incontrare», disse Rémonencq alla
Cibot, «il più ricco dei vecchi commercianti di curiosità, il
maggiore esperto che vi sia a Parigi...».
La Cibot rimase stupita trovandosi di fronte un
vecchietto che indossava una palandrana indegna di passare tra le
mani di Cibot per essere accomodata, intento a sorvegliare il lavoro
del restauratore, un pittore che stava riparando dei quadri in una
stanza gelida del vasto pianterreno; poi, ricevendo uno sguardo di
quegli occhi pieni di una malizia fredda come quella dei gatti,
tremò.
«Cosa volete, Rémonencq?», disse.
«Si tratta di stimare dei quadri; a Parigi solo
voi potete dire a un povero calderaio come me quanto può darne,
quando non ne ha come voi delle migliaia e delle centinaia!».
«Dove si trovano?», chiese Élie Magus.
«Questa è la portiera della casa, che si occupa
dell'appartamento del padrone e con la quale mi sono messo
d'accordo...».
«Come si chiama il proprietario?».
«Il signor Pons!», disse la Cibot.
«Non lo conosco», rispose Magus con aria ingenua,
toccando leggermente col piede il piede del restauratore.
Moret, il pittore, che conosceva il valore del
museo Pons, di colpo aveva sollevato la testa. Una tale finezza non
poteva essere azzardata che in presenza di Rémonencq e della Cibot.
L'uno e l'altra dovevano ignorare che il buon Pons e Magus avevano
incrociato spesso gli artigli. Infatti quei due amatori accaniti si
invidiavano. Così si spiega come il vecchio ebreo avesse appena
provato una specie di folgorazione interiore. Non avrebbe mai
sperato di riuscire a entrare in un serraglio tanto protetto. Il
museo Pons era l'unico a Parigi che potesse competere con il museo
Magus. L'ebreo aveva avuto, venti anni dopo Pons, la sua stessa
idea; ma poiché era un amatore commerciante, il museo Pons era stato
precluso sia a lui che a Dusommerard. Pons e Magus avevano nel cuore
la stessa gelosia. Né l'uno né l'altro apprezzavano affatto quella
fama di cui normalmente vanno alla ricerca coloro che possiedono
delle collezioni. Poter esaminare la magnifica collezione del povero
musicista dava a Élie Magus la stessa felicità che prova un
collezionista di donne quando riesce a infilarsi nel boudoir di una
bella amante che un amico gli nasconde. Il grande rispetto che
Rémonencq dimostrava per quel bizzarro personaggio e il prestigio
esercitato da ogni potere reale anche se misterioso, resero la
portiera obbediente e arrendevole. La Cibot perse quel tono
autocratico che teneva nella sua portineria con gli inquilini e i
suoi due signori, accettò le condizioni di Magus e promise di farlo
entrare nel museo Pons quel giorno stesso. Significava portare il
nemico nel cuore della piazzaforte, affondare un pugnale nel cuore
di Pons, che da dieci anni proibiva alla Cibot di far entrare
chiunque, e portava sempre con sé le chiavi di casa, e al quale la
Cibot aveva sempre obbedito, fino a quando aveva condiviso le
opinioni di Schmucke a proposito di bric-à-brac. Infatti il buon
Schmucke, che trattava quelle cose magnifiche come cianfrusaglie e
deplorava la mania di Pons, aveva inculcato alla portiera il suo
disprezzo per quelle anticaglie, difendendo così il museo Pons da
ogni invasione, per molti anni.
Da quando Pons era costretto a letto, Schmucke lo
sostituiva in teatro e nei collegi. Il povero tedesco, che vedeva il
suo amico soltanto la mattina e a cena, cercava di mantenere ogni
impegno per conservare la comune clientela; ma tutte le sue forze
erano assorbite da questo compito, tanto il dolore lo affliggeva.
Vedendo il pover'uomo così triste, le allieve e la gente di teatro,
tutti da lui informati sulla malattia di Pons, gli chiedevano
continuamente notizie, e il dispiacere del pianista era così grande
che egli otteneva dagli indifferenti quella smorfia di compassione
che a Parigi si accorda alle peggiori catastrofi. Il principio
stesso della vita era colpito nel buon tedesco, esattamente come in
Pons. Schmucke soffriva nello stesso tempo per il proprio dolore e
per la malattia del suo amico. Così parlava di Pons per metà della
lezione che dava; interrompeva così ingenuamente una spiegazione per
chiedere a se stesso come potesse stare il suo amico, che la giovane
allieva lo ascoltava mentre spiegava la malattia del suo amico. Tra
una lezione e l'altra correva in rue de Normandie a vedere Pons per
un quarto d'ora. Spaventato dal vuoto della cassa sociale, allarmato
dalla Cibot che da quindici giorni faceva del suo meglio per
aumentare le spese della malattia, il professore di pianoforte
sentiva le proprie angosce dominate da un coraggio di cui non si
sarebbe mai creduto capace. Per la prima volta in vita sua voleva
guadagnare del denaro, perché non mancasse in casa. Quando
un'allieva, sinceramente colpita dalla situazione dei due amici,
chiedeva a Schmucke come potesse lasciare Pons da solo, allora
rispondeva, con il sublime sorriso dei babbei:
«Sighnorina, ma abbiamo la sighnora Zibod! un
tesoro! una perla! Bons è curato come un principe!».
Ora, appena Schmucke trottava per le strade, la
Cibot era la padrona dell'appartamento e del malato. In quale modo
Pons, che non mangiava niente da quindici giorni, che giaceva privo
di forze, che la Cibot doveva alzare e mettere in una poltrona per
rifare il letto, in quale modo avrebbe potuto sorvegliare quel
sedicente angelo custode? Naturalmente la Cibot era andata da Élie
Magus mentre Schmucke era a pranzo.
Tornò proprio mentre il tedesco stava salutando
il malato; infatti, dal momento della rivelazione della possibile
ricchezza di Pons, la Cibot non lasciava più il suo scapolo, se lo
covava! Si sprofondava in una buona poltrona, ai piedi del letto, e
per distrarre Pons gli raccontava quei pettegolezzi in cui sono
bravissime le donne di questo genere. Divenuta adulatrice, dolce,
premurosa, apprensiva, s'insinuava nell'animo del buon Pons con
un'abilità machiavellica, come stiamo per vedere.
XXXVI • PETTEGOLEZZI E POLITICA DELLE VECCHIE PORTIERE
Spaventata dalla predizione del grande gioco
della signora Fontaine, la Cibot si era ripromessa di riuscire, con
le buone maniere, con una scelleratezza esclusivamente morale, a
farsi inserire nel testamento del suo signore. Essendo stata
all'oscuro per dieci anni del valore del museo Pons, la Cibot vedeva
dinanzi a sé dieci anni di attaccamento, probità e disinteresse, e
si proponeva di scontare quel magnifico valore. Dal giorno in cui,
con parole piene d'oro, Rémonencq aveva liberato nel cuore di quella
donna un serpente rinchiuso nel suo guscio per venticinque anni, il
desiderio di essere ricca, quella creatura aveva nutrito il serpente
di tutti i cattivi germi acquattati nel fondo dei cuori, e ora
vedremo in quale modo quella donna seguisse i consigli che il
serpente le sibilava.
«Ebbene, ha bevuto il nostro cherubino? Sta
meglio?», chiese a Schmucke.
«Non molto bene, cara sighnora Zipod! non bene!»,
rispose il tedesco asciugandosi una lacrima.
«Ma siete anche voi che vi allarmate troppo, mio
caro signore, bisogna prendere le cose come vengono... Se Cibot
stesse per morire, non sarei desolata quanto voi. Su! il nostro
cherubino è di buona costituzione. E poi, sembra che abbia avuto una
vita morigerata... voi non sapete quanto vivono a lungo le persone
morigerate! È molto malato, questo è vero, ma con l'attenzione che
gli dedico vedrete che lo tiro fuori. State tranquillo, andate per i
vostri affari, ci penso io a tenergli compagnia, e a fargli bere le
sue pinte d'acqua d'orzo».
«Senza di voi, morirei di ansia...», disse
Schmucke stringendo tra le mani con un gesto di fiducia la mano
della sua buona governante.
La Cibot entrò nella camera di Pons asciugandosi
gli occhi.
«Che avete, signora Cibot?», chiese Pons.
«È il signor Schmucke che mi mette l'anima
sottosopra... vi piange come se foste morto!», rispose lei. «È vero
che non state bene, ma non ancora così male da piangervi; mi fa così
impressione! Mio Dio, che stupida sono a voler tanto bene alla gente
e ad essermi affezionata più a voi che a Cibot! Dopotutto non siete
niente per me, siamo parenti soltanto per via di Eva; ebbene, ho il
sangue in subbuglio perché si tratta di voi, parola d'onore. Mi
farei tagliare una mano, la sinistra s'intende, davanti a voi, per
vedervi andare e venire, mangiare, raggirare i negozianti, come fate
di solito... Se avessi avuto un figlio, credo che gli avrei voluto
bene come a voi! Su, adesso bevete, tesoro, coraggio, un bel
bicchiere pieno! Su, bevete! È la prima cosa che ha detto il signor
Poulain: «Se non vuole andare al Père-Lachaise, il signor Pons deve
bere in una giornata tanta acqua quanta ne vende un alverniate». Su,
bevete!...».
«Ma io bevo, signora Cibot... bevo così tanto che
il mio stomaco è annegato...».
«Ecco, va bene!», disse la portiera prendendo il
bicchiere vuoto. «In questo modo vi salverete! Il signor Poulain
aveva un malato proprio come voi, che non era assistito da nessuno,
abbandonato dai figli, ed è morto di questa stessa malattia, per non
aver bevuto!... E allora bisogna bere, cocco mio!... quello è stato
sepolto due mesi fa... Sapete che se morite, caro il mio signore, vi
portate dietro anche il bravo Schmucke?... È come un bambino, parola
d'onore. Ah, quanto vi vuol bene quel caro agnellino d'uomo! No, una
donna non ama così un uomo!... Ha smesso di bere e di mangiare, in
quindici giorni è dimagrito quanto voi, che siete pelle e ossa...
Questo mi rende gelosa, perché vi sono tanto affezionata ma non sono
arrivata a quel punto, non ho perduto l'appetito, anzi! A forza di
salire e scendere continuamente da un piano all'altro, ho una tale
stanchezza nelle gambe che la sera cado giù come un pezzo di piombo.
E così, per voi, trascuro il mio povero Cibot, ed è la signorina
Rémonencq a fargli da mangiare, e lui mi brontola perché è tutto
cattivo! Allora gli dico che bisogna saper soffrire per gli altri, e
che voi siete troppo malato per lasciarvi solo... Innanzitutto non
potete fare a meno di un'infermiera! Poi non sopporterei
un'infermiera qui, quando sono io a occuparmi della vostra casa
ormai da dieci anni... Inoltre sono tutte golose, mangiano per
dieci, pretendono il vino, lo zucchero, lo scaldino, tutti i loro
comodi... E poi derubano i malati, quando non le mettono sul loro
testamento... Fate entrare un'infermiera oggi, e domani troveressimo
un quadro, qualche oggetto in meno...».
«Oh! signora Cibot!», esclamò Pons fuori di sé,
«non mi lasciate!... Non devono toccare niente!...».
«Io sono qui!», disse la Cibot. «Finché ne avrò
la forza, resterò qui... state tranquillo! Il signor Poulain, che
forse è interessato al vostro tesoro, voleva pensarci lui a
un'infermiera... Come l'ho sistemato! «Il signore», gli ho detto,
«vuole soltanto me; le sue abitudini sono le mie». Eh, allora si è
zittito. Un'infermiera!.... sono tutte ladre! Le odio quelle
donne!... Ma sentite come sono intriganti. Dunque, un vecchio
signore... notate che è stato il signor Poulain a raccontarmi questa
storia.... Dunque, una certa signora Sabatier, una donna di
trentasei anni, commerciante di pantofole vicino al Tribunale...
conoscete senz'altro la galleria che è stata demolita...».
Pons annuì.
«... Bene... questa donna non è stata fortunata
col marito, che si beveva tutto ed è morto di un'imbustione
spontanea; ma è stata una bella donna, bisogna dirlo, ma le è
servito poco, anche se dicono che abbia avuto degli avvocati come
buoni amici... Dunque, trovandosi in difficoltà si è messa a fare
l'infermiera delle partorienti e abita in rue Barre-du-Bec. Ha anche
assistito un vecchio signore che, con rispetto parlando, aveva una
malattia delle vie lurinarie per cui lo sondavano come un pozzo
artesiano, e aveva bisogno di tante di quelle cure che lei dormiva
su una branda nella camera di quel signore. Sembra incredibile! Ma
voi mi direte: «Gli uomini non hanno rispetto per nulla! sono
talmente egoisti!». Insomma, ecco che parlando con lui, voi
capite... lei era sempre lì, lo distraeva, gli raccontava delle
storie, lo faceva chiacchierare come stiamo facendo noi due in
questo momento... insomma, viene a sapere che i suoi nipoti, perché
il malato aveva dei nipoti, erano dei mostri, che gli procuravano
tanti dispiaceri e che, in fin dei conti, si era ammalato a causa di
questi nipoti. Ebbene, mio caro signore, lei lo ha salvato dalla
morte ed è divenuta sua moglie, e hanno un bellissimo bambino, e
comare Bordevin, la macellaia della rue Charlot, che è parente di
questa signora, gli ha fatto da madrina... Questa è fortuna!... Io,
sono maritata, ma non ho figli e, posso dirlo, è per colpa di Cibot
che mi ama troppo, perché se volessi... Basta così. Che ci sarebbe
accaduto con dei figli, a me e al mio Cibot, senza un soldo da parte
dopo trent'anni di vita onesta, mio caro signore! Ma quello che mi
consola è che non ho un solo centesimo di beni altrui. Non ho mai
fatto un torto a nessuno... Vedete, facciamo una semplice
supposizione, che si può fare perché entro sei settimane starete
sulle vostre gambe, a passeggiare sui boulevards; ebbene, se voi mi
metteste nel vostro testamento, non smetterei un attimo di cercare i
vostri eredi per restituire... tanto mi fa paura quello che non mi
sono guadagnata col sudore della fronte. Mi direte: «Ma, comare
Cibot, non tormentatevi in questo modo; ve lo siete guadagnato,
avete accudito questi signori come fossero figli vostri, gli avete
fatto risparmiare mille franchi l'anno...». Perché, al posto mio,
signore, quante cuoche avrebbero già intascato almeno diecimila
franchi!... «Ma allora è giusto che questo degno signore vi lasci un
piccolo vitalizio!...», mi si potrebbe dire, sempre per
supposizione. Ebbene, no! io sono disinteressata... Non so come ci
siano delle donne che fanno il bene per interesse... Non è più fare
il bene, vero, signore?... Non vado in chiesa, io! Mi manca il
tempo. Ma la coscienza mi dice cosa è bene... Non vi agitate così,
tesoro!... Mio Dio, come diventate giallo! Siete talmente giallo che
sembrate bruno... Che strano, in soli venti giorni diventare giallo
come un limone!... L'onestà è il tesoro della povera gente; bisogna
pur possedere qualcosa! E poi, se arrivate, supponiamo, al limite
estremo, sarei la prima a dirvi di donare tutto quello che possedete
al signor Schmucke. Dovete farlo, perché lui solo costituisce tutta
la vostra famiglia! Vi vuol bene come un cane vuol bene al suo
padrone».
«Ah! sì», disse Pons, «in tutta la mia vita,
soltanto lui mi ha voluto bene...».
XXXVII • DOVE SI VEDE L'EFFETTO DI UN BEL BRACCIO
«Ah, signore», disse la Cibot, «non siete
gentile; e io? Non vi voglio bene, io?...».
«Non dico questo, cara signora Cibot...».
«Bene! non mi prenderete mica per una serva, una
cuoca qualunque, come se non avessi un cuore! Ah! mio Dio! fatevi in
quattro per undici anni per due vecchi scapoli! pensate solo a farli
mangiare bene, io che mettevo a soqquadro le botteghe di dieci
fruttivendole fino a farmi dire delle scemenze, per trovare del buon
formaggio di Brie, e andavo fino alle Halles per farvi avere del
burro fresco; e fate ogni cosa con attenzione, che in dieci anni non
vi ho rotto nulla, neppure sbreccato... Siate dunque come una madre
per i suoi bambini!... per poi sentirvi dire «cara signora Cibot»! È
la prova che non c'è il minimo sentimento per voi nel cuore del
vecchio signore che state accudendo come il figlio di un re, perché
il piccolo re di Roma non è stato accudito come voi!... tant'è vero
che è morto nel fiore degli anni... No, signor Pons, non siete
giusto!... Siete un ingrato! E tutto questo perché non sono che una
povera portiera. Ah, mio Dio! credete dunque che noi siamo dei
cani?...».
«Ma, cara signora Cibot...».
«Insomma, voi che siete istruito, spiegatemi
perché siamo trattati così, noi portieri, che veniamo considerati
privi di sentimenti, e veniamo presi in giro, in tempi in cui si
parla di eguaglianza!... Dunque io non valgo quanto un'altra
donna!... io che sono stata una delle donne più belle di Parigi, che
venivo chiamata la bella ostricaia, e ricevevo sette o otto
dichiarazioni al giorno!... e se lo volessi, ancora oggi! Avete
presente, signor Pons, quella mezza cartuccia di ferravecchio che
sta di fianco al portone? Bene, se fossi vedova - è una supposizione
- mi sposerebbe ad occhi chiusi, tanto li tiene aperti su di me, e
mi dice continuamente: «Che belle braccia che avete, comare
Cibot!... stanotte ho sognato che erano pane e io ero burro, e mi ci
spalmavo sopra!...». Guardate, signore, che braccia!...».
Rimboccò una manica e mostrò il più bel braccio
del mondo, bianco e fresco quanto la mano era rossa e rovinata; un
braccio grassoccio, rotondo, con le fossette, e che, estratto dal
suo fodero di lana comune, come si estrae una lama dalla guaina,
doveva abbagliare Pons, che non osò guardarlo a lungo.
«Queste braccia», continuò, «hanno aperto tanti
cuori quante ostriche ha aperto il mio coltello! Ebbene,
appartengono a Cibot, e io ho avuto il torto di trascurare quel caro
uomo, che si getterebbe in un precipizio se glielo dicessi, per voi,
signore, che mi chiamate «cara signora Cibot», quando per voi farei
l'impossibile...».
«Sentite», disse il malato, «non posso chiamarvi
«madre mia», né «moglie mia»...».
«No, per il resto della mia vita, non mi
affezionerò mai più a nessuno!...».
«Ma lasciatemi dire!», riprese Pons. «Dunque,
innanzitutto ho parlato di Schmucke».
«Il signor Schmucke! ecco uno di cuore!», disse
la Cibot. «Lui sì che mi vuol bene... perché è povero! È la
ricchezza a rendere insensibili, e voi siete ricco! E allora
chiamate un'infermiera, vedrete che vita vi farà fare! vi tormenterà
come un insetto... Il medico dirà che bisogna farvi bere, e lei vi
darà solo da mangiare! Vi seppellirà per derubarvi! Non meritate
d'avere una Cibot!... Bene, quando verrà il signor Poulain,
chiedetegli un'infermiera!».
«Ma insomma, ascoltatemi!», esclamò il malato in
collera. «Non parlavo di donne, parlando del mio amico Schmucke!...
So bene che non esistono altre persone che mi vogliano bene
sinceramente come voi e Schmucke!...».
«Smettetela di irritarvi in questo modo!»,
esclamò la Cibot precipitandosi su Pons e facendolo sdraiare a
forza.
«Come potrei non volervi bene?...», disse il
povero Pons.
«Davvero mi volete bene?... Su, su, scusate,
signore!», disse lei piangendo e asciugandosi le lacrime. «Ebbene,
sì, voi mi volete bene, ma come si vuol bene a una domestica,
ecco... una domestica a cui si getta un vitalizio di seicento
franchi, come un tozzo di pane nella cuccia di un cane!...».
«Oh, signora Cibot!», esclamò Pons, «per chi mi
prendete? Voi non mi conoscete!».
«Ah, dunque mi volete bene anche di più?»,
riprese a dire dopo uno sguardo di Pons; «vorrete bene alla vostra
buona e grassa Cibot come a una madre? E allora va bene; sono vostra
madre, e voi siete i miei due figli!... Ah, se conoscessi chi vi ha
fatto star male, mi farei portare in corte d'assise e perfino alla
correzionale, perché gli strapperei gli occhi!... Quella gente
merita di esser fatta morire alla porta Saint-Jacques! ed è ancora
troppo poco per simili scellerati!... Voi che siete così buono, così
tenero, che avete un cuore d'oro, eravate stato creato per rendere
felice una donna... Sì, voi l'averessite resa felice... è evidente,
eravate tagliato per questo... All'inizio, vedendo come trattavate
il signor Schmucke, mi dicevo: «Il signor Pons ha mancato la sua
vita! Era fatto per essere un buon marito...». Confessatelo, le
donne vi piacciono!».
«Ah! sì», disse Pons, «ma non ne ho mai
avute!...».
«Veramente?», esclamò la Cibot con aria
provocante, avvicinandosi a Pons e prendendogli una mano. «Non
sapete cosa significa avere un'amante che fa i salti mortali per il
suo amico? Possibile? Io, al vostro posto, non vorrei andarmene
all'altro mondo senza aver conosciuto la più grande felicità che ci
sia sulla terra!... Povero cocco! se fossi quella che sono stata,
parola d'onore, lascerei Cibot per voi! Con un naso come questo,
così fiero, come avete fatto, mio povero cherubino?... Voi mi
direte: «Non tutte le donne s'intendono di uomini!...» ed è una
disgrazia che si sposino così a caso, che fa proprio pena. Stando
alle vostre assenze, ho creduto che aveste amanti a dozzine,
ballerine, attrici, duchesse!... Quando vi vedevo uscire, dicevo
sempre a Cibot: «Ecco il signor Pons che va a correre la
cavallina!». Parola d'onore! dicevo così, tanto vi credevo amato
dalle donne! Il cielo vi ha creato per l'amore!... Vedete, mio caro
signore, me ne sono resa conto il giorno in cui avete mangiato qui
per la prima volta. Oh! eravate commosso per il piacere che
procuravate al signor Schmucke! E lui, che il giorno dopo piangeva
ancora, dicendomi: «Sighnora Zibod, ha cenato qui!», e anch'io a
piangere come una scema. E com'era triste quando avete ricominciato
a scorrazzare per la città, e a mangiare fuori! Pover'uomo! non si
era mai vista una desolazione simile! Ah, fate proprio bene a farlo
vostro erede! È tutta una famiglia per voi, quel degno e caro
uomo!... Non dimenticatelo! altrimenti Dio non vi accoglierà in
paradiso, dove deve lasciar entrare solo coloro che sono stati
riconoscenti con gli amici, lasciandogli delle rendite».
XXXVIII • ESORDIO CON INSINUAZIONE
Pons si sforzava invano di rispondere, la Cibot
parlava con la velocità del vento. Se si è trovato il modo di
fermare le macchine a vapore, quello di «stoppare» la lingua di una
portiera esaurirà il genio degli inventori.
«So cosa volete dire!», continuò la Cibot. «Fare
testamento quando si è malati non uccide mica; anzi, al vostro
posto, nel timore di imprevisti, non vorrei abbandonare quel povero
agnellino, che è proprio l'agnellino del buon Dio; non sa niente di
niente; non vorrei lasciarlo tra le mani di rapaci uomini d'affari,
e di parenti che sono tutti delle canaglie! Insomma, in questi venti
giorni è forse venuto qualcuno a trovarvi?... E voi vorreste
lasciargli i vostri beni! Lo sapete che si dice che tutto quello che
è qui ne vale la pena?».
«Ma sì», disse Pons.
«Rémonencq, che vi conosce come collezionista, e
che commercia in cose vecchie, dice che vi offrirebbe volentieri
trentamila franchi di rendita vitalizia per avere i vostri quadri
dopo la vostra... Ecco un vero affare! Al vostro posto, io lo farei!
Quando me lo ha detto, ho creduto che mi stesse prendendo in giro...
Dovreste dirlo al signor Schmucke quanto vale tutta quella roba,
perché è un uomo che si farebbe imbrogliare come un bambino; non ha
la minima idea di quanto valgano le belle cose che avete! Lo
sospetta talmente poco, che le darebbe via per un pezzo di pane se,
per amore vostro, non le conservasse per tutta la vita, sempre che
viva dopo di voi, perché la vostra morte lo farà morire. Ma ci sono
qua io! Lo difenderò contro tutti!... io e Cibot».
«Cara signora Cibot», rispose Pons intenerito da
queste spaventose chiacchiere, nelle quali il sentimento sembrava
sincero e ingenuo come è nella gente del popolo, «che ne sarebbe
stato di me senza voi e Schmucke?».
«Ah, siamo veramente gli unici amici che avete in
questo mondo! È proprio così! Ma due cuori affettuosi valgono tutte
le famiglie... Non parlatemi della famiglia! È come la lingua,
diceva quel vecchio attore, è tutto quello che c'è di meglio e di
peggio... Dove sono finiti i vostri parenti? Ma ne avete di
parenti?.... io non li ho mai visti...».
«Sono stati loro a farmi ammalare!...», esclamò
Pons con profonda amarezza.
«Ah! avete dei parenti!...», disse la Cibot
saltando in piedi come se la sua poltrona fosse stata di ferro
improvvisamente incandescente. «Ah, bene! Sono gentili i vostri
parenti! Ma come!... sono venti giorni, sì, stamani sono venti
giorni, che state per morire, e non sono ancora venuti a prendere
notizie! È il colmo!... Al vostro posto lascerei tutto all'ospizio
dell'Infanzia abbandonata piuttosto che lasciare a loro un
centesimo!».
«Ebbene, cara signora Cibot, io volevo lasciare
tutto quello che possiedo alla mia cugina di secondo grado, la
figlia del mio cugino carnale, il presidente Camusot.... sapete, il
magistrato che è venuto una mattina, circa due mesi fa».
«Ah!, quel tipo basso e grasso, che vi aveva
inviato i domestici a chiedervi perdono... per la stupidità di sua
moglie... e la cameriera mi fece delle domande su di voi, una
vecchia talmente smorfiosa che avevo voglia di spolverarle la
mantellina di velluto col manico della scopa. Si è mai vista una
cameriera con una mantellina di velluto? No, parola d'onore, il
mondo è capovolto! Perché si fanno delle rivoluzioni? Pranzate due
volte al giorno, se ne avete i mezzi, pezzenti con i soldi! Ma io
dico che le leggi sono inutili, che non c'è più niente di sacro se
Luigi Filippo non mantiene le distanze tra i vari ceti; perché
insomma, se siamo tutti eguali, non è vero signore?, una cameriera
non deve avere una mantellina di velluto mentre io, comare Cibot,
con trent'anni di vita onesta, non ce l'ho... Non sono belle queste
cose! Si deve vedere chi siete. Una cameriera è una cameriera, come
io sono una portiera! Perché dunque i militari si distinguono anche
per le spalline? A ognuno il suo grado! Insomma, volete che vi dica
fino in fondo come la penso? La Francia è perduta!... E sotto
l'imperatore, non è vero signore? tutto era diverso. Così ho detto a
Cibot: «Vedi caro mio, una casa dove ci sono cameriere in mantellina
di velluto è una casa di gente senza cuore...»».
«Senza cuore! proprio così», rispose Pons.
E Pons raccontò le sue delusioni e i suoi
dispiaceri alla Cibot, che fu generosa d'invettive contro i parenti,
e dimostrò la più eccessiva tenerezza ad ogni frase del triste
racconto. E alla fine pianse!
Per comprendere quest'improvvisa intimità tra il
vecchio musicista e la Cibot, basta immaginare la situazione di uno
scapolo, gravemente malato per la prima volta in vita sua, steso su
un letto di dolore, solo al mondo, costretto a passare la sua
giornata in solitudine, che trova la giornata tanto più lunga quanto
più è alle prese con le sofferenze indefinibili dell'epatite, capace
di rattristare la più bella delle esistenze, e che, privato delle
sue numerose occupazioni, cade nel marasma parigino e rimpiange
tutto ciò che si vede gratis a Parigi.
Questa solitudine profonda e tenebrosa, questo
dolore che colpisce più il morale che il fisico, il senso di
inutilità della vita, tutto questo spinge uno scapolo, soprattutto
se ha un carattere debole e un cuore sensibile, fiducioso, ad
attaccarsi alla persona che lo assiste, come uno che sta per
annegare si attacca a una tavola. Per questo Pons ascoltava rapito i
pettegolezzi della Cibot. Schmucke, la Cibot e il dottor Poulain
erano l'umanità intera, come la sua camera era l'universo. Se già
tutti i malati concentrano la loro attenzione nella sfera delimitata
dai loro sguardi, e il loro egoismo consiste nel subordinarsi agli
esseri e alle cose di una camera, si può immaginare di cosa sia
capace un vecchio scapolo, privo di affetti, che non ha mai
conosciuto l'amore. In quei venti giorni, in certi momenti Pons era
giunto a rimpiangere di non aver sposato Madeleine Vivet! Così, dopo
venti giorni, la Cibot stava facendo immensi progressi nell'animo
del malato, che senza di lei si sentiva perduto; infatti, per il
povero malato, Schmucke era un secondo Pons. L'arte prodigiosa della
Cibot consisteva, senza che lei se ne rendesse conto, nell'esprimere
le idee dello stesso Pons.
«Ah! ecco il dottore», disse la Cibot sentendo
dei colpi di campanello.
E lasciò Pons da solo, sapendo bene che stavano
arrivando l'ebreo e Rémonencq.
«Non fate rumore, signori...», disse, «non deve
accorgersi di niente; quando si tratta del suo tesoro, diventa
intrattabile».
«Basterà un rapido giro», disse l'ebreo, armato
di lente e occhialetto.
XXXIX • CORRUZIONE NEGOZIATA
La stanza in cui si trovava la maggior parte del
museo Pons era uno di quegli antichi salotti ideati dagli architetti
al servizio della nobiltà francese, di venticinque piedi di
larghezza, venti di lunghezza e tredici di altezza. I quadri
posseduti da Pons, sessantasette, erano sistemati sulle quattro
pareti del salotto rivestito di legno, bianco e oro; ma il bianco
ingiallito e l'oro arrossato dal tempo avevano tonalità armoniose
che non compromettevano l'effetto delle tele. Quattordici statue
s'innalzavano su delle colonne, negli angoli, tra i quadri, su
piedistalli di Boulle. Alcuni buffet in ebano, tutti intagliati e di
un lusso regale, ornavano ad altezza di gomito la parte bassa delle
pareti. I buffet contenevano le curiosità. Al centro del salotto,
altre credenze in legno intagliato, allineate, esponevano le più
grandi rarità del lavoro umano: avori, bronzi, legni, smalti,
oreficeria, porcellane ecc.
Appena l'ebreo si trovò in questo santuario, si
diresse immediatamente verso quattro capolavori che riconobbe come i
più belli della collezione, e di maestri che mancavano alla sua.
Quelle opere rappresentavano per lui quello che per i naturalisti
sono i desiderata che fanno compiere viaggi da ponente a levante, ai
tropici, nei deserti, nelle pampas, nelle savane, nelle foreste
vergini. Il primo quadro era di Sebastiano del Piombo, il secondo di
Fra' Bartolomeo della Porta, il terzo era un paesaggio di Hobbema, e
l'ultimo un ritratto di donna di Albrecht Dürer; quattro diamanti!
Nell'arte della pittura, Sebastiano del Piombo è come un punto
brillante nel quale tre scuole si sono incontrate per offrire ognuna
le proprie eminenti qualità. Pittore di Venezia, è andato a Roma per
imparare lo stile di Raffaello, sotto la guida di Michelangelo, che
volle opporlo a Raffaello per lottare, nella persona di uno dei suoi
luogotenenti, contro quel sovrano pontefice dell'arte. Così quel
pigro genio ha fuso il colore veneziano, la composizione fiorentina
e lo stile di Raffaello nei rari quadri che si è degnato di
dipingere e i cui cartoni erano disegnati, si dice, da Michelangelo.
E possiamo vedere quale perfezione abbia raggiunto quest'uomo,
armato di quella triplice forza, quando si studia, al Museo di
Parigi, il Ritratto di Baccio Bandinelli, che può essere confrontato
senza sfigurare con L'uomo col guanto di Tiziano, col Ritratto di
vecchio nel quale Raffaello ha aggiunto la sua perfezione a quella
del Correggio, e col Carlo VIII di Leonardo da Vinci. Queste quattro
perle offrono la stessa acqua, lo stesso oriente, la stessa
rotondità, lo stesso splendore, lo stesso valore. L'arte umana non
può andare oltre. È superiore alla natura, che ha fatto vivere
l'originale solo per un istante. Di questo grande genio, di questa
tavolozza immortale, ma di una pigrizia incurabile, Pons possedeva
un Cavaliere di Malta in preghiera, dipinto su ardesia, di una
freschezza, di una perfezione e di una profondità perfino superiori
alle qualità del Ritratto di Baccio Bandinelli. Il Fra' Bartolomeo,
che rappresentava una Sacra Famiglia, sarebbe stato preso per un
quadro di Raffaello da molti esperti. L'Hobbema sarebbe salito fino
a sessantamila franchi in un'asta pubblica. Quanto all'Albrecht
Dürer, quel ritratto di donna era simile al famoso Holzschuer di
Norimberga per il quale i re di Baviera, di Olanda e di Prussia
hanno offerto più di una volta, ma invano, duecentomila franchi. Si
tratta della moglie o della figlia del cavaliere Holzschuer, l'amico
di Albrecht Dürer?... L'ipotesi pare una certezza perché la donna
del museo Pons ha un atteggiamento che presuppone una figura
corrispondente, e gli stemmi dipinti nei due quadri hanno la stessa
disposizione. Infine, l'aetatis suae XLI è in perfetta armonia con
l'età indicata nel ritratto così religiosamente conservato dalla
famiglia Holzschuer di Norimberga, di cui è stata realizzata
recentemente l'incisione.
Élie Magus ebbe le lacrime agli occhi quando
vide, uno dopo l'altro, quei quattro capolavori.
«Vi dò un compenso di duemila franchi per ognuno
di questi quadri, se me li fate avere per quarantamila franchi!...»,
sussurrò all'orecchio della Cibot, stupefatta di tanta fortuna
piovuta dal cielo.
L'ammirazione, o per essere più esatti il
delirio, dell'ebreo, aveva prodotto una tale confusione nel suo
cervello e nelle sue abitudini di avidità, che l'ebreo vi si perse,
come si è visto.
«E io?...», disse Rémonencq, che non s'intendeva
di quadri.
«Qui tutto ha lo stesso valore», bisbigliò
astutamente l'ebreo all'orecchio dell'alverniate. «Prendi dieci
quadri a caso e alle stesse condizioni, e farai la tua fortuna!».
I tre ladri continuavano a scrutarsi, ognuno in
preda alla propria voluttà, la più viva di tutte, la soddisfazione
del successo in materia di ricchezza, quando la voce del malato
risuonò e vibrò come dei colpi di campana...
«Chi è là?...», stava gridando Pons.
«Signore, tornate a letto!», disse la Cibot
precipitandosi verso Pons e costringendolo a rimettersi a letto.
«Ah! volete uccidervi?... No, non è il signor Poulain, è il buon
Rémonencq, talmente preoccupato per voi che è venuto a sapere come
state!... Vi si vuole così bene che tutta la casa è in agitazione
per voi. Di che avete paura?».
«Ma mi sembra che siate in parecchi...», disse il
malato.
«Parecchi? Questa è buona... State sognando?...
Finirete per diventare matto, parola mia... Ecco, guardate».
La Cibot andò ad aprire la porta, fece segno a
Magus di indietreggiare e a Rémonencq di entrare.
«Sono venuto, caro signore», disse l'alverniate,
al quale la Cibot aveva suggerito cosa dire, «per sapere come state,
perché tutta la casa è in ansia per voi... A nessuno fa piacere che
la morte entri nelle case!... E inoltre papà Monistrol, che
conoscete bene, mi ha incaricato di dirvi che se avete bisogno di
denaro, è a vostra disposizione...».
«Vi manda per dare un'occhiata ai miei
ninnoli!...», disse il vecchio collezionista con un'acredine piena
di diffidenza.
Nelle malattie di fegato, i soggetti contraggono
quasi sempre un'antipatia speciale, momentanea; concentrano il loro
malumore su un oggetto o su una persona qualunque. Ora, Pons era
convinto che si volessero mettere le mani sul suo tesoro, aveva
l'idea fissa di sorvegliarlo, e di tanto in tanto mandava Schmucke a
controllare che nessuno fosse penetrato nel santuario.
«La vostra collezione è talmente bella», rispose
astutamente Rémonencq, «da attirare l'attenzione dei rigattieri; io
non m'intendo di rarità, ma il signore passa per essere un
conoscitore talmente esperto che io, anche se non sono pratico della
materia, da voi comprerei ad occhi chiusi... se il signore avesse
bisogno di denaro, dal momento che niente costa come queste
malattie... mia sorella, in dieci giorni, ha speso trenta soldi in
medicine, quando ha avuto quell'agitazione di sangue, e sarebbe
guarita anche senza... i medici sono degli imbroglioni, che
approfittano della nostra salute per...».
«Addio, grazie, signore», disse Pons al
ferravecchio, guardandolo inquieto.
«Vado ad accompagnarlo», disse sottovoce la Cibot
al suo malato, «non vorrei che toccasse qualcosa».
«Sì, sì», rispose il malato ringraziando la Cibot
con uno sguardo.
La Cibot chiuse la porta della camera da letto, e
ciò risvegliò la diffidenza di Pons. La donna trovò Magus immobile
davanti ai quattro quadri. Quest'immobilità, quest'ammirazione,
possono essere capite solo da coloro la cui anima è aperta al bello
ideale, al sentimento ineffabile suscitato dalla perfezione
artistica, e che restano in piedi per delle ore intere al Museo
davanti alla Gioconda di Leonardo da Vinci, davanti all'Antiope del
Correggio, il capolavoro di quel pittore, davanti all'Amante di
Tiziano, alla Sacra Famiglia di Andrea del Sarto, davanti ai
Fanciulli tra i fiori del Domenichino, al piccolo monocromo di
Raffaello e al suo Ritratto di vecchio, i più grandi capolavori
dell'arte.
«Andate senza fare rumore!», disse la Cibot.
L'ebreo se ne andò lentamente, indietreggiando, e
intanto guardava i quadri come un amante guarda la sua amata mentre
le dice «addio».
XL • ASSALTO D'ASTUZIA
Quando l'ebreo fu sul pianerottolo, la Cibot, cui
quella contemplazione aveva fatto venire delle idee, batté sul
braccio secco di Magus.
«Mi darete quattromila franchi a quadro!
Altrimenti, niente da fare...».
«Sono così povero!...», disse Magus. «Se desidero
queste tele, mia bella signora, è soltanto per amore, per amore
dell'arte!».
«Sei così secco, figlio mio», disse la portiera,
«che lo capisco che amore è. Ma se non mi prometti oggi sedicimila
franchi davanti a Rémonencq, domani saranno ventimila».
«Prometto i sedici», rispose l'ebreo, spaventato
dall'avidità della portiera.
«Su cosa può giurare un ebreo?...», chiese la
Cibot a Rémonencq.
«Potete fidarvi di lui», rispose il ferravecchio,
«è onesto come me».
«Bene, e voi?», chiese la portiera, «se ve li
faccio vendere, cosa mi date?...».
«La metà del guadagno», disse pronto Rémonencq.
«Preferisco una somma subito, io non sono nel
commercio», rispose la Cibot.
«Sapete farci con gli affari!», disse Élie Magus
sorridendo. «Potreste diventare una commerciante famosa».
«Le offro di diventare mia socia, vita e beni»,
disse l'alverniate stringendo il braccio grassoccio della Cibot e
picchiandovi sopra con la forza di un martello. «Non le chiedo altri
capitali che la sua bellezza! Sbagliate a tener tanto a quel turco
di Cibot e al suo ago! Come può un povero portiere far diventare
ricca una bella donna come voi? Ah! che bella figura fareste in una
bottega sul boulevard, tra le curiosità, a chiacchierare con gli
amatori, a raggirarli! Lasciate perdere la portineria quando vi
sarete fatta un bel gruzzolo qui, e allora vedrete cosa diventeremo
noi due insieme!».
«Farmi un gruzzolo!», disse la Cibot. «Ma io sono
incapace di toccare uno spillo, capito Rémonencq!», esclamò la
portiera. «Io sono conosciuta in tutto il quartiere come una donna
onesta, cosa credete?».
Gli occhi della Cibot fiammeggiavano.
«Via, calmatevi!», disse Élie Magus.
«Quest'alverniate ha l'aria di amarvi troppo per volervi offendere».
«Come saprebbe procurarvi i clienti!», esclamò
l'alverniate.
«Siate giusti, figli miei», riprese la Cibot,
raddolcita, «e giudicate voi stessi la mia situazione qui!... Sono
dieci anni che mi distruggo i nervi per questi due vecchi scapoli,
senza che mi abbiano mai dato altro che delle parole... Rémonencq
potrà dirvi che do da mangiare ai due vecchi à forfait, e ci perdo
dai venti ai trenta soldi al giorno, e così ci ho rimesso tutti i
miei risparmi, sull'anima di mia madre!... ché dei miei genitori ho
conosciuto soltanto lei, ed è vero quanto è vero che esisto, quanto
vero è il sole, e che il mio caffè diventi veleno se dico bugie!...
Bene, ecco che uno dei due sta per morire, vero?, ed è il più ricco
di questi due uomini che ho trattato come figli!... Crederessite,
mio caro signore, che sono venti giorni che gli dico che sta per
morire (perché il signor Poulain l'ha dato per spacciato!...) e
questo taccagno non parla di mettermi sul testamento, come se
neppure lo conoscessi! Parola d'onore, abbiamo quello che ci è
dovuto solo se ce lo prendiamo, parola di donna onesta; perché
andate a fidarvi degli eredi!... figuriamoci! E poi, sapete com'è:
parole al vento, e un mondo in mano alle canaglie!».
«È vero», disse con aria sorniona Élie Magus,
«siamo ancora noi i più onesti...», aggiunse guardando Rémonencq.
«Ma non sto parlando di voi...», continuò la
Cibot. «Chi la dura la vince!, come dice quel vecchio attore. Vi
giuro che questi due signori mi devono già quasi tremila franchi,
che il poco che avevo se n'è già andato in medicine e in altre
faccende, e se non dovessero rimborsarmi tutto quello che ho
anticipato... Sono così scema, con la mia onestà, che non ho il
coraggio di parlargliene. Voi che siete negli affari, mio caro
signore, che ne direste se andassi da un avvocato?».
«Un avvocato!», esclamò Rémonencq, «ne sapete più
voi di tutti gli avvocasti!...».
Il rumore della caduta di un corpo pesante, sul
pavimento della sala da pranzo, risuonò nel vasto spazio della
scala.
«Ah! mio Dio!», gridò la Cibot, «che sta
succedendo? Mi sembra che il signore abbia fatto una tombola!...».
Spinse via i due complici, che agilmente si
precipitarono giù per le scale; poi si voltò, corse nella sala da
pranzo, e vi trovò Pons completamente disteso per terra, in camicia
da notte, svenuto! Prese il vecchio scapolo tra le braccia, lo
sollevò come una piuma e lo riportò a letto. Dopo aver disteso il
moribondo, gli fece respirare della barbula bruciata, gli inumidì le
tempie con acqua di Colonia, lo rianimò. Poi, quando vide che Pons
riapriva gli occhi e che la vita era ritornata, si mise i pugni sui
fianchi.
«Senza pantofole! in camicia! da ammazzarvi! E
perché poi non vi fidate di me?... Se è così, addio, signore. Dopo
dieci anni che vi servo, che metto del mio nelle vostre spese, che i
miei risparmi sono spariti, per evitare noie a quel povero Schmucke
che piange come un bambino per le scale... ecco la mia ricompensa!
Mi stavate spiando... Dio vi ha punito... e ha fatto bene! E io che
faccio uno sforzo per portarvi in braccio, a rischio di farmi male
per il resto dei miei giorni... Ah! mio Dio! e ho anche lasciato la
porta aperta...».
«Con chi stavate parlando?».
«Ma che idea!», esclamò la Cibot. «Sono forse la
vostra schiava? Ho dei conti da rendervi? Sappiate che se continuate
a infastidirmi pianto tutto! Vi prenderete un'infermiera!».
Pons, spaventato da una tale minaccia, senza
rendersene conto fece capire alla Cibot fin dove avrebbe potuto
spingersi usando questa spada di Damocle.
«È colpa della mia malattia!», disse con tono
lamentoso.
«Meno male!», replicò duramente la Cibot.
E lasciò Pons confuso, in preda a dei rimorsi,
pieno di ammirazione per la chiassosa fedeltà della sua infermiera,
e a rimproverarsi, senza sentire il male terribile con cui aveva
aggravato la sua malattia cadendo sul pavimento della sala da
pranzo.
XLI • DOVE IL NODO SI STRINGE
La Cibot vide Schmucke che stava salendo le
scale.
«Venite, signore... Ci sono brutte notizie! Il
signor Pons sta diventando pazzo!... Figuratevi che si è alzato
completamente nudo, e mi ha seguito... no, è caduto lungo disteso lì
per terra... Chiedetegli perché, dice di non saperne niente... Sta
andando male. Non ho fatto niente per provocare in lui violenze
simili, a meno di non avergli risvegliato le idee parlandogli dei
suoi primi amori... Chi li conosce gli uomini? Sono tutti vecchi
libertini... Ho fatto male a mostrargli le braccia; aveva due occhi
di brace...».
Schmucke ascoltava la Cibot, come se stesse
parlando in ebraico.
«Ho fatto uno sforzo tale che ne risentirò per il
resto della vita!...», aggiunse la Cibot, fingendo di provare un
gran dolore e pensando di sfruttare l'idea che aveva avuto, per
caso, sentendo un piccolo indolenzimento nei muscoli. «Sono talmente
idiota! Quando l'ho visto lì per terra, l'ho preso in braccio e l'ho
portato fino al letto, come un bambino! Ma ora lo sento lo sforzo
che ho fatto! Ah! come sto male!... scendo in portineria, pensate
voi al malato. Mando Cibot a chiamare il signor Poulain per me!
Preferirei morire che rimanere invalida...».
La Cibot si attaccò alla ringhiera e scese le
scale con mille contorsioni e gemiti così lamentosi che tutti gli
inquilini, impauriti, uscirono sul pianerottolo dei loro
appartamenti. Schmucke sosteneva la malata e intanto piangeva, e
spiegava a tutti la dedizione della portiera. Rapidamente l'intero
casamento, l'intero quartiere appresero il sublime gesto della Cibot
che aveva compiuto uno sforzo mortale, si diceva, sollevando tra le
braccia uno dei due schiaccianoci. Schmucke, tornato accanto a Pons,
lo informò della condizione spaventosa in cui si trovava la loro
factotum, ed entrambi si guardarono dicendo: «Come faremo senza di
lei?...». Schmucke, vedendo il cambiamento provocato in Pons dalla
sua scappatella, non osò rimproverarlo.
«Accidenti al bric-à-brac! preferirei bruciare
tutto quanto piuttosto che perdere il mio amico!...», esclamò dopo
aver saputo da Pons la causa dell'incidente. «Non fidarsi della
sighnora Zibod che ci presta i suoi risparmi! Non va bene; ma è la
malattia...».
«E quale malattia! Sono cambiato, lo sento»,
disse Pons. «Non vorrei farti soffrire, mio buon Schmucke».
«Rimprovera me e lascia in pace la sighnora
Zibod», disse Schmucke.
In pochi giorni il dottor Poulain fece scomparire
l'invalidità da cui si diceva minacciata la Cibot, e la sua fama nel
quartiere del Marais acquistò un lustro straordinario per quella
guarigione miracolosa. In casa Pons il dottore attribuì quel
successo all'eccellente costituzione della malata, che dopo sette
giorni riprese servizio presso i due signori, con loro grande
soddisfazione. L'avvenimento aumentò del cento per cento
l'influenza, la tirannia della portiera sulla vita familiare dei due
schiaccianoci che, durante quella settimana, avevano fatto dei
debiti che tuttavia furono pagati da lei. La Cibot approfittò della
circostanza per ottenere da Schmucke (e con quale facilità!) il
riconoscimento della somma di duemila franchi che sosteneva di aver
prestato ai due amici.
«Ah! che medico il signor Poulain!», disse la
Cibot a Pons. «Vi salverà, mio caro signore... mi ha proprio tirato
fuori dalla bara! Il mio povero Cibot già mi vedeva morta!...
Eppure, il signor Poulain ve lo avrà detto, mentre ero a letto non
pensavo che a voi. «Mio Dio», dicevo «prendete me, e lasciate vivere
il mio caro Pons...»».
«Povera cara signora Cibot, avete rischiato di
restare invalida per causa mia!...».
«Ah! senza il signor Poulain sarei nella camicia
di abete che ci aspetta tutti. Beh, sul bordo del fosso si
capitombola, come diceva quel vecchio attore! Ci vuole filosofia.
Come avete fatto senza di me?...».
«Mi ha assistito Schmucke», rispose il malato,
«ma la nostra povera cassa e la nostra clientela ne hanno
sofferto... Non so come abbia fatto».
«Calmati, Bons!», esclamò Schmucke. «Ci ha fatto
da banchiere papà Zibod...».
«Non parlate di questo, sciocchino mio! Siete
tutti e due figli nostri», esclamò la Cibot. «Depositati da voi, i
nostri risparmi sono bene investiti; siete più solidi della Banca!
Finché avremo un pezzo di pane, ne avrete la metà...; non vale
neppure la pena di parlarne...».
«Povera sighnora Zibod!», disse Schmucke
andandosene.
Pons rimase in silenzio.
«Ci crederessite, mio cherubino», disse la Cibot
al malato vedendolo inquieto, «che nella mia agonia, perché la morte
l'ho vista proprio da vicino!... quello che mi tormentava di più era
il fatto di lasciarvi soli, abbandonati a voi stessi, e di lasciare
il mio povero Cibot senza un soldo!... Sono così pochi i miei
risparmi che ve ne parlo solo pensando alla mia morte e a Cibot, che
è un angelo! Mi ha assistito come una regina, e piangeva per me come
un vitello!... Ma io contavo su di voi, parola di donna onesta. Gli
dicevo: «Vedrai, Cibot, che i miei due signori non ti lasceranno mai
senza pane...»».
Pons non rispose a questo attacco ad testamentum,
e la portiera rimase in silenzio in attesa di una parola.
«Vi raccomanderò a Schmucke», disse finalmente il
malato.
«Ah!», esclamò la portiera, «tutto quello che
farete sarà ben fatto! Mi rimetto a voi, al vostro buon cuore... Non
parliamone più o mi fate vergognare, angelo mio; pensate solo a
guarire! Vivrete più di noi...».
Una profonda inquietudine s'impadronì del cuore
della Cibot, che decise di farsi dare spiegazioni dal suo signore a
proposito del legato che pensava di lasciarle; e per prima cosa uscì
per andare dal dottor Poulain, di sera, dopo la cena di Schmucke,
che mangiava accanto al letto di Pons da quando il suo amico si era
ammalato.
XLII • STORIA DI TUTTI GLI INIZI DI CARRIERA A PARIGI
Il dottor Poulain abitava in rue d'Orléans.
Occupava un piccolo appartamento al pianterreno composto di
un'anticamera, un salotto e due camere da letto. Un locale di
servizio attiguo all'anticamera, che comunicava con una delle due
stanze, quella del dottore, era stato trasformato in studio. Una
cucina, una camera per la domestica e una piccola cantina erano
comprese nell'affitto dell'alloggio situato in un'ala della casa, un
immenso edificio costruito durante l'Impero al posto di un vecchio
palazzo di cui era rimasto il giardino. Il giardino era diviso tra i
tre appartamenti del pianterreno.
L'appartamento del dottore non era stato toccato
da quarant'anni. L'intonaco, la carta da parati, le decorazioni,
ogni cosa sapeva d'Impero. Un sudiciume quarantennale, il fumo,
avevano scurito gli specchi, le cornici, i disegni dei parati, i
soffiti e le tinteggiature. Il piccolo appartamento, in fondo al
Marais, costava ancora mille franchi l'anno. La signora Poulain,
madre del dottore, di sessantasette anni, passava gli ultimi anni
della sua vita nella seconda camera da letto. Lavorava per i
pantalonai. Cuciva ghette, calzoni di pelle, bretelle, cinture,
insomma tutto ciò che riguarda quest'articolo, oggi piuttosto in
disuso.
Occupata a sorvegliare la casa e l'unica
domestica del figlio, non usciva mai, e prendeva un po' d'aria nel
giardinetto, dove scendeva attraverso una portafinestra del salotto.
Vedova da venti anni, alla morte del marito aveva venduto l'azienda
di rifiniture in pelle per pantalonai al suo primo operaio, che le
procurava abbastanza lavoro da farla guadagnare circa trenta soldi
al giorno. Aveva sacrificato tutto all'educazione dell'unico figlio,
con la decisa intenzione di procurargli una condizione sociale
superiore a quella del padre. Fiera del suo Esculapio, fiduciosa nei
suoi successi, continuava a sacrificargli tutto, felice di
accudirlo, di economizzare per lui, pensando soltanto al suo
benessere e amandolo con intelligenza, cosa che non tutte le madri
sanno fare. Così la signora Poulain, che si ricordava di essere
stata una semplice operaia, non voleva nuocere al figlio esponendolo
al ridicolo o al disprezzo, perché la buona donna parlava con la S
proprio come la Cibot parlava con la N; allora si nascondeva nella
propria camera, di sua iniziativa, quando per caso qualche cliente
distinto veniva a farsi visitare dal dottore, o quando si
presentavano i compagni di università o di ospedale. Perciò il
dottore non aveva mai dovuto arrossire a causa di sua madre, che
venerava, e la cui mancanza d'istruzione era ben compensata da una
sublime tenerezza. La vendita dell'azienda aveva reso circa
ventimila franchi, la vedova li aveva investiti in titoli di Stato
nel 1820, e i millecento franchi di rendita che riscuoteva
rappresentavano tutta la sua ricchezza. Così, per molto tempo, i
vicini videro stesa sulle corde, nel giardino, la biancheria del
dottore e quella di sua madre. Per fare economie, la domestica e la
signora Poulain lavavano tutto in casa. Questo dettaglio domestico
nuoceva molto al dottore: vedendolo così povero, non gli veniva
riconosciuto del talento. I millecento franchi di rendita finivano
nell'affitto. Il lavoro della signora Poulain, buona e grassa
vecchietta, nei primi tempi era bastato a tutte le spese della
modesta famigliola. Dopo dodici anni di perseveranza nel suo duro
cammino, il dottore aveva finito per guadagnare un migliaio di scudi
l'anno e la signora Poulain poteva disporre di circa cinquemila
franchi. Era, per chi conosce Parigi, lo stretto necessario.
Il salotto dove i clienti attendevano di essere
visitati era miseramente ammobiliato col solito comunissimo canapè
di mogano, rivestito di velluto giallo di Utrecht a fiori, quattro
poltrone, sei sedie, una consolle e un tavolino da tè, che
provenivano dall'eredità del defunto pellettiere, il tutto di sua
scelta. La pendola, sempre sotto la sua campana di vetro, tra due
candelabri egiziani, raffigurava una lira. C'era da chiedersi grazie
a quali tecniche le tendine appese alla finestre avessero potuto
resistere così a lungo, dato che erano di calicò giallo a rosoni
rossi, della fabbrica di Jouy. Oberkampf aveva ricevuto i
complimenti dell'imperatore per questi orribili prodotti
dell'industria cotoniera nel 1809. Lo studio del dottore era
ammobiliato con quello stesso gusto, impiegando il mobilio della
stanza paterna. Era spoglio, povero e freddo. Quale malato poteva
credere alla scienza di un medico che, senza fama, era ancora senza
mobili in un tempo in cui la pubblicità è onnipotente, e si dorano i
lampioni di place de la Concorde per consolare il povero
persuadendolo che è un ricco cittadino?
L'anticamera serviva da sala da pranzo. La
domestica vi lavorava quando non era impegnata in cucina o non
teneva compagnia alla madre del dottore. Entrando, ci si rendeva
conto della miseria decorosa che regnava in quel triste
appartamento, deserto per metà giornata, vedendo le tendine di
mussola rossa alla finestra della stanza che dava sul cortile. Gli
armadi a muro dovevano nascondere resti di pasticcio ammuffito,
piatti sbreccati, turaccioli eterni, tovaglioli di una settimana,
insomma le ignominie giustificabili delle famigliole parigine, che
da quelle case possono finire soltanto nelle gerle degli
straccivendoli. Così in questi tempi in cui la moneta da cento soldi
se ne sta annidata nel fondo di ogni coscienza, e rotola in ogni
discorso, il dottore, trentenne, con una madre senza relazioni
sociali, era ancora scapolo. In dieci anni non aveva incontrato il
più piccolo pretesto romanzesco nelle famiglie dove la sua
professione gli permetteva di entrare, poiché curava persone di
condizioni sociali simili alle sue; vedeva soltanto famiglie come la
sua, di piccoli impiegati o piccoli artigiani. I suoi clienti più
ricchi erano i macellai, i panettieri, i grossi negozianti del
quartiere: tutta gente che per lo più attribuiva la guarigione alla
natura, per poter pagare le visite del dottore quaranta soldi,
vedendolo venire a piedi. In medicina il calesse è più necessario
del sapere.
Una vita ordinaria e senza imprevisti finisce per
condizionare anche lo spirito più avventuroso. Un uomo si adatta
alla propria sorte, accetta la mediocrità della sua vita. Così il
dottor Poulain, dopo dieci anni di pratica, continuava a fare il suo
mestiere di Sisifo senza quella disperazione che aveva reso amari i
primi anni. Tuttavia accarezzava un sogno, perché ogni parigino ha
un suo sogno. Rémonencq pregustava un sogno, anche la Cibot aveva il
suo. Il dottor Poulain sperava di essere chiamato da un malato ricco
e potente; quindi, di ottenere, grazie all'influenza di questo
malato che avrebbe infallibilmente guarito, un posto di primario in
ospedale, o di medico delle carceri, o dei teatri di boulevard, o di
un ministero. Del resto aveva ottenuto proprio in questo modo il
posto di medico comunale. Condotto dalla Cibot, aveva curato e
guarito il signor Pillerault, proprietario della casa di cui i Cibot
erano portieri. Il signor Pillerault, prozio materno della contessa
Popinot, moglie del ministro, che si era interessato di quel giovane
la cui segreta miseria era stata da lui accertata durante una visita
di ringraziamento, aveva ottenuto dal pronipote, il ministro, che lo
venerava, il posto che il dottore occupava da cinque anni, e i cui
modesti proventi erano giunti molto a proposito ad impedirgli di
prendere una decisione radicale, quella di emigrare. Lasciare la
Francia per un francese è un po' come morire. Il dottor Poulain andò
a ringraziare il conte Popinot; ma, poiché il medico curante dello
statista era l'illustre Bianchon, il questuante capì che non avrebbe
potuto entrare in quella casa. Il povero dottore, dopo essersi
illuso di ottenere la protezione di uno dei ministri più influenti,
una delle dodici o quindici carte che una mano potente mescola da
sedici anni sul tappeto verde del tavolo del consiglio, si trovò
rituffato nel Marais, dove sguazzava tra i poveri, tra i piccoli
borghesi, e dove ebbe l'incarico di constatare i decessi, per
milleduecento franchi l'anno.
Il dottor Poulain, già assistente piuttosto
capace, divenuto un medico prudente, non mancava di esperienza.
Inoltre i suoi morti non facevano scandalo, e poteva studiare ogni
genere di malattia in anima vili. Giudicate voi di quale fiele si
nutrisse! Così il suo volto, già di per sé lungo e malinconico,
talvolta assumeva un'espressione spaventosa. Mettete su una
pergamena gialla gli occhi ardenti di Tartufo e l'acidità di
Alceste; poi immaginate l'andatura, l'atteggiamento, gli sguardi di
quest'uomo che, considerandosi un bravo medico quanto l'illustre
Bianchon, si sentiva relegato in una sfera oscura da una mano di
ferro! Il dottor Poulain non poteva fare a meno di confrontare i
suoi guadagni di dieci franchi, nei giorni fortunati, con quelli di
Bianchon, di cinque o seicento franchi. Non basta per covare tutti i
livori della democrazia? Del resto, quest'ambizioso frustrato non
aveva niente da rimproverarsi. Aveva già tentato la fortuna
inventando delle pillole purgative, simili a quelle di Morisson.
Aveva affidato la sfruttamento di quest'invenzione a uno dei suoi
colleghi d'ospedale, un assistente che era diventato farmacista; ma
il farmacista, innamorato di una comparsa dell'Ambigue-Comique, era
fallito, e siccome il brevetto d'invenzione delle pillole purgative
era stato rilasciato a suo nome, quella prodigiosa scoperta aveva
arricchito il nuovo padrone della farmacia. L'ex assistente era
partito per il Messico, la patria dell'oro, portandosi via mille
franchi di risparmi del povero Poulain, che come premio di
consolazione fu trattato da usuraio dalla comparsa, da cui era
andato a reclamare i suoi soldi. Dopo il caso fortunato della
guarigione del vecchio Pillerault, non si era più presentato nessun
cliente ricco. Poulain correva qua e là per il Marais, a piedi, come
un gatto magro, e su venti visite riusciva a trovarne due da
quaranta soldi. Il cliente che pagava bene era per lui quell'uccello
fantastico chiamato il «merlo bianco» in tutti i mondi sublunari.
Il giovane avvocato senza cause, il giovane
dottore senza clienti, sono le due più grandi espressioni della
disperazione dignitosa, tipica di Parigi, quella disperazione muta e
fredda, vestita di una giacca e pantaloni neri con cuciture
biancastre, che ricordano lo zinco degli abbaini, di un gilè di raso
luccicante, di un cappello conservato religiosamente, vecchi guanti
e camicie di calicò. È un poema di tristezza, tetra come le segrete
della Conciergerie. Le altre miserie, quella del poeta,
dell'artista, dell'attore, del musicista, sono allietate dalle
giovialità naturali nelle arti, dall'incuranza della bohème, nella
quale si entra da giovani e che conduce alle tebaidi del genio! Ma
quei due abiti neri che vanno a piedi, portati da due professionisti
per i quali tutto è una piaga, ai quali l'umanità mostra soltanto i
suoi aspetti vergognosi... quei due uomini, nell'avvilimento
dell'inizio della carriera, hanno espressioni sinistre, provocanti,
dove l'odio e l'ambizione concentrati sgorgano dai loro sguardi,
simili alle prime fiammate di un incendio che stava covando. Quando
due amici di collegio s'incontrano, a venti anni di distanza, il
ricco evita il compagno povero, non lo conosce più, lo impressiona
l'abisso creato tra di loro dalla sorte. L'uno ha percorso la vita
sui cavalli focosi della fortuna o sulle nubi dorate del successo;
l'altro ha camminato sottoterra nelle fogne parigine, e ne porta i
segni. Quanti vecchi amici evitavano il dottore alla vista della
redingote e del gilè!
Ora, è facile capire come mai il dottor Poulain
avesse recitato così bene la sua parte nella commedia del rischio
corso dalla Cibot. Tutte le bramosie, tutte le ambizioni
s'intuiscono. Non trovando nessuna lesione in nessun organo della
portiera, constatando con ammirazione la regolarità del polso, la
perfetta naturalezza dei movimenti, ma sentendola gridare forte, il
dottor Poulain capì che la Cibot doveva avere qualche interesse a
dire di essere in punto di morte. Poiché la rapida guarigione di una
grave malattia simulata avrebbe fatto parlare di lui nella
circoscrizione, esagerò la pretesa ernia della Cibot, e disse che
l'avrebbe risolta, essendo riuscito a prenderla in tempo. Quindi
sottopose la portiera a pretesi farmaci e a una fantastica
operazione che furono coronati da un pieno successo. Cercò,
nell'arsenale delle cure straordinarie di Desplein, un caso
bizzarro; lo applicò alla Cibot, ne attribuì modestamente la buona
riuscita al grande chirurgo, e si fece passare per suo allievo. Tali
sono la audacie dei debuttanti a Parigi. Ogni cosa serve loro da
scala per salire sulla scena; ma, poiché tutto si logora, anche i
gradini della scala, i debuttanti in qualunque professione non sanno
più con quale legno farsi delle pedane. In certi momenti il parigino
è refrattario al successo. Stanco d'innalzare piedistalli, tiene il
broncio come i bambini viziati e non ne vuol più sapere di idoli; o,
per dire la verità, le persone di talento talvolta non rispondono ai
suoi entusiasmi. La ganga da cui si estrae il genio ha le sue
lacune; il parigino allora ricalcitra, non vuol sempre dorare o
adorare le mediocrità.
XLIII • CON IL TEMPO E CON LA PAGLIA MATURANO LE NESPOLE
Entrando con la sua abituale scortesia, la Cibot
trovò il dottore a tavola con la vecchia madre, mentre stavano
mangiando un'insalata di radicchio, la meno cara di tutte le
insalate, con un angolo acuto di formaggio di Brie per dessert, tra
un piatto con poca frutta secca dove abbondavano i graspi d'uva e un
piatto di mele malconcie.
«Mamma, potete restare», disse il medico,
trattenendo la signora Poulain per un braccio, «è la signora Cibot,
di cui vi ho parlato».
«I miei rispetti, signora; i miei doveri,
signore», disse la Cibot sedendosi sulla sedia che il dottore le
aveva indicato. «Ah! è vostra madre? È molto fortunata ad avere un
figlio così bravo; perché è il mio salvatore, signora, mi ha tirato
fuori dall'abisso».
La vedova Poulain trovò incantevole la Cibot,
udendola elogiare il figlio in quel modo.
«Sono qui per dirvi, caro dottor Poulain, che il
povero signor Pons va molto male; devo parlarvi di lui...».
«Passiamo in salotto», disse il dottor Poulain
indicando la domestica alla Cibot con un gesto eloquente.
Una volta in salotto, la Cibot spiegò con cura il
suo rapporto con i due schiaccianoci, ripeté la storia del suo
prestito abbellendola un po', e parlò degli immensi servizi che da
dieci anni rendeva ai signori Pons e Schmucke. A sentire lei, quei
due vecchi sarebbero già morti senza le sue cure materne. Fece
l'angelo, e disse tante di quelle bugie irrorate di lacrime che finì
per intenerire la vecchia signora Poulain.
«Capite bene, caro signore», disse concludendo,
«che bisognerebbe sapere come comportarsi per quello che il signor
Pons conta di fare per me nel caso che debba morire; non me lo
auguro affatto, perché accudire quei due innocenti, vedete, è la mia
vita; e se verrà a mancarmi uno dei due, curerò l'altro. Vedete, la
natura mi ha fatto per essere la rivale della maternità. Senza
qualcuno di cui occuparmi, da trattare come un figlio, che ne
sarebbe di me... Dunque, se il signor Poulain lo volesse, mi farebbe
un piacere che io saprei ricompensare: parlerebbe di me con il
signor Pons. Dio mio! cosa mai sarebbe un vitalizio di mille
franchi? ditemi voi... Sarebbe tanto di guadagnato per il signor
Schmucke... Del resto, il nostro caro malato mi ha detto che mi
raccomanderebbe a quel buon tedesco, che dunque nelle sue intenzioni
sarebbe il suo erede... Ma come fa uno che non sa mettere insieme
due idee in francese e che, d'altra parte, potrebbe anche andarsene
in Germania per la disperazione della morte dell'amico...».
«Cara signora Cibot», rispose il dottore,
divenuto serio, «questo genere di affari non riguarda i medici, e mi
sarebbe proibito di esercitare la professione se si venisse a sapere
che mi sono immischiato nelle disposizioni testamentarie di un
paziente. La legge non permette di accettare un lascito del proprio
malato...».
«Che legge idiota! E cosa m'impedirebbe di
dividere con voi un lascito fatto a me?», ribatté la Cibot.
«Dirò di più», disse il dottore, «la mia
coscienza mi proibisce di parlare al signor Pons della sua morte.
Innanzitutto non è ancora in una condizione di tale pericolo; poi un
discorso del genere da parte mia gli provocherebbe un sussulto
capace di far insorgere un male reale, e di rendere mortale la sua
malattia...».
«Non metto certo i mezziguanti», esclamò la
Cibot, «per dirgli di mettere a posto i suoi affari, e non starà
peggio per questo... C'è abituato!... non temete».
«Non ditemi altro, cara signora Cibot!... Queste
cose non riguardano la medicina, ma i notai...».
«Ma, caro signor Poulain, se il signor Pons vi
chiedesse lui stesso in quale stato si trova e se non farebbe bene a
cautelarsi... vi rifiutereste di dirgli che il fatto di mettere
tutto a posto è un modo eccellente per riacquistare la salute?... E
in quel caso potreste dirgli una parolina per me...».
«Ah! se mi dice che vuol fare testamento,
certamente non lo dissuaderò!», disse il dottor Poulain.
«Ebbene, si tratta proprio di questo!», esclamò
la Cibot. «Ero venuta per ringraziarvi delle vostre cure», aggiunse
facendo scivolare nella mano del dottore un piccolo cartoccio che
conteneva tre monete d'oro. «È tutto quello che posso fare, per il
momento. Ah! se fossi ricca lo sareste anche voi, mio caro signor
Poulain, voi che siete l'immagine del buon Dio sulla terra...
Signora! vostro figlio è un angelo!».
La Cibot si alzò, la signora Poulain la salutò
amabilmente, e il dottore l'accompagnò sul pianerottolo. Lì, quella
spaventosa lady Macbeth della strada ebbe una folgorazione
infernale: capì che il medico era ormai suo complice, dato che
accettava un onorario per una falsa malattia.
«Ma insomma, mio buon signor Poulain», gli disse,
«dopo avermi salvata dal mio incidente, rifiutereste di salvarmi
dalla miseria con due semplici parole?...».
Il medico sentì che si era lasciato prendere dal
diavolo per un capello, e quel capello si stava arrotolando
sull'unghia implacabile dell'artiglio rosso. Nel timore di perdere
la sua fama di onestà per così poco, rispose a quell'idea diabolica
con un'idea altrettanto diabolica.
«Sentite, cara signora Cibot», disse facendola
rientrare e dirigendola nello studio, «io voglio pagarvi il debito
di riconoscenza che ho con voi: vi devo il mio posto di medico
comunale...».
«Divideremo», disse subito lei.
«Che cosa?», chiese il dottore.
«L'eredità», rispose la portiera.
«Voi non mi conoscete», replicò il dottore
assumendo un tono da Valerio Publicola. «Non parliamone più. Ho
avuto come compagno di studi un ragazzo molto intelligente, e siamo
tanto più legati in quanto nella vita abbiamo avuto le stesse
opportunità. Quando io studiavo medicina, lui studiava diritto;
quando io ero assistente, lui faceva il giovane di studio presso un
avvocato, il signor Couture. Figlio di un calzolaio, come io sono
figlio di un pantalonaio, non ha incontrato grandi simpatie, e
neppure dei capitali; anche perché, dopotutto, i capitali si
ottengono solo per simpatia. Ha potuto avere uno studio soltanto in
provincia, a Mantes... Ora, la gente di provincia capisce talmente
poco le intelligenze parigine che al mio amico hanno fatto mille
dispetti».
«Canaglie!», esclamò la Cibot.
«Sì», continuò il dottore, «perché si sono
coalizzati contro di lui così bene che è stato costretto a rivendere
lo studio per certi fatti che sono riusciti a far apparire colpe; il
procuratore del re se n'è occupato, e poiché era del luogo ha dato
ragione a quelli del paese. Il povero giovane, anche più magro e
malridotto di me, con una casa come la mia, il suo nome è Fraisier,
si è rifugiato nella nostra circoscrizione ed è ridotto a
patrocinare, poiché è avvocato, davanti al giudice di pace e al
tribunale ordinario. Abita qui vicino, in rue de la Perle. Andate al
numero 9, salite al terzo piano; giunta sul pianerottolo vedrete
impresso in lettere d'oro, su una targhetta di marocchino, STUDIO
FRAISIER. Fraisier si occupa in particolare del contenzioso dei
signori portieri, degli operai e di tutti i poveri della nostra
circoscrizione, a prezzi modesti. È un uomo onesto, perché non ho
bisogno di dirvi che con le sue capacità se fosse un briccone
andrebbe in giro in carrozza. Vedrò stasera il mio amico Fraisier.
Andate da lui domani mattina, presto; conosce il signor Louchard,
ispettore del commercio; il signor Tabareau, usciere del giudice di
pace; il signor Vitel, giudice di pace; il signor Trognon, notaio. È
conosciuto dagli uomini d'affari più stimati del quartiere. Se
accetta di occuparsi dei vostri affari, se potete proporlo al signor
Pons come consulente, potrete fidarvi di lui come di voi stessa. Ma
non andate, come avete fatto con me, a proporgli dei compromessi che
feriscono l'onore. È intelligente, v'intenderete. Quanto ai suoi
compensi, farò io da intermediario...».
La Cibot guardò il dottore con aria maliziosa.
«Ma non è quell'avvocato», disse, «che ha tirato
fuori la merciaia della rue Vieille-du-Temple, la signora Florimond,
dal brutto pasticcio in cui si trovava, per l'eredità del suo
amante?...».
«Proprio lui», rispose il dottore.
«Ma non è orribile», esclamò la Cibot, «che dopo
aver ottenuto grazie a lui una rendita di duemila franchi, si sia
rifiutata di sposarlo e abbia creduto di cavarsela regalandogli
dodici camicie di tela d'Olanda, ventiquattro fazzoletti, insomma un
corredo?!».
«Mia cara signora Cibot!», disse il dottore,
«quel corredo valeva mille franchi e Fraisier, che era agli inizi
della professione nel quartiere, ne aveva bisogno. Del resto, la
signora pagò la parcella senza la minima obiezione... E quell'affare
ne procurò altri a Fraisier, che oggi ha molto lavoro; anche se in
fondo le nostre clientele si equivalgono...».
«Soltanto i giusti soffrono in questo mondo!»,
rispose la portiera. «Bene, addio e grazie, caro signor Poulain».
Qui inizia il dramma, o se preferite la terribile
commedia, della morte di uno scapolo, preda, per forza di cose,
della rapacità degli avidi che circondano il suo letto e che, in
questo caso, ebbero come alleate: la passione più sfrenata, quella
di un maniaco collezionista di quadri; l'avidità del signor Fraisier
che, visto nella sua caverna, vi farà fremere; e la sete di un
alverniate capace di tutto, anche di un delitto, pur di farsi un
capitale. Questa commedia, cui la prima parte del racconto fa in un
certo senso da prologo, ha per attori tutti i personaggi che sono
stati finora in scena.
XLIV • UN LEGULEIO
Lo svilimento delle parole è una di quelle
bizzarrie dei costumi che per poter essere spiegata richiederebbe
dei volumi interi. Scrivete a un procuratore legale chiamandolo
«leguleio», e lo avrete offeso come offendereste un commerciante
all'ingrosso di generi coloniali scrivendogli una lettera con questo
indirizzo: «Signor tal dei tali, droghiere». Numerose persone della
buona società che dovrebbero conoscere, poiché in ciò consiste tutta
la loro scienza, le convenienze del galateo, ancora ignorano che la
qualifica di «letterato» è per un autore la più crudele delle
ingiurie. Monsieur vuol dire monseigneur. Questo titolo, in altri
tempi così importante, riservato oggi ai re per la trasformazione di
sieur in sire, ora si dà a tutti; eppure messire, che non è altro
che il duplicato della parola monsieur, e le equivale, provoca
articoli di protesta nei fogli repubblicani se per caso viene usato
in una partecipazione di morte. Magistrati, consiglieri,
giureconsulti, giudici, avvocati, pubblici ufficiali, procuratori
legali, uscieri, consulenti, causidici e difensori sono le varietà
in cui si classificano le persone che amministrano la giustizia e
lavorano in questo settore. Gli ultimi due pioli della scala sono
l'assistente dell'ufficiale giudiziario e il leguleio. L'assistente
dell'ufficiale giudiziario si trova a lavorare nel settore della
giustizia solo per caso, con il compito di assicurare l'esecuzione
delle sentenze; è, nelle cause civili, un boia occasionale. Quanto
al «leguleio», questo termine rappresenta l'ingiuria peggiore per
l'intera categoria; sta alla giustizia come il letterato sta alla
letteratura. In tutte le professioni, in Francia, la rivalità che le
divora ha i suoi termini denigratori. Ogni professione ha i suoi
insulti. Il disprezzo riservato ai termini letterato e leguleio si
ferma al plurale. Si può dire tranquillamente, senza offendere
nessuno, i letterati, i legulei. Ma a Parigi ogni professione ha i
suoi omega, cioè individui che declassano il mestiere al livello
della clientela di strada, del popolo. Così il leguleio, il semplice
causidico, esiste ancora in certi quartieri, come ancora si trova
alle Halles lo strozzino che presta a interessi altissimi, che sta
alla banca come il signor Fraisier stava alla corporazione dei
procuratori. Che cosa strana! La gente del popolo ha paura dei
pubblici ufficiali come ha paura dei ristoranti alla moda. Allora si
rivolge a degli azzeccagarbugli per la stessa ragione per cui va a
bere all'osteria. L'appiattimento su uno stesso livello è la legge
generale delle diverse sfere sociali. Soltanto gli esseri
eccezionali amano scalare le vette e non soffrono in presenza dei
propri superiori, e si creano il proprio spazio, come Beaumarchais
quando lasciò che rimanesse per terra l'orologio di un gran signore
che voleva umiliarlo; ma anche i nuovi ricchi, soprattutto quelli
che sanno far scomparire le tracce della loro origine, costituiscono
delle grandiose eccezioni.
L'indomani, alle sei del mattino, la Cibot
esaminava con attenzione, in rue de la Perle, la casa dove abitava
il suo futuro consulente, il signor Fraisier, leguleio. Era una di
quelle vecchie case abitate dalla piccola borghesia di una volta. Il
pianterreno, in parte occupato dalla portineria e dalla bottega di
un ebanista il cui laboratorio e i magazzini ingombravano un piccolo
cortile interno, era diviso tra l'androne e la tromba delle scale,
divorate dal salnitro e dall'umidità. La casa sembrava aggredita
dalla lebbra.
La Cibot si diresse alla portineria, dove trovò
un collega di Cibot, calzolaio, sua moglie e due bambini piccoli,
che vivevano in uno spazio di tre metri quadri, con una finestra che
dava sul cortile interno. Le due donne simpatizzarono subito appena
la Cibot ebbe detto che lavoro faceva, come si chiamava, ed ebbe
parlato della sua casa in rue de Normandie. Dopo un quarto d'ora di
chiacchiere da comari, durante il quale la portiera del signor
Fraisier preparava il pranzo per il calzolaio e i bambini, la Cibot
portò la conversazione sugli inquilini e sul leguleio.
«Vengo a consultarlo», disse, «a proposito di
certi affari; un suo amico, il dottor Poulain, dovrebbe avergli
parlato di me. Conoscete il signor Poulain?».
«Ma certamente!», disse la portiera di rue de la
Perle. «Ha salvato la mia piccina, che aveva la difterite».
«Ha salvato anche me, signora... Che tipo è
questo signor Fraisier?».
«È un uomo, cara signora», disse la portiera,
«cui si strappa molto difficilmente del denaro per le consegne delle
sue lettere, alla fine del mese».
Questa risposta bastò all'intelligente Cibot.
«Si può essere poveri e onesti», osservò.
«Lo spero bene», continuò la portiera di
Fraisier. «Noi non navighiamo certamente nell'oro, né nell'argento e
neppure nei soldi, ma non siamo in debito con nessuno».
La Cibot si riconobbe in quelle parole.
«Insomma, mia cara», continuò, «ci si può fidare
di lui, vero?».
«Ah! cara signora, quando il signor Fraisier vuol
bene a qualcuno, ho sentito dire dalla signora Florimond che non c'è
nessun altro come lui».
«E allora perché non l'ha sposato», chiese
vivacemente la Cibot, «dal momento che gli doveva la sua fortuna?
Per una piccola merciaia, mantenuta da un vecchio, non era poca cosa
diventare la moglie di un avvocato...».
«Perché?!», disse la portiera accompagnando la
Cibot nell'androne. «State salendo da lui, vero signora?... bene,
quando sarete nel suo studio capirete perché».
XLV • UN INTERNO POCO RACCOMANDABILE
Le scale, con finestre a saracinesca che davano
sul piccolo cortile interno, facevano capire che, tranne il
proprietario e il signor Fraisier, gli altri inquilini esercitavano
dei mestieri artigianali. I gradini infangati portavano il segno di
ogni mestiere possibile offrendo allo sguardo ritagli di rame,
bottoni spezzati, pezzetti di garza, di sparto. Gli apprendisti dei
piani superiori vi disegnavano caricature oscene. Le ultime parole
della portiera avevano acceso la curiosità della Cibot,
convincendola definitivamente a consultare l'amico del dottor
Poulain, ma riservandosi di ricorrere alle sue prestazioni solo dopo
averlo visto.
«Qualche volta mi chiedo come faccia la signora
Sauvage a restare al suo servizio», commentò la portiera, che
seguiva la Cibot. «Vi accompagno, signora», aggiunse, «salgo a
portare al padrone il latte e il giornale».
Giunta al secondo piano sopra il mezzanino, la
Cibot si trovò davanti a una porta dall'aspetto più che squallido.
La vernice, di un rosso strano, era coperta per una larghezza di
venti centimetri da quello strato nerastro che vi depositano le mani
dopo un certo tempo e che gli architetti hanno tentato di combattere
applicando dei vetri sopra e sotto le serrature. Lo spioncino,
tappato da scorie simili a quelle che inventano i ristoratori per
invecchiare bottiglie adulte, serviva soltanto ad attribuire alla
porta il soprannome di porta di cella, e si accordava egregiamente
alle guarnizioni a forma di trifoglio, ai cardini possenti, ai
chiodi dalla grossa capocchia. Qualche avaro o qualche foruncoloso
in polemica col mondo intero doveva aver inventato attrezzature del
genere. Il tubo di scarico delle acque luride aggiungeva la sua
quota di fetore nelle scale, il cui soffitto presentava ovunque
arabeschi disegnati con fumo di candela, e quali arabeschi! Il
cordone cui era appesa una nappa lurida fece suonare un campanello
il cui debole tintinnio rivelava una fenditura nel metallo. Ogni
oggetto si accordava all'insieme di quel quadro disgustoso. La Cibot
udì il rumore di un passo pesante e l'affanno asmatico di una donna
grassa, e apparve la Sauvage. Era una di quelle vecchie immaginate
da Adrien Brauwer nelle sue Streghe che vanno al sabba, una donna di
quasi un metro e settanta, dal volto militaresco e molto più barbuto
di quello della Cibot, di una grassezza malaticcia, con indosso un
orribile vestito di cotonina da poco, in testa un fazzoletto di
cotone da cui spuntavano i bigodini che si faceva con gli stampati
ricevuti gratis dal suo padrone, e agli orecchi delle specie di
ruote di carrozza in oro. Questo cerbero femminile teneva in mano un
tegame di alluminio, ammaccato, da cui s'era versato del latte che
spargeva per le scale un odore di più, che tuttavia si sentiva poco
nonostante la sua acidità nauseabonda.
«In che posso servirvi, signora?», chiese la
Sauvage.
E con aria minacciosa gettò sulla Cibot, che
dovette sembrarle troppo ben vestita, uno sguardo tanto più
assassino in quanto i suoi occhi erano normalmente iniettati di
sangue.
«Vengo dal signor Fraisier da parte del suo amico
dottor Poulain».
«Entrate, signora», rispose la Sauvage con un
tono improvvisamente amabile e che provava come fosse stata
preavvertita di quella visita di buon mattino.
E, dopo aver fatto una teatrale riverenza, la
domestica piuttosto maschile del signor Fraisier spalancò
bruscamente la porta dello studio che dava sulla strada, dove si
trovava l'ex procuratore di Mantes. Lo studio era simile in ogni
particolare a quei piccoli uffici di usciere di terz'ordine dove gli
scaffali sono di legno annerito, e i fascicoli sono talmente vecchi
che hanno la barba, come dicono i chierici, e le cartelle portano i
segni dei sollazzi dei topi, e il pavimento è grigio di polvere e il
soffitto giallo di fumo. Lo specchio sopra il caminetto era opaco;
gli alari di ghisa sostenevano un ceppo di legna scadente; la
pendola, a intarsi moderni, del valore di sessanta franchi, era
stata acquistata a qualche asta giudiziaria, e i candelabri che le
tenevano compagnia erano di zinco anche se esibivano delle forme
rococò mal riuscite, e la vernice, scomparsa in molti punti,
lasciava scoperto il metallo. Il signor Fraisier, un ometto magro e
malaticcio, rossiccio, i cui foruncoli denunciavano un sangue
infetto (e si grattava continuamente il braccio destro), e la cui
parrucca, tutta all'indietro, lasciava vedere un cranio color
mattone dall'aspetto sinistro, si alzò da una poltrona di vimini
dove stava seduto su un cuscino di marocchino verde. Assunse un'aria
amabile e una voce flautata per dire, porgendo una sedia:
«La signora Cibot, credo...».
«Sì, signore», rispose la portiera perdendo la
sua sicurezza abituale.
La Cibot fu spaventata da quella voce che
somigliava molto a quella di un campanello, e da uno sguardo ancora
più verde degli occhi verdastri del suo futuro consulente. Lo studio
era talmente impregnato dell'odore di Fraisier, da far pensare che
l'aria della stanza fosse appestata. Allora la Cibot capì per quale
ragione la signora Florimond non era diventata la signora Fraisier.
«Poulain mi ha parlato di voi, cara signora»,
disse il leguleio con quella voce d'occasione che è definita
comunemente «da bambina», ma che restava aspra e acidula come un
vino di paese.
A questo punto il leguleio cercò di ammantarsi,
raccogliendo sulle ginocchia aguzze, coperte da un panno ormai
logoro, i due lembi di una vecchia vestaglia di calicò stampato la
cui ovatta dell'imbottitura si prendeva la libertà di uscire fuori
da molti strappi, ma il peso dell'ovatta faceva cadere i lembi e
scopriva un giustacuore di flanella diventato nerastro. Dopo aver
stretto, con sussiego, il cordone di quella vestaglia refrattaria,
per mettere in evidenza la propria linea slanciata, Fraisier
avvicinò con un colpo di molle due tizzoni che si evitavano da
tempo, come due fratelli nemici. Poi, come preso da un pensiero
improvviso, si alzò:
«Signora Sauvage!», esclamò.
«Allora?!».
«Io non ci sono per nessuno».
«Già! Come al solito», rispose la virago con un
tono da padrona.
«È la mia vecchia balia», disse il leguleio alla
Cibot, con aria imbarazzata.
«Che però ha ancora un bel po' di latte...
laido...», replicò l'antica eroina delle Halles.
Fraisier rise del gioco di parole e mise il
chiavistello, perché la domestica non venisse a interrompere le
confidenze della Cibot.
«Bene, signora, spiegatemi il vostro problema»,
disse sedendosi e cercando ancora di avvolgersi nella veste da
camera. «Una persona che mi è raccomandata dall'unico amico che io
abbia al mondo può contare su di me... completamente!».
La Cibot parlò per una mezz'ora senza che il
leguleio si permettesse la più piccola interruzione; aveva l'aria
incuriosita di un giovane soldato che stia ascoltando un veterano
della vecchia guardia. Quel silenzio e l'aspetto sottomesso di
Fraisier, l'attenzione che sembrava prestare a quel chiacchiericcio
torrenziale, di cui si sono avuti dei saggi nelle scene tra la Cibot
e il povero Pons, fecero abbandonare alla diffidente portiera alcune
di quelle prevenzioni che tanti particolari ignobili le avevano
ispirato poco prima.
XLVI • CONSULTO NON GRATUITO
Quando la Cibot smise di parlare e rimase in
attesa di un consiglio, il piccolo leguleio, i cui occhi verdi
punteggiati di nero avevano studiato la futura cliente, fu preso da
una tosse detta «da cimitero» e dovette ricorrere a una tazza di
maiolica mezzo piena di un infuso che svuotò.
«Senza Poulain sarei già morto, cara signora
Cibot», disse Fraisier rispondendo agli sguardi materni della
portiera; «dice che mi restituirà la salute...».
E sembrò che avesse già dimenticato le confidenze
della cliente, che ora pensava di lasciar perdere quel moribondo.
«Signora, in materia di successioni, prima di
dare un consiglio è necessario sapere due cose», riprese a dire l'ex
procuratore di Mantes con tono grave. «Primo: se l'entità della
successione è tale che vale la pena di occuparsene; secondo: chi
sono gli eredi; perché se la l'eredità è il bottino, gli eredi sono
i nemici».
La Cibot parlò di Rémonencq e di Élie Magus, e
disse che i due astuti compari valutavano la collezione di quadri
seicentomila franchi...
«La comprerebbero a quel prezzo?...», chiese l'ex
procuratore di Mantes. «Perché, vedete, signora, gli uomini d'affari
non credono ai quadri. Un quadro può significare quaranta soldi di
tela o centomila franchi di pittura! Ora, i dipinti da centomila
franchi sono ben conosciuti, e quanti errori si fanno nella stima di
quei valori, anche i più celebri! Un famoso finanziere la cui
collezione era celebre, visitata e riprodotta in incisioni
(riprodotta!) passava per aver speso dei milioni... Poi a un certo
punto muore, perché poi si muore; ebbene, la vendita dei suoi quadri
autentici non ha reso più di duecentomila franchi! Dovreste portarmi
quei signori... Ma passiamo agli eredi».
E Fraisier riprese il suo atteggiamento di
ascoltatore. Quando udì il nome del presidente Camusot, scosse la
testa e fece una smorfia che provocò la più viva attenzione della
Cibot, che cercò di leggere su quella fronte, su quella faccia
atroce, e trovò quella che nel linguaggio degli affari si dice una
testa di legno.
«Sì, caro signore», ripeté la Cibot, «il mio
signor Pons è proprio il cugino del presidente Camusot de Marville,
me lo ripete dieci volte al giorno. La prima moglie del signor
Camusot, commerciante di seterie...».
«... che è stato nominato pari di Francia...».
«... era una signorina Pons, cugina carnale del
signor Pons...».
«Cugini, figli di due fratelli...».
«Non sono più nulla perché hanno litigato».
Il signor Camusot de Marville era stato per
cinque anni presidente presso il tribunale di Mantes, prima di
venire a Parigi... Non solo aveva lasciato a Mantes dei ricordi, ma
aveva anche conservato delle relazioni; il suo successore, uno dei
giudici di cui era stato più amico durante la sua permanenza, ancora
presiedeva il tribunale e perciò conosceva bene Fraisier.
«Ma lo sapete, signora», disse quando la Cibot
ebbe chiuso le rosse cateratte della sua bocca torrenziale, «che
avreste per nemico capitale un uomo che è in grado di mandare la
gente sul patibolo?».
La portiera fece un tale balzo sulla sedia, che
sembrò il fantoccio di quel gioco chiamato la scatola a sorpresa.
«Calmatevi, mia cara signora», continuò Fraisier.
«Che voi ignoraste cosa rappresenta il presidente dell'accusa della
corte reale di Parigi è del tutto naturale, ma che il signor Pons
avesse un erede legale naturale dovevate saperlo. Il presidente de
Marville è il solo e unico erede del vostro malato, ma è collaterale
di terzo grado; quindi, a termini di legge, il signor Pons può
disporre come vuole della propria fortuna. Voi ignorate anche che la
figlia del presidente ha sposato, da almeno sei settimane, il figlio
primogenito del conte Popinot, pari di Francia, ex ministro
dell'agricoltura e del commercio, uno degli uomini più influenti
della politica attuale. Quest'unione rende il presidente ancora più
temibile di quanto già non lo sia in qualità di sovrano della corte
d'assise».
A queste parole, la Cibot sobbalzò di nuovo.
«Sì, proprio lui può spedirvi in corte d'assise!
Ah! cara signora, voi non sapete cosa sia una toga rossa! Sarebbe
già abbastanza avere contro di sé una toga nera! Se mi vedete qui,
rovinato, calvo, moribondo... ebbene, è per aver dato fastidio senza
saperlo a un piccolo e provinciale procuratore del re! Mi hanno
costretto a svendere il mio studio, in perdita, e ben felice di
essermela cavata perdendo soltanto i miei soldi! Se avessi voluto
resistere, non avrei più potuto esercitare la professione di
avvocato. E poi ignorate un'altra cosa: se si trattasse soltanto del
presidente Camusot, non sarebbe ancora niente; ma c'è anche sua
moglie!... E se vi trovaste faccia a faccia con quella donna,
tremereste come a trovarvi sul primo gradino del patibolo; vi si
drizzerebbero in testa i capelli. La presidentessa è talmente
vendicativa da passare dieci anni a prepararvi una trappola mortale!
Muove suo marito come un bambino fa girare una trottola. Nella sua
vita, ha provocato il suicidio di un giovane incantevole, alla
Conciergerie; ha fatto venire i capelli bianchi come la neve a un
conte che era accusato di falso. Per poco non ha fatto interdire uno
dei più potenti signori della corte di Carlo X. Ed è stata lei a
causare la rovina del procuratore generale, il signore de
Grandville...».
«... che abitava in rue Vieille-du-Temple
all'angolo con la rue Saint-François?», chiese la Cibot.
«Proprio lui. Dicono che ora vuol far diventare
suo marito ministro della giustizia, e non è escluso che ci
riesca... Se si mettesse in mente di mandarci tutti e due in corte
d'assise e in prigione, io che sono innocente come un bambino appena
nato chiederei subito il passaporto e me ne andrei negli Stati
Uniti... perché so bene cos'è la giustizia. Ora, cara signora Cibot,
per riuscire a maritare la sua unica figlia col giovane visconte
Popinot che sarà, si dice, l'erede del vostro padrone di casa, il
signor Pillerault, la presidentessa si è spogliata del suo intero
patrimonio, al punto che in questo momento il presidente e sua
moglie sono ridotti a vivere del solo stipendio della presidenza. E
voi credete, mia cara signora, che in una simile situazione la
presidentessa trascurerà l'eredità del vostro signor Pons?...
Comunque preferirei affrontare dei cannoni caricati a mitraglia
piuttosto che sapere contro di me una donna simile...».
«Ma», disse la Cibot, «hanno litigato...».
«E che significa?», disse Fraisier. «Ragione di
più! Uccidere un parente di cui ci si lamenta, è qualcosa; ma
ereditare da lui, è un piacere!».
«Ma il brav'uomo ha orrore dei suoi eredi; mi
ripete sempre che quella gente, mi ricordo i nomi, il signor Cardot,
il signor Berthier, ecc., l'hanno schiacciato come un uovo sotto un
carico di sassi».
«E voi volete fare la stessa fine?».
«Mio Dio! mio Dio!», esclamò la portiera. «Ah!
aveva ragione comare Fontaine quando mi diceva che avrei incontrato
degli ostacoli; però ha anche detto che riuscirò...».
«Sentite, cara signora Cibot... Che voi tiriate
fuori da questa storia una trentina di migliaia di franchi, è
possibile; ma all'eredità non bisogna neppure pensarci... Ieri sera
abbiamo discusso, il dottor Poulain e io, di voi e del vostro
affare...».
La Cibot balzò di nuovo sulla sedia.
«Che vi succede?».
«Ma se conoscevate il mio affare perché mi avete
lasciato chiacchierare come una pica?».
«Signora Cibot, io conoscevo il vostro affare ma
non sapevo niente della signora Cibot! Tanti clienti, tanti
caratteri...».
A questo punto la Cibot rivolse al suo futuro
consulente uno strano sguardo in cui apparve tutta la sua
diffidenza, e che Fraisier capì al volo.
XLVII • L'ABILE BATTUTA DI FRAISIER
«Continuo», disse Fraisier. «Dunque il nostro
amico Poulain è stato messo da voi in rapporto con il vecchio signor
Pillerault, prozio della contessa Popinot, e questa è una delle
ragioni del mio riguardo per voi. Poulain va a visitare il vostro
padrone di casa ogni quindici giorni (tenetene conto!) e da lui ha
saputo tutti questi particolari. Quel vecchio commerciante era
presente al matrimonio del suo pronipote (perché è uno zio da cui
ereditare, con una rendita di almeno quindicimila franchi; e da
venticinque anni vive come un monaco, spendendo appena mille scudi
l'anno...), e ha raccontato a Poulain tutto l'affare del matrimonio.
Sembra che quella baruffa sia stata provocata proprio dal vostro
buon musicista che, per vendicarsi, ha voluto disonorare la famiglia
del presidente. Chi ascolta una campana sola, sente un solo suono...
Il vostro malato dice di essere innocente, ma tutti lo considerano
un mostro...».
«Non mi stupirebbe se lo fosse!», esclamò la
Cibot. «Figuratevi che sono dieci anni che ci rimetto del mio, e lui
lo sa bene, usa i miei risparmi e non vuole mettermi nel
testamento... No, signore, non vuole farlo, è testardo come un
mulo... Sono dieci giorni che gliene parlo, ma il briccone fa finta
di nulla. Non apre bocca, e mi guarda con un'aria... Tutto quello
che mi ha detto è che mi raccomanderà al signor Schmucke».
«Pensa dunque di fare testamento a favore di
Schmucke?».
«Lascerà tutto a lui...».
«Sentite, cara signora Cibot; per farmi un'idea
precisa, per fare un piano, bisognerebbe che conoscessi il signor
Schmucke, che vedessi gli oggetti che compongono l'eredità, e che
avessi un colloquio con quell'ebreo di cui mi avete parlato;
insomma, lasciatevi guidare da me...».
«Vedremo, caro signor Fraisier».
«Come, vedremo!», disse Fraisier lanciando uno
sguardo inviperito alla Cibot, e parlando con il suo tono di voce
naturale. «Sono o non sono il vostro consulente? Intendiamoci bene».
La Cibot si sentì scoperta e avvertì un brivido
freddo nella schiena.
«Avete tutta la mia fiducia», rispose sentendosi
tra gli artigli di una tigre.
«Noi procuratori siamo abituati ai tradimenti dei
nostri clienti. Esaminate bene la vostra situazione, che è
eccellente. Se seguirete i miei consigli, uno dopo l'altro,
otterrete, ve lo garantisco, trenta o quarantamila franchi
dell'eredità... Ma questa bella medaglia ha il suo rovescio.
Supponete che la presidentessa sappia che l'eredità del signor Pons
vale un milione, e che voi intendete intaccarla, perché c'è sempre
della gente che si prende la briga di dire queste cose!...», disse
tra parentesi.
La parentesi, aperta e chiusa tra due pause, fece
fremere la Cibot, che subito pensò che sarebbe stato proprio
Fraisier a denunciarla.
«Cara cliente, in dieci minuti otterrebbe dal
signor Pillerault il vostro licenziamento dalla portineria, e vi
darebbero due ore per sloggiare...».
«E che mi farebbe mai!...», disse la Cibot
alzandosi in piedi con un atteggiamento da Bellona. «Resterei in
casa di quei due signori come donna di fiducia».
«Propio per questo vi tenderebbero una trappola,
e un bel mattino vi svegliereste in una cella, voi e vostro marito,
sotto un'accusa da pena di morte...».
«Io!», esclamò la Cibot, «io che non ho mai preso
un centesimo a nessuno!... Io!... io!...».
La Cibot parlò per cinque minuti, e Fraisier
osservò attentamente quella grande artista mentre eseguiva il suo
concerto di elogi a se stessa. Era freddo, beffardo; il suo sguardo
attraversava la Cibot come uno stiletto; rideva tra sé, e la
parrucca secca gli si muoveva sul cranio. Era Robespierre all'epoca
in cui questo Silla francese componeva quartine.
«E come? e perché? e con quale pretesto?», chiese
la donna concludendo.
«Volete sapere in quale modo potreste essere
ghigliottinata?...».
La Cibot si sedette, pallida come una morta,
perché questa frase le cadde tra capo e collo come il coltello della
legge. E guardò Fraisier smarrita.
«Ascoltatemi bene, mia cara bambina...», continuò
Fraisier reprimendo un moto di soddisfazione provocato dallo
spavento della sua cliente.
«Preferirei lasciar perdere...», sussurrò la
Cibot.
E fece per alzarsi.
«Ferma... dovete sapere cosa rischiate, ho il
dovere di chiarirvi tutto», disse Fraisier con tono imperioso.
«Dunque sareste licenziata dal signor Pillerault, e questo è certo.
Mettiamo che diventiate la domestica di quei due signori; benissimo!
Ma sarebbe una dichiarazione di guerra tra la presidentessa e voi.
Fate di tutto per impadronirvi dell'eredità, per trarne comunque
qualche vantaggio...».
La Cibot fece un gesto.
«Non vi biasimo, non è compito mio», disse
Fraisier rispondendo al gesto della sua cliente. «Quest'impresa è
una battaglia, e voi arriverete più lontano di quanto non pensiate!
Quando ci si fissa su un'idea, si picchia duro...».
Altro gesto di diniego della Cibot, che si
impettì.
«Su, su, piccola mia», continuò Fraisier con una
orribile familiarità, «che arriverete molto lontano...».
«Come! mi prendete per una ladra?».
«Andiamo, mamma, avete già una ricevuta del
signor Schmucke che vi è costata poco... E siete qui a confessarvi,
signora mia bella... Non mentite al vostro confessore, soprattutto
quando il confessore sa leggere nel vostro cuore...».
La Cibot fu spaventata dalla perspicacia di
quell'uomo, e comprese la ragione della profonda attenzione con cui
l'aveva ascoltata.
«Ebbene», continuò Fraisier, «potete prevedere
che la presidentessa non si lascerà superare da voi in questa corsa
all'eredità... Sarete osservata, spiata... Supponiamo che riusciate
a farvi iscrivere nel testamento del signor Pons... Benissimo. Un
bel giorno arriva la giustizia, viene sequestrata una tisana, si
trova dell'arsenico in fondo alla tazza; voi e vostro marito venite
arrestati, giudicati, condannati, come se aveste voluto uccidere il
signor Pons, per mettere le mani sul vostro lascito... A Versailles
ho difeso una povera donna, verosimilmente innocente come lo sareste
voi in una situazione simile; le cose stavano proprio come vi ho
detto, e tutto quello che ho potuto fare è stato di salvarle la
vita. La sventurata ha avuto vent'anni di lavori forzati e li sta
scontando a Saint-Lazare».
Lo spavento della Cibot raggiunse il massimo.
Diventata pallida, guardava quell'ometto magro con gli occhi
verdastri, come quella povera Mora, accusata di fedeltà alla sua
religione, doveva guardare l'inquisitore nel momento in cui si
sentiva condannata al rogo.
«Dunque voi dite, mio buon signor Fraisier, che
lasciando fare a voi, affidandovi la cura dei miei interessi, potrei
ottenere qualcosa, senza temere niente?».
«Vi garantisco trentamila franchi», disse
Fraisier molto sicuro del fatto suo.
«Insomma, voi sapete quanto io voglia bene al
caro dottor Poulain», continuò lei con la voce più insinuante, «è
stato lui a dirmi di venire da voi; e quel degno uomo non mi ha
certo mandato qui per sentirmi dire che sarò ghigliottinata come
un'avvelenatrice...».
Scoppiò in lacrime, tanto l'aveva fatta
rabbrividire l'idea della ghigliottina; aveva i nervi scossi, il
terrore le attanagliava il cuore, perse la testa. Fraisier godeva
del suo trionfo. Accorgendosi dell'esitazione della cliente, si era
visto sfuggire l'affare, e allora aveva voluto domare la Cibot,
spaventarla, stupirla, dominarla, legata mani e piedi. La portiera,
entrata in quello studio come una mosca precipita in una tela di
ragno, doveva restarvi impigliata, avvolta e servire da cibo
all'ambizione di quel piccolo leguleio. Infatti Fraisier, con
quell'affare, voleva garantirsi la vecchiaia, l'agiatezza, il
benessere e la considerazione. La sera prima, tutto era stato
soppesato, esaminato accuratamente, con la lente, tra Poulain e lui.
Il dottore aveva descritto Schmucke all'amico Fraisier e le loro
menti vivaci avevano sondato ogni ipotesi, esaminato i vantaggi e i
pericoli. In uno slancio di entusiasmo, Fraisier aveva esclamato:
«Quest'affare è la nostra fortuna!». E aveva promesso a Poulain un
posto di primario all'ospedale di Parigi, e a se stesso di diventare
giudice di pace della circoscrizione.
Giudice di pace! Per quell'uomo pieno di
capacità, dottore in legge ma povero, era una chimera talmente
remota che vi pensava come gli avvocati-deputati pensano alla
zimarra e i preti italiani alla tiara. Era una follia! Il giudice di
pace signor Vitel, davanti al quale Fraisier difendeva le sue cause,
era un vecchio di sessantanove anni, piuttosto malato, che diceva di
voler andare in pensione, e Fraisier parlava a Poulain del suo sogno
di esserne il successore, come Poulain fantasticava con Fraisier di
una ricca ereditiera da sposare, dopo averle salvato la vita. Non si
può immaginare quali bramosie susciti un posto di lavoro a Parigi.
Abitare a Parigi è un desiderio universale. Basta che si renda
vacante uno spaccio di tabacchi o di francobolli perché cento donne
insorgano come un sol uomo e muovano tutti i loro amici per
ottenerlo. La sola probabilità che si renda vacante una delle
ventiquattro esattorie di Parigi provoca una sommossa di pressioni e
richieste alla Camera dei deputati! Questi posti si assegnano in
consiglio dei ministri, la nomina è un affare di Stato. Ora, lo
stipendio di un giudice di pace a Parigi è di circa seimila franchi.
L'incarico di cancelliere del tribunale ne vale centomila. È uno dei
posti più invidiati dell'amministrazione giudiziaria. Fraisier,
giudice di pace, amico di un primario d'ospedale, avrebbe avuto un
ricco matrimonio, e avrebbe fatto sposare anche il dottor Poulain;
in questo modo si sarebbero aiutati a vicenda.
XLVIII • DOVE LA CIBOT È PRESA NELLA PROPRIA RETE
La notte aveva passato il suo rullo di piombo su
tutti i pensieri dell'ex procuratore di Mantes, e un piano
formidabile era germogliato, un piano intenso, fertile di messi e di
intrighi. La Cibot era il perno del dramma. Per questo, la
ribellione di quello strumento doveva essere repressa; non era stata
prevista, ma l'ex procuratore aveva appena domato l'audace portiera
impiegando tutte le forze della sua natura velenosa.
«Cara signora Cibot, su, rassicuratevi», disse
prendendole la mano.
Quella mano, fredda come la pelle di un serpente,
produsse un'impressione terribile sulla portiera: ne risultò una
specie di reazione fisica che fece cessare la sua emozione; pensò
che era meno pericoloso toccare il rospo Astaroth della signora
Fontaine che non quel boccale di veleni coperto da una parrucca
rossastra e che parlava cigolando come una porta.
«Non crediate che io voglia spaventarvi senza
motivo», continuò Fraisier dopo aver notato quel nuovo moto di
repulsione nella Cibot. «La terribile fama della presidentessa è
fondata su fatti talmente noti in tribunale che potreste chiedere
informazioni a chiunque. Il gran signore che ha rischiato di essere
interdetto è il marchese d'Espard. Il marchese d'Esgrignon è quello
che è stato salvato dalla galera. Il giovane, ricco, bello, di belle
speranze, che doveva sposare una signorina di una delle prime
famiglie di Francia, e che si è impiccato in una cella della
Conciergerie, è il celebre Lucien de Rubempré della cui vicenda, a
suo tempo, parlò tutta Parigi. Si trattava di un'eredità: l'eredità
di una mantenuta, la famosa Esther, che ha lasciato molti milioni, e
quel giovane veniva accusato di averla avvelenata poiché era lui
l'erede stabilito dal testamento. Quel giovane poeta non era a
Parigi quando la ragazza è morta, e non sapeva di essere l'erede!...
Non è possibile essere più innocenti di così. Ebbene, dopo essere
stato interrogato dal signor Camusot, quel giovane si è impiccato in
cella... La giustizia è come la medicina: ha le sue vittime. Nel
primo caso, si muore per la società; nel secondo, per la scienza»,
disse Fraisier con un sorriso raccapricciante. «Come vedete, conosco
bene il pericolo... Io, povero, piccolo e oscuro procuratore, sono
già stato rovinato dalla giustizia. L'esperienza che ne ho fatto mi
è costata cara, ed è tutta a vostra disposizione...».
«No grazie...», disse la Cibot, «rinuncio a
tutto! Vuol dire che avrò creato un ingrato... Voglio soltanto
quello che mi spetta... Ho trent'anni di onestà, signore. Il mio
signor Pons dice che nel testamento mi raccomanderà al suo amico
Schmucke; bene, finirò i miei giorni in pace, in casa di quel bravo
tedesco...».
Fraisier aveva passato il segno: aveva
scoraggiato la Cibot; ora doveva cancellare le tristi impressioni
che la donna aveva avuto.
«Non disperiamo», disse, «andate a casa
tranquilla. Andrà tutto bene».
«Ma allora cosa devo fare, mio buon Fraisier, per
avere una rendita e...».
«E non avere rimorsi?», disse lui con vivacità,
interrompendo la Cibot. «Eh! ma è proprio per questa ragione che
sono stati creati gli uomini d'affari; in questi casi non è
possibile ottenere nulla se non ci si attiene ai termini di legge...
Voi non conoscete le leggi, io le conosco... Con me, sarete dalla
parte della legalità, e vi godrete in pace quello che riuscirete ad
avere, perché la coscienza è affare vostro».
«Ebbene, parlate!», disse la Cibot, resa curiosa
e felice da queste parole.
«Non so; non ho studiato a fondo la questione;
per ora mi sono occupato soltanto degli ostacoli. Innanzitutto
bisogna spingere perché il testamento venga fatto, e in questo non
sbaglierete strada; ma soprattutto cerchiamo di sapere a favore di
chi Pons lascerà la sua fortuna perché, se foste voi l'erede...».
«No, no, non mi vuole bene! Ah! se avessi saputo
quanto valevano i suoi gingilli, e avessi saputo prima quello che mi
ha detto sui suoi amori, oggi non sarei affatto preoccupata».
«Insomma», continuò Fraisier, «andate avanti! I
moribondi hanno delle strane fantasie, cara signora Cibot, e
disattendono tante aspettative. Che faccia testamento, e poi
vedremo. Ma prima di tutto si tratta di valutare gli oggetti di cui
è composta la successione. Perciò mettetemi in contatto con l'ebreo,
con quel Rémonencq, che ci saranno molto utili... Fidatevi
completamente di me; sono a vostra disposizione. Io sono l'amico del
mio cliente, quando ha fiducia in me, nella buona e nella cattiva
sorte. O amico o nemico: il mio carattere è questo».
«Bene. Mi rimetto a voi», disse la Cibot, «e
quanto all'onorario, il signor Poulain...».
«Non parliamone», disse Fraisier. «Fate in modo
che sia sempre Poulain a occuparsi del malato; il dottore è una
delle persone più oneste e pure che io conosca; e vi rendete conto
che ci serve una persona sicura... Poulain è molto meglio di me, io
sono diventato cattivo».
«Ne avete l'aria», disse la Cibot, «ma mi fiderò
di voi...».
«E farete bene!», disse. «Venite pure da me
quando succede qualcosa... Siete una donna di spirito, andrà tutto
bene».
«Arrivederci, caro signor Fraisier; state bene...
Serva vostra».
Fraisier accompagnò la cliente alla porta e lì,
come il giorno prima col dottore, le disse l'ultima parola:
«Se riuscirete a far richiedere la mia assistenza
dal signor Pons, sarà un grande passo avanti».
«Tenterò», rispose la Cibot.
«Sentite, mamma Cibot», riprese a dire Fraisier
facendo rientrare la donna nello studio, «conosco molto bene il
signor Trognon, il notaio... è il notaio del quartiere... Se il
signor Pons non ha un notaio, parlategli di lui... fateglielo
assumere».
«Capito», rispose la Cibot.
Mentre usciva, la portiera udì il fruscio di una
veste e il rumore di un passo pesante che voleva essere leggero. Una
volta sola e in strada, la portiera, dopo aver camminato per un po',
ritrovò la sua libertà di spirito. Sebbene fosse rimasta sotto
l'influenza di quell'incontro e avesse ancora una gran paura del
patibolo, della giustizia, dei giudici, prese una decisione molto
naturale e che l'avrebbe messa in una situazione di conflitto sordo
con il suo terribile consulente.
«Ma che bisogno ho», si disse, «di avere dei
soci? Prima di tutto mi faccio il gruzzolo, e poi prenderò tutto
quello che mi offriranno per servire i loro interessi...».
Questo pensiero avrebbe affrettato, come stiamo
per vedere, la fine dello sventurato musicista.
XLIX • LA CIBOT A TEATRO
«Ebbene, caro signor Schmucke», disse la Cibot
entrando nell'appartamento, «come va il nostro caro adorato
malato?».
«Non bene», rispose il tedesco. «Bons ha delirato
per tutta la notte».
«E cosa diceva?».
«Sciocchezze! Che voleva lasciarmi tutta la sua
fortuna, a condizione di non vendere niente... E piangeva!
Pover'uomo! Mi ha fatto tanto male!».
«Passerà, tesoro mio!», riprese a dire la
portiera. «Vi ho fatto aspettare per la colazione... sono le nove
passate... Ho avuto molto da fare... per voi. Non abbiamo più un
soldo, e ho dovuto procurarmi del denaro!...».
«E come?», chiese il pianista.
«Sì, mia zia...».
«Quale zia?».
«Oh, che caro uomo! com'è ingenuo! Siete proprio
un santo, un amore, un arcivescovo d'innocenza, un uomo da
impagliare, come diceva un vecchio attore. Ma come! siete a Parigi
da vent'anni, avete visto, che so, la rivoluzione di Luglio, e non
conoscete il monte di pietà... le agenzie dove prestano del denaro,
impegnando la roba di casa!... Ho impegnato le nostre posate
d'argento, otto, scanalate. Vuol dire che Cibot mangerà con posate
d'Algeri; come suol dirsi, buon viso a cattivo gioco. E non vale la
pena di parlarne al nostro cherubino... lo metterebbe in agitazione,
lo farebbe ingiallire, ed è già abbastanza irritato. Prima di tutto
salviamolo, e poi vedremo. Ogni cosa a suo tempo. E di necessità
faremo virtù, non è vero?...».
«Che donna buona! cuore sublime!», disse il
povero musicista prendendo una mano della Cibot e appoggiandosela
sul cuore con un'espressione di tenerezza.
Quell'angelo sollevò gli occhi al cielo, ed erano
pieni di lacrime.
«Finitela, papà Schmucke, siete buffo. Questa è
proprio bella! Sono una vecchia figlia del popolo, ho il cuore in
mano. Vedete», disse battendosi il petto, «ne ho tanto quanto ne
avete voi due insieme, che siete due anime d'oro...».
«Papà Schmucke?...», disse il musicista. «No...
questo toccare il fondo del dolore, piangere lacrime di sangue, e
salire al cielo, tutto questo mi uccide! Non sopravviverò a
Bons...».
«Ah! lo credo bene. Così vi ammazzate...
Ascoltate, tesoro...».
«Tesoro!».
«Allora, figlio mio...».
«Figlio?».
«Cocco mio, allora! se preferite».
«Non è più chiaro...».
«Insomma, lasciate che ci pensi io a guidarvi,
altrimenti, se continuate così, ne avrò due di malati... Secondo il
mio modesto parere, a questo punto dobbiamo dividerci i compiti. Non
potete più andare a dare lezioni per Parigi, perché vi stanca e
allora non sarete utile in casa, dove invece bisogna fare le nottate
perché il signor Pons è sempre più malato. Oggi stesso andrò ad
avvertire tutte le vostre allieve che siete malato, va bene?... Così
passerete le notti accanto al nostro amico, e dormirete la mattina
dalle cinque alle due del pomeriggio, per esempio. Quanto a me, mi
occuperò del servizio più faticoso, quello del giorno, perché si
tratta di prepararvi la colazione, il pranzo, e accudire il malato,
alzarlo dal letto, cambiarlo, medicarlo... Con tutto quello che sto
facendo, non potrei continuare dieci giorni. E sono già trenta
giorni che siamo sotto pressione. E che vi succederebbe se mi
ammalassi?... E anche voi, guardate come siete ridotto, da
rabbrividire, per aver vegliato il signore stanotte...».
Portò Schmucke davanti allo specchio, e Schmucke
si vide molto cambiato.
«Allora, se siete d'accordo, vi servirò subito la
colazione. Poi guarderete il nostro amore fino alle due. Datemi la
lista delle vostre allieve e farò in fretta; sarete libero per una
quindicina di giorni. Andrete a letto al mio ritorno, e riposerete
fino a stasera».
La proposta era talmente saggia, che Schmucke vi
aderì immediatamente.
«Acqua in bocca col signor Pons; capite bene che
penserebbe d'essere perduto se gli dicessimo che deve sospendere le
sue funzioni in teatro e le lezioni. Il povero signore potrebbe
pensare di non ritrovare più le sue allieve... sciocchezze... Il
signor Poulain dice che se vogliamo salvare il nostro Beniamino
dobbiamo lasciarlo assolutamente tranquillo».
«Ah, bene, bene! Preparate la colazione, io
intanto faccio la lista e gli indirizzi!... Avete ragione, non ce la
farei!».
Un'ora dopo, la Cibot si mise in ghingheri e uscì
di casa in pompa magna con grande stupore di Rémonencq,
ripromettendosi di rappresentare degnamente la donna di fiducia dei
due schiaccianoci nei collegi e nelle famiglie dove si trovavano le
allieve dei due musicisti.
È inutile riferire le diverse chiacchiere,
eseguite come variazioni su un tema, cui la Cibot si abbandonò con
le direttrici dei collegi e nelle famiglie; basterà la scena che si
svolse nell'ufficio direttoriale dell'ILLUSTRE GAUDISSART, dove la
portiera entrò superando inaudite difficoltà. A Parigi i direttori
di teatro sono protetti meglio dei re e dei ministri. La ragione
delle forti barriere tra loro e il resto dei mortali si comprende
facilmente: i re devono difendersi soltanto dalle ambizioni; i
direttori di teatro devono temere l'amor proprio di artisti e
autori.
La Cibot superò tutte le distanze grazie
all'immediata intimità che si stabilì tra lei e la portiera. I
portieri si riconoscono tra loro, come tutte le persone della stessa
professione. Ogni mestiere ha i suoi shiboleth come ha le sue
ingiurie e le sue stigmate.
«Ah! signora, voi siete la portiera del teatro»,
aveva detto la Cibot. «Io sono soltanto la povera portiera di una
casa di rue de Normandie dove abita il signor Pons, il vostro
direttore d'orchestra. Oh! come sarei felice di essere al vostro
posto, veder passare gli attori, le ballerine, gli autori! È il
bastone di maresciallo del nostro mestiere, come diceva quel vecchio
attore».
«E come sta quel bravo signor Pons?», chiese la
portiera.
«Non sta per niente bene; sono ormai due mesi che
non si alza dal letto, ed è certo che lascerà la casa con i piedi in
avanti».
«Sarà una grande perdita...».
«Sì. Vengo da parte sua a spiegare al vostro
direttore la situazione in cui si trova. Fate in modo, mia cara, che
ci possa parlare...».
«Una signora da parte del signor Pons!».
Fu così che il commesso del teatro addetto
all'ufficio del direttore annunciò la Cibot, che gli era stata
raccomandata dalla portiera. Gaudissart era appena arrivato per una
prova. Il caso volle che nessuno avesse da parlargli, e che gli
autori dello spettacolo e gli attori fossero in ritardo; fu contento
di avere notizie del suo direttore d'orchestra, fece un gesto
napoleonico, e la Cibot entrò.
L • UNA REDDITIZIA IMPRESA TEATRALE
L'ex commesso viaggiatore, direttore di un teatro
alla moda, imbrogliava la sua società in accomandita considerandola
la sua legittima sposa. Aveva così conosciuto una prosperità
finanziaria che aveva influito sul suo aspetto fisico. Diventato
forte e grosso, colorito dalla buona tavola e dal benessere,
Gaudissart si era trasformato in un Mondor.
«Stiamo per diventare Beaujon!», diceva cercando
di essere il primo a ridere di se stesso.
«Per ora sei ancora Turcaret», gli rispose
Bixiou, che spesso lo sostituiva nelle grazie della prima ballerina
del teatro, la celebre Héloïse Brisetout.
L'ex ILLUSTRE GAUDISSART sfruttava il suo teatro
unicamente e brutalmente nel proprio interesse. Dopo essersi fatto
accettare come collaboratore in numerosi balletti, commedie e
vaudevilles, ne aveva acquistata l'altra parte approfittando delle
difficoltà economiche che assillano sempre gli autori. Le commedie e
i vaudevilles, sempre rappresentati dopo i drammi di successo,
procuravano a Gaudissart un po' di monete d'oro ogni giorno.
Trafficava per procura con i biglietti e se ne era assegnati, come
spettanza del direttore, un certo numero che gli permetteva di
decimare gli incassi. Queste tre forme di competenze economiche,
oltre la vendita dei palchi e i doni delle cattive attrici che
avevano l'ambizione di recitare una particina qualunque, di esibirsi
in costume da paggio o da regina, aumentavano così bene la sua terza
parte dei profitti che gli accomandanti, cui erano versati gli altri
due terzi, ricevevano appena il decimo dei proventi. Tuttavia questo
decimo costituiva pur sempre un interesse del quindici per cento sul
capitale. Così Gaudissart, forte di questo quindici per cento di
dividendo, parlava della propria intelligenza, della propria onestà,
del proprio zelo e della fortuna dei propri soci. Quando il conte
Popinot, fingendosi interessato, chiese al signor Matifat, al
generale Gouraud, genero di Matifat, e a Crevel, se fossero contenti
di Gaudissart, Gouraud, che era diventato pari di Francia, rispose:
«Dicono che ci deruba, ma è talmente spiritoso, è
un così bravo ragazzo, che noi siamo contenti...».
«Allora è come nella favola di La Fontaine»,
disse l'ex ministro sorridendo.
Gaudissart investiva i suoi capitali in affari
fuori del teatro. Avendo valutato bene i Graff, gli Schwab e i
Brunner, si associò nelle imprese delle ferrovie lanciate da quella
società. Nascondendo la sua abilità sotto la franchezza e la
noncuranza del libertino, del debosciato, sembrava che pensasse
soltanto ai piaceri e ai vestiti; invece pensava a tutto, e metteva
a profitto la grande esperienza che aveva acquisito viaggiando.
Questo nuovo ricco, che non si prendeva sul serio, abitava in un
appartamento lussuoso, arredato dal suo scenografo, dove offriva
cene e feste alla gente famosa. Fastoso, col gusto delle cose fatte
bene, si comportava come un uomo alla mano, e sembrava tanto meno
pericoloso in quanto aveva conservato la loquacità del suo antico
mestiere, come lui stesso diceva, aggiungendovi il gergo delle
quinte. Ora, poiché in teatro gli artisti parlano chiaro, Gaudissart
si ispirava molto allo spirito delle quinte, che hanno un loro
spirito tipico, per darsi l'aria di uomo superiore, accompagnandola
all'allegra facezia del commesso viaggiatore. In quel periodo
pensava di vendere i suoi diritti e passare, secondo una sua
espressione, ad altri esercizi. Voleva dirigere una società
ferroviaria, diventare una persona seria, un amministratore, e
sposare la figlia di uno dei più ricchi sindaci di Parigi, la
signorina Minard. Sperava di essere nominato deputato sulla sua
linea e arrivare, grazie alla protezione di Popinot, al consiglio di
Stato.
«A chi ho l'onore di parlare?», disse Gaudissart
fermando sulla Cibot uno sguardo direttoriale.
«Sono la donna di fiducia del signor Pons,
signore».
«Ebbene, come sta quel bravo ragazzo?».
«Male, molto male, signore».
«Diavolo! diavolo! mi dispiace... Andrò a
trovarlo, perché è uno di quei rari uomini...».
«Ah, sì, signore, un vero cherubino... Ancora mi
chiedo come potesse un uomo simile trovarsi bene in un teatro...».
«Ma, signora, il teatro è un luogo di correzione
dei costumi...», disse Gaudissart. «Povero Pons!... parola d'onore,
bisognerebbe avere il seme per conservare quella specie... è un uomo
modello, e che talento!... Quando pensate che potrà riprendere
servizio? Perché il teatro, disgraziatamente, somiglia alle
diligenze che, vuote o piene, quando è ora devono partire... Qui il
sipario si alza tutti i giorni alle sei... e staremmo freschi a
commuoverci! non ne verrebbe fuori della buona musica... Ma insomma,
in che stato è?».
«Ahimè, mio buon signore», disse la Cibot
estraendo il fazzoletto e portandoselo agli occhi, «è terribile
dirlo, ma credo che avremo la sventura di perderlo, anche se lo
curiamo come la pupilla dei nostri occhi... il signor Schmucke e
io...; anzi, vengo a dirvi che non dovete più contare su quel degno
signor Schmucke, che dovrà farsi tutte le nottate... Non si può fare
a meno di fare come se ci fosse ancora qualche speranza, e tentare
di strappare alla morte quel degno e caro uomo... Il medico non ci
spera più...».
«E di che muore?».
«Di dolore, d'itterizia, di fegato, e tutto
questo complicato da molte faccende di famiglia».
«... e dal medico», disse Gaudissart. «Avrebbe
dovuto prendere il dottor Lebrun, il nostro medico; non gli sarebbe
costato nulla...».
«Il signore ne ha uno che è un dio...; ma cosa
può fare un medico, malgrado il suo talento, contro così tante
cause?».
«Avevo proprio bisogno di quei due schiaccianoci
per la musica del mio nuovo spettacolo...».
«Posso fare io qualcosa?...», disse la Cibot con
un'aria degna di Jocrisse.
Gaudissart scoppiò a ridere.
«Signore, io sono la donna di fiducia, e ci sono
molte cose che quei signori...».
Sentendo ridere Gaudissart, una donna esclamò:
«Se ridi si può entrare, vecchio mio».
E la prima ballerina irruppe nell'ufficio
gettandosi sull'unico divano che c'era. Era Héloïse Brisetout,
avvolta in una di quelle magnifiche sciarpe chiamate «algerine»...
«Cos'è che ti fa ridere?... La signora?... È qui
per una scrittura?...», chiese la ballerina lanciando uno di quegli
sguardi da artista a artista che potrebbe essere il soggetto di un
quadro.
Héloïse, ragazza eccessivamente letteraria,
famosa nell'ambiente della bohème, amica di grandi artisti,
elegante, raffinata, graziosa, era più intelligente di quanto non
siano comunemente le prime ballerine; mentre faceva quella domanda,
aspirava delle essenze intense da un bruciaprofumi.
«Signora, tutte le donne si equivalgono quando
sono belle, e se io non aspiro un po' di peste in bottiglia e non mi
metto della polvere di mattone sulle guance...».
«Con tutta la roba che la natura vi ha già messo,
sarebbe un vero pleonasmo, figlia mia!», disse Héloïse lanciando uno
sguardo al suo direttore.
«Sono una donna perbene...».
«Peggio per voi», disse Héloïse, «non tutte
riescono a farsi mantenere! e io, signora, ci sono riuscita proprio
bene!».
«Come, peggio per me! Potete portare addosso
tutte le «algerine» che volete e aggiustarvi i capelli», disse la
Cibot, «non riceverete mai tutte le dichiarazioni che ho ricevuto
io, signora! E non varrete mai quanto la bella ostricaia del Cadran
bleu...».
La ballerina si alzò di scatto, si mise
sull'attenti e portò il dorso della mano destra alla fronte, come un
soldato che saluti il suo generale.
«Come!», disse Gaudissart, «voi sareste la bella
ostricaia di cui mi parlava mio padre?».
«Allora la signora non conosce la cachucha né la
polka!... visto che ha cinquant'anni passati!...», disse Héloïse.
La ballerina assunse una posa drammatica e
declamò questo verso:
Siamo amici, Cinna!...
«Su, Héloïse, la signora non ne ha voglia,
lasciala in pace».
«La signora sarebbe la nuova Héloïse?...», disse
la portiera con una finta ingenuità piena di sarcasmo.
«Mica male la vecchia!», esclamò Gaudissart.
«Detto e stradetto», disse la ballerina, «questo
gioco di parole ha la barba grigia; trovatene un altro, vecchia... o
prendete una sigaretta».
«Scusatemi, signora», disse la Cibot, «sono
troppo triste per continuare a rispondervi; i miei due padroni sono
molto malati... e io ho dovuto impegnare, per dargli da mangiare ed
evitargli dei dispiaceri, perfino gli abiti di mio marito, proprio
stamani, e questa è la ricevuta...».
«Oh! la cosa diventa drammatica!», esclamò la
bella Héloïse, «di che si tratta?».
«La signora», continuò la Cibot, «irrompe qui
come...».
«Come una prima ballerina», disse Héloïse. «Su,
vi suggerisco io, médème!».
«Su, ora ho da fare!», disse Gaudissart. «Basta
con queste storie. Héloïse, la signora è la donna di fiducia del
nostro povero direttore d'orchestra che sta morendo; è venuta a
dirmi di non contare più su di lui; questo mi mette in difficoltà».
«Ah, pover'uomo! bisogna fare una
rappresentazione a suo beneficio».
«Sarebbe la sua rovina!», disse Gaudissart.
«Rischierebbe di dover dare cinquecento franchi agli ospizi, che non
risconoscono altri sventurati a Parigi tranne i loro. No, prendete,
mia buona donna, poiché concorrete al premio Montyon...»
Gaudissart suonò, e subito si presentò
l'inserviente del teatro.
«Dite al cassiere di portarmi un biglietto da
mille franchi. Sedetevi, signora...».
«Ah, la poveretta!... eccola che piange!...»,
esclamò la ballerina. «È stupido... Su, mammina, andremo a trovarlo,
consolatevi... Ma tu, cinese, dimmi un po'«, disse al direttore
spingendolo in un angolo, «tu vuoi darmi la parte della protagonista
nel balletto di Arianna. È perché ti sposi, e sai che potrei darti
delle noie!...».
«Héloïse, ho il cuore ricoperto di rame, come una
fregata!».
«Tirerò fuori i figli che ho avuto da te! Me li
farò prestare!».
«Ho parlato apertamente della nostra
relazione...».
«Sii buono, dai il posto di Pons a Garangeot;
quel povero ragazzo ha del talento e non ha un soldo. Ti prometto di
lasciarti in pace».
«Ma aspetta che Pons sia morto... il poveretto
potrebbe anche tornare».
«Oh! questo proprio no, signore...», disse la
Cibot. «Dalla notte passata è fuori di testa, sta delirando.
Purtroppo è alla fine».
«E allora fai fare l'interim a Garangeot!», disse
Héloïse. «Ha tutta la stampa dalla sua...».
In quel momento entrò il cassiere con in mano due
biglietti da cinquecento franchi.
«Dateli alla signora», disse Gaudissart. «Addio,
brava donna; curate bene quella cara persona e ditegli che andrò a
trovarlo, domani o nei prossimi giorni... appena potrò».
«Un uomo in mare», disse Héloïse.
«Ah, signore, dei cuori come il vostro si trovano
solo a teatro. Che Dio vi benedica!».
«Su quale conto registriamo la somma?», chiese il
cassiere.
«Vi firmo il mandato, e voi lo registrate in
conto gratificazioni».
Prima di uscire, la Cibot fece una bella
riverenza alla ballerina, e poté udire questa domanda di Gaudissart
all'ex amante:
«Garangeot è in grado di farmi la musica del
nostro balletto dei Mohicani in dodici giorni? Se mi risolve il
problema, avrà il posto di Pons.
LI • CASTELLI IN ARIA
La portiera, ricompensata meglio per aver causato
del male che se avesse fatto una buona azione, eliminò ogni entrata
dei due amici e li privò di ogni mezzo di sussistenza, nel caso che
Pons recuperasse la salute. Questa perfida manovra doveva produrre
in pochi giorni il risultato desiderato dalla Cibot: la vendita dei
quadri tanto agognati da Élie Magus. Per realizzare questa prima
spoliazione, la Cibot doveva tener buono il terribile collaboratore
che si era procurata, l'avvocato Fraisier, e ottenere una totale
discrezione da parte di Élie Magus e di Rémonencq.
Quanto all'alverniate, era arrivato per gradi a
una di quelle passioni quali sono concepite da persone prive
d'istruzione che vengono a Parigi dalla provincia, con le idee fisse
che ispira l'isolamento nelle campagne, con l'ignoranza delle nature
primitive e la brutalità dei loro desideri che si trasformano in
idee fisse. La bellezza virile della Cibot, la sua vivacità, il suo
spirito da mercato, erano stati notati dal rigattiere, che voleva
farne la propria amante portandola via a Cibot: una specie di
bigamia cha a Parigi è più comune di quanto non si creda, nelle
classi inferiori. Ma l'avarizia fu un nodo scorsoio che serrò il suo
cuore ogni giorno di più e finì per soffocare la ragione. Così
Rémonencq, valutando quarantamila franchi le spettanze di Élie Magus
e le sue, passò dalla colpa all'omicidio desiderando la Cibot come
moglie legittima. Questo amore assolutamente interessato lo portò,
durante le sue lunghe fantasticherie di fumatore, appoggiato allo
stipite della porta, a desiderare la morte del piccolo sarto. Così
vedeva quasi triplicati i suoi capitali, e pensava quale eccellente
commerciante sarebbe stata la Cibot e che bella figura avrebbe fatto
in un magnifico negozio sul boulevard. Questa duplice ingordigia
inebriava Rémonencq. Ecco che affittava una bottega sul boulevard de
la Madeleine, lo riempiva delle più belle curiosità della collezione
del defunto Pons. Poi, dopo essersi coricato tra lenzuola d'oro e
aver visto milioni tra le volute azzurre della sua pipa, si
risvegliava e si trovava davanti il piccolo sarto che stava
spazzando il cortile, l'ingresso e la strada, mentre l'alverniate
apriva la vetrina della bottega ed esponeva gli oggetti; perché, da
quando Pons si era ammalato, Cibot sostituiva la moglie nelle sue
mansioni. Dunque l'alverniate considerava quel sartino olivastro,
abbronzato, l'unico ostacolo che si opponesse alla sua felicità, e
si chiedeva in quale modo avrebbe potuto liberarsene. Quella
passione nascente riempiva di orgoglio la Cibot, che ormai aveva
l'età in cui le donne cominciano a capire che possono invecchiare.
Una mattina la Cibot, mentre cominciava la sua
giornata, si mise a guardare con aria pensierosa Rémonencq che stava
sistemando in vetrina le sue cianfrusaglie, e volle vedere fino a
che punto sarebbe arrivato il suo amore.
«Ebbene», le si avvicinò l'alverniate, «le cose
vanno come volete?».
«Siete voi a preoccuparmi», gli rispose la Cibot.
«Mi state compromettendo», aggiunse, «i vicini finiranno per
accorgersi degli sguardi che mi rivolgete».
Lasciò il portone ed entrò nella bottega.
«Questa sì che è un'idea!», disse Rémonencq.
«Devo parlarvi», disse la Cibot. «Gli eredi del
signor Pons stanno per muoversi, e sono in grado di procurarci molti
guai. Dio solo sa cosa non ci capiterebbe se mandassero delle
persone di loro fiducia a ficcare il naso dappertutto, come cani da
caccia. Io posso convincere il signor Schmucke a vendere qualche
quadro soltanto se mi volete così bene da mantenere il segreto...
oh! ma uno di quei segreti da non dire una parola neppure con la
testa sul ceppo... né da dove vengono i quadri, né chi li ha
venduti. Capite, una volta che il signor Pons sia morto e
sotterrato, che si trovino cinquantatré quadri invece di
sessantasette, chi ne saprà mai nulla! Del resto, se il signor Pons
ne avesse venduto qualcuno mentre era ancora vivo, non ci sarebbe
niente da dire...».
«Sì», rispose Rémonencq, «per me non è un
problema; ma il signor Élie Magus vorrà delle ricevute regolari».
«Avrete anche voi la vostra ricevuta! Credete che
ve la farei io?... La farà il signor Schmucke! Ma voi direte al
vostro ebreo», continuò la portiera, «di essere discreto quanto
voi».
«Saremo muti come pesci. È una regola del nostro
mestiere. Io so leggere ma non so scrivere; per questo ho bisogno di
una donna istruita e capace come voi!... Io che ho sempre pensato
soltanto a guadagnarmi il pane per la vecchiaia, vorrei tanto avere
dei piccoli Rémonencq... Finitela con quel vostro Cibot!».
«Ecco qua il vostro ebreo», disse la portiera.
«Possiamo metterci d'accordo».
«Ebbene, cara signora», disse Élie Magus, che
arrivava ogni tre giorni, la mattina presto, per sapere quando
avrebbe potuto comprare i suoi quadri, «a che punto siamo?».
«Nessuno vi ha parlato del signor Pons e dei suoi
aggeggi?», gli chiese la Cibot.
«Ho ricevuto», rispose Élie Magus, «una lettera
di un avvocato; ma siccome è un tipo che mi dà l'impressione di
essere un piccolo intrigante, e di quella gente non mi fido, non gli
ho neanche risposto. Dopo tre giorni è venuto a casa mia e ha
lasciato un biglietto da visita; ho detto al portiere che per quel
tipo non sarò mai in casa...».
«Siete un amore d'ebreo», disse la Cibot che non
conosceva bene la prudenza di Élie Magus. «Bene, figli miei, nel
giro di pochi giorni convincerò il signor Schmucke a vendervi sette
o otto quadri, al massimo dieci; ma a due condizioni. La prima,
segreto assoluto. Sarà stato il signor Schmucke a farvi venire qui,
siamo d'accordo, signore? E sarà stato il signor Rémonencq a
proporvi come acquirente al signor Schmucke. Insomma, qualunque cosa
accada, io non devo entrarci nel modo più assoluto. Siete disposto a
offrire quarantaseimila franchi per i quattro quadri?».
«Va bene», sospirò l'ebreo.
«Benissimo», continuò la portiera. «La seconda
condizione è che voi mi consegnerete quarantatremila franchi, e
comprerete i quadri per tremila dal signor Schmucke; Rémonencq ne
comprerà quattro per duemila, e darà a me la differenza... In questo
modo, capite, caro signor Magus, faccio fare a voi e a Rémonencq un
grande affare, a condizione di dividerne il guadagno tra noi tre. Vi
porterò da quell'avvocato, o sarà l'avvocato a venire qui. Stimerete
al prezzo conveniente per voi tutto quello che c'è in casa del
signor Pons, in modo che il signor Fraisier possa sapere con
certezza il valore dell'eredità. Ma non deve venire qui prima della
vendita, avete capito?...».
«Capito», disse l'ebreo, «ma ci vuole del tempo
per vedere le cose e stabilirne il prezzo».
«Avrete una mezza giornata. A questo penso io...
Parlatene tra voi, figli miei; e dopodomani si farà l'affare. Vado a
parlare con quel Fraisier, perché viene a sapere dal dottor Poulain
tutto quello che succede qui, ed è una vera seccatura farlo star
buono, quel tipo».
A metà strada tra la rue de Normandie e la rue de
la Perle la Cibot incontrò Fraisier che stava andando da lei, tanto
era impaziente di entrare in possesso, così diceva, degli elementi
dell'affare.
«Ma guarda! stavo proprio venendo da voi», disse
la Cibot.
Fraisier si lamentò di non essere stato ricevuto
da Élie Magus; ma la portiera spense il lampo di diffidenza che
stava spuntando dagli occhi del leguleio dicendogli che Magus era
appena tornato da un viaggio, e che al più tardi tra due giorni gli
avrebbe procurato un incontro con lui nell'appartamento di Pons, per
definire il valore della collezione.
«Comportatevi lealmente con me», le rispose
Fraisier. «Quasi certamente sarò incaricato di curare gli interessi
degli eredi del signor Pons. In tale posizione potrò esservi ancora
più utile».
Queste parole furono dette con un tono così
deciso che la Cibot tremò. Evidentemente quel faccendiere famelico
manovrava nel proprio interesse, come stava facendo lei; così decise
di accelerare la vendita dei quadri. Nelle sue congetture la Cibot
non si sbagliava. L'avvocato e il medico si erano accollati la spesa
di un abito nuovo per Fraisier, perché potesse presentarsi, vestito
decentemente, in casa della signora presidentessa Camusot de
Marville. Il tempo necessario alla confezione dell'abito era la sola
ragione del ritardo di quel colloquio, dal quale dipendeva la sorte
dei due amici. Dopo la visita alla Cibot, Fraisier si era riproposto
di andare a provare l'abito, il gilet e i pantaloni. Trovò tutto
pronto. Poi tornò a casa, si mise una parrucca nuova, e in un
calesse a nolo si avviò, intorno alle dieci del mattino, verso la
rue de Hanovre, dove sperava di poter ottenere udienza dalla
presidentessa. Fraisier, in cravatta bianca, guanti gialli, parrucca
nuova, profumato d'acqua di Portogallo, somigliava a uno di quei
veleni conservati in una fiala di cristallo e tappati da una
pergamena bianca, la cui etichetta, e tutto quanto, perfino il filo,
è vezzoso, e a maggior ragione pericoloso. La sua aria risoluta, la
faccia brufolosa, gli occhi verdi, l'impressione di cattiveria,
colpivano come nubi in un cielo blu. Nel suo studio, così come si
era presentato alla Cibot, era il volgare coltello col quale un
assassino ha commesso un crimine; ma alla porta della presidentessa,
era l'elegante pugnale che una giovane signora ripone nel suo
piccolo scrittoio.
LII • IL FRAISIER IN FIORE
In rue de Hanovre c'era stato un grande
cambiamento. Il visconte e la viscontessa Popinot, l'ex ministro e
sua moglie, non avevano voluto che il presidente e la presidentessa
andassero ad abitare in un appartamento d'affitto, lasciando la casa
che davano in dote alla figlia. Dunque il presidente e sua moglie si
sistemarono al secondo piano, liberato dalla vecchia signora che
voleva andare a finire i suoi giorni in campagna. La signora
Camusot, che continuò ad avere con sé Madeleine Vivet, la cuoca e il
domestico, era tornata alle ristrettezze del punto di partenza,
addolcite da un appartamento da quattromila franchi, libero da
canone d'affitto, e da uno stipendio di diecimila franchi. Questa
aurea mediocritas già soddisfaceva poco la signora de Marville che
pretendeva una condizione economica pari alla sua ambizione; ma la
cessione di tutti i beni alla figlia comportava per il presidente la
soppressione del censo di eleggibilità. Ora, Amélie voleva fare di
suo marito un deputato, poiché non rinunciava facilmente ai suoi
piani, e non disperava affatto di riuscire a ottenere l'elezione del
presidente nella circoscrizione che comprendeva Marville. Così da
due mesi tormentava il barone Camusot, poiché il pari di Francia
aveva ottenuto il titolo di barone, per strappargli centomila
franchi di anticipo sull'eredità, allo scopo, diceva lei, di
acquistare una piccola tenuta che si trovava all'interno della
proprietà di Marville e che rendeva circa duemila franchi al netto
d'imposta. In questo modo lei e suo marito sarebbero stati in casa
loro e vicini ai figli; un tale acquisto avrebbe completato e
aumentato la tenuta di Marville. La presidentessa faceva valere agli
occhi del suocero la spoliazione cui era stata costretta per
maritare la figlia al conte Popinot, e chiedeva al vecchio se
poteva, proprio lui, negare al primogenito la via degli onori
supremi della magistratura, che non sarebbero stati concessi senza
una forte posizione parlamentare, che suo marito avrebbe potuto
costruire facendosi temere dai ministri.
«Quella gente concede dei favori soltanto a chi
le stringe la cravatta al collo fino a farle tirar fuori la lingua»,
disse la presidentessa. «Sono dei tali ingrati!... Che cosa non
devono a Camusot! Provocando le ordinanze di Luglio, è stato Camusot
a far salire sul trono la casa d'Orléans!...».
Il vecchio sosteneva di essersi impegnato nelle
ferrovie al di là dei propri mezzi, e quindi rinviava la sua
liberalità, di cui riconosceva senz'altro la necessità, al momento
di un previsto rialzo delle azioni.
Questa mezza promessa, strappata qualche giorno
prima, aveva precipitato la presidentessa nella desolazione. L'ex
proprietario di Marville aveva ben poche probabilità di partecipare
alle elezioni della nuova Camera, dal momento che non poteva
risultare proprietario da almeno un anno.
Fraisier giunse senza difficoltà fino a Madeleine
Vivet. Quelle due vipere, uscite dallo stesso uovo, si riconobbero
immediatamente.
«Signorina», disse Fraisier in tono sdolcinato,
«desidererei ottenere un attimo di udienza dalla signora
presidentessa per un affare che la riguarda personalmente, e che
concerne la sua fortuna; si tratta, diteglielo chiaramente, di
un'eredità... Non ho l'onore di essere conosciuto dalla signora
presidentessa, perciò il mio cognome non le direbbe nulla... Non ho
l'abitudine di allontanarmi dal mio studio, ma so bene quali
riguardi siano dovuti alla moglie di un presidente, e ho pensato di
venire di persona, anche perché l'affare non ammette il minimo
ritardo».
La richiesta, posta in questi termini, ripetuta e
amplificata dalla cameriera, trovò naturalmente una risposta
favorevole. Quel momento era decisivo per le due ambizioni che
nutriva Fraisier. Così, malgrado la sua sfacciataggine di piccolo
avvocato di provincia, imperioso, aspro e incisivo, provò ciò che
provano i capitani all'inizio di una battaglia da cui dipende il
successo della campagna. Passando nel salottino in cui lo stava
aspettando Amélie, gli accadde quello che nessun sudorifero, per
quanto potente, era mai riuscito a produrre su quella pelle
refrattaria e coperta di orrende malattie. Sentì un leggero sudore
nella schiena e sulla fronte.
«Anche se non divento ricco», pensò, «sono salvo,
perché Poulain mi ha garantito la salute il giorno in cui si fosse
ristabilita la traspirazione». «Signora...», disse vedendo la
presidentessa che stava entrando, in vestaglia.
E Fraisier si arrestò per salutare, con quella
condiscendenza che, nei pubblici funzionari, è il riconoscimento
della condizione superiore di coloro cui si rivolgono.
«Sedetevi, signore», disse la presidentessa
riconoscendo subito un uomo dell'ambiente giudiziario.
«Signora presidentessa, se mi sono preso la
libertà di rivolgermi a voi per un affare che riguarda il signor
presidente, è perché sono sicuro che il signor de Marville, con la
sua alta posizione, forse lascerebbe stare le cose come sono, e
perderebbe da sette a ottocentomila franchi che le signore, che
secondo me s'intendono degli affari privati molto più dei migliori
magistrati, non disdegnano affatto...».
«Avete parlato di un'eredità...», disse la
presidentessa interrompendolo.
Amélie, abbagliata dalla cifra e volendo tenere
nascosto il proprio stupore, imitava quei lettori impazienti che
corrono alla conclusione di un romanzo.
«Sì, signora, di un'eredità perduta per voi, oh!
interamente perduta, ma che io posso, che saprò farvi ottenere...».
«Parlate, signore!», disse con freddezza la
signora de Marville, squadrando Fraisier e scrutandolo con occhio
sagace.
«Signora, conosco le vostre grandi capacità; io
sono di Mantes. Il signor Leboeuf, il presidente del tribunale,
l'amico del signor de Marville, potrà fornire informazioni su di
me...».
La presidentessa ebbe un sobbalzo all'indietro
così crudelmente significativo che Fraisier fu costretto ad aprire e
chiudere in fretta una parentesi nel suo discorso:
«Una donna distinta come voi capirà
immediatamente per quale ragione parlo subito di me. È la via più
breve per arrivare all'eredità».
La presidentessa rispose senza parlare, con un
gesto, a questa fine considerazione.
«Signora», proseguì Fraisier, autorizzato da quel
gesto a raccontare la propria storia, «ero procuratore legale a
Mantes, e il mio posto avrebbe potuto essere la mia fortuna, poiché
già stavo trattando per lo studio del signor Levroux che certamente
avrete conosciuto...».
La presidentessa annuì.
«Con del denaro che mi era stato prestato e
diecimila franchi miei, avevo lasciato lo studio di Desroches, uno
dei più abili procuratori di Parigi, dove per sei anni ero stato
sostituto. Ho avuto la sventura di non piacere al procuratore del re
di Mantes, il signor...».
«Olivier Vinet».
«Il figlio del procuratore generale, sì, signora.
Faceva la corte a una signora minuta...».
«Lui?».
«La signora Vatinelle...».
«Ah! la signora Vatinelle... Era molto graziosa,
e molto... ai miei tempi».
«Era gentile con me: inde irae», continuò
Fraisier. «Io mi davo molto da fare, volevo rimborsare gli amici e
sposarmi; avevo bisogno di affari, li cercavo; presto ne accaparrai
da solo assai più di tutti gli altri pubblici funzionari. Tuttavia
ebbi contro di me i procuratori di Mantes, i notai, perfino gli
uscieri. Trovarono dei pretesti. Sapete bene, signora, che nel
nostro orribile mestiere, quando si vuol rovinare qualcuno, si fa
presto. Mi colsero in fallo mentre rappresentavo in una causa
entrambe le parti. È una leggerezza, ma in certi casi a Parigi si
fa, e i procuratori si reggono il sacco a vicenda. Ma a Mantes non
succede. Il signor Bouyonnert, cui avevo reso questo piccolo
servizio, sollecitato dai colleghi e istigato dal procuratore del
re, mi tradì. Ci fu un'insurrezione generale. Ero un briccone; mi
hanno dipinto più nero di Marat. Così sono stato costretto a
vendere, e ho perduto tutto. Ora sto a Parigi, dove ho cercato di
mettere in piedi uno studio legale, ma la mia salute compromessa mi
lasciava appena due ore sulle ventiquattro di una giornata. Oggi ho
un'unica ambizione, piuttosto meschina. Un giorno forse sarete la
moglie di un guardasigilli o di un primo presidente; io invece,
povero e malaticcio, non ho altro desiderio che quello di avere un
posto dove finire in pace i miei giorni, un vicolo cieco, un posto
dove vegetare. Voglio diventare giudice di pace a Parigi. Ottenere
la nomina è una cosa da nulla per voi e per il presidente; dovete
oscurare non poco l'attuale guardasigilli, perciò gli farà piacere
rendervi suoi debitori... E non è tutto, signora», aggiunse Fraisier
vedendo che la presidentessa stava per parlare, e facendole un
gesto. «Io sono amico del medico del vecchio da cui il signor
presidente dovrebbe ereditare. Vedete che ci stiamo arrivando...
Questo medico, la cui collaborazione è indispensabile, si trova
nella mia stessa situazione: talento, ma niente fortuna!... È da lui
che ho saputo quanto siano colpiti i vostri interessi perché, mentre
vi parlo, è probabile che sia già tutto finito, che il testamento in
cui si disereda il signor presidente sia già stato fatto... Questo
medico desidera essere nominato primario in un ospedale o in qualche
regio istituto; insomma, capite, deve farsi una posizione a Parigi,
equivalente alla mia... Scusatemi se ho parlato di queste due cose
delicate, ma nel nostro affare non deve esserci la più piccola
ambiguità. Il medico è del resto un uomo molto apprezzato, capace, e
che ha salvato il signor Pillerault, il prozio di vostro genero, il
visconte Popinot. Ora, se avrete la bontà di promettermi questi due
posti, quello di giudice di pace e la sinecura medica per il mio
amico, io mi impegnerò a garantirvi l'eredità quasi intatta... Dico
quasi intatta, perché sarà gravata degli obblighi che bisognerà
assumere nei confronti del legatario e di alcune persone la cui
collaborazione sarà davvero indispensabile. Manterrete le vostre
promesse soltanto dopo che io avrò mantenuto le mie».
LIII • CONDIZIONI DEL CONTRATTO
La presidentessa, che aveva incrociato le braccia
come una persona costretta a subire una predica, le lasciò ricadere,
guardò Fraisier e gli disse:
«Signore, voi avete il merito della chiarezza per
tutto quello che vi riguarda, ma per quello che riguarda me siete di
una tale oscurità!...».
«Bastano due parole a chiarire tutto, signora»,
disse Fraisier. «Il signor presidente è il solo ed unico erede di
terzo grado del signor Pons. Il signor Pons è molto malato; sta per
fare testamento, se non l'ha già fatto, in favore di un suo amico
tedesco, il signor Schmucke, e il valore della successione sarà di
oltre settecentomila franchi. Entro tre giorni spero di avere
informazioni precise sulla cifra...».
«Se è così», pensò ad alta voce la presidentessa,
folgorata dalla possibilità di mettere le mani su una cifra simile,
«ho fatto male a scontrarmi con lui, umiliandolo...».
«No, signora, perché senza quella rottura oggi
sarebbe allegro come un fringuello e vivrebbe più a lungo di voi,
del signor presidente e di me... La Provvidenza ha le sue vie: non
indaghiamole!», aggiunse per mascherare l'odiosità di un tale
pensiero. «Che volete farci!... noi uomini d'affari vediamo
l'aspetto positivo delle cose. Ora voi capite bene, signora, che
nell'alta posizione in cui si trova, il presidente de Marville non
farebbe niente, non potrebbe fare niente, nella situazione attuale.
Ha rotto completamente con suo cugino; voi non vedete più Pons,
l'avete bandito dal vostro ambiente; avete senza dubbio delle ottime
ragioni per agire in questo modo; ma il brav'uomo è malato, e lascia
i suoi beni all'unico amico che ha. Uno dei presidenti della corte
reale di Parigi non può eccepire nulla contro un testamento
regolare, fatto in circostanze simili. Ma, detto tra noi, signora,
quando si ha diritto a un'eredità dai sette agli ottocentomila
franchi... che so, forse un milione, e si è l'unico erede designato
per legge, è ben doloroso non riuscire ad avere quello che ti
spetta... Soltanto, per raggiungere lo scopo, ci si trova in mezzo a
sordidi intrighi, talmente difficili e complicati, e bisogna
trattare con gente di condizioni così infime, domestici, persone di
sott'ordine, e bisogna stargli talmente dietro, che nessun
procuratore legale, nessun notaio di Parigi può seguire un affare
del genere. In questi casi serve un avvocato senza cause, come me,
di sicura capacità, di provata dedizione, la cui posizione,
disgraziatamente precaria, sia allo stesso livello delle posizioni
di quel genere di gente... Io mi occupo, nella mia circoscrizione,
degli affari dei piccoli borghesi, degli operai, della gente
comune... Sì, signora, ecco in quale stato mi ha ridotto
l'inimicizia di un procuratore del re che oggi è sostituto a Parigi,
e che non mi ha mai perdonato la mia superiorità... Vi conosco,
signora, so quanto sia potente la vostra protezione, e ho
intravisto, nel prestarvi un tale servizio, la fine delle mie
miserie e il trionfo del dottor Poulain, mio amico...».
La presidentessa rimaneva pensierosa. Per
Fraisier fu un momento di spaventosa angoscia. Vinet, uno degli
oratori del centro, procuratore generale da sedici anni, designato
dieci volte per indossare la zimarra della cancelleria, il padre del
procuratore del re di Mantes, nominato sostituto a Parigi da un
anno, era un antagonista per l'astiosa presidentessa... L'altèro
procuratore generale non nascondeva il suo disprezzo per il
presidente Camusot. Fraisier ignorava e doveva ignorare questa
circostanza.
«Non avete sulla coscienza il fatto di aver
difeso contemporaneamente le due parti?», chiese fissando Fraisier.
«La signora presidentessa può chiedere al signor
Leboeuf; il signor Leboeuf mi era favorevole».
«Siete sicuro che il signor Leboeuf darà buone
informazioni sul vostro conto al signor de Marville, al conte
Popinot?».
«Ne rispondo di persona, anche perché il signor
Olivier Vinet non è più a Mantes; perché, detto tra noi, quel
piccolo magistrato seco faceva paura al buon signor Leboeuf. Del
resto, signora presidentessa, se me lo permettete, andrò a trovare a
Mantes il signor Leboeuf. Ciò non comporterà alcun ritardo, perché
solo tra due o tre giorni conoscerò in modo certo il valore della
successione. Io voglio e devo nascondere alla signora presidentessa
tutti i meccanismi dell'affare; ma il premio che mi aspetto per il
mio totale impegno non è già per lei una garanzia di successo?».
«Ebbene, fate in modo che il signor Leboeuf sia
ben disposto verso di voi, e se l'eredità sarà consistente come
dite, e io ne dubito, vi prometto i due posti, beninteso in caso di
successo...».
«Ne rispondo io, signora. Soltanto, avrete la
bontà di far venire qui il vostro notaio, il vostro procuratore,
quando avrò bisogno di loro, per rilasciarmi una procura che mi dia
la possibilità di agire in nome del signor presidente; e direte a
questi signori di seguire le mie istruzioni, e di non fare niente di
testa loro».
«Voi avete la responsabilità», disse con tono
solenne la presidentessa, «e quindi dovete avere pieni poteri. Ma il
signor Pons è davvero molto malato?», chiese sorridendo.
«Sono convinto, signora, che potrebbe cavarsela,
soprattutto perché è curato da un uomo così coscienzioso come il
dottore Poulain... perché il mio amico, signora, è una spia
innocente guidata da me nel vostro interesse, ed è in grado si
salvare quel vecchio musicista; ma accanto al malato c'è una
portiera che per trentamila franchi lo spingerebbe nella fossa...
No, non lo ucciderà, non gli darà l'arsenico, non sarà caritatevole
fino a questo punto; farà di peggio: lo assassinerà moralmente,
renderà la sua vita un'ansia continua. Il povero vecchio, in un
ambiente silenzioso, tranquillo, ben curato, trattato con affetto da
amici, in campagna, si ristabilirebbe; invece, infastidito da una
certa signora Évrard che in gioventù era stata una delle trenta
belle ostricaie celebrate da Parigi, avida, chiacchierona, brutale,
tormentato da lei per fare un testamento in cui essere
abbondantemente ricompensata, il malato finirà fatalmente per
rovinarsi del tutto il fegato; forse già in questo momento si
saranno formati dei calcoli, e per estrarli sarà necessario
ricorrere a un'operazione che non sopporterà... Il dottore, un'anima
pura... si trova in una situazione terribile. Dovrebbe far
licenziare quella donna...».
«Ma questa megera è un mostro!», esclamò la
presidentessa con una vocina flautata.
Questa somiglianza tra la terribile presidentessa
e lui, fece sorridere interiormente Fraisier, che sapeva bene
interpretare le dolci modulazioni artificiose di una voce
naturalmente aspra. Si ricordò di quel presidente, eroe di uno dei
racconti di Luigi XI, che questo monarca ha firmato con la sua
ultima parola. Quel magistrato, provvisto di una moglie tagliata sul
modello di quella di Socrate, ma privo della filosofia di quel
grand'uomo, fece mettere del sale nell'avena dei suoi cavalli
ordinando di privarli dell'acqua. Quando sua moglie andò in
campagna, lungo la Senna, i cavalli si precipitarono con lei
nell'acqua per bere, e il magistrato ringraziò la Provvidenza che
l'aveva liberato della moglie così naturalmente. In quel momento la
signora de Marville ringraziava Dio per aver messo accanto a Pons
una donna che gliel'avrebbe tolto di mezzo onestamente.
«Non vorrei un milione», lei disse, «a prezzo di
un'indelicatezza... Il vostro amico deve informare il signor Pons e
far licenziare la portiera».
«Innanzitutto, signora, i signori Schmucke e Pons
credono che quella donna sia un angelo, e licenzierebbero il mio
amico. Poi l'atroce ostricaia è la benefattrice del dottore, in
quanto l'ha introdotto presso il signor Pillerault. Il dottore
raccomanda a quella donna la massima attenzione per il malato, ma le
sue raccomandazioni le indicano i mezzi per farlo peggiorare».
«Cosa pensa il vostro amico delle condizioni di
mio cugino?», chiese la presidentessa.
Fraisier fece tremare la presidentessa per la
precisione della sua risposta, e per la lucidità con cui era
penetrato nel suo cuore, avido quanto quello della Cibot.
«Entro sei settimane la successione sarà aperta».
La presidentessa abbassò gli occhi.
«Poveretto!», disse cercando, ma invano, di
assumere un'espressione afflitta.
«La signora presidentessa ha qualcosa da dire al
signor Leboeuf? Io vado a Mantes in treno».
«Sì, aspettate un momento; gli scrivo di venire a
cena da noi domani; ho bisogno di vederlo per accordarci sul modo di
riparare all'ingiustizia di cui siete stato vittima».
Quando la presidentessa l'ebbe lasciato,
Fraisier, che già si vedeva giudice di pace, non somigliò più a se
stesso: ora sembrava grosso, respirava a pieni polmoni l'aria della
felicità e il buon vento del successo. Attingendo alla riserva
sconosciuta della volontà nuove e forti dosi di quell'essenza
divina, si sentì capace, come Rémonencq, di commettere un delitto
pur di riuscire, a condizione di non lasciare tracce. Si era esposto
spavaldamente con la presidentessa, convertendo le congetture in
realtà, facendo affermazioni gratuite, con l'unico scopo di farsi
commissionare da lei il salvataggio di quell'eredità e di ottenere
la sua protezione. Rappresentante di due immense miserie e di
desideri non meno grandi, respingeva con un piede sdegnoso la sua
orribile esistenza in rue de la Perle. Intravedeva mille scudi di
onorari da parte della Cibot, e cinquemila franchi dal presidente.
Significava guadagnarsi un appartamento di tutto rispetto. E per
finire si sdebitava col dottor Poulain. Alcune di queste nature
astiose, aspre e disposte alla malvagità dalla sofferenza o dalla
malattia, provano sentimenti contrari, a un eguale grado di
violenza: Richelieu era un buon amico quanto un nemico crudele.
Riconoscente a Poulain per i suoi aiuti, Fraisier si sarebbe fatto
ammazzare per lui. La presidentessa, tornando con una lettera in
mano, senza essere vista guardò quell'uomo che stava pensando a una
vita felice e agiata, e lo trovò meno brutto di quanto non le fosse
sembrato alla prima impressione; del resto, stava per renderle un
servigio, e uno strumento che ci appartiene lo si guarda in un modo
diverso da come si guarda quello del vicino.
«Signor Fraisier», disse, «mi avete dimostrato di
essere un uomo intelligente; vi credo capace di essere franco».
Fraisier fece un gesto eloquente.
«Ebbene», continuò la presidentessa, «vi ingiungo
di rispondere sinceramente a questa domanda: il signor de Marville o
io, potremmo essere compromessi a causa delle vostre
iniziative?...».
«Non sarei venuto a parlare con voi, signora, se
un giorno potessi rimproverarmi di aver gettato del fango su di voi,
anche se fosse delle dimensioni di una capocchia di spillo, perché
allora la macchia sembrerebbe grande come la luna. Voi dimenticate,
signora, che per diventare giudice di pace a Parigi, dovrò avervi
soddisfatta. Ho avuto in vita mia una prima lezione, ed è stata
troppo dura perché io mi esponga a ricevere ancora simili
scudisciate. E poi, un'ultima parola, signora. Ogni mia iniziativa,
quando vi riguarderà, vi sarà sottoposta preventivamente...».
«Benissimo. Ecco la lettera per il signor
Leboeuf. Resto in attesa delle informazioni sul valore della
successione».
«Appunto», disse con tono astuto Fraisier,
salutando la presidentessa con tutta la grazia che la sua faccia gli
permetteva di avere.
«Che fortuna!», pensò la signora Camusot de
Marville. «Ah! dunque sarò ricca! Camusot sarà deputato, perché
sguinzagliando questo Fraisier nella circoscrizione di Bolbec, ci
farà ottenere la maggioranza. Che strumento!».
«Che fortuna!», pensava Fraisier scendendo le
scale, «e che comare la signora Camusot! Mi servirebbe una moglie di
quel genere! E ora all'opera!».
E partì per Mantes, dove era necessario ottenere
l'appoggio di un uomo che conosceva molto poco; ma contava sulla
signora Vatinelle, cui doveva tutte le sue disgrazie, perché i
dispiaceri d'amore sono spesso come la cambiale protestata di un
buon debitore, che frutta degli interessi.
LIV • AVVERTIMENTO AI VECCHI SCAPOLI
Tre giorni dopo, mentre Schmucke dormiva, perché
la Cibot e il vecchio musicista si erano già divisi il fardello di
accudire e vegliare il malato, la Cibot aveva avuto quello che lei
chiamava un battibecco col povero Pons. Non è inutile far notare una
triste particolarità dell'epatite. I malati il cui fegato è più o
meno aggredito sono inclini all'impazienza, alla collera, e gli
scatti d'ira procurano loro un momentaneo sollievo; così come,
durante un accesso di febbre, sentiamo dispiegarsi in noi delle
forze eccessive. Passato l'accesso, arriva la prostrazione, il
collapsus, come dicono i medici, e le perdite subite dall'organismo
sono allora valutabili in tutta la loro gravità. Così, nelle
malattie di fegato, soprattutto in quelle provocate da forti
dispiaceri, dopo gli attacchi d'ira il paziente precipita in uno
stato di prostrazione tanto più pericoloso in quanto è sottoposto a
una dieta rigorosa. È una specie di febbre che agita il suo sistema
umorale, dal momento che non si sviluppa né nel sangue né nel
cervello. Quest'irritazione dell'intero organismo produce una
malinconia per la quale il malato finisce per odiare se stesso. In
una condizione simile, tutto può provocare una pericolosa
irritazione. La Cibot, malgrado le raccomandazioni del dottore, non
credeva affatto, da popolana priva di esperienza e di istruzione, a
questi stiramenti del sistema nervoso provocati dal sistema umorale.
Le spiegazioni del signor Poulain erano per lei idee da medico.
Voleva assolutamente, come tutta la gente del popolo, nutrire Pons,
e per impedirle di dargli di nascosto del prosciutto, una buona
frittata o della cioccolata alla vainiglia, era necessario che il
dottor Poulain le dicesse nel modo più perentorio:
«Date anche un solo boccone di qualunque cosa al
signor Pons, e lo ucciderete come con un colpo di pistola».
La testardaggine delle classi popolari è così
grande a questo proposito, che l'ostilità dei malati ad andare in
ospedale nasce dal fatto che il popolo crede che vi si uccida la
gente non dandole da mangiare. La mortalità provocata dai viveri
portati di nascosto dalle mogli ai loro mariti è così alta da
costringere i medici a ordinare una rigorosissima perquisizione
personale nei giorni in cui i parenti visitano i malati. Allo scopo
di provocare uno screzio momentaneo, necessario alla realizzazione
dei suoi vantaggi immediati, la Cibot raccontò la visita al
direttore del teatro, senza dimenticare il battibecco con la
signorina Héloïse, la ballerina.
«Ma che ci siete andata a fare?», le chiese per
la terza volta il malato, che non riusciva a fermare la Cibot quando
si lanciava nelle sue chiacchiere.
«Allora, quando le ho detto il fatto suo, la
signorina Héloïse, che ha capito con chi aveva a che fare, ha
abbassato la cresta e siamo diventate le migliori amiche del mondo.
Mi state chiedendo che cosa sono andata a fare in teatro?», disse
ripetendo la domanda di Pons.
Certi chiacchieroni, chiacchieroni di genio,
accumulano in questo modo le interrogazioni, le obiezioni e le
osservazioni come si trattasse di provviste, per alimentare i loro
discorsi; nel caso che la sorgente un giorno potesse esaurirsi.
«Ci sono andata per togliere dagli impicci il
vostro signor Gaudissart; ha bisogno della musica per un nuovo
balletto, e voi non siete proprio in condizione, mio caro, di fare
scarabocchi sulla carta e di compiere il vostro dovere... Mi sembra
di aver sentito che chiameranno un certo signor Garangeot per
arrangiare in musica I Mohicani...».
«Garangeot!», esclamò Pons infuriato. «Garangeot,
un uomo senza alcun talento, che non ho voluto come primo violino! È
una persona molto intelligente, che fa assai bene la critica
musicale sui giornali... ma non è assolutamente in grado di comporre
un'aria!... E come diavolo vi è venuto in mente di andare in
teatro?».
«Ma è proprio ostinato, questo demonio!...
Allora, piccolo mio, vediamo di non bollire subito... Siete forse in
grado di scrivere della musica nello stato in cui siete? Ma non vi
siete guardato allo specchio? Volete uno specchio? Siete pelle e
ossa... debole come un passerotto... e vi credete capace di fare le
vostre note... ma non sareste buono a fare neppure le mie... Mi fate
venire in mente che devo salire da quella del terzo piano, che ci
deve diciassette franchi... e ci fanno proprio comodo diciassette
franchi, perché, pagato il farmacista, non ci restano venti
franchi... E allora bisognava dire a quell'uomo, che ha tutta l'aria
di essere un brav'uomo, al signor Gaudissart... mi piace quel
nome... è un vero Roger Bontemps che mi andrebbe bene... non si
ammalerà mai di fegato, quel tipo!... Dunque bisognava dirgli in che
stato vi trovate... Perdio! voi non state bene, e allora vi ha
momentaneamente rimpiazzato...».
«Rimpiazzato!», gridò Pons con una voce
formidabile, alzandosi a sedere sul letto.
Generalmente i malati, soprattutto quelli che già
si trovano nel raggio della falce della Morte, si aggrappano al loro
posto di lavoro con un furore pari a quello degli esordienti per
ottenerlo. Così la sua sostituzione sembrò già una prima morte al
povero moribondo.
«Ma il dottore mi dice», proseguì, «che tutto
procede bene! che presto riprenderò la mia vita normale. Voi mi
avete ucciso, rovinato, assassinato!...».
«Bla bla bla bla!», esclamò la Cibot. «Ecco che
siete partito! Già, io sono il vostro carnefice, e dite sempre
gentilezze del genere, accidenti, al signor Schmucke quando giro le
spalle. Sento bene quello che dite, sapete!... Siete un mostro
d'ingratitudine».
«Ma voi non sapete che, se la mia convalescenza
dovesse durare quindici giorni di più, quando mi ripresenterò mi
diranno che sono un parruccone, che sono vecchio, che ho fatto il
mio tempo, che sono dell'epoca dell'Impero, in stile rococò!»,
esclamò il malato che voleva vivere. «Garangeot si sarà fatto degli
amici in teatro, dal botteghino al loggione! Avrà abbassato il
diapason per un'attrice senza voce, avrà leccato gli stivali del
signor Gaudissart; attraverso i suoi amici avrà pubblicato sui
giornali gli elogi di tutti quanti; e allora, signora Cibot, in una
bottega come quella si fa presto a trovare dei pidocchi sulla testa
di un calvo!... Quale demonio vi ha fatto andare là?...».
«Ma insomma! Il signor Schmucke ha discusso la
cosa con me per otto giorni. Ma che volete? Non pensate ad altro che
a voi! siete un egoista che per guarire ammazzerebbe il prossimo!...
È ormai un mese che quel povero signor Schmucke regge l'anima coi
denti, non sta in piedi, non può andare da nessuna parte né dare
lezioni, né fare il suo lavoro a teatro; possibile che non vi
accorgiate di niente? Lui vi assiste di notte, e io di giorno. Oggi
come oggi, se ancora dovessi passare le notti in bianco come ho
cercato di fare all'inizio, credendo che non aveste niente di serio,
mi toccherebbe dormire durante il giorno! E chi penserebbe alla casa
e al pane?... Ma che volete farci, la malattia è la malattia!...».
«È impossibile che Schmucke abbia avuto
quell'idea...».
«Non vorrete dire che è venuta in testa a me!
Credete che siamo di ferro? Se il signor Schmucke avesse continuato
il suo mestiere di dare sette o otto lezioni durante il giorno e poi
di passare la serata a teatro, dalle sei e mezzo alle undici, a
dirigere l'orchestra, sarebbe morto nel giro di dieci giorni...
Volete la morte di quel degno uomo, che darebbe il sangue per voi?
Sull'anima dei miei genitori, non si è mai visto un malato come
voi... Che avete fatto del vostro cervello, l'avete messo al monte
di pietà? Qui tutti si stanno massacrando per voi, si fa tutto nel
migliore dei modi, e voi non siete contento... Volete farci
diventare pazzi da legare?... Io, tanto per cominciare, sono già
sfinita, in attesa del resto!».
La Cibot poteva parlare quanto voleva, perché la
collera impediva a Pons di dire una sola parola; si rotolava nel
letto, articolava penosamente delle interiezioni, si sentiva morire.
Come sempre, giunta a questo punto, la discussione volgeva
improvvisamente al tenero. L'infermiera si precipitò sul malato, gli
afferrò la testa, lo costrinse a sdraiarsi, e gli sistemò le
coperte.
«Ma si può ridursi in questo stato? Dopotutto,
tesoruccio, è la vostra malattia! È quello che dice il buon signor
Poulain. Su, calmatevi. Siate gentile, figliolino caro. Voi siete
l'idolo di chiunque vi si avvicini; lo stesso dottore viene a
visitarvi anche due volte al giorno! Che direbbe se vi trovasse così
agitato? Mi fate uscire dai gangheri! non è bello da parte vostra...
Quando si ha mamma Cibot per infermiera, va trattata con riguardo...
Voi gridate, voi parlate... e vi è stato proibito, lo sapete bene.
Parlare vi irrita... E perché poi andare in collera? Siete voi ad
avere tutti i torti... mi stuzzicate sempre! Su, ragioniamo! Il
signor Schmucke e io, che vi voglio bene come alle mie viscere,
abbiamo creduto di fare bene?.... allora, angelo mio, abbiamo fatto
bene!».
«Schmucke non può avervi detto di andare in
teatro senza prima consultarmi...».
«Devo svegliare quel caro buonuomo che se la sta
dormendo della grossa, e farlo venire qui a testimoniare?».
«No, no!», esclamò Pons. «Se il caro e tenero
Schmucke ha preso questa decisione, forse sto peggio di quanto io
non creda», disse Pons rivolgendo uno sguardo pieno di malinconia
agli oggetti d'arte che decoravano la sua stanza. «Bisognerà dire
addio ai miei cari quadri, a tutte queste cose che erano diventate i
miei amici... e al mio divino Schmucke! Oh, è proprio vero?...».
La Cibot, da atroce commediante quale era, si
mise il fazzoletto sugli occhi. Questa muta risposta fece
precipitare il malato in una tetra meditazione. Abbattuto da quei
due colpi assestati in punti tanto sensibili, la vita sociale e la
salute, la perdita della sua posizione e la prospettiva della morte,
rimase talmente prostrato che non ebbe più la forza di adirarsi. E
rimase spento come un tisico dopo la sua agonia.
«Vedete, nell'interesse del signor Schmucke»,
disse la Cibot constatando che la sua vittima era completamente
vinta, «fareste bene a far venire il notaio del quartiere, il signor
Trognon, una bravissima persona».
«Mi parlate sempre di questo Trognon...», disse
il malato.
«Ah! per me lui o un altro sono la stessa cosa...
per quello che mi lascerete!».
E scosse la testa in segno di disprezzo per il
denaro. Il silenzio si ristabilì.
LV • LA CIBOT FA LA VITTIMA
In quel momento, Schmucke, che dormiva da più di
sei ore, svegliato dalla fame si alzò, entrò nella camera di Pons e
stette a guardarlo per qualche istante senza dire nulla, perché la
Cibot si era messa un dito sulle labbra facendo:
«Ssst!».
Poi lei si alzò, si avvicinò al tedesco per
parlargli all'orecchio, e gli disse:
«Grazie a Dio! finalmente si addormenta, è
cattivo come un diavolo!... Che volete! si difende dalla
malattia...».
«No, al contrario, io sono molto paziente»,
rispose la vittima con un tono dolente che rivelava uno spaventoso
abbattimento; «ma, caro Schmucke, è andata in teatro a farmi
licenziare».
Si interruppe, e non ebbe la forza di continuare.
La Cibot approfittò della pausa per raffigurare a Schmucke, con un
gesto, la condizione di una testa abbandonata dalla ragione, e
disse:
«Non lo contrariate, potrebbe morire...».
«E inoltre», riprese Pons guardando l'onesto
Schmucke, «dice che sei stato tu a mandarcela...».
«Sì», rispose Schmucke eroicamente, «bisognava
farlo. Non parlare!... lasciati salvare!... È stupido che ti
affatichi a lavorare, quando hai un tesoro... Guarisci, venderemo
qualche bric-à-brac e finiremo tranquillamente i nostri giorni in un
piccolo paese, con questa buona signora Cibot...».
«Ti ha pervertito!», rispose dolorosamente Pons.
Il malato, non vedendo più la Cibot che si era
messa dietro il letto per nascondere a Pons i segni che faceva a
Schmucke, credette che fosse uscita dalla stanza.
«Mi sta assassinando!», aggiunse.
«Come, vi assassino!...», disse lei mostrandosi
con lo sguardo acceso e i pugni sui fianchi. «Ecco la ricompensa di
una devozione da barboncino!... Dio mio!».
Scoppiò in lacrime, si lasciò cadere su una
poltrona, e questo movimento tragico provocò in Pons il più funesto
sconvolgimento.
«Ebbene», disse lei alzandosi e mostrando ai due
amici quegli sguardi di donna in preda all'odio che sparano
contemporaneamente colpi di pistola e di veleno, «sono stanca di non
combinare niente di buono, rovinandomi la salute. Vi prenderete
un'infermiera!».
I due amici si guardarono spaventati.
«Oh! guardatevi pure come dei commedianti! L'ho
detto. Vado a pregare il dottor Poulain di cercarvi un'infermiera! E
faremo i nostri conti. Mi restituirete il denaro che ho speso per
voi... e che non vi avrei mai richiesto... io che sono andata dal
signor Pillerault a chiedergli in prestito altri cinquecento
franchi...».
«È la malattia!», disse Schmucke precipitandosi
sulla Cibot e afferrandola per la vita, «abbiate pazienza!».
«Voi, voi siete un angelo, che bacerei la terra
dove camminate», disse lei. «Ma il signor Pons non mi ha mai voluto
bene, mi ha sempre odiata!... Del resto, può credere che io voglio
essere messa sul suo testamento...».
«Ssst! lo ucciderete!», esclamò Schmucke.
«Addio, signore», disse la Cibot a Pons
fulminandolo con uno sguardo. «Per il male che vi voglio, statevi
bene. Quando sarete più gentile con me, quando crederete che quello
che faccio è ben fatto, allora tornerò! Fino ad allora, me ne starò
a casa mia... Vi trattavo come un figlio; e da quando in qua si sono
visti i figli ribellarsi contro le madri?... No, no, signor
Schmucke, non voglio sentire niente... Vi porterò la vostra cena, ve
la servirò; ma prendete un'infermiera, chiedetene una al signor
Poulain».
E uscì sbattendo la porta con tanta violenza che
gli oggetti fragili e preziosi tremarono. Il malato udì un tintinnio
di porcellana che rappresentò, nella sua tortura, il colpo di grazia
nel supplizio della ruota.
Un'ora dopo la Cibot, invece di entrare nella
stanza di Pons, andò a chiamare Schmucke attraverso la porta della
camera da letto dicendogli che la cena era pronta nella sala da
pranzo. Il povero tedesco arrivò con il volto pallido e bagnato di
lacrime.
«Il mio povero Pons farnetica», disse, «ed è
convinto che voi siate una scellerata. È la sua malattia», disse per
intenerire la Cibot senza accusare Pons.
«Oh! ne ho abbastanza della sua malattia!
Sentite: quest'uomo non è né mio padre, né mio marito, né mio
fratello, né mio figlio. Mi ha preso in antipatia; va bene, ma
adesso basta! Voi, lo sapete, vi seguirei in capo al mondo; ma
quando si dà la propria vita, il proprio cuore, tutti i propri
risparmi, quando si trascura un marito, e anche Cibot si sta
ammalando, per sentirsi trattare da scellerata... è un caffè un po'
troppo forte...».
«Caffè?».
«Sì, caffè! ma lasciamo perdere le parole
inutili. E veniamo al sodo. Fino ad oggi mi dovete tre mesi a
centonovanta franchi, che fa cinquecentosettanta! più l'affitto che
ho pagato due volte, ecco qua le ricevute, e fanno seicento franchi
con le varie imposte; dunque milleduecento franchi meno qualcosa più
gli altri duemila, senza interessi s'intende; in totale,
tremilacentonovantadue franchi... E pensate che ve ne serviranno
almeno duemila per l'infermiera, il medico, le medicine e il vitto
dell'infermiera. Per questo mi ero fatta prestare mille franchi dal
signor Pillerault», disse mostrando il biglietto da mille franchi
che le aveva dato Gaudissart.
Schmucke ascoltava questo conto con uno stupore
ben comprensibile, perché era finanziere come i gatti sono
musicisti.
«Signora Cibot, Pons è fuori di testa!
Perdonatelo, continuate ad assisterlo, restate la nostra
provvidenza... ve lo chiedo in ginocchio».
E il tedesco si prosternò davanti alla Cibot,
baciando le mani di quel carnefice.
«Sentite, amore mio», disse lei risollevando
Schmucke e baciandolo sulla fronte, «Cibot si è ammalato, è a letto,
ho appena mandato a chiamare il dottor Poulain. In questa situazione
devo pensare alle mie cose. Del resto, Cibot, che mi ha visto
rientrare in lacrime, si è talmente infuriato che non vuole che io
rimetta più piede qui dentro. È lui che reclama il suo denaro, che è
suo, capite bene. Noialtre donne in questi casi non possiamo fare
nulla. Ma restituendogli i suoi soldi, tremiladuecento franchi,
forse si calmerà. È tutto quello che ha, pover'uomo, i suoi risparmi
di ventisei anni di lavoro, il frutto del suo sudore; il denaro gli
serve domani, c'è poco da tergiversare... Voi non conoscete Cibot:
quando è arrabbiato, ucciderebbe un uomo. Ma forse potrei ottenere
da lui di continuare ad assistervi tutti e due. State tranquillo, mi
lascerò dire tutto quello che gli passerà per la testa. Subirò quel
martirio per amore vostro, che siete un angelo».
«No, non sono altro che un pover'uomo che vuol
bene al suo amico, che darebbe la propria vita per salvarlo...».
«Ma, e i soldi?... Mio caro signor Schmucke,
supponiamo che non mi ridiate niente... bisogna pur trovare tremila
franchi per le vostre necessità! Sapete che farei al vostro posto?
Non ci penserei un momento, venderei sette od otto brutti quadri, e
li rimpiazzerei con qualcuno di quelli che sono nella vostra stanza,
appoggiati contro la parete per mancanza di spazio! Un quadro o un
altro, che importa?».
«E perché?».
«È talmente diffidente!... è la malattia, perché
quando è in salute è un agnellino! È capace di alzarsi, di
curiosare, e se per caso venisse in salotto, anche se è talmente
debole che non riuscirebbe a passare la soglia, troverebbe lo stesso
numero di quadri!...».
«È giusto!».
«Ma noi gli diremo della vendita quando sarà
completamente guarito. Se invece volete proprio confessarglielo,
allora date la colpa a me, alla necessità di pagarmi. Ho spalle
robuste».
«Non posso disporre di cose che non mi
appartengono...», rispose semplicemente il buon tedesco.
«E allora vi denuncio, voi e il signor Pons».
«Ma significa ucciderlo...».
«Scegliete!... Mio Dio! vendete i quadri e
diteglielo dopo... gli farete vedere la denuncia...».
«Ebbene, denunciateci... sarà la mia scusa... gli
mostrerò il documento...».
Il giorno stesso, alle sette, la Cibot, che era
andata a consigliarsi con un ufficiale giudiziario, chiamò Schmucke.
Il tedesco si trovò di fronte il signor Tabareau, che gli ingiunse
di pagare; e, dopo la risposta di uno Schmucke tremante dalla testa
ai piedi, fu convocato con Pons davanti al tribunale per essere
condannato al pagamento. L'aspetto di quell'uomo, la carta bollata
scarabocchiata, produssero un tale effetto su Schmucke che non fece
più alcuna resistenza.
«Vendete i quadri», disse con le lacrime agli
occhi.
L'indomani, alle sei del mattino, Élie Magus e
Rémonencq staccarono ognuno i loro quadri. Furono preparate due
ricevute di duemilacinquecento franchi perfettamente regolari:
Io sottoscritto, garante per il signor Pons,
riconosco di aver ricevuto dal signor Élie Magus la somma di
duemilacinquecento franchi per quattro quadri che gli ho venduto,
dovendo la suddetta somma essere impiegata per le necessità del
signor Pons. Uno dei quadri, attribuito a Dürer, è un ritratto di
donna; anche il secondo, di scuola italiana, è un ritratto; il terzo
è un paesaggio olandese di Breughel; il quarto, un quadro fiorentino
che rappresenta una Sacra Famiglia di autore ignoto.
La ricevuta rilasciata da Rémonencq era negli
stessi termini e comprendeva un Greuze, un Claude Lorrain, un Rubens
e un Van Dyck, nascosti sotto i nomi di quadri di scuola francese e
di scuola fiamminga.
«Questo denaro mi fa quasi credere che questi
gingilli valgono qualcosa...», disse Schmucke ricevendo i cinquemila
franchi.
«Qualcosa vale...», disse Rémonencq. «Per tutto
quanto sarei disposto a dare centomila franchi».
L'alverniate, pregato di rendere quel piccolo
servizio, rimpiazzò gli otto quadri con altri di eguale dimensione
e in eguali cornici, scegliendoli tra quelli di minore importanza
che Pons aveva depositato nella stanza di Schmucke.
LVI • LA PARTE DEL LEONE
Élie Magus, una volta in possesso dei quattro
capolavori, portò la Cibot in casa sua, col pretesto di fare i
conti. Lì si mise a piangere miseria, trovò dei difetti alle tele,
disse che bisognava risistemarle, e offrì alla Cibot trentamila
franchi di provvigione; glieli fece accettare mostrandole le carte
scintillanti su cui la Banca ha inciso la parola MILLE FRANCHI!
Magus condannò Rémonencq a dare alla Cibot la stessa somma,
prestandogliela sui quattro quadri che si fece lasciare in deposito.
I quattro quadri di Rémonencq sembrarono così magnifici a Magus, che
l'ebreo non riuscì a restituirli e l'indomani portò un compenso di
seimila franchi al rigattiere, che gli cedette le sue quattro tele
al prezzo d'acquisto. La Cibot, ricca di sessantottomila franchi,
pretese ancora una volta dai suoi due complici il segreto più
totale; pregò l'ebreo di indicarle come investire quella somma in
modo che nessuno ne venisse a conoscenza.
«Comprate azioni delle ferrovie d'Orléans; sono a
trenta franchi sotto la pari, in tre anni raddoppierete il capitale,
e avrete dei pezzi di carta da tenere in un portafoglio».
«Restate qui, signor Magus, mentre io vado da
quel tale che segue gli affari della famiglia del signor Pons; vuol
sapere a quale prezzo sareste disposto a comprare tutte le
carabattole che lassù... Vado a cercarvelo».
«Ah, se fosse vedova!», disse Rémonencq a Magus,
«sarebbe la mia fortuna, perché ormai è ricca...».
«Soprattutto se investe i suoi soldi nelle
ferrovie di Orléans; in due anni raddoppieranno. Io vi ho investito
soltanto i miei piccoli risparmi», disse l'ebreo, «la dote di mia
figlia... Andiamo a fare un giretto sul boulevard in attesa
dell'avvocato...».
«Se Dio volesse chiamare a sé quel Cibot, che è
già abbastanza malato», riprese Rémonencq, «avrei una brava moglie
cui affidare il negozio, e io potrei occuparmi del commercio in
grande...».
«Buongiorno, caro signor Fraisier», disse la
Cibot con tono mellifluo entrando nello studio del suo consigliere.
«Ma cos'è questa storia che mi ha detto il portiere, che ve ne
andate di qui?...».
«Sì, cara signora Cibot; prendo, nella casa del
dottor Poulain, l'appartamento al primo piano, sopra il suo. Sto
cercando due o tremila franchi in prestito per ammobiliare in modo
dignitoso l'appartamento, che è veramente grazioso; il proprietario
l'ha rimesso a nuovo. Come vi ho detto, ho ricevuto l'incarico di
seguire gli interessi del presidente de Marville e i vostri...
Smetto di fare l'agente d'affari, sto per iscrivermi all'albo degli
avvocati, e allora diventa indispensabile abitare in una bella casa.
Gli avvocati di Parigi permettono l'iscrizione all'albo solo a chi
possiede un mobilio decoroso, una biblioteca, ecc. Io sono dottore
in diritto, ho fatto il mio tirocinio, e ho già dei protettori
potenti... Bene, a che punto siamo?».
«Se volete accettare i miei risparmi depositati
in banca...», gli disse la Cibot. «Non è molto, tremila franchi, il
frutto di venticinque anni di risparmi e di privazioni... In questo
caso mi darete una cambiale, come dice Rémonencq, perché io sono
ignorante, so soltanto quello che m'insegnano...».
«No, gli statuti dell'ordine vietano a un
avvocato di firmare cambiali; vi darò una ricevuta con l'interesse
del cinque per cento, e voi me la restituirete se vi farò avere
milleduecento franchi di rendita vitalizia dall'eredità del buon
Pons».
La Cibot, presa in trappola, rimase in silenzio.
«Chi tace acconsente», continuò Fraisier.
«Portatemi il denaro domani».
«Ah! vi pagherò molto volentieri in anticipo il
vostro onorario», disse la Cibot, «sono sicurissima che avrò il mio
vitalizio».
«A che punto siamo?», riprese Fraisier, con un
cenno affermativo della testa. «Ho visto Poulain ieri sera, sembra
che vi stiate occupando proprio bene del vostro malato... Ancora un
attacco come quello di ieri, e gli si formeranno dei calcoli nella
cistifellea... Andateci piano, cara signora Cibot... non bisogna
procurarsi dei rimorsi... non fanno vivere a lungo».
«E lasciatemi in pace coi vostri rimorsi!... Non
mi parlerete di nuovo della ghigliottina!... Il signor Pons è un
vecchio ostinato, voi non lo conoscete, è lui che mi fa andare in
bestia! Non esiste un uomo più malvagio di lui; avevano ragione i
parenti: è ipocrita, vendicativo e ostinato... Il signor Magus è a
casa, come vi ho detto, e vi sta aspettando».
«Bene!... ci sarò contemporaneamente a voi. La
cifra della vostra rendita dipende dal valore della collezione; se è
di ottocentomila franchi, avrete un vitalizio di millecinquecento
franchi... una fortuna!».
«Allora vado a dirgli di valutare
coscienziosamente ogni cosa».
Un'ora dopo, mentre Pons dormiva profondamente
avendo preso dalle mani di Schmucke una pozione calmante, prescritta
dal medico ma la cui dose era stata raddoppiata dalla Cibot
all'insaputa del tedesco, Fraisier, Rémonencq e Magus, questi tre
personaggi patibolari, esaminavano pezzo per pezzo i millesettecento
oggetti di cui si componeva la collezione del vecchio musicista.
Schmucke stava dormendo; quei corvi, fiutando odore di cadavere,
erano padroni del campo.
«Non fate rumore», diceva la Cibot ogni volta che
Magus andava in estasi e discuteva con Rémonencq, iniziandolo al
valore di una bella opera.
Era uno spettacolo straziante vedere quelle
quattro diverse bramosie intente a valutare l'eredità durante il
sonno di colui la cui morte era l'oggetto della loro ingordigia. La
stima dei valori che si trovavano nel salotto durò tre ore.
«In media», disse il vecchio sordido ebreo, «ogni
oggetto vale mille franchi».
«Sarebbe un milione e settecentomila franchi!»,
esclamò Fraisier stupefatto.
«Non per me», continuò Magus i cui occhi presero
dei toni freddi. «Non darei più di ottocentomila franchi; perché non
si può sapere per quanto tempo questa roba resterebbe in
magazzino... Ci sono capolavori che non si vendono prima di dieci
anni, e il prezzo d'acquisto viene raddoppiato dagli interessi
composti; però pagherei in contanti».
«In camera da letto ci sono vetrate, smalti,
miniature, tabacchiere d'oro e d'argento», fece notare Rémonencq.
«Possiamo vedere?», chiese Fraisier.
«Vado a vedere se sta dormendo», rispose la
Cibot.
E, a un cenno della portiera, i tre uccelli da
preda entrarono.
«Là ci sono i capolavori!», disse indicando il
salotto Magus, la cui barba bianca tremava per l'emozione, «ma qui
ci sono le ricchezze! E quali ricchezze! i sovrani non hanno niente
di più bello nei loro tesori».
Gli occhi di Rémonencq, infiammati dalle
tabacchiere, scintillavano come braci. Fraisier, calmo, freddo come
un serpente che si fosse drizzato sulla coda, allungava la testa
piatta e aveva l'atteggiamento con cui i pittori raffigurano
Mefistofele. Quei tre diversi avari, assetati d'oro come i diavoli
lo sono di rugiada del paradiso, senza nessun accordo volsero lo
sguardo sul proprietario di tante ricchezze, che aveva appena avuto
uno di quei movimenti provocati da un incubo. All'improvviso, sotto
il fuoco di quei tre raggi diabolici, il malato aprì gli occhi e
lanciò delle grida acute.
«I ladri!... eccoli! Aiuto! Mi uccidono!...».
Era evidente che continuava a sognare pur essendo
sveglio, seduto sul letto, con gli occhi spalancati, bianchi, fissi,
senza riuscire a muoversi».
Élie Magus e Rémonencq raggiunsero la porta, ma
rimasero inchiodati sull'uscio da queste parole:
«Magus qui!... sono stato tradito!...».
Il malato era stato svegliato dall'istinto di
conservazione del suo tesoro, sentimento forte quanto quello di
conservazione della propria vita.
«Signora Cibot, chi è questo signore?», gridò
rabbrividendo alla vista di Fraisier, che era rimasto immobile.
«Non potevo mica metterlo alla porta!», disse lei
strizzando l'occhio e facendo segno a Fraisier. «Il signore si è
presentato proprio ora a nome della vostra famiglia...».
Fraisier si lasciò sfuggire un gesto di
ammirazione per la Cibot.
«Sì, signore, vengo da parte della signora
presidentessa de Marville, di suo marito, di sua figlia, a
testimoniarvi il loro rammarico; hanno saputo per caso della vostra
malattia, e vorrebbero assistervi loro stessi... Vi offrono di
recarvi nella proprietà di Marville, per ristabilirvi in salute; la
signora viscontessa Popinot, la piccola Cécile cui volete tanto
bene, sarà la vostra infermiera... è stata lei a prendere le vostre
difese presso sua madre, e l'ha fatta ricredere sull'errore in cui
era caduta».
«E vi hanno mandato qui, i miei eredi», esclamò
Pons indignato, «dandovi per guida il più abile conoscitore, il più
raffinato esperto di Parigi?... Ah! bell'incarico!», continuò con un
riso da pazzo. «Voi venite a stimare i miei quadri, le mie
curiosità, le mie tabacchiere, le mie miniature!... Fatelo! avete
qui un uomo che non soltanto è un esperto in tutto ma che può
comprare, perché è dieci volte milionario... I miei cari parenti non
dovranno attendere a lungo la mia eredità», disse con ironia
profonda, «perché mi hanno dato il colpo di grazia... Ah! signora
Cibot, dite di essere mia madre e poi fate entrare qui dentro i
mercanti, il mio concorrente e i Camusot mentre sto dormendo!...
Fuori tutti!...».
E lo sventurato, sovreccitato dalla doppia azione
della collera e della paura, si alzò dal letto, pelle e ossa.
«Lasciate che vi aiuti, signore», disse la Cibot
precipitandosi su Pons per impedirgli di cadere. «Calmatevi dunque,
quei signori sono usciti».
«Voglio vedere il mio salotto!...», disse il
moribondo.
La Cibot fece segno ai tre corvi di sparire; poi
prese Pons, lo sollevò come una piuma e lo rimise a letto nonostante
le sue grida. Vedendo che lo sventurato collezionista era del tutto
esausto, andò a chiudere la porta dell'appartamento. I tre carnefici
di Pons erano ancora sul pianerottolo; quando la Cibot li vide,
disse loro di aspettarla, mentre udiva queste parole di Fraisier a
Magus:
«Scrivetemi una lettera firmata da voi due, con
la quale vi impegnate a pagare novecentomila franchi in contanti la
collezione del signor Pons, e vedremo di farvi fare un bel
guadagno».
Poi sussurò all'orecchio della Cibot una parola,
una sola, che nessuno poté udire, e scese in portineria coi due
mercanti.
LVII • DOVE SCHMUCKE SI INNALZA FINO AL TRONO DI DIO
«Signora Cibot», disse lo sventurato Pons quando
la portiera rientrò, «se ne sono andati?...».
«Chi... andati?...», chiese lei.
«Quegli uomini...».
«Quali uomini?... Avete visto degli uomini?!»,
disse. «Avete avuto un attacco di febbre con delirio, che senza di
me vi sareste buttato dalla finestra, e ancora mi parlate di
uomini... Volete rimanere ancora in quello stato?...».
«Ma come, poco fa non c'era qui un signore che
diceva di essere stato inviato dalla mia famiglia?...».
«E allora continuate», proseguì lei. «Parola mia,
sapete dove bisognerebbe mettervi? A Charenton!... Ora vedete degli
uomini!...».
«Élie Magus! Rémonencq!...».
«Ah, quanto a Rémonencq potete averlo visto,
perché è venuto a dirmi che il povero Cibot sta così male che ora
devo proprio lasciarvi alle vostre storie. Prima di tutto c'è il mio
Cibot! Quando mio marito è malato, non vedo più nessun altro.
Cercate di stare tranquillo e di dormire un paio d'ore; ho già
mandato a chiamare il dottor Poulain, e tornerò con lui... Bevete e
state buono».
«Non c'era nessuno qui in camera, prima, quando
mi sono svegliato?...».
«Nessuno!», disse la Cibot. «Avete visto il
signor Rémonencq nello specchio».
«Avete ragione, signora Cibot», disse il malato,
divenuto docile come un agnellino.
«Ecco che ora siete ragionevole... Addio, angelo
mio, state tranquillo, torno tra un momento».
Quando Pons sentì chiudere la porta
dell'appartamento, raccolse le sue ultime forze per alzarsi, dicendo
tra sé:
«M'ingannano! mi svaligiano! Schmucke è un
bambino che si lascerebbe legare dentro un sacco!...».
E il malato, animato dal desiderio di veder
chiaro in quella scena terribile che gli era sembrata troppo reale
per essere una visione, riuscì a raggiungere la porta della camera,
l'aprì con grande fatica, e si trovò nel salotto, dove la vista
delle sue amate tele, delle sue statue, dei suoi bronzi fiorentini,
delle sue porcellane, lo rianimò. Il collezionista, in vestaglia,
con le gambe nude, la testa in fiamme, riuscì a fare il giro dei due
passaggi tracciati dalle credenze e dagli armadi che, allineati,
dividevano il salotto in due parti. Con una prima occhiata da
padrone, contò tutto e verificò che nel suo museo non mancava
niente. Stava per tornare in camera quando il suo sguardo fu
attirato da un ritratto di Greuze al posto del Cavaliere di Malta di
Sebastiano del Piombo. Il sospetto solcò la sua intelligenza come un
lampo stria un cielo tempestoso. Guardò il posto occupato dai suoi
otto quadri più importanti, e li trovò tutti sostituiti. Sugli occhi
del pover'uomo calò all'istante un velo nero; le forze svanirono,
cadde sul pavimento. Lo svenimento fu così completo che Pons rimase
a terra per due ore; fu trovato da Schmucke, quando il tedesco,
ormai sveglio, uscì dalla propria camera per andare a vedere il suo
amico. Schmucke faticò molto per rialzare il moribondo e rimetterlo
a letto; ma quando rivolse la parola a quel mezzo cadavere,
ricevendone uno sguardo gelido, parole vaghe e balbettate, il povero
tedesco, invece di perdere la testa, divenne un eroe dell'amicizia.
Sotto la spinta della disperazione, quell'uomo-bambino ebbe alcune
di quelle ispirazioni che hanno solo le amanti o le madri. Fece
scaldare delle salviette (trovò delle salviette!), riuscì ad
avvolgerle intorno alle mani di Pons, gliene mise sullo stomaco; poi
prese tra le mani quella fronte bagnata di sudore freddo, vi
richiamò la vita con una forza di volontà degna di Apollonio di
Tiana. Baciò l'amico sugli occhi come quelle Marie che i grandi
scultori italiani hanno scolpito nei loro bassorilievi, nelle Pietà,
nell'atto di baciare il Cristo. Quegli sforzi divini,
quell'effusione di una vita in un'altra, quell'opera di madre e
amante, furono coronati da un pieno successo. Dopo una mezz'ora,
Pons, riscaldato, riprese sembianze umane: il colore vitale tornò
negli occhi, il calore esterno richiamò il movimento negli organi.
Schmucke fece bere a Pons l'acqua di melissa mescolata al vino, lo
spirito vitale s'infuse nel corpo, l'intelligenza si riaccese su
quella fronte poco prima insensibile come una pietra. Allora Pons
comprese a quale santa devozione, a quale forza d'amicizia fosse
dovuta la sua resurrezione.
«Senza di te sarei morto!», disse sentendosi il
viso teneramente bagnato dalle lacrime del buon tedesco, che insieme
rideva e piangeva.
Udendo queste parole, attese nel delirio della
speranza, che vale quanto quello della disperazione, il povero
Schmucke, le cui forze erano completamente esaurite, s'afflosciò
come un pallone bucato. Questa volta fu lui a cadere, si lasciò
andare su una poltrona, giunse le mani e ringraziò Dio con una
fervida preghiera. Secondo lui si era appena compiuto un miracolo!
Non credeva al potere della sua preghiera in atto, ma al potere di
Dio che aveva invocato. Invece quel miracolo era un effetto naturale
che i medici hanno spesso constatato.
Un malato circondato di affetto, accudito da
persone interessate alla sua vita, a eguali opportunità si salva,
mentre un malato affidato a dei mercenari soccombe. I medici non
vogliono vedervi gli effetti di un magnetismo involontario, e
attribuiscono questo risultato alle cure intelligenti, all'esatta
osservanza delle loro prescrizioni; ma molte madri conoscono bene la
virtù delle ardenti irradiazioni di un desiderio costante.
«Mio buon Schmucke!...».
«Non parlare, ti sento col cuore... Riposati!
riposati!», disse il musicista sorridendo.
«Povero amico mio! Nobile creatura! Figlio di Dio
vivente in Dio! L'unica persona che mi abbia voluto bene!...»,
esclamò Pons, con modulazioni inconsuete della voce.
L'anima, vicina a volarsene via, era tutta in
queste parole, che procurarono a Schmucke felicità quasi eguali a
quelle dell'amore.
«Vivi! vivi! e diventerò un leone! lavorerò per
due».
«Ascolta, mio buono e fedele, adorabile amico!
Lasciami parlare, il tempo stringe, perché sono morto e non mi
riavrò più da queste crisi ripetute».
Schmucke pianse come un bambino.
«Ascolta, piangerai dopo...», disse Pons. «Da
cristiano quale sei, devi rassegnarti. Mi hanno derubato, è stata la
Cibot... Prima di lasciarti, devo illuminarti sulle cose della vita,
che non conosci.... Hanno preso otto quadri che valevano somme
considerevoli».
«Perdonami, li ho venduti io...».
«Tu?».
«Io...», disse il povero tedesco. «Eravamo citati
in tribunale...».
«Citati!... e da chi?...».
«Aspetta!...».
Schmucke andò a prendere la carta bollata
lasciata dall'ufficiale giudiziario e la portò a Pons.
Pons lesse attentamente quella diavoleria. Dopo
averlo letto, lasciò cadere a terra il foglio e rimase in silenzio.
Quell'osservatore del lavoro umano, che fino ad allora aveva
trascurato le questioni della morale, finì per capire tutti i fili
della trama ordita dalla Cibot. La sua vivacità di artista, la sua
intelligenza di allievo dell'Académie de Rome, tutta la sua
giovinezza gli ritornarono per qualche istante.
«Mio buon Schmucke, obbediscimi militarmente.
Ascolta! Scendi in portineria e dì a quell'orribile donna che vorrei
rivedere la persona che mi è stata inviata dal mio cugino
presidente, e che se non viene lascerò la mia collezione al Museo;
si tratta del mio testamento».
Schmucke fece la commissione; ma alla sua prima
parola la Cibot rispose con un sorriso.
«Il nostro caro malato, caro signor Schmucke, ha
avuto un attacco di febbre con delirio e ha creduto di vedere delle
persone in camera sua. Vi do la mia parola di donna onesta che non è
venuto nessuno da parte della famiglia del nostro caro malato...».
Schmucke tornò con questa risposta, che ripeté
testualmente a Pons.
«È più forte, più scaltra, più astuta, più
machiavellica di quanto non credessi», disse Pons sorridendo, «mente
perfino in portineria! Figurati che stamani ha portato qui un ebreo
che si chiama Élie Magus, Rémonencq e un terzo che non conosco ma
che è più orribile lui da solo che gli altri due insieme. Ha contato
sul mio sonno per far stimare la mia eredità; il caso ha voluto che
mi svegliassi, e così li ho visti tutti e tre che soppesavano le mie
tabacchiere. Allora lo sconosciuto ha detto di essere stato mandato
dai Camusot; ho parlato con lui... Quell'infame della Cibot mi ha
detto che mi ero sognato tutto... Mio buon Schmucke, non stavo
sognando affatto!... Ho sentito benissimo quell'uomo, mi ha
parlato... I due mercanti si sono spaventati e sono fuggiti...
Pensavo che la Cibot si sarebbe smentita!... ma il tentativo è stato
inutile. Adesso provo con un'altra trappola in cui far cadere quella
scellerata... Mio povero amico, tu consideri la Cibot un angelo; ma
è una donna che da un mese a questa parte mi ha assassinato per
avidità. Non ho voluto credere che ci fosse tanta cattiveria in una
donna che ci aveva servito fedelmente per qualche anno. Quel dubbio
mi ha rovinato... Quanto ti hanno dato per gli otto quadri?...».
«Cinquemila franchi».
«Mio Dio, ne valevano venti volte tanto!»,
esclamò Pons. «È il fiore della mia collezione. Non ho il tempo
d'intentare un processo; e del resto significherebbe chiamarti in
causa come lo zimbello di quei mascalzoni... Un processo ti
ucciderebbe! Tu non sai cos'è la giustizia! È la fogna di tutte le
infamie morali... Alla vista di tanti orrori, anime come la tua
soccombono. E poi sarai comunque abbastanza ricco. Questi quadri mi
sono costati quarantamila franchi, li possiedo da trentasei anni...
Ma siamo stati derubati con un'abilità sorprendente. Io ormai sono
sul bordo della fossa, mi preoccupo soltanto di te... di te, il
migliore degli uomini. Ora, non voglio che tu sia depredato, perché
tutto quello che possiedo è tuo. Perciò devi diffidare di tutti,
anche se non sei mai stato diffidente. Dio ti protegge, lo so; ma
può dimenticarsi di te per un istante, e saresti saccheggiato come
un mercantile. La Cibot è un mostro, mi sta uccidendo! e tu vedi in
lei un angelo; voglio fartela conoscere; va a pregarla di indicarti
un notaio che riceva il mio testamento..., e te la mostrerò con le
mani nel sacco».
Schmucke ascoltava Pons come se gli avesse
raccontato l'Apocalisse. Il fatto che esistesse una natura così
perversa come quella della Cibot, se Pons aveva ragione, era per lui
la negazione della Provvidenza.
«Il mio povero amico Pons sta così male», disse
il tedesco entrando in portineria e rivolgendosi alla Cibot, «che
vuol fare testamento; andate a chiamare un notaio...».
Queste parole furono dette in presenza di molte
persone, perché le condizioni di Cibot erano quasi disperate.
Rémonencq, sua sorella, due portiere accorse dalle abitazioni
vicine, tre domestici degli inquilini e l'inquilino
dell'appartamento al primo piano che dava sulla strada, sostavano
sul portone.
«Ah! andatevelo a chiamare per conto vostro, il
notaio», esclamò la Cibot con le lacrime agli occhi, «e fatevi fare
il testamento da chi vi pare... Non lascio certo il letto del mio
Cibot che sta per morire... Darei tutti i Pons del mondo per salvare
Cibot... un uomo che non mi ha mai dato il minimo dispiacere in
trent'anni di matrimonio!...».
E rientrò, lasciando Schmucke interdetto.
«Signore», disse a Schmucke l'inquilino del primo
piano, «il signor Pons sta dunque molto male?...».
Questo inquilino, di nome Jolivard, era un
impiegato del registro, presso il Tribunale.
«È stato sul punto di morire poco fa!», rispose
Schmucke profondamente addolorato.
«Qui vicino, in rue Saint-Louis, c'è il notaio
Trognon», fece osservare il signor Jolivard. «È il notaio del
quartiere».
«Volete che vada a chiamarlo?», chiese Rémonencq
a Schmucke.
«Molto volentieri...», rispose Schmucke, «perché,
se la signora Cibot non può assistere il mio amico, non vorrei
lasciarlo solo nello stato in cui si trova...».
«La signora Cibot ci diceva che sta diventando
pazzo!...», continuò Jolivard.
«Pons pazzo?!», esclamò Schmucke atterrito. «Non
è mai stato tanto lucido... ed è proprio questo che mi preoccupa per
la sua salute».
Tutte le persone che componevano il gruppo
ascoltavano questa conversazione con una curiosità del tutto
naturale, che la incise nella loro memoria. Schmucke, che non
conosceva Fraisier, non poté accorgersi della sua testa satanica e
dei suoi occhi scintillanti. Fraisier, bisbigliando due parole
all'orecchio della Cibot, era stato l'autore di quella scena ardita,
forse al di sopra delle capacità della Cibot, ma che lei aveva
recitato in modo sublime. Far passare per pazzo il moribondo era una
delle pietre angolari della costruzione del leguleio. L'incidente
del mattino era servito molto a Fraisier; e senza di lui, forse, la
Cibot, nella sua confusione, si sarebbe smentita quando l'innocente
Schmucke era andato a tenderle una trappola, pregandola di
richiamare l'inviato della famiglia. Rémonencq, che vide
sopraggiungere il dottor Poulain, non chiese di meglio che sparire.
Ecco perché.
LVIII • UN CRIMINE PUNIBILE
Da dieci giorni Rémonencq rappresentava la parte
della Provvidenza, e ciò dispiaceva particolarmente alla Giustizia
che ha la pretesa di esserne la sola rappresentante. Rémonencq
voleva sbarazzarsi ad ogni costo dell'unico ostacolo che si opponeva
alla sua felicità. Per lui, la felicità consisteva nello sposare
l'appetitosa portiera e nel triplicare i propri capitali. Ora,
Rémonencq, vedendo il sartino intento a bere la sua tisana, aveva
avuto l'idea di convertire la sua indisposizione in una malattia
mortale, e il suo mestiere di ferravecchio gliene aveva fornito il
mezzo.
Una mattina, mentre fumava la sua pipa,
appoggiato di schiena allo stipite della porta della bottega, e
stava pensando a quel bel negozio sul boulevard de la Madeleine dove
avrebbe troneggiato la Cibot in abiti sfarzosi, lo sguardo gli cadde
su un dischetto di rame molto ossidato. All'improvviso gli venne
l'idea di pulire economicamente quel dischetto nella tisana di
Cibot. Legò il disco di rame, tondo come una moneta da cento soldi,
con uno spago; e mentre la Cibot era occupata coi suoi padroni,
andava tutti i giorni a informarsi sulla salute del suo amico sarto.
Durante la sua visita di qualche minuto, immergeva il dischetto di
rame nella tisana; quando se ne andava, lo estraeva grazie allo
spago. Questa leggera aggiunta di ossido di rame, comunemente
chiamato verderame, introdusse segretamente un principio deleterio
nella tisana benefica, ma in proporzioni omeopatiche, il che
produsse devastazioni incalcolabili. Ecco quali furono i risultati
di questa omeopatia criminale. Al terzo giorno, i capelli del povero
Cibot caddero, i denti tremarono negli alveoli, e l'equilibrio
dell'organismo fu sconvolto dall'impercettibile dose di veleno. Il
dottor Poulain si scervellò osservando l'effetto del decotto, perché
era abbastanza esperto per riconoscere l'azione di un agente
distruttivo. Senza che nessuno lo sapesse, portò via con sé la
tisana e la analizzò di persona; ma non trovò niente. Il caso volle
che quel giorno Rémonencq, spaventato della sua opera, non vi avesse
immerso il fatale dischetto. Il dottor Poulain se la cavò con se
stesso e con la scienza supponendo che, in conseguenza di una vita
sedentaria, in una portineria umida, il sangue del sarto rattrappito
su un tavolo, davanti a quella finestra con l'inferriata, avesse
potuto decomporsi per mancanza di movimento, e soprattutto per la
continua inspirazione delle esalazioni di un fetido ruscello. La rue
de Normandie è una di quelle vecchie vie, con la carreggiata
percorsa da un solco, in cui il comune di Parigi non ha ancora
costruito fontane, e dove un rigagnolo nero trascina faticosamente
le acque luride di tutte le case, che s'infiltrano sotto il selciato
producendo quella fanghiglia tipica della città di Parigi.
La Cibot andava e veniva, mentre il marito,
intrepido lavoratore, stava sempre davanti a quella finestra, seduto
come un fachiro. I ginocchi del sarto erano anchilosati, il sangue
si fermava alla vita; le gambe dimagrite, deformate, diventavano
membra quasi inutili. Così il colorito molto scuro di Cibot sembrava
naturalmente malaticcio da molto tempo. La buona salute della donna
e la malattia dell'uomo sembrarono al dottore un fatto naturale.
«Insomma, che malattia ha il mio povero Cibot?»,
aveva chiesto la portiera al dottor Poulain.
«Cara signora Cibot», rispose il dottore, «sta
morendo della malattia dei portieri... Il suo deperimento generale
rivela un incurabile vizio del sangue».
Un crimine immotivato, senza alcun guadagno,
senza alcun interesse, finì per cancellare dalla mente del dottor
Poulain i primi sospetti. Chi poteva voler uccidere Cibot? Sua
moglie? Il dottore la vide assaggiare la tisana di Cibot mentre la
zuccherava. Un gran numero di delitti sfugge alla vendetta della
società; e in generale sono quelli che si commettono, come questo,
senza le prove flagranti di una violenza qualunque: il sangue
versato, lo strangolamento, le percosse, i comportamenti maldestri;
ma soprattutto quando l'omicidio è stato commesso senza un interesse
apparente, e ad opera delle classi inferiori. Il delitto è sempre
denunciato dalla sua avanguardia: odii, avidità evidenti e ben note
alle persone accanto alle quali si vive. Ma, nelle circostanze in
cui si trovavano il sartino, Rémonencq e la Cibot, nessuno aveva
interesse a cercare la causa della morte, tranne il medico. Quel
portiere malaticcio, di pelle scura, spiantato, adorato dalla
moglie, non aveva nemici. I motivi e la passione del rigattiere si
nascondevano nell'ombra, proprio come la ricchezza della Cibot. Il
medico conosceva a fondo la portiera e i suoi sentimenti, e la
riteneva capace di tormentare Pons; ma sapeva che non aveva né
l'interesse né la forza di compiere un delitto; del resto, beveva un
cucchiaio di tisana prima di darla al marito, ogni volta che il
dottore veniva. Poulain, l'unica persona che poteva trovare una
spiegazione, credette a qualche imprevisto della malattia, una di
quelle singolari eccezioni che fanno della medicina un mestiere
tanto pericoloso. E in effetti il sartino si trovò, sventuratamente,
in condizioni di salute talmente precarie che quell'aggiunta
impercettibile di ossido di rame bastò a farlo morire. Le comari, i
vicini, si comportarono in modo da non mettere in discussione
l'innocenza di Rémonencq, giustificando quella morte improvvisa.
«Ah!», esclamava uno, «da molto tempo dicevo che
Cibot non stava bene».
«Quell'uomo lavorava troppo!», diceva un altro.
«Si è bruciato il sangue».
«Non voleva ascoltarmi», esclamava un vicino,
«gli consigliavo di andare a passeggiare la domenica, di riposare il
lunedì, perché due giorni la settimana per divertirsi non è certo
troppo».
Insomma le chiacchiere del quartiere, così
delatrici, che la giustizia ascolta con gli orecchi del commissario
di polizia, questo re del ceto basso, spiegavano perfettamente la
morte del sartino. Eppure l'aria pensierosa, gli occhi inquieti del
signor Poulain imbarazzavano molto Rémonencq; così, vedendo arrivare
il dottore, propose immediatamente a Schmucke di andare di persona a
chiamare quel signor Trognon che Fraisier conosceva.
«Sarò di ritorno per quando si farà il
testamento», disse Fraisier all'orecchio della Cibot, «e malgrado il
vostro dolore bisogna curare gli interessi».
L'avvocaticchio, che scomparve con la leggerezza
di un'ombra, incontrò il suo amico medico.
«Eh! Poulain», esclamò, «va tutto bene. Siamo a
cavallo!... Stasera ti dirò perché! Scegli il posto che preferisci,
lo avrai! Io, sono giudice di pace! Tabareau non mi rifiuterà più
sua figlia... Quanto a te, m'incarico di farti sposare la signorina
Vitel, la nipote del nostro giudice di pace».
Fraisier lasciò Poulain stupefatto da quelle
folli parole, e saltò sul boulevard come una palla; fece segno
all'omnibus e dopo dieci minuti fu lasciato da quel cocchio moderno
all'altezza della rue de Choiseul. Erano le quattro circa. Fraisier
era sicuro di trovare la presidentessa sola, perché i magistrati non
escono dal tribunale prima delle cinque.
La signora de Marville accolse Fraisier con una
cortesia che provava, secondo la promessa fatta alla signora
Vatinelle, come il signor Leboeuf avesse parlato favorevolmente
dell'ex procuratore di Mantes. Addirittura Amélie fece quasi la
civetta con Fraisier, come la duchessa di Montpensier con Jacques
Clément; infatti quell'avvocaticchio era il suo coltello. Ma quando
Fraisier le mostrò la lettera collettiva con la quale Élie Magus e
Rémonencq si impegnavano ad acquistare in blocco la collezione di
Pons per una somma di novecentomila franchi in contanti, la
presidentessa gli lanciò uno sguardo da cui sgorgava quella somma.
Un torrente di cupidigia investì il leguleio.
«Il signor presidente», disse la presidentessa,
«mi ha incaricata d'invitarvi a cena domani; saremo in famiglia:
avrete per commensali il signor Godeschal, successore del signor
Desroches, mio procuratore; poi Berthier, nostro notaio; mio genero
e mia figlia... Dopocena, voi ed io, il notaio e il procuratore,
avremo il colloquio che avete richiesto, nel corso del quale vi
affiderò i pieni poteri. Questi due signori obbediranno, come
chiedete, alle vostre direttive, e faranno in modo che tutto proceda
bene. Avrete la procura del signor de Marville appena vi sarà
necessaria...».
«Mi servirà il giorno del decesso...».
«La terremo pronta».
«Signora presidentessa, se chiedo una procura, se
voglio che il vostro procuratore non compaia, è più nel vostro
interesse che nel mio... Quando prendo un impegno, ci metto tutto me
stesso. Per questo, signora, chiedo in cambio ai miei protettori la
stessa fedeltà, la stessa fiducia; non oso dire, in questo caso, ai
miei clienti... Potrete forse credere che facendo così io voglia
aggrapparmi all'affare; no, no, signora; se si dovessero compiere
delle azioni riprovevoli... perché, in materia di successioni,
capita di essere travolti... soprattutto da un peso di novecentomila
franchi... bene, non potreste mai sconfessare un uomo come
Godeschal, la probità in persona; ma si potrà buttare tutto sulle
spalle di un pessimo uomo d'affari...».
La presidentessa guardò Fraisier con ammirazione.
«Andrete molto in alto o molto in basso», gli
disse. «Al vostro posto, invece di aspirare alla pensione di giudice
di pace, vorrei diventare procuratore del re... a Mantes! e fare una
grande carriera».
«Lasciate fare a me, signora! Il ruolo di giudice
di pace è un cavallo da curato per il signor Vitel, ma io ne farò un
cavallo da battaglia».
La presidentessa fece allora la sua ultima
confidenza a Fraisier.
«Mi sembrate così totalmente dedito ai nostri
interessi», disse, «che voglio farvi conoscere le difficoltà della
nostra situazione e quelle che sono le nostre speranze. Il
presidente, al momento del progettato matrimonio tra sua figlia e un
intrigante che poi è diventato banchiere, desiderava vivamente
aumentare la proprietà di Marville con numerose praterie, allora in
vendita. Ci siamo privati di quella magnifica residenza per maritare
mia figlia, come sapete; ma desidero assai, poiché abbiamo quella
figlia sola, acquistare ciò che è rimasto di quelle praterie. Sono
già state vendute in parte a un inglese che, dopo avervi abitato per
venti anni, torna in Inghilterra; ha costruito un delizioso cottage
in una posizione incantevole, tra il parco di Marville e i prati che
un tempo facevano parte della proprietà, e ha riscattato, per farsi
un parco, delle macchie, dei boschetti, dei giardini, a prezzi
folli. Il cottage e i suoi annessi formano un bel fabbricato nel
paesaggio, attiguo ai muri del parco di mia figlia. Si potrebbero
avere le praterie e la residenza per settecentomila franchi, dato
che il reddito netto dei prati è di ventimila franchi... Ma, se il
signor Wadman viene a sapere che siamo noi gli acquirenti, vorrà
sicuramente due o trecentomila franchi in più, che altrimenti
perderebbe e, come avviene in materia rurale, non si calcola
l'abitazione...».
«Ma, signora, voi potete, secondo me, contare con
tanta sicurezza sull'eredità che mi offro io di fare la parte
dell'acquirente per vostro conto, e mi impegno a farvi avere la
proprietà al miglior prezzo possibile con una scrittura privata,
come in genere usano fare gli intermediari di beni immobili... E in
questa veste mi presenterò all'inglese. Conosco bene questo genere
di affari; a Mantes erano la mia specialità. Vatinelle aveva
raddoppiato il valore del suo studio, perché io lavoravo sotto il
suo nome...».
«E così nacque la vostra relazione con la piccola
signora Vatinelle... Il notaio sarà molto ricco oggi...».
«Ma la signora Vatinelle spende molto... In ogni
caso state tranquilla, signora; vi servirò l'inglese cotto al punto
giusto...».
«Se ci riuscirete, avrete diritto alla mia eterna
riconoscenza... Addio, caro signor Fraisier. A domani...».
Fraisier uscì salutando la presidentessa con meno
servilismo della volta precedente.
«Domani sono a cena dal presidente de
Marville!...», diceva tra sé Fraisier. «Bene, li tengo in pugno.
Soltanto, per essere il padrone assoluto dell'affare, bisognerebbe
che io fossi il consulente di quel tedesco, nella veste di Tabareau,
l'ufficiale giudiziario del giudice di pace! Quel Tabareau, che mi
rifiuta sua figlia, figlia unica, me la darà se io divento giudice
di pace. La signorina Tabareau, allampanata, rossa e tisica, è
proprietaria, per parte di madre, di una casa in place Royale;
dunque sarò eleggibile. Per di più alla morte del padre avrà seimila
lire di rendita. Non è bella; ma, perdio! poiché si tratta di
passare da zero a diciottomila franchi di rendita, non è il caso di
fare troppe storie!...».
E, tornando attraverso i boulevards in rue de
Normandie, si abbandonava a quel sogno d'oro: si lasciava andare
alla felicità di liberarsi per sempre dal bisogno; pensava di far
sposare al suo amico Poulain la signorina Vitel, la figlia del
giudice di pace. Già si vedeva, insieme al dottore, uno dei re del
quartiere; avrebbe dominato sulle elezioni municipali, militari e
politiche. I boulevards sembrano più brevi quando, passeggiandovi si
porta con sé la propria ambizione a cavallo della fantasia.
LIX • LE ASTUZIE DI UN TESTATORE
Quando Schmucke risalì dal suo amico Pons, gli
disse che Cibot stava morendo e che Rémonencq era andato a chiamare
il notaio Trognon. Pons rimase colpito da quel nome, che la Cibot
gli ripeteva continuamente nei suoi discorsi interminabili,
raccomandandogli quel notaio come l'onestà in persona. Allora il
malato, la cui diffidenza era divenuta totale dopo quella mattina,
ebbe un'idea luminosa che gli permise di completare il suo piano per
giocare la Cibot e smascherarla agli occhi del credulo Schmucke.
«Schmucke», gli disse prendendo la mano al povero
tedesco inebetito da tanti avvenimenti, «deve esserci una grande
confusione in casa; se il portiere sta per morire, siamo quasi
liberi per qualche momento, cioè senza spie, perché stai sicuro che
ci stanno spiando! Esci, prendi un calesse, va' in teatro, di' alla
signorina Héloïse, la nostra prima ballerina, che voglio vederla
prima di morire, e che venga alle dieci e mezzo dopo lo spettacolo.
Poi va' dai tuoi due amici Schwab e Brunner, e pregali di venire qui
domani, alle nove del mattino, a chiedere mie notizie, fingendo di
passare di qui per caso e di salire a trovarmi...».
Ecco il piano ideato dal vecchio artista che si
sentiva morire. Voleva arricchire Schmucke, istituendolo suo erede
universale; per sottrarlo a ogni possibile cavillo, si proponeva di
dettare il testamento a un notaio in presenza di testimoni, perché
non si potesse credere che era fuori di testa, e per togliere ai
Camusot ogni pretesto per impugnare le sue ultime disposizioni. Quel
nome, Trognon, gli fece intravedere qualche macchinazione; pensò a
qualche vizio di forma predisposto in anticipo, a qualche infedeltà
premeditata dalla Cibot, e decise di servirsi di quel Trognon per
farsi dettare un testamento olografo che avrebbe sigillato e poi
nascosto in un cassetto del comò. Voleva mostrare a Schmucke,
facendolo nascondere in uno stanzino dell'alcova, la Cibot mentre
s'impadroniva del testamento, rompeva il sigillo, lo leggeva e lo
sigillava di nuovo. Poi, il giorno dopo alle nove, avrebbe annullato
il testamento olografo con un altro testamento fatto alla presenza
di un notaio, formalmente regolare e inoppugnabile. Quando la Cibot
l'aveva trattato da pazzo, da visionario, aveva riconosciuto l'odio
e la vendetta, l'avidità della presidentessa; infatti, a letto da
due mesi, il pover'uomo, durante le sue insonnie, nelle lunghe ore
di solitudine, aveva ripassato al setaccio gli avvenimenti della sua
vita.
Gli scultori antichi e moderni hanno spesso
collocato, a ogni lato della tomba, dei geni che impugnano torce
accese. Quei bagliori rischiarano ai morenti il quadro delle loro
colpe, dei loro errori, e illuminano i sentieri della morte. In
questo caso la scultura rappresenta grandi idee, formula un fatto
umano. L'agonia ha una sua saggezza. Spesso si vedono ingenue
fanciulle, nella più tenera età, dotate di una ragione centenaria,
diventare profetesse, giudicare la loro famiglia, non cadere in
alcun inganno. È la poesia della morte. Ma, cosa strana e degna di
nota! si muore in due modi diversi. Quella poesia della profezia, il
dono di vedere sia in avanti che indietro, riguarda soltanto i
morenti colpiti nella carne, che muoiono a causa della distruzione
degli organi della vita corporea. Così le persone colpite, come
Luigi XIV, dalla cancrena, i tisici, i malati che muoiono di febbre
come Pons, di stomaco come la signora de Mortsauf, o i soldati che
muoiono per ferite ricevute nel pieno della loro vitalità, tutti
costoro possiedono quella sublime lucidità, e fanno una fine
sorprendente, ammirevole. Invece coloro che muoiono di malattie, per
così dire, dell'intelligenza, il cui male risiede nel cervello, nel
sistema nervoso che fa da intermediario al corpo per fornirgli il
combustibile del pensiero, muoiono totalmente. In costoro lo spirito
e il corpo sprofondano insieme. Gli uni, anime senza corpo,
pervengono alle visioni bibliche; gli altri sono dei cadaveri.
Quell'uomo vergine, quel Catone goloso, quel giusto quasi senza
peccato, penetrò troppo tardi nelle sacche di fiele che componevano
il cuore della presidentessa. Capì il mondo quando fu sul punto di
lasciarlo. Così, da qualche ora, aveva serenamente preso la sua
decisione, come un artista gioioso per il quale ogni cosa è un
pretesto per facezie e scherzi. Gli ultimi legami che lo univano
alla vita, le catene dell'ammirazione, i nodi possenti che legavano
l'intenditore ai capolavori dell'arte, quella mattina erano stati
sciolti. Vedendosi derubato dalla Cibot, Pons aveva detto
cristianamente addio alle pompe e alle vanità dell'arte, alla sua
collezione, alle sue simpatie per i creatori di tante belle cose, e
voleva pensare soltanto alla morte, come i nostri antenati che la
consideravano una delle feste del cristiano. Nel suo affetto per
Schmucke, Pons intendeva proteggerlo dal fondo della sua tomba.
Questo pensiero paterno fu la ragione per cui scelse la prima
ballerina come aiuto contro le perfidie che lo circondavano, e che
non avrebbero sicuramente risparmiato il suo erede universale.
Héloïse Brisetout era una di quelle creature che
restano autentiche in una posizione falsa, capaci di qualunque
scherzo ai danni degli adoratori paganti, una figlia della scuola
delle Jenny Cadine e delle Josépha; ma una buona compagna, che non
temeva nessun potere a forza di vedere le debolezze umane e abituata
com'era ad affrontare le guardie municipali al ballo poco campestre
di Mabille e al carnevale.
«Se ha fatto dare il mio posto al suo protetto
Garangeot, si sentirà tanto più in obbligo nei miei confronti»,
pensò Pons.
Schmucke poté uscire senza che nessuno se ne
accorgesse, data la confusione che regnava nella portineria, e tornò
con la massima rapidità per non lasciare troppo a lungo Pons solo.
Il signor Trognon giunse per il testamento
contemporaneamente a Schmucke. Sebbene Cibot fosse in punto di
morte, sua moglie accompagnò il notaio, lo fece entrare nella camera
da letto e si ritirò, lasciando insieme Schmucke, il signor Trognon
e Pons; ma si armò di uno specchietto congegnato in modo tale da
essere infilato nella porta lasciata socchiusa. Così la Cibot poteva
non soltanto udire ma anche vedere tutto ciò che si sarebbe detto e
sarebbe accaduto in quel momento per lei supremo.
«Signore», disse Pons, «sono purtroppo nelle mie
piene facoltà perché sento che sto per morire; e certo per volontà
di Dio, nessuna delle sofferenze della morte mi viene
risparmiata!... Questo è il signor Schmucke...».
Il notaio salutò Schmucke.
«È il solo amico che io abbia sulla terra», disse
Pons, «e voglio istituirlo mio erede universale; ditemi quale forma
deve avere il testamento affinché il mio amico, che è tedesco e non
sa nulla delle nostre leggi, possa ricevere l'eredità senza alcuna
contestazione».
«Si può sempre contestare tutto, signore», disse
il notaio, «è l'inconveniente della giustizia umana. Ma in materia
di testamenti, ve ne sono di inoppugnabili...».
«Quali?», chiese Pons.
«Un testamento fatto davanti al notaio, in
presenza di testimoni che dichiarino che il testatore è nel pieno
delle sue facoltà, e se non ha né moglie, né figli, né padre, né
fratello...».
«Non ho niente di tutto questo, tutti i miei
affetti sono concentrati nel mio caro amico Schmucke qui
presente...».
Schmucke piangeva.
«Se dunque avete soltanto dei collaterali
lontani, poiché la legge vi lascia libero di disporre dei vostri
beni mobili e immobili, sempre che non li leghiate a condizioni
moralmente riprovevoli, e avrete senz'altro sentito parlare di
testamenti impugnati a causa della bizzarria dei testatori, un
testamento fatto davanti al notaio è inoppugnabile. Infatti
l'identità della persona non può essere negata, il notaio ha
constatato il pieno possesso delle facoltà mentali, e la firma non
può dar luogo a discussioni... Tuttavia, anche un testamento
olografo, steso in buona forma e chiaro, è sostanzialmente
inoppugnabile».
«Decido, per ragioni personali, di scrivere sotto
vostra dettatura un testamento olografo, e di affidarlo a questo mio
amico... Si può fare?...».
«Certamente!», disse il notaio. «Se volete
scrivere, ve lo detto...».
«Schmucke, dammi il mio piccolo scrittoio di
Boulle... Signore, dettatemi a bassa voce perché», aggiunse,
«qualcuno potrebbe ascoltarci».
«Ditemi allora, prima di tutto, quali sono le
vostre intenzioni?», chiese il notaio.
Dopo dieci minuti la Cibot, che Pons intravedeva
in uno specchio, vide sigillare il testamento dopo che il notaio
l'ebbe esaminato, mentre Schmucke accendeva una candela; poi Pons lo
consegnò a Schmucke dicendogli di chiuderlo in un nascondiglio dello
scrittoio; il testatore ne chiese la chiave, l'annodò a un angolo
del fazzoletto e mise il tutto sotto il guanciale. Il notaio,
chiamato per gentilezza esecutore testamentario, e al quale Pons
lasciava un quadro di valore, una di quelle cose che la legge
permette di donare a un notaio, uscì e trovò la signora Cibot nel
salotto.
«Ebbene, signore, il signor Pons ha pensato a
me?».
«Non aspettatevi, mia cara, che un notaio
tradisca i segreti che gli sono affidati», rispose il signor
Trognon. «Tutto quello che posso dirvi è che ci saranno molte
bramosie frustrate e molte aspettative deluse. Il signor Pons ha
fatto un bel testamento, pieno di buon senso, un testamento
patriottico, che approvo pienamente».
Non si può immaginare fino a che punto arrivò la
curiosità della Cibot, stimolata da tali parole. Scese e passò la
notte accanto a Cibot, ripromettendosi di farsi sostituire dalla
signora Rémonencq, e di andare a leggere il testamento tra le due e
le tre del mattino.
LX • IL FINTO TESTAMENTO
La visita della signorina Héloïse Brisetout, alle
dieci e mezzo di sera, sembrò assai naturale alla Cibot; ma siccome
aveva paura che la ballerina parlasse dei mille franchi dati da
Gaudissart, accompagnò la prima ballerina prodigandole cortesie e
complimenti come a una sovrana.
«Ah! mia cara, siete molto meglio sul vostro
terreno che a teatro», disse Héloïse salendo le scale. «Vi consiglio
di non lasciare mai il vostro lavoro!».
Héloïse, che era stata accompagnata in vettura da
Bixiou, il suo amico del cuore, era vestita con sfarzo, perché stava
andando da Mariette, una delle più famose prime ballerine
dell'Opéra. Il signor Chapoulot, vecchio negoziante di passamaneria
della rue Saint-Denis, l'inquilino del primo piano, che stava
tornando dall'Ambigu-Comique con la figlia, rimase abbagliato,
insieme alla moglie, incontrando sulle scale una creatura così
incantevole, con un tale abbigliamento.
«Ma chi è, signora Cibot?», chiese il signor
Chapoulot.
«È una nullità!... una saltatrice che si può
vedere quasi nuda tutte le sere per quaranta soldi...», rispose la
portiera all'orecchio di sua moglie.
«Victorine», disse la signora Chapoulot alla
figlia, «piccina, fai passare la signora!».
Questo grido di madre spaventata fu capito da
Héloïse, che si girò dicendo:
«Vostra figlia è dunque peggio dell'esca,
signora, se avete paura che s'infiammi solo a sfiorarmi?!...».
Héloïse guardò il signor Chapoulot con simpatia e
sorridendo.
«Accidenti, è proprio carina, anche fuori del
teatro!», disse il signor Chapoulot rimanendo sul pianerottolo.
La signora Chapoulot dette un pizzicotto al
marito, da farlo gridare, e lo spinse dentro l'appartamento.
«Ecco un secondo piano», disse Héloïse, «che ha
tutta l'aria di essere un quarto».
«Eppure la signorina è abituata a montare», disse
la Cibot aprendo la porta dell'appartamento.
«Allora, vecchio mio», disse Héloïse entrando
nella camera e vedendo il povero musicista disteso, pallido, il
volto scavato, «non va tanto bene, vero? A teatro sono tutti
preoccupati per voi; ma sapete bene come succede: per quanto si
abbia un buon cuore, ognuno ha i suoi impegni, ed è difficile
trovare un'ora per andare a visitare gli amici. Tutti i giorni
Gaudissart dice che vuol venire a trovarvi, e poi ogni mattina è
preso dai fastidi dell'amministrazione. Comunque vi vogliamo tutti
bene...».
«Signora Cibot», disse il malato, «fatemi il
piacere di lasciarci soli con la signorina; dobbiamo parlare di cose
di teatro e del mio posto di direttore d'orchestra... Schmucke
riaccompagnerà la signora».
Schmucke, a un cenno di Pons, mise la Cibot alla
porta e tirò il chiavistello.
«Ah! furfante d'un tedesco! ecco che si guasta
pure lui!...», pensò la Cibot sentendo quel rumore significativo. «È
Pons a insegnargli queste cose orribili... Ma me la pagherete, miei
piccoli amici...», disse tra sé la Cibot scendendo le scale. «Bah!
se quell'acrobata gli parla dei mille franchi, gli dirò che è stato
tutto uno scherzo da teatro».
E si sedette al capezzale di Cibot, che si
lamentava di avere il fuoco nello stomaco, perché Rémonencq gli
aveva appena dato da bere, in assenza della moglie.
«Mia cara bambina», disse Pons alla ballerina
mentre Schmucke portava fuori la Cibot, «mi fido soltanto di voi per
la scelta di un notaio onesto, che venga domani mattina, alle nove e
mezzo precise, a ricevere il mio testamento. Voglio lasciare tutta
la mia fortuna al mio amico
Schmucke. Nel caso che questo povero tedesco dovesse subire delle
persecuzioni, conto su questo notaio per consigliarlo e difenderlo.
Per questo desidero un notaio stimato, molto ricco, superiore alle
influenze che fanno spesso piegare gli uomini di legge; il mio
povero legatario dovrà trovare in lui un sostegno. Non mi fido di
Berthier, successore di Cardot; voi che conoscete così tanta
gente...».
«Ho quello che ti serve!», disse la ballerina.
«Il notaio di Florine, della contessa de Bruel: Léopold Hannequin,
una persona seria che non sa neppure cosa sia una donnina allegra! È
proprio come un padre, un brav'uomo che vi impedisce di fare
sciocchezze col denaro guadagnato; io lo chiamo il padre dei topi,
perché ha inculcato dei principî di economia a tutte le mie amiche.
Innanzitutto, mio caro, ha sessantamila franchi di rendita oltre il
suo studio. Poi è notaio come lo si era una volta! È notaio quando
cammina, è notaio quando dorme: deve aver messo al mondo soltanto
dei piccoli notai e delle piccole notaie... Insomma, è un uomo
noioso e pedante, ma è anche un uomo che non si piega davanti a
nessun potente, quando svolge le sue funzioni... Non ha mai avuto
addosso amanti sanguisughe, è un padre di famiglia fossile! ed è
adorato dalla moglie, che non lo tradisce mai, pur essendo moglie di
notaio... Che vuoi di più? A Parigi non c'è un notaio migliore. È un
patriarca; non è buffo e divertente come lo era Cardot con Malaga,
ma non si ritirerà mai, come quel piccoletto che viveva con Antonia!
Te lo manderò domani mattina, alle otto... Puoi dormire tranquillo.
Prima di tutto spero che guarirai, e che ci farai ancora della bella
musica; ma insomma, che vuoi farci, la vita è davvero triste, gli
impresari mercanteggiano, i re scroccano, i ministri trafficano, i
ricchi economizzano... Gli artisti non hanno più questo!», disse
battendosi il cuore. «Sono tempi da morire... Addio, vecchio!».
«Soprattutto, Héloïse, ti chiedo la massima
discrezione».
«Non è un affare di teatro», rispose, «è una cosa
sacra per un artista».
«Chi è il tuo amico, piccola?».
«Il sindaco della tua circoscrizione, il signor
Beaudoyer, un uomo stupido quanto il defunto Crevel; avrai saputo
che Crevel, uno dei vecchi soci di Gaudissart, è morto qualche
giorno fa, e non mi ha lasciato niente, neppure un vasetto di
pomata. E per questo ti dico che il nostro secolo è disgustoso».
«E di cosa è morto?».
«Di sua moglie!... Se fosse rimasto con me,
sarebbe ancora vivo! Addio, mio caro! Ti parlo di morte perché sono
sicura di vederti tra quindici giorni a spasso per i boulevards, a
caccia di deliziose piccole curiosità, perché tu non sei malato...
non ti ho mai visto due occhi così vivaci...».
E la ballerina se ne andò, sicura che il suo
protetto Garangeot avrebbe avuto per sempre la bacchetta di
direttore d'orchestra. Garangeot era suo cugino carnale... Ogni
porta era socchiusa, e ogni inquilino, appostato, vide passare la
prima ballerina. Per la casa fu un avvenimento.
Fraisier, simile a quei mastini che non mollano
mai il boccone addentato, sostava in portineria, accanto alla Cibot,
quando la ballerina raggiunse il portone e chiese che venisse
aperto. Sapeva che il testamento era stato fatto, e veniva a sondare
le intenzioni della portiera; infatti il notaio Trognon si era
rifiutato di dire una sola parola sul testamento, tanto a Fraisier
che alla Cibot. Naturalmente il leguleio, vedendo la ballerina, si
propose di trarre un vantaggio da quella visita in extremis.
«Mia cara signora Cibot», disse Fraisier, «questo
è per voi il momento critico».
«Ah! sì...», disse lei, «mio povero Cibot!...
Quando penso che non si godrà quello che riuscirò ad avere...».
«Il problema è sapere se il signor Pons vi ha
lasciato qualcosa; insomma, se siete nel testamento oppure se siete
stata dimenticata», disse Fraisier continuando. «Io rappresento gli
eredi naturali, e voi potrete avere qualcosa soltanto da loro, in
ogni caso... Il testamento è olografo, e di conseguenza è assai
vulnerabile... Sapete dove il nostro uomo l'abbia messo?».
«In un nascondiglio dello scrittoio, e ha preso
la chiave», rispose la Cibot, «l'ha annodata a un angolo del
fazzoletto, e ha messo il fazzoletto sotto il cuscino... Ho visto
tutto».
«Il testamento è sigillato?».
«Ahimè, sì!».
«Sottrarre un testamento e distruggerlo è un
grave reato; leggerlo non è altrettanto grave. E in ogni caso si
tratta di peccatucci senza testimoni! Ha il sonno duro il nostro
uomo?...».
«Sì; ma quando volevate esaminare e stimare ogni
cosa, avrebbe dovuto dormire come un ghiro e invece s'è svegliato...
Comunque, vado a vedere! Stamattina andrò a dare il cambio al signor
Schmucke verso le quattro; se volete venire, potrete avere il
testamento per una diecina di minuti...».
«Bene! d'accordo, mi alzerò verso le quattro, e
busserò piano...».
«La signorina Rémonencq, che prenderà il mio
posto accanto a Cibot, sarà avvisata e vi aprirà; ma bussate alla
finestra, in modo da non svegliare nessuno».
«D'accordo», disse Fraisier, «mi darete voi un
lume? Basterà una candela...».
A mezzanotte, il povero tedesco, seduto in una
poltrona, straziato dal dolore, stava guardando Pons, il cui volto
contratto, da moribondo, si stava rilassando dopo tante tensioni, da
far credere che stesse per spirare.
«Penso che mi resti la forza per arrivare a
domani sera», disse Pons con filosofia. «La mia agonia arriverà
certamente, mio povero Schmucke, domani notte. Dopo che il notaio e
i tuoi due amici saranno usciti, andrai a chiamare il nostro buon
abate Duplanty, il vicario della chiesa di Saint-François. Quel
degno uomo non sa che sono malato, e voglio ricevere i sacramenti
domani a mezzogiorno...».
Ci fu una lunga pausa.
«Dio non ha voluto che la vita fosse per me come
la sognavo», riprese Pons. «Mi sarebbe piaciuto tanto avere una
moglie, dei figli, una famiglia!... Essere amato da qualcuno, in una
casa, era la mia unica ambizione! La vita è amara per tutti, perché
ho visto gente che aveva tutto quello che io desideravo invano, ma
non era felice... Alla fine della mia esistenza, il buon Dio mi ha
fatto trovare una consolazione insperata, dandomi un amico come
te!... E io non ho certo da rimproverarmi di non averti saputo
apprezzare, mio buon Schmucke; perché ti ho dato il mio cuore e
tutto il mio affetto... Non piangere, Schmucke, o tacerò! ed è così
dolce per me parlarti di noi... Se ti avessi dato ascolto, vivrei
ancora. Avrei lasciato il mondo e le mie abitudini, e non vi avrei
ricevuto delle ferite mortali. Ma ora voglio pensare solo a te!...».
«Hai torto!...».
«Non contrariarmi, ascoltami, amico mio... Tu hai
l'ingenuità, il candore di un bambino di sei anni che non abbia mai
lasciato la madre, e ciò è degno di grande rispetto; penso che Dio
in persona dovrebbe occuparsi degli esseri come te. Eppure, gli
uomini sono così malvagi che devo metterti in guardia contro di
loro. Dunque perderai la tua nobile fiducia, la tua santa credulità,
questa grazia delle anime pure che soltanto le persone di genio e di
cuore come te possiedono... Tra poco vedrai la signora Cibot, che ci
ha osservati dall'uscio socchiuso, venire a prendere il finto
testamento... Presumo che la briccona farà questa spedizione
stamattina, quando crederà che tu stia dormendo. Ascoltami bene, e
segui alla lettera le mie istruzioni... Hai capito?», chiese il
malato.
LXI • PROFONDO DISAPPUNTO
Schmucke, affranto dal dolore, colto da una
terribile palpitazione, aveva abbandonato la testa sulla spalliera
della poltrona e sembrava svenuto.
«Sì, ti ascolto! ma come se tu fossi a duecento
passi da me... mi sembra di sprofondare nella tomba con te!...»,
disse il tedesco, straziato dal dolore.
Si avvicinò a Pons, gli prese una mano che tenne
tra le sue, e pronunciò mentalmente una fervida preghiera.
«Cosa stai borbottando in tedesco?...».
«Ho pregato Dio di chiamarci a sé tutti e due
insieme!...», rispose con semplicità dopo aver terminato la sua
preghiera.
Pons si chinò a fatica, perché stava soffrendo
dolori insopportabili al fegato. Riuscì ad abbassarsi fino a
Schmucke e lo baciò sulla fronte, spargendo la sua anima come una
benedizione su quell'essere comparabile all'agnello che riposa ai
piedi di Dio.
«Su, ascoltami, mio buon Schmucke, bisogna
obbedire a chi sta morendo...».
«Ti ascolto!».
«La tua camera comunica con la mia attraverso la
porticina della tua alcova, che dà in uno dei ripostigli della mia».
«Sì, ma è ingombro di quadri».
«Vai subito a liberare la porta, senza far
rumore!...».
«Sì...».
«Libera il passaggio dai due lati, dal mio e dal
tuo; lascia l'uscio socchiuso dalla tua parte. Quando la Cibot verrà
a darti il cambio (stamani è capace di arrivare un'ora prima), te ne
andrai a dormire come al solito, e fingerai di essere molto stanco.
Cerca di sembrare già quasi addormentato... Appena si sarà seduta
nella poltrona, esci dalla tua porta e resta lì a guardare,
socchiudendo la tendina di mussola della porta a vetri, e osserva
quello che succede... Hai capito?».
«Ho capito: pensi che la scellerata brucerà il
testamento...».
«Non so cosa farà, ma sono sicuro che dopo non la
crederai più un angelo. Ora suonami un po' di musica, rallegrami con
qualcuna delle tue improvvisazioni... Ti farà passare un po' di
tempo, dimenticherai i cattivi pensieri e riempirai questa mia notte
nera con i tuoi poemi...».
Schmucke si mise al piano. Dopo qualche istante,
l'ispirazione musicale, eccitata dal tremito del dolore e
dall'irritazione che ciò gli procurava, trasportò il buon tedesco,
come sempre gli accadeva, in un'altra dimensione. Trovò temi sublimi
sui quali ricamò capricci eseguiti ora con il dolore e la perfezione
raffaellesca di Chopin, ora con la foga e la grandiosità dantesca di
Listz, le due strutture musicali che più si avvicinano a quella di
Paganini. L'esecuzione, giunta a un tale grado di perfezione, pone
apparentemente l'esecutore alla stessa altezza del poeta, e sta al
compositore come l'attore sta all'autore, un divino traduttore di
cose divine. Ma in quella notte in cui Schmucke fece udire a Pons in
anticipo i concerti del Paradiso, quella musica deliziosa che fa
cadere dalle mani di santa Cecilia i suoi strumenti, fu
contemporaneamente Beethoven e Paganini, il creatore e l'interprete!
Inesauribile come un usignolo, sublime come il cielo sotto il quale
canta, vario, frondoso come la foresta che riempie dei suoi trilli,
superò se stesso, e mandò il vecchio musicista che lo ascoltava in
quell'estasi dipinta da Raffaello, che si può vedere a Bologna.
Quella poesia fu interrotta da un terribile scampanellio. La
domestica degli inquilini del primo piano venne a pregare Schmucke,
da parte dei suoi padroni, di farla finita con quel sabba. La
signora, il signore, la signorina Chapoulot si erano svegliati, non
riuscivano a riprendere sonno, e facevano notare che le prove di
musica per il teatro potevano essere eseguite durante il giorno, e
che in una casa del Marais non si doveva strimpellare di notte...
Erano circa le tre del mattino. Alle tre e mezzo, secondo le
previsioni di Pons, che sembrava avesse udito la conversazione tra
Fraisier e la Cibot, apparve la portiera. Il malato lanciò a
Schmucke uno sguardo significativo che voleva dire: «Non avevo
indovinato?», e si mise nella posizione di uno che dorma
profondamente.
L'innocenza di Schmucke costituiva una tale
certezza per la Cibot, e questo è uno dei grandi mezzi e la ragione
del successo di tutte le astuzie dell'infanzia, che non poté neppure
sospettare che stesse fingendo quando lo vide avvicinarsi a lei per
dirle con aria dolente e insieme gioiosa: «Ha avuto una notte
orribile! Un'agitazione diabolica! Per calmarlo sono stato costretto
a suonare della musica, e gli inquilini del primo piano sono saliti
a farmi smettere!... È vergognoso, perché si trattava della vita del
mio amico. Sono così stanco per aver suonato tutta la notte... sono
sfinito...».
«Anche il mio povero Cibot sta molto male:
un'altra giornata come quella di ieri, e non ce la farà più... che
volete farci! è la volontà di Dio!».
«Avete un cuore talmente onesto, e un'anima così
bella che, se il povero Pons muore, vivremo insieme...», disse
l'astuto Schmucke.
Quando le persone semplici e oneste si mettono a
simulare, diventano terribili, proprio come i bambini che tendono le
loro trappole con la perfezione dei selvaggi.
«Bene, andate a dormire, figlio mio!», disse la
Cibot. «Avete gli occhi così stanchi... gonfi come pugni... Su!
l'unica cosa che potrebbe consolarmi della perdita di Cibot è
pensare che potrei finire i miei giorni con un buonuomo come voi.
State tranquillo, ci penso io alla signora Chapoulot!... Una
bottegaia a riposo non può avere simili esigenze!...».
Schmucke andò a mettersi nel punto d'osservazione
che si era preparato.
La Cibot aveva lasciato la porta
dell'appartamento socchiusa e Fraisier, dopo essere entrato, la
chiuse piano piano, quando Schmucke si fu ritirato nella propria
camera. L'avvocato era munito di una candela accesa e di un filo
d'ottone sottilissimo per dissigillare il testamento. La Cibot poté
prendere facilmente il fazzoletto cui era annodata la chiave dello
scrittoio e che era sotto il guanciale di Pons, perché il malato
aveva deliberatamente fatto in modo che il fazzoletto si trovasse
sotto il capezzale, e si prestava alla manovra della Cibot tenendo
il viso verso la parete, in una posizione che permetteva di prendere
facilmente il fazzoletto. La Cibot andò dritta allo scrittoio,
l'aprì cercando di fare il minor rumore possibile, trovò il congegno
del nascondiglio e corse, col testamento in mano, nel salotto.
Questa circostanza accese incredibilmente la curiosità di Pons.
Quanto a Schmucke, tremava dalla testa ai piedi, come se avesse
commesso un delitto.
«Tornate al vostro posto», disse Fraisier
prendendo alla Cibot il testamento, «perché, se si sveglia, deve
trovarvi accanto a lui».
Dopo aver dissigillato la busta con un'abilità
che provava che non era alla sua prima esperienza, Fraisier rimase
immerso in uno stupore profondo leggendo questo atto curioso:
QUESTO È IL
MIO TESTAMENTO
«Oggi, quindici aprile
milleottocentoquarantacinque, nel pieno possesso delle mie facoltà,
come questo testamento, redatto in accordo con il signor Trognon,
notaio, dimosterà; sentendomi vicino a morire della malattia che mi
ha colpito nei primi giorni del febbraio scorso, ho dovuto, volendo
disporre dei miei beni, indicare le mie ultime volontà, come segue:
«Mi hanno sempre colpito gli inconvenienti che
danneggiano i capolavori della pittura e che spesso hanno provocato
la loro distruzione. Mi ha sempre addolorato che le belle tele
fossero condannate a viaggiare di paese in paese, senza mai fermarsi
in un solo luogo dove gli ammiratori di questi capolavori possano
andare a vederli. Ho sempre pensato che le pagine veramente
immortali dei maestri illustri dovrebbero essere di proprietà
nazionale, costantemente davanti agli occhi dei popoli, così come la
luce, capolavoro di Dio, serve a tutti i suoi figli.
«Ora, poiché ho passato la mia vita a
raccogliere, a scegliere quadri, gloriose opere dei più grandi
maestri, autentiche, senza ritocchi né restauri, non ho mai pensato
senza dolore che queste tele che hanno fatto la felicità della mia
vita potessero essere vendute all'asta, e finire disperse, le une in
Inghilterra, le altre in Russia, com'erano prima di essere raccolte
da me; ho dunque deciso di sottrarle a queste miserie, e questo vale
anche per le magnifiche cornici, opera di abili artigiani.
«Dunque, per queste ragioni, dono e lascio in
legato al re, perché entrino a far parte del Museo del Louvre, i
quadri che compongono la mia collezione, a condizione, se il legato
è accettato, di assegnare al mio amico Wilhelm Schmucke una rendita
vitalizia di duemilaquattrocento franchi.
«Qualora il re, in qualità di usufruttuario del
Museo, non accetti questo legato a tale condizione, i suddetti
quadri faranno allora parte del legato che istituisco a favore del
mio amico Schmucke, comprendente tutti i beni che possiedo, con
l'obbligo di consegnare la Testa di scimmia di Goya a mio cugino, il
presidente Camusot; il quadro dei Fiori di Abraham Mignon, con
tulipani, al notaio signor Trognon, che nomino esecutore
testamentario, e di assegnare duecento franchi di rendita alla
signora Cibot, che da dieci anni si occupa della mia casa.
«Infine, il mio amico Schmucke donerà la
Deposizione di Rubens, schizzo del celebre dipinto di Anversa, alla
mia parrocchia, perché se ne decori una cappella, in ringraziamento
per la bontà del signor vicario Duplanty, grazie al quale mi è data
la possibilità di morire da cristiano, da cattolico». Ecc.
«È la rovina!», pensò Fraisier. «La rovina di
tutte le mie speranze! Ah! comincio a credere a tutto quello che mi
ha detto la presidentessa sulla malizia di questo vecchio
artista!...».
«Ebbene?», chiese la Cibot.
«Il vostro padrone è un mostro, lascia tutto al
Museo dello Stato. E non si può certo fare causa allo Stato!... Il
testamento è inoppugnabile! Siamo derubati, spogliati,
assassinati!...».
«Che mi ha lasciato?».
«Un vitalizio di duecento franchi...».
«Bello sforzo!... Che mascalzone!...».
«Andate a dare un'occhiata», disse Fraisier,
«vado a rimettere nella busta il testamento del vostro mascalzone».
LXII • PRIMA CATASTROFE
Appena la Cibot ebbe voltato le spalle, Fraisier
si affrettò a sostituire un foglio di carta bianca al testamento,
che si mise in tasca. Poi sigillò di nuovo la busta con una tale
abilità che quando la Cibot tornò le mostrò il sigillo, chiedendole
se fosse in grado di scorgervi la più piccola traccia
dell'operazione. La Cibot prese la busta, la tastò, la sentì piena e
sospirò profondamente. Aveva sperato che Fraisier avesse provveduto
a bruciare quel documento fatale.
«E adesso che facciamo, caro signor Fraisier?»,
chiese.
«Ah, è un problema vostro. Io non eredito nulla;
ma se avessi anche il più piccolo diritto su questa roba», disse
indicando la collezione, «saprei bene come fare...».
«È proprio quello che vi chiedo...», disse con
aria ingenua la Cibot.
«C'è del fuoco nel caminetto...», replicò
Fraisier alzandosi per andare via.
«Di fatto lo sapremmo soltanto voi ed io...»,
disse la Cibot.
«Non si può mai provare che un testamento sia
esistito!», continuò il leguleio.
«E voi?».
«Io?... Se il signor Pons muore senza testamento,
vi garantisco centomila franchi».
«Ma bene!», disse lei. «Ti promettono montagne
d'oro e poi, quando si stringe e si tratta di pagare, ti fregano
come...».
Si fermò giusto in tempo, perché stava per
parlare a Fraisier di Élie Magus...
«Io me ne vado!», disse Fraisier. «Nessuno, nel
vostro interesse, deve vedermi nell'appartamento; ci troviamo giù,
in portineria».
Chiusa la porta, la Cibot ritornò, con il
testamento in mano e con la ferma intenzione di gettarlo nel fuoco;
ma, appena rientrò nella stanza e si avvicinò al caminetto,
si sentì afferrare per le braccia!... E si trovò tra Pons e
Schmucke, che si erano appoggiati entrambi al tramezzo, ai due lati
della porta.
«Ah!», gridò la Cibot.
Cadde con la faccia in avanti, in preda a
terribili convulsioni, vere o simulate, non si seppe mai la verità.
Questo spettacolo fece una tale impressione a Pons che fu preso da
una debolezza mortale, e Schmucke lasciò la Cibot a terra per
riaccompagnare a letto Pons. I due amici tremavano come chi,
nell'esecuzione di un compito ingrato, si sia spinto oltre le
proprie forze. Quando Pons fu a letto, e Schmucke ebbe ripreso un
po' di forze, udì dei singhiozzi. La Cibot, in ginocchio, si
scioglieva in lacrime e tendeva le mani ai due amici supplicandoli
con una pantomima assai espressiva.
«È stata solo curiosità!», disse vedendosi al
centro dell'attenzione dei due amici, «mio buon signor Pons! È il
difetto delle donne, lo sapete! Ma non ho saputo come fare a leggere
il vostro testamento, e lo stavo riportando!...».
«Andate via!», disse Schmucke, che si era
drizzato sui piedi, e sembrava più grande per la grandezza della sua
indignazione. «Siete un mostro! Avete cercato di uccidere il mio
buon Pons. Ha ragione lui! Siete peggio di un mostro, siete un'anima
dannata!».
La Cibot, vedendo l'orrore dipinto sul volto del
candido tedesco, si alzò fiera come Tartufo, lanciò a Schmucke uno
sguardo che lo fece tremare, e uscì nascondendo sotto il grembiule
un sublime quadretto di Metzu che Élie Magus aveva ammirato molto e
di cui aveva detto: «È un diamante!». In portineria la Cibot trovò
Fraisier, che la stava aspettando, sperando che avesse bruciato la
busta e il foglio bianco con cui aveva sostituito il testamento; fu
veramente stupito di vedere la sua cliente spaventata e col viso
stravolto.
«Che è successo?».
«È successo, caro signor Fraisier, che col
pretesto di darmi dei buoni consigli e di guidarmi, mi avete fatto
perdere per sempre la mia rendita e la fiducia di quei signori...».
E si lanciò in una di quelle trombe marine di
parole in cui eccelleva.
«Non parlate a vanvera», esclamò bruscamente
Fraisier interrompendo la sua cliente. «I fatti! Veniamo ai fatti, e
in fretta».
«Bene, ecco com'è andata».
E raccontò la scena, come si era svolta.
«Non vi ho fatto perdere proprio niente», rispose
Fraisier. «Quei due signori dubitavano della vostra onestà, e per
questo vi hanno teso quella trappola; vi stavano aspettando, vi
spiavano!... Ma voi non mi dite tutto...», aggiunse l'uomo d'affari
lanciando uno sguardo di tigre alla portiera.
«Io! nascondervi qualcosa!... dopo tutto quello
che abbiamo fatto insieme!...», disse rabbrividendo.
«Ma, mia cara, io non ho commesso proprio nulla
di riprovevole!», disse Fraisier manifestando l'intenzione di negare
la sua visita notturna nell'appartamento di Pons.
La Cibot si sentì bruciare i capelli in testa, e
un freddo glaciale la avvolse.
«Come!?...», disse inebetita.
«Ecco il reato!... Potete essere accusata di
sottrazione di testamento», rispose Fraisier con freddezza.
La Cibot fece un gesto di orrore.
«Rassicuratevi, sono il vostro consigliere»,
continuò. «Ho soltanto voluto provarvi come sia facile, in un modo o
nell'altro, realizzare quello che vi dicevo. Vediamo: cosa avete
fatto perché quel tedesco così ingenuo si nascondesse in camera, a
vostra insaputa?...».
«Niente... è a causa della scena dell'altro
giorno, quando ho detto al signor Pons che aveva avuto le visioni.
Da quel giorno quei due signori sono cambiati completamente nei miei
confronti. Dunque siete voi la causa di tutte le mie disgrazie
perché, anche se non avevo più alcuna influenza sul signor Pons,
almeno ero sicura del tedesco, che già parlava di sposarmi o di
tenermi con sé, che poi è la stessa cosa!».
Questa valutazione era talmente plausibile che
Fraisier fu costretto ad accontentarsene.
«Non temete», riprese. «Vi ho promesso una
rendita e manterrò la parola. Fino ad ora tutto, in quest'affare,
era ipotetico; ma ora l'affare vale dei biglietti di banca... Avrete
un vitalizio di non meno di milleduecento franchi... Ma bisognerà,
cara signora Cibot, obbedire ai miei ordini ed eseguirli con
attenzione».
«Sì, mio caro signor Fraisier», disse la portiera
con servile docilità, completamente domata.
«Ebbene, addio», disse Fraisier uscendo dalla
portineria e portando con sé quel pericoloso testamento.
Rientrò in casa sua tutto allegro perché quel
testamento era un'arma terribile.
«Avrò», pensava, «una buona garanzia contro la
malafede della presidentessa de Marville. Qualora pensasse di non
mantenere la parola, perderebbe la successione.
LXIII • PROPOSTE FALLACI
La mattina presto, dopo aver aperto la bottega
dove lasciò la sorella, Rémonencq andò, secondo un'abitudine presa
da qualche giorno, a vedere come stava il suo buon amico Cibot, e
trovò la portiera che osservava il quadro di Metzu e si stava
chiedendo come potesse valere tanto una tavoletta dipinta.
«Ah! ah!», disse Rémonencq guardando sopra le
spalle della Cibot, «è l'unico quadro che il signor Magus
rimpiangeva di non avere; dice che questa cosuccia lo renderebbe
completamente felice».
«Quanto darebbe?», chiese la Cibot.
«Ma, se mi promettete di sposarmi entro l'anno
della vedovanza», rispose Rémonencq, «mi impegno a ottenere
ventimila franchi da Élie Magus; se invece non mi sposate, non
riuscirete mai a vendere il quadro a più di mille franchi».
«E perché?».
«Perché sareste obbligata a firmare una ricevuta
come proprietaria, e allora dovreste affrontare un processo con gli
eredi. Se sarete mia moglie, lo venderò io a Magus; ad un negoziante
non si chiede altro che la registrazione sul suo libro degli
acquisti, e io scriverò che me l'ha venduto il signor Schmucke.
Anzi, tenete il quadro nella mia bottega... Se vostro marito
morisse, potreste avere dei fastidi, e nessuno troverà strano che ci
sia un quadro da me... Mi conoscete bene. Comunque, se volete, vi
darò una ricevuta...».
Nella situazione illegale in cui era stata
sorpresa, l'avida portiera accettò questa proposta che l'avrebbe
legata per sempre al rigattiere.
«Avete ragione, preparatemi la ricevuta», disse
chiudendo il quadro nel comò.
«Vicina», disse il rigattiere a bassa voce,
spingendo la Cibot sulla soglia della porta, «mi sembra chiaro che
non riusciremo a salvare il nostro amico Cibot; il dottor Poulain
ieri sera lo dava per spacciato, diceva che non avrebbe superato la
giornata... È una grande disgrazia! Ma, dopotutto, voi qui eravate
fuori posto... Il vostro posto è in un bel negozio di curiosità sul
boulevard des Capucines. Sapete bene che ho guadagnato più o meno
centomila franchi in dieci anni e che, se un giorno ne avrete
altrettanti, provvederò io a farvi mettere insieme una bella
fortuna... se diventerete mia moglie... Sarete una borghese... ben
servita da mia sorella che penserebbe alla casa, e...».
Il seduttore fu interrotto dai lamenti strazianti
del sartino, che stava entrando in agonia.
«Andate via», disse la Cibot, «siete un mostro a
parlarmi di queste cose mentre il mio povero marito sta morendo in
queste condizioni...».
«Ah! è che vi amo», disse Rémonencq, «tanto da
andare in confusione per avervi...».
«Se mi amate, non dite niente in questo momento»,
rispose lei.
E Rémonencq rientrò in casa sua, sicuro che
avrebbe sposato la Cibot.
Verso le dieci, ci fu alla porta di casa una
specie di sommossa, perché vennero somministrati i sacramenti a
Cibot. Tutti gli amici di Cibot, i portieri, le portiere della rue
de Normandie e delle vie adiacenti occupavano la portineria, la
soglia del portone e la parte di strada antistante. Nessuno notò il
signor Léopold Hannequin che arrivò con uno dei suoi colleghi, né
Schwab e Brunner che poterono raggiungere Pons senza essere visti
dalla Cibot. La portiera della casa vicina, cui il notaio si rivolse
per sapere a quale piano abitasse Pons, gli indicò l'appartamento.
Quanto a Brunner, che arrivò con Schwab, era già venuto a vedere il
museo Pons; passò senza dire nulla, e indicò la strada al socio...
Pons annullò formalmente il testamento della vigilia, e nominò
Schmucke erede universale. Terminata la cerimonia, Pons, dopo aver
ringraziato Schwab e Brunner, e aver raccomandato vivamente al
signor Léopold Hannequin gli interessi di Schmucke, cadde in un tale
stato di debolezza, a causa delle energie spese sia nella scena
notturna con la Cibot che in quell'ultimo atto della vita sociale,
che Schmucke pregò Schwab di andare a chiamare l'abate Duplanty,
perché non voleva lasciare il capezzale dell'amico, e Pons chiedeva
i sacramenti.
Seduta ai piedi del letto del marito, la Cibot,
che del resto era stata messa alla porta dai due amici, non si
occupò affatto del pranzo di Schmucke; ma gli avvenimenti di quella
mattina, lo spettacolo dell'agonia rassegnata di Pons, che moriva
eroicamente, aveva talmente stretto il cuore di Schmucke da non
fargli sentire la fame.
Tuttavia, verso le due, non avendo visto il
vecchio tedesco, la portiera, sia per curiosità sia per interesse,
pregò la sorella di Rémonencq di andare a vedere se Schmucke non
avesse bisogno di qualcosa. In quello stesso momento l'abate
Duplanty, cui il povero musicista aveva reso la sua ultima
confessione, gli somministrava l'estrema unzione. Dunque la
signorina Rémonencq turbò quella cerimonia con ripetute
scampanellate. Ora, siccome Pons aveva fatto giurare a Schmucke che
non avrebbe fatto entrare nessuno, dalla paura che aveva di essere
derubato, Schmucke lasciò suonare la signorina Rémonencq, che scese
molto impaurita e disse alla Cibot che Schmucke non le aveva aperto
la porta. Questa circostanza singolare fu notata da Fraisier.
Schmucke, che non aveva mai visto morire nessuno, stava per provare
tutte le difficoltà in cui ci si trova a Parigi con un morto sulle
braccia, soprattutto quando non si ha un aiuto, un rappresentante,
un soccorso. Fraisier, che sapeva come i parenti veramente afflitti
perdono la testa, e che dalla mattina, dopo la colazione, sostava in
portineria continuando a confabulare con il dottor Poulain, ebbe
allora l'idea di dirigere ogni movimento di Schmucke.
Ecco come i due amici, il dottor Poulain e
Fraisier, si misero d'accordo per ottenere questo importante
risultato.
Il sacrestano della chiesa di San Francesco,
vecchio commerciante di vetri, di nome Cantinet, abitava in rue
d'Orléans, nello stesso edificio in cui abitava il dottor Poulain.
Ora, la signora Cantinet, una delle noleggiatrici delle sedie, era
stata curata gratuitamente dal dottor Poulain, cui era naturalmente
riconoscente e al quale aveva raccontato spesso tutte le disgrazie
della sua vita. I due schiaccianoci, che ogni domenica e in tutti i
giorni di festa partecipavano alle funzioni in San Francesco,
avevano buoni rapporti col sacrestano, lo «svizzero», l'addetto
all'acqua benedetta, insomma con quella milizia ecclesiastica che a
Parigi è chiamata «il basso clero», cui i fedeli finiscono per dare
piccole mance. Dunque la signora Cantinet conosceva bene Schmucke,
come Schmucke conosceva bene lei. Quella donna era afflitta da due
piaghe che permettevano a Fraisier di farne un cieco e involontario
strumento. Il giovane Cantinet, appassionato di teatro, aveva
rifiutato la carriera ecclesiastica, dove avrebbe potuto diventare
«svizzero», debuttando tra le comparse del Cirque-Olympique, e
conduceva una vita disordinata che angosciava sua madre, la cui
borsa era spesso prosciugata da prestiti forzati. Per di più
Cantinet, dedito ai liquori e all'ozio, era stato costretto a
lasciare il commercio a causa di questi due vizi. Non pensando
affatto a correggersi, lo sciagurato aveva trovato nelle sue
funzioni un alimento per le sue due passioni: non faceva nulla, e
beveva con i cocchieri dei matrimoni, con gli addetti alle pompe
funebri, con gli assistiti della parrocchia, in modo da colorirsi la
faccia di un bel rosso cardinalizio, da mezzogiorno in poi.
La signora Cantinet si vedeva condannata a una
vecchiaia di miseria, dopo aver portato al marito, così diceva, una
dote di dodicimila franchi. La storia delle sue disgrazie,
raccontata mille volte al dottor Poulain, gli suggerì l'idea di
servirsi di lei per piazzare in casa di Pons e di Schmucke la
Sauvage, come cuoca e donna di fatica. Presentare la Sauvage era
impossibile; infatti la diffidenza dei due schiaccianoci era ormai
assoluta, e il rifiuto di aprire la porta alla signorina Rémonencq
aveva sufficientemente chiarito le cose a Fraisier. Ma sembrò
evidente ai due amici che i pii musicisti avrebbero accettato
ciecamente una persona che fosse proposta dall'abate Duplanty. Nel
loro piano, la signora Cantinet sarebbe stata accompagnata dalla
Sauvage; e la domestica di Fraisier, una volta lì, era come se vi si
fosse trovato lo stesso Fraisier.
LXIV • DOVE RIAPPARE LA DONNA SELVAGGIA
Quando l'abate Duplanty giunse sul portone, fu
fermato un attimo dalla folla degli amici di Cibot che
testimoniavano il loro affetto per il più vecchio e più stimato dei
portieri del quartiere.
Il dottor Poulain salutò l'abate Duplanty, lo
prese da parte e gli disse:
«Sto andando a visitare il povero signor Pons;
potrebbe ancora cavarsela; ma bisognerebbe convincerlo a sottoporsi
all'estrazione dei calcoli che si sono formati nella cistifellea; si
sentono al tatto, determinano un'infiammazione che causerà la morte.
Forse siamo ancora in tempo a intervenire. Voi dovreste usare tutta
la vostra influenza sul penitente per indurlo ad affrontare
l'operazione. Garantisco io per la sua vita, sempre che durante
l'intervento non si verifichi nessuno spiacevole incidente.
«Dopo che avrò riportato in chiesa il santo
ciborio ritornerò», disse l'abate Duplanty, «perché il signor
Schmucke è in uno stato che richiede dei conforti religiosi».
«Ho appena saputo che ora è solo», disse il
dottor Poulain. «Quel buon tedesco ha avuto stamani un piccolo
alterco con la signora Cibot, che da più di dieci anni si occupa
della casa di quei signori, e hanno interrotto ogni rapporto, senza
dubbio momentaneamente. Ma non può rimanere senza alcun aiuto nelle
circostanze in cui verrà a trovarsi. È un'opera di carità occuparsi
di lui».
«Sentite, Cantinet», disse il dottore chiamando
il sacrestano, «chiedete a vostra moglie se vuole assistere il
signor Pons, e occuparsi della casa del signor Schmucke per qualche
giorno, al posto della Cibot... che del resto, anche senza quel
litigio che c'è stato, avrebbe sempre avuto bisogno di farsi
sostituire».
«È una donna onesta», disse il dottore all'abate
Duplanty.
«Non si potrebbe scegliere meglio», rispose il
buon prete, «è la persona incaricata del noleggio delle sedie».
Poco dopo, il dottor Poulain seguiva al capezzale
del letto il progredire dell'agonia di Pons, che Schmucke supplicava
invano di lasciarsi operare. Il vecchio musicista rispondeva alle
preghiere disperate del buon tedesco soltanto con dei cenni della
testa, negativi, accompagnati da gesti d'insofferenza. Finalmente il
moribondo raccolse le forze, lanciò a Schmucke uno sguardo
terrificante e gli disse:
«E lasciami morire in pace!».
Per poco Schmucke non morì di dolore; ma prese
una mano di Pons, la baciò con dolcezza e la tenne tra le sue mani
cercando di infondergli ancora una volta la propria vita. Fu allora
che il dottor Poulain sentì suonare e andò ad aprire all'abate
Duplanty.
«Il nostro povero malato», disse Poulain,
«comincia a dibattersi nella stretta della morte. Spirerà in poche
ore. Manderete certamente un prete a vegliarlo questa notte. Ma è il
momento che la signora Cantinet e una donna di fatica aiutino il
signor Schmucke; non è in grado di pensare a niente, sono
preoccupato per la sua ragione, e qui ci sono valori che devono
essere custoditi da persone sicuramente oneste.
L'abate Duplanty, bravo e degno prete, privo di
diffidenza e malizia, ritenne giuste le considerazioni del dottore
Poulain; del resto era convinto dell'onestà del medico di quartiere;
dunque fece segno a Schmucke di avvicinarsi, restando sulla soglia
della camera mortuaria. Schmucke non riuscì a lasciare la mano di
Pons, che si contorceva e stringeva la sua come se stesse cadendo in
un precipizio e volesse aggrapparsi a qualcosa per non cadervi. Ma,
come è noto, i morenti sono in preda a un'allucinazione che li
spinge a impossessarsi di tutto, come gente che abbia fretta di
portar via, in un incendio, gli oggetti più preziosi; e Pons lasciò
Schmucke per afferrare le sue coperte e stringersele intorno al
corpo con un orribile e significativo gesto di avarizia e di fretta.
«Come farete, solo, con il vostro amico morto?»,
disse il buon prete al tedesco, che si era avvicinato per ascoltare
le sue parole. «Siete senza la Cibot...».
«È un mostro, ha ucciso Pons!», disse.
«Ma vi serve qualcuno», proseguì il dottor
Poulain, «perché stanotte bisogna vegliare il corpo».
«Lo veglierò io, pregando Dio!», rispose
l'innocente tedesco.
«Ma bisogna mangiare!... Chi cucinerà?», chiese
il dottore.
«Il dolore mi toglie l'appetito!...», rispose
ingenuamente Schmucke.
«Ma», disse Poulain, «bisogna andare a denunciare
il decesso con dei testimoni, spogliare la salma, cucirla in un
lenzuolo, ordinare il carro funebre, dare da mangiare alla persona e
al prete che veglieranno il morto: farete tutto questo da solo?...
Non si muore come cani nella capitale del mondo civile!».
Schmucke spalancò gli occhi terrorizzati e fu
colto da un breve attacco di follia.
«Ma Pons non morirà!... io lo salverò!...».
«Non reggerete a lungo senza dormire un po'; e
allora chi vi sostituirà? Perché bisogna occuparsi del signor Pons,
dargli da bere, preparare le medicine...».
«Ah! è vero...», disse il tedesco.
«Ebbene», riprese a dire l'abate Duplanty, «penso
di mandarvi la signora Cantinet, una brava e onesta donna...».
I dettagli dei suoi doveri sociali verso l'amico
morto inebetirono talmente Schmucke che avrebbe voluto morire
insieme con Pons.
«È un bambino!», disse il dottor Poulain
all'abate Duplanty.
«Un bambino!...», ripeté meccanicamente Schmucke.
«Su!», disse il vicario, «vado a parlare con la
signora Cantinet e ve la mando».
«Non disturbatevi», disse il dottore, «abita
vicino a me, e io torno a casa».
La morte è come un assassino invisibile contro il
quale il morente lotta; nell'agonia riceve gli ultimi colpi, cerca
di restituirli, e si dibatte. Pons era giunto a questa scena
suprema, e gemeva e gridava. Schmucke, l'abate Duplanty e Poulain
corsero al letto del moribondo. Improvvisamente Pons, colpito nella
sua vitalità da quell'ultima ferita che spezza i legami tra il corpo
e l'anima, ritrovò per qualche istante la perfetta quiete che segue
l'agonia, tornò in sé, con la serenità della morte sul viso, e
guardò con un'espressione quasi sorridente quanti lo circondavano.
«Ah! dottore, quanto ho sofferto... ma avete
ragione, ora sto meglio... Grazie, mio buon abate; mi stavo
chiedendo dov'era Schmucke...».
«Schmucke non mangia da ieri sera, e sono le
quattro! Non avete più nessuno accanto a voi, e sarebbe pericoloso
richiamare la Cibot...».
«È capace di tutto», disse Pons manifestando il
suo orrore al solo udire il nome della Cibot. «È vero, Schmucke ha
bisogno di qualcuno veramente onesto».
«L'abate Duplanty ed io», disse allora Poulain,
«abbiamo pensato a voi due...».
«Ah!, grazie», disse Pons, «io non ci
pensavo...».
«E l'abate vi propone la signora Cantinet...».
«Ah! la noleggiatrice di sedie!», esclamò Pons.
«Sì, è un'ottima persona».
«Non può soffrire la Cibot», proseguì il dottore,
«e avrà cura del signor Schmucke...».
«Mandatemela, mio buon signor Duplanty... lei e
suo marito... sarò tranquillo. Con loro, qui non ruberanno
nulla...».
Schmucke aveva ripreso la mano di Pons e la
teneva felice, credendo che la salute fosse ritornata.
«Andiamocene, signor abate», disse il dottore.
«Manderò subito la signora Cantinet. Me ne intendo; dubito che
troverà il signor Pons vivo».
LXV • LA MORTE COME È
Mentre l'abate Duplanty convinceva il moribondo a
prendere come infermiera la signora Cantinet, Fraisier aveva
chiamato a casa sua la noleggiatrice di sedie, e la stava
sottoponendo alla sua conversazione corruttrice, alle astuzie della
sua forza leguleia, cui era difficile resistere. Così la signora
Cantinet, donna magra e gialla, con grandi denti, labbra fredde,
inebetita dalle disgrazie, come molte donne del popolo, e giunta al
punto di trovare la felicità nei più modesti profitti quotidiani,
ben presto acconsentì a prendere con sé la signora Sauvage come
donna di servizio. La domestica di Fraisier aveva già ricevuto le
sue istruzioni. Aveva promesso di tramare una tela di fil di ferro
intorno ai due musicisti, e di vegliare su di loro come il ragno
sorveglia una mosca catturata. Come compenso per le sue fatiche la
Sauvage avrebbe ricevuto uno spaccio di tabacchi. In questo modo
Fraisier si liberava della sua sedicente nutrice e piazzava alle
costole della signora Cantinet una spia e un gendarme nella persona
della Sauvage. Poiché facevano parte dell'appartamento dei due amici
una camera per la servitù e una piccola cucina, la Sauvage poteva
dormire su una branda e far da mangiare a Schmucke. Quando le due
donne si presentarono, accompagnate dal dottor Poulain, Pons aveva
appena reso l'ultimo respiro, senza che Schmucke se ne fosse
accorto. Il tedesco teneva ancora tra le sue mani la mano
dell'amico, il cui calore se ne andava poco a poco; fece segno alla
signora Cantinet di non parlare, ma l'aspetto soldatesco della
signora Sauvage lo sorprese talmente che si lasciò sfuggire un moto
di paura; quella virago c'era abituata.
«Della signora», disse la signora Cantinet,
«risponde il signor Duplanty; è stata cuoca di un vescovo, è
l'onestà in persona, si occuperà della cucina».
«Ah! potete parlare a voce alta!», esclamò la
possente e asmatica Sauvage. «Il povero signore è morto!... è appena
trapassato».
Schmucke gettò un grido straziante, sentì che la
mano gelida di Pons si stava irrigidendo, e rimase con gli occhi
sbarrati, fissi su quelli di Pons, la cui espressione lo avrebbe
fatto impazzire se non fosse stata presente la signora Sauvage che,
certamente abituata a scene di quel genere, si diresse verso il
letto con uno specchio in mano, lo avvicinò alle labbra del morto e,
poiché nessun respiro aveva appannato lo specchio, staccò con
decisione la mano di Schmucke dalla mano del morto.
«Lasciatela, signore... non potreste più
toglierla... voi non sapete come s'induriscano le ossa! I morti si
gelano in fretta. Se non si prepara un morto quando è ancora
tiepido, poi bisogna spezzargli le membra...».
Fu dunque quella donna terribile a chiudere gli
occhi al povero musicista spirato; poi, con la disinvoltura delle
infermiere, mestiere che aveva esercitato per dieci anni, spogliò
Pons, lo distese, dispose le braccia lungo i fianchi, e lo coprì con
la coperta fin sopra il naso, proprio come un commesso quando fa un
pacco in un negozio.
«Serve un lenzuolo per seppellirlo; dove se ne
può trovare uno?...», chiese a Schmucke, terrorizzato da questo
spettacolo.
Dopo essere stato testimone della profonda
spiritualità di quella creatura destinata a un grande avvenire in
cielo, quella specie d'imballaggio in cui il suo amico era trattato
come una cosa provocò a Schmucke un dolore tale da fargli perdere la
ragione.
«Fate come volete!...», rispose meccanicamente
Schmucke.
Quell'innocente creatura vedeva morire un uomo
per la prima volta, e quell'uomo era Pons, il suo unico amico, il
solo essere che lo avesse capito e amato!...
«Vado a chiedere alla signora Cibot dove sono i
lenzuoli», disse la Sauvage.
«Serve una branda su cui far dormire questa
donna», disse la signora Cantinet a Schmucke.
Schmucke fece un cenno con la testa e si sciolse
in lacrime; la signora Cantinet lasciò in pace lo sventurato; ma,
dopo un'ora, tornò e gli disse:
«Signore, avete dei soldi per andare a comprare
quello che serve?».
Schmucke rivolse alla signora Cantinet uno
sguardo tale da disarmare gli odi più feroci; indicò il volto
bianco, secco e aguzzo del morto, come la ragione che spiegava
tutto.
«Prendete tutto, e lasciatemi piangere in pace!»,
disse inginocchiandosi.
La signora Sauvage era andata ad annunciare la
morte di Pons a Fraisier, che si precipitò in calesse dalla
presidentessa a chiederle, per il giorno dopo, la procura che gli
dava il diritto di rappresentare gli eredi.
«Signore», disse a Schmucke la signora Cantinet,
«un'ora dopo la sua ultima domanda, sono andata dalla signora Cibot
che è pratica della vostra casa, perché mi dicesse dove stanno le
cose. Ma siccome ha appena perduto il signor Cibot, mi ha detto un
sacco di insolenze... Quindi ascoltatemi, signore!...».
Schmucke guardò quella donna che non sospettava
neppure la propria crudeltà; perché la gente del popolo è abituata a
subire passivamente i più grandi dolori morali.
«Signore, serve la tela per un lenzuolo, servono
i soldi per comprare una branda per far dormire questa signora; ne
servono per comprare una batteria da cucina, piatti, bicchieri,
perché sta per arrivare un prete per la veglia al morto, e questa
donna non trova proprio niente in cucina».
«Signore», ripeté la Sauvage, «mi serve la legna,
e il carbone, per preparare il pranzo, e qui non vedo niente! Del
resto non c'è da stupirsi, perché era la Cibot a rifornirvi di
tutto...».
«Mia cara signora», disse la signora Cantinet
indicando Schmucke che giaceva ai piedi del morto in uno stato di
totale insensibilità, «voi non volete credermi: è incapace di
rispondere».
«Allora, cara piccina», disse la Sauvage «vi
faccio vedere come si fa in questi casi».
La Sauvage si guardò intorno nella stanza, con lo
sguardo con cui i ladri cercano di indovinare i nascondigli dove
potrebbe trovarsi il denaro. Andò dritta al comò di Pons, aprì il
primo cassetto, vide il sacchetto in cui Schmucke aveva messo i
denari provenienti dalla vendita dei quadri, e lo mostrò a Schmucke
che fece meccanicamente un cenno di assenso.
«Ecco qua un po' di soldi, piccina mia!», disse
la Sauvage alla signora Cantinet. «Li conto e prendo quello che
serve per comprare del vino, dei viveri, candele, insomma tutto,
perché questi non hanno niente... Cercatemi nel comò un lenzuolo per
avvolgervi il corpo. Me l'avevano detto che questo signore è un
sempliciotto; ma non so che cosa sia, è peggio. È come un neonato,
bisognerà imboccarlo...».
Schmucke guardava le due donne e quello che
stavano facendo, proprio come le avrebbe guardate un pazzo. Spezzato
dal dolore, assorto in uno stato quasi catalettico, non smetteva di
contemplare il volto affascinante di Pons, i cui lineamenti si
stavano affilando per effetto del riposo assoluto della morte.
Sperava di morire; tutto gli era indifferente. Se la camera fosse
stata divorata da un incendio, non si sarebbe mosso.
«Ci sono milleduecentocinquantasei franchi...»,
gli disse la Sauvage.
Schmucke alzò le spalle. Quando la Sauvage iniziò
a preparare il feretro, a misurare la tela sul corpo per tagliare il
lenzuolo e cucirlo, ci fu una lotta terribile tra lei e il povero
tedesco. Schmucke sembrava un cane che morde tutti coloro che
vogliono toccare il cadavere del suo padrone. La Sauvage,
spazientita, afferrò il tedesco, lo mise in una poltrona e ve lo
trattenne con una forza erculea.
«Su, piccina, cucite il morto nel suo lenzuolo»,
disse alla signora Cantinet.
Conclusa l'operazione, la Sauvage rimise Schmucke
al suo posto, ai piedi del letto, e gli disse:
«Lo capite, no? bisognava pure acconciare questo
pover'uomo da morto».
Schmucke si mise a piangere; le due donne lo
lasciarono e andarono a prendere possesso della cucina, dove
portarono rapidamente e da sole tutte le cose necessarie alla vita.
LXVI • SENSIBILITÀ DI UN'INFERMIERA
Dopo aver fatto un primo conto di
trecentosessanta franchi, la Sauvage si mise a preparare una cena
per quattro persone, e che cena! C'era il fagiano dei calzolai, cioè
un'oca grassa come piatto forte, una frittata con la marmellata,
un'insalata di legumi e il rituale pot-au-feu con tutti i suoi
ingredienti in quantità talmente esagerate che il brodo sembrava
gelatina di carne. Alle nove di sera, il prete inviato dal vicario
per vegliare Pons giunse insieme con Cantinet, che portò quattro
ceri e quattro candelieri di chiesa. Il prete trovò Schmucke disteso
sul letto, accanto al suo amico che teneva strettamente abbracciato.
Ci volle tutta l'autorità della religione per ottenere che Schmucke
si separasse dal cadavere. Il tedesco si mise in ginocchio, e il
prete si sedette comodamente in poltrona. Mentre il prete leggeva le
sue preghiere e Schmucke, inginocchiato davanti al corpo di Pons,
pregava Dio di riunirlo con un miracolo a Pons, per essere sepolto
nella stessa fossa dell'amico, la signora Sauvage era andata al
Temple a comprare una branda e tutti gli annessi per la signora
Cantinet; la borsa con i milleduecentocinquantasei franchi era ormai
liberamente saccheggiata. Alle undici di sera la signora Cantinet
venne a vedere se Schmucke volesse mangiare un boccone. Il tedesco
fece segno che lo lasciassero in pace.
«La cena è pronta, signor Pastelot», disse allora
la noleggiatrice di sedie al prete.
Rimasto solo, Schmucke sorrise come un folle che
si sente finalmente libero di soddisfare una voglia simile a quella
delle donne incinte. Si gettò su Pons e ancora una volta lo tenne
strettamente abbracciato. A mezzanotte il prete tornò e Schmucke,
rimproverato, lasciò Pons e si rimise a pregare. All'alba il prete
se ne andò. Alle sette del mattino il dottor Poulain venne a trovare
Schmucke, e tentò affettuosamente di costringerlo a mangiare; ma il
tedesco rifiutò.
«Se non mangiate ora, avrete fame al ritorno»,
gli disse il dottore, «perché dovete andare in Comune con un
testimone a dichiarare il decesso del signor Pons e far stendere
l'atto...».
«Io!», disse il tedesco con sgomento.
«E chi altrimenti?... Non ne potete fare a meno,
poiché siete l'unica persona che lo ha visto morire...».
«Non sto in piedi...», rispose Schmucke
implorando l'assistenza del dottor Poulain.
«Chiamate una vettura», rispose cortesemente
l'ipocrita dottore. «Ho già constatato il decesso. Chiedete a
qualcuno della casa di accompagnarvi. Queste due donne
sorveglieranno l'appartamento durante la vostra assenza».
Non è facile immaginare cosa siano questi morsi
della legge per un dolore vero. C'è di che odiare la civiltà, e
preferire i costumi dei selvaggi. Alle nove, la signora Sauvage fece
scendere Schmucke sorreggendolo; salito in vettura, fu costretto a
pregare il signor Rémonencq di andare con lui in Comune a dichiarare
il decesso di Pons. In ogni circostanza, a Parigi, si manifesta
l'ineguaglianza delle condizioni sociali, in questo paese ebbro di
eguaglianza. Quest'immutabile forza delle cose appare perfino nelle
conseguenze della morte. Nelle famiglie ricche, un parente, un
amico, pratici d'affari, risparmiano questi orrendi dettagli a chi è
in lacrime; ma in questo caso, come nella ripartizione delle tasse,
il popolo, i proletari indifesi subiscono tutto il peso del dolore.
«Ah! quanto avete ragione a rimpiangerlo», disse
Rémonencq ad un lamento del povero martire, «perché era proprio un
brav'uomo, onestissimo, che lascia una bella collezione; eppure,
signore, siccome siete straniero vi troverete in grandi difficoltà,
perché tutti dicono che siete l'unico erede del signor Pons».
Schmucke non ascoltava; era immerso in un dolore
da impazzire. Come il corpo, l'anima ha il suo tetano.
«E fareste bene a farvi rappresentare da un
consulente, da un uomo d'affari».
«Un uomo d'affari!», ripeté Schmucke
meccanicamente.
«Vedrete che avrete bisogno di farvi
rappresentare. Al vostro posto mi servirei di un uomo che abbia
esperienza, conosciuto nel quartiere, un uomo di fiducia... Io, per
tutti i miei piccoli affari, mi servo di Tabareau... l'ufficiale
giudiziario... Dando la vostra procura al suo primo impiegato, non
avrete alcun fastidio.
Questo suggerimento, insinuato da Fraisier,
concordato tra Rémonencq e la Cibot, restò nella memoria di
Schmucke; infatti, nei momenti in cui il dolore paralizza
per così dire l'anima, arrestandone le funzioni, la memoria riceve
tutte le impronte che il caso vi imprime. Schmucke ascoltava
Rémonencq guardandolo con un occhio talmente spento che il
rigattiere non gli disse più nulla.
«Se rimane così rimbecillito», pensò Rémonencq,
«potrei comprare da lui tutte le sue carabattole, se diventano sue,
per centomila franchi... Signore, eccoci arrivati al Comune».
Rémonencq dovette aiutare Schmucke a scendere
dalla vettura, sostenendolo per farlo arrivare fino all'ufficio
degli atti di stato civile, dove Schmucke s'imbatté in un
matrimonio. Qui dovette attendere il suo turno perché, per uno di
quei casi assai frequenti a Parigi, l'impiegato doveva stendere
cinque o sei atti di morte. Nell'attesa, il povero tedesco doveva
essere in preda a una passione eguale a quella di Gesù.
«Il signore è il signor Schmucke?», chiese un
uomo vestito di nero rivolgendosi al tedesco stupefatto di sentirsi
chiamare per nome.
Schmucke guardò quell'uomo con la stessa aria
inebetita con cui aveva risposto a Rémonencq.
«Ma», disse il rigattiere allo sconosciuto, «cosa
volete? Lasciate in pace quest'uomo, non vedete che sta soffrendo?».
«Il signore ha appena perduto il suo amico, e
certamente vorrà onorarne degnamente la memoria essendone l'erede»,
disse lo sconosciuto. «Il signore non lesinerà di certo: acquisterà
un terreno in perpetuo per la sua sepoltura. Il signor Pons amava
talmente le arti! Sarebbe un vero peccato non mettere sulla sua
tomba la Musica, la Pittura e la Scultura... tre belle figure in
piedi, piangenti...».
Rémonencq fece un gesto da alverniate per
allontanare quell'uomo, che rispose a sua volta con altro gesto,
diciamo commerciale, che significava: «Lasciatemi fare i miei
affari!», e che il rigattiere capì bene.
«Sono l'incaricato della ditta Sonnet e C.,
imprenditori di monumenti funebri», continuò l'agente, che Walter
Scott avrebbe soprannominato il giovane delle tombe. Se il signore
volesse incaricarci dell'ordinazione, gli eviteremmo la noia di
andare in Comune per l'acquisto del terreno necessario alla
sepoltura dell'amico che le arti hanno perduto...».
Rémonencq scosse la testa in segno di assenso e
toccò il gomito di Schmucke.
«Ogni giorno ci occupiamo di queste formalità per
conto delle famiglie», continuava a dire l'agente, incoraggiato da
questo gesto dell'alverniate. «Nei primi momenti del dolore è molto
difficile per un erede occuparsi di persona di tali dettagli, e noi
rendiamo abitualmente questi piccoli servizi ai nostri clienti. I
monumenti funebri di nostra costruzione, signore, costano un tanto
al metro, a seconda che siano in pietra da taglio o in marmo...
Pensiamo noi a scavare le fosse per le tombe di famiglia... Ci
occupiamo noi di tutto, al prezzo più conveniente. La nostra ditta
ha eseguito il magnifico monumento della bella Esther Gobseck e di
Lucien de Rubempré, uno dei più grandiosi del Père-Lachaise. Abbiamo
gli operai migliori, e consiglio il signore di diffidare dei piccoli
imprenditori... che fanno della robaccia», aggiunse vedendo arrivare
un altro tipo vestito di nero che veniva a parlare di un'altra ditta
di marmi e sculture.
LXVII • DOVE SI VEDE CHE SOLTANTO I MORTI NON VENGONO TORMENTATI
Si è detto spesso che la morte è la fine di un
viaggio, ma non si sa quanto sia vera a Parigi tale similitudine. Un
morto, soprattutto un morto importante, è accolto sul tetro lido
come un viaggiatore che, appena sbarcato, viene assediato e
infastidito dalle raccomandazioni degli albergatori. Nessuno, ad
eccezione di qualche filosofo o di qualche famiglia che, sicura di
vivere a lungo, si fa costruire una tomba come se si trattasse di un
palazzo, nessuno pensa alla morte e alle sue conseguenze sociali. La
morte arriva sempre troppo presto; e del resto un sentimento
condiviso impedisce agli eredi di ritenerla possibile. Così quasi
tutti coloro che perdono il padre, la madre, la moglie o i figli
sono immediatamente assaliti da questi procacciatori d'affari, che
approfittano del turbamento provocato dal dolore per arraffare
un'ordinazione. Un tempo gli imprenditori di monumenti funebri,
riuniti nei dintorni del celebre cimitero del Père-Lachaise, in
quella che si potrebbe chiamare la via delle tombe, assalivano gli
eredi intorno alla tomba o all'uscita del cimitero; ma,
insensibilmente, la concorrenza, il genio della speculazione, hanno
fatto guadagnare loro terreno, e sono scesi nella città, fino alle
porte degli uffici comunali. Oggi gli agenti entrano addirittura
nell'obitorio, con un progetto di tomba in mano.
«Sono in trattativa col signore», disse l'agente
della ditta Sonet a quello che si stava presentando.
«Decesso Pons!... Dove sono i testimoni?...»,
disse l'impiegato dell'ufficio.
«Venite, signore», disse l'agente rivolgendosi a
Rémonencq.
Rémonencq lo pregò di sollevare Schmucke, che era
abbandonato su una panca come una massa inerte; lo portarono alla
balaustrata dietro la quale l'impiegato addetto alla stesura degli
atti di morte si difende dai pubblici dolori. Rémonencq, la
provvidenza di Schmucke, fu aiutato dal dottor Poulain che fornì i
dati necessari sull'età e il luogo di nascita di Pons. Il tedesco
sapeva una cosa sola: che Pons era suo amico. Firmato l'atto,
Rémonencq e il dottore, seguiti dall'agente delle pompe funebri,
misero il povero tedesco in vettura, nella quale s'infilò il tenace
agente, che voleva concludere con l'ordinazione. La Sauvage, in
osservazione sul portone di casa, aiutò a salire Schmucke quasi
svenuto tra le sue braccia, aiutata da Rémonencq e dall'agente della
ditta Sonet.
«Sta per sentirsi male!...», esclamò l'agente,
che voleva concludere l'affare che riteneva avviato.
«Lo credo bene!», rispose la signora Sauvage,
«piange da ventiquattro ore e non ha voluto mangiare nulla. Niente
scava lo stomaco come il dolore».
«Ma, caro cliente», gli disse l'agente della
ditta Sonet, «prendete almeno un brodo. Avete tante cose da fare:
dovete andare in Comune, acquistare il terreno necessario per il
monumento che volete erigere alla memoria di quell'amico delle arti,
e che deve testimoniare la vostra riconoscenza».
«Ma insomma un po' di buon senso!», disse la
signora Cantinet a Schmucke, arrivando con un brodo e del pane.
«Pensate, mio caro signore, se siete così
debole», disse Rémonencq, «a incaricare qualcuno, perché ne avete di
cose da fare: bisogna ordinare il trasporto! Non vorrete che il
vostro amico sia sepolto come un povero».
«Su, su, caro signore!», disse la Sauvage
cogliendo un momento in cui Schmucke aveva la testa abbandonata
sulla spalliera della poltrona.
E infilò nella bocca di Schmucke una cucchiaiata
di minestra, e gli dette da mangiare quasi per forza come a un
bambino.
«Ora, signore, se foste saggio, dal momento che
volete lasciarvi andare tranquillamente al vostro dolore,
incarichereste qualcuno per le cose che ci sono da fare...».
«Poiché il signore», disse l'agente delle pompe
funebri, «è intenzionato a erigere un magnifico monumento alla
memoria del suo amico, ha solo da incaricare me, e io mi occuperò di
tutto...».
«Che cosa? che cosa?...», disse la Sauvage. «Il
signore vi ha incaricato di qualcosa? E chi siete?».
«Uno degli agenti della ditta Sonet, cara
signora, i più forti imprenditori di monumenti funebri...», disse
tirando fuori un biglietto da visita e presentandolo alla possente
Sauvage.
«Va bene, va bene... verremo da voi quando lo
riterremo opportuno; ma non bisogna abusare dello stato in cui si
trova il signore. Vedete bene che non ragiona...».
«Se fate in modo di farci avere l'ordinazione»,
sussurrò l'agente della ditta Sonet all'orecchio della signora
Sauvage spingendola sul pianerottolo, «sono autorizzato ad offrirvi
quaranta franchi...».
«Bene, datemi il vostro indirizzo», disse la
signora Sauvage diventando più umana.
Schmucke, vedendo che era rimasto solo e
sentendosi meglio dopo aver mangiato un po' di minestra, tornò
subito nella camera di Pons, e si mise a pregare. Si era perduto
negli abissi del suo dolore, quando un giovane vestito di nero lo
tirò fuori dal suo profondo annientamento, dicendogli per
l'undicesima volta un «Signore!» che il povero martire udì in quanto
contemporaneamente si sentì scosso per la manica della giacca.
«Che c'è ancora?...».
«Signore, dobbiamo al dottor Gannal una scoperta
sublime; non contestiamo la sua gloria, perché ha rinnovato i
miracoli dell'Egitto; ma ci sono stati dei perfezionamenti, e
abbiamo ottenuto dei risultati sorprendenti. Così, se volete
rivedere il vostro amico, tale quale era da vivo...».
«Rivederlo!...», esclamò Schmucke; «e mi
parlerà?».
«Non totalmente!... Non gli mancherà che la
parola», continuò il procacciatore di imbalsamazioni, «ma rimarrà in
eterno come l'imbalsamazione ve lo mostrerà. L'operazione richiede
pochi minuti. Bastano un'incisione nella carotide e un'iniezione; ma
il tempo stringe... Se aspettate ancora un quarto d'ora, non potrete
più avere la dolce soddisfazione di aver conservato il corpo...».
«Andate al diavolo!... Pons è un'anima!... e la
sua anima è in cielo».
«Quell'uomo non ha il senso della riconoscenza»,
disse il giovane agente di uno dei rivali del celebre Gannal,
uscendo dal portone; «rifiuta di far imbalsamare il suo amico!».
«Che volete, signore», disse la Cibot, che aveva
appena fatto imbalsamare il suo caro, «è uno che ha ereditato, è un
legatario. Concluso l'affare, per loro il morto non conta più
niente».
LXVIII • DOVE S'IMPARERÀ COME SI MUORE A PARIGI
Un'ora dopo, Schmucke vide entrare nella stanza
la signora Sauvage, seguita da un uomo vestito di nero e che
sembrava un operaio.
«Signore», disse la Sauvage, «Cantinet ha avuto
la cortesia di inviarvi questo signore, che è il fornitore di bare
della parrocchia».
Il fornitore di bare s'inchinò con un'aria di
commiserazione e condoglianza, ma da uomo sicuro del fatto suo e che
sa di essere indispensabile; e guardò il morto da intenditore...».
«Come la desidera il signore?... di abete, di
quercia semplice, o di quercia foderata di piombo? La quercia
foderata di piombo è quanto vi è di meglio. Il corpo è di misura
normale...».
Tastò i piedi per misurare il corpo.
«Un metro e settanta!», aggiunse. «Il signore
pensa certamente di ordinare il funerale in chiesa...».
Schmucke lanciò a quell'uomo sguardi simili a
quelli che hanno i pazzi prima di compiere un gesto inconsulto.
«Signore», disse la Sauvage, «dovreste incaricare
qualcuno che si occupi di tutte queste faccende».
«Sì», disse finalmente la vittima.
«Volete che vada a chiamarvi il signor Tabareau,
visto che avete tante cose da fare? Vedete, il signor Tabareau è la
persona più onesta del quartiere».
«Sì, il signor Tabareau! Me ne hanno parlato...»,
rispose Schmucke, ormai vinto.
«Bene, così il signore potrà stare tranquillo e
sarà padrone di abbandonarsi al suo dolore, dopo aver parlato col
suo fiduciario».
Intorno alle due, il primo commesso del signor
Tabareau, un giovane avviato alla carriera di ufficiale giudiziario,
si presentò con aspetto dimesso. La giovinezza ha dei privilegi
sorprendenti: non incute timore. Quel giovane, di nome Villemot, si
sedé accanto a Schmucke e attese il momento di parlare. Questo
riserbo fu molto apprezzato da Schmucke.
«Signore», gli disse, «io sono il primo commesso
del signor Tabareau, che mi ha incaricato di curare i vostri
interessi, e di occuparmi di tutti i dettagli della sepoltura del
vostro amico... Siete d'accordo?».
«Voi non mi salverete la vita, perché non ho
molto da vivere... ma almeno mi lascerete in pace?».
«Oh! non avrete il minimo disturbo», rispose
Villemot.
«Ebbene, cosa bisogna fare?».
«Firmate questa carta in cui nominate il signor
Tabareau vostro fiduciario per tutte le pratiche della successione».
«Bene, date qui!», disse il tedesco, che voleva
firmare subito.
«No, devo leggervi l'atto».
«Leggete!».
Schmucke non prestò la minima attenzione alla
lettura di quella procura generale, e la firmò. Il giovane prese da
Schmucke le consegne per il trasporto, per l'acquisto del terreno,
dove il tedesco volle avere anche la propria tomba, e per la
funzione in chiesa, dicendogli che non avrebbe avuto alcun disturbo,
e nessuna richiesta di denaro.
«Per avere un po' di pace, darei tutto quello che
possiedo», disse lo sventurato, inginocchiandosi ancora una volta
davanti al corpo dell'amico.
Era il trionfo di Fraisier: il legatario non
avrebbe potuto fare un solo movimento fuori dal cerchio in cui lo
teneva rinchiuso per mezzo della Sauvage e di Villemot.
Non c'è dolore che il sonno non riesca a vincere.
Così, verso la fine della giornata, la Sauvage trovò Schmucke
disteso ai piedi del letto dove giaceva il corpo di Pons,
addormentato; lo alzò da lì e lo sistemò maternamente nel suo letto,
dove il tedesco dormì fino al giorno dopo. Quando Schmucke si
svegliò, cioè quando fu restituito a tutti i suoi dolori dopo quella
tregua, il corpo di Pons era esposto nell'androne, la camera ardente
cui hanno diritto i funerali di terza classe; quindi cercò invano
l'amico nell'appartamento che gli sembrò immenso e dove non trovò
altro che orribili ricordi. La Sauvage, che accudiva Schmucke con
l'autorità di una balia sul suo marmocchio, lo costrinse a mangiare
prima di andare in chiesa. Mentre quella povera vittima si sforzava
di farlo, la Sauvage gli fece notare, con lamentazioni degne di
Geremia, che non possedeva un abito nero. Il guardaroba di Schmucke,
cui provvedeva Cibot, prima della malattia di Pons era ridotto, come
il cibo, alla sua più semplice espressione: due paia di pantaloni e
due redingotes!...
«Pensate di andare vestito così al funerale del
vostro amico? Sarebbe una mostruosità da farci coprire di vergogna
in tutto il quartiere!...».
«E come volete che ci vada?».
«Ma in lutto!...».
«In lutto!...».
«Le convenienze...».
«Le convenienze!... me ne infischio di tutte
quelle scemenze!», disse il pover'uomo che ormai era giunto
all'estremo grado di esasperazione cui il dolore possa portare
un'anima infantile.
«Ma è un mostro d'ingratitudine!», disse la
Sauvage rivolgendosi a un signore che apparve all'improvviso
nell'appartamento, e che fece fremere Schmucke.
Quel funzionario, fastosamente vestito di panno
nero, pantaloni neri, calze di seta nera, polsini bianchi, decorato
di una catena d'argento con appesa una medaglia, cravatta di mussola
bianca elegantissima, guanti bianchi; questo personaggio ufficiale,
coniato nello stampo dei pubblici dolori, teneva in mano una
bacchetta d'ebano, insegna delle sue funzioni, e sotto il braccio
sinistro un tricorno con coccarda tricolore.
«Sono il cerimoniere», disse quel personaggio con
voce gentile.
Abituato per le sue funzioni a dirigere ogni
giorno dei funerali, ad attraversare famiglie immerse in uno stesso
dolore, reale o finto, quell'uomo, come tutti i suoi colleghi,
parlava a bassa voce e amabilmente; era decoroso, educato,
professionalmente cortese, come una statua che rappresenti il genio
della morte. La dichiarazione del suo ruolo provocò in Schmucke un
tremito nervoso, come se avesse visto il carnefice.
«Il signore è il figlio, il fratello, il padre
del defunto?...», chiese il cerimoniere.
«Sono tutto questo, e anche di più... sono il suo
amico!...», disse Schmucke in un torrente di lacrime.
«Siete l'erede?».
«L'erede?...», ripeté Schmucke. «Tutto mi è
indifferente».
E Schmucke riprese la sua espressione di tetro
dolore.
«Dove sono i parenti, gli amici?», chiese il
cerimoniere.
«Eccoli tutti!...», esclamò Schmucke indicando i
quadri e le curiosità. «Quelli non hanno mai fatto soffrire il mio
buon Pons!... Ecco tutto quello che amava, oltre me!».
«È pazzo, signore», disse la Sauvage al
cerimoniere, «è inutile ascoltarlo».
Schmucke si era seduto e aveva ripreso il suo
contegno da idiota, asciugandosi meccanicamente le lacrime. In quel
momento apparve Villemot, il primo commesso di Tabareau; e il
cerimoniere, riconoscendo colui che era andato a ordinare il
funerale, gli disse:
«Bene, signore, bisogna andare... il carro è
arrivato; ma raramente ho visto funerali come questo. Dove sono i
parenti, gli amici?...».
«Non abbiamo avuto molto tempo», rispose il
signor Villemot, «il signore è precipitato in un tale dolore che non
pensava a niente; c'è un solo parente...».
Il cerimoniere rivolse a Schmucke uno sguardo
compassionevole, perché quell'esperto di dolore sapeva distinguere
il vero dal falso, e gli si avvicinò:
«Su, coraggio, mio caro signore!... Pensate a
onorare la memoria del vostro amico».
«Abbiamo dimenticato di inviare le
partecipazioni, ma ho provveduto a spedire un espresso al signor
presidente de Marville, l'unico parente di cui vi parlavo... Non ci
sono amici... E non credo verrà la gente del teatro dove il defunto
era direttore d'orchestra... Credo che il signore sia erede
universale».
«Allora deve guidare il corteo», disse il
cerimoniere. «Non avete un abito nero?», chiese osservando il
vestito di Schmucke.
«Io sono tutto nero dentro!...», disse il povero
tedesco con una voce straziante, «e così nero che sento la morte
dentro di me... Dio mi farà la grazia di unirmi al mio amico nella
tomba, e io lo ringrazierò!...».
E congiunse le mani.
«L'ho già detto alla nostra amministrazione, che
ha già introdotto tanti miglioramenti», continuò il cerimoniere
rivolgendosi a Villemot; «dovrebbe avere un guardaroba, e affittare
abiti da erede... è sempre più necessario... Ma, poiché il signore
eredita, dovrà almeno indossare il mantello da lutto, e quello che
ho portato lo avvolgerà completamente, e così nessuno si accorgerà
dell'inadeguatezza del suo vestito...».
«Volete avere la bontà di alzarvi?», disse a
Schmucke.
Schmucke si alzò, ma vacillò sulle gambe.
«Sostenetelo», disse il cerimoniere al primo
commesso, «voi siete il suo fiduciario».
Villemot sostenne Schmucke, tenendolo sotto le
braccia, e allora il cerimoniere prese quell'enorme e orribile
mantello nero che si mette addosso agli eredi per seguire il carro
funebre dalla casa del morto alla chiesa, allacciandoglielo sotto il
mento con dei cordoni di seta.
E Schmucke fu addobbato da erede.
LXIX • UN FUNERALE DA SCAPOLO
«A questo punto sorge una grande difficoltà»,
disse il cerimoniere. «Dobbiamo guarnire i quattro cordoni del
drappo funebre... Se non c'è nessuno, chi li tiene?... Sono le dieci
e mezzo», disse guardando l'orologio, «ci aspettano in chiesa».
«Ah, ecco Fraisier!», esclamò assai
imprudentemente Villemot.
Ma nessuno poté cogliere questa confessione di
complicità.
«Chi è questo signore?», chiese il cerimoniere.
«Oh! la famiglia...».
«Quale famiglia?».
«La famiglia diseredata. È il fiduciario del
signor presidente Camusot».
«Bene!», disse soddisfatto il cerimoniere.
«Avremo almeno due persone per reggere i cordoni del drappo, uno voi
e l'altro lui».
Il cerimoniere, felice di poter guarnire due
cordoni, andò a prendere due magnifiche paia di guanti bianchi di
daino, e cortesemente le porse a Fraisier e quindi a Villemot.
«I signori vogliono prendere ognuno un
cordone?...», disse.
Fraisier, tutto in nero, vestito
pretenziosamente, cravatta bianca, aria ufficiale, incuteva timore:
era un vero e proprio archivio legale.
«Volentieri, signore», rispose.
«Se venissero altre due persone soltanto», disse
il cerimoniere, «i quattro cordoni sarebbero guarniti».
In quel momento arrivò l'infaticabile agente
della ditta Sonet, seguito dall'unico uomo che si ricordasse di Pons
e pensasse di rendergli un estremo omaggio. Quell'uomo era un
inserviente del teatro, incaricato di disporre gli spartiti sui
leggii degli orchestrali, e al quale Pons dava ogni mese cinque
franchi, sapendo che era un padre di famiglia.
«Ah! Topinard!», esclamò Schmucke riconoscendolo.
«Tu vuoi bene a Pons!...».
«Ma, signore, io sono venuto tutti i giorni, la
mattina, a chiedere notizie del signore...».
«Tutti i giorni! povero Topinard!...», disse
Schmucke stringendogli la mano.
«Ma forse mi prendevano per un parente, perché mi
trattavano così male! Avevo un bel dire che ero del teatro e venivo
a chiedere notizie del signor Pons; mi dicevano che erano tutte
scuse. Io chiedevo di poter vedere quel povero caro malato, ma non
mi hanno mai lasciato salire».
«L'infame Cibot!...», disse Schmucke stringendo
al cuore la mano callosa dell'inserviente.
«Era il migliore degli uomini, quel bravo signor
Pons. Ogni mese mi dava cento soldi... sapeva che ho moglie e tre
figli. Mia moglie è in chiesa».
«Dividerò il mio pane con te!», esclamò Schmucke,
felice di avere accanto a sé un uomo che voleva bene a Pons.
«Il signore vuol tenere uno dei cordoni del
drappo?», disse il cerimoniere. «Così li avremo tutti e quattro».
Il cerimoniere aveva convinto facilmente l'agente
della ditta Sonet a prendere uno dei cordoni, soprattutto quando gli
aveva mostrato il bel paio di guanti che, secondo l'usanza, sarebbe
rimasto a lui.
«Sono le dieci e tre quarti!... Bisogna
assolutamente scendere... Ci attendono in chiesa», disse il
cerimoniere.
E quelle sei persone si avviarono per le scale.
«Chiudete bene l'appartamento e restateci», disse
l'atroce Fraisier alle due donne che erano sul pianerottolo,
«soprattutto se volete diventare la custode, signora Cantinet. Sono
quaranta soldi al giorno!...».
Per un caso che non è affatto straordinario a
Parigi, nell'androne c'erano due catafalchi e di conseguenza due
erano i funerali: quello di Cibot, il defunto portiere, e quello di
Pons. Nessuno veniva a rendere la minima testimonianza d'affetto
allo smagliante catafalco dell'amico delle arti, mentre tutti i
portieri del vicinato affluivano e cospargevano con l'aspersorio la
spoglia mortale del portiere. Questo contrasto, tra la folla accorsa
al funerale di Cibot, e la solitudine nella quale veniva lasciato
Pons, si verificò non soltanto all'interno del portone, ma anche in
strada, dove la bara di Pons fu seguita dal solo Schmucke, sostenuto
da un becchino perché l'erede vacillava ad ogni passo. Dalla rue de
Normandie alla rue d'Orléans, dove si trova la chiesa di
Saint-François, i due cortei funebri passarono tra due ali di
curiosi perché, come si è detto, in quel quartiere ogni cosa
costituisce un avvenimento. Dunque si notava lo splendore del carro
bianco, da cui pendeva uno stemma su cui era stata ricamata una
grande P, e che era seguito da un uomo soltanto; mentre il carro
semplice, di ultima classe, era accompagnato da una folla immensa.
Per fortuna Schmucke, inebetito dalla gente alle finestre e dalla
siepe formata dai curiosi, non capiva niente e vedeva quel concorso
di persone soltanto attraverso un velo di lacrime.
«Ah! è lo schiaccianoci...», diceva uno, «il
musicista, sapete!».
«E chi sono quelli che tengono i cordoni?...».
«Bah! attori!».
«Ecco, guarda il trasporto del povero papà Cibot!
Un lavoratore in meno, e che lavoratore!».
«Quell'uomo non usciva mai!».
«Non ha mai fatto un lunedì».
«E come amava la moglie!».
«La sventurata!».
Rémonencq era dietro il carro della sua vittima,
e riceveva condoglianze per la perdita del vicino.
LXX • LA MORTE È UN ABBEVERATOIO PER MOLTA GENTE A PARIGI
I due cortei funebri giunsero alla chiesa dove
Cantinet, d'accordo con lo «svizzero», ebbe cura che nessun
mendicante infastidisse Schmucke; Villemot aveva promesso all'erede
che niente lo avrebbe disturbato e avrebbe pensato lui a tutte le
spese, proteggendo il cliente. Il modesto carro funebre di Cibot,
scortato dalle settanta alle ottanta persone, fu accompagnato da
tutti fino al cimitero. All'uscita dalla chiesa, il carro di Pons fu
seguito da quattro vetture: una per il clero, le altre tre per i
parenti; ma una sola bastò, perché l'agente della ditta Sonet era
andato, durante la messa, ad avvertire il signor Sonet che il
convoglio funebre era partito, in modo che potesse presentare
all'erede universale, all'uscita dal cimitero, il disegno e il
preventivo del monumento. Fraisier, Villemot, Schmucke e Topinard
andarono in un'unica vettura. Le altre due, invece di tornare alla
sede della ditta, andarono vuote al Père-Lachaise. Questo viaggio
inutile di vetture vuote accade spesso. Quando i morti non godono di
alcuna celebrità, non attirano alcun concorso di gente, e le vetture
sono sempre troppe. I morti devono essere stati molto amati in vita
perché a Parigi, dove tutti vorrebbero che una giornata fosse di
venticinque ore, si accompagni un parente o un amico fino al
cimitero. Così, piene o vuote, le vetture giungono in chiesa, al
cimitero, e tornano alla casa del morto dove i cocchieri chiedono la
mancia. Non si ha un'idea del numero di persone per le quali la
morte è un abbeveratoio. Il basso clero della parrocchia, i poveri,
i becchini, i cocchieri, tutti questi esseri spugnosi si ritraggono
gonfiati dopo essersi immersi in un carro funebre. Dalla chiesa,
dove l'erede, uscendo, fu assalito da un nugolo di poveri, subito
disperso dallo «svizzero», fino al Père-Lachaise, il povero Schmucke
andò avanti come i criminali andavano dal tribunale alla place de
Grève. Alla testa del suo corteo, teneva per mano l'inserviente
Topinard, l'unica persona che avesse nel cuore un vero dolore per la
morte di Pons. Topinard, estremamente commosso dell'onore che gli
era stato reso facendogli tenere uno dei cordoni del drappo funebre,
e contento di andare in vettura, padrone di un paio di guanti,
cominciava a vedere nel funerale di Pons una delle giornate
importanti della sua vita. Stremato dal dolore, sostenuto dal
contatto di quella mano cui corrispondeva un cuore, Schmucke si
lasciava condurre esattamente come quei poveri vitelli che, su un
carretto, vengono portati al macello. Sulla parte anteriore della
vettura stavano Fraisier e Villemot. Ora, coloro che hanno avuto la
disgrazia di accompagnare molti dei loro congiunti al campo del
riposo sanno bene che in vettura cessa ogni ipocrisia durante il
tragitto, spesso assai lungo, dalla chiesa al cimitero dell'Est: tra
i cimiteri parigini quello dove si sono concentrati tutti i lussi e
le vanità, così ricco di monumenti sontuosi. Gli indifferenti
cominciano a conversare, e anche i più affranti finiscono per
ascoltarli e distrarsi.
«Il signor presidente era già uscito per andare
in udienza», diceva Fraisier a Villemot, «e non ho ritenuto
necessario andare a distoglierlo dai suoi impegni in tribunale; in
ogni caso sarebbe arrivato troppo tardi. Essendo l'erede naturale e
legale, ma diseredato a favore del signor Schmucke, ho pensato che
qui fosse sufficiente la presenza del suo fiduciario...».
Topinard tese l'orecchio.
«Ma chi è quello strano tipo che teneva il quarto
cordone?», chiese Fraisier a Villemot.
«È l'agente di una ditta che esegue monumenti
funebri, che vorrebbe ottenere l'ordinazione di una tomba in cui si
propone di scolpire tre figure in marmo: la Musica, la Pittura e la
Scultura che versano lacrime sul defunto.
«È un'idea», disse Fraisier. «Il buonuomo lo
merita certamente, ma un monumento del genere costerà da sette a
ottomila franchi».
«Oh, sì!».
«Se il signor Schmucke fa l'ordinazione, ciò non
può riguardare la successione, perché simili spese potrebbero
assorbire un'eredità...».
«Significa fare causa, ma si vincerebbe...».
«Ebbene», continuò Fraisier, «sarà un problema
suo! È un bello scherzo da fare a questi imprenditori...», disse
all'orecchio di Villemot, «perché, se il testamento viene annullato,
e a questo m'impegno io... o se non ci fosse testamento, chi
pagherebbe?».
Villemot sorrise come una scimmia. Il primo
commesso di Tabareau e il leguleio si parlarono sottovoce e
all'orecchio; eppure, malgrado il rollio della vettura e tutti i
rumori, l'inserviente di teatro, abituato a indovinare tutto nel
mondo delle quinte, intuì che quei due tipi dell'ambiente
giudiziario pensavano di mettere in gravi difficoltà il povero
tedesco, e finì per udire la parola significativa di Clichy! Da quel
momento il degno e onesto servitore del mondo teatrale decise di
vegliare sull'amico di Pons.
Al cimitero, dove, grazie alle cure dell'agente
della ditta Sonet, Villemot aveva acquistato tre metri di terra dal
Comune, dichiarando che vi sarebbe stato costruito un magnifico
monumento, Schmucke fu condotto dal cerimoniere, attraverso una
folla di curiosi, alla fossa dove stavano per calare Pons. Ma alla
vista di quel buco quadrato sopra il quale quattro uomini reggevano
con delle corde la bara di Pons, sulla quale il clero recitava
l'ultima preghiera, il tedesco provò una tale stretta al cuore che
svenne.
LXXI • PER APRIRE UNA SUCCESSIONE SI CHIUDONO TUTTE LE PORTE
Topinard, aiutato dall'agente della ditta Sonet e
dallo stesso signor Sonet, condusse nello stabilimento del marmista
il povero tedesco, cui furono prodigate le cure più premurose e
affettuose dalla signora Sonet e dalla signora Vitelot, moglie del
socio del signor Sonet. Topinard rimase lì, avendo visto Fraisier,
con la sua faccia patibolare, intrattenersi con l'agente della ditta
Sonet.
Il povero innocente tedesco riprese i sensi dopo
un'ora, verso le due e mezzo. Da due giorni a Schmucke sembrava di
sognare. Pensava che si sarebbe risvegliato e avrebbe ritrovato Pons
vivo. Gli misero tante di quelle salviette bagnate sulla fronte, e
gli fecero inspirare tanti di quei sali e aceti, che riaprì gli
occhi. La signora Sonet costrinse Schmucke a bere un buon brodo
grasso, perché era stato preparato il pot-au-feu in casa dei
marmisti.
«Non ci capita spesso di assistere in questo modo
dei clienti che provano tanto dolore; anche se ogni due anni
accade...».
Finalmente Schmucke disse che voleva tornare in
rue de Normandie.
«Signore», disse allora Sonet, «ecco il progetto
che Vitelot ha fatto apposta per voi, passandoci tutta la notte!...
È un progetto geniale! Sarà un bel monumento!...».
«Sarà uno dei più belli del Père-Lachaise!...»,
disse la piccola signora Sonet. «Del resto dovete pur onorare la
memoria di un amico che vi ha lasciato tutta la sua fortuna...».
Il progetto, fatto passare per nuovo, in realtà
era stato preparato per de Marsay, il famoso ministro; ma la vedova
aveva voluto affidare la progettazione del monumento a Stidmann;
così il progetto di questi imprenditori era stato rifiutato, perché
prefigurava un monumento di scarso valore. Nel progetto originario
le tre figure rappresentavano le giornate di Luglio, durante le
quali si era rivelato quel grande ministro. In seguito, con qualche
modifica, Sonet e Vitelot avevano fatto delle tre gloriose
l'Esercito, la Finanza e la Famiglia per il monumento di Charles
Keller, poi eseguito anche questo da Stidmann. Da undici anni quel
progetto veniva adattato a tutte le circostanze di famiglia; ma nel
ricalcarlo Vitelot aveva trasformato le tre figure in quelle dei
geni della musica, della scultura e della pittura.
«Il costo è minimo se si pensa ai dettagli e alla
costruzione; anche se in sei mesi ce la faremo», disse Vitelot.
«Signore, ecco il preventivo e l'ordinazione... settemila franchi,
non compreso il lavoro degli sbozzatori».
«Se il signore preferisce il marmo», disse Sonet,
marmista specializzato, «il costo sale a dodicimila franchi, e il
signore s'immortalerà insieme col suo amico...».
«Ho appena saputo che il testamento sarà
impugnato», disse Topinard all'orecchio di Vitelot, «e che gli eredi
rientreranno in possesso dell'eredità; andate a trattare col signor
presidente Camusot, perché questo povero innocente non avrà un
soldo...».
«Ci portate sempre clienti di questo genere!»,
disse la signora Vitelot all'agente, cominciando a litigare.
Topinard riaccompagnò Schmucke, a piedi, fino in
rue de Normandie, perché le vetture del funerale vi si erano già
avviate.
«Non mi lasciate!...», disse Schmucke a Topinard.
Topinard voleva andarsene, dopo aver rimesso il
povero musicista tra le mani della signora Sauvage.
«Sono le quattro, caro signor Schmucke, devo
andare a mangiare... Mia moglie, che fa la maschera, non sa dove sia
finito. Lo sapete, il teatro apre alle cinque e tre quarti...».
«Sì, lo so... ma pensate che sono solo al mondo,
senza un amico. Voi che avete pianto Pons, fatemi capire, sono in
una notte profonda, e Pons mi ha detto che sono circondato da
farabutti...».
«Me ne sono già accorto, e vi ho appena evitato
di andare a dormire a Clichy!».
«Clichy?...», esclamò Schmucke, «non capisco...».
«Pover'uomo! Ebbene, state tranquillo, verrò a
trovarvi, addio».
«Addio, a presto!...», disse Schmucke cadendo
quasi morto di stanchezza.
«Addio, signore!», disse la signora Sauvage a
Topinard, con un tono che colpì l'inserviente.
«Che avete, cameriera?...», disse beffardo
Topinard. «Sembra che recitiate la parte del traditore in un
melodramma».
«Traditore siete voi! Di che v'impicciate?
Vorreste occuparvi degli affari del signore per imbrogliarlo?...».
«Imbrogliarlo!... Serva!...», rispose fieramente
Topinard. «Sono soltanto un povero inserviente di teatro, ma vivo
con gli artisti, e sappiate non ho mai chiesto nulla a nessuno! Vi
ho forse chiesto qualcosa? Avanzate qualcosa, vecchia?...».
«Siete inserviente di teatro, e vi chiamate?...»,
chiese la virago.
«Topinard, per servirvi...».
«Saluti a casa», disse la Sauvage, «e i miei
complimenti alla signora, se il signore è sposato... È tutto quello
che volevo sapere».
«Che avete, bella mia?...», disse arrivando la
signora Cantinet.
«Ho, piccina, che voi resterete qui a occuparvi
della cena, mentre faccio un salto in camera dal signore...».
«È giù, sta parlando con quella povera signora
Cibot, che è in un lago di lacrime», rispose la Cantinet.
La Sauvage si precipitò per le scale con una tale
rapidità che gli scalini tremavano sotto i suoi piedi.
«Signore...», disse a Fraisier, traendolo a sé, a
qualche passo dalla Cibot.
E indicò Topinard nel momento in cui
l'inserviente di teatro stava passando, fiero di aver già pagato il
suo debito al proprio benefattore, evitando con un'astuzia ispirata
dal palcoscenico, dove tutti sono più o meno spiritosi, che l'amico
di Pons cadesse in una trappola. Infatti l'inserviente si
riprometteva di proteggere il musicista della sua orchestra dalle
trappole che sarebbero state tese alla sua buona fede.
«Guardate bene quel piccolo miserabile!... È una
specie di onest'uomo che vuol ficcare il naso negli affari del
signor Schmucke...».
«E chi è?», chiese Fraisier.
«Oh! una nullità...».
«Non ci sono nullità negli affari...».
«È un inserviente di teatro», disse, «si chiama
Topinard...».
«Bene, signora Sauvage! Continuate così e avrete
il vostro spaccio di tabacchi».
E Fraisier riprese a parlare con la Cibot.
«Dicevo, cara cliente, che non siete stata leale
con noi, e che noi non abbiamo alcun obbligo nei confronti di un
socio che c'inganna!».
«E in cosa vi avrei ingannato?...», disse la
Cibot con i pugni sui fianchi. «Credete di farmi paura con i vostri
sguardi aspri e quella faccia da vipera?... State cercando dei
pretesti per non mantenere la parola, e poi dite di essere onesto!
Sapete cosa siete? Siete una canaglia! Sì, sì, grattatevi pure il
braccio!... ma prendetevi questa!...».
«Basta con le chiacchiere, e niente collera,
amica mia», disse Fraisier. «Ascoltatemi! Avete già fatto il vostro
gruzzolo... Stamani, durante i preparativi del funerale, ho trovato
questo catalogo, in doppia copia, interamente scritto di pugno dal
signor Pons e, per caso, mi sono caduti gli occhi su questo... E
lesse, aprendo il catalogo manoscritto:
»n. 7. Magnifico ritratto dipinto su marmo da
Sebastiano del Piombo nel 1546, venduto da una famiglia che l'ha
fatto portar via dalla cattedrale di Terni. Il ritratto, che era
abbinato a quello di un vescovo, comprato da un inglese, rappresenta
un cavaliere di Malta in preghiera, e si trovava al di sopra della
tomba della famiglia Rossi. Senza la data, si potrebbe attribuire
l'opera a Raffaello. Questo pezzo mi sembra superiore al ritratto di
Baccio Bandinelli, del Museo, che è un po' secco, mentre questo
cavaliere di Malta è di una freschezza dovuta alla conservazione
della pittura sulla LAVAGNA (ardesia)».
«Guardando», continuò Fraisier, «al posto del n.
7, ho invece trovato un ritratto di dama firmato Chardin, senza
l'indicazione del n. 7!... Mentre il cerimoniere completava il
numero delle persone che dovevano tenere i cordoni del drappo
funebre, ho controllato i quadri, e ho verificato che otto opere
indicate come le più importanti dal defunto signor Pons non ci sono
più, e sono state sostituite con tele ordinarie e senza numero...
Inoltre manca una piccola tavola di Metzu, definita un
capolavoro...».
«Ero forse la guardiana dei quadri, io?», chiese
la Cibot.
«No, ma eravate la donna di fiducia, che si
occupava della casa e degli affari del signor Pons, e qui si tratta
di furto...».
«Furto! Sappiate, signore, che i quadri sono
stati venduti dal signor Schmucke, secondo le disposizioni del
signor Pons, per far fronte alle sue necessità».
«A chi?».
«Ai signori Élie Magus e Rémonencq...».
«Quanto?».
«Non mi ricordo!...».
«Ascoltate, cara signora Cibot, voi vi siete
fatto il vostro gruzzolo, ed è anche grassoccio!...», continuò
Fraisier. «Vi terrò d'occhio, vi tengo in pugno... Servitemi e non
parlerò! In ogni caso, capite bene che non potete contare per niente
sul signor presidente Camusot, dal momento che avete ritenuto
opportuno derubarlo».
«Sapevo bene, mio caro signor Fraisier, che per
me tutto sarebbe andato in fumo...», rispose la Cibot, addolcita
dalle parole «Non parlerò!».
LXXII • DEL PERICOLO D'IMMISCHIARSI NEGLI AFFARI DELLA GIUSTIZIA
«Ecco», disse Rémonencq arrivando, «che ve la
prendete con la signora; non sta bene! La vendita dei quadri è stata
fatta in pieno accordo tra il signor Pons, il signor Magus e me, e
ci sono voluti tre giorni per accordarci col defunto, che sui suoi
quadri ci sognava! Abbiamo regolari ricevute e se abbiamo dato, come
si fa sempre, qualche moneta da quaranta franchi alla signora, ha
avuto quello che diamo in tutte le case borghesi dove concludiamo un
affare. Ah! mio caro signore, se pensate di poter ingannare una
donna indifesa, potreste pentirvene!... Capito, signor uomo
d'affari? Il signor Magus è il padrone della piazza, e se voi non
rigate dritto con la signora e non le date quello che le avete
promesso, vi aspetto alla vendita della collezione; allora vedrete
cosa perderete avendo contro di voi il signor Magus e me... vi
metteremo contro i mercanti... Invece di sette, ottocentomila
franchi, non farete neppure duecentomila franchi!».
«Va bene, va bene, vedremo! Non venderemo», disse
Fraisier, «o venderemo a Londra».
«Conosciamo bene Londra!», disse Rémonencq. «Il
signor Magus lì è potente quanto a Parigi».
«Addio, signora, vado a spulciare i vostri
affari», disse Fraisier; «a meno che non mi obbediate».
«Piccolo imbroglione!...».
«Attenta», disse Fraisier, «sto per diventare
giudice di pace!».
Si separarono con minacce la cui portata era ben
apprezzata da una parte e dall'altra.
«Grazie, Rémonencq!», disse la Cibot, «è una
fortuna per una povera vedova trovare un difensore».
La sera, verso le dieci, in teatro, Gaudissart
chiamò nel suo ufficio l'inserviente addetto all'orchestra.
Gaudissart, in piedi davanti al caminetto, era in posa napoleonica,
assunta da quando dirigeva tutto un mondo di attori, ballerini,
comparse, musicisti, macchinisti, da quando trattava con gli autori.
Infilava abitualmente la mano destra nel gilè, con la sinistra
attaccata alla bretella, la testa di tre quarti e lo sguardo nel
vuoto.
«Ah, Topinard... avete rendite?».
«No, signore».
«Cercate un posto migliore di quello che avete?»,
chiese il direttore.
«No, signore...», rispose l'inserviente
impallidendo.
«Diavolo!... Tua moglie fa la maschera alle
prime... con lei ho rispettato le disposizioni del mio
predecessore... A te ho dato l'incarico di pulire le lampade delle
quinte, di giorno; hai anche l'incarico delle partiture. E non è
tutto! hai un compenso di venti soldi per fare i mostri e
organizzare i diavoli quando si rappresenta l'inferno. Hai una
posizione invidiata da tutti gli altri inservienti, che sono gelosi,
amico mio... in teatro hai dei nemici».
«Dei nemici!...», disse Topinard.
«E hai tre figli, e il maggiore fa le parti di
bambino con un compenso di cinquanta centesimi!...».
«Signore...».
«Lasciami parlare...», disse Gaudissart con voce
roboante. «Con una tale posizione, tu vuoi lasciare il teatro...».
«Signore...».
«Vuoi metterti in affari, mettere il dito in
questioni di eredità!... Sciagurato! saresti schiacciato come un
uovo! Ho come protettore Sua Eccellenza il signor conte Popinot,
uomo intelligente di grande carattere, che il re ha avuto la grande
accortezza di chiamare a far parte del suo consiglio... Quest'uomo
di Stato, questo politico superiore, parlo del conte Popinot, ha
dato in moglie al suo primogenito la figlia del presidente de
Marville, uno degli uomini più considerevoli e più considerati dei
più alti gradi della magistratura, una delle celebrità della corte,
in tribunale. Conosci il tribunale? Ebbene, il conte Popinot è
l'erede di suo cugino Pons, il nostro vecchio direttore d'orchestra,
al cui funerale sei andato stamani. Non ti rimprovero per essere
andato a dare l'ultimo saluto a quel poveretto... Ma non conserverai
il tuo posto se ti occuperai degli affari di quel brav'uomo del
signor Schmucke, cui voglio molto bene ma che sta per entrare in
conflitto con gli eredi di Pons... E siccome di quel tedesco
m'importa poco, mentre m'importa molto del presidente e del conte
Popinot, ti chiedo di lasciare che quel degno tedesco sbrogli da
solo i suoi affari. C'è un dio particolare per i tedeschi... ti
troveresti male in qualità di vice-dio! Pensa a fare
l'inserviente!... non puoi fare di meglio!».
«Basta, signor direttore», disse Topinard,
afflitto.
Così Schmucke, che si aspettava di vedere
l'indomani il povero inserviente, l'unico essere che avesse pianto
Pons, perse il solo protettore che il caso gli avesse inviato.
L'indomani, il povero tedesco si rese conto, al suo risveglio,
dell'immensa perdita che aveva subito, trovando l'appartamento
vuoto. Alla vigilia, due giorni prima, gli avvenimenti e lo
sconquasso della morte avevano prodotto intorno a lui
quell'agitazione, quel movimento che distraggono gli occhi. Ma il
silenzio che segue la scomparsa di un amico, di un padre, di un
figlio, di una donna amata, lo scialbo e freddo silenzio
dell'indomani è terribile, è glaciale. Attratto da una forza
irresistibile nella camera di Pons, il pover'uomo non riuscì a
sopportarne la vista, tornò indietro, andò a sedersi in sala da
pranzo, dove la signora Sauvage serviva la colazione. Schmucke si
sedette ma non riuscì a mangiare niente.
LXXIII • APPARIZIONE DI TRE UOMINI NERI
Improvvisamente risuonò una forte scampanellata,
e apparvero tre uomini vestiti di nero, che la signora Cantinet e la
signora Sauvage avevano lasciato entrare. Erano il signor Vitel,
giudice di pace, e il suo cancelliere; il terzo era Fraisier, più
aspro che mai, per il disappunto di un testamento regolare che
annullava la sua arma potente, rubata con tanta audacia.
«Veniamo, signore», disse il giudice di pace a
Schmucke, gentilmente, «ad apporre i sigilli...».
Schmucke, per il quale queste parole erano greco,
guardò sgomento i tre uomini.
«Veniamo su richiesta del signor Fraisier,
avvocato, fiduciario del signor Camusot de Marville, erede di suo
cugino, il defunto signor Pons...», aggiunse il cancelliere.
«Le collezioni si trovano in quel grande salotto
e nella camera da letto del defunto», disse Fraisier.
«Allora andiamo... Scusate, signore, pranzate
pure...», disse il giudice di pace.
L'invasione di quei tre uomini neri aveva gelato
di terrore il povero tedesco.
«Signore», disse Fraisier rivolgendo a Schmucke
uno di quegli sguardi velenosi che magnetizzano le vittime come un
ragno magnetizza una mosca, «signore, chi ha saputo far fare un
testamento a proprio vantaggio davanti a un notaio, doveva certo
aspettarsi qualche resistenza da parte della famiglia. Una famiglia
non si lascia spogliare da un estraneo senza combattere, e vedremo,
signore, chi la vincerà: se la frode e la corruzione, o la
famiglia!... Come eredi abbiamo il diritto di chiedere l'apposizione
dei sigilli, i sigilli saranno messi, e io intendo controllare
personalmente che ques'atto conservativo sia eseguito con il massimo
rigore, e così sarà».
«Mio Dio, mio Dio! ma che ho fatto di male?»,
disse l'innocente Schmucke.
«Si parla molto di voi nella casa», disse la
Sauvage. «Mentre stavate dormendo è venuto un giovanotto, tutto
vestito di nero, un damerino, il primo giovane di studio del signor
Hannequin, e voleva parlarvi ad ogni costo; ma siccome dormivate e
vi eravate talmente stancato nella cerimonia di ieri, gli ho detto
che avevate firmato una procura al signor Villemot, il primo
commesso di Tabareau, e che andasse a parlare con lui se si trattava
di affari. «Ah, tanto meglio», ha detto il damerino, « m'intenderò
bene con lui. Stiamo per depositare il testamento in tribunale, dopo
averlo presentato al presidente». Allora l'ho pregato di mandare qui
il signor Villemot, appena gli fosse possibile. State tranquillo,
mio caro signore», disse la Sauvage, «avrete chi vi difenderà. Non
vi mangeranno la lana addosso. State per incontrare uno che ha becco
e unghie! Il signor Villemot dirà a quei signori il fatto loro! Io,
mi sono già arrabbiata con quella terribile mascalzona della Cibot,
una portiera che s'immischia nelle faccende degli inquilini e va in
giro a dire che derubate gli eredi, che avete tenuto prigioniero il
signor Pons, che l'avete tormentato, che era pazzo da legare. L'ho
rigirata nel migliore dei modi, quella scellerata: «Siete una ladra
e una canaglia!», le ho detto, «e finirete in tribunale per tutto
quello che avete rubato ai vostri padroni...». E lei non ha aperto
bocca».
«Il signore», disse il cancelliere avvicinandosi
a Schmucke, «vuol essere presente all'apposizione dei sigilli nella
camera da letto?».
«Fate, fate!», disse Schmucke, «posso almeno
sperare di morire in pace?».
«Si ha sempre il diritto di morire», disse il
cancelliere ridendo, «e le successioni sono il nostro affare
migliore. Ma raramente ho visto degli eredi universali seguire i
testatori nella tomba».
«Io ci andrò!», disse Schmucke che sentiva, dopo
tanti colpi, dei dolori insopportabili al cuore.
«Ah! ecco il signor Villemot!», esclamò la
Sauvage.
«Signor Villemot», disse il povero tedesco,
«rappresentatemi voi...».
«Eccomi», disse il primo commesso. «Vengo a
informarvi che il testamento è assolutamente in regola, e sarà
certamente omologato dal tribunale, che vi riconoscerà possessore di
tutto. Avrete una bella fortuna».
«Io, una bella fortuna!», esclamò Schmucke,
disperato all'idea di essere sospettato di avidità.
«Nell'attesa», disse la Sauvage, «che sta facendo
di là il giudice di pace, con quelle candele e quei nastri?».
«Ah! mette i sigilli... Venite, signor Schmucke,
avete il diritto di assistere...».
«No, andateci voi...».
«Ma perché i sigilli, se il signore è in casa
sua, e la roba è tutta sua?», disse la Sauvage parlando di diritto
alla maniera delle donne, che applicano il Codice a loro piacimento.
«Il signore non è in casa sua, signora, è in casa
del signor Pons; diverrà certamente proprietario di tutto ma, quando
si è legatari, si può entrare in possesso dei beni che costituiscono
la successione soltanto attraverso quella che noi chiamiamo
un'entrata in possesso. Questo atto è emanato dal tribunale. Ora, se
gli eredi, privati della successione per volontà del testatore, si
oppongono all'entrata in possesso, allora si fa un processo... E
poiché non si sa a chi toccherà la successione, ogni valore viene
posto sotto sigilli, e i notai degli eredi e del legatario procedono
all'inventario nel tempo stabilito dalla legge... Ecco tutto».
Udendo questo linguaggio per la prima volta in
vita sua, Schmucke perse del tutto la testa, e l'abbandonò sulla
spalliera della poltrona in cui era seduto; la sentiva così pesante,
che gli fu impossibile sostenerla. Villemot andò a parlare con il
cancelliere e con il giudice di pace, e assisté, col sangue freddo
di chi è pratico di queste situazioni, all'apposizione dei sigilli
che, quando non è presente alcun erede, non avviene mai senza
qualche scherzo o qualche considerazione su quanto viene sequestrato
fino al giorno della spartizione. Finalmente i quattro chiusero il
salotto e rientrarono nella sala da pranzo, dove si spostò il
cancelliere. Schmucke assisté passivamente a quell'operazione che
consiste nel sigillare col sigillo del giudice di pace un nastro su
ogni battente delle porte, quando sono a due battenti, o nel
sigillare gli armadi e le porte a un solo battente apponendo i
sigilli sulla fessura.
«Passiamo a questa camera», disse Fraisier
indicando la camera di Schmucke, la cui porta si apriva sulla sala
da pranzo.
«Ma è la camera del signore!», esclamò la Sauvage
mettendosi tra la porta e gli uomini della giustizia.
«Ecco il contratto di affitto dell'appartamento»,
disse l'orribile Fraisier, «l'abbiamo trovato tra le carte, e non
è a nome dei signori Pons e Schmucke, ma del solo signor Pons.
L'intero appartamento fa parte della successione... E del resto»,
disse aprendo la porta della camera di Schmucke, «come vedete,
signor giudice di pace, è piena di quadri».
«Infatti», disse il giudice di pace, che dette
subito ragione a Fraisier.
LXXIV • I FRUTTI DEL FRAISIER
«Calma, signori», disse Villemot. «Pensate di
poter mettere alla porta il legatario universale, il cui ruolo non è
stato finora contestato?».
«Sì, sì!», disse Fraisier, «noi ci opponiamo alla
consegna del legato».
«E con quale pretesto?».
«Lo saprete, mio caro!», disse beffardo Fraisier.
«In questo momento non ci opponiamo a che il legatario ritiri da
questa camera quello che dichiarerà di sua proprietà; ma la camera
sarà sigillata. E il signore andrà ad abitare dove vorrà».
«No», disse Villemot, «il signore resterà nella
sua camera!...».
«E in che modo?».
«Chiederò un giudizio per direttissima», continuò
Villemot, «per far dichiarare che noi siamo affittuari di metà
appartamento, e voi non riuscirete a mandarci via... Togliete i
quadri, separate ciò che appartiene al defunto da quanto appartiene
al mio cliente... mio caro!...».
«Me ne andrò!», disse il vecchio musicista, che
ritrovò un po' d'energia ascoltando quel penoso dibattito.
«E sarà meglio!», disse Fraisier. «Questa scelta
vi risparmierà delle spese, perché perdereste. Il contratto è
chiarissimo...».
«Il contratto! il contratto!», disse Villemot. «È
una questione di buona fede!...».
«Ma non può essere provata, come nelle cause
penali, attraverso dei testimoni... Volete cacciarvi nelle perizie,
nelle verifiche... nelle sentenze provvisorie, nell'intera
procedura?...».
«No! no!», esclamò Schmucke terrorizzato. «Me ne
vado, vado via...».
La vita di Schmucke era quella di un filosofo,
cinico senza saperlo, tanto era semplice. Possedeva soltanto due
paia di scarpe, un paio di stivali, due vestiti completi, dodici
camicie, dodici foulards, dodici fazzoletti, quattro gilè, e una
pipa superba che Pons gli aveva regalato, con una borsa da tabacco
ricamata. Entrò in camera, sovreccitato dalla febbre
dell'indignazione; prese tutte le sue cose e le mise su una sedia.
«Tutto questo è mio!...», disse con una
semplicità degna di Cincinnato. « Anche il pianoforte è mio».
«Signora...», disse Fraisier alla Sauvage,
«fatevi aiutare a spostare quel pianoforte, mettetelo sul
pianerottolo!».
«Siete troppo duro», disse Villemot a Fraisier;
«soltanto il giudice di pace può dare ordini, solo lui è sovrano in
questa materia».
«Qui ci sono dei valori», disse il cancelliere
indicando la camera.
«Del resto», fece osservare il giudice di pace,
«il signore esce di sua volontà».
«Non si sono mai visti clienti simili!», disse
Villemot indignato, rivolgendosi a Schmucke. «Siete molle come un
cencio!...».
«Che importa dove si muore?», disse Schmucke
uscendo dalla sua camera. «Questi uomini hanno facce da tigre...
Manderò a prendere le mie povere cose...», aggiunse.
«Dove va il signore?».
«Dove Dio vorrà!», rispose il legatario
universale con un gesto di sublime indifferenza.
«Fatemelo sapere», disse Villemot.
«Seguilo», disse Fraisier all'orecchio del primo
commesso.
La signora Cantinet fu nominata consegnataria, e
le fu assegnata un'indennità di cinquanta franchi, presi dal denaro
liquido trovato in casa.
«Va molto bene», disse Fraisier al signor Vitel
appena Schmucke fu uscito; «se volete dare le dimissioni a mio
favore, andate a parlare con la signora presidentessa de Marville, e
vi accorderete con lei».
«Avete trovato un uomo di burro!», disse il
giudice di pace indicando Schmucke, che stava guardando dal cortile,
per l'ultima volta, le finestre dell'appartamento.
«Sì, l'affare è concluso!», rispose Fraisier.
«Potete tranquillamente dare in moglie vostra figlia a Poulain, che
sarà primario dei Quinze-Vingts.
«Vedremo! Addio, signor Fraisier», disse il
giudice di pace con fare cameratesco.
«È uno che ci sa fare», disse il cancelliere;
«andrà lontano, quel briccone!».
Erano ormai le undici, quando il vecchio tedesco
prese meccanicamente la strada che era solito fare con Pons, e
intanto pensava proprio a lui; continuava a vederlo, se lo sentiva
accanto, e giunse davanti al teatro da cui stava uscendo l'amico
Topinard, che aveva finito di pulire le lampade delle quinte e
pensava alla tirannia del suo direttore.
«Ah! eccoti a proposito!», esclamò Schmucke
fermando il povero inserviente. «Topinard, tu hai un alloggio?...».
«Sì, signore».
«Una famiglia?...».
«Sì, signore».
«Vuoi prendermi a pensione? Oh! pagherò bene, ho
una rendita di novecento franchi... e non mi resta molto da
vivere... Non ti darò alcun fastidio... Mangio di tutto... La mia
sola passione è fumare la pipa... E siccome sei l'unico che abbia
pianto Pons con me, ti voglio bene».
«Signore, sarebbe un vero piacere; ma, sapete, il
signor Gaudissart mi ha rifilato una parrucca ben pettinata...».
«Una parrucca?».
«È un modo di dire: mi ha dato una lavata di
testa».
«Lavata di testa?».
«Mi ha rimproverato per essermi interessato a
voi... Bisognerà essere molto discreti, se verrete ad abitare in
casa mia! Ma dubito che ci vogliate rimanere, perché voi non sapete
cosa sia la casa di un povero diavolo come me...».
«Preferisco la povera casa di un uomo di cuore
che ha pianto Pons, alle Tuileries con uomini dalla faccia di tigre!
Ho appena visto delle tigri in casa di Pons... vogliono mangiare
tutto...».
«Venite, signore», disse l'inserviente, «e
vedrete... ma... insomma, c'è un soppalco... sentiamo la signora
Topinard».
Schmucke seguì come una pecora Topinard, che lo
condusse in una di quelle orribili località che potrebbero essere
definite i cancri di Parigi. Si chiama rione Bordin. È un passaggio
stretto, fiancheggiato da case costruite come si costruisce per
speculazione, che sbocca in rue de Bondy, in quel punto della via
messo in ombra dall'immenso edificio del teatro della
Porte-Saint-Martin, una delle piaghe di Parigi. Questo passaggio, il
cui piano stradale si trova a un livello più basso della
carreggiata, scende per un pendio verso la rue des
Mathurins-du-Temple. Il rione finisce con una strada interna che lo
chiude, raffigurando una T. Le due viuzze, così disposte,
racchiudono una trentina di case a sei e sette piani, nei cui
cortili e appartamenti hanno sede magazzini, industrie, fabbriche di
ogni genere. È, in miniatura, il faubourg Saint-Antoine. Vi si
costruiscono mobili, si cesellano rami, si cuciono costumi teatrali,
si lavora il vetro, si dipingono porcellane, insomma vi si
fabbricano tutti i capricci e tutte le varietà dell'articolo
parigino. Sudicio e produttivo come il commercio, questo passaggio,
sempre pieno di gente che va e viene, di carrette, di carri, ha un
aspetto ripugnante, e la popolazione che vi brulica è in armonia con
le cose e i luoghi. È il popolo delle fabbriche, popolo intelligente
nei lavori manuali, che ne assorbono l'intelligenza. Topinard viveva
in quel rione fiorente di attività, perché gli affitti erano bassi.
Abitava nel secondo fabbricato, entrando nel passaggio a sinistra.
Il suo appartamento, al sesto piano, dava su quella zona di giardini
che ancora esistono e che dipendono dai tre o quattro grandi palazzi
della rue de Bondy.
L'alloggio di Topinard consisteva in una cucina e
due camere. Nella prima stavano i bambini. Vi si vedevano due
lettini di legno bianco e una culla. La seconda era la camera dei
coniugi Topinard. Si mangiava in cucina. Sopra, a sei piedi di
altezza, c'era una specie di solaio rivestito di zinco, con un
telaio a tabacchiera come finestra. Vi si saliva attraverso una
scala di legno bianco che nel gergo del fabbricato veniva chiamata
la scala del mugnaio. Questo vano, dato per camera della donna di
servizio, permetteva di considerare l'alloggio di Topinard un
appartamento completo, e di affittarlo a quattrocento franchi.
Nell'ingresso, per nascondere la cucina, c'era un tamburo centinato,
illuminato da un finestrino ovale che dava sulla cucina, formato
dalla porta della prima camera e da quella della cucina unite
insieme: in tutto, tre porte. In questi tre vani, con pavimento di
mattoni, tappezzati con un'orrenda carta da parati da sei soldi il
rotolo, decorati con caminetti detti alla cappuccina, volgarmente
dipinti color legno, viveva quella famiglia di cinque persone, di
cui tre bambini. Ognuno può immaginare i graffi profondi lasciati
sui muri dai tre bambini, fino all'altezza che le loro braccia
potevano raggiungere.
LXXV • UN INTERNO POCO CONFORTEVOLE
I ricchi non potrebbero immaginare la semplicità
della batteria da cucina, che consisteva in un fornello, un paiolo,
una graticola, una casseruola, due o tre bricchi e una padella per
friggere. Le stoviglie, di maiolica bruna o bianca, potevano valere
dodici franchi. Il tavolo serviva sia come tavolo da cucina che come
tavola da pranzo. Il mobilio era composto di due sedie e due
sgabelli. Sotto il fornello con la cappa c'era la provvista del
carbone e della legna. E in un angolo c'era il mastello in cui si
lavava, spesso di notte, la biancheria di casa. La stanza dove
stavano i bambini, attraversata da corde per stendere i panni, era
variopinta di manifesti di teatro e di disegni ritagliati dai
giornali o dagli opuscoli pubblicitari dei libri illustrati.
Evidentemente era il maggiore dei figli dei Topinard, i cui libri di
scuola erano visibili in un angolo, a occuparsi della casa quando,
alle sei, il padre e la madre andavano a lavorare in teatro. In
molte famiglie della classe inferiore, quando un bambino raggiunge
l'età di sei o sette anni, fa da madre alle sorelle e ai fratelli.
Da questo rapido schizzo si capisce come i
Topinard fossero, secondo l'espressione divenuta proverbiale, poveri
ma onesti. Topinard aveva circa quarant'anni, e sua moglie, che era
stata corista, amante, si diceva, del direttore fallito cui era
succeduto Gaudissart, doveva averne trenta. Lolotte era stata una
bella donna, ma le disavventure della precedente amministrazione
avevano talmente influito su di lei da costringerla a contrarre con
Topinard un matrimonio da gente di teatro. Era sicura che, appena si
fosse potuto contare su un'entrata di centocinquanta franchi,
Topinard avrebbe regolarizzato i suoi impegni davanti alla legge, se
non altro per legittimare i bambini, che adorava. La mattina, nei
momenti liberi, la signora Topinard cuciva per il magazzino del
teatro. Questi due coraggiosi inservienti mettevano insieme, al
prezzo di lavori giganteschi, novecento franchi l'anno.
«Un piano ancora!», diceva, dopo il terzo,
Topinard a Schmucke, che non sapeva neppure se stesse salendo o
scendendo, tanto era sprofondato nel suo dolore.
Nel momento in cui l'inserviente, vestito di tela
bianca come tutte le persone di servizio, aprì la porta della
camera, si udì la voce della signora Topinard che gridava:
«Silenzio, bambini! ecco papà!».
E poiché evidentemente i bambini facevano del
padre quello che volevano, il grande continuò a guidare una carica
in ricordo del Cirque-Olympique, a cavallo di un manico di scopa, il
secondo a soffiare in uno zufolo di latta, e il terzo a seguire come
poteva il grosso dell'esercito. La madre stava cucendo un costume
teatrale.
«Zitti», gridò Topinard con un vocione, «o ve le
suono!». «Bisogna dirgli sempre così», aggiunse sottovoce a
Schmucke. «Ecco, piccola», disse l'inserviente alla donna, «ecco il
signor Schmucke, l'amico del povero signor Pons; non sa dove andare,
e vorrebbe venire qui da noi; ho avuto un bel dirgli che non ce la
spassiamo, che siamo al sesto piano, che possiamo offrirgli soltanto
un soppalco, ma lui insiste...».
Schmucke si era seduto su una sedia che la donna
gli aveva avvicinato, e i bambini, stupiti per l'arrivo di uno
sconosciuto, si erano raccolti in gruppo per dedicarsi a quell'esame
approfondito, muto e veloce che è tipico dei bambini, abituati, come
i cani, a fiutare più che a giudicare. Schmucke si mise a guardare
quel gruppo così grazioso di cui faceva parte una bambina di cinque
anni, quella che stava soffiando nello zufolo e aveva dei magnifici
capelli biondi.
«Sembra una piccola tedesca!», disse Schmucke
facendole segno di avvicinarsi.
«Il signore starà molto male lassù», disse la
donna; «se non fosse che devo avere i bambini vicino, gli darei
volentieri la nostra camera».
Aprì la camera e vi fece entrare Schmucke. Quella
camera era tutto il lusso dell'appartamento. Il letto di acagiù era
adorno di tendine di calicò azzurro, bordato di frange bianche.
Tendine dello stesso calicò azzurro adornavano la finestra. Il comò,
lo scrittoio, le sedie, anche se di acagiù, erano puliti. Sul
caminetto c'erano una pendola e dei candelieri, dono, evidentemente,
del direttore fallito, il cui ritratto, uno spaventoso ritratto
eseguito da Pierre Grassou, era appeso sopra il comò. Così i
bambini, cui era proibito di entrare in quel luogo riservato,
cercarono di gettarvi qualche sguardo curioso.
«Il signore starebbe bene qui», disse la donna.
«No, no», rispose Schmucke, «non mi resta molto
da vivere, mi basta un angolino per morire».
Chiusa la porta della camera, salirono sul
soppalco, e quando Schmucke vi giunse esclamò: «Ecco quello che fa
per me!... Prima di andare a stare da Pons, non avevo mai alloggiato
meglio di così».
«Allora non resta che comprare una branda, due
materassi, un traversino, un guanciale, due sedie e un tavolo. Non è
la morte di un uomo... potrà costare cinquanta scudi, con il catino,
la brocca e uno scendiletto...».
Si misero d'accordo. Mancavano soltanto i
cinquanta scudi. Schmucke, che si trovava a due passi dal teatro,
pensò naturalmente di andare a chiedere il proprio stipendio al
direttore, vista la miseria dei suoi nuovi amici... Andò subito in
teatro, e vi trovò Gaudissart. Il direttore accolse Schmucke con
quella cortesia un po' sostenuta con cui trattava gli artisti, e
rimase sorpreso della richiesta di un mese di stipendio avanzata da
Schmucke. Tuttavia, dopo una verifica, risultò che la richiesta era
legittima.
«Ma bravo!», gli disse il direttore, «i tedeschi
sanno sempre far bene i loro conti, anche tra le lacrime... Pensavo
che foste rimasto contento della gratifica di mille franchi!
Un'intero anno di stipendio, che equivaleva a una liquidazione!».
«Ma noi non abbiamo ricevuto nulla», disse il
buon tedesco. «E se io sono qui da voi, è perché mi trovo in mezzo
alla strada e senza un soldo... A chi avete consegnato la
gratifica?».
«Alla vostra portiera!...».
«La signora Cibot!», esclamò il musicista. «È
stata lei a uccidere Pons, e a derubarlo... Voleva bruciare il suo
testamento... È una mascalzona! un mostro!».
«Ma, mio caro, come mai siete senza un soldo, per
la strada, senza casa, nella vostra posizione di legatario
universale? Non è logico, come diciamo noi».
«Mi hanno messo alla porta... Sono straniero, non
so niente delle leggi...».
«Poveretto!», pensò Gaudissart intravedendo la
probabile conclusione di una lotta ineguale. «Sentite», gli disse,
«sapete cosa dovete fare?».
«Ho un uomo d'affari!».
«Bene, fate subito una transazione con gli eredi;
avrete da loro una somma e una rendita vitalizia, così vivrete
tranquillo...».
«Non chiedo altro!», rispose Schmucke.
«Ebbene, lasciate fare a me», disse Gaudissart,
al quale Fraisier, il giorno prima, aveva esposto il suo piano.
LXXVI • DOVE GAUDISSART SI DIMOSTRA GENEROSO
Gaudissart pensò di procurarsi un merito presso
la giovane viscontessa Popinot e sua madre, con la conclusione di
quello sporco affare, e di poter essere un giorno nominato
consigliere di Stato.
«Avete pieni poteri...».
«Bene, vediamo! Innanzitutto», disse il Napoleone
dei teatri di boulevard, «ecco cento scudi...».
Prese dal portamonete quindici luigi e li porse
al musicista.
«Sono per voi: sei mesi di stipendio anticipati;
se lascerete il teatro, me li restituirete. Facciamo i conti: quanto
spendete all'anno? quanto vi serve per stare tranquillo? Su, su!
garantitevi una vita da Sardanapalo!...».
«Mi bastano un vestito per l'inverno e uno per
l'estate...».
«Trecento franchi!», disse Gaudissart.
«Quattro paia di scarpe...».
«Sessanta franchi».
«Dei calzini...».
«Dodici paia! fanno trentasei franchi».
«Sei camicie».
«Sei camicie di calicò, ventiquattro franchi;
altrettante di tela, quarantotto; diciamo settantadue. Siamo a
quattrocentosessantotto, mettiamo cinquecento con le cravatte e i
fazzoletti, e cento franchi di lavandaia... seicento lire! Che altro
vi serve per vivere?... tre franchi al giorno?».
«No, è troppo!...».
«Vi servono anche dei cappelli... Fa un totale di
millecinquecento franchi, più cinquecento di affitto, duemila.
Volete che vi faccia ottenere duemila franchi di rendita
vitalizia... sicuri?...».
«E il mio tabacco?».
«Duemilaquattrocento franchi! Ah, papà Schmucke!
E questo lo chiamate il tabacco?... D'accordo, ci sarà anche il
tabacco. Dunque, una rendita vitalizia di duemilaquattrocento
franchi...».
«Non è tutto! voglio una somma in contanti...».
«Gli spiccioli!... Ah, questi tedeschi! e poi
sarebbero ingenui! vecchio Robert Macaire!», pensò Gaudissart. «E
quanto volete? Ma poi basta».
«È per pagare un debito sacro».
«Un debito!», pensò Gaudissart; «che furfante! è
peggio di un figlio viziato! ora s'inventa delle cambiali! qui
bisogna finirla! quel Fraisier non è mica un granché!». «Quale
debito? dite...».
«C'è un solo uomo che abbia pianto Pons insieme
con me... Ha una bella bambina con dei magnifici capelli, e poco fa
mi è sembrato di vedere la razza della mia povera Germania, che non
avrei mai dovuto lasciare... Parigi non va bene per i tedeschi, ci
si prende gioco di loro...», disse con un cenno della testa, come di
chi crede di veder chiaro nelle cose di questo basso mondo.
«È pazzo», pensò Gaudissart.
E, mosso dalla pietà per quell'innocente, il
direttore sentì spuntare una lacrima.
«Ah, voi mi capite, signor direttore! Ebbene,
l'uomo che ha quella bambina è Topinard, l'inserviente
dell'orchestra, che accende le lampade; Pons gli voleva bene e lo
aiutava; è l'unico che abbia accompagnato il mio solo amico al
funerale, in chiesa, al cimitero... Voglio tremila franchi per lui e
tremila per la bambina...».
«Pover'uomo!..», pensò Gaudissart.
Questo feroce arricchito rimase colpito da quella
nobiltà e da quella riconoscenza per una cosa da nulla agli occhi
del mondo, ma che agli occhi di quell'agnello divino pesava, come il
bicchier d'acqua di Bossuet, più delle vittorie dei conquistatori.
Gaudissart nascondeva sotto le sue vanità, sotto la sua brutale
ansia di arrivare e di elevarsi fino al livello del suo amico
Popinot, un buon cuore e un buon carattere. Perciò cancellò i
giudizi temerari sul conto di Schmucke e passò dalla sua parte.
«Avrete tutto questo! Ma io farò di più, mio caro
Schmucke. Topinard è un uomo onesto...».
«Sì, l'ho visto poco fa, nella sua povera casa,
dove vive contento con i suoi bambini...».
«Gli darò il posto di cassiere, perché Baudrand
se ne va...».
«Ah! che Dio vi benedica!», esclamò Schmucke.
«Bene, mio buono e bravo uomo, venite alle
quattro, stasera, dal signor Berthier, notaio; tutto sarà pronto, e
voi sarete tranquillo per il resto dei vostri giorni... Avrete i
vostri seimila franchi, e farete, con lo stesso stipendio, insieme a
Garangeot, quello che facevate con Pons».
«No!», disse Schmucke, «non vivrò a lungo... non
ho più forza... mi sento malato...».
«Povero agnellino!», pensò Gaudissart salutando
il tedesco che se ne andava. «Dopo tutto si vive di costolette. E,
come dice il sublime Béranger,
Povere pecore, vi toseranno sempre!».
E canticchiò quest'opinione politica per
scacciare la sua emozione.
«Fate venire la mia carrozza!», disse
all'usciere.
Poi scese e gridò al cocchiere:
«Rue de Hanovre!».
L'ambizioso era completamente riapparso! Ora
vedeva il consiglio di Stato.
LXXVII • MANIERA DI RECUPERARE UNA SUCCESSIONE
In quel momento Schmucke stava comprando dei
fiori, che portò quasi allegro, insieme con dei dolci, ai bambini di
Topinard.
«Porto i regali!...», disse con un sorriso.
Quel sorriso era il primo sulle sue labbra dopo
tre mesi, e chi l'avesse visto si sarebbe commosso.
«Li do a una condizione».
«Siete troppo buono, signore», disse la madre.
«La piccola mi darà un bacio e metterà i fiori
tra i suoi capelli, intrecciandoli come fanno le bambine tedesche!».
«Olga, figlia mia, fate quello che dice il
signore...», disse la donna assumendo un tono severo.
«Non rimproverate la mia piccola tedesca!...»,
esclamò Schmucke, che in quella bambina vedeva la sua cara Germania.
«Sta arrivando tutta la roba sulle spalle di tre
facchini!...», disse Topinard entrando.
«Ah!», fece il tedesco, «amico mio, ecco duecento
franchi per pagare tutto... Avete una brava compagna, e la
sposerete, vero? Vi darò mille scudi... La piccina avrà una dote di
mille scudi che depositerete a suo nome. E voi non sarete più un
inserviente... sarete il cassiere del teatro...».
«Io... il posto di Baudrand?».
«Sì».
«Chi ve lo ha detto?».
«Il signor Gaudissart!».
«Oh! c'è da impazzire di gioia!... Rosalie,
t'immagini che invidia in teatro?... Ma non è possibile...»,
continuò.
«Il nostro benefattore non può stare in una
soffitta...».
«Mah! per i pochi giorni che mi restano da
vivere!», disse Schmucke, «va benissimo!... Addio! vado al
cimitero... a vedere che ne hanno fatto di Pons... e a ordinare dei
fiori per la sua tomba!».
La signora Camusot de Marville era in preda al
più vivo allarme. Fraisier si stava consultando in casa sua con
Godeschal e Berthier. Il notaio Berthier e l'avvocato Godeschal
consideravano inoppugnabile il testamento fatto da due notai alla
presenza di due testimoni, a causa della precisione formale con cui
Léopold Hannequin l'aveva formulato. Secondo l'onesto Godeschal,
Schmucke, anche se il suo attuale consulente fosse riuscito a
ingannarlo, avrebbe finito per vederci chiaro, se non altro a causa
di uno di quegli avvocati che, per distinguersi, fanno ricorso ad
atti di generosità, di delicatezza. I due pubblici ufficiali
lasciarono dunque la presidentessa, consigliandole di non fidarsi di
Fraisier, su cui naturalmente avevano preso informazioni. In quel
momento, Fraisier, tornato dopo aver partecipato all'apposizione dei
sigilli, stava redigendo una citazione nello studio del presidente,
dove la signora de Marville lo aveva fatto entrare su invito dei due
pubblici ufficiali, che consideravano l'affare troppo sporco perché
un presidente vi si cacciasse, come loro dicevano e che avevano
voluto esprimere la loro opinione alla signora de Marville senza che
Fraisier potesse udirli.
«Ebbene, signora, dove sono quei signori?»,
chiese l'ex procuratore di Mantes.
«Andati via!... dicendomi di rinunciare
all'affare!», rispose la signora de Marville.
«Rinunciare!», disse Fraisier con un accento di
rabbia trattenuta. «Ascoltate, signora...».
E lesse il testo che segue:
«Su richiesta di, ecc... (tralascio lo
sproloquio)
«Considerato che è stato depositato nelle mani
del signor presidente del tribunale di prima istanza un testamento
ricevuto dai signori Léopold Hannequin e Alexandre Crottat, notai a
Parigi, accompagnati da due testimoni, i signori Brunner e Schwab,
stranieri domiciliati a Parigi, col quale testamento il signor Pons,
deceduto, ha disposto del suo patrimonio, in pregiudizio del
ricorrente, suo erede naturale e legale, a favore del signor
Schmucke, tedesco;
«Considerato che il ricorrente intende dimostrare
che il testamento è l'opera di un'odiosa captazione e il risultato
di manovre illegittime; che sarà provato da persone eminenti come
l'intenzione del testatore fosse di lasciare il suo patrimonio alla
signorina Cécile, figlia del suddetto signore de Marville; e che il
testamento di cui il ricorrente chiede l'annullamento è stato
carpito al testatore mentre si trovava in uno stato di totale
demenza;
«Considerato che il signor Schmucke, per ottenere
questo legato universale, ha tenuto prigioniero in casa il
testatore, ha impedito alla famiglia di avvicinarsi al suo letto di
morte e, ottenuto il risultato, si è abbandonato a pubblici atti di
ingratitudine che hanno scandalizzato gli inquilini e gli abitanti
del quartiere che, per caso, erano presenti per rendere l'estremo
saluto al portiere della casa in cui è morto il testatore;
«Considerato che fatti ancora più gravi, di cui
il ricorrente sta cercando in questo momento le prove, saranno
esposti ai signori giudici del tribunale;
«Io, usciere sottoscritto, ecc. ecc., a nome del
predetto, ho citato il signor Schmucke a comparire davanti ai
signori giudici componenti la prima sezione del tribunale, per farsi
dichiarare che il testamento ricevuto dai signori Hannequin e
Crottat, essendo il risultato di una captazione evidente, sarà
considerato nullo e di nessun effetto; e ho inoltre, a nome del
predetto, fatto opposizione contro la qualità e la capacità di
legatario universale che potrebbe assumere il signor Schmucke,
intendendo il ricorrente opporsi, come infatti si oppone, con la sua
citazione in data odierna, presentata al signor presidente,
all'entrata in possesso richiesta dal predetto signor Schmucke, al
quale ho lasciato copia del presente atto, del costo di...» ecc.
«Conosco il mio uomo, signora presidentessa;
quando avrà letto questo biglietto amoroso, chiederà una
transazione. Si consulterà con Tabareau. Tabareau gli dirà di
accettare le nostre proposte! Siete disposta a concedere i mille
franchi di rendita vitalizia?».
«Certo! Vorrei già poter pagare la prima rata».
«Sarà fatto entro tre giorni... La citazione lo
coglierà nel primo stordimento del suo dolore, perché è affranto per
la morte di Pons, quel povero diavolo. Ha preso molto sul serio la
sua perdita».
«Una citazione presentata si può ritirare?»,
disse la presidentessa.
«Certamente, signora, si può desistere in ogni
momento».
«E allora, signore», disse la signora Camusot,
«andate avanti!... Sì, l'affare che state combinando ne vale la
pena! Del resto ho già risolto la questione delle dimissioni di
Vitel, ma sarete voi a pagare i sessantamila franchi a Vitel,
prendendoli dalla successione di Pons... Come vedete, bisogna
riuscirci...».
«Avete le sue dimissioni?».
«Sì, signore; il signor Vitel si fida del signor
de Marville...».
«Ebbene, signora, vi ho già fatto risparmiare
sessantamila franchi che calcolavo dovessero essere dati a
quell'ignobile portiera, la signora Cibot. Ma tengo ancora ad avere
lo spaccio di tabacchi per la signora Sauvage, e la nomina del mio
amico Poulain al posto vacante di primario dei Quinze-Vingts».
«Siamo d'accordo, tutto è combinato».
«Ebbene, ci siamo detti tutto... Sono tutti dalla
vostra parte in questa faccenda, compreso Gaudissart, il direttore
del teatro, che sono andato a trovare ieri e che mi ha promesso di
rendere innocuo l'inserviente, che potrebbe sconvolgere i nostri
progetti».
«Oh! lo so. Il signor Gaudissart è molto legato
ai Popinot!».
Fraisier uscì. Sventuratamente non incontrò
Gaudissart, e la fatale citazione fu subito notificata.
Tutte le persone avide comprenderanno, e le
persone oneste esecreranno, la gioia della presidentessa alla quale,
venti minuti dopo che Fraisier se n'era andato, Gaudissart riferì il
colloquio con il povero Schmucke. La presidentessa approvò tutto, e
fu molto grata al direttore del teatro per averle tolto ogni
scrupolo con considerazioni che trovò piene di buon senso.
«Signora presidentessa», disse Gaudissart,
«mentre venivo qui pensavo che quel povero diavolo non saprebbe che
farsene di tanta ricchezza! È di una semplicità patriarcale! È
ingenuo, è tedesco, è da impagliare, è da mettere sotto vetro come
un Gesù bambino di cera! Voglio dire che a mio avviso è già
piuttosto imbarazzato coi suoi duemilacinquecento franchi di
rendita, e voi lo spingete alla dissolutezza...».
«È un gesto di grande nobiltà», disse la
presidentessa, «arricchire quello scapolo che rimpiange nostro
cugino. Ma, per quanto mi riguarda, deploro quel piccolo battibecco
che interruppe le relazioni tra il signor Pons e me; se fosse
tornato, tutto gli sarebbe stato perdonato. Sapeste quanto manca a
mio marito! Il signor de Marville si è disperato per non essere
stato informato della sua morte, lui che ha il culto dei doveri
familiari; avrebbe assistito alla funzione religiosa, al funerale,
alla sepoltura... io stessa sarei andata alla messa...».
«Allora, bella signora», disse Gaudissart, «fate
preparare l'atto; alle quattro porterò con me il tedesco...
Raccomandatemi, signora, alla benevolenza della vostra incantevole
figlia, la viscontessa Popinot; che dica al mio illustre amico, al
suo caro ed eccellente padre, a quel grande uomo di Stato, quanto io
sia devoto a tutti i suoi, e che continui a riservarmi il suo
prezioso favore. Ho dovuto la vita a suo zio, il giudice, e gli devo
la mia fortuna... Vorrei ricevere da voi e da vostra figlia
quell'alta considerazione che si ha per le persone potenti e
autorevoli. Voglio lasciare il teatro, e diventare un uomo serio».
«Ma voi lo siete, signore!», disse la
presidentessa.
«Adorabile!», proseguì Gaudissart baciando
l'arida mano della signora de Marville.
CONCLUSIONE
Alle quattro si trovavano riuniti nello studio
del signor Berthier, notaio, innanzitutto Fraisier, estensore della
transazione, poi Tabareau, fiduciario di Schmucke, e lo stesso
Schmucke che era stato portato da Gaudissart. Fraisier aveva pensato
di mettere bene in vista, in biglietti di banca, i seimila franchi
richiesti e i seicento franchi della prima rata del vitalizio, sulla
scrivania del notaio e sotto gli occhi del tedesco che, stupito di
vedere tanto denaro, non prestò la minima attenzione al documento
che gli veniva letto. Il pover'uomo, che Gaudissart era andato a
prendere al ritorno dal cimitero, dove si era intrattenuto con Pons
e gli aveva promesso di raggiungerlo, non era nel pieno possesso
delle sue facoltà, gravemente scosse da tanti colpi. Dunque non
ascoltò il preambolo dell'atto, nel quale compariva come assistito
di Tabareau, ufficiale giudiziario, suo fiduciario e consulente, e
dove si ricordavano le ragioni della causa intentata dal presidente
nell'interesse della figlia. Il tedesco ci faceva una gran brutta
figura, e firmando l'atto avallava le spaventose affermazioni di
Fraisier; ma fu talmente contento di vedere il denaro che avrebbe
dato alla famiglia Topinard, così felice di far diventare ricco,
come credeva nel suo piccolo, l'unico uomo che avesse voluto bene a
Pons, che non udì una sola parola di quell'atto di transazione. A
metà lettura del documento, entrò nella stanza un giovane di studio.
«Signore», disse al notaio, «c'è di là un uomo
che chiede di parlare con il signor Schmucke...».
Il notaio, a un gesto di Fraisier, alzò le spalle
in modo significativo.
«Non disturbateci mai quando firmiamo un atto!
Chiedete il nome di quel... è un uomo qualunque o un signore? È un
creditore?...».
Il giovane tornò e disse:
«Vuole assolutamente parlare con il signor
Schmucke».
«Come si chiama?».
«Topinard».
«Vado io. Firmate tranquillamente», disse
Gaudissart a Schmucke. «Concludete, vado a sentire cosa vuole».
Gaudissart aveva capito cosa voleva dire Fraisier
con il suo gesto, e ognuno di loro fiutava un pericolo.
«Che vieni a fare qui?», disse il direttore
all'inserviente. «Non vuoi diventare cassiere? Il primo merito di un
cassiere è la discrezione».
«Signore...».
«Pensa agli affari tuoi, non sarai mai nessuno se
t'immischi in quelli degli altri».
«Signore, io non mangerò del pane che mi
rimarrebbe in gola a ogni boccone!... Signor Schmucke!», gridava.
Schmucke, che aveva firmato e teneva in mano il
denaro, venne incontro a Topinard di cui aveva udito la voce.
«Questo è per la piccola tedesca e per voi...».
«Ah! caro signor Schmucke, avete arricchito dei
mostri, della gente che vuole infamarvi. Ho portato questa carta a
un brav'uomo, un procuratore che conosce quel Fraisier, e dice che
voi dovete punire tanta scelleratezza accettando il processo, e che
loro dovranno ritirarsi... Leggete».
E quell'amico imprudente gli consegnò la
citazione che era stata inviata a Schmucke, rione Bordin. Schmucke
la prese, la lesse, e vedendosi trattato in quel modo, non
comprendendo i termini procedurali, ricevette un colpo mortale. Quel
calcolo gli ostruì il cuore. Cadde tra le braccia di Topinard mentre
si trovavano entrambi sul portone del notaio. In quel momento
passava una vettura, e Topinard vi fece salire il povero tedesco;
una congestione sierosa al cervello gli provocava forti dolori. La
vista era offuscata; ma il musicista ebbe ancora la forza di porgere
il denaro a Topinard. Schmucke non fu ucciso da quel primo attacco,
ma non ritrovò mai più la ragione; faceva soltanto dei movimenti
inconsapevoli. Smise di mangiare. Morì in dieci giorni, senza
lamentarsi perché non parlò più. Fu assistito dalla signora
Topinard, e fu sepolto oscuramente accanto a Pons, grazie a
Topinard, l'unica persona che seguì il funerale di quel figlio della
Germania.
Fraisier, nominato giudice di pace, è oggi intimo
amico della famiglia del presidente, molto apprezzato dalla
presidentessa che non ha voluto che sposasse la figlia di Tabareau,
e che promette un partito infinitamente migliore all'uomo cui deve,
così dice, non solo l'acquisto dei prati di Marville e del cottage,
ma la stessa elezione del signor presidente de Marville a deputato,
nelle elezioni generali del 1846.
Tutti vorranno sicuramente sapere che ne è stato
dell'eroina di questa storia, disgraziatamente troppo veritiera nei
suoi dettagli, e che, sovrapposta alla precedente di cui è gemella,
dimostra come la grande forza sociale sia il carattere. Voi
indovinate, collezionisti, esperti e mercanti, che si tratta della
collezione di Pons! Basterà assistere a una conversazione che si è
svolta in casa del conte Popinot, che pochi giorni fa mostrava la
sua magnifica collezione ad alcuni stranieri.
«Signor conte», diceva uno straniero assai
distinto, «voi possedete dei tesori!».
«Oh, milord!», rispose con modestia il conte
Popinot, «in materia di quadri nessuno, non dico a Parigi, ma in
Europa, può vantarsi di competere con uno sconosciuto, un ebreo che
si chiama Élie Magus, un vecchio maniaco, il capo dei quadromani.
Costui ha raccolto più di cento quadri, di una tale qualità da
scoraggiare gli amatori che pensino di iniziare altre collezioni. La
Francia dovrebbe sacrificare da sette a otto milioni di franchi per
comprare la sua galleria, alla morte di quel riccastro... Quanto
alle curiosità, la mia collezione è abbastanza bella perché se ne
parli...».
«Ma come ha fatto un uomo impegnato come voi, la
cui ricchezza iniziale è stata guadagnata nell'onesto commercio...».
«... di generi coloniali», disse Popinot, «e ha
potuto continuare a occuparsi di droghe...».
«No, non dico questo», continuò lo straniero.
«Dove trovate il tempo per cercare gli oggetti? Le curiosità non vi
entrano certo in casa da sole...».
«Mio padre aveva già», disse la viscontessa
Popinot, «un primo nucleo della collezione; amava le arti, le belle
opere; ma la maggior parte di queste ricchezze proviene da me!».
«Da voi, signora?... Così giovane, avevate già
quel vizio?...», disse un principe russo.
I russi sono talmente inclini all'imitazione che
tutte le malattie della civiltà si ripercuotono su di loro. La
bricobracomania furoreggia a Pietroburgo e, a causa del coraggio
naturale di quel popolo, ne consegue che i russi hanno provocato un
tale aumento dei prezzi nell'articolo, come direbbe Rémonencq, che
le collezioni diverranno impossibili. E quel principe si trovava a
Parigi per una sola ragione: collezionare.
«Principe», disse la viscontessa, «ho avuto
questo tesoro in eredità da un cugino che mi voleva molto bene e che
aveva passato più di quarant'anni, dal 1805 in poi, a raccogliere in
ogni paese, soprattutto in Italia, questi capolavori...».
«Come si chiamava?», chiese il milord.
«Pons!», disse il presidente Camusot.
«Era un uomo incantevole», continuò la
presidentessa con la sua vocina flautata, «intelligentissimo,
originale, e di gran cuore. Il ventaglio che state ammirando,
milord, e che appartenne alla Pompadour, me lo donò un mattino con
un complimento che mi permetterete di non ripetere...».
E lanciò uno sguardo alla figlia.
«Ditecelo», chiese il principe russo, «signora
viscontessa».
«Il complimento vale il ventaglio!...», rispose
la viscontessa, che ripeteva sempre le stesse parole. «Disse a mia
madre che era ormai tempo che ciò che era stato nelle mani del vizio
passasse nelle mani della virtù».
Il milord guardò la signora Camusot de Marville
con un'aria dubbiosa assai lusinghiera per una donna così arida.
«Cenava da me tre o quattro volte la settimana»,
proseguì la presidentessa, «ci voleva così bene! Noi sapevamo
apprezzarlo, e gli artisti stanno volentieri con chi apprezza il
loro spirito. Del resto, mio marito era il suo unico parente. E
quando il signor de Marville ha ricevuto quest'eredità, che non si
aspettava affatto, il signor conte ha preferito acquistare tutto in
blocco piuttosto che lasciar vendere all'asta la collezione; anche
noi abbiamo preferito venderla in questo modo, perché è talmente
penoso veder disperdere delle belle cose che avevano tanto divertito
il nostro caro cugino! Il perito fu Élie Magus; è così, milord, che
ho potuto avere il cottage costruito da vostro zio, dove ci farete
l'onore di venire a trovarci».
Il cassiere del teatro, la cui concessione ceduta
da Gaudissart è passata da un anno in altre mani, è sempre il signor
Topinard; ma il signor Topinard è diventato tetro, misantropo, e
parla poco; passa per aver commesso un crimine, e in teatro i
maligni sostengono che il suo malumore deriverebbe dall'avere
sposato Lolotte. Il nome di Fraisier fa sussultare l'onesto
Topinard. Forse sembrerà strano che l'unica anima degna di Pons sia
stata trovata nei sotterranei di un teatro di boulevard.
La signora Rémonencq, colpita dalla predizione
della signora Fontaine, non vuole ritirarsi in campagna, e rimane
nel suo magnifico negozio sul boulevard de la Madeleine, di nuovo
vedova. Infatti l'alverniate, dopo essersi fatto attribuire per
contratto di matrimonio i beni al superstite, aveva messo a portata
di mano della moglie un bicchierino di vetriolo, contando su un
errore; ma poiché la moglie, con le migliori intenzioni, aveva messo
altrove il bicchierino, Rémonencq se lo bevve. Questa fine, degna di
quello scellerato, testimonia a favore della Provvidenza, che i
pittori dei costumi sociali sono accusati di dimenticare, forse a
causa dei finali dei drammi che ne abusano.
Scusate gli errori del copista.
Parigi, luglio 1846 - maggio 1847.