Honoré de Balzac
Eugénie Grandet
[1]
In certe città di provincia si trovano delle case
la cui vista ispira una malinconia pari a quella che suscitano i
chiostri più cupi, le lande più squallide o i ruderi più tristi.
Forse in queste case ci sono insieme il silenzio dei chiostri e
l'aridità delle lande, e gli scheletri dei ruderi; la vita e il
movimento vi sono così sopiti che un estraneo le crederebbe
disabitate, se all'improvviso non gli capitasse di incontrare lo
sguardo vacuo e freddo di una persona il cui volto quasi monastico
si sporge, al rumore di un passo sconosciuto, oltre il davanzale
della finestra. Questi tratti malinconici si ritrovano nell'aspetto
di una casa situata a Saumur, in cima alla strada in salita che
attraverso la parte alta della città, mena al castello. Questa
strada, oggi poco frequentata, calda d'estate, fredda d'inverno,
buia in certi punti, è notevole per la sonorità del selciato, sempre
pulito e asciutto, per la strettezza della carreggiata tortuosa, per
il silenzio delle case che appartengono alla città vecchia e sulle
quali incombono i bastioni. Vi sono abitazioni tre volte centenarie
ancora solide nonostante siano costruite in legno e le loro diverse
caratteristiche concorrono a quell'originalità che raccomanda questa
parte di Saumur all'attenzione degli antiquari e degli artisti. È
difficile passare davanti a queste case senza ammirare le enormi
travi alle cui estremità sono scolpite bizzarre figure e che nella
maggior parte dei casi incorniciano con un bassorilievo nero il
pianterreno. Qui, delle centine di legno trasversali, coperte di
ardesia, tracciano linee blu sulle fragili mura di una casa che
culmina in un tetto a falde piegato dagli anni e i cui travicelli
marciti si sono imbarcati per l'azione ora della pioggia ora del
sole. Là, si scorgono davanzali consunti, anneriti; le loro delicate
sculture sono appena visibili, ed essi non paiono abbastanza robusti
per il vaso di terracotta dal quale si levano i garofani e il rosaio
di una povera lavorante. Più in là, ci sono porte decorate da
borchie enormi sulle quali l'inventiva dei nostri avi ha tracciato
geroglifici personali il cui significato è perduto per sempre. Qui
un protestante vi ha proclamato la sua fede, lì un leghista vi ha
maledetto Enrico IV. Qualche borghese vi ha inciso le insegne della
sua nobiltà di toga, la gloria di un antico scabinato. C'è tutta
intera la storia della Francia. Accanto alla casa malferma a spigoli
rustici dove l'artigiano ha fatto della sua pialla una divinità, si
erge il palazzetto di un gentiluomo; sull'arco del portale di pietra
si scorgono ancora i contorni dello stemma, spezzato dalle varie
rivoluzioni che dopo il 1789 hanno sconvolto il paese. In questa
strada, i pianterreni adibiti al commercio non sono né botteghe né
magazzini; gli amanti del Medioevo vi ritroverebbero l'operosità dei
nostri padri in tutta la sua ingenua semplicità. Questi locali bassi
senza esposizione, senza mostra, senza vetrine, sono profondi, bui e
disadorni all'esterno come all'interno. La porta, grossolanamente
ferrata, si apre nel senso della larghezza con due battenti; quello
superiore si ripiega verso l'interno, mentre l'inferiore, in
continuo movimento, è provvisto di un campanello a molla. L'aria e
la luce penetrano in quella specie di antro umido o dall'alto della
porta, o attraverso l'apertura che si trova fra la volta, il
piancito e il muretto basso nel quale vanno a incastrarsi delle
solide imposte, che vengono tolte il mattino e rimesse la sera
assicurandole con sbarre di ferro bullonate. Quel muretto serve a
esibire le mercanzie del negoziante. Là, niente ciarlatanerie. A
seconda di ciò che vi si vende, il campionario esposto consta di due
o tre barilotti di sale e di merluzzo, di qualche rotolo di tela per
vele, di ottone appeso ai correnti del soffitto, di cerchi
appoggiati alle pareti e di qualche pezza di stoffa sugli scaffali.
Entrate, una ragazza linda, fresca e giovane, con uno scialletto
bianco, le braccia arrossate, interromperà il lavoro a maglia,
chiamerà il padre o la madre, che verranno e vi venderanno,
flemmatici, premurosi o arroganti, secondo il loro carattere, quello
che chiedete, siano venti soldi o ventimila franchi di merce.
Vedrete un commerciante di legname per doghe seduto sull'uscio, che
gira i pollici mentre chiacchiera con il vicino; in apparenza non ha
che dei brutti scaffali per bottiglie e due o tre fasci di listelli;
ma sul porto il suo magazzino stracolmo fornisce tutti i bottegai
dell'Angiò; egli sa, tavola più tavola meno, quante botti può fare
se l'annata è buona; un colpo di sole lo arricchisce, un rovescio di
pioggia lo manda in rovina; in una mattinata il prezzo dei barili
può passare da venti franchi a sei lire. In questo paese, come in
Turenna, le vicissitudini del clima condizionano le attività
commerciali. Vignaioli, proprietari, mercanti di legname,
locandieri, marinai, tutti sono alla mercé di un raggio di sole; la
sera si coricano con il timore di apprendere l'indomani mattina che
durante la notte ha gelato; temono la pioggia, il vento, la siccità
e vorrebbero che l'acqua, il caldo, le nuvole obbedissero ai loro
desideri. C'è una lotta continua fra il cielo e gli interessi
terreni. Il barometro di volta in volta incupisce, rasserena,
allieta le facce. Da un capo all'altro di questa strada, l'antica
Grand-Rue di Saumur, queste parole: «È un tempo d'oro!» vengono
soppesate di porta in porta. E ognuno risponde al vicino: «Piovono
luigi!» sapendo ciò che gli frutterà un raggio di sole, una pioggia
al momento giusto. Durante la bella stagione, il sabato verso
mezzogiorno, non riuscirete a ottenere da questi bravi commercianti
nemmeno un soldo di mercanzia. Ciascuno ha una vigna, un podere e va
a passare due giorni in campagna. Poiché là tutto è previsto, le
compere, le vendite, i profitti, i commercianti si trovano ad avere
dieci ore su dodici da impiegare in lieti intrattenimenti, in un
continuo osservare, commentare, spiare. Se una massaia compra una
pernice, i vicini chiederanno senza fallo al marito se è stata ben
cucinata. Se una ragazza mette il capo alla finestra, sarà notata da
tutti i crocchi di sfaccendati. Là, dunque, le coscienze sono alla
luce del giorno, così come quelle case impenetrabili, nere e
silenziose non hanno misteri. La vita si svolge quasi sempre
all'aria aperta: ogni famiglia si siede davanti alla porta, vi
pranza, vi cena, vi litiga. Non passa persona per la strada che non
venga studiata. Similmente, un tempo, quando un forestiero arrivava
in una città di provincia, gli tagliavano i panni addosso di porta
in porta. Di qui gli aneddoti ameni, di qui l'appellativo di burloni
dato agli abitanti di Angers, che eccellevano in queste facezie
cittadine. Gli antichi palazzatti della città vecchia sono situati
in capo a questa strada, una volta abitata dai gentiluomini del
paese. La casa, malinconica, dove sono accaduti gli eventi della
nostra storia, era precisamente una di queste, resti venerabili di
un secolo in cui le cose e gli uomini avevano quella semplicità che
i costumi francesi vanno perdendo di giorno in giorno. Dopo aver
seguito le curve di questa strada pittoresca, dove la più piccola
irregolarità suscita ricordi e il cui effetto generale è quello di
farvi piombare automaticamente in una sorta di fantasticheria,
scorgete una rientranza piuttosto buia, al centro della quale si
trova, un po' nascosta, la porta di casa Grandet. È impossibile
comprendere tutto il valore di questa espressione, se non si
fornisce la biografia di M. Grandet.
M. Grandet godeva a Saumur di una reputazione le
cui cause e i cui effetti non possono essere valutati appieno da chi
non abbia vissuto, poco o molto, in provincia. M. Grandet, che
ancora alcuni, ma il numero di questi vegliardi diminuiva
sensibilmente, chiamavano papà Grandet, nel 1789 era un agiato
bottegaio che sapeva leggere, scrivere e far di conto. Quando la
repubblica francese mise in vendita, nel distretto di Saumur, i beni
del clero, il bottegaio, che aveva allora quaranta anni, si era
appena sposato con la figlia di un ricco commerciante di tavolame.
Grandet, munito di tutto il suo denaro liquido e della dote, munito
di duemila luigi d'oro, andò al distretto dove, grazie all'esborso
di duecento doppi luigi, offerti dal suocero allo scorbutico
repubblicano che sovrintendeva alla vendita dei beni demaniali, per
un pezzo di pane ebbe legalmente, se non legittimamente, i più bei
vigneti del circondario, una vecchia abbazia e alcune cascine.
Poiché gli abitanti di Saumur non erano certo dei rivoluzionari,
papà Grandet si fece la fama di uomo audace, di repubblicano, di
patriota, di persona che teneva in conto le nuove idee, mentre i
bottai di solito tenevano in conto le vigne. Fu nominato membro
dell'amministrazione del distretto di Saumur, e il suo spirito
conciliante fece sentire la sua influenza sia sul piano politico sia
su quello commerciale. Sul piano politico, protesse gli
aristocratici e impedì, usando tutto il suo potere, la vendita dei
beni degli emigrati; sul piano commerciale, fornì alle armate
repubblicane un migliaio o due di fusti di vino bianco, facendosi
dare in cambio dei meravigliosi prati compresi fra le terre di una
comunità religiosa femminile che erano state riservate come ultimo
lotto. Durante il Consolato, il bravo Grandet diventò sindaco,
amministrò bene, vendemmiò meglio; sotto l'impero, fu M. Grandet.
Napoleone non amava i repubblicani: sostituì M. Grandet, del quale
si diceva che avesse portato il berretto frigio, con un
latifondista, un uomo con la particella nobiliare, un futuro barone
dell'impero. M. Grandet lasciò la carica municipale senza alcun
rimpianto. Nell'interesse della città aveva fatto costruire ottime
strade che conducevano alle sue proprietà. Sulla sua casa e sulle
sue terre, grazie a vantaggiose iscrizioni catastali, gravavano
imposte molto contenute. Dopo la classificazione dei suoi diversi
poderi, i suoi vigneti, grazie alle cure costanti, erano diventati
classici della zona, espressione tecnica usata per indicare le vigne
che producevano la migliore qualità di vino. Avrebbe potuto chiedere
la croce della Legion d'onore. La qual cosa accadde nel 1806. M.
Grandet aveva allora cinquantasette anni e sua moglie circa
trentasei. La figlia, unico frutto dei loro legittimi amori, aveva
dieci anni. M. Grandet, che la Provvidenza volle senza dubbio
consolare del fatto di essere caduto in disgrazia come
amministratore, durante quell'anno raccolse, a breve distanza l'una
dall'altra, l'eredità di Mme de la Gaudinière, nata de la
Bertellière, madre di Mme Grandet; poi quella del vecchio M. de la
Bertellière, padre della defunta; infine quella di Mme Gentillet,
nonna materna: tre eredità la cui consistenza rimase sconosciuta a
tutti. L'avarizia dei tre vegliardi era tale che da anni essi
tesaurizzavano il loro denaro per poterlo contemplare in segreto. Il
vecchio M. de la Bertellière definiva prodigalità un investimento,
trovando più interesse nella vista dell'oro che negli utili
dell'usura. La città di Saumur valutò dunque l'ammontare delle
economie in base alle rendite dei beni al sole. M. Grandet ottenne
allora quel nuovo titolo di nobiltà che la nostra mania per
l'uguaglianza non riuscirà mai a cancellare, diventò il più tassato
del distretto. Possedeva cento arpenti a vigneto, che, nelle annate
buone gli davano sette o ottocento barili di vino. Possedeva tredici
cascine, una vecchia abbazia, dove, da quell'uomo economo che era,
aveva fatto murare, preservandole in tal modo, finestre, ogive e
vetrate: e poi centoventi arpenti di terra dove crescevano e si
irrobustivano tremila pioppi piantati nel 1793. Infine la casa nella
quale abitava era sua. Questo per ciò che riguardava i beni
visibili. Quanto ai suoi capitali, due sole persone erano in grado
di valutarne, sia pure in modo approssimativo, la consistenza: una
era M. Cruchot, notaio, che si occupava dei prestiti a interesse di
M. Grandet; l'altra era M. des Grassins, il più ricco banchiere di
Saumur, ai cui utili il vignaiolo partecipava a sua discrezione e
segretamente. Sebbene il vecchio Cruchot e M. des Grassins
possedessero quella totale discrezione che suscitano, in provincia,
la fiducia e il denaro, entrambi manifestavano in pubblico un tale
rispetto per M. Grandet che agli osservatori era possibile valutare
la consistenza dei capitali dell'ex sindaco in base alla ossequiosa
considerazione di cui egli era oggetto. A Saumur tutti erano
convinti che M. Grandet possedesse un tesoro, un nascondiglio pieno
di luigi, e che nottetempo si abbandonasse alle ineffabili gioie che
procura la vista di una grande massa d'oro. Gli avari ne avevano
quasi la certezza vedendo gli occhi del brav'uomo ai quali il giallo
metallo sembrava aver trasmesso il suo colore. Gli occhi di un uomo
abituato a ricavare dai suoi capitali un interesse enorme prendono
necessariamente, come negli individui sensuali, nei giocatori o nei
cortigiani, certe abitudini indefinibili, dei battiti furtivi,
avidi, misteriosi che non sfuggono a quelli come lui. Questo
linguaggio segreto forma in qualche modo la massoneria delle
passioni. M. Grandet ispirava dunque la stima rispettosa alla quale
ha diritto un uomo che non deve nulla a nessuno, che, esperto
bottegaio e vignaiolo, indovina con la precisione di un astronomo
quando per la sua vendemmia bisognava fabbricare mille barili o
appena cinquecento; che non si lasciava sfuggire una sola
speculazione, aveva sempre delle botti da vendere quando la botte
valeva più del raccolto, che poteva conservare nelle sue cantine il
prodotto della vendemmia e aspettare di vendere il barile a duecento
franchi mentre i piccoli proprietari dovevano cederlo a cinque
luigi. La sua famosa vendemmia del 1811, oculatamente conservata,
venduta a poco a poco, gli aveva fruttato più di
duecentoquarantamila lire. Dal punto di vista finanziario, M.
Grandet aveva della tigre e del boa: sapeva accovacciarsi,
rannicchiarsi, studiare a lungo la preda e alla fine balzarle
addosso, poi spalancava le fauci della borsa, ingoiava una massa di
scudi, e si acciambellava tranquillo, come il serpente che
digerisce, impassibile, freddo, metodico. Nessuno lo vedeva passare
senza provare un senso di ammirazione nel quale entravano il
rispetto e il terrore. Chi a Saumur non aveva provato i graffi
cortesi dei suoi artigli di acciaio? A quello, il notaio Cruchot
aveva procurato il denaro occorrente per l'acquisto di un fondo, ma
all'undici per cento; a questo, M. des Grassins aveva scontato delle
tratte, ma computandogli un interesse spaventoso. Erano pochi i
giorni in cui non venisse fatto il nome di M. Grandet, vuoi al
mercato vuoi durante le conversazioni serali in città. Per qualcuno,
la fortuna del vecchio vignaiolo era motivo di orgoglio
campanilistico. Così più di un negoziante, più di un locandiere
diceva ai forestieri, con una certa soddisfazione: «Signore, noi
abbiamo qui due o tre famiglie milionarie; ma quanto a M. Grandet,
nemmeno lui conosce le sue ricchezze!». Nel 1816, i più abili
calcolatori di Saumur stimavano i beni immobili del brav'uomo a
quattro milioni; ma poiché dal 1793 al 1817 le sue rendite fondiarie
potevano essere valutate, in media, sui centomila franchi l'anno,
era presumibile che in denaro liquido possedesse una somma quasi
uguale al valore degli immobili. Perciò, quando, dopo una partita di
boston o dopo aver parlato di vigneti, saltava fuori il nome di M.
Grandet, quelli che se ne intendevano dicevano: «Papà Grandet? ...
papà Grandet deve avere qualcosa come cinque o sei milioni.» «Lei è
più bravo di me, io non sono mai riuscito a sapere l'ammontare
preciso», rispondevano M. Cruchot o M. des Grassins, quando capitava
loro di sentire questi discorsi. C'erano dei parigini che parlavano
dei Rothschild o di M. Laffitte e quelli di Saumur chiedevano se
fossero ricchi quanto M. Grandet. Se il parigino, sorridendo, lo
affermava con una certa aria di commiserazione, quelli si guardavano
fra loro e scuotevano la testa increduli. Una fortuna di tale entità
copriva con un mantello d'oro tutte le azioni di quell'uomo. Se
dapprima alcuni episodi della sua vita avevano dato esca al ridicolo
e alla canzonatura, canzonatura e ridicolo avevano finito col
logorarsi. In ogni suo comportamento, fin nel più trascurabile, M.
Grandet aveva dalla sua l'autorevolezza della cosa giudicata. La sua
parola, il suo modo di vestire, i suoi atteggiamenti, l'ammiccare
degli occhi facevano testo in un paese dove ognuno, dopo averlo
studiato come un naturalista studia gli effetti dell'istinto negli
animali, aveva dovuto riconoscere la profonda e laconica saggezza di
ogni suo pur minimo gesto. L'inverno sarà duro, si diceva, papà
Grandet ha messo i guanti foderati: bisognerà vendemmiare. Papà
Grandet sta comperando parecchio legno per doghe, avremo vino
quest'anno. M. Grandet non comprava mai né carne né pane. I suoi
fittavoli ogni settimana, come quota in natura, gli portavano
provviste sufficienti di capponi, polli, uova, burro e grano. Egli
possedeva un mulino il cui locatario, oltre a corrispondergli il
canone d'affitto, doveva ritirare una certa quantità di grano e
riportargli la crusca e la farina. Ogni sabato Nanon, un donnone che
era la sua unica domestica, sebbene non fosse più giovane, faceva il
pane per la casa. M. Grandet si era accordato con gli ortolani, suoi
affittuari, affinché gli fornissero le verdure. Quanto alla frutta
ne raccoglieva tanta che una buona parte la faceva vendere al
mercato. La legna da ardere era tagliata dalle sue siepi o presa dai
vecchi alberi mezzi marci che egli faceva togliere dai bordi dei
campi, e i fittavoli gliela trasportavano in città bella e segata,
gliela sistemavano per cortesia nella legnaia e ricevevano i suoi
ringraziamenti. Le sue uniche spese note erano quelle per il pane
benedetto, per gli abiti della moglie e della figlia e per l'affitto
delle loro sedie in chiesa; per la luce, per il salario di Nanon,
per la stagnatura delle casseruole; per il pagamento delle tasse,
per le riparazioni dei fabbricati e per la conduzione dei fondi.
Aveva acquistato da poco seicento arpenti di bosco che faceva
sorvegliare dalla guardia di un vicino, al quale prometteva un
indennizzo. Solo dopo questo acquisto aveva preso a mangiare
selvaggina. Le maniere di quest'uomo erano molto semplici. Parlava
poco. In genere, esprimeva le sue idee mediante brevi frasi
sentenziose pronunciate con voce dolce. Dopo la Rivoluzione, epoca
durante la quale si era fatto notare, se doveva parlare a lungo o
sostenere una discussione, il brav'uomo cominciava a balbettare in
modo penoso. Quel suo balbettare, l'incoerenza del discorso, il
flusso di parole in cui annegava il suo pensiero, l'apparente
mancanza di logica, attribuiti a scarsa istruzione, erano simulati,
come verrà sufficientemente chiarito da alcuni fatti di questa
storia. Del resto, quattro frasi, esatte come formule algebriche,
gli servivano di norma ad affrontare, a risolvere tutte le
difficoltà della vita e degli affari: «Non so, non posso, non
voglio, si vedrà.» Non diceva mai sì o no, e non scriveva. Quando
gli parlavano, ascoltava impassibile, appoggiando il mento sulla
mano destra e il gomito destro sul dorso della mano sinistra, e su
ogni faccenda si formava delle opinioni sulle quali non tornava più.
Rifletteva a lungo sul più piccolo affare. Quando, dopo una accorta
conversazione, il suo interlocutore finiva per rivelargli le sue
mire segrete credendo di averlo in pugno, egli rispondeva: «Non
posso concludere senza aver consultato mia moglie.» La moglie, che
egli aveva ridotto a una completa soggezione, in affari era il suo
paravento più comodo. Non andava mai a trovare nessuno, non voleva
ricevere né avere gente a cena, non faceva mai rumore e sembrava
economizzare su tutto, anche sui movimenti. Quando era in casa
d'altri non toccava nulla per un rispetto innato della proprietà.
Eppure, malgrado la dolcezza della voce, malgrado i modi prudenti,
il linguaggio e le abitudini da bottaio venivano fuori, soprattutto
quando era in casa, dove si controllava meno che altrove.
Fisicamente, Grandet era alto uno e sessantacinque, tozzo, quadrato,
con dei polpacci di trentasei centimetri di circonferenza, rotule
nodose e spalle larghe; la faccia era tonda, abbronzata, butterata;
il mento era diritto, le labbra tutt'altro che marcate, i denti
bianchi; gli occhi avevano quell'espressione immobile e di fuoco che
il popolino attribuisce al basilisco; la fronte, solcata da rughe
trasversali, non mancava di protuberanze significative; i capelli,
giallastri e brizzolati, erano, a detta di qualche giovane che
ignorava quanto fosse grave fare lo spiritoso su M. Grandet, bianchi
e oro. Sul naso, grosso in punta, c'era una verruca gonfia di
venuzze che il volgo reputava, non senza ragione, piena di malizia.
Quel volto rispecchiava una scaltrezza pericolosa, una probità senza
trasporto e l'egoismo di un uomo che riponeva ogni suo sentimento
nel piacere dell'avarizia e nell'unico essere che per lui contasse
davvero qualcosa, la figlia Eugénie, sua unica erede. Del resto,
atteggiamento, modo di fare e di muoversi, tutto in lui dimostrava
quella fiducia in se stesso che viene dall'abitudine al successo in
ogni impresa. Perciò, anche se appariva bonario e conciliante, M.
Grandet aveva un carattere di ferro. Vestiva sempre nello stesso
modo e chi lo vedesse oggi lo vedrebbe come era già nel 1791. Le
scarpe robuste erano allacciate con stringhe di cuoio; in qualsiasi
stagione portava calze di lana tessuta, pantaloni corti di pesante
stoffa marrone con fibbie d'argento, un gilè di velluto a righe
color giallo e pulce, abbottonato fino al collo, un'ampia giubba
marrone a falde larghe, una cravatta nera e un cappello da
quacchero. I guanti, solidi come quelli dei gendarmi, gli duravano
venti mesi, e, per non sporcarli, egli soleva posarli, con un gesto
abituale, sulla tesa del cappello. Altro a Saumur non si sapeva su
questo personaggio.
Soltanto sei cittadini avevano diritto di entrare
in casa sua. Fra i primi tre il più considerevole era il nipote di
M. Cruchot. Dopo la nomina a presidente del tribunale di prima
istanza di Saumur, questo giovanotto aveva aggiunto al nome Cruchot
quello di Bonfons, e faceva di tutto perché Bonfons prevalesse su
Cruchot. Ormai si firmava C. de Bonfons. Se una parte in causa fosse
stata tanto sconsiderata da chiamarlo «M. Cruchot» avrebbe avuto
modo di lì a poco, in udienza, di accorgersi della propria
stupidaggine. Il magistrato aveva un occhio di riguardo per quelli
che lo chiamavano «signor presidente» , ma era tutto sorrisi per gli
adulatori che gli davano del «Monsieur de Bonfons». Il signor
presidente aveva trentatré anni, possedeva la tenuta di Bonfons
(Boni Fontis), che dava una rendita di settemila lire; contava sulla
successione dello zio notaio e su quella di un altro zio, padre
Cruchot, dignitario del capitolo di Saint-Martin di Tours, entrambi
reputati uomini piuttosto ricchi. Questi tre Cruchot, appoggiati da
un buon numero di cugini, legati a una ventina di famiglie della
città, formavano un partito, come un tempo i Medici a Firenze; e
come i Medici, anche i Cruchot avevano i loro Pazzi. Mme des
Grassins, madre di un figlio di ventitré anni, veniva spesso a
giocare a carte con Mme Grandet, nella speranza di far sposare il
suo caro Adolphe con Mlle Eugénie. M. des Grassins appoggiava con
impegno le manovre della moglie facendo continui, discreti favori al
vecchio avaro, e si trovava sempre al momento opportuno sul campo di
battaglia. I tre des Grassins avevano a loro volta partigiani,
cugini, alleati fedeli. Dalla parte dei Cruchot, il sacerdote, il
Talleyrand della famiglia, ben sostenuto dal fratello notaio,
disputava con tenacia il terreno alla banchiera, e cercava di
assicurare la ricca eredità al nipote presidente. Questa guerra
segreta fra i Cruchot e i des Grassins, che aveva come posta la mano
di Eugénie Grandet, appassionava tutti i circoli di Saumur. Mlle
Grandet avrebbe sposato il signor presidente o M. Adolphe des
Grassins? A questa domanda alcuni rispondevano che M. Grandet non
avrebbe dato la figlia né all'uno né all'altro. L'ex bottaio, roso
dall'ambizione, voleva, dicevano, come genero un pari di Francia al
quale trecentomila lire di rendita avrebbero fatto chiudere un
occhio su tutte le botti passate, presenti e future dei Grandet.
Altri replicavano che M. e Mme des Grassins erano nobili, molto
ricchi, che Adolphe era un cavaliere a modo, e che a meno di avere
nella manica un nipote del papa, un simile matrimonio doveva più che
soddisfare gente di bassa estrazione, un uomo che tutta Saumur aveva
visto con l'ascia da bottaio in mano e che, del resto, aveva portato
il berretto frigio. I più avveduti facevano notare che M. Cruchot de
Bonfons era ammesso in casa a qualsiasi ora, mentre il rivale veniva
ricevuto solo le domeniche. Taluno sosteneva che Mme des Grassins,
più legata dei Cruceot alla donne di casa Grandet, poteva inculcare
in queste delle idee che, prima o poi, le avrebbero dato la
vittoria. Talaltro rispondeva che padre Cruchot era l'uomo più
insistente del mondo e che fra una donna e un prete la partita era
ad armi pari. «Sono sottana a sottana», diceva un bello spirito di
Saumur. Più accorti, gli anziani del paese sostenevano che i Grandet
non erano così sciocchi da lasciar uscire dalla famiglia i loro
beni, e che Mlle Eugénie Grandet, di Saumur, sarebbe stata maritata
con il figlio di M. Grandet, di Parigi, ricco grossista di vini. A
questo i cruchottiani e i grassinisti rispondevano: «Innanzi tutto,
i due fratelli in trenta anni non si sono visti due volte. Poi M.
Grandet, di Parigi, ha grandi ambizioni per il figlio. È sindaco di
un distretto, deputato, colonnello della guardia nazionale, giudice
del tribunale di commercio; rinnega i Grandet di Saumur, e aspira
grazie a Napoleone a imparentarsi con una famiglia ducale.» Che cosa
non si diceva di un'ereditiera di cui la gente parlava per venti
leghe all'intorno e addirittura nelle diligenze, compresa quella fra
Angers e Blois! All'inizio del 1818, i cruchottiani segnarono un
grosso punto a loro vantaggio nei confronti dei grassinisti. La
tenuta di Froidfond, notevole per il parco, il bel castello, le
fattorie, i fiumi, gli stagni, le foreste, una proprietà che valeva
tre milioni, fu messa in vendita dal giovane marchese di Froidfond,
costretto a realizzare i suoi beni. Il notaio Cruchot, il presidente
Cruchot, padre Cruchot, con l'aiuto dei loro aderenti, riuscirono a
impedirne la vendita a piccoli lotti. Il notaio concluse un affare
d'oro con il giovanotto persuadendolo che sarebbe stata necessaria
una sequela di procedimenti contro gli aggiudicatari prima di poter
incassare il prezzo dei singoli lotti; era meglio allora vendere a
M. Grandet, che non solo era solvibile, ma poteva addirittura pagare
la terra in denaro contante. Il bel marchesato di Froidfond fu così
convogliato verso l'esofago di M. Grandet, che, con grande stupore
di Saumur, lo pagò, ottenendo uno sconto, subito dopo espletate le
formalità. Di questo affare si parlò fino a Nantes e a Orléans.
Sfruttando l'occasione di un carrettiere che doveva tornarci, M.
Grandet andò a visitare il suo castello. Dopo aver gettato sulla
proprietà un colpo d'occhio da padrone, tornò a Saumur, sicuro di
aver investito il suo denaro al cinque per cento, e infatuato dalla
grandiosa idea di arrotondare il marchesato di Froidfond riunendo a
esso tutti i suoi beni. Poi, per rimpolpare il peculio quasi
esaurito, decise di tagliare i suoi boschi, le sue foreste e di
sfruttare i pioppeti delle sue terre.
È ora facile intendere che cosa significhi: casa
Grandet, quell'edificio slavato, freddo, silenzioso, situato in cima
alla città e circondato dalle rovine dei bastioni. I due pilastri e
la volta che formavano il portale d'ingresso erano stati costruiti,
come tutta la casa, in tufo, una pietra bianca tipica della valle
della Loira e così tenera che la sua durata media è di appena
duecento anni. I buchi, ineguali e numerosi, che le intemperie vi
avevano aperto in modo bizzarro, davano all'arco e ai pilastri
l'apparenza delle pietre scanalate dell'architettura francese e una
certa rassomiglianza con il vestibolo di un carcere. Sopra l'arco
spiccava un lungo bassorilievo in pietra dura che rappresentava le
quattro stagioni, con le figure ormai corrose e tutte annerite.
Questo bassorilievo era sormontato da un plinto sporgente sul quale
vegetavano diverse piante di quelle che crescono a caso, parietarie
gialle, vilucchi, convolvoli, piantaggini e un piccolo ciliegio già
abbastanza alto. La porta di quercia massiccia, bruna, risecchita,
piena di fenditure, in apparenza fragile, era ben rinforzata da un
sistema di borchie che formavano dei disegni simmetrici. Una griglia
quadrata, piccola, ma a barre strette e rossa di ruggine, occupava
il centro del portello e fungeva, per così dire, da motivo
ornamentale a un battaglio appeso a essa mediante un anello e che
andava a cadere sulla testa grinzosa di una grossa borchia. Questo
battaglio, di forma oblunga e simile a quelli che i nostri antenati
chiamavano picchiotti, sembrava un grosso punto esclamativo;
esaminandolo con attenzione un antiquario vi avrebbe scoperto le
tracce della sembianza sostanzialmente grottesca che un tempo vi era
rappresentata e che il lungo uso aveva cancellato. Attraverso la
piccola griglia, destinata, al tempo delle guerre civili, a
riconoscere gli amici, chi sbirciava poteva scorgere in fondo a un
androne a volta oscuro e verdastro, dei gradini smozzicati che
salivano verso un giardino chiuso in modo pittoresco da mura spesse
e umide, coperte di scoli e di arbusti striminziti. Queste mura
erano quelle dei bastioni sui quali si trovavano i giardini di
alcune case vicine. Al pianterreno dell'edificio, il locale più
ragguardevole era una sala la cui entrata si trovava sotto la volta
della porta cocchiera. Poche persone conoscono l'importante funzione
di una sala nelle cittadine dell'Angiò, della Turenna e del Berry.
La sala è insieme anticamera, salotto, studio, boudoir, stanza da
pranzo; è il palcoscenico della vita domestica, il locale comune;
qui il parrucchiere del quartiere veniva due volte l'anno a tagliare
i capelli di M. Grandet; qui entravano i fittavoli, il parroco, il
sottoprefetto, il garzone del mugnaio. Questo ambiente, le cui due
finestre davano sulla strada, aveva il piancito di legno; le pareti
erano tutte ricoperte da pannelli grigi con vecchie modanature; sul
soffitto c'erano travi a vista, pure dipinte di grigio, e gli spazi
fra trave e trave erano intonacati con calce ingiallita dal tempo.
Un vecchio orologio da muro di rame, incrostato da arabeschi in
tartaruga, ornava la cappa del camino di pietra bianca, mal
tagliata, sulla quale c'era uno specchio verdastro, i cui bordi,
molati per farne risaltare lo spessore, riflettevano una lama di
luce sulla specchiera gotica di acciaio damaschinato. Le due
girandole di rame dorato che abbellivano ciascun angolo del camino
erano a doppio uso: togliendo le rose che servivano da padelline e
il cui ramo principale andava a incastrarsi nel piedestallo di marmo
bluastro decorato di rame antico, il piedestallo stesso diventava un
candeliere per tutti i giorni. Le sedie, di foggia antica, erano
ricoperte da una tappezzeria che rappresentava le favole di La
Fontaine; ma bisognava saperlo per riconoscerne i soggetti, i colori
stinti e le figure tutte rammendi si distinguevano molto male. Ai
quattro angoli della sala c'erano delle cantoniere, specie di buffet
che terminavano con dei ripiani bisunti. Addossato alla parete che
separava le due finestre, un vecchio tavolino da gioco intarsiato il
cui ripiano formava una scacchiera. Sopra il tavolino c'era un
barometro ovale con una cornice nera, abbellita da nastri di legno
dorato, sui quali le mosche avevano folleggiato con tale smodatezza
da renderne problematica la doratura. Sulla parete opposta al
camino, due ritratti a pastello si supponeva raffigurassero il nonno
di Mme Grandet, il vecchio M. de la Bertellière, in divisa di
tenente delle guardie francesi, e la defunta Mme Gentillet, in abito
da pastora. Le due finestre erano incorniciate da tende di grò di
Tours rosso, tenute aperte da cordoni di seta a ghiande. Questo
arredamento lussuoso, così poco intonato alle abitudini di M.
Grandet, era stato incluso nell'acquisto della casa al pari della
specchiera, dell'orologio, delle sedie ricoperte e delle cantoniere
in legno di rosa. Accanto alla finestra più vicina alla porta c'era
una sedia di paglia con le gambe montate su zoccoli così da portare
Mme Grandet a un'altezza che le permettesse di vedere i passanti. Il
vano era occupato da un tavolino da lavoro in legno di ciliegio
selvatico, e accanto c'era la poltroncina di Eugénie Grandet. Erano
quindici anni che, dal mese di aprile fino al mese di novembre,
madre e figlia passavano tranquillamente, intente al lavoro, le
giornate in quel luogo. Il primo di novembre potevano trasferirsi
nel loro quartiere d'inverno accanto al camino. Quel giorno, e solo
quel giorno, Grandet dava licenza di accendere nella sala il fuoco,
che faceva spegnere il 31 marzo, senza curarsi degli ultimi freddi
di primavera né dei primi dell'autunno. Uno scaldapiedi, alimentato
con la brace della cucina che la grande Nanon si ingegnava di tenere
da parte, aiutava Mme e Mlle Grandet a sopportare le mattinate e le
serate più rigide dei mesi d'aprile e di ottobre. La madre e la
figlia tenevano in ordine tutta la biancheria di casa e si
applicavano a questa fatica da vere e proprie lavoranti con tale
scrupolo che, se Eugénie voleva ricamare un collarino per la madre,
doveva per forza rubare le ore al sonno e la luce al padre. Da
tempo, l'avaro distribuiva personalmente la candela alla figlia e
alla grande Nanon, così come ogni mattino distribuiva il pane e le
derrate necessarie per i pasti quotidiani.
La grande Nanon era forse la sola creatura umana
capace di accettare il dispotismo del padrone. Tutta la città la
invidiava a M. e a Mme Grandet. La grande Nanon, così chiamata
perché era alta un metro e ottantaquattro, apparteneva a Grandet da
trentacinque anni. Sebbene avesse un mensile di sole sessanta lire,
passava per una delle serve più ricche di Saumur. Quelle sessanta
lire tesaurizzate durante trentacinque anni, le avevano permesso
alla fine di costituirsi con quattromila lire un vitalizio presso il
notaio Cruchot. Il risultato delle lunghe e tenaci economie della
grande Nanon parve enorme. Ogni domestica, sapendo che la povera
sessantenne si era assicurata il pane per la vecchiaia, provava
gelosia, ma non pensava alla dura servitù con la quale tutto ciò era
stato ottenuto. A venticinque anni, la povera figliola non era
riuscita a trovare un servizio, tanto il suo viso era repellente;
una ingiustizia, senza dubbio: la sua faccia avrebbe suscitato
ammirazione se fosse stata sulle spalle di un granatiere della
guardia; ma, come si dice, ogni cosa a suo luogo. Costretta, dopo un
incendio, a lasciare una fattoria dove custodiva le vacche, andò a
Saumur e lì cercò di mettersi a servizio, animata da quel robusto
coraggio che non rifiuta nulla. A quel tempo M. Grandet stava
pensando di sposarsi e voleva già organizzare la propria vita
domestica. Notò quella ragazza, respinta da ogni casa. Buon giudice,
in quanto bottaio, della forza fisica, intuì l'utile che si sarebbe
potuto ricavare da una creatura femminile di taglia erculea,
piantata sui piedi come una quercia di sessanta anni lo è sulle
radici, forte di fianchi, dalla schiena robusta, con mani da
carrettiere e una onestà solida come la sua intatta virtù. Né le
verruche che ornavano quel viso marziale né l'incarnato scuro né le
braccia muscolose né gli stracci della Nanon spaventarono il
bottaio, ancora in età da provare certi trasalimenti. Egli quindi
rivestì, calzò, nutrì la povera figlia, le diede un mensile, e la
impiegò al suo servizio senza trattarla troppo rudemente. Davanti a
questa accoglienza, la grande Nanon pianse di gioia in segreto, e si
attaccò con tutta sincerità al bottaio che, per parte sua, la
sfruttò come un feudatario. Nanon faceva tutto: faceva da mangiare,
faceva la liscivia, andava a lavare nella Loira la biancheria e se
la riportava sulle spalle; si alzava all'alba, si coricava tardi;
preparava i pasti per i braccianti al tempo della vendemmia, teneva
d'occhio quelli che andavano nelle vigne a raspollare; difendeva,
come un cane fedele, gli averi del suo padrone; infine, avendo in
lui una fiducia cieca, obbediva senza batter ciglio alle sue
fantasie più assurde. Nella famosa annata del 1811, in cui la
vendemmia costò fatiche inaudite, Grandet decise di regalare a
Nanon, dopo vent'anni di servizio, il suo vecchio orologio, unico
dono che ella ricevette mai da lui. Sebbene egli le passasse le sue
scarpe vecchie (che andavano bene per i piedi di lei), è impossibile
considerare l'uso delle scarpe di Grandet come un regalo, tanto
erano consunte. La necessità rese quella povera ragazza così avara,
che Grandet aveva finito per amarla come si ama un cane, e Nanon si
era lasciato mettere un collare guarnito di punte delle quali non
sentiva più le punture. Se Grandet tagliava il pane con un po'
troppa parsimonia, ella non se ne lamentava; partecipava di buon
animo ai vantaggi igienici che derivavano dal regime severo della
casa, dove nessuno era mai malato. Eppoi Nanon faceva parte della
famiglia: rideva quando rideva Grandet, si rattristava, gelava, si
scaldava, lavorava con lui. Quale dolce compenso in questa
uguaglianza! Mai il padrone aveva rinfacciato alla serva la pesca
duracina o la pesca di vigna o le prugne o le pesche noci mangiate
sotto l'albero. «Avanti, serviti, Nanon», le diceva nelle annate in
cui i rami si piegavano sotto il peso dei frutti, che i fittavoli
erano costretti a gettare ai porci. A una contadina che in gioventù
aveva ricevuto solo maltrattamenti, a una poveretta accolta per
carità, le risate equivoche di papà Grandet sembravano veri raggi di
sole. Del resto, il cuore semplice, il cervello corto di Nanon
potevano contenere solo un sentimento e solo un'idea. Da
trentacinque anni, ella si rivedeva arrivare a piedi nudi, vestita
di stracci, davanti alla fabbrica di M. Grandet e sentiva sempre il
bottaio che le diceva: «Che cosa volete, cocca?» e la sua
riconoscenza era sempre giovane. A volte, Grandet, pensando che
quella povera creatura non aveva mai inteso una parola lusinghiera,
che ignorava i dolci sentimenti ispirati dalla donna e che un giorno
avrebbe potuto comparire davanti a Dio più casta della stessa
vergine Maria, Grandet, preso da pietà, diceva guardandola: «Povera
Nanon!» E questa esclamazione era sempre seguita da uno sguardo
indefinibile che gli rivolgeva la vecchia serva. La frase,
pronunciata di tanto in tanto, formava da tempo una ininterrotta
catena d'amicizia alla quale ogni esclamazione aggiungeva una
maglia. La compassione, che albergava nel cuore di Grandet e che la
vecchia zitella accettava di buon grado, aveva un qualcosa di
orribile. Quella atroce compassione da avaro, che risvegliava mille
piaceri nel cuore del vecchio bottaio, era per Nanon tutta la
felicità. Chi non ripeterebbe: «Povera Nanon!» Dio riconoscerà i
suoi angeli dalle inflessioni della voce e dai misteriosi rimpianti.
A Saumur c'erano molte famiglie dove i domestici erano trattati
meglio, senza per questo che i padroni ne ricevessero maggiore
soddisfazione. Di qui un'altra frase corrente: «Ma che cosa faranno
i Grandet a Nanon perché sia tanto affezionata? Per loro
camminerebbe sul fuoco!» La cucina di Nanon, le cui finestre
inferriate davano sul cortile, era sempre pulita, in ordine, fredda,
la vera cucina di un avaro dove niente doveva andare perduto. Quando
Nanon aveva rigovernato, chiuso in dispensa gli avanzi della cena,
spento il fuoco, lasciava la cucina, che un corridoio separava dalla
sala, e andava a filare canapa accanto ai padroni. Alla famiglia
bastava una sola candela per tutta la serata. La serva dormiva in
fondo a quel corridoio, in un vano rischiarato da una finestrella
aperta sul fondo del vicino. La salute di ferro le permetteva di
vivere senza danno in quella specie di buco, da dove, grazie al
silenzio che regnava notte e giorno nella casa, riusciva a percepire
il minimo rumore. Come un cane da guardia dormiva con un occhio solo
e si riposava vegliando.
La descrizione delle altre parti della casa si
troverà unita a quella degli avvenimenti di questa storia; comunque,
ciò che s'è detto della sala, in cui rifulgeva tutto il lusso della
famiglia, può far intuire in anticipo la nudità dei piani superiori.
Nel 1819, a metà del mese di novembre, la grande
Nanon al cader della sera accese per la prima volta il fuoco.
L'autunno era stato molto bello. Quel giorno cadeva una festa ben
nota ai cruchottiani e ai grassinisti. Così i sei antagonisti si
preparavano, con tutte le armi di cui disponevano, a incontrarsi
nella sala e a gareggiare in dimostrazioni di amicizia. La mattina,
tutta Saumur aveva visto Mme e Mlle Grandet, accompagnate da Nanon,
andare in parrocchia per ascoltarvi la messa, e ognuno ricordò che
quel giorno cadeva l'anniversario della nascita di Mlle Eugénie.
Calcolando quindi l'ora in cui la cena doveva terminare, il notaio
Cruchot e M. C. de Bonfons fecero in modo di arrivare prima dei des
Grassins a festeggiare Mlle Grandet. Tutti e tre portavano enormi
mazzi di fiori colti nelle loro piccole serre. I gambi dei fiori che
il presidente voleva offrire erano ingegnosamente tenuti insieme da
un nastro di satin bianco con frange d'oro. Quel mattino, M.
Grandet, seguendo una sua costumanza per i giorni memorabili del
compleanno e dell'onomastico di Eugénie, era andato a salutarla
quando ancora la ragazza si trovava a letto, e le aveva offerto
solennemente il regalo paterno che consisteva, da tredici anni, in
una insolita moneta d'oro. Mme Grandet di regola donava alla figlia
un abito invernale o estivo, a seconda della circostanza. Questi due
abiti, le monete d'oro che ella riceveva a capodanno e per la festa
del padre, fruttavano alla giovane un piccola rendita di quasi cento
scudi, che a Grandet piaceva vedere accumulare. Era come travasare
il proprio denaro da una cassa in un'altra, come, per così dire,
dare spago all'avarizia della sua erede, alla quale talvolta egli
chiedeva conto di quel peculio, già rimpinzato dai la Bertellière,
dicendole: «Sarà il tuo dozzeno di nozze.» Il dozzeno è un'antica
usanza ancora in vigore e religiosamente rispettata in qualche paese
della Francia centrale. Nel Berry, nell'Angiò, quando una ragazza si
marita, la famiglia o quella dello sposo deve regalarle una borsa
nella quale si trovano, secondo le possibilità economiche, dodici
monete o dodici dozzine di monete o milleduecento monete d'argento o
d'oro. La più povera delle pastorelle non si sposerebbe senza il suo
dozzeno, magari formato solo da soldoni. Si parla ancora a Issoudun
di un certo dozzeno offerto a una ricca ereditiera e che conteneva
centoquarantaquattro portoghesi d'oro. Il papa Clemente VII regalò
alla nipote Caterina dei Medici che andava sposa a Enrico II una
dozzina di medaglie antiche di grandissimo valore. Durante la cena,
il padre, felice di vedere la sua Eugénie ancor più bella in un
vestito nuovo, aveva esclamato: «Poiché è la festa di Eugénie,
accendiamo il fuoco! sarà di buon augurio.»
«La signorina si sposerà entro l'anno, è sicuro,»
disse la grande Nanon portando via gli avanzi di un'oca, il fagiano
dei bottai.
«Non vedo un partito per lei a Saumur,» rispose
Mme Grandet guardando il marito con una timidezza, che, considerata
la sua età, lasciava intuire tutta la soggezione maritale sotto la
quale la povera donna languiva.
Grandet contemplò la figlia ed esclamò
allegramente: «La piccina fa oggi ventitré anni; presto bisognerà
occuparsi di lei.»
Eugénie e la madre scambiarono in silenzio uno
sguardo d'intesa.
Mme Grandet era una donna risecchita e magra,
gialla come una cotogna, goffa, lenta; una di quelle donne che
sembrano fatte apposta per essere tiranneggiate. Aveva ossa grandi,
naso grande, occhi grandi e, al primo sguardo, faceva pensare a un
frutto stopposo senza più sapore né sugo. Aveva i denti scuri e
radi, la bocca grinzosa, e il mento era, come si dice, a ciabatta.
Era una donna eccellente, una vera la Bertellière. Padre Cruchot non
perdeva occasione per dirle che non era stata niente male e lei gli
credeva. La dolcezza angelica, la rassegnazione dell'insetto
torturato dai bambini, una devozione rara, un umore costante, il
buon cuore, la facevano compatire e rispettare da tutti. Per le
piccole spese il marito non le dava mai più di sei franchi alla
volta. Sebbene ridicola in apparenza, questa donna che, fra la dote
e le eredità aveva portato a M. Grandet più di trecentomila franchi,
si era sempre sentita umiliata dalla dipendenza e dalla soggezione
contro le quali la mitezza d'animo le impediva di rivoltarsi, e non
aveva mai chiesto un soldo né mai aveva avuto a che dire sugli
strumenti che il notaio Cruchot le portava da firmare. Una fierezza
sciocca e segreta, una nobiltà d'animo costantemente misconosciuta e
offesa da Grandet, regolavano la condotta di questa donna. Mme
Grandet indossava sempre un abito di levantina verdastra, che si era
abituata a far durare circa un anno; portava un grande scialle di
cotonina bianca, un cappello di paglia cucita, e un grembiule di
taffettà che non toglieva quasi mai. Poiché usciva poco, consumava
poche scarpe. In conclusione, per sé non voleva mai niente. Così
Grandet, preso talora dal rimorso allorché ricordava quanto tempo
fosse passato dal giorno in cui aveva elargito sei franchi alla
moglie, al momento di vendere i raccolti dell'annata chiedeva sempre
una regalia per lei. I quattro o cinque luigi offerti dall'olandese
o dal belga che acquistava la vendemmia Grandet rappresentavano la
rendita annuale più certa di Mme Grandet. Ma, dopo che ella aveva
intascato i suoi cinque luigi, spesso il marito le diceva, come se
avessero la borsa in comune: «Hai qualche soldo da prestarmi?» E la
povera donna, felice di poter fare qualcosa per un uomo che il
confessore le diceva essere il suo signore e padrone, finiva,
durante il corso dell'inverno, per restituire al marito qualche
scudo di quelli delle regalie. Grandet, quando tirava fuori di tasca
la moneta da cento soldi destinata alle piccole spese mensili, il
filo, gli aghi e la toeletta della figlia, non mancava mai, dopo
aver abbottonato il taschino, di dire alla moglie: «E tu, mamma,
vuoi qualcosa?»
«Amico mio,» rispondeva Mme Grandet, spinta da un
sentimento di dignità materna, «vedremo.»
Dignità sprecata! Grandet era convinto di essere
molto generoso con la moglie. I filosofi che incontrano delle Nanon,
delle Mme Grandet, delle Eugénie, non hanno forse il diritto di
pensare che, in fondo, nella Provvidenza ci sia una buona dose di
ironia? Terminata quella cena durante la quale per la prima volta si
parlò del matrimonio di Eugénie, Nanon andò a prendere una bottiglia
di cassis nella camera di M. Grandet e mentre scendeva mancò poco
cadesse.
«Bestiona,» le disse il padrone, «adesso ti metti
anche a cadere?»
«Signore, è quel gradino delle scale che non
regge più.»
«Ha ragione,» disse Mme Grandet. «Avreste dovuto
farlo accomodare già da un pezzo. Ieri per poco Eugénie non si
faceva male a un piede.»
«Tieni,» disse Grandet a Nanon vedendola
sbiancata in volto, «perché è il compleanno di Eugénie e tu sei
stata per cadere, bevi un bicchierino di cassis; ti farà bene.»
«In fede mia, me lo sono guadagnato,» disse
Nanon. «Al mio posto, un'altra avrebbe rotto la bottiglia; ma io pur
di salvarla mi sarei rotto il gomito.»
«Povera Nanon!» disse Grandet versandole il
cassis.
«Ti sei fatta male?» le chiese Eugénie
guardandola con interesse.
«No, perché mi sono bloccata facendo forza sulle
reni.»
«Ebbene, poiché è il compleanno di Eugénie,»
disse Grandet, «vado ad aggiustare quel vostro scalino. Voialtre non
sapete mettere il piede nell'angolo ancora solido.»
Grandet prese la candela, lasciò la moglie, la
figlia e la serva senza altra luce che il riflesso della fiamma che
ardeva nel camino, e andò nel locale del forno a prendere tavole,
chiodi e attrezzi.
«Avete bisogno di aiuto?» gli gridò Nanon
sentendolo battere sulla scala.
«No! no! so fare da solo,» rispose il vecchio
bottaio.
Mentre Grandet era intento ad aggiustare con le
proprie mani la scala tarlata, e fischiava a tutto spiano in ricordo
dei suoi verdi anni, i tre Cruchot bussarono alla porta.
«Siete voi, signor Cruchot?» chiese Nanon
guardando attraverso la piccola griglia.
«Sì,» rispose il presidente.
Nanon apri la porta, e il bagliore del camino,
che riverberava sotto la volta, permise ai tre Cruchot di scorgere
l'entrata della sala.
«Ah! siete venuti per la festa,» disse loro Nanon
sentendo l'odore dei fiori.
«Scusate, signori,» gridò Grandet che aveva
riconosciuto le voci dei suoi amici, «sono subito da voi! Non è che
voglia darmi delle arie, sto rabberciando un gradino della scala.»
«Fate, fate, signor Grandet! Il carbonaio è
signore in casa sua,» disse con tono sentenzioso il presidente,
ridendo fra sé dell'allusione che nessuno afferrò.
Mme e Mlle Grandet si alzarono. Il presidente,
approfittando allora dell'oscurità, disse a Eugénie: «Mi permettete,
signorina, di augurarvi, nel giorno in cui nasceste, tanti anni
felici e la conservazione della salute di cui godete?»
Le porse un grosso mazzo di fiori rari a Saumur;
poi, prendendo l'ereditiera per i gomiti, la baciò sui lati del
collo, con un compiacimento che riempì di vergogna Eugénie. Il
presidente, che sembrava un grosso chiodo arrugginito, credeva in
tal modo di farle la corte.
«Non disturbatevi,» disse Grandet rientrando.
«Come correte nei giorni di festa, signor presidente!»
«Ma con la signorina,» rispose padre Cruchot,
armato del suo mazzo di fiori, «tutti i giorni sarebbero per mio
nipote giorni di festa.»
Il prete baciò la mano di Eugénie. Quanto al
notaio Cruchot, baciò con tutta semplicità la ragazza sulle guance e
disse: «Come ci si sente invecchiare! Ogni anno dodici mesi.»
Mentre rimetteva la candela davanti all'orologio,
Grandet, che quando aveva una battuta che gli sembrava divertente
non finiva mai di ripeterla, disse: «Poiché è la festa di Eugénie,
accendiamo le luminarie!»
Tolse con cura i bracci dei candelabri, mise la
padellina su ciascun piedestallo, prese dalle mani di Nanon una
candela nuova avvolta alla base in un pezzo di carta, la infilò nel
buco, la fissò bene, l'accese, e andò a sedersi accanto alla moglie,
passando con lo sguardo dagli amici alla figlia e alle due candele.
Padre Cruchot, un ometto paffuto, grassottello, con la parrucca
rossa e liscia, con una faccia da vecchia gaudente, disse allungando
i piedi ben calzati in scarpe robuste con fibbie d'argento: «I des
Grassins non sono venuti?»
«Non ancora,» rispose Grandet.
«Ma devono venire?» domandò il vecchio notaio
atteggiando a una smorfia la faccia bucherellata come una
schiumarola.
«Penso di sì,» rispose Mme Grandet.
«Avete già finito la vendemmia?» chiese il
presidente Bonfons a Grandet.
«Dappertutto,» rispose il vecchio vignaiolo,
alzandosi e mettendosi a camminare su e giù per la sala, mentre
gonfiava il torace con un atteggiamento che traboccava orgoglio come
la parola: dappertutto! Dalla porta del corridoio che menava in
cucina, vide la grande Nanon, seduta accanto al braciere e con una
candela, che si accingeva a filare in quel posto per non mescolarsi
alla festa. «Nanon,» disse Grandet inoltrandosi nel corridoio, «vuoi
spegnere il fuoco e la candela e venire con noi? Perdiana! La sala è
abbastanza grande perché ci si possa stare tutti.»
«Ma, signore, avrete visitatori di riguardo.»
«E tu sei da meno? Vengono tutti dalla costola
d'Adamo come te.»
Grandet tornò vicino al presidente e gli disse:
«Voi avete venduto il raccolto?»
«No, davvero, io lo conservo. Se ora il vino è
buono, fra due anni sarà migliore. I proprietari, lo sapete, hanno
giurato di attenersi al prezzo convenuto e, quest'anno, i belgi non
la spunteranno con noi. Se se ne vanno, ebbene, torneranno.»
«Sì, ma bisogna che ci stiano tutti,» disse
Grandet con un tono che fece fremere il presidente.
«Che sia in trattative?» pensò Cruchot.
In quel momento un colpo alla porta annunciò la
famiglia des Grassins il cui arrivo interruppe una conversazione fra
Mme Grandet e il prete.
Mme des Grassins era una di quelle donne piccine,
vivaci, paffute, bianche e rosa, che, grazie alle abitudini
claustrali della provincia e a una vita virtuosa, si conservano
giovani anche a quaranta anni. Sono come le ultime rose di fine
stagione che fa piacere guardare, ma i cui petali hanno una certa
freddezza e il cui profumo è affievolito. Si vestiva piuttosto bene,
faceva venire i modelli da Parigi, dava il tono alla città di
Saumur, e offriva dei ricevimenti. Suo marito, ex quartier-mastro
della guardia imperiale, ferito gravemente ad Austerlitz e andato in
congedo, conservava, nonostante la sua considerazione per Grandet, i
modi schietti del militare.
«Buongiorno, Grandet,» disse al vignaiolo
porgendogli la mano e affettando una certa aria di superiorità sotto
la quale schiacciava sempre i Cruchot. «Signorina,» disse a Eugénie
dopo aver salutato Mme Grandet, «voi siete sempre bella e
giudiziosa, in verità, non so che cosa vi si possa augurare.» Poi
offrì una cassetta portata dal domestico che conteneva un'erica del
Capo, pianta da poco importata in Europa e assai rara.
Mme des Grassins baciò con molto affetto Eugénie,
le strinse la mano e le disse: «Adolphe si è preso l'incarico di
offrirvi un mio ricordino.»
Un giovanotto alto, biondo, pallido ed esile, di
modi cortesi, timido in apparenza, ma che a Parigi, dove era andato
a studiare diritto, aveva speso otto o diecimila franchi in più del
suo appannaggio, avanzò verso Eugénie, la baciò sulle guance e le
offrì una scatola da lavoro i cui utensili erano tutti in vermeil,
una cosa davvero dozzinale, anche se lo stemma sul quale era
finemente inciso in caratteri gotici il monogramma E.G. poteva far
pensare a un oggetto di buona fattura. Quando la aprì, Eugénie provò
una di quelle gioie insperate e complete che fanno arrossire,
trasalire e tremare di felicità le fanciulle. Voltò gli occhi verso
il padre, come per sapere se le era permesso accettare, e M. Grandet
disse «Prendilo, figlia mia!» con un tono di voce degno di un grande
attore.
I tre Cruchot rimasero stupefatti vedendo lo
sguardo lieto e vivace che l'ereditiera, cui simili tesori parevano
inauditi lanciò ad Adolphe des Grassins. M. des Grassins offrì a
Grandet una presa di tabacco, ne prese una per sé, scosse via i
bricioli caduti sul nastro della Legion d'onore infilato nella
bottoniera della marsina blu, poi guardò i Cruchot con l'aria di
dire: «Paratemi questa botta!» Mme des Grassins gettò un'occhiata ai
vasi turchini dov'erano i mazzi di fiori dei Cruchot come se
cercasse i loro regali con una finta buona fede che era tutta una
canzonatura. In quella situazione delicata padre Cruchot lasciò che
gli altri sedessero in cerchio davanti al fuoco e andò a passeggiare
con Grandet sul fondo della sala. Quando i due vecchi furono nel
vano della finestra più lontana dai des Grassins: «Quella gente,»
disse il prete all'orecchio dell'avaro, «getta i soldi dalla
finestra.»
«E che importa, se finiscono nella mia cantina?»
rispose il vecchio vignaiolo.
«A voi non mancherebbero i mezzi, se voleste
regalare delle forbici d'oro a vostra figlia,» disse il prete.
«Le do qualcosa di meglio delle forbici,» rispose
Grandet.
«Mio nipote è uno sciocco,» pensò il reverendo e
guardò il presidente nel quale l'impressione sgradevole
dell'incarnato scuro era accentuata dai capelli arruffati. Non
poteva venirgli in mente una sciocchezzuola di qualche pregio?
«Vogliamo fare la solita partita, Mme Grandet?»
chiese Mme des Grassins.
«Ma siamo in tanti, ci vorrebbero due tavoli ...»
«Poiché è la festa di Eugénie, giocate tutti a
tombola,» disse papà Grandet, «anche i due ragazzi.» L'ex bottaio,
che non giocava mai, accennò a sua figlia e ad Adolphe. «Su, Nanon,
sistema i tavoli.»
«Vi diamo una mano, signorina Nanon,» disse con
tono allegro Mme des Grassins, tutta felice della felicità che aveva
procurato a Eugénie.
«In vita mia non sono mai stata così contenta,»
le disse l'ereditiera. «Non avevo mai visto niente di tanto bello.»
«L'ha portata Adolphe da Parigi ed è lui che l'ha
scelta,» le disse in un orecchio Mme des Grassins.
«Fai, fai pure, maledetta intrigante!» pensò il
presidente; «se mai avrete una causa in tribunale, tu o tuo marito,
sarà difficile che riusciate a vincere.»
Il notaio, seduto in un angolo, guardò con calma
il reverendo e si disse: «I des Grassins hanno voglia a fare, il mio
patrimonio, quello di mio fratello e quello di mio nipote assommano
a un milione e centomila franchi. I des Grassins arriveranno tutt'al
più alla metà, e hanno una figlia; regalino pure ciò che vogliono!
ereditiera e regali un giorno verranno a noi.»
Alle otto e mezzo di sera erano stati preparati
due tavoli. La deliziosa Mme des Grassins era riuscita a mettere suo
figlio accanto a Eugénie. Gli attori di questa commedia
interessante, seppure in apparenza volgare, muniti di cartelle
colorate, numerate e di gettoni di vetro blu, sembravano ascoltare
le piacevolezze del vecchio notaio, il quale faceva un commento a
ogni numero che estraeva; ma tutti pensavano ai milioni di M.
Grandet. Il vecchio bottaio contemplava, tutto tronfio, le piume
rosa, l'abito inappuntabile di Mme des Grassins, la testa marziale
del banchiere, quella di Adolphe, il presidente, il reverendo, il
notaio, e diceva dentro di sé: «Sono qui per i miei scudi. Vengono
ad annoiarsi qui per mia figlia. Eh! mia figlia non toccherà né agli
uni né agli altri, tutti costoro mi servono solo come ami per
pescare!»
Quella allegria casalinga nel vecchio salone
grigio male illuminato da due candele; quelle risate, accompagnate
dal rumore del filatoio della grande Nanon, e che erano sincere solo
sulle labbra di Eugénie o di sua madre; quella meschinità legata a
interessi tanto grandi; quella fanciulla che, simile a certi uccelli
vittime ignare del loro prezzo elevato, era braccata, incalzata
dalle dimostrazioni di amicizia con le quali la abbindolavano: tutto
contribuiva a rendere la scena tristemente comica. Del resto non era
una scena d'ogni tempo e d'ogni luogo, ma riportata alla sua
espressione più semplice? La figura di Grandet che sfruttava il
falso attaccamento delle due famiglie, traendone enormi vantaggi,
dominava e chiariva il dramma. Non era forse quello il solo dio
moderno nel quale si abbia fede, il Denaro in tutta la sua potenza,
espresso da una sola fisionomia? I dolci sentimenti della vita
occupavano colà solo un posto di secondo piano; albergavano in tre
cuori schietti, quelli di Nanon, di Eugénie e di sua madre. E
ancora, quanta ignoranza nella loro ingenuità! Eugénie e la madre
non sapevano nulla del patrimonio di Grandet, esse valutavano le
cose della vita in base alle loro vaghe idee, e non apprezzavano né
disprezzavano il denaro, abituate com'erano a farne a meno. I loro
sentimenti, offesi senza che esse lo sapessero, ma vivaci, ne
facevano delle curiose eccezioni in quella accolta di persone la cui
vita era solo materiale. Terribile condizione dell'uomo! non una
delle sue felicità che non nasca dall'ignoranza. Nel momento in cui
Mme Grandet vinceva una posta di sedici soldi, la più considerevole
che si fosse mai vista in quella sala, e mentre la grande Nanon
rideva di contentezza vedendo la signora intascare quella bella
somma, un colpo di battaglio rimbombò alla porta di casa facendo un
tale fracasso, che le donne sobbalzarono sulle sedie.
«Non può essere uno di Saumur a bussare in questo
modo,» disse il notaio.
«Che maniera di picchiare!» disse Nanon.
«Vogliono sfasciarci la porta?»
«Chi diavolo è?» esclamò Grandet.
Nanon prese una delle due candele e andò ad
aprire, accompagnata da Grandet.
«Grandet! Grandet!» gridò la moglie, che, spinta
da un vago senso di paura, si precipitò verso la porta della sala.
Tutti i giocatori la guardarono.
«Se ci andassimo anche noi?» disse Mme des
Grassins. «Quel colpo di martello non mi dice niente di buono.»
M. des Grassins riuscì appena a scorgere il viso
di un giovanotto accompagnato dal fattorino delle messaggerie, che
portava due enormi bauli e trascinava delle sacche da viaggio.
Grandet si voltò bruscamente verso la moglie e le disse: «Signora
Grandet, tornate alla vostra tombola. Devo parlare con il signore.»
Poi chiuse con decisione la porta della sala, e i giocatori inquieti
ripresero i loro posti, ma non continuarono a giocare.
«È qualcuno di Saumur, signor des Grassins?» gli
chiese la moglie.
«No, è un viaggiatore.»
«Non può venire che da Parigi.»
«In effetti,» disse il notaio tirando fuori il
suo vecchio orologio spesso due dita e che somigliava a un vascello
olandese, «sono le nove. Accidenti! la diligenza non è mai in
ritardo.»
«È giovane quel signore?» chiese padre Cruchot.
«Sì,» rispose M. des Grassins. «Ha un bagaglio
che deve pesare almeno trecento chili.»
«Nanon non torna,» disse Eugénie.
«Può essere solo qualcuno della vostra famiglia,»
disse il presidente.
«Cominciamo a puntare,» suggerì piano Mme
Grandet. «Dal tono della voce ho capito che M. Grandet era
contrariato forse non sarebbe contento se si accorgesse che parliamo
dei suoi affari.»
«Signorina,» disse Adolphe alla sua vicina, «sarà
senza dubbio vostro cugino Grandet, un bel giovanotto che ho visto
al ballo di M. de Nucingen.»
Adolphe tacque perché la madre gli aveva rifilato
un pestone; poi, chiedendogli ad alta voce due soldi per la puntata:
«Vuoi star zitto, pezzo di babbeo?» gli disse in un orecchio.
In quel momento Grandet rientrò senza la grande
Nanon, i cui passi insieme con quelli del fattorino echeggiarono
sulle scale; Grandet era seguito dal viaggiatore che da qualche
istante suscitava tanta curiosità e occupava a tal punto la fantasia
di tutti, che il suo arrivo in quella casa e il suo apparire in
mezzo a quella gente potrebbero essere paragonati alla comparsa di
una lumaca in un alveare, o all'ingresso di un pavone in un oscuro
cortile di villaggio.
«Sedetevi accanto al fuoco,» gli disse Grandet.
Prima di sedersi, il giovane forestiero salutò
con grazia i presenti. Gli uomini si alzarono per rispondere con un
cortese inchino, le donne fecero una cerimoniosa riverenza.
«Avrete certo freddo, signore,» disse Mme
Grandet, «arrivate forse da...»
«Ecco le donne!» disse il vecchio vignaiolo
interrompendo la lettura di una lettera che aveva in mano; «lasciate
riposare il signore.»
«Ma, padre mio, forse il signore ha bisogno di
qualcosa,» disse Eugénie.
«Ha la lingua,» rispose asciutto il vignaiolo.
Solo lo sconosciuto rimase sorpreso da questa
scena. Gli altri erano abituati alle maniere dispotiche del
brav'uomo. Nondimeno, dopo quelle due domande e quelle due risposte,
lo sconosciuto si alzò, voltò la schiena verso il fuoco, alzò un
piede per scaldare la suola dello stivale, e disse a Eugénie: «Cara
cugina, vi ringrazio, ho cenato a Tours.» E, aggiunse guardando
Grandet, «non ho bisogno di nulla e non sono nemmeno stanco.»
«Il signore viene dalla capitale?» chiese Mme des
Grassins.
M. Charles, così si chiamava il figlio di M.
Grandet, di Parigi, sentendosi interpellare, prese l'occhialino che
portava appeso con una catenina al collo, se lo portò all'occhio
destro per esaminare ciò che stava sul tavolo e le persone che vi
erano sedute intorno, scrutò con molta impertinenza Mme des Grassins
e le disse, dopo aver visto ciò che voleva: «Sì, signora. Vedo che
giocate a tombola, cara zia,» aggiunse; «per favore, continuate, è
un gioco troppo divertente per interromperlo...»
«Ero sicura che fosse il cugino,» pensò Mme des
Grassins sogguardando il nuovo arrivato.
«47,» disse forte il vecchio prete. «Segnatelo,
Mme des Grassins, non ce l'avete nella vostra cartella?»
M. des Grassins mise un gettone sulla cartella
della moglie, che, in preda a tristi presentimenti, guardava ora il
cugino di Parigi ora Eugénie, senza pensare alla tombola. Di tanto
in tanto, la giovane ereditiera gettava al cugino degli sguardi
furtivi, nei quali la moglie del banchiere riuscì a scorgere un
Crescendo di stupore e di curiosità.
[2]
M. Charles Grandet, bel giovane di ventidue anni,
offriva nella circostanza un singolare contrasto con quei bravi
provinciali che si sentivano piuttosto urtati dai suoi modi
aristocratici, e che lo stavano studiando per potersi poi burlare di
lui. Ciò esige una spiegazione. A ventidue anni i giovani sono
ancora abbastanza vicini all'infanzia per cedere agli infantilismi.
Così, forse, su cento di loro se ne potrebbero trovare novantotto
che si sarebbero comportati come Charles Grandet. Alcuni giorni
prima, il padre gli aveva detto di andare a stare per qualche mese
da suo fratello a Saumur. Forse M. Grandet, di Parigi, pensava a
Eugénie. Charles, che capitava in provincia per la prima volta, ebbe
l'idea di darsi un tono di superiorità da giovane alla moda, di
sconcertare il circondario con il suo lusso, di farvi scalpore e di
importarvi le novità della vita parigina. Insomma, per dirla in
poche parole, intendeva, a Saumur, impiegare più tempo di quanto ne
impiegasse a Parigi per lucidarsi le unghie, ed esibire
quell'eccessiva ricercatezza nel vestire che a volte un giovane
elegante trascura in favore di una negligenza che non manca di
grazia. Charles, dunque, si portò dietro il più bel vestito da
caccia, il più bel fucile, il più bel coltello, il più bel fodero di
Parigi. Portò una collezione di gilè fra i più fantasiosi: ce
n'erano grigi, bianchi, neri, color scarabeo, con riflessi dorati,
ornati di lustrini, variegati, a doppio petto, sciallati e non, col
collo rivoltato, abbottonati fino in alto, con i bottoni d'oro.
Portò tutti i tipi di colletti e di cravatte che erano di moda in
quel momento. Portò due marsine di Buisson e la sua biancheria più
fine. Portò il suo bel nécessaire da toeletta in oro, regalo della
madre. Portò tutti i suoi ammennicoli da dandy, senza dimenticare un
delizioso piccolo servizio per scrivere dono della donna più
amabile, almeno per lui, di una gran dama che egli chiamava Annette
e che stava viaggiando col marito, annoiandosi, in Scozia, vittima
di certi sospetti ai quali per il momento era giocoforza sacrificare
la felicità; e poi una gran quantità di carta finissima per
scriverle una lettera ogni quindici giorni. Insomma un carico di
futilità parigine dei più completi e nel quale, dal frustino che
serve per provocare un duello fino alle belle pistole cesellate che
lo concludono, erano compresi tutti gli attrezzi di cui un giovane
ozioso si serve per arare il terreno della vita. Poiché il padre gli
aveva detto di viaggiare da solo e modestamente, era venuto con una
diligenza affittata tutta per lui, ben contento di non dover
sciupare una deliziosa vettura da viaggio ordinata per andare a
raggiungere la sua Annette, la gran dama che... ecc., che egli
doveva incontrare in giugno alle terme di Baden. Charles pensava di
trovare un centinaio di persone in casa di suo zio, di cacciare a
cavallo nelle foreste di suo zio, insomma di vivere come in un
castello; non sapeva che lo zio fosse a Saumur, dove, arrivando, si
era limitato a chiedere la strada per Froidfond; poi, avendo appreso
che era in città, pensò di trovarlo in un grande palazzo. Per
comparire nel modo più acconcio in casa dello zio, fosse a Saumur,
fosse a Froidfond, si era messo un abito da viaggio civettuolo,
semplice e ricercato, adorabile, per usare una parola che a quei
tempi compendiava le particolari perfezioni di una cosa o di un
uomo. A Tours, si era fatto rinfrescare da un parrucchiere
l'arricciatura dei bei capelli castani; si era cambiata la
biancheria e aveva messo una cravatta di satin nero su un colletto
tondo in modo da incorniciare gradevolmente il viso candido e
sorridente. Una redingote da viaggio abbottonata a metà gli serrava
la vita e lasciava vedere un gilè sciallato di cachemire sotto il
quale c'era un secondo gilè bianco. L'orologio, infilato
negligentemente in un taschino, era attaccato con una catena d'oro
alla bottoniera. I pantaloni grigi si chiudevano sui fianchi, dove
ricami in seta nera abbellivano le cuciture. Impugnava con
disinvoltura un bastone il cui pomo d'oro sbalzato non lasciava la
minima ombra sui guanti grigi immacolati. Per concludere, il
berretto era di un gusto eccellente. Solo un parigino, un parigino
del ceto più elevato, poteva abbigliarsi così senza apparire
ridicolo, anzi dando una fatua armonia a tutte queste quisquilie,
sostenute del resto da un'aria spavalda, l'aria del giovanotto che
ha due belle pistole, la mira sicura e Annette. Ora, se volete
comprendere appieno la sorpresa sia di quelli di Saumur sia del
giovane parigino, vedere con chiarezza il riverbero abbagliante che
l'eleganza del viaggiatore proiettava sulle ombre grigie della sala
e sulle figure che formavano il quadro di famiglia, cercate di
immaginarvi i Cruchot. Tutti e tre tabaccavano e ormai da un pezzo
non si curavano più delle goccioline di moccio o delle macchioline
scure che costellavano le pettorine delle camicie strinate, con i
colletti spiegazzati e piene di segni giallastri. Le cravatte molli,
una volta annodate, si intorcinavano come fossero corde. L'enorme
quantità di biancheria che conservavano in fondo agli armadi,
permetteva a loro di fare la liscivia ogni sei mesi e al tempo di
imprimere sui capi un colore grigio e vecchio. Erano insieme e in
egual misura sgraziati e senili. Le loro facce avvizzite come gli
abiti frusti, spiegazzate come i pantaloni, sembravano consunte,
incartapecorite e contorte. La generale sciatteria degli altri capi,
tutti spaiati, stazzonati, come lo sono gli abiti in provincia, dove
a poco a poco si giunge a non vestirsi più gli uni per gli altri e a
far caso al prezzo di un paio di guanti, si accordava con la
trascuratezza dei Cruchot. L'orrore per la moda era il solo punto
sul quale grassinisti e cruchottiani si intendessero perfettamente.
Appena il parigino prendeva l'occhialetto per esaminare il singolare
arredo della sala, le tavole del piancito, il colore dei pannelli o
le macchioline che le mosche vi avevano lasciato in quantità tale
che sarebbero state sufficienti per punteggiare l'Encyclopédie
méthodique o «Le Monitour», ecco che i giocatori di tombola alzavano
il naso e lo osservavano con la stessa curiosità che avrebbero
dimostrato per una giraffa. M. des Grassins e il figlio, per i quali
un uomo alla moda non era un personaggio sconosciuto, si unirono ciò
nondimeno allo stupore dei vicini o perché subivano l'indefinibile
influenza del sentimento generale o perché erano d'accordo, dicendo
ai loro concittadini, con occhiate cariche di ironia: «Ecco come
sono a Parigi.» Del resto, tutti a loro piacimento potevano
osservare Charles, senza tema di irritare il padrone di casa.
Grandet era assorbito dalla lunga lettera che teneva in mano, e per
leggerla aveva preso l'unica candela del tavolo senza preoccuparsi
degli ospiti e del loro gioco. Eugénie, cui era del tutto
sconosciuto un tale tipo di perfezione, tanto nell'abito quanto
nella persona, credette di vedere nel cugino una creatura scesa da
una sfera angelica. Ella respirava deliziata i profumi che si
sprigionavano da quella capigliatura così lucente, così ben
arricciata. Avrebbe voluto poter toccare la pelle satinata di quei
guanti graziosi. Invidiava a Charles le mani piccole, l'incarnato,
la freschezza e la delicatezza dei tratti. Insomma, se in qualche
modo un'immagine può riassumere l'impressione che il giovane alla
moda produsse su una fanciulla ignorante sempre occupata a
rammendare calze, a rattoppare il guardaroba del padre, e la cui
vita era trascorsa fra quei luridi pannelli di legno senza veder
passare nella via silenziosa più di una persona l'ora, si può dire
che la vista del cugino suscitò nel cuore di lei gli stessi fremiti
di sottile voluttà che suscitano in un giovane le fantastiche figure
di donne disegnate da Westall nei keepsakes inglesi, e incise dai
Finden con tale abilità, che si ha paura, soffiando sulla velina, di
far volare via quelle apparizioni celestiali. Charles tirò fuori di
tasca un fazzoletto ricamato dalla gran dama che in quel momento
viaggiava in Scozia. Vedendo quel piccolo capolavoro, fatto con
amore nelle ore perdute per l'amore, Eugénie guardò il cugino per
capire se avesse davvero l'intenzione di usarlo. Le maniere di
Charles, i gesti, il modo in cui prendeva l'occhialetto, la sua
impertinenza affettata, il disprezzo per la scatola da lavoro che
poco prima aveva colmato di piacere la ricca ereditiera e che egli
giudicava evidentemente o senza valore o ridicola; insomma, tutto
ciò che urtò i Cruchot e i des Grassins le piacque tanto che prima
di addormentarsi fantasticò a lungo su questa fenice dei cugini.
L'estrazione dei numeri procedeva a rilento, ma
di lì a poco la tombola venne interrotta. La grande Nanon entrò e
disse ad alta voce: «Signora, mi occorrono le lenzuola per fare il
letto a questo signore.»
Mme Grandet uscì con Nanon. Allora Mme des
Grassins disse a bassa voce: «Riprendiamoci i nostri soldi e
lasciamo perdere la tombola.» Ciascuno riprese i suoi due soldi
dalla vecchia sottocoppa sbreccata dove li aveva deposti; poi tutti
si mossero all'unisono e fecero un quarto di giro verso il fuoco.
«E allora avete finito?» chiese Grandet senza
smettere di leggere la lettera.
«Sì, sì,» rispose Mme des Grassins andando a
sedere vicino a Charles.
Eugénie, spinta da uno di quei pensieri che
nascono nel cuore delle ragazze quando un sentimento vi prende
stanza per la prima volta, lasciò la sala per andare ad aiutare la
madre e Nanon. Se fosse stata interrogata da un abile confessore,
avrebbe ammesso senza dubbio che non pensava né alla madre né a
Nanon, ma che era in preda all'acuto desiderio di ispezionare la
camera del cugino per potersi occupare di lui, per mettervi una cosa
qualsiasi, per rimediare a una dimenticanza, per prevedere tutto ciò
che occorresse a renderla, nei limiti del possibile, elegante e
accogliente. Eugénie era ormai convinta di essere la sola capace di
comprendere i gusti e le idee del cugino. In effetti, arrivò a tempo
per dimostrare alla madre e a Nanon, le quali stavano venendo via
sicure di aver fatto tutto, che tutto era ancora da fare. Suggerì
alla grande Nanon di riscaldare le lenzuola con la brace; coprì lei
stessa il vecchio tavolo con un centrino e raccomandò a Nanon di
cambiarlo tutte le mattine. Convinse la madre della necessità di
accendere un bel fuoco nel camino e indusse Nanon a portare di
sopra, nel corridoio, un po' di legna senza dir nulla al padre. Lei
stessa corse a prendere in una cantoniera della sala un vecchio
vassoio laccato che veniva dalla successione del defunto M. de la
Bertellière, prese anche un bicchiere di cristallo a sei facce, un
cucchiaino con fregi, una bottiglietta antica sulla quale erano
impressi degli amorini e con aria trionfale depositò il tutto su un
angolo del camino. Aveva avuto più idee in un quarto d'ora di quante
ne avesse avute dal giorno in cui era venuta al mondo.
«Mamma,» disse, «mio cugino non sopporterà mai
l'odore di una candela di sego. Se comperassimo una candela di
cera?. .» Leggera come un uccello, andò a prendere nella sua borsa
lo scudo da cento soldi che aveva ricevuto per le spese mensili.
«Tieni, Nanon,» disse, «vacci subito.»
«Ma che dirà tuo padre?» Questa terribile
obiezione fu sollevata da Mme Grandet che vide fra le mani della
figlia una vecchia zuccheriera di Sèvres presa da Grandet nel
castello di Froidfond. «E dove prenderai lo zucchero? Sei
impazzita?»
«Mamma, Nanon comprerà insieme con la candela
anche un po' di zucchero.»
«E tuo padre?»
«Sarebbe forse decoroso che suo nipote non
potesse bere un bicchiere di acqua zuccherata? Eppoi, non ci farà
caso.»
«Tuo padre vede tutto,» disse Mme Grandet
scuotendo il capo.
Nanon, che conosceva il padrone, esitava.
«Vai dunque Nanon, dal momento che è la mia
festa.»
Nanon sbottò a ridere sentendo la prima
spiritosaggine che la padroncina avesse mai detto, e le obbedì.
Mentre Eugénie e la madre si sforzavano di abbellire la stanza che
M. Grandet aveva destinato al nipote, Charles era oggetto delle
attenzioni di Mme des Grassins che gli faceva parecchie moine.
«Siete molto coraggioso, signore,» gli disse, «ad
abbandonare i piaceri della capitale durante l'inverno per venire a
Saumur. Ma, se non vi facciamo troppa paura, vedrete che ci si può
divertire anche qui.»
Gli scoccò una di quelle occhiate da provinciale,
in cui le donne per abitudine mettono tanta riservatezza e cautela
da dare ai loro occhi la ghiotta concupiscenza tipica degli occhi
degli ecclesiastici ai quali ogni piacere sembra un furto o una
colpa. Charles si sentiva così spaesato in quella sala, tanto
diversa dall'immenso castello e dall'esistenza fastosa che aveva
attribuito allo zio, che, guardando bene Mme des Grassins, gli parve
di scorgere la copia un po' sbiadita dei volti parigini. Rispose con
gentilezza a quella specie di invito che gli era stato rivolto, e si
impegnò con naturalezza in una conversazione, durante la quale Mme
des Grassins abbassò poco per volta la voce per intonarla con il
carattere delle sue confidenze. E sia lei che Charles avevano lo
stesso bisogno di confidenze. Così, dopo qualche minuto di
conversazione frivola e di piacevolezze serie, l'accorta
provinciale, credendo di non essere ascoltata dagli altri, che
parlavano della vendita del vino, una faccenda in quel momento
all'ordine del giorno a Saumur, riuscì a dirgli: «Signore, se ci
farete l'onore di venire a trovarci, certamente sarà un grande
piacere per mio marito e per me. Il nostro salotto è l'unico a
Saumur dove troverete riuniti i grossi commercianti e i nobili: noi
apparteniamo a entrambi i ceti e questi vogliono incontrarsi solo da
noi, perché da noi ci si diverte. Mio marito, e lo dico con
orgoglio, è tenuto in grande considerazione sia dagli uni che dagli
altri. Perciò faremo di tutto per alleviare la noia del vostro
soggiorno qui. Se non usciste da casa Grandet, che sarebbe di voi,
mio Dio! Vostro zio è un avaraccio che pensa solo alle vigne; vostra
zia è una pia donna che non sa mettere insieme due idee, e vostra
cugina è un'ochetta senza educazione, ordinaria, senza doti e che
passa la vita a rammendare stracci.»
«È in gamba questa donna,» si disse Charles
Grandet, rispondendo alle moine di Mme des Grassins.
«Moglie mia, mi sembra che tu voglia accaparrarti
il signore,» disse ridendo quel pezzo d'uomo del banchiere.
Udendo ciò, il notaio e il presidente fecero
delle battute più o meno maliziose; ma il reverendo li guardò con
aria astuta e riassunse il loro pensiero mentre prendeva una presa
di tabacco e offriva in giro la tabacchiera: «Chi meglio di Mme des
Grassins,» disse, «potrebbe fare gli onori di Saumur al signore?»
«Che cosa intendete dire, reverendo?» chiese M.
des Grassins.
«Intendo dire, signore, la cosa più lusinghiera
per voi, per la signora, per la città di Saumur e per il signore,»
aggiunse l'astuto vegliardo voltandosi dalla parte di Charles.
Senza dare a vedere che vi prestasse la minima
attenzione, padre Cruchot era riuscito a intuire il tenore della
conversazione fra Charles e Mme des Grassins.
«Signore,» disse allora Adolphe a Charles con
un'aria che avrebbe voluto essere disinvolta, «non so se vi
ricordiate di me; ho avuto il piacere di incontrarvi a un ballo del
signor barone di Nucingen, e...»
«Perfettamente, signore, perfettamente,» rispose
Charles, sorpreso di vedersi l'oggetto delle attenzioni di tutti.
«Il signore è vostro figlio?» chiese a Mme des
Grassins.
Il reverendo guardò la madre con aria maliziosa.
«Sì, signore,» disse lei.
«Eravate dunque molto giovane quando stavate a
Parigi?» riprese Charles rivolgendosi ad Adolphe.
«Che volete, signore,» disse il prete, «li
mandiamo a Babilonia appena svezzati.»
Mme des Grassins rivolse al reverendo uno sguardo
interrogativo di una sorprendente profondità. «Bisogna venire in
provincia,» continuò il prete, «per trovare delle donne di trenta e
passa anni fresche come la signora, anche se hanno dei figli
laureandi in legge. Mi sembra di essere tornato al giorno in cui i
giovani e le dame montavano sulle sedie per vedervi ballare,
signora,» aggiunse voltandosi verso la sua avversaria. «Per me, i
vostri successi sono cosa di ieri...»
«Oh! vecchio scellerato!» disse fra sé Mme des
Grassins, «possibile che mi abbia capito?»
«Sembra che avrò molto successo a Saumur,» si
diceva Charles sbottonando la redingote, infilando una mano nel gilè
e lasciando vagare lo sguardo nel vuoto per imitare la posa in cui
Chantrey aveva ritratto lord Byron.
La disattenzione di papà Grandet, o, per meglio
dire, la preoccupazione che gli suscitava la lettura della missiva,
non sfuggi né al notaio né al presidente, i quali cercarono di
indovinarne il contenuto attraverso gli impercettibili movimenti del
viso del brav'uomo, che si trovava a essere ben illuminato dalla
candela. Al vignaiolo riusciva difficile mantenere l'impassibilità
abituale della sua fisionomia. Del resto, ognuno potrà immaginare
quale fosse l'espressione di quell'uomo mentre leggeva la terribile
lettera che segue:
«Fratello mio, fra poco saranno ventitré anni che
non ci vediamo. L'ultima volta parlammo del mio matrimonio e poi ci
separammo contenti l'uno dell'altro. Certo, non potevo prevedere che
un giorno saresti stato l'unico sostegno della famiglia, della cui
prosperità allora ti rallegravi. Quando avrai fra le mani questa
lettera, io non ci sarò più. Data la mia posizione non ho voluto
sopravvivere alla vergogna di un fallimento. Mi sono tenuto in
equilibrio sull'orlo del precipizio fino all'ultimo momento,
sperando di sopravvivere. Ora è necessario cadere. La bancarotta del
mio agente di cambio e quella di Roguin, il mio notaio, hanno
divorato le ultime risorse e mi hanno lasciato senza niente. Ho il
dolore di avere debiti per circa quattro milioni, e non posso
offrire più del venticinque per cento di attivo. I vini che ho
immagazzinato subiscono ora il disastroso calo di prezzo provocato
dall'abbondanza e dalla qualità dei vostri raccolti. Di qui a tre
giorni, si dirà a Parigi: "M. Grandet era un lestofante!" Io, uomo
onesto, finirò avvolto in un sudario d'infamia. Derubo mio figlio
del nome che macchio e della fortuna di sua madre. Quell'infelice
ragazzo che idolatro non sa nulla di ciò. Ci siamo detti addio con
tenerezza.
Per fortuna, ignorava che in quell'addio c'erano
gli ultimi palpiti della mia vita. Chissà se mi maledirà un giorno?
Fratello mio, fratello mio, la maledizione dei figli è spaventosa!
contro la nostra essi possono appellarsi, ma la loro è irrevocabile.
Grandet, tu sei il mio fratello maggiore, tu mi devi la tua
protezione: fa' che Charles non pronunci parole amare sulla mia
tomba! Fratello mio, se ti scrivessi con il sangue e le lacrime, il
dolore che riverso in questa lettera sarebbe minore; perché
piangerei, sanguinerei, sarei morto e non soffrirei più; ma io
soffro e contemplo la morte con occhi asciutti. Eccoti dunque padre
di Charles! egli non ha parenti dal lato materno, e tu sai perché.
Perché non ho rispettato i pregiudizi sociali? Perché ho ceduto
all'amore? Perché ho sposato la figlia naturale di un gran signore?
Charles non ha più una famiglia. O sfortunato figlio! figlio mio!...
Ascolta, Grandet, io non ti supplico per me; del resto, il tuo
patrimonio non è forse tanto grande da poter sopportare un'ipoteca
di tre milioni; ma per mio figlio! Sappi, fratello, che le mie mani
supplici si sono congiunte nel pensare a te. Grandet, in punto di
morte io ti affido Charles. Ora guardo la mie pistole senza dolore,
perché so che gli farai da padre. Mi amava molto, Charles; io ero
buono con lui, non lo contrariavo mai: non mi maledirà. Del resto,
lo vedrai tu stesso: è dolce, ha preso dalla madre, non ti darà mai
un dispiacere. Povero ragazzo! abituato alle gioie del lusso, non
conosce le privazioni alle quali la nostra miseria giovanile
costrinse te e me... Ed eccolo rovinato, solo! Sì, tutti gli amici
lo eviteranno, e sarò stato io la causa delle sue umiliazioni. Ah!
vorrei avere braccia abbastanza forti per scagliarlo in cielo,
accanto a sua madre. Follia! torno alla mia sfortuna, a quella di
Charles. L'ho mandato da te perché tu lo informi come si conviene
della mia fine e della sua sorte futura. Sii un padre per lui, ma un
buon padre. Non strapparlo di colpo alla sua vita oziosa, lo
uccideresti. Io gli chiedo in ginocchio di rinunciare ai crediti che
quale erede di sua madre potrebbe accampare verso di me. Ma è una
preghiera superflua; egli ha il senso dell'onore e capirà che non
deve unirsi ai miei creditori. Fa' che rinunci alla mia successione
in tempo utile. Attenuagli le dure condizioni di vita nelle quali lo
lascio, e, se ha ancora dell'affetto per me, digli a mio nome che
non tutto è perduto per lui. Sì, il lavoro, che ha salvato noi due,
può restituirgli quel patrimonio che io gli sottraggo; e che se
vuole ascoltare la voce del padre, che per lui vorrebbe uscire un
attimo solo dalla tomba, parta, vada nelle Indie! Fratello mio
Charles è un giovane onesto e coraggioso; mettigli insieme una
paccottiglia, ed egli morirebbe piuttosto che non restituirti i
primi fondi che gli presterai; perché tu glieli presterai, Grandet!
altrimenti avrai dei rimorsi. Ah! se mio figlio non trovasse in te
né aiuto né affetto, per l'eternità chiederei vendetta a Dio della
tua durezza. Se avessi potuto salvare qualcosa, avrei avuto il
diritto di rimettergli una somma in conto del patrimonio materno; ma
i pagamenti di fine mese hanno prosciugato tutte le mie risorse. Non
avrei voluto morire dubitando della sorte di mio figlio; avrei
voluto sentire delle solenni promesse nel calore della tua mano, che
mi avrebbe riscaldato; ma il tempo mi manca. Mentre Charles è in
viaggio, devo compilare il bilancio. Cerco di provare grazie alla
buona fede che regola i miei affari, che nel mio disastro non c'è né
colpa né disonestà. Anche questo non è un modo di occuparmi di
Charles? Addio, fratello mio. Che tu possa ricevere tutte le
benedizioni di Dio per la generosa tutela che ti affido, e che tu,
non ne dubito, accetterai. Ci sarà una voce che pregherà senza posa
per te nel mondo dove tutti un giorno devono andare, e dove io sono
già.
Victor-Ange-Guillaume GRANDET.»
«Allora, fate conversazione?» disse papà Grandet
piegando meticolosamente la lettera secondo le pieghe originali e
riponendola nella tasca del gilè. Guardò il nipote con un'aria umile
e timorosa, sotto la quale nascondeva emozioni e calcoli. «Vi siete
scaldato?»
«A perfezione, mio caro zio.»
«Ma dove sono le nostre donne?» disse lo zio,
avendo già dimenticato che il nipote dormiva in casa sua. In quel
momento, Eugénie e Mme Grandet rientrarono. «È tutto in ordine di
sopra?» chiese loro il brav'uomo ritrovando la calma.
«Sì, padre mio.»
«Ebbene, caro nipote, se siete stanco, Nanon vi
accompagnerà nella vostra stanza. Cribbio, non è certo un
appartamento da zerbinotti! ma vorrete scusare dei poveri vignaioli
sempre squattrinati. Il fisco ci mangia tutto.»
«Non vorremmo essere indiscreti, Grandet,» disse
il banchiere. «Forse vorrete discorrere con vostro nipote, perciò vi
auguriamo la buona sera. A domani.»
A queste parole, tutti si alzarono, e ognuno fece
la riverenza a modo suo. Il vecchio notaio andò a prendere la
lanterna che aveva lasciato sotto la porta, e tornò per accenderla
offrendosi di accompagnare i des Grassins. Mme des Grassins non
aveva previsto l'incidente che doveva far terminare la serata
anzitempo, per questo il suo domestico non era ancora arrivato.
«Volete farmi l'onore di accettare il mio
braccio, signora?» disse padre Cruchot a Mme des Grassins.
«Grazie, reverendo. Ho mio figlio,» rispose lei
seccamente.
«Le signore non vogliono compromettersi con me,»
disse il prete.
«Via, da' il braccio a padre Cruchot,» le disse
il marito.
Il prete condusse la graziosa dama a passo svelto
in modo da precedere gli altri.
«È proprio a posto quel giovane, signora,» le
disse stringendole il braccio. «Addio speranze: i giochi sono fatti!
Dovrete dire addio a Mlle Grandet, Eugénie andrà al parigino. A meno
che il cugino non sia innamorato di una parigina, vostro figlio
Adolphe troverà in lui il rivale più...»
«Lasciate stare, reverendo. Quel giovane non
tarderà ad accorgersi che Eugénie è una sciocca, una ragazza senza
freschezza. Non l'avete veduta? Stasera era gialla come una
cotogna.»
«L'avete già fatto notare al cugino, per caso?»
«E non mi sono fatta scrupolo...»
«State sempre accanto a Eugénie, signora, e non
avrete da dire molto a quel giovane contro la cugina, farà da solo
un confronto che...»
«Tanto per cominciare, mi ha promesso di venire a
cena da me dopodomani.»
«Ah! se voi voleste, signora...» disse il prete.
«E che cosa volete che voglia, reverendo?
Intendete forse darmi dei cattivi consigli? Non sono arrivata a
trentanove anni con una reputazione senza macchia, grazie a Dio, per
comprometterla, anche se si trattasse dell'impero del Gran Mogol.
Abbiamo un'età, l'uno e l'altra, in cui si sa che cosa significa
parlare. Devo dire che per essere un ecclesiastico, avete delle idee
proprio sconvenienti. Vergogna! Tutto questo è degno di Faublas.»
«Avete letto Faublas?»
«No, reverendo, volevo dire Le relazioni
pericolose.»
«Ah! questo è un libro molto più morale,» disse
ridendo il prete. «Ma voi mi ritenete perverso come un giovane
d'oggi. Volevo solo dire...»
«Osereste dire che non intendevate consigliarmi
qualche infamia? Non è chiaro? Se quel giovane, che è molto a posto,
ne convengo, mi facesse la corte, non penserebbe alla cugina. Lo so
che a Parigi ci sono delle brave madri che si comportano così per la
felicità e la fortuna dei loro figli; ma qui siamo in provincia,
reverendo.»
«Sì, signora.»
«E,» riprese lei, «io rifiuterei, Adolphe
medesimo rifiuterebbe cento milioni ottenuti a quel prezzo.»
«Signora, io non ho parlato di cento milioni.
Forse la tentazione avrebbe potuto essere troppo forte per l'uno e
per l'altra. Solo, credo che una donna onesta possa permettersi,
senza far nulla di male e rispettando il proprio onore, delle
piccole civetterie di poco conto, che fanno parte dei suoi doveri in
società, e che...»
«Voi credete?»
«Non dobbiamo, signora, cercare di piacerci gli
uni agli altri? ...Permettete che mi soffi il naso. Vi assicuro,
signora,» riprese, «che vi guardava con un'aria un po' più
lusinghiera di quella che aveva nel guardare me; ma gli perdono di
preferire alla vecchiaia la bellezza...»
«È chiaro,» diceva il presidente col suo vocione,
«che M. Grandet di Parigi manda il figlio a Saumur con intenti
decisamente matrimoniali...»
«Ma, allora, l'arrivo del cugino non è stato un
fulmine a ciel sereno,» rispondeva il notaio.
«Questo non vuol dire niente,» osservò M. des
Grassins, «il nostro brav'uomo è un tipo misterioso.»
«Des Grassins, amico mio, quel giovanotto l'ho
invitato a cena. Bisognerà che tu vada a invitare M. e Mme de
Larsonnière e i du Hautoy, con la bella signorina Hautoy, ben
inteso; sperando che almeno quel giorno si vesta bene! Per gelosia
la madre la manda sempre in giro infagottata! Spero, signori, che ci
farete l'onore di venire,» aggiunse fermando il corteo per voltarsi
verso i due Cruchot.
«Eccovi arrivata, signora,» disse il notaio.
Dopo aver salutato i tre des Grassins, i tre
Cruchot se ne tornarono verso le loro case, mettendo a profitto il
genio analitico tipico dei provinciali per studiare sotto tutti gli
aspetti gli avvenimenti di quella serata, che mutava le posizioni
sia dei cruchottiani sia dei grassinisti. L'ammirevole buon senso
che regolava le azioni di questi grandi calcolatori fece sentire
agli uni e agli altri la necessità di una temporanea alleanza contro
il nemico comune. Non dovevano forse di comune accordo impedire che
Eugénie si innamorasse del cugino, e che Charles pensasse alla
cugina? Il parigino avrebbe saputo resistere alle perfide
insinuazioni, alle calunnie zuccherose, alle maldicenze infarcite di
elogi, agli ingenui dinieghi che gli avrebbero fatto ronzare di
continuo nelle orecchie per ingannarlo?
Quando i quattro parenti furono rimasti soli
nella sala, M. Grandet disse al nipote: «Sarà meglio andare a letto.
È troppo tardi per parlare delle faccende che vi portano qui,
troveremo domani il momento opportuno. Noi facciamo colazione alle
otto. A mezzogiorno, mangiamo senza cerimonie un frutto e un
pezzetto di pane e beviamo un bicchiere di vino bianco poi ceniamo,
come fanno i parigini, alle cinque. Ecco gli orari. Se volete vedere
la città o i dintorni, siete libero come l'aria. Mi scuserete se gli
affari non mi permetteranno sempre di accompagnarvi. Forse vi
sentirete dire da tutti che sono ricco: "M. Grandet di qui, M.
Grandet di là!" Io li lascio dire, le loro chiacchiere non nuociono
per nulla alla mia reputazione. Ma la verità è che non ho un soldo e
alla mia età lavoro come un giovane garzone i cui unici beni sono
una cattiva pialla e due buone braccia. Forse voi stesso capirete
presto che cosa vale uno scudo quando bisogna sudarselo. Suvvia,
Nanon, le candele!»
«Spero, nipote mio, che troverete tutto ciò di
cui avete bisogno,» disse Mme Grandet; «ma, se vi occorresse
qualcosa potrete chiamare Nanon.»
«Cara zia, sarà difficile; credo di aver portato
tutto ciò che mi serve! Permettetemi di augurare una buona notte a
voi e anche alla mia giovane cugina.»
Charles prese dalle mani di Nanon una candela
accesa, una candela di cera, ma rimasta tanto a lungo in negozio da
aver preso una tinta giallastra così simile a quella delle candele
di sego che M. Grandet, non potendo sospettarne l'esistenza in casa
sua, non si accorse di tanto lusso.
«Vi faccio strada,» disse il brav'uomo.
Invece di uscire per la porta della sala che dava
sull'andito, Grandet fece la scena di passare dal corridoio che
separava la sala dalla cucina. Una porta a vento con un vetro ovale
chiudeva il corridoio dalla parte delle scale per attenuare il
freddo che vi si annidava. Ma d'inverno gli spifferi erano tali che,
nonostante i parafreddo sistemati sotto le porte della sala, a
stento il calore riusciva a mantenersi a un livello conveniente.
Nanon mise il chiavistello al portone, chiuse la sala e andò nella
stalla a sciogliere un cane lupo che abbaiava con voce roca come se
avesse una laringite. Quest'animale, di una notevole ferocia, non
riconosceva che Nanon. Erano due creature campagnole che si
capivano. Quando Charles vide le pareti giallastre e affumicate
della tromba della scala dove i gradini e la ringhiera tarlata
tremavano sotto il passo pesante dello zio, si sentì sempre più
preso dallo sgomento. Gli parve di trovarsi su un posatoio per i
polli. La zia e la cugina, verso le quali si voltò per interrogare i
loro visi, erano tanto abituate a quella scala che, non indovinando
il motivo del suo stupore, pensarono si trattasse di un'espressione
amichevole, e risposero con un bel sorriso. «Che diavolo mi manda a
fare qui mio padre?» si chiedeva. Arrivato sul primo pianerottolo,
vide tre porte dipinte in rosso etrusco e senza stipiti, che
sembravano confondersi con l'intonaco polveroso ed erano guarnite da
strisce di ferro bullonate, in bella vista, che avevano ciascuna
estremità foggiata a mo' di fiamma come lo erano le estremità della
lunga mascherina della serratura. Quella delle tre porte che si
trovava proprio in capo alle scale e che avrebbe dovuto dare accesso
al locale situato sopra la cucina, era chiaramente murata. In realtà
si entrava solo passando dalla camera di Grandet al quale quella
stanza serviva come studio. L'unica finestra da cui l'ambiente
prendeva luce dava sul cortile ma era sbarrata da una pesante
griglia di ferro. Nessuno, nemmeno Mme Grandet, aveva il permesso di
entrare, perché il brav'uomo voleva restarci solo, come un
alchimista davanti al suo fornello. Senza dubbio in quella stanza
era stato creato un qualche nascondiglio, là venivano stipati i
titoli di proprietà, là c'erano le bilance per pesare i luigi, là di
notte e in segreto venivano fatte le quietanze, le ricevute, i
conti; di modo che chi era in affari vedendo Grandet sempre pronto a
ogni evenienza era indotto a credere che avesse ai suoi ordini una
fata o un demone. Là, senza dubbio, quando Nanon russava da spaccare
il piancito, quando il cane lupo vegliava e sbadigliava in cortile,
quando Mme e Mlle Grandet erano addormentate ben bene, il vecchio
bottaio andava a coccolare, a carezzare, a covare, a far lievitare,
a imbottare il suo oro. Le pareti erano spesse, le imposte
impenetrabili. Lui solo aveva la chiave di questo laboratorio, dove,
si diceva, consultava delle mappe sulle quali erano disegnati i suoi
alberi da frutta e dove calcolava i suoi prodotti fino all'ultimo
arbusto, fino all'ultima fascina. L'ingresso della stanza di Eugénie
era di fronte a questa porta murata. Poi, in fondo al pianerottolo,
c'era l'appartamento degli sposi, che prendeva tutta la facciata
della casa. Mme Grandet aveva una camera vicina a quella di Eugénie
nella quale era possibile entrare da una porta vetrata. La camera
del padrone era separata da quella della moglie mediante un tramezzo
e dal misterioso studio mediante uno spesso muro. Papà Grandet aveva
fatto sistemare il nipote al secondo piano, nell'alta mansarda sopra
la sua camera, così da poterlo sentire se gli fosse venuto l'uzzolo
di andare in giro. Quando Eugénie e la madre furono in mezzo al
pianerottolo si scambiarono il bacio della buona notte; poi, dopo
aver rivolto a Charles qualche parola di congedo, fredda sulle
labbra ma certo calorosa nel cuore della ragazza, entrarono nelle
rispettive stanze.
«Eccovi nella vostra camera, nipote mio,» disse
papà Grandet a Charles aprendogli la porta. «Se aveste bisogno di
uscire, chiamate Nanon. Se non c'è lei, mio caro, il cane vi
sbranerebbe senza dire una parola. Dormite bene. Buona notte. Ah!
ah! le signore vi hanno acceso il fuoco,» riprese. In quel momento
arrivò la grande Nanon armata di uno scaldaletto. «Eccone un'altra,»
disse M. Grandet. «Credi che mio nipote sia una donna incinta? Porta
via quella brace, Nanon!»
«Ma, signore, le lenzuola sono umide, e questo
signore è proprio carino come una donna.»
«E va bene dal momento che te lo sei messo in
testa,» disse Grandet spingendola per le spalle, «ma sta' attenta a
non appiccare un incendio.» Poi l'avaro scese borbottando parole
incomprensibili.
Charles rimase senza fiato in mezzo ai suoi
bagagli. Dopo aver gettato un'occhiata sulle pareti della stanza a
mansarda tappezzate con quella carta gialla a fiori che si vede
nelle osterie dei sobborghi, su un camino di pietra calcarea
scanalata che metteva freddo solo a guardarlo, su certe sedie di
legno giallo guarnite di giunco verniciato che sembravano avere più
di quattro angoli, su un tavolo da notte aperto che avrebbe potuto
contenere un piccolo sergente di cavalleria, sul misero tappeto di
cimosa steso ai piedi di un letto a baldacchino il cui drappeggio
tremava come se stesse per cadere, roso dalle tarme, guardò con
molta serietà la grande Nanon e le disse: «Ah, beh! Ragazza mia,
sono proprio in casa di M. Grandet, ex sindaco di Saumur, fratello
di M. Grandet di Parigi?»
«Sì, signore, siete in casa di un signore
amabilissimo, dolcissimo, perfettissimo. Volete che vi aiuti a
disfare i bagagli?»
«Ma certo, mio veterano! Per caso non avete
servito fra i marinai della guardia imperiale?»
«Oh! oh! oh! oh!» disse Nanon, «che cosa sono i
marinai della guardia? È roba salata? E va per mare?»
«Tenete, prendete la vestaglia che è in quella
valigia. Questa è la chiave.»
Nanon rimase piena di meraviglia nel vedere una
vestaglia di seta verde a fiori d'oro e con disegni antichi.
«Vi mettete questa per coricarvi?» chiese.
«Sì.»
«Santa Vergine, sarebbe un bel paliotto per
l'altare della parrocchia. Mio caro e bel signore, regalatela alla
chiesa, vi salverete l'anima, mentre tenendola la perderete. Oh,
come state bene così. Vado a chiamare la signorina perché vi
ammiri.»
«Suvvia, Nanon, poiché Nanon siete, volete stare
zitta? Lasciatemi andare a letto, sistemerò domani le mie cose; e se
la mia vestaglia vi piace tanto, vi darò il modo di salvare l'anima.
Sono troppo buon cristiano per non regalarvela quando partirò, e voi
potrete farne tutto quello che vorrete.»
Nanon rimase impietrita a guardare Charles senza
riuscire a credere alle sue parole.
«Regalarmi quel capo!» disse uscendo. «Il
signorino sta già sognando. Buona notte.»
«Buona notte, Nanon.»
«Che cosa sono venuto a fare qui?» si chiese
Charles mentre prendeva sonno. «Mio padre non è uno sciocco, questo
viaggio deve avere uno scopo. Bah! A domani le questioni serie come
diceva non ricordo più quale imbecille d'un greco.»
«Santa Vergine! come è bello mio cugino!» si
disse Eugénie interrompendo le preghiere che per quella sera
rimasero a metà.
Mme Grandet mentre si coricava non pensava a
nulla. Attraverso la porta di comunicazione che si trovava al centro
del tramezzo, sentiva l'avaro che camminava in lungo e in largo
nella sua stanza. Come fanno tutte le mogli timide, ella aveva
studiato il carattere del suo signore. Se il gabbiano prevede la
tempesta, ella, da segni impercettibili, intuiva la tempesta
interiore che agitava Grandet, e di conseguenza, per usare
un'espressione sua, faceva la morta. Grandet guardava la porta dello
studio foderata all'interno di lamiera, e si diceva: «Che idea
assurda ha avuto mio fratello di lasciarmi in eredità il figlio!
Bella successione! Non ho nemmeno venti scudi da dargli. E che sono
poi venti scudi per quel vagheggino, che guardava il mio barometro
come se avesse voluto buttarlo nel fuoco?»
Pensando alle conseguenze di quel doloroso
testamento, Grandet era forse più agitato di quanto lo fosse stato
suo fratello al momento di scriverlo.
«Mi lascerà davvero quell'abito d'oro?...» diceva
Nanon, che si addormentò abbigliata con il suo paliotto, e sognò
fiori, tappeti, damaschi per la prima volta in vita sua, proprio
come Eugénie sognava l'amore.
[3]
Nella casta e monotona vita delle fanciulle
arriva un momento in cui il sole riscalda con i suoi raggi la loro
anima, in cui il fiore acquista un significato, in cui le
palpitazioni del cuore comunicano al cervello un calore fecondo, e
amalgamano le idee in un vago desiderio; giorno di innocente
melanconia e di gioia soave! Quando i bambini cominciano a vedere,
sorridono; quando una fanciulla intravede il sentimento nella
natura, ella sorride come sorrideva da bambina. Se la luce è il
primo amore della vita, l'amore non è la luce del cuore? Per Eugénie
era arrivato il momento di veder chiaro nelle cose di questo mondo.
Mattiniera come tutte le ragazze di provincia, si alzò di buon'ora,
disse le preghiere, e fece la toeletta, un'occupazione che, adesso,
cominciava ad avere un senso. Per prima cosa si spazzolò i capelli
castani, li avvolse in un grosso chignon sul capo con molta
attenzione per evitare che le trecce si sciogliessero, e mise nella
sua acconciatura una simmetria che accentuò il timido candore del
viso, armonizzando la semplicità della pettinatura con l'ingenuità
dei tratti. Mentre si lavava più volte le mani con acqua pura e
semplice che le induriva e le arrossava la pelle, guardava le sue
belle braccia rotonde e si chiedeva che cosa facesse il cugino per
avere le mani di un bianco così tenero, le unghie così ben
modellate. Mise delle calze nuove e le sue scarpe più belle. Si
abbottonò ben bene senza saltare nemmeno un'asola. Infine
desiderando per la prima volta in vita sua di far bella figura,
conobbe la felicità di indossare un abito in ordine, ben fatto, e
che la rendeva attraente. Quando ebbe terminato la toeletta, sentì
suonare l'orologio della parrocchia e si stupì di udire solo sette
rintocchi. Il desiderio di avere tutto il tempo per vestirsi con
cura l'aveva fatta alzare troppo presto. Non conoscendo l'arte di
aggiustare e riaggiustare dieci volte un ricciolo, Eugénie incrociò
le braccia in santa pace e sedette alla finestra a contemplare il
cortile, il piccolo giardino e le alte terrazze che lo sovrastavano;
una veduta melanconica, limitata, ma non priva di quella misteriosa
bellezza che è dei luoghi solitari o della natura selvaggia. Accanto
alla cucina c'era un pozzo con la vera e la carrucola era attaccata
a un braccio di ferro curvo che una vite avviluppava con i pampini
risecchiti, arrossati, bruciati dalla stagione; di lì, il tralcio
tortuoso raggiungeva il muro, vi si abbarbicava, correva lungo la
casa e finiva in una legnaia dove i ciocchi erano sistemati in
bell'ordine come i libri nella libreria di un bibliofilo. Il
selciato del cortile presentava quelle sfumature nerastre che col
passare del tempo sono causate dai muschi, dalle erbe e dallo scarso
passaggio. I muri spessi erano velati di verde con lunghe strisce
ondulate di color bruno. Infine, gli otto gradini che spiccavano sul
fondo del cortile e conducevano alla porta del giardino erano
malconci e sepolti dalla vegetazione come la tomba di un cavaliere
sotterrato dalla vedova al tempo delle crociate. Sopra un filare di
pietre tutte corrose si levava un cancello di legno fradicio, mezzo
sgangherato per la vecchiaia, ma al quale si aggrappavano a
capriccio delle piante rampicanti. Su un lato e sull'altro della
porta a graticcio si protendevano i rami contorti di due meli
rinsecchiti. Tre viali paralleli, in terra e separati da aiuole
delimitate da siepi di bosso, formavano il giardino che, in fondo
alla terrazza, terminava sotto la chioma di alcuni tigli. A un capo,
dei cespugli di lamponi; all'altro, un enorme noce che protendeva i
rami fin sullo studio del bottaio. La giornata limpida e il bel sole
frequenti in autunno sulle rive della Loira cominciavano a dissipare
il velo lasciato dalla notte sugli oggetti pittoreschi, sui muri,
sulle piante del giardino e del cortile. Eugénie scoprì un fascino
del tutto nuovo in quelle cose che prima per lei erano così comuni.
Mille pensieri confusi le nascevano nell'animo, e vi crescevano man
mano che fuori i raggi del sole si facevano più vivi. Ella provò
infine quel senso di piacere vago, inesplicabile, che avviluppa lo
spirito, come una nube avvilupperebbe il corpo. Le sue riflessioni
si accordavano con i particolari di quell'ambiente singolare, e le
armonie del suo cuore si sposarono con le armonie della natura.
Quando il sole raggiunse un tratto del muro da
cui scendevano dei capelvenere dal fogliame folto con i colori
cangianti come la gola dei piccioni, raggi celesti di speranza
illuminarono l'avvenire per Eugénie, che ormai era immersa nella
contemplazione di quel muro, dei fiori pallidi, delle campanule
azzurre e delle erbe appassite, cui si mescolava un ricordo dolce
come quelli dell'infanzia. Il fruscio che in quel cortile sonoro
produceva ogni foglia che si staccava dal ramo dava una risposta
agli interrogativi segreti della fanciulla, che sarebbe rimasta lì
tutta la giornata senza accorgersi del trascorrere delle ore. Poi
vennero i moti tumultuosi dell'animo. Ella si alzava spesso si
poneva davanti allo specchio e si guardava, come un autore onesto
contempla la propria opera per criticarsi e ingiuriarsi.
«Non sono abbastanza bella per lui.» Tale era il
pensiero di Eugénie, un pensiero umile e fertile di sofferenze. La
povera fanciulla non si rendeva giustizia; ma la modestia, o meglio
la paura, è una delle prime virtù dell'amore. Eugénie apparteneva, è
vero, a quel tipo di ragazze ben piantate, come se ne trovano nella
piccola borghesia, e le cui attrattive sembrano volgari; ma, se ella
non rassomigliava alla Venere di Milo, le sue forme erano nobilitate
da quel soave sentimento cristiano che purifica la donna e le dà una
distinzione sconosciuta agli scultori antichi. Aveva la testa
grande, la fronte mascolina, ma delicata, del Giove di Fidia, e gli
occhi grigi ai quali la castità della vita, riversandovisi tutta
intera, conferiva una particolare luminosità. I tratti del viso
rotondo, un tempo fresco e rosa, erano stati appesantiti da un
vaiolo abbastanza benigno da non lasciare tracce, ma che aveva
distrutto il vellutato della pelle, rimasta tuttavia ancora così
delicata e fine, che il tenero bacio della madre vi lasciava per un
attimo un segno rosso. Il naso era un po' troppo marcato, ma si
accordava con la bocca color rosso di minio, le cui mille
increspature erano piene d'amore e di bontà. Il collo era di una
rotondità perfetta. Il seno pieno, accuratamente velato, attirava lo
sguardo e faceva sognare; mancava forse un poco di quella grazia che
conferisce l'abito, ma, per gli intenditori, la non flessibilità di
quel busto sostenuto costituiva un'attrattiva. Eugénie, grande e
forte, non aveva dunque quella bellezza che piace alle masse; ma era
bella di quella bellezza così facile da riconoscere e della quale si
invaghiscono soltanto gli artisti. Il pittore che avesse cercato su
questa terra un tipo con la celeste purezza di Maria, che avesse
chiesto alla natura femminile tutta intera quegli occhi modesti e
fieri intuiti da Raffaello, quelle linee verginali spesso dovute
alla casualità della concezione, ma che solo una vita cristiana e
pudica può conservare o fare acquistare; quel pittore, innamorato di
un sì raro modello, avrebbe trovato nel viso di Eugénie la nobiltà
innata e inconsapevole; avrebbe visto sotto la fronte serena un
mondo d'amore, e, nel taglio degli occhi, nei movimenti abituali
delle palpebre, un non so che di divino. I suoi tratti, i contorni
del viso, che l'espressione del piacere non aveva mai né alterato né
stancato, somigliavano alla linea dell'orizzonte che si delinea
dolcemente in lontananza sulle acque dei laghi tranquilli. Quella
fisionomia calma, colorita, aureolata di luminosità come un bel
fiore sbocciato, riposava l'animo, trasmetteva il fascino della
coscienza che vi si rifletteva e attirava lo sguardo. Eugénie era
ancora sulla sponda della vita dove fioriscono le illusioni
infantili, dove si colgono le margherite con una gioia più tardi
sconosciuta. Perciò, guardandosi nello specchio si disse, senza
sapere ancora che cosa fosse l'amore: «Sono troppo brutta, non farà
caso a me!»
Poi aprì la porta della camera che dava sulle
scale, e allungò il collo per ascoltare i rumori della casa. «Ancora
non si alza,» pensò udendo la tosse mattutina di Nanon, e la brava
donna che andava, veniva, spazzava la sala, accendeva il fuoco,
legava il cane e parlava alle bestie nella scuderia. Allora Eugénie
scese e corse da Nanon che stava mungendo la vacca.
«Nanon, cara Nanon, fa' un po' di panna per il
caffe di mio cugino.»
«Ma, signorina, bisognava pensarci ieri,» disse
Nanon, scoppiando a ridere. «Non posso fare la panna. Vostro cugino
è carino, carino, veramente carino. Voi non l'avete veduto con la
vestaglia di seta e d'oro. Io sì che l'ho visto, io. Porta della
biancheria fine come la cotta del signor parroco.»
«Allora, Nanon, fai una focaccia.»
«E chi mi darà la legna per il forno, e la
farina, e il burro?» disse Nanon, che, nella sua qualità di primo
ministro di Grandet, assumeva a volte un'importanza enorme agli
occhi di Eugénie e della madre. «C'è bisogno di derubarlo,
quell'uomo, per far festa a vostro cugino? Chiedetegli il burro, la
farina, la legna, è vostro padre, può darvi tutto ciò che vuole.
Guardate, ecco che scende per occuparsi delle provviste...»
Sentendo tremare la scala sotto il passo del
padre, Eugénie fuggì in giardino, tutta spaventata. Ella provava già
gli effetti di quel profondo pudore e di quella particolare
consapevolezza della felicità che ci fa supporre, forse non senza
ragione, di avere i pensieri stampati sulla fronte e quindi ben
esposti agli sguardi di tutti. Rendendosi conto alla fine che la
casa paterna era fredda e spoglia, la povera ragazza provò la rabbia
di non poterla sistemare in armonia con l'eleganza del cugino. Sentì
un bisogno irrefrenabile di fare qualcosa per lui: ma che cosa? Non
ne aveva la minima idea. Ingenua e schietta, ella si abbandonava
alla propria natura angelica senza diffidare né delle sue
impressioni né dei suoi sentimenti. La sola vista del cugino aveva
svegliato in lei le inclinazioni naturali della donna, tanto più
forti in quanto, avendo raggiunto il ventitreesimo anno, ella era
nella pienezza dell'intelligenza e dei desideri. Per la prima volta
il cuore le si riempì di terrore alla vista del padre, lo considerò
come l'arbitro del suo destino, e si sentì in colpa perché gli
taceva una parte dei suoi pensieri. Si mise a camminare di buon
passo, meravigliandosi di respirare un'aria più pura, di sentire più
vivificanti i raggi del sole e di trarne un calore morale, una vita
nuova. Mentre ella cercava il modo e la maniera per ottenere la
focaccia, fra la grande Nanon e Grandet scoppiò una disputa, cosa
rara fra i due quanto le rondini d'inverno. Munito di chiavi, il
brav'uomo era venuto a misurare i viveri necessari per i pasti della
giornata.
«È avanzato pane da ieri?» disse a Nanon.
«Nemmeno una briciola, signore.»
Grandet prese una grossa pagnotta rotonda, ben
infarinata, modellata in una di quelle ceste piatte che nell'Angiò
si usano per panificare, e stava per tagliarla, quando Nanon gli
disse: «Oggi siamo in cinque, signore.»
«È vero,» rispose Grandet, «ma la pagnotta pesa
sei libbre, ne avanzerà. Del resto, i giovanotti di Parigi, lo
vedrai, non mangiano pane.»
«E che,» disse Nanon, «mangiano solo il
lecchetto?»
Il lecchetto, parola del lessico popolare, indica
ciò che si accompagna al pane, dal burro spalmato, lecchetto
volgare, fino alle marmellate di pesca duracina, il più raffinato
dei lecchetti; e tutti coloro che da bambini hanno leccato il
lecchetto e lasciato il pane capiranno tutto il significato della
parola. «No,» rispose Grandet, «non mangiano né lecchetto né pane.
Sono come delle ragazze da marito.»
Infine, dopo aver ordinato con parsimonia il menu
quotidiano, il brav'uomo si stava dirigendo verso il frutteto, non
senza aver prima chiuso i battenti della dispensa, quando Nanon lo
fermò per dirgli: «Signore, datemi un po' di farina e di burro,
preparerò una focaccia per i ragazzi.»
«Hai intenzione di saccheggiare la casa perché è
arrivato mio nipote?»
«Non pensavo a vostro nipote più che al vostro
cane, e non più di quanto ci pensiate voi stesso... Lo vedete? Mi
avete dato solo sei zollette di zucchero! ce ne vogliono otto.»
«Ah, beh! Nanon, non ti avevo mai vista così. Si
può sapere che ti passa per la testa? Sei forse la padrona, qui? Non
ti darò più di sei zollette di zucchero.»
«E allora, vostro nipote con che cosa
inzucchererà il caffe?»
«Con due zollette; io ne farò a meno.»
«Voi farete a meno dello zucchero, alla vostra
età! Preferirei comperarvelo con i miei soldi.»
«Occupati di ciò che ti riguarda.»
Malgrado il ribasso dei prezzi, lo zucchero
rimaneva, agli occhi del bottaio, la più preziosa fra le derrate
coloniali, per lui valeva sempre sei franchi la libbra. L'impegno di
contenerne il consumo, preso sotto l'impero, era diventata la più
irrinunciabile delle sue abitudini. Ogni donna, anche la più
sciocca, sa usare l'astuzia per arrivare ai suoi scopi: Nanon lasciò
cadere il problema dello zucchero per ottenere la focaccia.
«Signorina,» gridò attraverso la finestra, «è
vero che volete la focaccia?»
«No, no,» rispose Eugénie.
«E va bene, Nanon,» disse Grandet sentendo la
voce della figlia, «prendi.» Aprì la madia dove c'era la farina,
gliene diede una misura, e aggiunse qualche oncia di burro al pezzo
che aveva già tagliato.
«Ci vorrà della legna per scaldare il forno,»
disse l'implacabile Nanon.
«Prendine quanta te ne serve,» rispose
malinconicamente Grandet; «però, se farai una torta di frutta e
cuocerai tutta la cena al forno, così non dovrai accendere due
fuochi.»
«Senti un po'!» esclamò Nanon, «non avete certo
bisogno di dirmelo.» Grandet lanciò al suo fedele ministro
un'occhiata quasi paterna. «Signorina,» gridò la cuoca, «avremo la
focaccia.»
Papà Grandet tornò carico di frutta e ne sistemò
una prima vassoiata sul tavolo di cucina. «Avete visto, signore,»
gli disse Nanon, «che begli stivali ha vostro nipote? Che cuoio, e
che buon odore! Con che cosa bisognerà pulirli? Devo dargli quel
vostro lucido all'uovo?»
«Nanon, credo che l'uovo sciuperebbe quel cuoio
lì. Eppoi, digli che non sai come lucidare il marocchino... si, è
marocchino; si comprerà lui a Saumur e ti porterà il lucido adatto
ai suoi stivali. Ho sentito dire che aggiungono dello zucchero al
lucido per renderli brillanti.»
«È buono da mangiare?» disse la serva,
avvicinando gli stivali al naso. «Senti, senti! odorano come l'acqua
di Colonia della signora! Ah! è buffo.»
«Buffo!» disse il padrone, «trovi buffo che un
paio di stivali costino più di quel che vale colui che li porta?»
«Signore,» disse Nanon al secondo viaggio del
padrone, che aveva chiuso la dispensa della frutta, «che ne direste
di fare una o due volte la settimana un po' di lesso per via di
vostro...?»
«Sì.»
«Bisognerà che vada dal macellaio.»
«Non ce n'è bisogno; fai brodo di gallina, te la
daranno i fittavoli. Dirò a Cornoiller di uccidere dei corvi. È una
selvaggina, quella, che fa il miglior brodo del mondo.»
«È vero, signore, che i corvi mangiano i morti?»
«Sei una stupida, Nanon! Mangiano, come tutti,
quello che trovano. Forse che anche noi non viviamo di morti? Che
altro sono le eredità?» Papà Grandet, non avendo altri ordini da
impartire, cavò di tasca l'orologio, e, vedendo che poteva disporre
ancora di una mezz'ora prima di colazione, prese il cappello, andò
ad abbracciare la figlia e le disse: «Vuoi venire a fare due passi
sui miei prati lungo la Loira? Ho qualcosa da fare laggiù.»
Eugénie andò a mettersi il cappello di paglia
cucita, foderato di taffettà rosa; poi padre e figlia scesero la
strada tortuosa fino alla piazza.
«Dove ve ne andate così di buon mattino?» chiese
il notaio Cruchot, incontrando Grandet.
«A vedere certe cose,» rispose il brav'uomo per
nulla convinto della passeggiata mattutina del suo amico.
Il notaio sapeva per esperienza che quando papà
Grandet andava a vedere certe cose c'era sempre da guadagnarci a
tenergli dietro. Perciò, lo accompagnò.
«Venite, Cruchot?» disse Grandet al notaio. «Voi
siete mio amico; ora vi dimostrerò quale stupidaggine sia piantare
pioppi su dei buoni terreni...»
«Ma allora non ricordate più i sessantamila
franchi che avete ricavato da quelli dei vostri prati sulla Loira?»
disse Cruchot spalancando gli occhi per lo stupore. «Avete avuto una
bella fortuna!... tagliare agli alberi quando a Nantes scarseggiava
il legno dolce e venderli a trenta franchi!»
Eugénie ascoltava senza sapere di essere nel
momento più importante della sua vita, e senza sapere che il notaio
stava per far pronunciare nei suoi confronti una sentenza paterna e
sovrana. Grandet era arrivato ai bellissimi prati che possedeva
lungo la Loira, e dove trenta braccianti erano occupati a ripulire,
colmare, livellare il terreno sul quale un tempo sorgevano i pioppi,
«Notaio Cruchot, guardate quanto terreno prende un pioppo,» disse
Grandet. «Jean,» gridò a un bracciante, «mi...mi...misura con la
tesa in tu...tu...tutti i sensi!»
«Quattro volte otto piedi,» rispose il bracciante
dopo aver prese le misure.
«Trentadue piedi perduti,» disse Grandet a
Cruchot. «Su questo filare avevo trecento pioppi, è così? Ora...tre
ce...ce...ce...nto volte trentad...ue pie...piedi me ne
ru...ru...ru...ru...bavano cin...quecento di fieno; aggiungetene due
volte tanto sui lati, millecinquecento; i filari di mezzo
altrettanto. Dunque, di...di...diciamo mille balle di fieno.»
«Va bene,» disse Cruchot per aiutare l'amico,
«mille balle di fieno valgono circa seicento franchi.»
«Di...di...diciamo mi...ii...lle duecento con i
tre o quattrocento franchi del secondo taglio. Ora,
ca...ca...ca...calcolate qua...qua...quanto re...re...rendono
mi...lleduecento franchi l'anno du...du...durante quaranta anni con
gli in...in...interessi com...com...composti
che...che...che...le...i sa.»
«Vada per sessantamila franchi,» disse il notaio.
«D'accordo! Sa...sa...saranno so...so...solo
sessantamila franchi.» Ebbene, riprese il vignaiolo senza
balbettare, «duemila pioppi di quaranta anni non mi renderebbero
cinquantamila franchi. C'è remissione. E questo l'ho scoperto io,»
disse Grandet gonfiando il petto d'orgoglio. «Jean,» continuò,
«riempi le buche tranne che dalla parte della Loira, dove pianterai
i pioppi che ho comperato. Piantandoli lungo il fiume si nutriranno
a spese del governo,» aggiunse voltandosi verso Cruchot e imprimendo
alla verruca del naso un lieve movimento che equivaleva al più
ironico dei sorrisi.
«È chiaro: i pioppi vanno piantati solo su
terreni magri,» disse Cruchot, sbalordito dai calcoli di Grandet.
«Siiis...signore,» rispose con ironia il bottaio.
Eugénie che contemplava il bellissimo paesaggio
della Loira senza ascoltare i calcoli del padre, sentendo Cruchot
dire qualcosa al suo cliente prestò orecchio alle parole del notaio:
«E così avete fatto venire un genero da Parigi; in tutta Saumur non
si parla che di vostro nipote. Avrò presto un contratto da
preparare, papà Grandet?»
«Vo...vo...voi siete u...u...uscito di
bu...buon'ora pe...per dirmi questo,» riprese Grandet accompagnando
le parole con un movimento della verruca. «Ebbene, mio vecchio
came...rata, sarò franco e vi dirò quello che vo...lete sa...sapere.
Vedete, preferirei ge...gettare mia fi...fi...figlia nella Loira
piuttosto che da...rla a suo cu...u...ugino; po...po...tete
di...dirlo a tutti. Anzi no, lasciate che la ge...nte
chi...acchieri.»
Questa risposta fece venire le vertigini a
Eugénie. Le vaghe speranze che cominciavano a germogliare nel suo
cuore, fiorirono all'improvviso, si realizzarono e formarono un
fascio di fiori che ella vide recisi e gettati a terra. Dal giorno
innanzi aveva cominciato ad attaccarsi a Charles con tutti quei
legami di felicità che uniscono le anime; ormai dunque la sofferenza
le avrebbe nutrite. Non è forse nel nobile destino della donna
essere più colpita dalle tristezze della miseria che dagli splendori
della ricchezza? Come aveva potuto il sentimento paterno estinguersi
in fondo al cuore del padre? Di quale mai delitto era colpevole
Charles? Mistero! Il suo amore nascente, che era un mistero tanto
profondo, si avvolgeva già nei misteri. Tornò con le gambe tremanti,
e, arrivando nella vecchia strada buia cosi allegra per lei, la
trovò triste e respirò la malinconia che il tempo e le cose vi
avevano impresso. Non le mancava alcuno degli insegnamenti
dell'amore. A qualche passo da casa precedette il padre e lo attese
sulla porta dopo aver bussato. Ma Grandet che aveva notato in mano
al notaio un giornale ancora con la fascetta, gli aveva detto: «A
quanto stanno i titoli?»
«Voi non volete darmi retta, Grandet,» gli
rispose Cruchot.
«Comprateli alla svelta, c'è ancora da
guadagnarci un venti per cento in due anni a parte gli interessi a
un tasso eccellente, cinquemila lire di rendita per ottantamila
franchi. I titoli stanno a ottanta franchi e cinquanta centesimi.»
«Si vedrà,» rispose Grandet massaggiandosi il
mento.
«Mio Dio!» disse il notaio, che aveva aperto il
giornale.
«E allora?» esclamò Grandet nel momento in cui
Cruchot gli metteva il giornale sotto gli occhi dicendo: «Leggete
quest'articolo.»
M. Grandet, uno dei commercianti più stimati di
Parigi, si è bruciato le cervella ieri, dopo aver fatto la sua
solita apparizione alla Borsa aveva inviato al presidente della
Camera dei deputati le dimissioni e si era anche dimesso dalla
carica di giudice del tribunale di commercio. È stato rovinato dal
fallimento dei signori Roguin e Souchet, il suo agente di cambio e
il suo notaio. La considerazione di cui godeva M. Grandet e il suo
credito erano comunque tali che avrebbe senza dubbio trovato aiuti
sulla piazza di Parigi. È doloroso che un uomo onorato abbia ceduto
a un momento di disperazione ecc.
«Lo sapevo,» disse il vecchio vignaiolo al
notaio.
Queste parole gelarono Cruchot, che, sebbene come
notaio fosse abituato a essere impassibile, sentì un brivido nella
schiena al pensiero che il Grandet di Parigi aveva forse mendicato
invano i milioni del Grandet di Saumur.
«E suo figlio, così felice ieri...?»
«Non sa ancora niente,» rispose Grandet con la
stessa calma.
«Addio, signor Grandet,» disse Cruchot, che capì
tutto e andò a rassicurare il presidente de Bonfons.
Entrando in casa, Grandet trovò la colazione
pronta. Con quel trasporto che ci procura un dolore segreto Eugénie
saltò, per baciarla, al collo di Mme Grandet, che, già seduta sulla
sua sedia rialzata, si stava facendo delle maniche di maglia per
l'inverno.
«Potete mangiare,» disse Nanon, che scendeva gli
scalini a quattro a quattro, «il ragazzo dorme come un cherubino.
Come è carino con gli occhi chiusi! Sono entrata, l'ho chiamato.
Beh, niente!»
«Lascialo dormire,» disse Grandet, «oggi si
sveglierà sempre troppo presto per apprendere le cattive notizie che
lo aspettano.»
«Che cosa è successo?» chiese Eugénie mettendo
nel caffe due zollette di zucchero pesanti non si sa quanti grammi,
che il brav'uomo si divertiva a tagliare lui stesso nei momenti
liberi. Mme Grandet, che non aveva osato fare quella domanda, guardò
il marito.
«Suo padre si è fatto saltare le cervella.»
«Mio zio?...» disse Eugénie.
«Povero giovane!» esclamò Mme Grandet.
«Sì, povero,» riprese Grandet, «non ha più un
soldo.»
«E dire che dorme come se fosse il re della
terra,» osservò Nanon con voce dolce.
Eugénie smise di mangiare. Il cuore le si strinse
come quando la compassione, suscitata dalla sventura dell'uomo
amato, invade tutto il corpo di una donna. La fanciulla scoppiò a
piangere.
«Nemmeno conoscevi tuo zio, perché piangi?» le
disse il padre lanciandole una di quelle occhiate da tigre affamata
che senza dubbio lanciava ai suoi mucchi d'oro.
«Ma, signore,» disse la serva, «chi non
proverebbe pietà per quel povero giovane che dorme come un ciocco e
ignora il suo destino?»
«Non sto parlando con te, Nanon! tieni a freno la
lingua.»
Eugénie apprese in quel momento che la donna che
ama deve sempre dissimulare i propri sentimenti. Non rispose.
«Fino al mio ritorno non gli direte nulla, spero,
signora Grandet,» continuò il vecchio. «Devo andare a far sistemare
il fossato dei miei prati lungo la strada. Tornerò a mezzogiorno per
la seconda colazione, e parlerò con mio nipote dei suoi affari.
Quanto a te, signorina Eugénie, se è per quel vagheggino che piangi,
puoi anche smettere, ragazza mia. Partirà al più presto per le
Indie. Non lo vedrai più...»
Il padre prese i guanti dalla tesa del cappello,
li infilò con la calma abituale, li calzò ben bene incrociando fra
loro le dita delle due mani, e uscì.
«Ah! mamma, soffoco!» gridò Eugénie quando fu
rimasta sola con la madre. «Non ho mai sofferto tanto.» Mme Grandet,
vedendo impallidire la figlia, aprì la finestra e le fece respirare
una boccata d'aria fresca. «Mi sento meglio,» disse dopo un po'
Eugénie.
Questa reazione nervosa in un carattere fino ad
allora apparentemente calmo e freddo colpì Mme Grandet che osservò
la figlia con quella intuizione e comprensione che hanno le madri
per l'oggetto della loro tenerezza, e indovinò tutto. Ma, in verità,
la vita delle famose sorelle ungheresi, attaccate l'una all'altra a
causa di un errore della natura, non era stata più intimamente unita
di quella di Eugénie e della madre, sempre insieme in quel vano di
finestra, insieme in chiesa, insieme quando dormivano respirando la
medesima aria.
«Povera piccola!» disse Mme Grandet prendendo la
testa di Eugénie per appoggiarsela sul seno.
A queste parole, la fanciulla alzò il capo,
interrogò con lo sguardo la madre, ne scrutò i pensieri più riposti
e le disse: «Perché mandarlo nelle Indie? Se è infelice, non
dovrebbe restare qui? non è il nostro parente più prossimo?»
«Si, bambina mia, sarebbe naturale; ma tuo padre
ha le sue ragioni, noi dobbiamo rispettarle.»
Madre e figlia rimasero in silenzio sedute, una
sulla sedia rialzata, l'altra sulla poltroncina; e, tutte e due,
ripresero il loro lavoro. Piena di riconoscenza per l'ammirevole
comprensione che le aveva dimostrato la madre, Eugénie le baciò una
mano dicendo: «Come sei buona, mamma mia cara!» Queste parole
illuminarono il vecchio volto materno segnato da lunghi dolori. «Ti
piace?» chiese Eugénie.
Mme Grandet rispose con un sorriso; poi, dopo un
attimo di silenzio, disse a bassa voce: «Dunque lo ami di già? È
male.»
«Male,» riprese Eugénie, «perché? A te piace,
piace a Nanon, perché non dovrebbe piacere a me? Vieni, mamma,
prepariamo la tavola per la sua colazione.» Posò il lavoro e la
madre fece altrettanto dicendole: «Sei pazza!» Ma era felice di
giustificare la follia della figlia condividendola. Eugénie chiamò
Nanon.
«Che altro vuole, signorina?»
«Nanon, farai un po' di panna per mezzogiorno?»
«Ah! per mezzogiorno, si,» rispose la vecchia
domestica.
«Bene, fagli del caffe molto forte, ho sentito
dire da M. des Grassins che a Parigi il caffe lo fanno molto forte.
Metticene parecchio.»
«E dove vuole che lo prenda?»
«Compralo.»
«E se il padrone mi incontra?»
«È sui campi.»
«Corro. Ma M. Fessard quando mi ha dato la
candela mi ha chiesto se avevamo in visita i tre magi. Tutta la
città verrà a sapere le nostre sregolatezze.»
«Se tuo padre si accorge di qualcosa,» disse Mme
Grandet «è capace di picchiarci.»
«Ci batta pure, riceveremo i suoi colpi in
ginocchio.»
Per tutta risposta Mme Grandet alzò gli occhi al
cielo. Nanon prese la cuffia e uscì. Eugénie tirò fuori della
biancheria candida, andò a prendere qualche grappolo d'uva che si
era divertita ad appendere a delle funi in granaio; camminò con
passo leggero nel corridoio per non svegliare il cugino, e non seppe
trattenersi dall'ascoltare attraverso la porta il respiro che gli
usciva dalle labbra con cadenza regolare. «Mentre lui dorme
l'infelicità veglia,» si disse. Prese le foglie di vite più verdi,
sistemò i suoi grappoli con l'arte di un esperto capo dispensiere, e
li portò trionfalmente in tavola. In cucina, fece man bassa delle
pere contate dal padre, e le dispose a piramide in mezzo alle
foglie. Andava, veniva, trottava, saltava. Se avesse potuto avrebbe
prosciugato la casa del padre; ma questi aveva le chiavi di tutto.
Nanon tornò con due uova fresche. Vedendo le uova, Eugénie provò
l'impulso di saltarle al collo.
«Il fittavolo della Lande le aveva nel paniere,
io gliele ho chieste e lui me le ha date per farmi piacere, il
tesoruccio.»
Dopo aver trafficato per due ore, durante le
quali Eugénie interruppe venti volte il lavoro per andare a veder
bollire il caffe, per andare a sentire se il cugino si stesse
alzando, ella riuscì a preparare una colazione molto semplice, poco
costosa, ma che si scostava di gran lunga dalle abitudini inveterate
della casa. La colazione di mezzogiorno veniva consumata in piedi.
Ognuno prendeva un pezzo di pane, un frutto o un po' di burro, e un
bicchiere di vino. Guardando la tavola sistemata accanto al fuoco,
la poltrona accanto al coperto del cugino, guardando i due vassoi di
frutta, il porta-uovo, la bottiglia di vino bianco, il pane, le
zollette di zucchero ammucchiate in un piattino, Eugénie fu scossa
da un tremito allorché le venne fatto di pensare, e solo allora,
alle occhiatacce che le avrebbe lanciato il padre se fosse rientrato
in quel momento. Non faceva quindi che guardare la pendola per
calcolare se il cugino sarebbe riuscito a fare colazione prima del
ritorno del brav'uomo.
«Stai tranquilla, Eugénie; se tuo padre arriva,
mi prenderò io la responsabilità di tutto,» disse Mme Grandet.
Eugénie non riuscì a trattenere una lacrima.
«Oh! mia buona madre,» esclamò, «non ti ho amata
mai abbastanza!»
Charles, dopo aver fatto, canticchiando, mille
andirivieni nella sua stanza, alla fine scese. Per fortuna non erano
ancora le undici. Il solito parigino! Si era vestito con civetteria
come se fosse stato al castello della nobile dama che viaggiava in
Scozia. Entrò con quell'aria affabile e sorridente che ben si addice
alla giovinezza, e che provocò in Eugénie una triste gioia. Aveva
preso allegramente il crollo dei suoi immaginari castelli d'Angiò, e
si rivolse tutto gaio alla zia.
«Avete passato bene la notte, cara zia? E voi,
cugina?»
«Bene; e voi?» disse Mme Grandet.
«Io magnificamente.»
«Dovete aver fame, cugino mio,» disse Eugénie;
«mettetevi a tavola.»
«Non faccio mai colazione prima di mezzogiorno,
cioè quando mi alzo. Tuttavia, il viaggio è stato cosi cattivo che
farò uno strappo alla regola. Del resto...» Tirò fuori dal taschino
il più delizioso orologio piatto che Bréguet avesse mai fabbricato.
«Toh, ma sono le undici, sono stato mattiniero.»
«Mattiniero?...» disse Mme Grandet.
«Sì, il fatto è che volevo sistemare le mie cose.
E va bene, mangerò volentieri qualcosa, un nonnulla, un pollo, una
pernice.»
«Santa Vergine!» esclamò Nanon udendo quelle
parole.
«Una pernice,» ripeteva fra sé Eugénie che
sarebbe stata disposta a pagare una pernice con tutto il suo
peculio.
«Mettetevi a sedere,» gli disse la zia.
Il dandy si accomodò sulla poltrona come una
bella donna si siede sul suo divano. Eugénie e la madre presero due
sedie e si sistemarono accanto a lui davanti al fuoco.
«Vivete sempre qui?» chiese Charles che alla luce
del giorno trovava la sala ancora più brutta che al lume di candela.
«Sempre,» rispose Eugénie guardandolo, «tranne
che al tempo della vendemmia. Allora andiamo ad aiutare Nanon e
abitiamo tutti nell'abbazia di Noyers.»
«Non andate mai a passeggio?»
«Qualche volta la domenica, dopo i vespri, se è
bel tempo,» disse Mme Grandet, «andiamo sul ponte o a veder falciare
il fieno.»
«Avete un teatro qui?»
«Andare a teatro!» esclamò Mme Grandet, «a vedere
i commedianti! Ma non lo sapete che è un peccato mortale?»
«Ecco, mio caro signore,» disse Nanon portando le
uova, «le daremo dei polli alla coque.»
«Oh! uova fresche,» disse Charles, che, come
tutte le persone abituate al lusso, non pensava già più alla sua
pernice. «Ma è una delizia! Non avreste per caso del burro, ragazza
mia?»
«Ah! del burro! Allora rinunciate alla focaccia?»
disse la domestica.
«Insomma, Nanon, porta il burro!» esclamò
Eugénie.
La fanciulla osservava il cugino, intento a
tagliare bastoncini di pane, e provava lo stesso piacere che prova
la più sentimentale sartina di Parigi nel vedere un melodramma in
cui trionfa l'innocenza. È vero che Charles, allevato da una madre
piena di grazia, perfezionato da un'amica chic, aveva gesti carini,
eleganti, misurati, come quelli di una donna di classe. La tenerezza
e la comprensione di una fanciulla emanano un influsso davvero
magnetico. Così Charles, vedendosi oggetto delle attenzioni della
cugina e della zia, non poté sottrarsi all'influenza dei sentimenti
che convergevano verso di lui sommergendolo, per così dire. Lanciò a
Eugénie uno sguardo pieno di bontà, di carezze, uno sguardo che
sembrava fatto di sorrisi. Notò, osservando Eugénie, la squisita
armonia dei tratti di quel volto puro, l'atteggiamento innocente, la
limpidezza magica degli occhi, dove scintillavano giovani pensieri
d'amore, e dove il desiderio ignorava la voluttà.
«Davvero, cara cugina, se voi foste in un palco e
in abito da sera all'Opéra, vi garantisco che mia zia avrebbe
ragione perché fareste commettere peccati di desiderio agli uomini e
di gelosia alle donne.»
Questo complimento diede una stretta al cuore di
Eugénie e lo fece palpitare di gioia, per quanto ella non vi capisse
nulla.
«Oh! cugino mio, volete burlarvi di una povera
piccola provinciale.»
«Se mi conosceste, cugina, sapreste che detesto
le canzonature: inaridiscono il cuore e sciupano ogni sentimento...»
E inghiottì di gusto il suo bastoncino di pane imburrato. «No, forse
non ho abbastanza spirito per burlarmi degli altri, e questo è un
difetto che non mi giova. A Parigi, si trova modo di distruggere un
uomo dicendo: "Ha buon cuore." Il che vuol dire: "Il povero ragazzo
è stupido come un rinoceronte." Ma, siccome sono ricco, ed è
risaputo che so colpire d'acchito un fantoccio a trenta passi,
all'aperto e con ogni specie di pistola, le canzonature non mi
toccano.»
«Ciò che dite, nipote mio, dimostra che avete
buon cuore.»
«Avete un bell'anello,» disse Eugénie; «vi
dispiace se vi chiedo di farmelo vedere?»
Charles tese la mano togliendosi l'anello ed
Eugénie arrossì nello sfiorare con la punta delle dita le unghie
rosa del cugino.
«Guarda, mamma, che bel lavoro.»
«Oh! c'è parecchio oro,» disse Nanon portando il
caffe.
«Che cos'è quella roba?» chiese Charles ridendo.
E indicava un recipiente oblungo, di terracotta
scura, verniciato, maiolicato all'interno, orlato da una frangia di
cenere, e sul fondo del quale si depositava il caffe dopo essere
salito alla superficie del liquido bollente.
«È caffe bollito,» disse Nanon.
«Ah! cara zia, se non altro lascerò una traccia
benefica del mio passaggio qui. Siete molto arretrati! Vi insegnerò
a fare del buon caffe in una caffettiera alla Chaptal.»
Cercò di spiegare come funzionasse una
caffettiera alla Chaptal.
«Ah, beh, se c'è tutto questo traffico da fare,»
disse Nanon, «bisognerebbe passarci la vita. Non farò mai un caffe
così. Ci mancherebbe! E chi taglierà l'erba per la vacca mentre io
faccio il caffe?»
«Lo farò io,» disse Eugénie.
«Figliola!» disse Mme Grandet guardando sua
figlia.
A questa parola, quasi un richiamo al dolore che
stava per colpire quell'infelice giovane, le tre donne tacquero e lo
fissarono con un'aria di commiserazione che lo colpì.
«Che cosa avete, cugina?»
«Ssst!» disse Mme Grandet a Eugénie che stava per
rispondere. «Figlia mia, sai che tuo padre si è assunto il compito
di parlare al signore...»
«Dite Charles,» fece il giovane Grandet.
«Ah! vi chiamate Charles? È un bel nome,» esclamò
Eugénie.
Le disgrazie presagite arrivano quasi sempre. A
quel punto, Nanon, Mme Grandet e Eugénie, che non potevano pensare
senza rabbrividire al ritorno del vecchio bottaio, udirono bussare
alla porta con un colpo che era a loro ben noto.
«Ecco papà,» disse Eugénie.
Tolse il piattino con lo zucchero lasciandone
qualche zolletta sulla tovaglia. Nanon portò via il piatto con le
uova. Mme Grandet si drizzò come una cerva spaventata. Era un vero e
proprio timor panico, del quale Charles si stupì senza riuscire a
spiegarselo.
«Ma insomma, che cosa avete?» chiese loro.
«C'è mio padre,» disse Eugénie.
«E allora?...»
M. Grandet entrò, gettò il suo sguardo acuto
sulla tavola, su Charles, vide tutto.
«Ah! ah! hai fatto festa a tuo nipote, bene,
benissimo, benone!» disse senza balbettare. «Quando il gatto non
c'è, i topi ballano.»
«Festa?...» si disse Charles, incapace di
sospettare il tenore di vita e le abitudini di quella casa.
«Dammi il mio bicchiere, Nanon,» disse il
brav'uomo.
Eugénie portò il bicchiere. Grandet tirò fuori
dal taschino un coltello con l'impugnatura di corno e la lama larga,
tagliò una fetta di pane, prese un po' di burro, lo spalmò con cura,
e si mise a mangiare sempre restando in piedi. In quel momento,
Charles inzuccherava il suo caffe. Papà Grandet notò le zollette di
zucchero, scrutò la moglie, che impallidì e arretrò di qualche
passo; si chinò sull'orecchio della povera vecchia e le disse: «Si
può sapere dove hai preso tutto quello zucchero?»
«Nanon è andata a prenderlo da Fessard, non ce
n'era più.»
È impossibile immaginare l'interesse che questa
scena muta suscitava nelle tre donne; Nanon era uscita dalla cucina
e guardava verso la sala per vedere come si mettessero le cose.
Charles, dopo aver assaggiato il suo caffe, trovandolo troppo amaro,
cercò lo zucchero che Grandet aveva già fatto sparire.
«Che cosa volete, nipote mio?» gli disse il
brav'uomo.
«Lo zucchero.»
«Mettete un po' di latte,» rispose il padrone di
casa, «e il caffe si addolcirà.»
Eugénie riprese il piattino dello zucchero che
Grandet aveva tolto di mezzo, e lo mise sulla tavola guardando il
padre con tutta calma. Senza dubbio la parigina che, per facilitare
la fuga dell'amante, regge con le deboli braccia una scala di seta
non ha più coraggio di quanto ne dimostrò Eugénie riportando in
tavola lo zucchero. L'amante ricompenserà la sua parigina che gli
mostrerà orgogliosa il bel braccio martoriato dove ogni livido verrà
cosparso di lacrime e di baci e guarito dal piacere; per Charles
invece era impossibile penetrare il segreto dei profondi turbamenti
che travagliavano il cuore della cugina, fulminata in quel momento
dallo sguardo del vecchio bottaio.
«Tu non mangi, moglie mia?»
La povera schiava si fece avanti, si tagliò con
aria remissiva un pezzo di pane e prese una pera. Eugénie ebbe
l'audacia di offrire al padre dell'uva, dicendogli: «Assaggia
quest'uva che ho conservato, papà! - Ne mangerete anche voi, vero
cugino? Sono andata a prenderli apposta per voi, questi bei
grappoli.»
«Oh! se qualcuno non le ferma, per voi, caro
nipote, metteranno a sacco Saumur. Quando avrete finito, andremo a
fare due passi in giardino, devo dirvi qualcosa di poco gradevole.»
Eugénie e la madre gettarono a Charles
un'occhiata, sul significato della quale il giovane non poté avere
dubbi.
«Che cosa significano queste parole, caro zio?
Dopo la morte della mia povera mamma...» nel pronunciare quelle
parole la sua voce si incrinò, «non ci sono più sventure possibili
per me...»
«Nipote mio, chi può conoscere le afflizioni
attraverso le quali Dio vuole metterci alla prova?» gli disse la
zia.
«Ta ta ta ta!» disse Grandet, «non cominciamo a
dire sciocchezze. Mi dispiace di vedere, nipote, che avete mani
bianche e delicate.» E gli mostrò quella specie di spalla di montone
che la natura gli aveva messo in fondo alle braccia. «Queste sono
mani fatte per rastrellare scudi! Voi siete stato abituato a tenere
i piedi nella stessa pelle con la quale si fabbricano i portafogli
nei quali custodiamo i nostri biglietti di banca. Male! male!»
«Che cosa volete dire, zio? Vorrei essere
impiccato se ci capisco una parola.»
«Venite,» disse Grandet.
L'avaro chiuse con uno scatto la lama del
coltello, finì di bere il vino e aprì la porta.
«Cugino mio, siate coraggioso!»
Il tono di voce della fanciulla aveva gelato
Charles, che segui il suo terribile parente in preda a mortali
inquietudini. Eugénie, la madre e Nanon andarono in cucina, prese
dalla invincibile curiosità di spiare i due attori della scena che
stava per svolgersi nel piccolo giardino umido, dove lo zio a tutta
prima camminò in silenzio a fianco del nipote. Grandet non era
imbarazzato dal fatto di dover comunicare a Charles la morte del
padre, ma provava una specie di compassione perché lo sapeva senza
un soldo e cercava le parole per addolcirgli questa crudele verità.
«Avete perduto vostro padre!» era facile da dire. I padri muoiono
prima dei figli. Ma: «Non avete più niente!» tutte le sventure della
terra erano compendiate in queste parole. E intanto il brav'uomo
faceva per la terza volta, con la terra che scricchiolava sotto la
suola delle sue scarpe, il giro del viale di mezzo. Nei momenti
importanti della vita, l'anima si abbarbica ai luoghi nei quali
abbiamo provato piaceri o dolori. Così Charles esaminava con
un'attenzione particolare i cespugli di quel piccolo giardino, le
foglie ingiallite che cadevano, i muri sconnessi, la forma strana
degli alberi da frutta, tutti particolari che il processo mnemonico
tipico delle passioni avrebbe impresso nel suo ricordo, mescolati
per sempre a quell'ora fatale.
«È una giornata bella e calda,» disse Grandet
aspirando una grossa boccata d'aria.
«Sì, zio... Ma perché... ?»
«Ebbene, ragazzo,» riprese lo zio, «ho da darvi
brutte notizie. Vostro padre sta molto male...»
«Perché sono qui?» disse Charles. «Nanon,» gridò,
«dei cavalli di posta! Ci sarà pure una carrozza in città,» aggiunse
voltandosi verso lo zio che rimaneva immobile.
«I cavalli e la carrozza non servono,» rispose
Grandet guardando Charles che rimase muto e con gli occhi sbarrati.
«Sì, povero ragazzo, avete indovinato. È morto. Ma questo è niente,
c'è qualcosa di peggio, si è fatto saltare le cervella...»
«Mio padre?...»
«Si. Ma questo è niente. I giornali ne parlano
come se avessero il diritto di farlo. Prendi, leggi.»
Grandet, che si era fatto lasciare il giornale da
Cruchot, mise il tremendo articolo sotto gli occhi di Charles. A
quel punto, il povero giovane, ancora fanciullo, ancora in un'età in
cui i sentimenti sgorgano con ingenuità, scoppiò in lacrime.
«Meglio così,» si disse Grandet. «I suoi occhi mi
spaventavano. Se piange, è salvo.»
«E questo è ancora niente, mio povero nipote,»
riprese Grandet ad alta voce, senza nemmeno sapere se Charles lo
ascoltasse, «questo è niente, ve ne farete una ragione; ma...»
«Giammai! Giammai! Padre mio! padre mio!»
«Vi ha rovinato, non avete più un soldo.»
«Che me ne importa? Dov'è mio padre; mio padre?»
I pianti e i singhiozzi echeggiavano fra quelle
mura in un modo straziante. Le tre donne, commosse, piangevano: le
lacrime sono contagiose come il riso. Charles, senza ascoltare ciò
che gli diceva lo zio, fuggì nel cortile, trovò la scala, salì nella
sua camera e si gettò di traverso sul letto affondando il viso nelle
lenzuola per sfogarsi a piangere lontano dai parenti.
«Bisogna lasciar passare la prima burrasca,»
disse Grandet rientrando nella sala, dove Eugénie e la madre si
erano affrettate a riprendere i loro posti, e lavoravano con mani
tremanti dopo essersi asciugati gli occhi. «Ma questo giovanotto non
è buono a niente, si preoccupa più dei morti che del denaro.»
Eugénie rabbrividì sentendo il padre che parlava
in questo modo del più sacro dei dolori. Da quel momento, cominciò a
giudicare il padre. In quella casa piena di echi si sentivano, per
quanto attenuati, i singhiozzi di Charles; e i suoi profondi
lamenti, che sembravano uscire da sotto terra, non cessarono che
verso sera, dopo essersi a poco a poco affievoliti.
«Povero giovane!» disse Mme Grandet.
Non l'avesse mai detto! Papà Grandet guardò la
moglie, Eugénie e la zuccheriera; si ricordò della colazione
eccezionale preparata per il parente sfortunato e andò a piazzarsi
in mezzo alla sala.
«Ah è cosi! spero,» disse con la solita calma,
«che non continuerai con queste prodigalità, signora Grandet. Non ti
do il MIO denaro per rimpinzare di zucchero questo bricconcello.»
«Mia madre non c'entra,» disse Eugénie. «Sono io
che...»
«È perché sei maggiorenne,» riprese Grandet
interrompendo la figlia, «che vuoi contraddirmi? Bada, Eugénie...»
«Padre, il figlio di tuo fratello, non doveva
mancare in casa tua di...»
«Ta ta ta ta!» disse il bottaio su quattro toni
cromatici, «il figlio di mio fratello di qui, mio nipote di là.
Charles non è niente per noi, non ha il becco di un quattrino; suo
padre è fallito; e quando quello zerbinotto avrà finito di piangere,
se ne andrà di qui; non voglio che metta a soqquadro la mia casa.»
«Che cosa significa, padre mio, fare fallimento?»
chiese Eugénie.
«Fare fallimento,» riprese il padre, «è
commettere l'azione più disonesta fra tutte quelle che possono
disonorare l'uomo.»
«Deve essere un gran peccato,» disse Mme Grandet,
«e nostro fratello sarà dannato.»
«Smettila con queste litanie,» disse Grandet alla
moglie alzando le spalle. «Il fallimento, Eugénie,» riprese, «è un
furto protetto purtroppo dalla legge. Certe persone hanno dato le
loro merci a Guillaume Grandet, confidando nella sua reputazione di
uomo onorato e onesto; ma poi lui si è preso tutto e ha lasciato
loro solo gli occhi per piangere. Il bandito di strada è preferibile
al bancarottiere; quello ti attacca, tu puoi difenderti, lui rischia
la testa; ma l'altro... insomma Charles è disonorato.»
Queste parole rintronarono nel cuore della povera
ragazza, opprimendolo con tutto il loro peso. Onesta quanto è
delicato un fiore di bosco, ella non conosceva né le massime del
mondo né i suoi ragionamenti capziosi né i suoi sofismi; accettò
dunque l'atroce spiegazione che il padre le aveva dato, senza dirle
però che c'è una differenza tra fallimento involontario e fallimento
calcolato.
«Ma tu, padre mio, non hai potuto evitare questa
sciagura?»
«Mio fratello non si è consigliato con me; eppoi
il suo debito ammonta a quattro milioni.»
«Che cosa è un milione, padre?» chiese lei con
l'ingenuità di un fanciullo che crede di poter trovare subito ciò
che desidera.
«Un milione,» disse Grandet. «Ma è un milione di
pezzi da venti soldi, e ci vogliono cinque pezzi da venti soldi per
fare cinque franchi.»
«Mio Dio! mio Dio!» esclamò Eugénie, «come poteva
mio zio avere quattro milioni? C'è qualcun altro in Francia che
possa avere tanti milioni?» (Papà Grandet si accarezzò il mento,
sorrise, e parve che la sua verruca si dilatasse.) «Che cosa accadrà
a mio cugino Charles?»
«Partirà per le Indie, dove, secondo il desiderio
del padre, cercherà di fare fortuna.»
«E ha il denaro per arrivarci?»
«Gli pagherò io il viaggio... fino a... ma si,
fino a Nantes.»
Eugénie saltò al collo del padre.
«Ah! padre mio, come sei buono, tu!»
Le sue effusioni fecero quasi vergognare Grandet,
che provava qualche rimorso di coscienza.
«Ci vuole molto tempo per mettere insieme un
milione?» gli chiese Eugénie.
«Diamine,» disse il bottaio, «tu sai che cosa è
un napoleone; ebbene, ce ne vogliono cinquantamila per fare un
milione.»
«Mamma, faremo dire delle novene per lui.»
«Ci avevo pensato,» rispose la madre.
«Ecco, sempre a spendere soldi,» esclamò il
padre. «Ma che cosa credete, che qui ci siano soldi a palate?»
In quel preciso istante, un lamento sordo, più
lugubre degli altri, risuonò nella soffitta e agghiacciò di terrore
Eugénie e la madre.
«Nanon, va' a vedere che non si ammazzi,» disse
Grandet. «Badate bene voi due,» riprese voltandosi verso la moglie e
la figlia, che erano impallidite, «niente sciocchezze. Vi lascio.
Vado a dare un'annusata ai nostri olandesi che oggi partono. Poi
andrò a trovare Cruchot per parlare con lui di tutta questa
faccenda.»
Uscì. Appena Grandet ebbe chiuso la porta,
Eugénie e la madre tirarono un respiro di sollievo. Prima di quella
mattina, mai la figlia si era sentita a disagio in presenza del
padre; ma, da qualche ora, ella cambiava d'attimo in attimo
sentimenti e idee.
«Mamma, quanti luigi vale una botte di vino?»
«Tuo padre vende le sue a cento o centocinquanta
franchi, a volte duecento, da quel che ho sentito dire.»
«E quanto fa millequattrocento botti di vino...?»
«In fede mia, figliola, non so cosa fruttino; tuo
padre non mi parla mai dei suoi affari.»
«Ma allora, papà deve essere ricco.»
«Può darsi. Ma M. Cruchot mi ha detto che due
anni fa ha acquistato Froidfond. Deve essergli costato parecchio.»
Eugénie, non comprendendo più niente della
ricchezza di suo padre, smise di fare calcoli.
«Non mi ha nemmeno visto, quel tesorino!» disse
Nanon rientrando. «È steso sul letto come un vitello, e piange come
una Maddalena, da strappare le benedizioni! Che cosa addolora tanto
quel povero caro giovane?»
«Andiamo subito a consolarlo, mamma e, se
sentiamo bussare, scenderemo.»
Mme Grandet si sentì disarmata di fronte alla
voce armoniosa della figlia. Eugénie era sublime, era donna.
Entrambe, col cuore che batteva, salirono in camera di Charles. La
porta era aperta. Il giovane non vedeva e non udiva nulla. In preda
alle lacrime, si lamentava in un modo incomprensibile.
«Quanto ama il padre!» disse Eugénie a bassa
voce.
Era impossibile non riconoscere nel tono di
queste parole le speranze di un cuore che ignorava di essere colmo
di passione. Perciò Mme Grandet lanciò alla figlia uno sguardo pieno
di amor materno; poi, le sussurrò all'orecchio: «Sta' attenta,
finirai per amarlo,» disse.
«Amarlo!» riprese Eugénie. «Ah! se tu sapessi
quello che ha detto mio padre!»
Charles si voltò, vide la zia e la cugina.
«Ho perduto mio padre, il mio povero padre! Se mi
avesse confidato il segreto della sua disgrazia, avremmo lavorato
insieme per metterci riparo. Mio Dio! mio buon padre! ero cosi
sicuro di rivederlo, che credo di averlo abbracciato con
freddezza...»
I singhiozzi gli spezzarono la voce.
«Pregheremo per lui,» disse Mme Grandet.
«Rassegnatevi alla volontà di Dio.»
«Cugino mio,» disse Eugénie, «fatevi coraggio! la
vostra perdita è irrimediabile, perciò adesso dovete pensare a
salvare l'onore...»
Con quell'istinto, quell'acume della donna che
pone intelligenza in ogni cosa, anche quando consola, Eugénie voleva
alleviare il dolore al cugino, inducendolo a occuparsi di se stesso.
«Il mio onore?...» esclamò il giovane scostandosi
i capelli dal viso con un movimento brusco. E sedette sul letto a
braccia conserte. «Ah! è vero. Lo zio diceva che mio padre è
fallito.» Gettò un grido straziante e nascose il volto fra le mani.
«Lasciatemi, cugina, lasciatemi! Mio Dio! mio
Dio! perdonate mio padre, chissà quanto ha sofferto.»
C'era qualcosa di indicibilmente penoso
nell'espressione di quel dolore giovane, vero, senza calcolo, senza
secondi fini. Era un dolore pudico che i cuori semplici di Eugénie e
della madre compresero quando Charles con un gesto chiese loro di
lasciarlo solo. Scesero, ripresero in silenzio i loro posti accanto
alla finestra e lavorarono per circa un'ora senza scambiare una
parola. Eugénie aveva notato, con l'occhiata furtiva data agli
oggetti del giovane, una di quelle occhiate con le quali le
fanciulle vedono tutto in un attimo, i begli ammennicoli della sua
toeletta, le forbici, i rasoi ornati d'oro. Questa visione di lusso
attraverso il dolore le rese Charles ancor più interessante, forse
per contrasto. Mai un avvenimento così grave, mai uno spettacolo
tanto drammatico aveva colpito l'immaginazione di quelle due
creature, sprofondate di continuo nella calma e nella solitudine.
«Mamma,» disse Eugénie, «porteremo il lutto per
lo zio.»
«Questo lo deciderà tuo padre,» rispose Mme
Grandet.
Rimasero di nuovo in silenzio. Eugénie cuciva con
la regolarità di un automa e questo avrebbe svelato a un osservatore
la folla di pensieri che popolava la sua mente. Il primo desiderio
di quella fanciulla adorabile era di condividere il lutto del
cugino. Verso le quattro, un forte colpo di battaglio fece
sobbalzare il cuore di Mme Grandet.
«Che cosa ha tuo padre?» disse alla figlia.
Il vignaiolo entrò tutto allegro. Dopo essersi
sfilati i guanti, si strofinò le mani con tanta energia da
strapparsi la pelle, se l'epidermide non fosse stata conciata come
cuoio di Russia, ma senza l'odore di larice e di incenso. Camminò
avanti e indietro, guardò il tempo. Alla fine tirò fuori il segreto.
«Cara moglie,» disse senza balbettare, «li ho
messi tutti nel sacco. Gli olandesi e i belgi partivano questa
mattina, io sono andato a passeggiare sulla piazza davanti al loro
albergo, facendo il finto tonto. Chose, che tu conosci, mi si è
avvicinato. I proprietari di tutti i buoni vigneti hanno messo in
cantina il vino e vogliono aspettare, io non gliel'ho impedito. Il
nostro belga era disperato. Me ne sono accorto. Affare fatto, compra
il nostro vino a duecento franchi la botte, metà in contanti. Mi
paga in oro. Abbiamo scritto i pagherò, ed eccoti i tuoi sei luigi.
Fra tre mesi, il prezzo del vino calerà.»
Queste ultime parole furono pronunciate con un
tono pacato ma così carico di ironia, che la gente di Saumur,
raccolta in quel momento sulla piazza e interdetta dalla notizia
della vendita appena conclusa da Grandet, avrebbe avuto un fremito
se le avesse udite. Il panico avrebbe fatto diminuire il prezzo del
vino del cinquanta per cento.
«Hai fatto mille botti quest'anno, padre mio?»
chiese Eugénie.
«Sì, figlietta.»
Questa parola era la massima espressione di gioia
del vecchio bottaio.
«Vuol dire duecentomila pezzi da venti soldi?»
«Sì, signorina Grandet.»
«Allora, padre, non ti sarà difficile aiutare
Charles.»
Lo sbalordimento, la collera, lo stupore di
Baldassarre quando vide il Mane-Tekel-Fares non possono nemmeno
essere paragonati al freddo corruccio di Grandet, che, essendosi
dimenticato completamente del nipote, lo ritrovava nel cuore e nei
calcoli della figlia.
«Ah! è così! da quando quel vagheggino ci ha
messo piede, in casa mia va tutto storto. Sembra che vogliate
comperare confetti, fare nozze e banchetti. Non voglio nemmeno
sentirne parlare. Alla mia età so come comportarmi, direi! E poi non
devo prendere lezioni da mia figlia né da nessun altro. Farò per mio
nipote quello che sarà opportuno e voi non dovete metterci il naso.
- Quanto a te, Eugénie,» aggiunse voltandosi verso la ragazza, «non
parlarne più, se non vuoi che ti spedisca all'abbazia di Noyers con
Nanon, fuori dai piedi; e se brontoli ti ci mando domani stesso.
Dov'è quel ragazzo. È sceso?»
«No, amico mio,» rispose Mme Grandet.
«Insomma che cosa fa?»
«Piange suo padre,» rispose Eugénie.
Grandet guardò la figlia senza trovare parole.
Era un po' padre anche lui. Dopo aver fatto una o due volte il giro
della sala, salì in fretta nello studio per riflettere su un
investimento nei titoli di stato. I duemila arpenti di bosco
tagliato gli avevano reso seicentomila franchi; aggiungendo a questa
somma il denaro dei pioppi, le rendite dell'anno precedente e di
quello in corso, oltre ai duecentomila franchi dell'affare appena
concluso, poteva mettere insieme novecentomila franchi. Guadagnare
in poco tempo il venti per cento sui titoli, che stavano a sessanta
franchi e dieci, lo tentava. Fece i calcoli della speculazione sul
giornale dove era annunciata la morte del fratello, udendo, senza
ascoltarli, i gemiti del nipote. Nanon andò a bussare al muro per
invitare il padrone a scendere, la cena era in tavola. Sotto
l'andito e all'ultimo scalino, Grandet stava dicendo fra sé e sé:
«Visto che i miei interessi arriveranno all'otto, farò l'affare. In
due anni avrò un milione e mezzo di franchi, che ritirerò da Parigi
in oro buono.»
«E allora, dov'è mio nipote?»
«Dice che non vuole mangiare,» rispose Nanon.
«Non gli farà bene.»
«Tanto di risparmiato,» le rispose il padrone.
«Diamine sì,» rispose la donna.
«Bah! non piangerà per sempre. La fame fa uscire
il lupo dal bosco.»
La cena fu insolitamente silenziosa.
«Mio buon amico,» disse Mme Grandet quando fu
tolta la tovaglia, «bisognerà che prendiamo il lutto.»
«In verità, signora Grandet, non sai che
inventare per spendere denaro. Il lutto è nel cuore e non negli
abiti.»
«Ma il lutto per un fratello è un lutto stretto e
la Chiesa ci ordina...»
«Comprati gli abiti da lutto con i tuoi sei
luigi. A me una fascia nera basterà.»
Eugénie alzò gli occhi al cielo senza fiatare.
Per la prima volta i suoi impulsi generosi addormentati, repressi,
ma poi improvvisamente risvegliati, venivano offesi a ogni momento.
In apparenza quella serata fu simile a mille serate della loro
monotona esistenza, ma fu certo la più orribile. Eugénie lavorò
senza mai alzare la testa, e non si servì del nécessaire che Charles
aveva disprezzato la sera prima. Mme Grandet continuò a fare le sue
maniche di maglia. Grandet girò i pollici per quattro ore,
sprofondato in calcoli i cui risultati avrebbero l'indomani stupito
Saumur. Quel giorno non ci furono visite. In tutta la città non si
parlava che dell'impresa di Grandet, del fallimento di suo fratello
e dell'arrivo del nipote. Per obbedire al bisogno di parlare degli
interessi comuni, tutti i grossi e medi proprietari di vigneti di
Saumur si erano ritrovati da M. des Grassins, dove vennero scagliate
terribili imprecazioni contro l'ex sindaco. Nanon filava, e il
rumore del suo filatoio era l'unico che si sentisse sotto le travi
grigiastre della sala.
«Non si può dire che consumiamo troppo la
lingua,» disse, mostrando i denti bianchi e grossi come mandorle
sbucciate.
«Non bisogna consumare niente,» riprese Grandet
scuotendosi dalle sue meditazioni. Vedeva in prospettiva otto
milioni in tre anni, e navigava su questo fiume d'oro.
«Corichiamoci. Andrò da mio nipote a dargli la buona notte per tutti
e a vedere se vuole mangiare qualcosa.»
Mme Grandet restò sul pianerottolo del primo
piano per ascoltare la conversazione fra Charles e il brav'uomo.
Eugénie, più audace della madre, salì due scalini.
«E allora, nipote mio, soffrite molto? Sì,
piangete, è naturale. Un padre è un padre. Ma bisogna sopportare con
pazienza il nostro dolore. Mentre piangete io mi occupo di voi. Sono
un buon parente come vedete. Volete un po' di vino? Il vino non
costa niente a Saumur; lo si offre come nelle Indie offrono una
tazza di tè. Ma,» continuò Grandet, «qui non c'è luce. Male! male!
bisogna veder chiaro ciò che si fa.» Grandet si avvicinò al camino.
«Toh!,» esclamò, «una candela di cera. Dove
diavolo l'hanno pescata? Quelle là sarebbero capaci di demolirmi le
travi di casa per cuocere due uova a questo ragazzo.»
Sentendo queste parole, madre e figlia entrarono
nelle loro camere e si ficcarono a letto con la velocità di due topi
spaventati che si nascondono nei loro buchi.
«Signora Grandet, possedete forse un tesoro?»
disse il marito entrando nella camera della moglie.
«Amico mio, aspettate, ora sto pregando,» rispose
la povera madre con voce alterata.
«Che il diavolo si porti il tuo buon Dio!»
bofonchiò Grandet.
Gli avari non credono a una vita futura, il
presente è tutto per loro. Questa riflessione getta una luce
orribile sull'epoca attuale, nella quale, più che in qualsiasi altro
tempo, il denaro domina le leggi, la politica, i costumi.
Istituzioni, libri, uomini e dottrine, tutto congiura per minare la
credenza in una vita futura sulla quale si fonda da milleottocento
anni l'edificio sociale. Il futuro, che ci attendeva dopo il
requiem, è stato trasferito nel presente. Tutti pensano solo ad
arrivare per fas et nefas nel paradiso terrestre del lusso e dei
vani godimenti, a indurire il proprio cuore, a macerarsi il corpo
per il possesso di beni effimeri, come un tempo si pativa il
martirio della vita per il possesso di beni eterni! Questo concetto
del resto è scritto ovunque, persino nelle leggi che chiedono al
legislatore: «Che cosa paghi?» invece di chiedergli: «Che cosa
pensi?» Quando questa dottrina si sarà diffusa dalla borghesia al
popolo, che diventerà la nazione?
«Signora Grandet, hai finito?» domandò il vecchio
bottaio.
«Amico mio, prego per te.»
«Benone! Buona notte. Parleremo domattina.»
La poveretta si addormentò come lo scolaro che,
non avendo fatto i compiti, teme di trovarsi davanti, al risveglio,
la faccia corrucciata del maestro. Nel momento in cui, impaurita, si
avvolgeva nelle coperte per non sentire più niente, Eugénie le
scivolò accanto, in camicia, a piedi nudi, e la baciò sulla fronte.
«Oh! buona madre,» disse, «domani gli confesserò
che sono stata io.»
«No, ti manderebbe a Noyers. Lasciami fare, non
mi mangerà.»
«Senti, mamma?»
«Che cosa?»
«Piange sempre.»
«Vai a coricarti, figliola. Prenderai freddo ai
piedi: il pavimento è umido.»
Passò così l'importante giornata che doveva
pesare sulla vita della ricca e povera ereditiera, il cui sonno non
fu più profondo e sereno come era stato fino ad allora. Abbastanza
spesso, certe azioni umane sembrano, letterariamente parlando,
inverosimili, anche se sono vere. Ma non è forse perché trascuriamo
di illuminare le nostre decisioni spontanee con una certa qual luce
psicologica, non spiegando quindi le misteriose ragioni che le hanno
determinate? Forse la profonda passione di Eugénie dovrebbe essere
analizzata nelle sue fibre più delicate; perché essa divenne,
direbbe un burlone, una malattia e influenzò tutta la sua vita.
Molti preferiscono negare le conclusioni piuttosto che misurare la
forza dei legami, dei nodi, degli agganci che saldano segretamente
un fatto a un altro nell'ordine morale. In questo caso il passato di
Eugénie garantirebbe, per coloro che studiano la natura umana,
l'ingenuità della sua mancanza di riflessione e i repentini
trasporti della sua anima. Proprio perché la sua vita era stata
tranquilla, la pietà femminile, il più ingegnoso dei sentimenti,
maturò nell'animo suo con tanto vigore. Perciò, turbata dagli
avvenimenti della giornata, si svegliò parecchie volte per ascoltare
il cugino, convinta di averne udito i sospiri che dal giorno prima
le echeggiavano nel cuore: ora lo vedeva sfinito dal dolore, ora lo
sognava morto di fame. Verso la mattina, fu certa di aver udito un
grido terribile. Si vestì subito e accorse, nella luce dell'alba, in
punta di piedi, accanto al cugino, che aveva lasciato la porta
aperta. La candela si era consumata sul piattino del candeliere.
Charles, vinto dalla natura, si era addormentato vestito, seduto su
una poltrona, la testa rovesciata sul letto; sognava come sogna chi
ha lo stomaco vuoto. Eugénie poté piangere con tutto il suo agio;
poté ammirare quel volto giovane e bello, pietrificato dal dolore,
quegli occhi gonfi di pianto e che, sebbene addormentati, sembrava
continuassero a versare lacrime. Charles sentì la presenza di
Eugénie, aprì gli occhi e la vide tutta commossa.
«Scusatemi, cugina,» disse, non rendendosi conto
evidentemente né dell'ora né del luogo.
«Ci sono dei cuori che vi ascoltano, cugino, e
noi abbiamo creduto che aveste bisogno di qualcosa. Dovreste
mettervi a letto, vi stancherete a restare così.»
«È vero.»
«Allora, addio.»
Eugénie uscì, vergognosa e felice di essere
andata. Solo l'innocenza osa certe audacie. Istruita, la virtù fa i
suoi calcoli come il vizio. Eugénie, che accanto al cugino non aveva
tremato, una volta tornata nella sua stanza riusciva appena a
tenersi in piedi. La sua vita ignorante finì di colpo, ella ragionò,
si rimproverò. «Che idea si farà di me? Crederà che io l'ami.» Era
precisamente ciò che più di tutto desiderava di vedergli credere.
L'amore schietto ha una sua prescienza e sa che l'amore chiama
l'amore. Quale avvenimento era stato per quella fanciulla solitaria
essere entrata furtivamente nella camera di un giovane! Non ci sono
forse pensieri, gesti, che, in amore, equivalgono, per certe anime,
a un solenne fidanzamento? Un'ora più tardi, ella entrò da sua
madre, e come d'abitudine la aiutò a vestirsi. Poi le due donne
andarono a sedersi ai loro posti davanti alla finestra, e attesero
Grandet con quell'ansia che, quando ci si aspetta una scenata, una
punizione, gela il cuore o lo riscalda, lo stringe o lo gonfia, a
seconda dei caratteri: reazione del resto così naturale che gli
animali domestici gridano per il lieve dolore di una punizione, ma
tacciono allorché per caso si feriscono. Il brav'uomo scese, ma
parlò alla moglie con aria distratta, baciò Eugénie e si mise a
tavola senza pensare, così pareva, alle minacce del giorno prima.
«Che ne è di mio nipote? Non si può dire che il
ragazzo dia fastidio.»
«Signore, dorme,» rispose Nanon.
«Tanto meglio, non avrà bisogno di candele,»
disse Grandet con un tono ironico.
Questa insolita clemenza, questa amara allegria
colpirono Mme Grandet, che guardò il marito con molta attenzione. Il
brav'uomo... (Qui forse è opportuno far notare che in Turenna
nell'Angiò, nel Poitou, in Bretagna, le parole brav'uomo, già
impiegate spesso per designare Grandet, sono usate per indicare
tanto i più crudeli quanto i più bonaccioni fra gli uomini, non
appena hanno raggiunto una certa età. Questo appellativo non ha
nulla a che vedere con la mansuetudine della singola persona...) Il
brav'uomo, dunque, prese il cappello, i guanti e disse: «Vado a fare
un giretto in piazza per incontrare i nostri Cruchot.»
«Eugénie, è certo che tuo padre ha qualcosa...»
In effetti, Grandet, che aveva bisogno di poco
sonno, impiegava la metà delle notti in quei calcoli preliminari che
davano ai suoi punti di vista, alle sue osservazioni, ai suoi
progetti una stupefacente precisione e garantivano loro quel
successo immancabile di cui tutti si meravigliavano a Saumur. Ogni
potere umano è fatto di pazienza e di tempo. Le persone potenti
vogliono e vegliano. La vita dell'avaro è un continuo esercizio
della potenza umana messa al servizio della personalità. L'avaro si
basa su due soli sentimenti: l'amor proprio e l'interesse; ma
essendo l'interesse in certo qual modo un amor proprio concreto e
bene inteso, la continua dimostrazione di una superiorità reale,
l'amor proprio e l'interesse finiscono per essere due parti di un
tutto unico, l'egoismo. Da ciò deriva probabilmente l'enorme
curiosità che suscita il carattere dell'avaro quando sia portato
sulla scena con abilità. Ognuno è legato, sia pure con un filo, a
questi personaggi che se la prendono con tutti i sentimenti umani,
riassumendoli tutti. Dov'è l'uomo senza desideri, e quale desiderio
sociale si può soddisfare senza denaro? Grandet aveva davvero
qualcosa secondo l'espressione della moglie. In lui c'era, come in
tutti gli avari, il bisogno costante di misurarsi con gli altri
uomini, di vincere legalmente il loro denaro. Imporsi agli altri,
non è forse una manifestazione di potere, un attribuirsi sempre il
diritto di disprezzare quelli che, essendo troppo deboli, sono
destinati quaggiù a essere divorati? Oh! chi mai ha capito fino in
fondo il mansueto agnello accovacciato ai piedi di Dio, il simbolo
più toccante di tutte le vittime terrene, del loro futuro, insomma
la glorificazione della sofferenza e della debolezza? Quell'agnello,
l'avaro lo lascia ingrassare, lo macella, lo cuoce, lo mangia e lo
disprezza. Il pascolo degli avari è fatto di denaro e di disprezzo.
Durante la notte le idee del brav'uomo avevano preso un altro
indirizzo: di qui la sua clemenza. Aveva concepito una trama per
beffarsi dei parigini, per strizzarli, prenderli in giro,
tormentarli, farli andare e venire, sudare, sperare, impallidire;
per divertirsi con loro, lui, ex bottaio, nella sua sala grigia, con
la sua scala tarlata della casa di Saumur. Si era occupato del
nipote. Voleva salvare l'onore del fratello morto senza che ciò
costasse un soldo né al nipote né a lui. Stava per investire i suoi
capitali a tre anni, e ormai non doveva fare altro che amministrare
le sue terre; occorreva dunque uno scopo alla sua attività maligna,
e l'aveva trovato nel fallimento del fratello. Non avendo nulla da
pestare sotto i piedi, voleva pestare i parigini a vantaggio di
Charles e dimostrare, a buon mercato, di essere un eccellente
fratello. L'onore della famiglia entrava così poco nel progetto, che
la sua buona volontà poteva essere paragonata al bisogno che hanno i
giocatori di veder giocare bene una partita anche se non vi hanno
messo alcuna posta. E i Cruchot gli erano necessari, ma non volendo
andare a cercarli, aveva deciso di farli venire da lui, e di
cominciare quella sera stessa la commedia di cui aveva appena
concepito la trama, allo scopo di essere l'indomani, senza che
questo gli costasse un soldo, oggetto di ammirazione nella sua
città.
[4]
Durante l'assenza del padre, Eugénie ebbe la
felicità di potersi occupare senza sotterfugi del suo beneamato
cugino, di profondere su di lui senza timore i tesori della sua
pietà, una delle sublimi superiorità della donna, la sola che ella
voglia far sentire, la sola per cui sia disposta a perdonare l'uomo
che gliela riconosce. Tre o quattro volte, Eugénie andò ad ascoltare
il respiro del cugino, a sentire se dormiva, se si stava svegliando;
poi, quando egli si alzò, la panna, il caffe, le uova, la frutta, i
piatti, il bicchiere, tutto ciò che faceva parte della colazione, la
occuparono in qualche misura. Sali svelta la vecchia scala per
andare ad ascoltare i rumori che venivano dalla stanza del cugino.
Si stava vestendo? piangeva ancora? Si avvicinò fino alla porta.
«Cugino!»
«Cugina!»
«Volete fare colazione in sala o nella vostra
camera?»
«Dove volete.»
«Come vi sentite?»
«Cara cugina, mi vergogno di avere fame.»
Questa conversazione attraverso la porta era per
Eugénie un episodio da romanzo.
«Allora, vi porteremo la colazione in camera, per
non irritare mio padre.» Eugénie scese in cucina con la leggerezza
di un uccellino. «Nanon, vai a rifargli la stanza.»
Quella scala tanto spesso salita e discesa, dove
il più piccolo rumore rimbombava, sembrò a Eugénie che avesse perso
la sua aria vetusta; la vedeva luminosa, le pareva che parlasse, che
fosse giovane come lei, giovane come l'amore al quale serviva. Alla
fine sua madre, quella madre buona e indulgente, accondiscese alle
fantasie del suo amore, e, quando la stanza di Charles fu
riordinata, andò con la figlia a tener compagnia all'infelice: la
carità cristiana non ordinava forse di consolarlo?
Le due donne scovarono nella religione un buon
numero di piccoli sofismi per giustificare il loro comportamento.
Charles Grandet si vide dunque fatto oggetto delle attenzioni più
affettuose e più tenere. Il suo cuore dolente sentì tutta la
dolcezza di questa amabile amicizia, della squisita comprensione che
quelle due anime sempre represse seppero dispiegare trovandosi per
un momento libere nella regione delle sofferenze, la loro sfera
naturale. Autorizzata dal rapporto di parentela, Eugénie si mise a
riordinare la biancheria, gli oggetti da toeletta che il cugino
aveva portato con sé ed ebbe agio di meravigliarsi di ogni lussuosa
bazzecola, dei ninnoli di argento e d'oro lavorato che le capitavano
sotto mano e che ella teneva a lungo tra le dita con la scusa di
esaminarli. Charles notò non senza provare una profonda tenerezza
l'interesse generoso che mostravano per lui la zia e la cugina;
conosceva abbastanza la società parigina per sapere che, nella sua
situazione, vi avrebbe trovato solo cuori indifferenti o gelidi.
Eugénie gli apparve in tutto lo splendore della sua singolare
bellezza, da quell'istante ammirò i suoi modi ingenui dei quali si
era burlato la sera prima. Così quando Eugénie prese dalle mani di
Nanon il recipiente di porcellana pieno di caffè con panna per
servire il cugino, gettandogli una lunga occhiata, gli occhi del
parigino si gonfiarono di lacrime, le prese la mano e gliela baciò.
«Suvvia, che cosa c'è ancora?» chiese lei.
«Oh! sono lacrime di riconoscenza,» rispose il
giovane.
Eugénie si voltò di scatto verso il camino per
prendere i candelieri.
«Nanon, prendete, portateli via,» disse.
Quando tornò a guardare il cugino era ancora
rossa, ma se non altro i suoi occhi riuscirono a mentire e a non
tradire la gioia infinita che le traboccava dal cuore; ma i loro
sguardi espressero un medesimo sentimento, così come le loro anime
si fusero in un unico pensiero: l'avvenire era loro. Questa dolce
emozione fu tanto più deliziosa per Charles, sprofondato in quel
dolore immenso, in quanto era del tutto inattesa. Un colpo di
battaglio richiamò le due donne ai loro posti. Per fortuna,
riuscirono a scendere le scale abbastanza in fretta da essere di
nuovo al lavoro quando Grandet entrò; per attizzare i suoi sospetti
sarebbe bastato che le avesse incontrate nell'andito. Dopo la
seconda colazione, che il brav'uomo fece all'inpiedi, arrivò da
Froidfond il guardiano, al quale non era stato ancora corrisposto il
compenso promesso, recando una lepre, delle pernici uccise nel
parco, delle anguille e due lucci dovuti dai mugnai.
«Eh! eh! il nostro povero Cornoiller arriva come
il pesce in quaresima. È buona da mangiare questa?»
«Sì, mio caro e generoso signore, è stata uccisa
due giorni fa.»
«Forza, Nanon, alza i tacchi,» disse il
brav'uomo. «Prendila, la mangeremo a cena, voglio invitare due
Cruchot.»
Nanon spalancò un paio di occhi inebetiti e si
guardò in giro.
«Va bene,» disse, «ma dove vado a prendere il
lardo e le spezie?»
«Moglie mia,» disse Grandet, «dai sei franchi a
Nanon, e ricordami di andare in cantina a prendere del buon vino.»
«Già che ci sono, signor Grandet,» riprese il
guardiano che si era preparato un discorsetto per venire a capo
della faccenda del suoi compensi, «signor Grandet...»
«Ta ta ta ta,» disse Grandet; «so già quello che
vuoi dire; tu sei un buon diavolo: ne parleremo domani, oggi sono
troppo occupato. Moglie mia, dagli cento soldi,» disse a Mme
Grandet.
E se ne uscì. La povera donna fu ben felice di
comperare la pace a undici franchi. Sapeva che Grandet, dopo essersi
ripreso, soldo su soldo, il denaro che le aveva dato, non avrebbe
aperto bocca per quindici giorni.
«Tieni, Cornoiller,» disse mettendogli in mano
dieci franchi; «un giorno o l'altro i tuoi servizi saranno
riconosciuti.»
Cornoiller non trovò niente da dire e se ne andò.
«Signora,» disse Nanon che si era messa la cuffia
nera e aveva preso il paniere, «mi bastano tre franchi, il resto lo
tenga. Vedrà che andrà bene lo stesso.»
«Prepara una buona cena, Nanon, mio cugino
scenderà a mangiare,» disse Eugénie.
«Sono sicura che sta succedendo qualcosa di
straordinario,» disse Mme Grandet. «È la terza volta, da quando
siamo sposati, che tuo padre invita qualcuno a cena.»
Verso le quattro, nel momento in cui Eugénie e la
madre finivano di apparecchiare la tavola per sei persone e dopo che
il padrone di casa aveva portato su dalla cantina alcune bottiglie
di quei vini squisiti che i provinciali conservano con amore,
Charles entrò nella sala. Il giovane era pallido. I suoi gesti, il
suo contegno, il suo sguardo e il suono della sua voce erano
improntati a una tristezza piena di grazia. Non recitava la parte
dell'addolorato, ma soffriva davvero, e il velo che la pena aveva
steso sui tratti del suo volto gli dava quell'aria interessante che
piace tanto alle donne. Eugénie lo amò ancora di più. Forse anche
perché l'infelicità lo aveva avvicinato a lei. Charles non era più
il giovanotto ricco e bello che si muoveva in una sfera per lei
inabbordabile, ma un parente colpito da una spaventosa disgrazia. La
sventura ci rende uguali. La donna ha questo in comune con gli
angeli, che i sofferenti le appartengono. Charles e Eugénie si
compresero e si parlarono solo con gli occhi; infatti il povero
dandy avvilito, l'orfano si mise in un angolo e vi rimase
silenzioso, calmo e fiero; ma di quando in quando lo sguardo dolce e
carezzevole della cugina si posava su di lui, lo costringeva ad
abbandonare i suoi tristi pensieri, e a inoltrarsi con lei sulle vie
della speranza e del futuro, dove ella voleva incamminarsi con lui.
In quello stesso momento, la città di Saumur era sconvolta dalla
cena che Grandet offriva ai Cruchot più di quanto lo fosse stata il
giorno prima dalla vendita della vendemmia, che costituiva un
delitto di alto tradimento verso la viticoltura. Se il furbo
vignaiolo avesse offerto quella cena con la stessa intenzione che
costò la coda al cane di Alcibiade, sarebbe stato forse un
grand'uomo; ma, troppo superiore a una città della quale egli si
beffava di continuo, Grandet non faceva alcun caso a Saumur. I des
Grassins vennero a sapere ben presto la morte violenta e il
probabile fallimento del padre di Charles; decisero di andare la
sera stessa a trovare il loro cliente per porgergli le condoglianze
e attestargli la loro amicizia, e anche per scoprire i motivi che
potevano averlo indotto, in simili circostanze, a invitare a cena i
Cruchot. Alle cinque precise, il presidente C. de Bonfons e suo zio
il notaio arrivarono tutti tirati a lucido. I convitati si misero a
tavola e cominciarono un'ottima cena. Grandet era serio, Charles
silenzioso, Eugénie muta, Mme Grandet non parlò più del solito, di
modo che quel desinare fu un vero pasto di condoglianze. Al levar
delle mense, Charles disse alla zia e allo zio: «Permettetemi di
ritirarmi. Devo sbrigare una lunga e triste corrispondenza.»
«Fate pure, nipote mio.»
Dopo la sua uscita, il brav'uomo, quando ritenne
che Charles non potesse più ascoltare e fosse immerso nelle sue
lettere, guardò con aria sorniona la moglie.
«Signora Grandet, ciò che dobbiamo dire sarebbe
latino per voi; sono le sette e mezzo, dovreste andare a chiudervi
in camera vostra. Buona notte, figlia mia.»
Baciò Eugénie e le due donne uscirono. Allora
cominciò la scena, nella quale papà Grandet, più che in qualsiasi
altro momento della sua vita, spiegò l'abilità che aveva acquistato
nel commercio con gli uomini, e che spesso gli valeva, da parte di
coloro che egli mordeva un po' troppo forte, il soprannome di
vecchio cane. Se il sindaco di Saumur avesse avuto ambizioni più
grandi, se qualche circostanza fortunata, facendolo arrivare vicino
alle sfere superiori della società, lo avesse portato nei congressi
dove si trattano gli affari delle nazioni, e se egli avesse
impiegato il talento che aveva messo al servizio del suo interesse
personale, non v'è dubbio che avrebbe potuto essere
meravigliosamente utile alla Francia. È però anche probabile che,
una volta uscito da Saumur, il brav'uomo avrebbe fatto solo una
meschina figura. Forse ci sono dei cervelli simili a certi animali
che perdono la fertilità una volta trasferiti lontano dall'ambiente
in cui sono nati.
«Si...i...i...i...gnor
pre...pre...pre...presidente, voooi di...di...di...dicecevaaate che
il faaallimento...»
Il balbettio che il brav'uomo simulava da tanto
tempo e che passava per essere naturale, come la sordità di cui si
lagnava nelle giornate di pioggia, diventò, in quella circostanza,
così stancante per i due Cruchot, che ascoltando il vignaiolo senza
accorgersene torcevano la bocca, facendo degli sforzi come se
volessero completare le parole sulle quali egli si impuntava a suo
piacimento. A questo punto, diventa forse necessario fornire la
storia della balbuzie e della sordità di Grandet. Nessuno,
nell'Angiò, aveva un udito migliore e una pronuncia più scorrevole
del furbo vignaiolo. Una volta, malgrado la sua astuzia, era stato
raggirato da un israelita, che, durante la discussione, portava una
mano all'orecchio a mo' di cornetto acustico, con il pretesto di
sentire meglio, e tartagliava così bene nel cercare la parole, che
Grandet, vittima della propria umanità, si senti in dovere di
suggerire allo scaltro ebreo le parole e le idee che quello sembrava
cercare, di completare lui stesso i ragionamenti del detto ebreo, di
parlare come doveva parlare quel dannato ebreo, di essere insomma
l'ebreo e non Grandet. Per il bottaio il risultato di questo strano
duello fu quello di concludere il solo affare di cui ebbe a pentirsi
nella sua vita di commerciante. Ma, se egli perse, dal punto di
vista pecuniario, ci guadagnò dal punto di vista morale una buona
lezione, e, più tardi, ne raccolse i frutti. Così il brav'uomo finì
per benedire l'ebreo che gli aveva insegnato l'arte di far
spazientire il proprio antagonista in affari, e, impegnandolo a
esprimere meglio il suo pensiero, di fargli perdere continuamente di
vista il proprio. Ora, nessuna faccenda esigeva più di quella che
era in ballo, il ricorso alla sordità, alla balbuzie e alle ambagi
incomprensibili nelle quali Grandet avviluppava le sue idee. Innanzi
tutto egli non voleva addossarsi la responsabilità delle proprie
idee; e poi non voleva impegnarsi a fondo, bensì lasciare dubbi
sulle sue vere intenzioni.
«Si...gnor de Bon...Bon...Bonfons.» Era la
seconda volta, in tre anni, che Grandet chiamava Cruchot nipote
signor de Bonfons. Il presidente fu sul punto di credersi scelto
come genero da quel contorto brav'uomo. «Vooooi
di...di...di...dicevate dunque che i faaallimenti
po...po...po...possono, i...in ce...certi casi, essere
impe...pe...pe...diti d...da...»
«Dagli stessi tribunali di commercio. È cosa di
tutti i giorni,» disse M. C. de Bonfons, sposando l'idea di papà
Grandet o credendo di indovinarla e volendogliela cortesemente
spiegare.
«Ascoltate»
«Ascol...to,» rispose umilmente il brav'uomo
assumendo la maliziosa espressione di un fanciullo che dentro di sé
rida del suo professore mentre sembra prestargli la più grande
attenzione.
«Quando un uomo considerevole e considerato, come
lo era, per esempio, il defunto vostro signor fratello a Parigi...»
«Mio...o fratello, si.»
«Corre il pericolo di un dissesto...»
«Si...iii chi...chiama di...di...dissesto?»
«Sì. Vale a dire quando la dichiarazione di
fallimento è imminente, il tribunale di commercio, dal quale egli
dovrà essere giudicato (seguitemi bene), ha facoltà di nominare, con
una sentenza, alcuni liquidatori della sua ditta. Liquidare non
significa fallire, capite? Quando fa fallimento, un uomo è
disonorato; ma quando liquida, rimane un onest'uomo.»
«C'è una bella di...di...di...differenza, se
que...e...sto non co...o...o...sta più caro,» disse Grandet.
«Ma una liquidazione si può fare anche senza
l'intervento del tribunale di commercio. Infatti,» disse il
presidente annusando una presa di tabacco, «come si dichiara un
fallimento?»
«Già, non ci avevo mai pe...pe...pe...pensato,»
rispose Grandet.
«In primo luogo,» riprese il magistrato, «con il
deposito del bilancio nella cancelleria del tribunale, eseguito dal
commerciante stesso o da un suo procuratore debitamente nominato. In
secondo luogo dietro richiesta dei creditori. Ora, se il
commerciante non deposita il bilancio, se nessun creditore chiede
una sentenza del tribunale che dichiari il suddetto commerciante in
stato fallimentare, che succede?»
«Sì...ì...i, ve...ve...vediamo.»
«Allora, la famiglia del defunto, i suoi
rappresentanti, il suo erede diretto, o il commerciante, se non è
morto, o i suoi amici, se si nasconde, liquidano. Volete forse
liquidare la ditta di vostro fratello?» domandò il presidente.
«Ah! Grandet!» esclamò il notaio, «sarebbe una
buona cosa. C'è ancora il senso dell'onore nelle nostre province. Se
voi salvaste il vostro nome, perché è il vostro nome, sareste un
uomo...»
«Sublime!» disse il presidente interrompendo lo
zio.
«Ce...certo,» rispose il vecchio vignaiolo;
«mi...mio frrr...fra...fratello si chia...chia...chia...mava Grandet
co...come me. Que...que...que...questo è più che sicuro. I...i...io
non dico di...di no. E...e...e...questa li...li...li...liquidazione
potrebbe in ogni caaaso essere soootto tuuutti gli a...a...aspetti
molto va...va...vantaggiosa per gli i...i...i...interessi di mio
ni...ni...nipote, che io a...a...amo. Ma bisogna vedere. Io non
co...co...conosco quei furbi di Parigi. Io...sto a Sau...au...aumur,
io, lo sapete. I miei iiinnesti, i miei fooossati, e po...poi ho i
miei affari. Non ho mai firmato una ca...ca...cambiale. Che cos'è
una cambiale? Ne...ne...ne ho ricevute mo...molte, ma non ne ho mai
fi...fi...firmate. Si...iii incassano, si scontano. Ecco tuuutto
quello ch...ch...che so. Ho se...se...se...sentito di...di...dire
che siii po...po...possono gi...gi...girare le ca...ca...ca...»
«Sì,» disse il presidente, «è possibile
acquistare le cambiali su piazza, pagando un tanto per cento.
Capite?»
Grandet portò una mano all'orecchio come un
cornetto acustico, e il presidente ripeté ciò che aveva detto.
«Ma,» rispose il vignaiolo, «in que...queste cose
bisogna stare attenti. Io...io...io non so niente, alla mia età, di
tuuutte que...que...queste faccende. Io de...devo ri...manere
qu...qu... qui per ba...ba...badare al grano. Il grano va
imma...gazzinato, ed è...è...è cooon il grano che si pa...paga.
Priiima di tutto, occorre ba...ba...badare ai...ai
ra...ra...raccolti, ho affari più i...i...importanti e
inte...te...teressanti a Froidfond. Io non posso a...a...abbandonare
la mi...mi...mi...mia casa perché degli i...i...imbrogli
de...de...del di...di...diavolo in cui non ci capi...pisco niente.
Voooi dite che...che dovrei, per li...li...liquidare, per fermare la
dichiarazione di fallimento essere a Parigi. Non ci si può
trooo...vare nello stesso tempo i...i...in due posti a meno di
essere un u...u...u...uccellino e...»
«Io vi capisco,» esclamò il notaio. «Ebbene, mio
vecchio amico, voi avete degli amici, dei vecchi amici che vi sono
devoti.»
«Benone!» pensava fra sé il vignaiolo,
«decidetevi allora!»
«E se qualcuno partisse per Parigi, vi cercasse
il più grosso creditore di vostro fratello Guillaume, gli
dicesse...»
«Un mi...mi...minuto,» riprese il brav'uomo; «gli
dicesse...che cosa? U...una co...cosa co...co...come questa: M.
Grandet...det di Saumur di...di...di... qua, M. Grandet...det di
Saumur di là. Ama suo fratello, ama suo ni...ni...nipote. Grandet è
un buon pa...pa...parente, ha delle ottime intenzioni. Ha venduto
bene la sua ve...ve...vendemmia. Non dichiarate il
fa...fa...fa...fallimento, riiiunitevi, no...no...nominate dei
li...li...liquidatori. Aaallora Grandet ve...ee...rrà. Voooi
o...o....otterrete di più liquidando che mettendoci di me...mezzo il
tribunale. Non è così?»
«Giusto!» disse il presidente.
«Perché, vedete, signor de
Bon...Bon...Bon...fons, bisogna riflettere prima di de...decidere.
Chi no...no...non può, no...non può. In ogni a...a...affare
ooone...neroso, peeer non ro...ro...ro...rovinarsi, bisogna
conoscere le risorse e le spese. Non è così?»
«Certamente,» disse il presidente. «Io sono del
parere che nel giro di qualche mese sarà possibile riscattare i
debiti per una certa somma e pagare tutto addivenendo a un accordo.
Ah! ah! si riesce a far correre parecchio i cani mostrando loro un
pezzo di lardo. Una volta che non ci sia stata dichiarazione di
fallimento e che voi abbiate in mano i titoli di credito, diverrete
bianco come la neve.»
«Come la ne...ne...neve?» ripeté Grandet tornando
a portarsi una mano all'orecchio. «Non capisco la ne...ne...neve.»
«Ma,» esclamò il presidente, «ascoltatemi
dunque!»
«A...a...ascolto.»
«Un effetto è una merce che può avere i suoi alti
e bassi. Questo si deduce dalla teoria di Geremia Bentham
sull'usura. Questo scrittore ha dimostrato che i pregiudizi contro
gli usurai sono una sciocchezza.»
«Già!» fece il brav'uomo.
«Dato che in via di principio, secondo Bentham,
il denaro è una merce, e che ciò che rappresenta il denaro diviene a
sua volta merce,» riprese il presidente; «poiché è noto che,
soggetta alle normali oscillazioni che si verificano negli scambi,
la merce-cambiale, recante la tale o tal'altra firma, esattamente
come il tale o tal altro articolo, abbonda o scarseggia sulla
piazza, e quindi il suo prezzo va alle stelle o cade a zero, il
tribunale ordina... (toh! che bestia sono, scusate...), io sono del
parere che possiate riscattare vostro fratello per un venticinque
per cento.»
«Voooi lo avete chi...chi...chiamato
Ge...Ge...Ge...Geremia Ben...?»
«Bentham, è un inglese.»
«Quel Geremia là ci risparmierà un sacco di noie
negli affari,» disse ridendo il notaio.
«Questi inglesi hanno a vo...vo...volte del
bu...on senso,» disse Grandet. «Così, se...se...se...secondo
Ben...Ben...Ben Bentham, se gli effetti di mio fratello
va...va...va...va...valgono...non valgono! Sì. Di...di...dico bene,
non è cosi? Questo mi sembra chiaro...I creditori sarebbero...no,
non sarebbero...ho capito.»
«Lasciate che vi spieghi tutto,» disse il
presidente. «In linea di diritto, se voi possedete i titoli di tutti
i debiti della ditta Grandet, vostro fratello o i suoi eredi non
devono niente a nessuno. Bene.»
«Bene,» ripeté il brav'uomo.
«In linea di equità, se gli effetti di vostro
fratello vengono negoziati (negoziati, comprendete bene questo
termine?) su piazza con la perdita di un tanto per cento; se un
vostro amico si trova a passare di là e li acquista, non avendoli i
creditori ceduti sotto alcuna coercizione, la successione del
defunto Grandet di Parigi si trova onestamente in pari.»
«È vero, gli a...a...a...affari sono affari,»
disse il bottaio. «Ciò pooosto... Ma, tuttavia, voi
co...co...co...mprendete che è di...di...di...difficile. I...i...io
non ho denaro né...né...né tempo, né tempo né...»
«Si, voi non potete disturbarvi. Mi offro di
andare io a Parigi (mi rimborserete solo le spese di viaggio, una
miseria). Incontrerò i creditori, parlerò con loro, li ammansirò e
tutto si sistemerà con un esborso supplementare che aggiungerete al
valore della liquidazione, allo scopo di rientrare in possesso dei
titoli di credito.»
«Veeedremo; io no...no...non posso, no...no...non
voglio i...i...impegnarmi senza...senza... che... Chi...chi...chi...
no...non può, non può. Caaapite?»
«È giusto!»
«Ho la testa fra...fra...frastornata da
que...quello che voooi...voi mi a...a...a...avete detto. È
la...la...la prima volta in vita mia che i...io sono costretto a
pe...pensare a...»
«Certo voi non siete un giureconsulto.»
«I...io sono un po...po...povero vignaiolo e non
so niente di ciò che vo...vo...voi avete detto; bi...bi...bisogna
che ci stu...stu...studi sopra.»
«Ebbene...» riprese il presidente come se volesse
riassumere la discussione.
«Caro nipote!...» lo interruppe il notaio con un
tono di rimprovero.
«Che cosa c'è, zio?» rispose il presidente.
«Lascia che M. Grandet ti spieghi le sue
intenzioni. Si tratta di un mandato importante. Il nostro caro amico
lo deve definire in modo preci...»
Un colpo di martello che annunciava l'arrivo
della famiglia des Grassins, l'ingresso di costoro e i saluti
impedirono a Cruchot di completare la frase. Il notaio fu contento
di questa interruzione; Grandet lo guardava già di traverso e la
verruca indicava una tempesta interiore. Ma innanzi tutto, il
prudente notaio non trovava opportuno che un presidente di tribunale
di prima istanza andasse a Parigi per ridurre alla ragione dei
creditori, per prestarsi a un maneggio che urtava contro i principi
di una rigorosa probità; poi, non avendo sentito esprimere da papà
Grandet la minima intenzione di pagare quel che ci fosse da pagare,
temeva istintivamente di vedere il nipote impegolato in questa
faccenda. Approfittò dunque del momento in cui i des Grassins
entravano per prendere sottobraccio il presidente nel vano della
finestra.
«Tu ti sei esposto a sufficienza, nipote; ma
basta con questo tipo di devozione. Il desiderio di avere la figlia
ti acceca. Diavolo! Non bisogna buttarcisi a capofitto come una
cornacchia sulle noci. Lascia a me il timone della barca e tu
aiutami solo nella manovra. Hai forse il dovere di compromettere la
tua dignità di magistrato in una simile...»
Non terminò la frase; ascoltava M. des Grassins
che diceva al vecchio bottaio porgendogli la mano: «Grandet, abbiamo
saputo della terribile disgrazia capitata nella vostra famiglia, il
disastro della ditta Guillaume Grandet e la morte di vostro
fratello; siamo venuti per esprimervi la nostra partecipazione a
questo triste evento.»
«L'unica disgrazia,» disse il notaio
interrompendo il banchiere, «è la morte di M. Grandet junior. E
comunque non si sarebbe ucciso se avesse pensato di chiedere aiuto
al fratello. Il nostro vecchio amico che ha il senso dell'onore fin
nella punta delle unghie, conta di liquidare i debiti della ditta
Grandet di Parigi. Mio nipote il presidente, per risparmiargli i
fastidi di una faccenda di carattere giudiziario, si è offerto di
partire subito per Parigi, allo scopo di concludere una transazione
con i creditori e di soddisfarli in modo conveniente.»
Queste parole, confermate dall'atteggiamento del
vignaiolo, che si accarezzava il mento, sorpresero non poco i tre
des Grassins, i quali strada facendo avevano imprecato contro
l'avarizia di Grandet, accusandolo quasi di fratricidio.
«Ah! lo sapevo!» esclamò il banchiere guardando
la moglie.
«Che ti dicevo per via, signora des Grassins?
Grandet ha l'onore fin sulla punta dei capelli, e non accetterà che
il suo nome possa essere anche solo leggermente scalfito! Il denaro
senza onore è una piaga. Nelle nostre province l'onore esiste! È una
buona, ottima cosa, Grandet. Io sono un vecchio soldato e non so
dissimulare il mio pensiero; parlerò senza ambagi: per mille
fulmini! è un gesto sublime.»
«Aaallora il su...su...sublime costa ca...caro,»
rispose il brav'uomo mentre il banchiere gli scuoteva calorosamente
la mano.
«Ma questa, mio caro Grandet, non dispiaccia al
signor presidente,» riprese des Grassins, «è una questione puramente
finanziaria, ed esige una persona molto esperta nel ramo. Non si
tratta forse di saperla lunga sui conti di restituzione, di
anticipazione, sul calcolo degli interessi? Devo andare a Parigi per
i miei affari, e quindi potrei incaricarmi di...»
«Vedremo dunque di ce...ce...cercare di
accordarci no...noi due nelle rispettive po...po...po...possibilità
e senza i...i...impegnarmi in qualcosa che io...io...io...non
voooo...rrei fare,» disse Grandet balbettando; «perché, vedete, il
signor presidente mi chiedeva come è naturale le spese di viaggio.»
Pronunciando queste ultime parole il brav'uomo
non balbettava più.
«Eh!» disse Mme des Grassins, «è un tale piacere
stare a Parigi. Pagherei volentieri per andarci io.»
E fece un segno al marito come per incoraggiarlo
a soffiare a ogni costo, quell'incarico ai loro avversari; poi gettò
uno sguardo carico di ironia ai due Cruchot, che avevano un'aria
delusa. Grandet afferrò allora il banchiere per un bottone della
marsina e lo attirò in un angolo.
«Ho più fiducia in voi che nel presidente,» gli
disse. «Eppoi c'è dell'altro,» aggiunse muovendo la verruca. «Vorrei
investire nei titoli; penso di comperare titoli per qualche migliaio
di franchi, ma non vorrei pagarli più di ottanta franchi. Mi dicono
che le quotazioni scendono a fine mese. Voi ve ne intendete, vero?»
«Perdiana! Dovrei dunque acquistare qualche
migliaio di lire di titoli per vostro conto?»
«Poca roba per cominciare. Mosca! Vorrei giocare
a quel gioco senza che se ne sappia nulla. Concluderete l'acquisto
per fine mese, ma non dite nulla ai Cruchot, potrebbero
indispettirsi. Dal momento che andate a Parigi, vedremo al tempo
stesso, per il mio povero nipote, come stanno le cose.»
«D'accordo. Partirò domani con la diligenza,»
disse ad alta voce des Grassins, «e verrò a prendere le vostre
ultime istruzioni alle... A che ora?»
«Alle cinque, prima di cena,» disse il vignaiolo
fregandosi le mani.
I due avversi schieramenti rimasero ancora
qualche istante uno di fronte all'altro. Dopo una pausa, des
Grassins disse battendo su una spalla di Grandet: «È bello avere dei
buoni parenti cosi...»
«Sì, sì, anche se non lo do a vedere,» rispose
Grandet, «sono un buon pa...parente. Volevo bene a mio fratello e lo
dimostrerò se...se non...non costa...»
«Noi vi lasciamo, Grandet,» disse il banchiere,
interrompendolo per fortuna prima che completasse la frase. «Se
anticipo la partenza, ho bisogno di sistemare alcune faccende.»
«Bene, bene. Anche io, rii...guardo a ciò che
sa...pete, va...vado a ritirarmi in ca...mera di co...consiglio,
come dice il presidente Cruchot.»
«Accidenti! Non mi chiama più M. de Bonfons,»
pensò tristemente il magistrato, sul cui viso si dipinse
l'espressione del giudice annoiato da un'arringa.
I capi delle due famiglie rivali se ne andarono
insieme. Né gli uni né gli altri pensavano più al tradimento di cui
si era macchiato quella mattina Grandet nei confronti della
viticoltura locale, e cercarono, ma invano, di conoscere i
rispettivi punti di vista sulle reali intenzioni del brav'uomo in
questo nuovo affare.
«Venite con noi da Mme d'Orsonval?» chiese des
Grassins al notaio.
«Ci verremo più tardi,» rispose il presidente.
«Se mio zio permette, ho promesso di fare un salutino a Mme de
Gribeaucourt, e pensiamo di passare da lei.»
«Arrivederci dunque, signori,» disse Mme des
Grassins.
E, quando i des Grassins si furono allontanati di
qualche passo dai Cruchot, Adolphe disse al padre: «Sono imbuggerati
niente male, eh?»
«Sta' zitto, figliolo,» lo rimbeccò la madre,
«possono ancora sentirci. Eppoi queste espressioni sono di cattivo
gusto e puzzano di università.»
«Hai visto, zio?» esclamò il magistrato quando
vide che i des Grassins erano abbastanza lontani, «ho cominciato con
l'essere il presidente de Bonfons e ho finito come un semplice
Cruchot.»
«Mi sono accorto che eri contrariato; ma il vento
spirava a favore dei des Grassins. Con tutta la tua intelligenza ti
comporti da stupido! Lascia che cavalchino un vedremo di papà
Grandet, e stai calmo, ragazzo mio: non per questo Eugénie non sarà
tua moglie.»
Nel giro di pochi minuti la notizia della
magnanima decisione di Grandet fu conosciuta contemporaneamente in
tre case, e in tutta la città non si parlò più che di questo
attaccamento fraterno. Tutti avevano perdonato a Grandet la vendita
conclusa in dispregio del solenne accordo fra viticoltori, e
ammiravano il suo senso dell'onore, lodavano la generosità di cui
non lo avevano ritenuto capace. È proprio del carattere francese
entusiasmarsi, andare in collera, appassionarsi per l'astro del
momento, per l'effimero. Le collettività, i popoli non hanno dunque
memoria?
Dopo aver chiuso la porta, papà Grandet chiamò
Nanon.
«Non sciogliere il cane e non andare a dormire,
dobbiamo lavorare insieme. Alle undici, Cornoiller deve trovarsi
alla porta con la carrozza di Froidfond. Sta' attenta a quando
arriva in modo che non bussi, e digli di entrare in silenzio. Le
leggi di polizia vietano gli schiamazzi notturni. Eppoi, non c'è
bisogno di far sapere a tutto il vicinato che mi metto in viaggio.»
Detto ciò, Grandet tornò nel suo laboratorio, e
Nanon lo sentì trafficare, frugare, andare, venire, ma tutto con
circospezione. Evidentemente non voleva svegliare né la moglie né la
figlia, e soprattutto non voleva attirare l'attenzione del nipote,
che stava già maledicendo perché aveva visto luce nella sua camera.
A metà notte, Eugénie preoccupata per il cugino, credette di aver
sentito il rantolo di un moribondo, e per lei quel moribondo era
Charles: lo aveva lasciato così pallido e disperato! forse si era
ucciso. Si buttò addosso una specie di mantello di pelo con
cappuccio e decise di uscire. A tutta prima un forte bagliore che
trapelava dalla fessura della porta le fece temere che ci fosse un
incendio; poi si rassicurò udendo i passi pesanti di Nanon e la sua
voce che si confondeva con un nitrire di cavalli.
«Che mio padre voglia portar via mio cugino?» si
disse socchiudendo la porta con precauzione per non farla cigolare,
ma in modo da poter vedere ciò che accadeva nel corridoio.
D'un tratto i suoi occhi incontrarono quelli del
padre, il cui sguardo, per quanto vago e indifferente, la fece
rabbrividire di terrore. Il brav'uomo e Nanon tenevano ciascuno
sulla spalla destra le due estremità di una pertica alla quale era
attaccato mediante una fune un barilotto simile a quelli che papà
Grandet si divertiva a fabbricare nel locale del forno quando aveva
dei momenti liberi.
«Santa Vergine! signore, come pesa!» disse a
bassa voce Nanon.
«Purtroppo sono solo soldoni!» rispose il
brav'uomo. «Attenta a non urtare il candeliere.»
Questa scena era illuminata da una sola candela
sistemata fra due sbarre della ringhiera.
«Cornoiller,» disse Grandet al suo guardiano in
partibus , «hai preso le pistole?»
«No, signore. Cribbio! che c'è da temere per i
vostri soldoni?...»
«Oh! niente,» disse papà Grandet.
«Del resto, andremo svelti,» riprese il
guardiano, «i fittavoli hanno scelto per voi i cavalli migliori.»
«Bene, bene. Hai detto forse dove vado?»
«Non lo so nemmeno.»
«Bene. La vettura è solida?»
«Questa, padrone? Ah beh, questa potrebbe portare
tremila libbre. Ma quanto pesano questi vostri barilacci?»
«Quanto a questo,» disse Nanon, «lo so ben io!
Quasi mille e ottocento.»
«Vuoi tacere, Nanon? Di' a mia moglie che sono
andato in campagna e tornerò per cena. - Va' alla svelta,
Cornoiller, dobbiamo essere ad Angers prima delle nove.»
Partita la carrozza, Nanon mise il chiavistello
al portone, sciolse il cane, andò a letto con una spalla
indolenzita, e nessuno nel quartiere sospettò né la partenza di
Grandet né lo scopo di quel viaggio. La segretezza del brav'uomo era
assoluta. Nessuno vedeva mai un soldo in quella casa piena d'oro.
Dopo aver saputo in mattinata, dalle chiacchiere che si facevano sul
porto, che il prezzo dell'oro era raddoppiato per via delle numerose
navi che si stavano armando a Nantes, e che ad Angers erano arrivati
degli speculatori che intendevano acquistare oro, il vecchio
vignaiolo, facendosi semplicemente prestare dei cavalli dei
fittavoli, fu in grado di andare a vendere il suo oro e di riportare
a casa in buoni del ricevitore generale del Tesoro la somma
necessaria, aumentata dal plusvalore, per acquistare i suoi titoli.
«Mio padre se ne va,» disse Eugénie che dall'alto
della scala aveva sentito tutto. Il silenzio era tornato nella casa,
e il lontano rumore della carrozza, che svaniva a poco a poco, non
si udiva già più in una Saumur addormentata. In quel momento Eugénie
sentì col cuore, prima di udirlo con le orecchie, un lamento che
trapassò le pareti, e che veniva dalla camera del cugino. Una
striscia luminosa, sottile come il taglio di una sciabola, passava
dalla fessura della porta e fendeva orizzontalmente la ringhiera
della vecchia scala.
«Sta soffrendo,» disse lei salendo due scalini.
Un secondo gemito la fece arrivare fino al pianerottolo della
camera. La porta era socchiusa, ella la spinse. Charles dormiva con
la testa che penzolava fuori della vecchia poltrona; la mano dalla
quale era sfuggita la penna toccava quasi per terra. Il respiro
irregolare del giovane dovuto alla posizione fece spaventare
Eugénie, che entrò subito. «Deve essere molto stanco», si disse
guardando una decina di lettere chiuse. Ne lesse gli indirizzi: Ai
signori: Farry, Breilman e C., carrozzieri - Al signor Buisson,
sarto ecc. «Deve aver sistemato tutti i suoi affari per poter
lasciare al più presto la Francia,» pensò Eugénie. Gli occhi le
caddero su due lettere aperte. Le parole con cui cominciava una
lettera: «Mia cara Annette...» le provocarono un capogiro. Il cuore
le batteva in petto, i piedi sembravano inchiodati al pavimento. La
sua cara Annette! Egli ama, è amato! Non c'è più speranza!... Che
cosa le dice? Questi pensieri le trapassarono la testa e il cuore.
Vedeva quelle parole fiammeggiare dappertutto, perfino sul piancito.
«Devo già rinunciare a lui! No, non leggerò quella lettera. Devo
andarmene... Ma dopo tutto, se la leggessi?» Guardò Charles, gli
prese dolcemente la testa e la posò sulla spalliera della poltrona,
mentre lui si lasciava fare come un bambino che, pure dormendo,
riconosce la madre e accetta, senza svegliarsi, le sue premure e i
suoi baci. Come una madre Eugénie sollevò la mano che stava
penzoloni, e, come una madre, gli baciò con dolcezza i capelli.
«Cara Annette!» Un demone le urlava queste due parole nelle
orecchie. «So che forse faccio male, ma questa lettera la leggerò,»
disse. Eugénie voltò la testa perché la sua nobile onestà le faceva
rimordere la coscienza. Per la prima volta nella vita il bene e il
male erano uno di fronte all'altro nel suo cuore. Fino a quel
momento, non aveva dovuto arrossire di nulla. La passione, la
curiosità ebbero il sopravvento. A ogni frase, il cuore le si
gonfiava sempre più, e il bruciore che la invase durante la lettura
le rese ancor più gustosi i piaceri del primo amore.
«Mia cara Annette, niente avrebbe dovuto
separarci, se non la disgrazia che mi travolge e che la prudenza
umana non avrebbe potuto prevedere. Mio padre si è ucciso, la sua
fortuna e la mia sono completamente perdute. Mi ritrovo orfano a
un'età in cui, data la mia educazione, potrei passare per un
ragazzo; e tuttavia devo risalire da uomo il precipizio nel quale
sono caduto. Ho impiegato una parte di questa notte a fare conti. Se
voglio lasciare la Francia da onest'uomo, e non c'è da dubitarne,
non possiedo nemmeno cento franchi per andare a fare fortuna nelle
Indie o in America. Sì, mia povera Anna, andrò a tentare la sorte
nei climi più malsani. Sotto quei cieli, mi hanno detto, essa è
sicura e rapida. Restare a Parigi non potrei. Né la mia anima né il
mio viso sono fatti per sopportare gli affronti, la freddezza, il
disprezzo che attendono l'uomo rovinato, il figlio del fallito! Buon
Dio! Essere debitore di due milioni!... Finirei ucciso in duello nel
giro di sette giorni. Per questo non vi tornerò. Nemmeno il tuo
amore, il più tenero e il più devoto che abbia mai nobilitato il
cuore di un uomo riuscirebbe ad attirarmi colà. Ahimè! mia adorata,
non ho abbastanza denaro per venire dove sei tu, per dare e ricevere
un ultimo bacio, un bacio dal quale trarrei la forza necessaria per
quello che devo intraprendere...»
«Povero Charles, ho fatto bene a leggere! Ho un
po' d'oro, glielo darò,» disse Eugénie.
Dopo essersi asciugata le lacrime, riprese la
lettura.
«Non avevo mai pensato all'infelicità della
miseria. Se ho i cento luigi indispensabili per pagare il passaggio,
non mi resterà un soldo per mettere insieme una paccottiglia.
Macché, non ho né cento luigi né un luigi, saprò quanto denaro mi
resta solo dopo che saranno stati pagati i miei debiti a Parigi. Se
non mi rimane nulla, me ne andrò tranquillamente a Nantes, mi
imbarcherò come mozzo, e comincerò dal basso come hanno cominciato
gli uomini forti che, da giovani, non avevano un soldo e sono
tornati ricchi dalle Indie. Da questa mattina guardo con freddezza
il mio avvenire. È più brutto per me che per chiunque altro, perché
io sono stato coccolato da una madre che mi adorava, amato dal
migliore dei padri e perché, al mio ingresso nel mondo, ho
incontrato l'amore di una Anna! Ho conosciuto solo i fiori della
vita: questa felicità non poteva durare. E tuttavia, mia cara
Annette, ho più coraggio di quanto dovrebbe averne un giovane fatuo,
soprattutto un giovane abituato ai vezzi della donna più deliziosa
di Parigi, cullato nelle gioie della famiglia, cui tutto sorrideva
in casa, e i cui desideri erano legge per un padre... Oh! Annette,
mio padre, mio padre è morto...
«Ebbene, ho riflettuto sulla mia situazione, e ho
riflettuto anche sulla tua. Sono invecchiato molto in ventiquattro
ore. Cara Anna, se, per tenermi vicino a te, a Parigi, tu
sacrificassi tutti i tuoi piaceri del lusso, i tuoi vestiti, il
palco all'Opera, non arriveremmo ancora alla cifra necessaria per la
mia vita dissipata; eppoi io non potrei accettare tanti sacrifici.
Quindi oggi noi ci lasciamo per sempre.»
«Egli la lascia, Santa Vergine! O felicità!»
Eugénie fece un salto di gioia. Charles si mosse,
ed ella si sentì gelare dal terrore; ma il giovane non si svegliò,
fortunatamente per lei. Eugénie riprese la lettura:
«Quando tornerò? Non lo so. Il clima delle Indie
fa invecchiare precocemente un europeo e soprattutto un europeo che
lavora. Diciamo da qui a dieci anni. Fra dieci anni tua figlia avrà
diciotto anni, sarà la tua compagna, la tua spia. Per te il mondo
sarà crudele, tua figlia lo sarà ancora di più. Abbiamo avuto esempi
di questi giudizi mondani, di queste ingratitudini delle ragazze;
mettiamoli a profitto. Conserva in fondo al tuo animo, come io lo
conserverò, il ricordo di questi quattro anni di felicità e sii
fedele, se puoi, al tuo povero amico. Però non potrei esigerlo,
perché, vedi mia cara Annette, devo adattarmi alla mia situazione,
vedere la vita da borghese e valutarla per ciò che è. Quindi, devo
pensare a sposarmi, il che sarà una necessità della mia nuova
esistenza; e ti confesserò che ho trovato qui, a Saumur, in casa di
mio zio, una cugina della quale le maniere, il viso, l'intelligenza
e il cuore ti piacerebbero, e che, inoltre, mi pare abbia...»
«Doveva essere molto stanco per aver smesso di
scrivere,» si disse Eugénie vedendo che la lettera era interrotta a
metà di quella frase.
Ella lo giustificava! Era dunque impossibile che
quella innocente fanciulla si accorgesse della freddezza che c'era
nella lettera? Per le giovani educate religiosamente, ignoranti e
pure, tutto è amore dal momento in cui mettono piede nelle regioni
incantate dell'amore. Vi avanzano circondate dalla luce celeste che
la loro anima proietta e che si irraggia sul loro amante; esse lo
colorano con le tinte accese dei propri sentimenti e gli prestano i
loro bei pensieri. Gli errori della donna nascono quasi sempre dal
suo credere nel bene, o dalla sua fiducia nel vero. Queste parole:
«Mia cara Annette, mia adorata» risuonavano nel cuore di Eugénie
come il più bel linguaggio d'amore e le carezzavano l'anima come, da
bambina, le note divine del Venite adoremus, suonate dall'organo, le
carezzavano le orecchie. Del resto, le lacrime che bagnavano ancora
gli occhi di Charles dimostravano quella nobiltà del cuore che non
può non sedurre una fanciulla. E come poteva ella sapere che, se
Charles amava tanto il padre e lo piangeva sinceramente, questa
tenerezza proveniva non tanto dalla bontà del suo cuore quanto dalla
bontà del padre? M. e Mme Guillaume Grandet, assecondando sempre i
capricci del figlio, concedendogli tutte le soddisfazioni della
ricchezza, gli avevano impedito di fare quegli orribili calcoli di
cui sono più o meno capaci, a Parigi, molti figli, quando, davanti
ai piaceri parigini, nutrono desideri e concepiscono progetti
continuamente rinviati o ritardati dall'esistenza dei genitori. La
prodigalità del padre giunse quindi a far nascere nel cuore del
figlio un amore filiale vero, senza secondi fini. Ciò nondimeno,
Charles era un ragazzo di Parigi, abituato dai costumi di Parigi,
dalla stessa Annette, a calcolare tutto, un vecchio sotto la
maschera del giovane. Aveva ricevuto la spaventosa educazione di un
mondo in cui, in una serata, si commettono con i pensieri, con le
parole più delitti di quanti la giustizia ne punisca nelle corti
d'assise, in cui le battute di spirito assassinano le più grandi
idee, in cui si passa per essere in gamba quando si vede giusto; e,
là, vedere giusto significa non credere a nulla, né ai sentimenti né
agli uomini e nemmeno agli avvenimenti; là si montano falsi
avvenimenti. Là, per vedere giusto, bisogna ogni mattina, pesare la
borsa di un amico, sapersi mettere politicamente al di sopra di ogni
eventualità; non ammirare nulla di slancio, né le opere d'arte né le
azioni nobili, e dare come fine ad ogni cosa l'interesse personale.
Dopo mille follie, la gran dama, la bella Annette, costrinse Charles
a pensare seriamente; gli parlava della sua posizione futura,
passandogli fra i capelli una mano profumata; mettendogli a posto un
ricciolo, gli faceva calcolare la vita: lo effemminava e lo rendeva
materialista. Doppia corruzione, ma corruzione elegante e di buon
gusto.
«Siete ingenuo, Charles», gli diceva. «Farò
fatica a insegnarvi come va il mondo. Vi siete comportato malissimo
con M. des Lupeaulx. Lo so che è un uomo poco rispettabile; ma
aspettate che non sia più al potere, allora lo disprezzerete quanto
vorrete. Sapete che cosa ci diceva Mme Campan? Ragazzi miei, finché
un uomo è al governo, adoratelo; se cade, aiutate a trascinarlo nel
pattume. Quando è potente, è come un Dio; quando è distrutto, è in
una situazione peggiore di Marat nella sua tinozza, perché lui è
vivo mentre Marat era morto. La vita è un seguito di combinazioni, e
bisogna studiarle, seguirle, per riuscire a mantenersi sempre in una
buona posizione.»
Charles era un uomo troppo alla moda, era stato
reso sempre troppo felice dai genitori, era stato troppo adulato dal
mondo, per avere grandi sentimenti. La pepita d'oro che la madre gli
aveva messo nel cuore era diventata duttile passando per la trafila
parigina; egli l'aveva impiegata superficialmente e l'avrebbe
consumata con l'attrito. Ma Charles aveva allora solo ventuno anni.
A quell'età, la freschezza della vita sembra inseparabile dal
candore dell'anima. La voce, lo sguardo, il volto, sembravano
rispecchiare i sentimenti. Perciò il giudice più severo, l'avvocato
più incredulo, l'usuraio più incallito esitano sempre a credere alla
vecchiezza del cuore, alla corruzione dei calcoli, quando gli occhi
nuotano ancora in un fluido puro e sulla fronte non ci sono rughe.
Charles non aveva mai avuto occasione di applicare le massime della
morale parigina e fino a quel giorno l'inesperienza lo rendeva
bello. Ma, a sua insaputa, gli era stato inoculato l'egoismo. I
germi dell'economia politica a uso del parigino, latenti nel suo
cuore, non dovevano tardare a moltiplicarsi, non appena da
spettatore passivo, fosse diventato attore nel dramma della vita.
Quasi tutte le fanciulle cedono alle dolci promesse di queste
apparenze; ma, se Eugénie fosse stata prudente e osservatrice quanto
lo sono certe ragazze di provincia, avrebbe potuto diffidare del
cugino, dato che in lui i modi, le parole e le azioni erano ancora
in armonia con le aspirazioni del cuore? Un caso, per lei fatale, le
fece sperimentare le ultime effusioni di schietta sensibilità di
quel giovane cuore, e ascoltare, per cosi dire, gli ultimi sospiri
della coscienza. Lasciò quella lettera, ai suoi occhi piena d'amore,
e si mise a contemplare con uno sguardo gentile il cugino
addormentato: per lei le fresche illusioni della vita erano ancora
dipinte su quel volto; giurò a se stessa di amarlo per sempre. Poi
gettò gli occhi sull'altra lettera senza provare molti rimorsi per
questa indiscrezione; e, se cominciò a leggerla, fu per avere altre
conferme delle nobili qualità che, simile in ciò a tutte le donne,
attribuiva a colui che aveva scelto.
«Mio caro Alphonse, quando leggerai questa
lettera io non avrò più amici; ma ti confesso che se dubito delle
persone di mondo abituate a usare con facilità questa parola, non ho
dubitato della tua amicizia. Perciò do a te l'incarico di sistemare
i miei affari, e conto su di te per ricavare il meglio da tutto ciò
che possiedo. Ora bisogna che tu conosca la mia situazione. Non ho
più niente e voglio partire per le Indie. Ho appena scritto a tutte
le persone alle quali credo di dovere del denaro, e tu ne troverai
qui unito l'elenco, completo per quanto possibile dovendo affidarmi
solo alla memoria. La mia biblioteca, i miei mobili, le mie
carrozze, i miei cavalli ecc. dovrebbero bastare a pagare i debiti.
Tengo per me solo le quisquilie senza valore che potrebbero servirmi
per cominciare a mettere insieme una paccottiglia. Mio caro
Alphonse, ti spedirò da qui, per questa vendita, una regolare
procura, onde evitare ogni contestazione. Mandami tutte le mie armi.
Tieni per te Briton. Nessuno sarebbe disposto a pagare il prezzo di
quella ammirabile bestia, preferisco offrirtela, come l'anello che
il moribondo lascia per consuetudine al suo esecutore testamentario.
Farry, Breilman e C. mi hanno costruito una comodissima vettura da
viaggio, ma non me l'hanno consegnata; convincili a tenersela senza
pretendere indennizzi: se rifiutassero, evita tutto ciò che
potrebbe, nelle circostanze in cui mi trovo, macchiare la mia
probità. Devo all'isolano sei luigi, persi al gioco, non mancare
di...»
«Caro cugino», disse Eugénie posando la lettera e
tornando a piccoli passi in camera sua con una delle candele accese.
E là, non senza un vivo senso di piacere apri il cassetto di un
vecchio mobile di quercia, una bella opera dell'epoca chiamata
Rinascimento, e sul quale si vedeva ancora, un po' consunta, la
famosa salamandra reale. Eugénie ne tirò fuori una grossa borsa di
velluto rosso con ghiande d'oro, orlata da una canutiglia consumata,
proveniente dall'eredità della nonna. Poi soppesò piena di orgoglio
quella borsa, e si mise a rifare il conto ormai dimenticato del
piccolo peculio. Dapprima mise da parte venti portoghesi ancora
nuovi, coniati nel 1725 sotto il regno di Giovanni V e che valevano
al cambio reale cinque lisbonine o centosessantotto franchi e
sessantaquattro centesimi ciascuno, cosi le aveva detto il padre, ma
il cui valore convenzionale era di centottanta franchi, data la
rarità e la bellezza di quelle monete, che splendevano come soli.
Item, cinque genovine o pezzi da cento lire di Genova, altra moneta
rara che al cambio valeva ottantasette franchi, ma per gli amatori
cento franchi. Le venivano dal vecchio M. de la Bertellière. Item,
tre quadruple d'oro spagnole di Filippo V, coniate nel 1729,
regalate da Mme Gentillet, che, offrendogliele, le diceva sempre la
stessa frase: «Questo canarino, questa piccola moneta d'oro, vale
novantotto lire! Custoditela bene, carina mia, sarà il fior fiore
del vostro tesoro.» Item, ciò che suo padre stimava di più (l'oro di
queste monete era a ventitré carati e una frazione) cento ducati
d'Olanda, coniati nel 1756, e che valevano quasi tredici franchi.
Item, una grande curiosità!... alcune medaglie preziose per gli
avari, tre rupie col segno della Bilancia, e cinque rupie col segno
della Vergine, tutte di oro puro a ventiquattro carati, la splendida
moneta del Gran Mogol, ciascuna delle quali valeva trentasette
franchi e quaranta centesimi a peso, ma almeno cinquanta franchi per
gli intenditori che amano maneggiare l'oro. Item, il napoleone da
quaranta franchi ricevuto due giorni prima e che ella aveva messo
senza farci tanto caso nella borsa rossa. Questo tesoro comprendeva
delle monete nuove e vergini, delle vere opere d'arte che a volte
papà Grandet chiedeva di rivedere, per spiegarne alla figlia i pregi
intrinseci come la bellezza della cornice, la lucentezza delle
facce, la preziosità delle lettere i cui spigoli vivi non erano
ancora smussati. Ma ella non pensava né a queste rarità né alla
mania del padre né al pericolo che correva dando via un tesoro a lui
tanto caro; no, ella pensava al cugino, e alla fine giunse a capire,
dopo qualche calcolo sbagliato, che possedeva circa cinquemila
ottocento franchi in valori reali, che, convenzionalmente, si
potevano vendere a quasi duemila scudi. Alla vista di queste
ricchezze, Eugénie si mise a battere le mani, come un fanciullo che
scarichi l'eccesso di gioia con movimenti inconsulti del corpo. Così
padre e figlia avevano contato ciascuno la propria fortuna: lui, per
andare a vendere il suo oro; Eugénie, per gettare il suo in un
oceano di affetto. Ripose le monete nella vecchia borsa, e con
questa risalì le scale senza esitazioni. La miseria segreta del
cugino le faceva dimenticare la notte, le convenienze; eppoi si
sentiva forte della propria coscienza, del proprio attaccamento,
della propria felicità. Nel momento in cui apparve sull'uscio,
tenendo in una mano la candela, nell'altra la borsa, Charles si
svegliò, vide la cugina e rimase a bocca aperta per la sorpresa.
Eugénie si fece avanti, posò il candeliere sul tavolo e disse con
voce commossa:
«Cugino, devo chiedervi perdono di una grave
colpa che ho commesso verso di voi; ma se voi vorrete cancellarla,
Dio me lo perdonerà, questo peccato.»
«Di che si tratta?» chiese Charles strofinandosi
gli occhi. «Ho letto quelle due lettere.»
Charles arrossì. «Come è successo?» riprese lei;
«perché sono salita? In verità, adesso non lo so più. Ma sono
tentata di non pentirmi troppo per aver letto quelle due lettere,
perché esse mi hanno fatto conoscere il vostro cuore, la vostra
anima e...»
«E che altro?» domandó Charles.
«I vostri progetti, la necessità in cui vi
trovate di poter disporre di una somma...»
«Mia cara cugina...»
«Ssst, ssst, cugino! parlate piano, o sveglieremo
qualcuno. Ecco,» disse aprendo la borsa, «i risparmi di una povera
ragazza che non ha bisogno di nulla. Charles, accettateli. Questa
mattina, ignoravo che cosa fosse il denaro, voi me lo avete
insegnato, non è che un mezzo, ecco tutto. Un cugino è quasi un
fratello, quindi potete benissimo prendere in prestito la borsa di
vostra sorella.»
Eugénie, tanto donna quanto fanciulla, non aveva
previsto un rifiuto, e suo cugino non diceva nulla.
«Volete forse rifiutare?» chiese Eugénie; i
battiti del suo cuore risuonavano in quel silenzio profondo.
L'esitazione del cugino la umiliò; ma lo stato di
bisogno nel quale egli si trovava ebbe il sopravvento nel suo animo,
ed ella piegò un ginocchio.
«Non mi rialzerò prima che abbiate preso
quest'oro!» disse. «Cugino mio, di grazia, una risposta!... voglio
sapere se mi onorate, se siete generoso, se...»
Udendo quel grido di nobile disperazione, Charles
bagnò di lacrime le mani della cugina, che aveva afferrato per
impedirle di inginocchiarsi. Sentendo quelle lacrime calde, Eugénie
afferrò la borsa e la rovesciò sul tavolo.
«Allora, sì, non è vero?» disse piangendo di
gioia. «Non temete, cugino, voi diventerete ricco. Questo oro vi
porterà fortuna; un giorno me lo restituirete; e poi, noi due saremo
in società; insomma accetterò tutte le condizioni che mi imporrete.
Ma non dovreste attribuire tanto valore a questo dono.»
Charles riuscì alla fine a dare sfogo ai propri
sentimenti.
«Sì, Eugénie, avrei un animo ben meschino, se non
accettassi. Tuttavia, niente per niente, fiducia per fiducia.»
«Che cosa volete?» disse lei spaventata.
«Ascoltate, cara cugina, ho qui...» Si interruppe
per indicare sul comodino una cassetta quadrata chiusa in una
custodia di cuoio.
«Ho qui, vedete, una cosa che mi è cara come la
vita. Quella cassetta è un regalo di mia madre. Dopo questa mattina,
ho pensato che, se potesse uscire dalla tomba, lei stessa venderebbe
l'oro che la tenerezza le fece prodigare in questo nécessaire, ma se
lo facessi io, mi parrebbe un gesto sacrilego.» Udendo queste parole
Eugénie serrò con forza la mano del cugino.
«No,» riprese Charles dopo una breve pausa,
durante la quale si scambiarono uno sguardo inumidito dalle lacrime,
«no, non voglio distruggerla né voglio metterla in pericolo nei miei
viaggi. Cara Eugénie, voi ne sarete la depositaria. Mai amico ha
confidato qualcosa di più sacro all'amico. Giudicate voi.» Andò a
prendere la cassetta, la tolse dalla custodia, l'aprì e mostrò con
aria triste alla cugina sbalordita un nécessaire dove la lavorazione
conferiva all'oro un valore di molto superiore a quello del peso.
«Quello che ammirate è niente,» disse spingendo una molla che fece
scattare un doppio fondo. «Ecco ciò che, per me, vale il mondo
intero.» Tirò fuori due ritratti, due capolavori di Mme de Mirbel,
inquadrati in due cornici di perle.
«Oh! che bella persona! non è la signora alla
quale voi scri...?»
«No,» disse sorridendo Charles. «Questa donna è
mia madre, e questo è mio padre, vale a dire vostra zia e vostro
zio. Eugénie, devo supplicarvi in ginocchio di conservarmi questi
tesori. Se morissi perdendo la vostra piccola fortuna, quest'oro vi
indennizzerebbe; e, a voi sola, io posso lasciare i due ritratti;
voi siete degna di custodirli; ma distruggeteli, affinché dopo di
voi non vadano in altre mani...» Eugénie taceva. «E allora, si, non
è vero?» aggiunse lui con grazia.
Udendo le parole appena pronunciate dal cugino,
ella gli lanciò il suo primo sguardo di donna innamorata, uno di
quegli sguardi in cui c'è tanta civetteria quanta profondità;
Charles le prese la mano e gliela baciò.
«Angelo di purezza, fra noi il denaro non
significherà mai niente, vero? Conterà solo il sentimento che al
denaro dà un senso.»
«Somigliate a vostra madre. Aveva la voce dolce
come la vostra?»
«Oh! molto più dolce...»
«Sì, per voi,» disse Eugénie abbassando le
palpebre. «Suvvia, Charles, coricatevi, lo voglio, siete stanco. A
domani.»
Liberò dolcemente la mano dalla stretta di quelle
del cugino, che la riaccompagnò facendole lume. Quando furono tutti
e due sull'uscio: «Ah! perché sono rovinato?» disse lui.
«Bah! mio padre è ricco, credo,» rispose Eugénie.
«Povera piccola,» riprese Charles allungando un
piede verso l'interno della stanza e appoggiandosi con le spalle al
muro, «se così fosse non avrebbe lasciato morire mio padre; non vi
farebbe condurre una vita tanto misera, insomma vivrebbe in altro
modo.»
«Ma ha Froidfond.»
«E che cosa vale Froidfond?»
«Non lo so; ma ha Noyers.»
«Qualche pessima fattoria!»
«Ha delle vigne e dei prati...»
«Miserie,» disse Charles con tono sprezzante. «Se
vostro padre avesse solo ventiquattromila lire di rendita, forse che
voi vivreste in questa camera fredda e spoglia?» aggiunse spostando
in avanti il piede sinistro. «Là staranno dunque i miei tesori,»
disse accennando al vecchio cassone per mascherare i suoi pensieri.
«Andate a dormire,» disse Eugénie impedendogli di
entrare in una stanza in disordine.
Charles si ritrasse ed entrambi si dissero buona
notte con un sorriso.
Tutti e due si addormentarono con lo stesso sogno
e da quel momento Charles cominciò a gettare qualche rosa sul suo
lutto. L'indomani mattina, Mme Grandet trovò la figlia che
passeggiava, prima di colazione, in compagnia di Charles. Il giovane
era ancora triste come deve esserlo un infelice sceso, per cosi
dire, fin sul fondo dei suoi dolori, e che, misurando la profondità
dell'abisso in cui era precipitato, aveva sentito tutto il fardello
della propria vita futura.
«Mio padre tornerà solo per cena,» disse Eugénie
vedendo l'inquietudine dipinta sul volto della madre.
Era facile vedere nei modi, sul volto di Eugénie
e nella singolare dolcezza che trapelava dalla voce, un'armonia di
pensieri fra lei e il cugino. Le loro anime si erano sposate con
foga forse ancor prima di aver provato la forza dei sentimenti che
li univano l'uno all'altra. Charles rimase nella sala, e la sua
malinconia fu rispettata. Ognuna delle tre donne ebbe il suo da
fare. Poiché Grandet aveva dimenticato le sue faccende ci fu un
grande va e vieni di gente. Il lattoniere, lo stagnaio, il muratore,
gli sterratori, il carpentiere, degli ortolani, dei fittavoli, gli
uni per rimanere d'accordo su certe riparazioni, gli altri per
pagare i fitti o incassare del denaro. Mme Grandet e Eugénie
stettero perciò sempre in movimento, dovettero rispondere agli
interminabili discorsi degli operai e dei campagnoli. In cucina
Nanon riceveva le prestazioni in natura. Ella aspettava sempre gli
ordini del padrone per sapere ciò che andava tenuto in casa e ciò
che doveva essere venduto al mercato. Il brav'uomo aveva
l'abitudine, come molti gentiluomini di campagna, di bere il suo
cattivo vino e di mangiare la sua frutta guasta. Verso le cinque di
sera, Grandet tornò da Angers, dove aveva incassato quattordicimila
franchi per il suo oro, e avendo nel portafoglio dei buoni di stato
che gli avrebbero fruttato un interesse fino al giorno in cui avesse
dovuto pagare i titoli. Ad Angers aveva lasciato Cornoiller, perché
si prendesse cura dei cavalli mezzo sfiancati, e li riportasse con
calma dopo averli fatti riposare per bene.
«Torno da Angers, moglie mia,» disse. «Ho fame.»
Nanon gli gridò dalla cucina: «Non avete mangiato
niente da ieri?»
«Niente,» riprese il brav'uomo.
Nanon portò la zuppa. Des Grassins venne a
prendere gli ordini dal suo cliente mentre la famiglia era a tavola.
Papà Grandet non aveva neppure visto il nipote.
«Mangiate con calma, Grandet,» disse il
banchiere. «Intanto chiacchiereremo, Sapete quanto vale l'oro ad
Angers, dove sono venuti a farne incetta per Nantes? Ho intenzione
di mandarne anch'io.»
«Non ne mandate,» rispose il brav'uomo, «ce n'è
di già a sufficienza. Siamo troppo buoni amici perché non vi
risparmi una perdita di tempo.»
«Ma laggiù l'oro vale tredici franchi e cinquanta
centesimi.»
«Dite piuttosto: valeva.»
«E da dove diavolo è arrivato?»
«Stanotte sono andato ad Angers,» gli rispose
Grandet a bassa voce.
Il banchiere trasalì per la sorpresa. Poi fra i
due si avviò una conversazione sussurrata nelle orecchie, durante la
quale des Grassins e Grandet guardarono più volte Charles. Nel
momento in cui senza dubbio l'ex bottaio disse al banchiere di
comperargli centomila lire di titoli, des Grassins si lasciò andare
a un gesto di stupore.
«Signor Grandet,» disse a Charles, «parto per
Parigi; se aveste delle commissioni da affidarmi...»
«Nessuna, signore. Vi ringrazio,» rispose
Charles.
«Ringraziatelo con più calore, nipote mio. Il
signore ci va per sistemare gli affari della ditta Guillaume
Grandet.»
«C'è forse qualche speranza?» domandò Charles.
«Insomma,» esclamò il bottaio con un orgoglio ben
recitato, «non siete mio nipote? Il vostro onore è il nostro. Non vi
chiamate anche voi Grandet?»
Charles si alzò, abbracciò papà Grandet, lo
baciò, impallidì e uscì. Eugénie guardava il padre piena di
ammirazione.
«Allora, addio, mio buon des Grassins, tutto è
nelle vostre mani, incastratemi bene quella gente!» I due
diplomatici si strinsero la mano; l'ex bottaio riaccompagnò il
banchiere fino alla porta; poi, dopo averla chiusa, tornò, e disse a
Nanon lasciandosi andare sulla poltrona: «Dammi un po' di cassis!»
Ma, troppo agitato per rimanersene fermo, si alzò, guardò il
ritratto di M. de la Bertellière e si mise a cantare, facendo quelli
che Nanon chiamava dei passi di danza:
Nelle guardie francesi
Avevo un buon papà...
Nanon, Mme Grandet, Eugénie si scambiarono uno
sguardo in silenzio. Si spaventavano sempre quando l'allegria del
vignaiolo arriva al culmine. Di lì a poco la serata finì. Prima di
tutto papà Grandet volle coricarsi di buon'ora; e, quando lui si
coricava, tutti in casa dovevano dormire: cosi come quando Augusto
beveva, tutta la Polonia era ubriaca. In secondo luogo, Nanon,
Charles e Eugénie non erano meno stanchi del padron di casa. Quanto
a Mme Grandet, lei dormiva, mangiava, beveva, camminava secondo i
desideri del marito.
Nondimeno. durante le due ore accordate alla
digestione il bottaio, più faceto di quanto fosse mai stato,
pronunciò parecchie delle sue massime, una sola delle quali darà la
misura del suo carattere. dopo aver bevuto il cassis guardò il
bicchiere: «Non si fa a tempo a portare alle labbra un bicchiere che
è già vuoto! Ecco il nostro destino. Non si può essere ed essere
stati. Gli scudi non possono girare e rimanere nella borsa, sennò la
vita sarebbe troppo bella.»
Fu gioviale e magnanimo. Quando Nanon arrivò con
il suo filatoio: «Devi essere stanca,» le disse. «Lascia stare la
tua canapa.»
«Ah beh!... ma finirò per annoiarmi,» rispose la
domestica.
«Povera Nanon! Vuoi un po' di cassis?»
«Ah! quando si tratta di cassis, non dico di no;
la signora lo fa molto meglio dei farmacisti. Quello che vendono è
una schifezza.»
«Ci mettono troppo zucchero, e così non sa più di
niente,» disse il brav'uomo.
L'indomani, la famiglia, riunita alle otto per la
colazione, offriva per la prima volta il quadro di una vera
intimità. La sventura aveva subito stabilito un rapporto fra Mme
Grandet, Eugénie e Charles; la stessa Nanon simpatizzava con loro
senza saperlo. Tutti e quattro cominciarono a formare una sola
famiglia. Quanto al vecchio vignaiolo, poiché la sua avarizia era
soddisfatta e aveva la certezza di veder partire presto il
vagheggino senza dovergli sborsar altro che il prezzo del viaggio
fino a Nantes, la presenza del nipote in casa gli era quasi
indifferente. Lasciò i due ragazzi, così chiamava Charles e Eugénie,
liberi di fare ciò che volevano sotto l'occhio di Mme Grandet, nella
quale del resto egli aveva la più completa fiducia per ciò che
concerneva la morale pubblica e religiosa. La sistemazione dei prati
e dei fossati lungo la strada i pioppeti sulla Loira e i lavori
invernali nelle vigne e a Froidfond lo tenevano del tutto occupato.
Da quel momento cominciò per Eugénie la primavera dell'amore. Dopo
l'incontro notturno durante il quale la cugina aveva dato il suo
tesoro al cugino, il cuore di lei seguì il tesoro. Legati dal
medesimo segreto, esprimevano con gli sguardi una reciproca
comprensione, che approfondiva i loro sentimenti e glieli rendeva
più comuni a entrambi, più intimi, mettendoli, per così dire, tutti
e due al di fuori della vita ordinaria. La parentela non
giustificava forse una certa dolcezza nel tono di voce, una
tenerezza negli sguardi? Così Eugénie si lasciò andare al piacere di
attutire i dolori del cugino con le gioie infantili di un amore
nascente. Non ci sono tanti bei punti in comune fra gli inizi di un
amore e quelli della vita? Non si culla il neonato con dolci nenie e
sguardi gentili? Non gli si raccontano storie meravigliose che
indorano l'avvenire? Per lui, la speranza non spiega di continuo le
sue ali radiose? Non versa egli di volta in volta lacrime di gioia e
di dolore? Non fa le bizze per dei nonnulla, per delle pietre con le
quali cerca di costruirsi un palazzo che non sta in piedi, per dei
mazzolini di fiori dimenticati non appena tagliati? Non è avido di
afferrare il tempo, di procedere nella vita? L'amore è la nostra
seconda trasformazione. L'infanzia e l'amore furono la stessa cosa
fra Eugénie e Charles: fu la prima passione con tutti i suoi
infantilismi, tanto più cari ai loro cuori in quanto erano
avviluppati nella malinconia. Dibattendosi fin dalla nascita sotto i
veli neri del lutto, questo amore finiva per essere ancor più in
armonia con la semplicità provinciale di quella casa malandata.
Scambiando qualche parola con la cugina accanto alla vera del pozzo,
in quel cortile silenzioso; restando in quel giardinetto, seduti su
una panchina coperta di muschio fino all'ora in cui il sole
tramontava, impegnati a dirsi dei grandi nonnulla, o assorti nella
calma che regnava fra il bastione e la casa, come ci si sente
assorti nelle navate di una chiesa, Charles capì la santità
dell'amore; la sua gran dama, la sua cara Annette, infatti, non
gliene aveva fatto conoscere che le tempeste. In quel momento egli
abbandonava la passione parigina, civettuola, vanitosa, sfolgorante,
per l'amore puro e vero. Amava quella casa, le cui abitudini non gli
sembravano più tanto ridicole. Scendeva di prima mattina, per poter
parlare qualche istante con Eugénie prima che Grandet venisse a
consegnare le razioni per la giornata; e, quando sulla scala si
sentivano i passi del brav'uomo, Charles se la svignava in giardino.
Il piccolo crimine di questo incontro mattutino, che anche la madre
di Eugénie ignorava, e che Nanon faceva finta di non vedere, dava
all'amore più innocente del mondo il gusto dei piaceri proibiti.
Poi, quando, dopo colazione, papà Grandet usciva per andare a badare
alle sue proprietà e ai suoi investimenti, Charles restava con la
madre e la figlia, e provava un piacere sconosciuto a porgere loro
le mani per dipanare le matasse, a guardarle lavorare, a sentirle
chiacchierare. La semplicità di quella vita quasi monastica, che gli
rivelò le bellezze di quelle due anime alle quali il mondo era
sconosciuto, lo colpì vivamente. Aveva creduto che quel modo di
vivere fosse impossibile in Francia; ne aveva ammesso l'esistenza in
Germania, ma solo letterariamente e nei romanzi di Auguste
Lafontaine. In breve, per lui, Eugénie fu l'immagine ideale della
Margherita di Goethe, ma senza la colpa. Insomma, di giorno in
giorno, i suoi sguardi, le sue parole sedussero la povera ragazza,
che si abbandonò, deliziata, alla corrente dell'amore; ella si
afferrava alla propria felicità come un nuotatore si afferra al ramo
di salice per uscire dal fiume e riposarsi sulla sponda. Il
dispiacere di un prossimo distacco non rattristava di già le ore più
liete di quelle giornate fugaci? Ogni giorno, un piccolo avvenimento
ricordava loro la separazione imminente. Per esempio, tre giorni
dopo la partenza di des Grassins, Charles fu condotto da Grandet al
tribunale di prima istanza con la solennità che la gente di
provincia attribuisce a tali atti, per firmare la rinuncia alla
successione del padre. Terribile ripudio! una specie di apostasia
familiare. Andò dal notaio Cruchot a far stendere due procure, una
per des Grassins, l'altra per l'amico incaricato di vendere i suoi
beni mobili. Poi bisognò adempiere alle formalità necessarie onde
ottenere un passaporto per l'estero. Infine, quando arrivarono i
modesti abiti da lutto che Charles aveva chiesto a Parigi, il
giovane fece venire un sarto di Saumur, e gli vendette i capi
inutili del suo guardaroba. Questa iniziativa piacque molto a papà
Grandet.
«Ah! ora si che sembrate un uomo che deve
imbarcarsi e che vuol fare fortuna,» gli disse vedendolo con una
redingote di pesante stoffa nera. «Bene, molto bene!»
«Vi prego di credere, signore,» gli rispose
Charles, «che saprò immedesimarmi nella mia situazione.»
«E questo che cos'è?» chiese il brav'uomo, i cui
occhi si erano accesi alla vista della manciata d'oro che gli
mostrava Charles.
«Signore, ho messo insieme i miei bottoni, gli
anelli, tutte le cose superflue che possiedo e che potrebbero avere
qualche valore; ma, non conoscendo nessuno a Saumur, volevo pregarvi
questa mattina di...»
«Di comperarli?» lo interruppe Grandet.
«No, zio, di indicarmi un onest'uomo che...»
«Datemi quella roba, nipote mio; andrò di sopra a
stimarla e verrò a dirvi quanto vale, centesimo più centesimo meno.
Oro da gioielleria,» disse esaminando una lunga catena, fra i
diciotto e i diciannove carati.
Il brav'uomo tese la sua manona e si portò via
quel mucchio d'oro.
«Cugina,» disse Charles, «permettetemi di
offrirvi questi due bottoni, che potrebbero servirvi per attaccare
dei nastri ai polsi. È un braccialetto molto di moda in questo
momento.»
«L'accetto volentieri, cugino,» gli disse lei con
un'occhiata d'intesa.
«Zia, ecco il ditale di mia madre, lo conservavo
gelosamente nel mio nécessaire da viaggio», disse Charles offrendo
un bellissimo ditale d'oro a Mme Grandet, che da dieci anni ne
desiderava uno.
«Non so come ringraziarvi, nipote mio,» disse la
vecchia madre, mentre gli occhi le si inumidivano di pianto. «Sera e
mattina, alle mie preghiere ne aggiungerò una per voi, più fervida
di tutte, quella per i viaggiatori. Se io morissi, Eugénie
conserverà per voi questo gioiello.»
«Tutto questo vale novecento ottantanove franchi
e settantacinque centesimi, nipote mio,» disse Grandet aprendo la
porta. «Ma, per risparmiarvi il disturbo di andarlo a vendere, vi
darò l'equivalente... in lire.»
L'espressione in lire significa nella regione
della Loira che gli scudi da sei lire devono essere accettati per il
valore di sei franchi senza deduzioni.
«Non osavo proporvelo,» rispose Charles; «ma mi
ripugnava andare a vendere i miei gioielli nella città dove voi
abitate. Bisogna lavare i panni sporchi in famiglia, diceva
Napoleone. Vi ringrazio per la vostra comprensione.» Grandet si
grattò l'orecchio e ci fu un attimo di silenzio. «Mio caro zio,»
riprese Charles guardandolo un po' preoccupato, come se temesse di
offendere la sua suscettibilità, «mia cugina e mia zia hanno
accettato un piccolo ricordo di me; vogliate anche voi accettare
questi gemelli che a me non servono più: vi ricorderanno un povero
ragazzo che, lontano da voi, penserà a coloro che ormai sono tutta
la sua famiglia.»
«Ragazzo mio, ragazzo mio, non devi privarti di
tutto in questo modo... - Tu che cosa hai avuto, moglie?» chiese
voltandosi con avidità verso di lei. «Ah! un ditale d'oro. - E tu,
figlietta? Ma guarda, dei bottoni di diamanti. - E va bene, prendo i
tuoi gemelli, ragazzo mio,» riprese stringendo la mano di Charles.
«Ma...tu mi permetterai di...pagare...il tuo sì...il tuo passaggio
per le Indie. Sì, voglio pagarti il passaggio. Tanto più, vedi,
ragazzo mio, che stimando i tuoi gioielli, ho calcolato solo l'oro,
mentre forse si può ricavare qualcosa anche dalla lavorazione.
Insomma, quel che è detto è detto. Ti darò millecinquecento
franchi...in lire, che mi farò prestare da Cruchot: perché qui non
ho neppure un soldo di rame, a meno che Perrotet, che è in ritardo
con l'affitto, non mi paghi. A proposito, a proposito, voglio
proprio andare a vedere.»
Prese il cappello, mise i guanti e uscì.
«Dunque ve ne andrete?» chiese Eugénie
gettandogli uno sguardo fatto di tristezza e di ammirazione.
«È necessario,» rispose lui abbassando la testa.
Da qualche giorno, il contegno, le maniere, le
parole di Charles erano diventati quelli di un uomo profondamente
afflitto, ma che, sentendo il peso di obblighi immensi, trova nuovo
coraggio nella sua disgrazia. Non sospirava più, si era fatto uomo.
Perciò Eugénie apprezzò meglio il carattere del cugino quando lo
vide scendere con gli abiti di pesante stoffa nera, che ben si
addicevano al volto pallido e all'atteggiamento triste. Quel giorno
presero il lutto anche le due donne che assistettero con Charles a
un Requiem celebrato in parrocchia per l'anima del defunto Guillaume
Grandet.
Alla seconda colazione Charles ricevette delle
lettere da Parigi e le lesse.
«E allora, cugino, siete soddisfatto dei vostri
affari?» chiese Eugénie a bassa voce.
«Non fare domande del genere, figlia mia,»
osservò Grandet, Che diavolo! io non parlo dei miei affari, perché
vuoi ficcare il naso in quelli di tuo cugino? Lascialo in pace,
questo ragazzo.»
«Oh! io non ho segreti,» disse Charles.
«Ta ta ta ta! Nipote mio, imparerai che nel
commercio bisogna tenere la lingua a freno.»
Quando i due amanti furono soli in giardino,
Charles disse a Eugénie, attirandola verso la vecchia panchina sotto
il noce: «Avevo giudicato bene Alphonse, si è comportato a
meraviglia. Ha curato i miei affari con prudenza e lealtà. Non ho
più debiti a Parigi, il mio mobilio è stato venduto bene, ed egli mi
comunica che, dopo essersi consigliato con un capitano di lungo
corso, ha impiegato tremila franchi che gli restavano per comperare
una paccottiglia composta da curiosità europee che nelle Indie si
possono vendere con un eccellente profitto. Ha spedito i miei
bagagli a Nantes, dove si trova sotto carico una nave che partirà
per Giava. Fra cinque giorni, Eugénie, dovremo dirci addio forse per
sempre, comunque per molto tempo. La mia paccottiglia e diecimila
franchi che mi mandano due amici sono un modesto inizio. È
impossibile che io pensi al ritorno prima di parecchi anni. Cara
cugina, non mettete sulla bilancia la mia vita e la vostra, io
potrei morire, forse voi troverete da accasarvi bene...»
«Voi mi amate?...» disse lei.
«Oh! sì, molto,» rispose il giovane con una
profondità di accento che rivelava una uguale profondità di
sentimenti.
«Aspetterò, Charles. Dio! c'è mio padre alla
finestra,» disse respingendo il cugino, che le si avvicinava per
baciarla.
Eugénie andò nell'androne, Charles la raggiunse;
vedendolo, ella arretrò fino ai piedi della scala e aprì la porta
battente; poi, senza sapere bene dove andasse, si trovò accanto alla
tana di Nanon, nel punto più scuro del corridoio; e lì, Charles che
l'aveva seguita, le prese una mano, l'attirò sul suo cuore,
l'afferrò per la vita e la strinse dolcemente a sé. Eugénie non
resistette più, ricevé e diede il più puro, il più soave, ma anche
il più completo dei baci.
«Cara Eugénie, un cugino è meglio di un fratello,
perché può sposarti,» le disse Charles.
«Così sia!» esclamò Nanon aprendo la porta del
suo bugigattolo.
I due amanti, spaventati, corsero in sala, dove
Eugénie riprese il lavoro, e dove Charles si mise a leggere le
litanie della Vergine sul libro da messa di Mme Grandet.
«Guarda un po'!» fece Nanon, «diciamo tutti le
preghiere.»
Dopo che Charles ebbe annunciato la sua partenza,
Grandet si mise in movimento allo scopo di far credere che nutriva
un grande interesse per il giovane; si mostrò generoso quando
esserlo non gli costava nulla, si incaricò di trovargli un
imballatore, ma poi disse che costui vendeva troppo care le sue
casse; volle allora a tutti i costi fabbricarle lui stesso, usando
delle vecchie tavole; si alzò presto la mattina per piallare,
aggiustare, levigare, inchiodare i suoi travicelli e farne delle
bellissime casse nelle quali imballò tutti gli effetti di Charles;
pensò lui a spedirle per battello sulla Loira, ad assicurarle, e a
fare in modo che arrivassero in tempo utile a Nantes.
Dopo il bacio scambiato nel corridoio, le ore
fuggirono, per Eugénie, con spaventosa velocità. A volte, pensava di
seguire il cugino. Chi ha provato la più intensa delle passioni, la
cui durata è soggetta ogni giorno al rischio dell'età, del tempo, di
una malattia mortale, di uno qualsiasi degli inevitabili casi che
capitano agli uomini, comprenderà i tormenti di Eugénie. Spesso
piangeva mentre passeggiava in quel giardino, ora troppo stretto per
lei, al pari del cortile, della casa, della città: e con la fantasia
si lanciava sulla grande distesa dei mari. Alla fine arrivò la
vigilia della partenza. La mattina, approfittando dell'assenza di
Grandet e di Nanon, il prezioso cofanetto nel quale si trovavano i
due ritratti, fu trasferito nell'unico tiretto del cassone che si
potesse chiudere a chiave e dove si trovava già la borsa vuota. La
consegna di quel tesoro fu accompagnata da baci e lacrime. Quando
Eugénie ripose la chiave in seno, non ebbe il coraggio di impedire a
Charles di baciare quel posto.
«Non uscirà mai di qui, amico mio.»
«Ebbene, ci starà sempre anche il mio cuore.»
«Ah! Charles, non sta bene,» disse lei con un
lieve tono di rimprovero.
«Ma noi non siamo sposati?» rispose lui; «io ho
la tua parola, tu ricevi la mia.»
«Ti appartengo per sempre!» fu detto due volte
dall'uno e dall'altra.
Nessuna promessa al mondo fu più pura di quella;
il candore di Eugénie aveva momentaneamente santificato l'amore di
Charles. L'indomani mattina, la colazione fu triste. Malgrado la
vestaglia d'oro e una crocetta che le aveva regalato Charles, anche
Nanon, libera di esprimere i propri sentimenti, aveva le lacrime
agli occhi.
«Quel povero signorino, che se ne va per mare...
Che Dio lo accompagni!»
Alle dieci e mezzo, la famiglia si mise in
cammino per accompagnare Charles alla diligenza di Nantes. Nanon
aveva sciolto il cane, chiuso la porta e aveva voluto portare la
sacca da viaggio di Charles. Tutti i negozianti della vecchia strada
erano sulle soglie delle loro botteghe per veder passare quel corteo
al quale si unì sulla piazza il notaio Cruchot.
«Non metterti a piangere, Eugénie,» le disse la
madre.
«Nipote mio,» disse Grandet sotto la porta della
locanda baciando Charles sulle guance, «partite povero, tornate
ricco, troverete salvo l'onore di vostro padre. Ne rispondo io,
Grandet; perché, allora, toccherà solo a voi di...»
«Ah! caro zio, voi addolcite l'amarezza della
partenza. È il più bel regalo che avreste potuto farmi.»
Non comprendendo le parole del vecchio bottaio,
che aveva interrotto, Charles versò sul viso cotto dal sole dello
zio lacrime di riconoscenza, mentre Eugénie stringeva con tutte le
forze la mano del cugino e quella del padre. Solo il notaio
sorrideva ammirando l'astuzia di Grandet, perché lui solo aveva
capito il brav'uomo. I quattro, circondati da diverse persone,
rimasero accanto alla vettura finché questa partì, poi, quando
disparve sul ponte e se ne sentì il rumore in lontananza: «Buon
viaggio!» disse il vignaiolo. Per fortuna il notaio Cruchot fu il
solo a sentire questa esclamazione. Eugénie e la madre erano andate
in un punto del lungofiume dal quale potevano ancora scorgere la
diligenza, e agitavano i fazzoletti bianchi, un saluto al quale
Charles rispose agitando il suo fazzoletto.
«Madre mia, vorrei avere per un momento la
potenza di Dio,» disse Eugénie nell'attimo in cui non vide più il
fazzoletto di Charles.
Per non interrompere il corso degli eventi che si
verificarono in seno alla famiglia Grandet, è necessario gettare in
anticipo un'occhiata sulle operazioni che il brav'uomo fece a Parigi
per il tramite di des Grassins. Un mese dopo la partenza del
banchiere, Grandet possedeva un'iscrizione per centomila lire di
titoli acquistati a ottanta franchi netti. Le informazioni che si
ebbero dall'inventario dei beni al momento della sua morte non hanno
mai chiarito come mai la sua diffidenza gli avesse suggerito di
scambiare il prezzo dell'iscrizione contro l'iscrizione stessa. Il
notaio Cruchot pensò che Nanon fosse stata, senza saperlo, lo
strumento fidato di questo trasferimento di fondi. Intorno a
quell'epoca, la domestica si assentò per cinque giorni col pretesto
di dover andare a sistemare certe cose a Froidfond, come se il
brav'uomo fosse il tipo da lasciare qualcosa in sospeso. Per quel
che riguarda gli affari della ditta Guillaume Grandet, tutte le
previsioni del bottaio si avverarono.
Presso la Banca di Francia si trovano, come
ognuno sa, informazioni precise sui grandi patrimoni di Parigi e dei
dipartimenti. I nomi di des Grassins e di Félix Grandet vi erano
conosciuti, e vi godevano la stima accordata ai grossi capitalisti
che hanno come base immense proprietà fondiarie libere da ipoteche.
L'arrivo del banchiere di Saumur, incaricato, si diceva, di
liquidare onorevolmente la ditta Grandet di Parigi, fu sufficiente
per risparmiare alla memoria del commerciante l'onta dei protesti. I
sigilli furono tolti in presenza dei creditori, e il notaio della
famiglia procedette regolarmente all'inventario della successione.
In breve des Grassins riunì i creditori, i quali, all'unanimità,
nominarono liquidatori il banchiere di Saumur e François Keller,
capo di una ricca famiglia, uno dei maggiori interessati, e diedero
ai due tutti i poteri necessari per salvare al tempo stesso l'onore
della famiglia e i crediti. Il credito del Grandet di Saumur, la
speranza che egli mise nel cuore dei creditori per il tramite di des
Grassins resero più facili le transazioni; non ci fu nessuno che
recalcitrasse. Nessuno pensava di trasferire il suo credito sul
conto profitti e perdite, e ognuno si diceva: «Il Grandet di Saumur
pagherà!» Trascorsero sei mesi. I parigini avevano ritirato gli
effetti in circolazione e li conservavano in fondo ai loro
portafogli. Era il primo risultato che il bottaio voleva ottenere.
Nove mesi dopo la prima riunione, i due liquidatori distribuirono a
ciascun creditore il quarantasette per cento. Tale somma veniva
dalla vendita dei valori, possessi, beni, e cose di ogni genere
appartenute al defunto Guillaume Grandet, vendita che fu fatta con
scrupolosa serietà. L'onestà più rigida presiedeva a questa
liquidazione. I creditori si compiacquero di riconoscere
l'onorabilità ammirevole e incontestabile dei Grandet. Quando queste
lodi ebbero circolato a sufficienza, i creditori chiesero il resto
del loro denaro. Dovettero scrivere una lettera collettiva a
Grandet.
«Ci siamo,» disse l'ex bottaio gettando la
lettera nel fuoco; «pazienza, amichetti miei.»
Rispondendo alle proposte contenute in quella
lettera, il Grandet di Saumur chiese il deposito presso un notaio di
tutti i titoli di credito esistenti nei confronti dell'asse
ereditario del fratello e insieme delle ricevute liberatorie dei
pagamenti già fatti, adducendo il pretesto di dover verificare i
conti e valutare correttamente lo stato della successione. Questa
operazione di deposito creò molte difficoltà. In genere, il
creditore è una specie di maniaco. Oggi è disposto a transigere,
domani vuol mettere tutto a ferro e fuoco; dopodomani, diventa più
conciliante. Oggi la moglie è di buon umore, il suo ultimo nato ha
messo i denti, in casa tutto va bene e lui non vuole rimetterci un
soldo; domani, piange, non si sente di uscire, è malinconico, dice
di sì a ogni proposta che possa essere risolutiva; dopodomani, ci
vogliono delle garanzie; alla fine del mese, pretende di fare gli
atti esecutivi, il carnefice! Il creditore somiglia al passerotto
sulla coda del quale si sfidano i bambini a mettere un granello di
sale; ma il creditore ritorce questa immagine sul suo credito, dal
quale non riesce a ricavare nulla. Grandet aveva osservato le
variazioni atmosferiche dei creditori in genere, e quelli di suo
fratello non fecero eccezione. Alcuni se la presero a male e
rifiutarono nettamente di eseguire il deposito. «Benone,» diceva
Grandet fregandosi le mani quando leggeva le lettere che des
Grassins gli scriveva a questo proposito. Altri accettarono il detto
deposito solo a condizione che fossero chiaramente riconosciuti i
loro diritti, nessuno escluso, compreso quello di far dichiarare il
fallimento. Nuovo scambio di corrispondenza, dopo il quale il
Grandet di Saumur accettò tutte le riserve avanzate. Grazie a questa
concessione i creditori più malleabili fecero intendere ragione a
quelli più duri. Il deposito venne eseguito, non senza qualche
lamentela. «Quel brav'uomo,» disse qualcuno a des Grassins, «si
burla di voi e di noi.» Ventitré mesi dopo la morte di Guillaume
Grandet, molti commercianti, assorbiti dal movimento degli affari di
Parigi, avevano dimenticato i loro crediti verso Grandet, o ci
pensavano solo per dirsi:
«Comincio a pensare che il quarantasette per
cento sia tutto quello che riuscirò a cavarne.» Il bottaio aveva
fatto assegnamento sul tempo che, diceva lui, è un buon diavolo.
Alla fine del terzo anno, des Grassins scrisse a Grandet che, con un
dieci per cento dei due milioni e quattrocentomila franchi ancora
dovuti dalla ditta Grandet, aveva convinto i creditori a
restituirgli i titoli di credito. Grandet rispose che il notaio e
l'agente di cambio i cui spaventosi fallimenti avevano provocato la
morte di suo fratello vivevano, loro! potevano esser diventati
solvibili e quindi bisognava citarli in giudizio allo scopo di
tirarne fuori qualcosa e diminuire l'ammontare del deficit. Alla
fine del quarto anno, il deficit fu debitamente fissato nella somma
di un milione e duecentomila franchi. Ci furono discussioni che
durarono sei mesi fra i liquidatori e i creditori, fra Grandet e i
liquidatori. In breve, invitato energicamente a prendere una
decisione, il Grandet di Saumur rispose ai liquidatori, verso il
nono mese di quell'anno, che suo nipote, che aveva fatto fortuna
nelle Indie, gli aveva manifestato l'intenzione di pagare
integralmente i debiti del padre; pertanto egli non poteva prendersi
la responsabilità di saldare di nascosto senza averlo consultato;
era in attesa di una risposta. I creditori, verso la metà del quinto
anno, erano ancora tenuti in scacco dalla parola integralmente,
tirata fuori di quando in quando dal sublime bottaio, che rideva
sotto i baffi, e non diceva mai, senza lasciarsi sfuggire un
sorrisetto furbo e un'imprecazione: Questi PARIGINI!... Ma ai
creditori era riservata una sorte inaudita nei fasti del commercio.
Nel momento in cui gli eventi di questa storia li obbligheranno a
riapparire, si ritroveranno nella stessa situazione in cui li aveva
tenuti Grandet. Quando i titoli raggiunsero quota centoquindici,
papà Grandet vendette, incassò da Parigi circa due milioni
quattrocentomila franchi in oro, che andarono a raggiungere nei suoi
barili i seicentomila franchi di interessi composti frutto delle
iscrizioni. Des Grassins rimase a Parigi; ecco perché: innanzi tutto
fu eletto deputato; poi ebbe una relazione, lui padre di famiglia,
ma annoiato dalla noiosa vita di Saumur, con Florine, una delle
attrici più graziose del teatro di Madame, e nel banchiere ci fu una
resipiscenza del vecchio quartier-mastro. È inutile parlare della
sua condotta; a Saumur fu giudicata profondamente immorale. La
moglie fu ben felice che i suoi beni fossero separati da quelli del
marito ed ebbe abbastanza cervello per mandare avanti l'impresa di
Saumur, i cui affari continuarono sotto il suo nome, allo scopo di
mettere un riparo alle brecce aperte nel patrimonio dalle follie di
M. des Grassins. I cruchottiani seppero sfruttare così bene la sua
ambigua situazione di quasi vedova, che ella dovette maritare molto
male la figlia e fu costretta a rinunciare al matrimonio del figlio
con Eugénie Grandet. Adolphe raggiunse des Grassins a Parigi, dove
diventò, si dice, un pessimo soggetto. I Cruchot trionfarono.
«Vostro marito non ha buon senso,» disse Grandet
una volta che prestò una certa somma a Mme des Grassins, contro
garanzie sicure. «Vi compiango molto, voi siete una brava donnina.»
«Ah! signore,» rispose la povera donna, «chi
avrebbe detto che il giorno in cui uscì da casa vostra per andare a
Parigi sarebbe corso incontro alla sua rovina?»
«Il cielo mi è testimone, signora, che ho fatto
di tutto fino all'ultimo istante per impedirgli di partire. Il
signor presidente voleva andarci a tutti i costi in sua vece; ma, se
teneva tanto ad andarci, adesso sappiamo perché.»
Così Grandet si era scaricato di ogni obbligo
verso des Grassins.
[5]
In ogni circostanza, le donne hanno più motivi di
dolore di quanti ne abbia l'uomo, e soffrono più di lui. L'uomo ha
la sua forza, e l'esercizio del suo potere: agisce, si muove, si
occupa, pensa, contempla l'avvenire e vi trova delle consolazioni.
Così faceva Charles. Ma la donna non si muove, rimane faccia a
faccia con il dolore dal quale nulla la distrae, scende sino al
fondo dell'abisso che l'uomo ha aperto, lo misura e spesso lo colma
con i suoi voti e le sue lacrime. Questo è ciò che faceva Eugénie.
Ella si stava avviando verso il suo destino. Sentire, amare,
soffrire, dedicarsi, questo sarà sempre il tessuto della vita delle
donne. Eugénie doveva essere in tutto e per tutto una donna, senza
ciò che la consola. La sua felicità, come i chiodi conficcati in un
muro, secondo la sublime immagine di Bossuet, non le avrebbe nemmeno
riempito il cavo della mano. I dispiaceri non si fanno mai
attendere, e per lei arrivarono presto. L'indomani della partenza di
Charles, casa Grandet riprese la sua fisionomia per tutti, tranne
che per Eugénie, che di colpo la trovò vuota. All'insaputa del
padre, volle che la camera di Charles rimanesse nello stato in cui
egli l'aveva lasciata. Mme Grandet e Nanon furono ben volentieri
complici di questo status quo.
«Chi sa che non torni prima di quanto crediamo,»
disse Eugénie.
«Ah! vorrei vederlo già qui,» rispose Nanon. «Mi
ero abituata bene a lui! Era un signore dolce e perfetto, quasi
grazioso, tutto ricci come una nuvola.» Eugénie guardò Nanon. «Santa
Vergine, signorina, con quegli occhi vi dannerete l'anima! Non
guardate in quel modo.»
Dopo quel giorno, la bellezza di Mlle Grandet
prese un nuovo aspetto. I gravi pensieri d'amore dai quali il suo
animo era invaso a poco a poco, la dignità della donna amata,
diedero ai suoi tratti quella specie di luminosità che i pittori
raffigurano con l'aureola. Prima dell'arrivo del cugino, Eugénie
poteva essere paragonata alla Vergine prima della concezione; dopo
la partenza di lui, ella rassomigliava alla Vergine madre: ella
aveva concepito l'amore. Queste due Marie, tanto differenti e così
ben rappresentate da certi pittori spagnoli, sono figure delle più
luminose fra le tante che abbondano nel cristianesimo. Tornando
dalla messa, dove andò il giorno dopo la partenza di Charles, e dove
aveva fatto voto di andare tutti i giorni, acquistò dal libraio
della città un mappamondo che inchiodò alla parete accanto allo
specchio, per poter seguire il cugino nel viaggio verso le Indie,
per sentirsi un po', sera e mattina, nel vascello che lo
trasportava, per vederlo, per rivolgergli mille domande, per dirgli:
«Stai bene? Non soffri? Pensi a me quando guardi quella stella di
cui mi hai fatto conoscere le bellezze e l'utilità?» Poi, la
mattina, rimaneva pensosa sotto il noce, seduta sulla panchina di
legno tarlato e coperta di muschio grigio dove si erano detti tante
cose belle, tante piccole sciocchezze, dove avevano costruito i
castelli in aria della loro dolce unione. Pensava all'avvenire
guardando il piccolo spazio di cielo che le mura le permettevano di
abbracciare; poi il vecchio muro e il tetto sotto il quale si
trovava la camera di Charles. Insomma era l'amore solitario, l'amore
vero che continua, che si insinua in ogni pensiero, e diventa la
sostanza, o, come avrebbero detto i nostri padri, la stoffa della
vita. Quando la sera i cosiddetti amici di papà Grandet venivano a
fare la partita, ella era allegra, dissimulava; ma, durante tutta la
mattinata, parlava di Charles con la madre e Nanon. Nanon aveva
capito che poteva immedesimarsi nelle sofferenze della padroncina
senza venir meno ai propri doveri verso il vecchio padrone, e diceva
a Eugénie: «Se avessi avuto un uomo mio, l'avrei...seguito
all'inferno. L'avrei...non so... Insomma, mi sarei uccisa per lui;
ma...niente. Morirò senza sapere che cosa è la vita. Lo credereste,
signorina, che il vecchio Cornoiller, che del resto è un buon uomo,
mi gira attorno alle sottane per via della mia rendita, proprio come
tutti quelli che vengono qui a farvi la corte ma annusano il
malloppo del signore? Me ne accorgo, perché sono ancora fine,
sebbene sia grossa come una torre; ebbene, signorina, ciò mi fa
piacere, anche se non è amore.»
Trascorsero così due mesi. La vita domestica, un
tempo tanto monotona, era animata dall'immenso interesse che legava
intimamente le tre donne. Per loro, sotto le travi grigiastre della
sala, Charles c'era ancora, ancora andava e veniva. Sera e mattina,
Eugénie apriva il nécessaire e contemplava il ritratto della zia.
Una domenica mattina, fu sorpresa dalla madre mentre era intenta a
ritrovare i lineamenti di Charles in quelli del ritratto. Mme
Grandet venne a sapere allora il terribile segreto dello scambio
fatto dal viaggiatore contro il tesoro di Eugénie.
«Gli hai dato tutto!» disse la madre spaventata.
«Che dirai a tuo padre, il primo dell'anno, quando vorrà vedere il
tuo oro?»
Lo sguardo di Eugenie diventò fisso, e le due
donne, per mezza mattinata rimasero preda di un terrore mortale.
Furono così turbate da perdere la messa cantata, e andarono solo
alla messa dei militari. Di lì a tre giorni finiva l'anno 1819. Di
lì a tre giorni sarebbe cominciato un dramma terribile, una tragedia
borghese senza veleni, senza pugnali, senza spargimento di sangue;
ma, per i protagonisti, più crudele di tutti i drammi che si
compirono nella illustre famiglia degli Atridi.
«Che sarà di noi?» disse Mme Grandet alla figlia
poggiando il lavoro sulle ginocchia.
La povera madre era talmente turbata da due mesi,
che le maniche di lana di cui aveva bisogno per l'inverno non erano
ancora finite. Questo incidente domestico, trascurabile in
apparenza, ebbe per lei delle tristi conseguenze. Non avendo maniche
si raffreddò malamente durante una sudata provocata da uno
spaventoso accesso di collera del marito.
«Pensavo, povera figlia mia, che se mi avessi
confidato il tuo segreto, avremmo avuto il tempo di scrivere a
Parigi a M. des Grassins. Avrebbe potuto mandarci delle monete d'oro
simili alle tue; e, sebbene Grandet le conosca bene, forse...»
«Ma dove avremmo preso tanto denaro?»
«Ci avrei messo il mio. Del resto, M. des
Grassins avrebbe certo...»
«Non c'è più tempo,» rispose Eugénie,
interrompendo la madre con voce sorda e alterata. «Domani mattina,
non dobbiamo andare ad augurargli buon anno in camera sua?»
«Figlia mia, e se andassi a trovare i Cruchot?»
«No, no, significherebbe consegnarmi a loro e
metterci alla loro mercé. Eppoi, ho deciso. Ho fatto bene e non mi
pento di nulla. Dio mi proteggerà. Sia fatta la sua santa volontà.
Ah! se aveste letto la sua lettera, non avreste pensato che a lui,
madre mia.»
L'indomani mattina, 1° gennaio 1820, il terrore
di cui erano preda la madre e la figlia suggerì alle due donne la
più naturale delle scuse per evitare il solenne ingresso nella
camera di Grandet. L'inverno fra il 1819 e il 1820 fu uno dei più
rigidi di quell'epoca. I tetti delle case erano coperti di neve.
Mme Grandet quando sentì il marito che si muoveva
nella sua stanza, gli disse: «Grandet, di' a Nanon di accendere un
po' di fuoco in camera mia; il freddo è così pungente che sto
gelando sotto le coperte. Sono arrivata a un'età in cui si ha
bisogno di certi riguardi. Del resto,» continuò dopo una breve
pausa, «Eugénie verrà a vestirsi qui. Con un tempo simile, se lo
facesse in camera sua, quella povera ragazza potrebbe prendersi un
malanno. Verremo dopo in sala ad augurarti il buon anno.»
«Ta ta ta ta, che lingua! Cominci bene l'anno,
signora Grandet! Non ti ho mai sentita parlare tanto. Eppure, non
credo che tu abbia fatto la zuppetta col vino.» Ci fu un momento di
silenzio. «E va bene,» riprese il brav'uomo, senza dubbio la
proposta della moglie gli andava a genio, «farò quello che volete,
signora Grandet. Tu sei davvero una brava donna, e non voglio che ti
capiti qualcosa alla tua età, per quanto in generale i la
Bertellière sono fatti di cemento. Eh! non è così?» disse dopo una
pausa. «In fin dei conti, da loro abbiamo ereditato e li perdono.» E
tossì.
«Siete allegro questa mattina, signore,» disse
con tono grave la povera donna.
«Sono sempre allegro, io...
«Allegro, bottaio,
aggiusta il tuo tino!»
aggiunse entrando in camera della moglie tutto vestito. «Sì, per
dindirindina, fa proprio freddo. Faremo una eccellente colazione,
moglie mia. Des Grassins mi ha mandato un paté di fegato d'oca
tartufato! Vado a prenderlo alla diligenza. Ci deve essere anche un
doppio napoleone per Eugénie,» le disse il bottaio all'orecchio. «Io
non ho più oro, moglie mia. Avevo ancora qualche vecchia moneta, lo
dico a te; ma ho dovuto spenderle per gli affari.» E, per
festeggiare il primo giorno dell'anno, la baciò sulla fronte.
«Eugénie,» disse ad alta voce la brava madre,
«non so su quale fianco abbia dormito tuo padre, ma questa mattina è
di buon umore. Bah! riusciremo a cavarcela.»
«Che cos'ha il nostro padrone?» chiese Nanon
entrando in camera della padrona per accendere il fuoco. «Come mi ha
visto, mi ha detto: "Buon giorno, buon anno, bestiona! Vai ad
accendere il fuoco da mia moglie che ha freddo." M'è quasi venuto un
colpo quando ha allungato una mano per darmi uno scudo da sei
franchi quasi nuovo! Ecco, signora, guardatelo. Oh! che brav'uomo.
Comunque sia, è un degno uomo. Ce ne sono tanti che più invecchiano
e più diventano scorbutici; lui invece diventa dolce come il vostro
cassis e più buono. Come uomo è proprio perfetto, proprio buono...»
La spiegazione di tutta quella allegria era nella
completa riuscita della speculazione di Grandet. M. des Grassins,
dopo aver dedotto ciò che gli doveva il bottaio per lo sconto di
centocinquantamila franchi di cambiali olandesi, e per l'anticipo
che gli aveva fatto per completare la somma necessaria ad acquistare
centomila lire di titoli, gli mandava con la diligenza, trentamila
franchi in scudi a completamento degli interessi semestrali, e gli
annunciava il rialzo dei titoli di stato. Erano arrivati a
ottantanove, i più grossi capitalisti li comperavano, per fine
gennaio, a novantadue. Grandet guadagnava, in due mesi, il dodici
per cento sui suoi capitali, aveva sistemato i conti, e ormai
avrebbe incassato cinquantamila franchi ogni sei mesi senza dover
pagare né imposte né ammortamenti. Insomma egli aveva capito che
cosa fossero i titoli, un investimento per il quale i provinciali
hanno una ripugnanza invincibile, e si vedeva padrone, nel giro di
cinque anni, di un capitale di sei milioni accumulato senza molta
fatica, e che, sommato al valore delle proprietà immobiliari,
avrebbe costituito una fortuna colossale. I sei franchi dati a Nanon
erano forse il pagamento di un immenso servizio che la domestica
senza saperlo aveva reso al suo padrone.
«Oh! oh! dove va papà Grandet così di corsa a
quest'ora del mattino?» si dissero i negozianti che stavano aprendo
bottega. Poi, quando lo videro tornare dal porto seguito da un
fattorino delle Messaggerie che spingeva una carretta piena di
sacchi: «L'acqua va sempre al fiume, il brav'uomo andava ai suoi
scudi,» diceva uno.
«Gliene arrivano da Parigi, da Froidfond,
dall'Olanda,» diceva un altro.
«Finirà per comperare tutta Saumur,» esclamava un
terzo.
«Lui se ne infischia del freddo, si dà sempre da
fare,» diceva una donna al marito.
«Ehi! ehi! signor Grandet, se questa roba vi dà
fastidio» gli disse un negoziante di stoffe, suo vicino, «ci penso
io a sbarazzarvene.»
«Come no! sono soldi,» rispose il vignaiolo.
«D'argento,» disse il fattorino a bassa voce.
«Se vuoi la mancia, chiudi il becco,» disse il
brav'uomo al fattorino mentre apriva la porta.
«Ah! vecchia volpe, credevo fosse sordo,» pensò
il fattorino; «sembra che, quando fa freddo, ci senta.»
«Eccoti venti soldi come strenna, e mosca! Fila!»
gli disse Grandet. «Nanon ti riporterà il carretto. Nanon, quelle
svampite sono a messa?»
«Sì, signore.»
«Avanti, muovi le zampe! al lavoro,» gridò
caricandola di sacchi. In poco tempo gli scudi furono trasportati in
camera sua dove egli li chiuse a chiave. «Quando sarà pronta la
colazione, bussa al muro. Riporta la carretta alle Messaggerie.»
La famiglia fece colazione alle dieci.
«Tuo padre non ti chiederà adesso di vedere il
tuo oro,» disse Mme Grandet alla figlia mentre rientravano dalla
messa. «Comunque tu di' che sei tutta infreddolita. Troveremo il
modo di ricostruire il tuo tesoro per il tuo compleanno...»
Grandet scese la scala pensando a come poter
trasformare i suoi scudi parigini in oro buono, e alle sue
meravigliose speculazioni sui titoli di stato. Era deciso a
investire cosi le sue rendite fino a quando i titoli non avessero
raggiunto il costo di cento franchi. Riflessioni funeste per
Eugénie.
Appena entrò, le due donne gli augurarono buon
anno, la figlia saltandogli al collo e facendogli delle moine, Mme
Grandet gravemente e con dignità.
«Ah! ah! ragazza mia,» disse baciando la figlia
sulle guance,
«lavoro per te, vedi!... voglio la tua felicità.
Ci vuole denaro per essere felici. Senza denaro, nisba. Toh, ecco un
napoleone bello nuovo, l'ho fatto venire da Parigi. Per
dindirindina, non c'è un grano d'oro in questa casa. Non ci sei che
tu ad avere dell'oro. Mostramelo il tuo oro, figlietta.»
«Bah! fa troppo freddo; pranziamo,» gli rispose
Eugénie.
«Ebbene, a dopo, eh? Ci aiuterà tutti quanti a
digerire. - Quel pezzo d'uomo di des Grassins, ci ha mandato anche
tutto questo,» riprese. «Perciò, mangiate, ragazze mie, non costa
niente. Funziona bene, des Grassins, sono contento di lui. Il
furbacchione rende un servizio a Charles, e gratis per di più. Sta
sistemando molto bene gli affari del povero defunto Grandet. -Uuuh!
uuuh!» fece con la bocca piena, dopo una pausa, «come è buono!
Suvvia mangiane, moglie! questo nutre almeno per due giorni»
«Non ho fame. Mi sento un po' indisposta, lo
sai.»
«Ah! già! Ma puoi rimpinzarti senza paura di far
scoppiare la carcassa; sei una la Bertellière, una donna robusta.
Sei un tantinello giallina, ma a me piace il giallo.»
L'attesa di una morte ignominiosa e pubblica è
forse meno orribile, per un condannato, di quanto lo fosse per Mme
Grandet e la figlia l'attesa degli eventi con i quali si sarebbe
concluso quel pranzo di famiglia. Più il vecchio vignaiolo mangiava
e parlava allegramente, più le due donne si sentivano stringere il
cuore. La figlia per lo meno in quella situazione aveva un sostegno:
ella traeva forza dal suo amore.
«Per lui, per lui,» diceva fra sé e sé, «sarei
disposta a patire mille morti.»
A quel pensiero, gettò alla madre degli sguardi
pieni di coraggio.
«Togli tutto,» disse Grandet a Nanon quando,
verso le undici, il pranzo fu terminato; «ma lasciaci la tavola.
Staremo più comodi per dare un'occhiata al tuo piccolo tesoro,»
disse guardando Eugénie. «Piccolo! direi proprio di no. Tu possiedi,
in valore intrinseco, cinquemila novecento cinquantanove franchi, e
con i quaranta di questa mattina, fanno seimila franchi meno uno.
Ebbene, te lo darò io il franco che manca per fare cifra tonda,
perché, vedi, figlietta... Si può sapere perché stai ad ascoltare?
Alza i tacchi, Nanon, e va' a fare il tuo lavoro,» disse il
brav'uomo. Nanon sparì. «Ascolta, Eugénie, bisogna che tu mi dia il
tuo oro. Non lo rifiuterai al paparino, figliettina mia, eh?» Le due
donne non parlavano. «Io non ho più oro. Ne avevo e non ne ho più.
Ti darò in cambio seimila franchi in lire, e tu li investirai come
ti dirò io. Non bisogna pensare più al dozzeno. Quando ti mariterò,
il che avverrà presto, ti troverò un promesso sposo che potrà
offrirti il più bel dozzeno di cui si sia mai parlato nella
provincia. Ascolta dunque, figlietta. Si presenta una bella
occasione: puoi investire i tuoi seimila franchi in titoli di stato,
e ne ricaverai ogni sei mesi circa duecento franchi di interessi,
senza imposte, senza riparazioni, né grandine, né gelate, né
mareggiate, né niente di tutto quello che mette a repentaglio le
rendite. Forse non ti va di separarti dal tuo oro, eh, figlietta?
Portamelo lo stesso. Ti troverò delle monete d'oro, delle olandesi,
delle portoghesi, delle rupie del Mogol, delle genovine; e, con
quelle che ti darò per le tue feste, in tre anni avrai rimesso
insieme la metà del tuo bel gruzzoletto in oro. Che ne dici,
figlietta? Alza la faccia. Su, va' a prenderla quella delizia.
Dovresti baciarmi sugli occhi per averti detto i segreti e i misteri
della vita e della morte degli scudi. È vero, gli scudi vivono e si
muovono come gli uomini: vanno, vengono, sudano, producono.»
Eugénie si alzò, ma, dopo aver fatto qualche
passo verso la porta, si voltò bruscamente, guardò il padre e gli
disse:
«Non ho più il mio oro.»
«Non hai più il tuo oro!» gridò Grandet
rizzandosi sulle gambe come un cavallo che senta sparare il cannone
a dieci passi di distanza.
«No, non ce l'ho più.»
«Tu ti sbagli, Eugénie.»
«No,»
«Per la roncola di mio padre!»
Quando il bottaio imprecava così, le travi
tremavano.
«Dio misericordioso! La signora è diventata
bianca come un cencio,» esclamò Nanon.
«Grandet, queste tue collere mi faranno morire,»
disse la povera donna.
«Ta ta ta ta! voialtri, non morrete mai voi della
vostra famiglia! Eugénie, che cosa avete fatto delle vostre monete?»
gridò precipitandosi verso di lei.
«Signore,» disse la figlia che si era
inginocchiata accanto a Mme Grandet, «mia madre sta soffrendo
molto... vedete... non uccidetela.»
Grandet si spaventò vedendo che il volto della
moglie, poco prima giallastro, era diventato pallido.
«Nanon, aiutatemi a coricarmi,» disse la madre
con un filo di voce. «Mi sento morire.»
Subito Nanon porse il braccio alla padrona, e
altrettanto fece Eugénie, e con gran fatica riuscirono a farla
salire in camera, perché a ogni scalino la poveretta si sentita
venir meno: Grandet rimase solo. Tuttavia, dopo qualche momento,
salì sette o otto scalini, e gridò: «Eugénie, quando vostra madre
sarà a letto, scendete.»
«Sì, padre.»
Eugénie, dopo aver rassicurato la madre, non
tardò a scendere.
«Figlia,» le disse Grandet, «ora mi direte dov'è
il vostro tesoro.»
«Padre, se mi fate dei regali di cui non sono
interamente padrona, riprendeteveli,» rispose freddamente Eugénie
prendendo il napoleone che stava sul camino e porgendoglielo.
Grandet afferrò subito il napoleone e lo cacciò
nel taschino.
«È certo che non ti darò più niente! Niente di
niente!» disse facendo scattare l'unghia del pollice contro i denti
davanti. «E cosi voi disprezzate vostro padre? non avete fiducia in
lui? non lo sapete che cosa è un padre? Se per voi non è tutto, non
è niente. Dov'è il vostro oro?»
«Padre, io vi amo e vi rispetto, malgrado la
vostra collera; ma devo farvi rispettosamente osservare che ho
ventidue anni. So di essere maggiorenne perché me lo avete detto voi
stesso più volte. Ho fatto col mio denaro quello che ho voluto, e
state sicuro che è ben investito...»
«Dove?»
«È un segreto inviolabile,» disse lei. «Voi non
avete i vostri segreti?»
«Ma io non sono forse il capo della famiglia? E
non posso avere i miei affari?»
«E questo è un mio affare.»
«Deve essere un cattivo affare, se non potete
dirlo a vostro padre, signorina Grandet.»
«È un affare eccellente, ma non posso dirlo a mio
padre.»
«Ditemi almeno quando avete dato via il vostro
oro.» Eugénie rispose di no con un cenno del capo.
«L'avevate ancora il giorno del vostro
compleanno, eh?» Eugénie, divenuta scaltra per amore quanto il padre
lo era per avarizia, ripeté il medesimo cenno col capo. «Non si era
mai vista una simile testardaggine né un furto simile,» disse
Grandet con una voce che andò in crescendo e che a poco a poco fece
vibrare tutta la casa. «Ma come! qui, in casa mia, da me, qualcuno
avrebbe preso il tuo oro! il solo oro che c'era! e io non devo
sapere chi è? L'oro è una cosa cara. Le ragazze più oneste possono
commettere degli errori, dare non so che, succede nelle famiglie
nobili e anche in quelle borghesi; ma dare via l'oro, perché voi
l'avete dato a qualcuno, no?» Eugénie rimase impassibile. «Si è mai
vista una figlia simile? E sono io vostro padre? Se l'avete
investito, dovete avere una ricevuta...»
«Ero libera si o no, di farne ciò che mi piaceva?
Era o non era mio?»
«Ma tu sei una bambina!»
«Maggiorenne.»
Basito dalla logica della figlia, Grandet
impallidì, pestò i piedi, bestemmiò; poi, trovando finalmente le
parole, gridò: «Maledetto serpente di una figlia! ah! erba cattiva,
tu sai che ti amo e ne approfitti. Costei scanna il proprio padre!
Perdio! Tu hai gettato la nostra fortuna ai piedi di quello
squattrinato che se ne va in giro con degli stivali di marocchino.
Per la roncola di mio padre! non posso diseredarti, corpo di un
barile! ma ti maledico, te, tuo cugino, e i tuoi figli! Non te ne
verrà niente di buono, capisci? Se è stato a Charles che... Ma no,
non è possibile. Dico! quello zerbinotto da quattro soldi mi avrebbe
svaligiato...» Guardò la figlia, che rimaneva muta e fredda.
«Non fa una piega, non muove un sopracciglio, è
una Grandet più di quanto sia Grandet io. Non avrai dato il tuo oro
per niente, almeno. Vediamo, che dici?» Eugénie guardò il padre con
un'espressione ironica che lo ferì. «Eugénie, voi siete in casa mia,
in casa di vostro padre. Per restarci, dovete sottomettervi ai suoi
ordini. Anche i preti vi ordinano di obbedirmi.» Eugénie abbassò il
capo. «Voi mi offendete in quello che ho di più caro,» riprese il
padre, «vi rivedrò solo quando sarete sottomessa. Andate nella
vostra camera. Vi rimarrete finché non vi permetterò di uscirne.
Nanon vi porterà pane e acqua. Avete sentito, andate!»
Eugénie scoppiò in lacrime e corse in camera
della madre. Dopo aver fatto parecchie volte il giro del giardino
coperto di neve, senza accorgersi del freddo, Grandet fu colto dal
sospetto che la figlia fosse nella stanza della moglie; allettato
dall'idea di sorprenderla in flagrante disubbidienza, salì le scale
con l'agilità di un gatto, e arrivò in camera di Mme Grandet nel
momento in cui costei carezzava i capelli di Eugénie, che aveva il
viso affondato nel seno materno.
«Fatti coraggio, mia povera piccola, tuo padre si
calmerà.»
«Costei non ha più un padre,» disse il bottaio.
«È da voi e da me, signora Grandet, che è nata una figlia così
disobbidiente? Bella educazione, e religiosa per giunta! E allora,
non siete ancora nella vostra camera? Via, in prigione, in prigione,
signorina.»
«Volete privarmi di mia figlia, signore?» disse
Mme Grandet con il volto arrossato dalla febbre.
«Se la volete presso di voi, portatela via,
sgomberatemi la casa tutte e due... Per tutti i fulmini, dov'è
l'oro? che ne è stato dell'oro?»
Eugénie si alzò, gettò uno sguardo carico di
orgoglio sul padre, e si ritirò nella sua stanza, che il brav'uomo
chiuse a chiave. «Nanon,» gridò, «spegni il fuoco in sala.» E andò a
sedersi su una poltrona accanto al caminetto della moglie,
dicendole: «Senza dubbio lo ha dato a quel miserabile seduttore di
Charles, che mirava solo al nostro denaro.»
Mme Grandet trovò, nel pericolo che minacciava la
figlia e nel suo sentimento per lei, abbastanza forza per rimanere
in apparenza fredda, muta e sorda.
«Non sapevo niente di tutto ciò,» rispose e si
voltò dalla parte del muro per non subire gli sguardi infuocati del
marito. «Soffro tanto per la vostra violenza, che, se devo credere
ai miei presentimenti, uscirò di qui solo con i piedi in avanti.
Avreste dovuto risparmiarmi in questo momento, signore, risparmiare
una che non vi ha mai dato un dispiacere, almeno lo credo. Vostra
figlia vi ama, per me è innocente come un bambino appena nato;
perciò non fatela soffrire, revocate il vostro ordine. Il freddo è
intenso e voi potreste essere la causa di qualche malattia grave.»
«Non voglio vederla né parlarle. Resterà nella
sua camera a pane e acqua finché non avrà dato soddisfazione a suo
padre. Che diavolo! Il capo di una famiglia ha diritto di sapere
dove va l'oro di casa sua. Possedeva forse le sole rupie che ci
fossero in Francia, poi delle genovine, dei ducati d'Olanda...»
«Signore, Eugénie è la nostra unica figlia, e, se
anche le avesse gettate in acqua....»
«In acqua,» gridò il brav'uomo, «in acqua! Voi
siete pazza, signora Grandet. Quando ho detto una cosa è quella, voi
lo sapete. Se volete avere la pace in casa, fate confessare vostra
figlia, fatele sputare il rospo; le donne sanno farle meglio queste
cose di noialtri. Qualsiasi cosa abbia potuto fare, non la mangerò.
Ha forse paura di me? Anche se avesse ricoperto d'oro suo cugino
dalla testa ai piedi, ormai è in alto mare, no? non possiamo correre
dietro...»
«Ebbene, signore...» Spinta dalla crisi nervosa
in cui si trovava, o dalla sventura della figlia che ingigantiva il
suo affetto e la sua intelligenza, la perspicacia di Mme Grandet le
fece notare un movimento terribile della verruca del marito nel
momento in cui stava per rispondere; ella cambiò idea senza cambiare
tono: «Ebbene, signore, ho io più autorità su di lei di quanta ne
avete voi? A me non ha detto nulla, ha preso da voi.»
«Perdio! che lingua lunga avete questa mattina!
Ta ta ta ta! credo che mi prendiate in giro. Forse ve la intendete
con lei.»
Guardò fisso la moglie.
«In verità, signor Grandet, se volete uccidermi,
non dovete fare altro che continuare così. Ve lo dico, signore, e
dovesse costarmi la vita, ve lo ripeterò ancora: avete torto nei
confronti di vostra figlia, ella è più ragionevole di voi. Quel
denaro le apparteneva, ne avrà fatto di certo buon uso, e Dio solo
ha il diritto di conoscere le nostre opere buone. Signore, ve ne
supplico, ridate a Eugénie la vostra benevolenza!... In questo modo
attenuerete l'effetto del colpo che mi ha inferto la vostra collera
e forse mi salverete la vita. Mia figlia, signore! restituitemi mia
figlia.»
«Me ne vado,» disse Grandet. «In casa mia non si
resiste, madre e figlia ragionano come se... Brrr! Puah! Mi avete
fatto una strenna crudele, Eugénie!» gridò. «Sì, sì, piangete! Ciò
che fate vi darà dei rimorsi, capite? A che vi serve mangiare il
buon Dio sei volte ogni tre mesi, se date di nascosto l'oro di
vostro padre a un fannullone che vi divorerà il cuore quando non
avrete più altro da dargli? Vedrete che cosa vale il vostro Charles,
con i suoi stivali di marocchino e la sua aria da non mi toccate.
Non ha né cuore né anima, se osa portarsi via il tesoro di una
povera ragazza senza il consenso dei genitori.»
Quando sentì chiudere la porta di strada, Eugénie
uscì dalla sua stanza e andò dalla madre.
«Avete avuto molto coraggio per vostra figlia,»
le disse.
«Vedi, figlia mia, dove ci portano le cose
illecite!... Mi hai fatto dire una bugia.»
«Oh! chiederò a Dio di punire solo me.»
«È vero,» disse Nanon arrivando tutta sbigottita,
«che la signorina deve mangiare pane e acqua per il resto dei suoi
giorni?»
«Che importa, Nanon?» disse con calma Eugénie.
«Ah! figurarsi se mangerò il companatico quando
la figlia di casa mangia pane secco... No, no.»
«Non una parola di più, Nanon,» disse Eugénie.
«Che mi si secchi la bocca, ma vedrete!»
Grandet cenò solo per la prima volta da
ventiquattro anni.
«E così eccovi vedovo, signore,» gli disse Nanon.
«È spiacevole essere vedovo con due donne in casa.»
«Con te non parlo. Chiudi il becco o ti caccio.
Che cosa c'è nella casseruola che la sento bollire sul fuoco?»
«È del grasso che sto facendo squagliare...»
«Verrà gente stasera, accendi il fuoco.»
I Cruchot, Mme des Grassins e il figlio
arrivarono alle otto, e si stupirono di non vedere né Mme Grandet né
la figlia.
«Mia moglie è un po' indisposta, Eugénie la
assiste,» rispose il vecchio vignaiolo, il cui viso non tradì alcuna
emozione.
Dopo un'ora impiegata in conversazioni
insignificanti, Mme des Grassins che era salita a trovare Mme
Grandet, scese, e tutti le chiesero: «Come sta Mme Grandet?»
«Per niente bene, per niente,» disse lei. «Il suo
stato di salute mi pare davvero preoccupante. Alla sua età, bisogna
prendere tutte le precauzioni, papà Grandet.»
«Si vedrà,» rispose il vignaiolo con un tono
distratto.
Ognuno gli augurò la buona notte. Quando i
Cruchot furono in strada, Mme des Grassins disse loro: «C'è qualcosa
di nuovo dai Grandet. La madre sta peggio di quanto creda. La figlia
ha gli occhi rossi come se avesse pianto a lungo. Che vogliano
maritarla contro la sua volontà?»
Quando il vignaiolo fu andato a letto, Nanon in
pantofole e senza far rumore andò da Eugénie e le portò un paté
fatto in casseruola.
«Tenete, signorina,» disse la brava donna,
«Cornoiller m'ha dato una lepre. Voi mangiate così poco che questo
paté vi durerà otto giorni; e col freddo che fa non c'è pericolo che
vada a male. Almeno, non rimarrete a pane secco. Non è affatto
sano.»
«Povera Nanon!» disse Eugénie stringendole la
mano.
«L'ho fatto proprio buono, delicato, e lui non se
ne è accorto. Ho comprato il lardo, l'alloro, tutto con i miei sei
franchi; sono miei dopo tutto.» Poi la domestica se ne andò perché
le era parso di sentire Grandet.
Per qualche mese, il vignaiolo andò sempre a
trovare la moglie in ore diverse, senza pronunciare il nome della
figlia, senza vederla, senza fare la minima allusione a lei. Mme
Grandet non lasciava la stanza, e, di giorno in giorno, il suo stato
peggiorava. Niente fece piegare il vecchio bottaio. Rimase
irremovibile, freddo e duro come un masso di granito. Continuò ad
andare e venire secondo le sue abitudini, ma non balbettò più, parlò
di meno, e si mostrò in affari più duro di quanto fosse mai stato.
Spesso, facendo i conti gli sfuggiva qualche errore. «In casa
Grandet deve essere successo qualcosa,» dicevano i cruchottiani e i
grassinisti. «Che cosa è successo in casa Grandet?» fu la domanda di
rito che si sentiva generalmente in tutti i salotti di Saumur.
Eugénie andava in chiesa accompagnata da Nanon. All'uscita, se Mme
des Grassins le rivolgeva qualche parola, ella rispondeva in maniera
evasiva e senza soddisfare la curiosità dell'altra. Nondimeno, in
capo a due mesi risultò impossibile tener nascosto, sia ai tre
Cruchot, sia a Mme des Grassins, il segreto della reclusione di
Eugénie. Arrivò un momento in cui vennero meno i pretesti per
giustificare la sua continua assenza. Poi, senza che si potesse
sapere da chi era stato svelato il segreto, tutta la città venne a
sapere che, dal primo dell'anno, Mlle Grandet era rinchiusa, per
ordine del padre, nella sua stanza a pane e acqua e senza fuoco; che
Nanon le preparava delle ghiottonerie e gliele portava nottetempo; e
si sapeva anche che la giovane poteva vedere e assistere la madre
solo quando il padre non era in casa. Allora la condotta di Grandet
fu giudicata molto severamente. Tutta la città lo mise per così dire
fuori legge, si ricordò dei suoi tradimenti, delle sue durezze, e lo
scomunicò. Quando passava, la gente lo mostrava a dito bisbigliando.
Quando la figlia scendeva la strada tortuosa per andare a messa o ai
vespri, accompagnata da Nanon, tutti gli abitanti si mettevano alle
finestre per esaminare con curiosità l'atteggiamento della ricca
ereditiera e il suo viso, sul quale erano dipinte una malinconia e
una dolcezza angeliche. La reclusione, l'ostilità del padre, erano
niente per lei. Continuava a vedere il mappamondo, la panchina, il
giardino, il muro, e risentiva sulle labbra il miele che vi avevano
lasciato i baci dell'amore. Per qualche tempo ella ignorò le
conversazioni della gente delle quali era l'argomento, proprio come
le ignorava suo padre. Religiosa e pura davanti a Dio, la propria
coscienza e l'amore l'aiutavano a sopportare la collera e la
vendetta paterne. Ma un dolore profondo faceva tacere tutti gli
altri dolori. Sua madre, dolce e tenera creatura che si abbelliva
con la luce che proiettava la sua anima avvicinandosi alla tomba,
sua madre deperiva di giorno in giorno. Spesso, Eugénie si
rimproverava di essere stata la causa involontaria della crudele,
della lenta malattia che la divorava. Questi rimorsi, per quanto
placati dalla madre, la legavano ancor più strettamente al suo
amore. Tutte le mattine, appena il padre usciva, ella accorreva al
capezzale della madre, e, là, Nanon le portava la colazione. Ma la
povera Eugénie, triste e sofferente per le sofferenze della madre,
ne indicava il volto a Nanon con un cenno piangeva e non osava
parlare di suo cugino. Mme Grandet era costretta a dirle per prima:
«Dov'è? Perché non scrive?»
Madre e figlia ignoravano del tutto le distanze.
«Pensiamo a lui, madre mia,» rispondeva Eugénie,
«e non ne parliamo. Voi soffrite, voi venite prima di tutti.»
Tutti, significava lui.
«Figli miei,» diceva Mme Grandet, «Non rimpiango
la vita, Dio mi ha protetto facendomi considerare con gioia la fine
delle mie miserie.»
Le parole di quella donna erano sempre parole
sante e cristiane. Quando, al momento di far colazione accanto a
lei, il marito veniva a passeggiare nella sua stanza, ella gli fece
nei primi mesi dell'anno, gli stessi discorsi, ripetuti con una
dolcezza angelica, ma con la fermezza di una donna alla quale la
morte prossima dava il coraggio che le era mancato durante la vita.
«Signore, vi ringrazio dell'interesse che
prendete alla mia salute,» rispondeva quando lui le rivolgeva la più
banale delle domande; «ma se volete addolcire l'amarezza dei miei
ultimi istanti e alleviare le mie sofferenze, perdonate nostra
figlia; mostratevi cristiano, sposo e padre.»
Sentendo queste parole, Grandet sedeva accanto al
letto e si comportava come un uomo che, vedendo arrivare un
temporale, si mette al riparo sotto una porta cocchiera; ascoltava
in silenzio la moglie, e non rispondeva. Dopo che gli erano state
rivolte le più commoventi, le più tenere, le più fervide suppliche,
diceva: «Sei un po' pallidina oggi, povera moglie mia.» L'oblio
totale della figlia sembrava stampato su quella fronte terrea, su
quelle labbra strette. Non si commoveva nemmeno per le lacrime che
le sue risposte vaghe facevano calare sul viso sbiancato della
moglie.
«Che Dio vi perdoni, signore,» diceva lei, «come
io vi perdono. Un giorno anche voi avrete bisogno di indulgenza.»
Dalla malattia della moglie, non aveva più osato
servirsi del suo terribile ta ta ta ta! ma il suo dispotismo non era
stato disarmato da quell'angelo di dolcezza, la cui bruttezza
spariva di giorno in giorno, cancellata dall'espressione delle
qualità morali, che fiorivano sul suo volto. Ella era tutta anima.
Il genio della preghiera sembrava purificare, annullare i tratti più
grossolani del viso, e la faceva risplendere. Chi non ha osservato
questo fenomeno di trasfigurazione su dei santi volti dove le
abitudini dell'anima finiscono per avere ragione dei lineamenti più
rozzi, imprimendo loro quella particolare animazione dovuta alla
nobiltà e alla purezza di pensieri elevati? Lo spettacolo di questa
trasformazione compiuta dalle sofferenze che in quella donna
consumavano i brandelli dell'essere umano agiva, anche se
debolmente, sul vecchio bottaio, che tuttavia restava irremovibile.
Se il suo modo di parlare non fu più sdegnoso, il suo comportamento
era dominato da un silenzio imperturbabile, che metteva al riparo la
sua superiorità di padre di famiglia. Quando la fedele Nanon andava
al mercato, subito le fischiavano alle orecchie lazzi e critiche sul
suo padrone; ma, sebbene la pubblica opinione condannasse
unanimemente papà Grandet, la domestica lo difendeva per amore della
casa.
«E che,» diceva ai detrattori del brav'uomo,
«forse non diventiamo tutti più duri quando invecchiamo? E perché
anche lui non dovrebbe indurirsi un po'? Smettetela con le vostre
bugie. La signorina vive come una regina. Sta da sola perché questo
le piace. E poi, i miei padroni hanno i loro buoni motivi.»
Una sera, verso la fine della primavera, Mme
Grandet, divorata dal dispiacere ancor più che dalla malattia, non
essendo riuscita, malgrado le sue preghiere, a riconciliare Eugénie
e il padre, confidò le sue pene segrete ai Cruchot.
«Tenere una figlia di ventitré anni a pane e
acqua!...» esclamò il presidente de Bonfons, «e senza nessun motivo;
ma qui si tratta di sevizie, contro le quali ella non può invocare
sia in che su...»
«Via, nipote,» disse il notaio, «lasciate perdere
il vostro gergo giudiziario. - State tranquilla, signora, farò in
modo che sia posto termine a questa reclusione fin da domani.»
Sentendo che parlavano di lei, Eugénie usci dalla
sua camera.
«Signori,» disse facendosi avanti con un incedere
pieno di fierezza, «vi prego di non occuparvi di questa faccenda.
Mio padre è padrone in casa sua. Finché vivrò qui, gli devo
ubbidire. La sua condotta non può essere soggetta all'approvazione o
alla disapprovazione della gente, egli deve renderne conto solo a
Dio. Io esigo dalla vostra amicizia il più profondo silenzio in
merito. Biasimare mio padre, significherebbe attaccare la nostra
stessa reputazione. Vi sono grata, signori, dell'interesse che mi
dimostrate; ma vi sarò ancor più obbligata se vorrete far cessare le
voci offensive che corrono per la città e delle quali sono venuta a
conoscenza per caso.»
«Ha ragione,» disse Mme Grandet.
«Signorina, il modo migliore per impedire alla
gente di chiacchierare è quello di farvi restituire la libertà,» le
rispose rispettosamente il vecchio notaio, colpito dalla bellezza
che l'isolamento, la malinconia e l'amore avevano dato a Eugénie.
«Ma sì, figlia mia, lascia che M. Cruchot si occupi di sistemare
questa faccenda, dal momento che egli garantisce un buon esito.
Conosce tuo padre e sa come bisogna prenderlo. Se vuoi vedermi
felice nel poco tempo che mi resta da vivere, bisogna, a tutti i
costi, che tu e tuo padre vi riconciliate.»
L'indomani Grandet, secondo un'abitudine che
aveva preso dopo la reclusione di Eugénie, andò a fare quattro passi
nel giardinetto. Aveva scelto per questa passeggiata il momento in
cui Eugénie si pettinava. Quando il brav'uomo arrivava al grande
noce, si nascondeva dietro il tronco dell'albero, restava qualche
minuto a contemplare i lunghi capelli della figlia, e ondeggiava
senza dubbio fra i pensieri che gli suggeriva la sua testardaggine e
il desiderio di baciare la figlia. Spesso, se ne rimaneva seduto
sulla panchina di legno marcio dove Charles e Eugénie si erano
giurati eterno amore, mentre anche lei guardava il padre di sfuggita
o attraverso lo specchio. Se lui si alzava e ricominciava a
passeggiare, lei si sedeva tranquilla alla finestra e si metteva a
guardare il pezzo di muro dal quale pendevano i fiori più belli,
dalle cui crepe uscivano il capelvenere, i convolvoli e una pianta
grassa, gialla o bianca, un sedo, che abbonda nelle vigne di Saumur
e di Tours. Un bel giorno di giugno, il notaio Cruchot arrivò di
buon'ora e trovò il vecchio vignaiolo seduto sulla panchina, la
schiena appoggiata al muro divisorio, intento a guardare la figlia.
«In che cosa posso servirvi, Cruchot?» chiese,
vedendo il notaio.
«Vengo a parlarvi di affari.»
«Ah! ah! avete da darmi un po' d'oro contro
scudi?»
«No, no, non si tratta di denaro, ma di vostra
figlia Eugénie. Tutti parlano di lei e di voi.»
«Di che cosa ci si impiccia? Il carbonaio è
padrone in casa sua.»
«D'accordo, il carbonaio è anche padrone di
uccidersi, e, quel che è peggio, di gettare il denaro dalla
finestra.»
«Che cosa significa?»
«Eh, vostra moglie è molto malata, amico mio.
Dovreste consultare M. Bergerin, ella è in pericolo di morte. Se
morisse senza essere stata curata come si deve, voi non sareste
tranquillo, credo.»
«Ta ta ta ta! sapete bene quello che ha mia
moglie. Questi medici, una volta che hanno messo il piede in casa,
vengono cinque o sei volte il giorno.»
«Insomma, Grandet, fate come volete. Noi siamo
vecchi amici: non c'è, in tutta Saumur, un uomo cui stia di più a
cuore ciò che vi riguarda; perciò ho sentito il dovere di dirvi
queste cose. Ora, succeda quel che vuol succedere, voi siete
maggiorenne, sapete come comportarvi, fate voi. Ma non è per questo
che sono venuto. Si tratta di qualcosa di più serio per voi, forse.
Dopo tutto, voi non desiderate la morte di vostra moglie, vi è
troppo utile. Pensate dunque alla situazione in cui verrete a
trovarvi di fronte a vostra figlia, se Mme Grandet morisse. Voi
dovreste rendere dei conti a Eugénie, perché con vostra moglie siete
in regime di comunione dei beni. Vostra figlia avrà il diritto di
reclamare la divisione del patrimonio e di far vendere Froidfond.
Insomma, lei succede alla madre, dalla quale voi non potete
ereditare.»
Queste parole furono un fulmine a ciel sereno per
il brav'uomo, che non era forte in materia legale quanto lo era nel
commercio. Non aveva mai pensato a una licitazione.
«Perciò vi raccomando di trattarla con dolcezza,»
disse Cruchot concludendo.
«Ma sapete che cosa ha fatto, Cruchot?»
«Che cosa?» disse il notaio, incuriosito di
ricevere una confidenza da papà Grandet e di sapere il motivo della
disputa.
«Ha dato via il suo oro.»
«E allora, era suo?» domandò il notaio.
«Tutti mi dicono la stessa cosa!» fece il
brav'uomo lasciando cadere le braccia con un gesto tragico.
«E voi, per una miseria,» riprese Cruchot,
«volete mettere a repentaglio le concessioni che dovrete chiederle
di farvi alla morte della madre?»
«Ah! voi seimila franchi d'oro li chiamate una
miseria?»
«Eh! vecchio mio, sapete che cosa verranno a
costare l'inventario e la divisione dell'eredità di vostra moglie,
se Eugénie lo esigerà?»
«Quanto?»
«Due o tre o quattrocentomila franchi forse! Non
è necessario mettere all'incanto e vendere per conoscere il vero
valore? Invece mettendovi d'accordo...»
«Per la roncola di mio padre!» esclamò il
vignaiolo, che impallidì e si mise a sedere, «vedremo, Cruchot.»
Dopo un momento di silenzio o di agonia, il
brav'uomo guardò il notaio e gli disse: «La vita è ben dura! Ce ne
sono di dolori. Cruchot,» riprese con un tono solenne, «voi non
volete ingannarmi, datemi la vostra parola d'onore che ciò che mi
dite è nella legge. Mostratemi il Codice, voglio vedere il Codice!»
«Mio povero amico,» rispose il notaio, «credete
che non conosca il mio mestiere?»
«È dunque vero? Sarò spogliato, tradito, ucciso,
divorato da mia figlia.»
«È l'erede della madre.»
«A che servono dunque i figli? Ah! voglio bene a
mia moglie. Per fortuna è robusta; è una la Bertellière.»
«Non ha un mese di vita.»
Il bottaio si batté la fronte, fece qualche
passo, tornò indietro, e, gettando uno sguardo spaventoso a Cruchot:
«Che cosa si può fare?» gli chiese.
«Eugénie potrà rinunciare puramente e
semplicemente alla successione della madre. Voi non volete
diseredarla, vero? Ma, se volete ottenere una concessione del
genere, non trattatela male. Ciò che vi dico, vecchio mio, è contro
il mio interesse. Qual è il mio lavoro? ...liquidazioni, inventari,
vendite, divisioni...»
«Vedremo, vedremo. Non parliamone più, Cruchot.
Voi mi strizzate le budella. Avete ricevuto dell'oro?»
«No; ma ho qualche vecchio luigi, una diecina, e
ve li darò. Mio buon amico, fate la pace con Eugénie. Vedete, tutti
a Saumur vi danno addosso.»
«Buffoni!»
«Evvia, i titoli stanno a novantanove. Siate
contento almeno una volta nella vostra vita.»
«A novantanove, Cruchot?»
«Sì.»
«Eh! eh! novantanove!» disse il brav'uomo
riaccompagnando il notaio fino alla porta di strada. Poi, troppo
agitato da ciò che aveva sentito per restarsene a casa, salì dalla
moglie e le disse: «Coraggio, mamma, puoi passare la giornata con
tua figlia, io vado a Froidfond. Fate le brave tutte e due. È
l'anniversario del nostro matrimonio, mia cara moglie: tieni, ecco
dieci scudi per il tuo repositorio del Corpus Domini. È un pezzo che
ne volevi uno, regalatelo, siate allegre, e state bene. Viva la
gioia!» Gettò dieci scudi da sei franchi sul letto della moglie e le
prese la testa per baciarla sulla fronte. «Cara moglie, stai meglio,
non è vero?»
«Come potete pensare di ricevere nella vostra
casa il Dio che perdona, quando tenete vostra figlia lontana dal
cuore?» disse lei con impeto.
«Ta ta ta ta!» disse il padre con voce
carezzevole, «vedremo.»
«Bontà del cielo! Eugénie,» gridó la madre
arrossendo di gioia, «vieni ad abbracciare tuo padre, egli ti
perdona!»
Ma il brav'uomo era scomparso. Se ne andò di buon
passo verso i vigneti cercando di riordinare le idee scombussolate.
A quel tempo Grandet era entrato nel settantaseiesimo anno.
Specialmente da due anni, la sua avarizia si era accresciuta come si
accrescono tutte le passioni radicate nell'uomo. Secondo
un'osservazione fatta sugli avari, sugli ambiziosi, su tutte le
persone la cui vita è stata dominata da un'idea, egli si era fissato
soprattutto su un simbolo della sua passione. La vista dell'oro, il
possesso dell'oro erano diventati per lui una monomania. La sua
tendenza al distpotismo era aumentata in proporzione con l'avarizia,
e abbandonare la disponibilità della minima parte delle sue terre
alla morte della moglie gli pareva una cosa contro natura.
Dichiarare il suo patrimonio alla figlia, inventariare la totalità
dei beni mobili e immobili per metterli all'incanto?... «Sarebbe
come tagliarsi la gola,» disse ad alta voce fra i filari mentre
esaminava le viti. Alla fine si decise, tornò a Saumur all'ora di
cena, risoluto a piegarsi davanti a Eugénie, a coccolarla, ad
ammansirla per poter morire regalmente, tenendo fino all'ultimo
respiro le redini dei suoi milioni. Nel momento in cui il brav'uomo,
che stranamente aveva con sé la chiave di casa, saliva la scala a
passi di lupo per andare dalla moglie, Eugénie aveva portato sul
letto della madre il bel nécessaire. Entrambe, quando Grandet non
c'era, si concedevano il piacere di guardare il ritratto di Charles
osservando quello della madre.
«Ha la sua fronte e la sua bocca!» stava dicendo
Eugénie quando il vignaiolo aprì la porta. Vedendo lo sguardo che il
marito gettò sull'oro, Mme Grandet gridò: «Mio Dio, abbiate pietà di
noi!»
Il brav'uomo si gettò sul nécessaire come una
tigre balza su un bambino addormentato. «Che cos'è questo?» disse
prendendo il tesoro e andando vicino alla finestra. «Oro buono!
oro!» esclamò. «Molto oro! Questo qui pesa due libbre. Ah! ah!
Charles ti ha dato questo in cambio delle tue belle monete eh?
Perché non dirmelo? È un buon affare, figlietta! Sei mia figlia, ti
riconosco.» Eugénie tremava come un fuscello.«Questo è di Charles,
nevvero?» riprese il brav'uomo.
«Sì, padre, non è mio. Questo oggetto è un
deposito sacro.»
«Ta ta ta ta! egli ha preso la tua ricchezza,
bisogna che ricostituisci il tuo piccolo tesoro.»
«Padre mio!...»
Il brav'uomo tirò fuori il coltello per far
saltare una placca d'oro, e per far questo dovette posare il
nécessaire su una sedia. Eugénie si slanció per riprenderlo; ma il
bottaio, che teneva d'occhio contemporaneamente la figlia e il
cofanetto, tese un braccio e la respinse con tanta violenza, che la
ragazza andò a cadere sul letto della madre.
«Signore! signore!» gridò la madre tirandosi a
sedere sul letto.
Grandet aveva aperto il coltello e si accingeva a
scalzare l'oro.
«Padre mio,» esclamò Eugénie gettandosi
ginocchioni e avvicinandosi al padre in questa positura con le mani
alzate verso di lui; «padre mio in nome di tutti i santi e della
Vergine, in nome di Cristo, morto in croce; per la vostra salute
eterna, per la mia vita, non toccatelo! Quel nécessaire non è né
vostro né mio; è di un congiunto infelice che me l'ha confidato, e
io devo restituirglielo intatto.»
«Perché lo guardavi, se è un deposito? Guardare,
è peggio che toccare.»
«Padre mio, se lo distruggete, sarò disonorata!
Mi ascoltate?»
«Signore, vi supplico!» disse la madre.
«Padre!» gridò Eugénie con voce così forte, che
Nanon, spaventata, salì. Con un balzo Eugénie afferrò un coltello
che trovò a portata di mano.
«E allora?» le disse tranquillamente Grandet con
un sorriso gelido.
«Signore, signore, voi mi assassinate!» disse la
madre.
«Padre, se il vostro coltello scalfisce anche
solo una particella di quell'oro, io mi trafiggerò con questo. Avete
già reso mia madre mortalmente malata, ucciderete anche vostra
figlia. Avanti dunque, ferita per ferita!»
Grandet tenne il coltello sul nécessaire e guardò
la figlia esitando.
«Ne saresti davvero capace, Eugénie?» chiese.
«Sì, signore,» disse la madre.
«Farà quello che ha detto,» esclamò Nanon. «Siate
ragionevole, signore, almeno una volta nella vostra vita.» Per un
momento il bottaio fece passare lo sguardo dall'oro alla figlia. Mme
Grandet perse i sensi. «Guardate, signore, la padrona muore!» gridò
Nanon.
«E va bene, figlia, non litighiamo per un
cofanetto. Prendi!» esclamò con veemenza il bottaio gettando il
nécessaire sul letto.
«Tu, Nanon, va' a chiamare M. Bergerin. Su,
mamma,» disse baciando la mano della moglie, «non è nulla, via;
abbiamo fatto la pace. - Vero, figlietta? Niente più pane secco,
mangerai quello che vorrai... Ah! riapre gli occhi. - Ebbene, mamma,
mammina, mammetta, coraggio! Ecco, vedi, bacio Eugénie. Ella ama suo
cugino, lo sposerà se vuole, gli custodirà il cofanetto. Ma tu vivi
ancora a lungo, mia povera moglie. Suvvia, fa' un gesto! Ascolta,
avrai il più bel repositorio che sia mai stato fatto a Saumur.»
«Mio Dio, come potete trattare così vostra moglie
e vostra figlia!» disse con un filo di voce Mme Grandet.
«Non lo farò più, più!» esclamò il bottaio.
«Vedrai, povera moglie mia.»
Andò nello studio e tornò con una manciata di
luigi che sparpagliò sul letto.
«Tieni, Eugénie, tieni, moglie mia, sono per
voi,» disse passando le dita fra le monete. «Su, rallegrati, moglie
mia; cerca di star bene, non mancherai di nulla e nemmeno Eugénie.
Ecco cento luigi d'oro per lei. Questi non li darai via, Eugénie,
eh?»
Mme Grandet e la figlia si guardarono,
sbalordite.
«Riprendeteli, padre; noi abbiamo bisogno solo
della vostra tenerezza.»
«Bene, e sia,» disse rimettendosi in tasca i
luigi, «viviamo da buoni amici. Scendiamo tutti in sala a cenare, a
giocare a tombola tutte le sere con due soldi per posta. Scherzate
pure! Che ne dici, moglie?»
«Ahimè! lo vorrei, perché potrebbe essere
piacevole,» disse la moribonda; «ma non ce la faccio ad alzarmi.»
«Povera mamma,» disse il bottaio, «tu non sai
quanto ti amo. - E anche te, figlia mia!» La abbracciò e la baciò.
«Oh! quanto è bello baciare la propria figlia dopo uno screzio! la
mia figlietta! - Ecco, vedi, mammina, adesso siamo una persona sola.
- Vai a riporlo,» disse a Eugénie indicandole il cofanetto. «Va',
non temere. Non te ne parlerò mai più.»
M. Bergerin, il più celebre medico di Saumur,
arrivò di lì a poco. Terminata la visita, disse chiaro e tondo a
Grandet che sua moglie stava molto male, ma che con molta
tranquillità, dolcezza e cure scrupolose sarebbe stato possibile
ritardare il momento della morte fin verso la fine dell'autunno.
«Costerà caro?» chiese il brav'uomo; «ci vogliono
medicine?»
«Poche medicine, ma molte cure,» rispose il
dottore che non riuscì a trattenere un sorriso.
«Insomma, signor Bergerin,» rispose Grandet, «voi
siete un uomo d'onore, non è così? Mi affido a voi, venite a vedere
mia moglie tutte lo volte che lo riterrete opportuno. Conservatemi
la mia buona moglie; l'amo molto, vedete, anche se non lo do a
vedere, perché io sono fatto così, mi tengo tutto dentro e mi rodo
l'anima. Sono pieno di dispiaceri. Il dolore è entrato in casa mia
con la morte di mio fratello, per il quale spendo, a Parigi, delle
somme... un occhio della testa, insomma! e non è ancora finita.
Addio, signore. Se è possibile salvare mia moglie, salvatela, anche
se per questo si dovessero spendere cento o duecento franchi.»
Malgrado i fervidi auguri che Grandet faceva per
la salute della moglie, la cui successione era per lui una prima
morte; malgrado la compiacenza che dimostrava in ogni occasione per
i più piccoli desideri di una madre e di una figlia sbalordite;
malgrado le cure più affettuose prodigate da Eugénie, Mme Grandet si
avviava rapidamente alla morte. Ogni giorno, si indeboliva e
deperiva come deperisce la maggior parte delle donne colpite, a
quell'età, dalla malattia. Era fragile come le foglie degli alberi
in autunno. La luce del cielo la faceva risplendere come quelle
foglie quando il sole le attraversa e le indora. Fu una morte degna
della sua vita, una morte tutta cristiana; non è come dire sublime?
Nel mese di ottobre 1822 rifulsero in modo particolare le sue virtù,
la sua pazienza d'angelo e l'amore per la figlia; ella si spense
senza essersi lasciato sfuggire il più piccolo lamento. Agnello
senza macchia, saliva in cielo, e non rimpiangeva quaggiù che la
dolce compagna della sua fredda vita, alla quale i suoi ultimi
sguardi sembravano predire mille mali. Tremava all'idea di dover
lasciare quella pecorella, candida come lei, sola in un mondo
egoista che voleva strapparle il vello, i suoi tesori.
«Figlia mia,» le disse prima di spirare, «la
felicità è solo in cielo, un giorno lo saprai.»
All'indomani di quella morte, Eugénie trovò nuovi
motivi per affezionarsi a quella casa dove era nata, dove aveva
tanto sofferto, dove sua madre era appena morta. In sala non
riusciva a guardare la finestra e la sedia rialzata senza
sciogliersi in lacrime. Credette di aver mal giudicato l'animo del
padre vedendosi oggetto delle sue più affettuose attenzioni: veniva
a darle il braccio per scendere a colazione; per ore intere restava
a guardarla con occhi quasi buoni; insomma, la covava come se fosse
stata d'oro. Il vecchio bottaio somigliava così poco a se stesso,
tremava a tal punto davanti alla figlia, che Nanon e i cruchottiani,
testimoni di questa sua debolezza, la attribuirono all'età avanzata,
e pensarono perciò a un infiacchimento delle sue facoltà; ma, il
giorno in cui la famiglia prese il lutto, dopo la cena, alla quale
era stato invitato il notaio Cruchot, che conosceva, lui solo, il
segreto del suo cliente, la condotta del brav'uomo diventò chiara.
«Mia cara figliola,» disse a Eugénie quando la
tavola fu sparecchiata e le porte accuratamente chiuse, «ora tu sei
l'erede di tua madre e noi due dobbiamo sistemare qualche
affaruccio. Non è vero, Cruchot?»
«Sì.»
«È proprio necessario occuparsene oggi, padre?»
«Sì, sì, figlietta. Non potrei resistere
nell'incertezza in cui mi trovo. Non credo che tu voglia darmi un
dispiacere.»
«Oh! padre mio...»
«Ebbene, bisogna sistemare tutto questa sera.»
«Che cosa volete dunque che faccia?»
«Ma, figlietta, questo non riguarda me. - Ditelo
voi, Cruchot.»
«Signorina, il vostro signor padre non vorrebbe
né dividere né vendere i suoi beni né pagare enormi diritti di
successione per il denaro contante che egli si trovasse a possedere.
A tale scopo, dunque, bisognerebbe evitare di fare l'inventario di
tutto il patrimonio che oggi non è diviso fra voi e il vostro signor
padre...»
«Cruchot, siete ben sicuro di questo, per
parlarne così davanti a una bambina?»
«Lasciatemi dire, Grandet.»
«Sì, sì, amico mio. Né voi né mia figlia vorrete
spogliarmi. Vero, figlietta?»
«Ma, signor Cruchot, che cosa dovrei fare?»
domandò Eugénie spazientita.
«Beh,» disse il notaio, «bisognerebbe firmare
quest'atto con il quale voi rinunciate alla successione della vostra
signora madre, e lasciate a vostro padre l'usufrutto di tutti i beni
indivisi fra voi, e dei quali egli vi garantisce la nuda
proprietà...»
«Io non capisco niente di tutto quello che mi
dite,» rispose Eugénie; «datemi l'atto e ditemi dove devo firmare.»
Papà Grandet guardava ora il documento ora la
figlia e provava delle emozioni così violente da doversi asciugare
le gocce di sudore che gli imperlarono la fronte.
«Figlietta,» disse, «invece di firmare questo
documento che a farlo registrare ci costerebbe molto, preferirei che
tu rinunciassi puramente e semplicemente alla successione della tua
povera, cara, mamma defunta, e far conto su di me per il futuro. Io
ti passerei tutti i mesi una bella e consistente rendita di cento
franchi. Vedi, potresti pagare a quelli, cui le fai dire, quante
messe vorrai... Eh! cento franchi al mese, in lire?»
«Farò quello che vorrai, padre mio.»
«Signorina,» disse il notaio, «è mio dovere farvi
osservare che voi vi private....»
«Eh! mio Dio,» fece lei, «che cosa me ne
importa?»
«Taci, Cruchot. - È detto, è detto,» esclamò
Grandet prendendo la mano della figlia e battendoci sopra con la
sua, «Eugénie, tu non cambierai idea, tu sei una ragazza onesta,
eh?»
«Oh! padre mio...»
Egli la baciò con trasporto, la strinse fra le
braccia fin quasi a soffocarla.
«Figlia mia, tu dai la vita a tuo padre; però gli
restituisci quello che lui ti ha dato: siamo pari. Ecco come devono
farsi gli affari. La vita è un affare. Io ti benedico! Tu sei una
ragazza virtuosa, che vuol bene al suo papà. E ora fa' quello che
vuoi. - A domani, Cruchot,» disse guardando il notaio allibito. «Ci
vedremo per l'atto di rinuncia alla cancelleria del tribunale.»
L'indomani, verso mezzogiorno, venne firmata la
dichiarazione con la quale Eugénie decideva di privarsi di tutto.
Tuttavia, nonostante la parola data, il vecchio bottaio, alla fine
del primo anno, non aveva ancora sborsato un soldo dei cento franchi
mensili solennemente promessi alla figlia. Perciò, quando Eugénie
gliene parlò senza dare importanza alla cosa, non poté fare a meno
di arrossire; salì in fretta nel suo studio, tornò, e le presentò
circa un terzo dei gioielli che aveva preso al nipote.
«Tieni, piccola,» disse con un tono ironico,
«vuoi questi per i tuoi mille e duecento franchi?»
«Oh! padre mio, davvero me li dai?»
«Te ne darò altrettanti l'anno prossimo,» disse
gettandoglieli nel grembiule. «Così, in poco tempo, avrai tutti i
suoi ciondoli,» aggiunse fregandosi le mani, felice di poter
speculare sui sentimenti della figlia.
Nondimeno, il vecchio, sebbene ancora robusto,
sentì la necessità di mettere la ragazza a parte dei segreti della
famiglia. Per due anni consecutivi, volle che fosse lei a ordinare
in sua presenza i pasti, e ricevere gli affitti. Le insegnò poco per
volta i nomi e l'estensione delle vigne e dei poderi. Intorno al
terzo anno, l'aveva abituata così bene a tutte le sue avarizie,
gliele aveva inculcate così bene, che le affidò senza timore le
chiavi della dispensa, e ne fece la padrona di casa.
Passarono cinque anni senza che alcun avvenimento
segnasse l'esistenza monotona di Eugénie e del padre. Sempre gli
stessi gesti compiuti con la regolarità cronometrica della vecchia
pendola. La profonda malinconia di Mlle Grandet non era un mistero
per nessuno; ma, se chiunque poteva intuirne la causa, mai una
parola pronunciata da lei giustificò i sospetti che tutti a Saumur
nutrivano sui sentimenti della ricca ereditiera. La sua sola
compagnia era formata dai tre Cruchot e da qualche amico che essi
avevano senza parere introdotto nella casa. Le avevano insegnato a
giocare a whist, e venivano tutte le sere a fare la partita.
Nell'anno 1827, il padre, sentendo il peso delle sue infermità, fu
costretto a iniziarla ai segreti del suo patrimonio immobiliare, e
le diceva di rivolgersi, in caso di difficoltà, al notaio Cruchot,
di cui egli conosceva la probità. Poi, verso la fine di quell'anno,
il brav'uomo, che aveva ottantadue anni, venne finalmente colpito da
una paralisi che fece rapidi progressi. Grandet fu condannato da M.
Bergerin. Pensando che di lì a poco sarebbe rimasta sola al mondo,
Eugénie si strinse, per così dire, più vicino al padre e rinsaldò
quell'ultimo anello di affetto. Nei suoi pensieri, come in quelli di
tutte le donne che amano, l'amore era il mondo intero, e Charles non
era lì. Ella fu sublime nelle premure e nelle attenzioni per il
vecchio padre, le cui facoltà cominciavano a scemare, ma la cui
avarizia era sostenuta dall'istinto. Perciò la morte di quell'uomo
non sconvolse la sua vita. La mattina, egli si faceva mettere fra il
camino della camera e la porta del suo studio, senza dubbio pieno
d'oro. Restava là incapace di muoversi, ma guardava con ansia quelli
che venivano a trovarlo e la porta rinforzata di ferro. Voleva
sapere la cagione dei più piccoli rumori che udiva; e, con grande
stupore del notaio, sentiva gli sbadigli del cane in cortile. Si
riscuoteva da quello stato di apparente stupore nel giorno e
nell'ora in cui bisognava incassare gli affitti, fare i conti con i
vignaioli, o rilasciare delle ricevute. Allora spostava la poltrona
a rotelle in modo da trovarsi davanti alla porta dello studio. La
faceva aprire dalla figlia, e si accertava che ella stessa
collocasse i sacchi di denaro gli uni sugli altri e che poi
chiudesse bene la porta. Poi tornava in silenzio al suo posto non
appena la figlia gli aveva restituito la preziosa chiave, che teneva
sempre nel taschino del gilè, dove di quando in quando la tastava.
D'altra parte, il suo vecchio amico, il notaio, convinto che la
ricca ereditiera non avrebbe potuto non sposare il presidente suo
nipote, se Charles Grandet non tornava, raddoppiò le premure e le
attenzioni: tutti i giorni veniva a mettersi a disposizione di
Grandet, e quando questi glielo chiedeva andava a Froidfond, sulle
terre, sui prati, nei vigneti, vendeva i raccolti, e tramutava tutto
in oro e in argento che andavano a raggiungere i sacchi ammucchiati
nello studio. Arrivarono poi i giorni dell'agonia, durante i quali
la forte struttura del brav'uomo lottò contro la distruzione. Volle
rimanere seduto accanto al fuoco, davanti alla porta del suo studio.
Attirava a sé e arrotolava tutte le coperte che gli mettevano
addosso, e diceva a Nanon: «Chiudi, chiudi, non voglio che mi
derubino.» Quando riusciva ad aprire gli occhi, l'unica parte viva
di lui, li voltava subito verso la porta dello studio dov'erano i
suoi tesori e diceva alla figlia: «Ci sono? ci sono?» e nel tono
della voce si avvertiva una specie di timor panico.
«Sì, padre mio.»
«Sorveglia l'oro!... mettimi qui davanti
dell'oro!»
Eugénie gli sciorinava dei luigi su un tavolo, e
lui rimaneva per ore intere con gli occhi fissi sui luigi, come un
bambino che, nel momento in cui comincia a vedere, rimane inebetito
a guardare sempre la stessa cosa; e, proprio come un bambino,
accennava un sorriso penoso. «Questo mi riscalda!» diceva talvolta
mentre sul suo viso appariva un'espressione beata.
Quando il parroco venne a somministrargli i
sacramenti, i suoi occhi, in apparenza spenti da qualche ora, si
rianimarono alla vista della croce, dei candelieri,
dell'acquasantiera d'argento che guardò a lungo, e mosse per
l'ultima volta la sua verruca. Quando il prete gli avvicinò alle
labbra il crocifisso dorato per fargli baciare l'immagine del
Cristo, egli fece un gesto spaventoso per afferrarlo e quest'ultimo
sforzo gli costò la vita. Chiamò Eugénie, che non vedeva, benché
fosse inginocchiata davanti a lui e bagnasse di lacrime una mano già
fredda.
«Padre mio, beneditemi,» chiese lei.
«Abbi cura di tutto! Me ne renderai conto
laggiù,» dimostrando con quest'ultima parola che il cristianesimo
deve essere la religione degli avari.
Eugénie Grandet si trovò dunque sola in quella
grande casa e non avendo altri che Nanon cui gettare uno sguardo con
la certezza di essere intesa e compresa, Nanon, il solo essere che
l'amasse per se stessa e con la quale poteva parlare dei suoi
dolori. La grande Nanon era una provvidenza per Eugénie. Così non fu
più una serva, ma un'umile amica. Dopo la morte del padre, Eugénie
apprese dal notaio Cruchot che possedeva trecento mila lire di
rendita terriera nel circondario di Saumur, sei milioni investiti al
tre per cento in titoli acquistati a sessanta franchi e che valevano
in quel momento settantasette franchi; più due milioni in oro e
centomila franchi in scudi, senza contare i canoni arretrati da
riscuotere. La stima totale dei suoi beni era di diciassette
milioni.
«Dov'è mio cugino?» si chiedeva Eugénie.
Il giorno in cui il notaio Cruchot consegnò alla
sua cliente un rapporto sull'eredità, divenuta chiara e non soggetta
a contestazioni, Eugénie rimase sola con Nanon, sedute l'una e
l'altra ai due lati del camino in quella sala così vuota, dove tutto
era un ricordo, dalla sedia rialzata sulla quale si sedeva sua madre
al bicchiere nel quale aveva bevuto il cugino.
«Siamo sole, Nanon!»
«Sì, signorina; se sapessi dov'è quel tesorino,
andrei a cercarlo a piedi.»
«C'è il mare fra di noi,» disse lei.
Mentre la povera ereditiera piangeva in compagnia
della vecchia domestica, in quella casa fredda e scura che per lei
era tutto l'universo, da Nantes a Orléans non si parlava d'altro che
dei diciassette milioni di Mlle Grandet. Uno dei suoi primi atti fu
quello di assegnare una rendita vitalizia di milleduecento franchi a
Nanon, la quale, poiché possedeva altri seicento franchi, diventò un
bel partito. In meno di un mese, passò dalla condizione di ragazza a
quella di donna, sotto la protezione di Antoine Cornoiller, che fu
nominato sorvegliante generale delle terre e proprietà di Mlle
Grandet. Mme Cornoiller aveva sulle sue coetanee un grande
vantaggio. Sebbene avesse cinquantanove anni non ne dimostrava più
di quaranta. I suoi lineamenti grossolani avevano resistito agli
attacchi del tempo. Grazie a un regime di vita monastica, ella
sfidava la vecchiaia con un bel colorito e con una salute di ferro.
Aveva i vantaggi della bruttezza, e appariva grossa, grassa, forte,
con sul viso un'aria di felicità che indusse qualcuno a indiviare la
sorte di Cornoiller. «Ha un bel colorito,» diceva il drappiere. «È
ancora capace di fare dei figli,» disse il mercante di sale; «si è
conservata come in salamoia, con rispetto parlando.» «È ricca, e
Cornoiller ha fatto un bel colpo,» diceva un altro vicino. Uscendo
dalla vecchia casa, Nanon che era amata da tutto il vicinato,
ricevette solo complimenti mentre scendeva la strada tortuosa per
andare in parrocchia. Come regalo di nozze, Eugénie le diede tre
dozzine di posate. Cornoiller, sorpreso da tanta generosità, parlava
della padrona con le lacrime agli occhi: si sarebbe fatto squartare
per lei. Divenuta la confidente di Eugénie, Mme Cornoiller ebbe da
allora una felicità uguale a quella di possedere un marito. Aveva
finalmente una dispensa da aprire e chiudere, delle provviste da
prendere al mattino, come faceva il suo defunto padrone. Poi dovette
dirigere due domestiche, una cuoca e una cameriera, incaricata di
tenere in ordine la biancheria di casa e di confezionare gli abiti
della signorina. Cornoiller cumulò le funzioni di sorvegliante e di
intendente. Inutile dire che la cuoca e la cameriera scelte da Nanon
erano delle vere perle. Mlle Grandet ebbe così quattro servitori la
cui devozione era illimitata. I fittavoli non notarono alcuna
differenza dopo la morte del brav'uomo, poiché costui aveva
stabilito rigidi usi e costumi nella amministrazione, che fu
continuata con scrupolo da M. e Mme Cornoiller.
[6]
A trentatré anni Eugénie non conosceva ancora le
felicità dell'esistenza. La sua infanzia, sbiadita e triste, era
trascorsa accanto a una madre il cui cuore misconosciuto, offeso,
aveva sempre sofferto. Abbandonando con gioia la vita, questa madre
compianse la figlia che doveva vivere, e le lasciò nell'animo lievi
rimorsi e rimpianti eterni. Il primo, il solo amore era per Eugénie
un motivo di malinconia. Dopo aver intravisto il suo amante per
qualche giorno, gli aveva dato il proprio cuore fra due baci
furtivamente accettati e resi; poi egli era partito, frapponendo fra
loro due il mondo. Questo amore, maledetto dal padre, le era quasi
costato la madre, e le procurava solo dolore mescolato a qualche
fragile speranza. Perciò, fino ad allora, ella aveva rincorso la
felicità consumando le sue forze senza rinnovarle. Nella vita
spirituale, come in quella fisica, esiste un'inspirazione e
un'espirazione: l'anima ha bisogno di assorbire i sentimenti di
un'altra anima, di assimilarli per poi restituirli arricchiti. Senza
questo bel fenomeno umano, il cuore non ha vita; gli manca l'aria,
soffre e deperisce. Eugénie cominciava a soffrire. Per lei la
ricchezza non significava potere e neppure consolazione; ella poteva
esistere solo grazie all'amore, alla religione, alla fede
nell'avvenire. L'amore le faceva capire l'eternità. Il cuore e il
Vangelo le mostravano due mondi che l'attendevano. Notte e giorno
era immersa in due pensieri infiniti, che per lei forse erano un
tutto unico. Si ritirava in se stessa, amando e credendosi amata.
Dopo sette anni, la sua passione aveva invaso tutto. I suoi tesori
non erano i milioni i cui interessi si accumulavano, ma il cofanetto
di Charles, ma i due ritratti appesi sul suo letto, ma i gioielli
ricomprati al padre, e disposti orgogliosamente su uno strato di
ovatta in un tiretto del cassone; ma il ditale della zia usato da
sua madre, e che, tutti i giorni, ella prendeva religiosamente per
lavorare a un ricamo, una tela di Penelope, intrapreso solo per
poter infilare al dito quell'oggetto d'oro carico di ricordi. Non
sembrava verosimile che Mlle Grandet decidesse di sposarsi durante
il lutto. La sua profonda pietà era nota. Perciò la famiglia
Cruchot, la cui politica era saggiamente orchestrata dal vecchio
sacerdote, si accontentava di circuire l'ereditiera con le premure
più affettuose. Tutte le sere, la sala della sua casa si riempiva
con una compagnia formata dai più ferventi e devoti cruchottiani del
paese, i quali non facevano che cantare su tutti i toni le lodi
dell'ospite. Ella aveva il medico personale, il grande elemosiniere,
il ciambellano, la prima dama di compagnia, il primo ministro, e
soprattutto il cancelliere, un cancelliere che voleva consigliarla
su ogni cosa. Se l'ereditiera avesse desiderato un caudatario,
gliene avrebbero trovato uno. Era una regina, e la più abilmente
adulata di tutte le regine. L'adulazione non viene mai dalle anime
grandi ma è appannaggio di quelle meschine, che riescono a
rimpicciolirsi ancora di più per entrare meglio nella sfera vitale
della persona attorno alla quale gravitano. L'adulazione presuppone
un interesse. E così le persone che ogni sera andavano ad affollare
la sala di Mlle Grandet, che loro chiamavano Mlle de Froidfond,
riuscivano meravigliosamente bene a ricoprirla di lodi. Questo
concerto di elogi, nuovo per Eugénie, dapprima la fece arrossire; ma
a poco a poco, anche se certi complimenti erano smaccati, le
orecchie le si abituarono così bene a sentir vantare la sua
bellezza, che se un nuovo venuto l'avesse trovata brutta, ella
sarebbe stata più sensibile a questa critica di quanto avrebbe
potuto esserlo otto anni prima. Poi Eugénie finì per amare queste
dolcezze che segretamente deponeva ai piedi del suo idolo. Si abituò
quindi per gradi a essere trattata come una sovrana e a vedere la
sua corte affollata tutte le sere.
Il signor presidente de Bonfons era l'eroe di
questo piccolo circolo, dove si vantavano senza posa il suo spirito,
la sua persona, la sua istruzione, la sua amabilità. Uno faceva
notare che, negli ultimi sette anni, egli aveva accresciuto di molto
il suo patrimonio; che Bonfons valeva almeno diecimila franchi di
rendita e le terre erano, come tutte quelle dei Cruchot, circondate
da quelle dell'ereditiera. «Sapete, signorina,» diceva un visitatore
abituale, «i Cruchot dispongono di rendite per quarantamila lire!»
«E delle loro economie,» soggiungeva una vecchia cruchottiana, Mlle
de Gribeaucourt. «Un signore di Parigi è venuto nei giorni scorsi a
offrire a M. Cruchot duecentomila franchi per il suo studio. Deve
venderlo, per esser nominato giudice di pace.» «Vuole succedere a M.
de Bonfons nella presidenza del tribunale, e quindi deve fare i suoi
passi,» rispose Mme d'Orsonval; «perché il signor presidente
diventerà consigliere, e poi presidente di corte d'appello; ha
troppi meriti per non arrivarci.» «Sì, è un uomo notevole,» diceva
un altro. «Non trovate, signorina?»
Il signor presidente era costretto a mettersi
all'altezza del ruolo che voleva sostenere. Malgrado i quaranta
anni, malgrado il viso scuro e arcigno, appassito come lo sono quasi
tutte le facce dei magistrati, si vestiva da giovanotto,
giocherellava con un bastoncino, non tabaccava in casa di Mlle de
Froidfond, vi arrivava sempre in cravatta bianca, e con una camicia
la cui pettorina gli conferiva una certa rassomiglianza con le
creature del genere tacchino. Parlava con un tono familiare
all'ereditiera, e le diceva: «La nostra cara Eugénie.» Insomma, a
parte il numero delle persone, se si sostituisce alla tombola il
whist, se si eliminano i volti di M. e Mme Grandet, la scena con cui
cominciò questa storia era press'a poco la stessa. La muta braccava
sempre Eugénie e i suoi milioni; ma, più numerosa, abbaiava meglio e
circondava la preda con maggior abilità. Se Charles fosse tornato
dalle lontane Indie, avrebbe ritrovato gli stessi personaggi e gli
stessi interessi. Mme des Grassins, per la quale Eugénie era una
perfezione di grazia e di bontà, continuava a tormentare i Cruchot.
Ma allora, come un tempo, la figura di Eugénie dominava il quadro,
come un tempo Charles sarebbe stato ancora il sovrano. Tuttavia,
c'era un progresso. Il mazzo di fiori che una volta il presidente
offriva a Eugénie per il compleanno era diventato una regola. Tutte
le sere, egli portava alla ricca ereditiera un grande e magnifico
mazzo che Mme Cornoiller metteva ostentatamente in un vaso, e
gettava di nascosto in un angolo del cortile non appena i visitatori
se ne erano andati. All'inizio della primavera, Mme des Grassins
cercò di turbare la felicità dei cruchottiani parlando a Eugénie del
marchese di Froidfond, il cui casato in rovina avrebbe potuto
risollevarsi se l'ereditiera avesse voluto restituirgli le terre
attraverso un contratto di matrimonio. Mme des Grassins sbandierava
il titolo di pari e il marchesato, e, prendendo il sorriso sdegnoso
di Eugénie per un'approvazione, andava dicendo che il matrimonio del
signor presidente Cruchot non era così fatto come si credeva.
«Sebbene M. de Froidfond abbia cinquant'anni» diceva, «non sembra
più vecchio di M. Cruchot; è vedovo, ha figli, è vero, ma è
marchese, sarà pari di Francia, e, con i tempi che corrono,
trovatemi un partito di questo calibro. So per certo che papà
Grandet, quando riunì le sue terre a quelle di Froidfond, aveva
intenzione di imparentarsi con i Froidfond. Me l'ha detto spesso.
Era furbo il brav'uomo.»
«Come mai, Nanon,» disse una sera Eugénie
coricandosi, «non mi ha scritto una volta in sette anni?...»
Mentre a Saumur accadevano queste cose, Charles
faceva fortuna nelle Indie. Innanzi tutto era riuscito a vendere
bene la sua paccottiglia. In breve tempo aveva realizzato una somma
di seimila dollari. Il battesimo dell'equatore gli aveva fatto
perdere molti pregiudizi, si rese conto che il modo migliore per
raggiungere la ricchezza nelle regioni equatoriali, come del resto
in Europa, era quello di acquistare e vendere uomini. Andò così
sulle coste dell'Africa e fece la tratta dei negri, unendo al
commercio d'uomini quello delle mercanzie più vantaggiose da
scambiare sui diversi mercati dove lo portavano i suoi interessi. Si
dedicava agli affari con un impegno che non gli lasciava un momento
libero. Era ossessionato dall'idea di riapparire a Parigi nello
splendore di una immensa ricchezza, e di conquistare una posizione
ancora più brillante di quella dalla quale era precipitato. A forza
di frequentare uomini e paesi, di osservarne i costumi contrastanti,
le sue idee si modificarono ed egli diventò scettico. Non ebbe più
un'idea precisa sul giusto e l'ingiusto, vedendo reputare crimine in
un paese ciò che era virtù in un altro. Sempre a contatto con
l'interesse, il suo cuore si fece gelido, chiuso, arido. Il sangue
dei Grandet non mentì, Charles diventò duro, avido di guadagni.
Vendette cinesi, negri, nidi di rondine, bambini, artisti; praticò
l'usura in grande. L'abitudine a frodare i diritti di dogana lo rese
meno scrupoloso sui diritti degli uomini. Andava a Saint-Thomas a
comperare a basso prezzo le merci depredate dai pirati e le portava
sulle piazze dove scarseggiavano.
Se la nobile e pura immagine di Eugénie lo
accompagnò durante il primo viaggio, come l'immagine della Vergine
che i marinai spagnoli collocano sulle navi, e se attribuì i primi
successi alla magica influenza dei voti e delle preghiere di quella
dolce fanciulla, più tardi, le negre, le mulatte, le bianche, le
giavanesi, le almee, le orge di ogni colore e le avventure che ebbe
in diversi paesi cancellarono completamente il ricordo della cugina,
di Saumur, della casa, della panchina, del bacio carpito nel
corridoio. Ricordava solo il giardinetto chiuso da vecchi muri,
perché lì era incominciato il suo rischioso destino; ma rinnegava la
famiglia: lo zio era un vecchio cane che lo aveva derubato dei
gioielli; Eugénie non occupava né il suo cuore né i suoi pensieri,
occupava solo un posto negli affari come creditrice della somma di
seimila franchi. Questo genere di vita e queste idee spiegano il
silenzio di Charles Grandet. Nelle Indie, a Saint-Thomas, sulla
costa dell'Africa, a Lisbona e negli Stati Uniti, lo speculatore
aveva assunto, per non compromettere il suo nome, lo pseudonimo di
Sepherd. Carl Sepherd poteva senza rischio mostrarsi ovunque
infaticabile, audace, avido, come un uomo che, deciso a fare fortuna
quibuscumque viis , abbia fretta di finirla con l'infamia per
rimanere un'onest'uomo durante il resto dei suoi giorni. Con questo
sistema la sua fortuna fu rapida e brillante. Nel 1827 quindi, tornò
a Bordeaux sul bel brigantino MarieCaroline, appartenente a una
ditta commerciale realista. Possedeva un milione e novecentomila
franchi in tre solidi barili pieni di polvere d'oro, dalla vendita
dei quali a Parigi contava di guadagnare un sette o otto per cento.
Su quel brigantino viaggiava anche un gentiluomo onorario di camera
di Sua Maestà il re Carlo X, M. d'Aubrion, un buon vecchio che aveva
fatto la sciocchezza di sposare una donna di mondo, e il cui
patrimonio era nelle Antille. Per sopperire alle prodigalità di Mme
d'Aubrion, era andato a vendere i suoi terreni. M e Mme d'Aubron,
della casa d'Aubrion di Buch, il cui ultimo signore era morto prima
del 1789, ridotti a una ventina di migliaia di lire di rendita,
avevano una figlia piuttosto brutta che la madre voleva maritare
senza dote, poiché le sue entrate le consentivano a mala pena di
vivere a Parigi. Era un'impresa il cui successo sarebbe sembrato
problematico a tutte le persone di un certo ambiente, malgrado
l'abilità che si attribuisce alle donne di mondo. Perciò la stessa
Mme d'Aubrion quasi disperava, guardando la figlia, di riuscire ad
affibbiarla a qualcuno, fosse anche un uomo con la mania della
nobiltà. Mlle d'Aubrion era una signorina lunga, magra, gracile, con
una bocca sdegnosa, sulla quale scendeva un naso troppo lungo,
grosso in punta, colorito allo stato normale, ma completamente rosso
dopo i pasti, una specie di fenomeno vegetale che era tanto più
sgradevole in quanto quel naso si trovava in mezzo a un viso pallido
e annoiato. Insomma, Mlle d'Aubrion era come poteva desiderarla una
madre di trentotto anni che, ancora bella, continuava ad avere delle
pretese. Ma, per controbilanciare simili svantaggi la marchesa
d'Aubrion aveva dato alla figlia un'aria molto distinta, l'aveva
sottoposta a un regime che per il momento conservava il naso su una
gradazione di colorito ragionevole, le aveva appreso l'arte di
abbigliarsi con gusto, l'aveva dotata di modi piacevoli, le aveva
insegnato quegli sguardi malinconici che interessano un uomo e gli
fanno credere di essere sul punto di incontrare l'angelo vanamente
cercato; le aveva mostrato come muovere il piede per farne ammirare
la piccolezza nel momento in cui il naso aveva l'impertinenza di
arrossire; insomma Mme d'Aubrion aveva fatto sulla figlia un buon
lavoro. Grazie a maniche larghe, corsetti mentitori, abiti gonfi e
ben guarniti, e a un bustino strettissimo, ella aveva ottenuto dei
prodotti femminili così insoliti che, per l'istruzione delle madri,
avrebbe dovuto esporli in un museo. Charles si legò molto a Mme
d'Aubrion, precisamente come Mme d'Aubrion voleva legarsi a lui.
Molte persone sostengono addirittura che, durante la traversata, la
bella Mme d'Aubrion non trascurò alcun mezzo per catturare un genero
così ricco. Quando sbarcarono a Bordeaux, nel giugno del 1827, M.,
Mme e Mlle d'Aubrion e Charles scesero nello stesso albergo e
partirono insieme per Parigi. Il palazzo d'Aubrion era pieno di
ipoteche, Charles doveva liberarlo. La madre aveva detto che sarebbe
stata felice di cedere il suo piano rialzato al genero e alla
figlia. Non condividendo le fisime di M. d'Aubrion sulla nobiltà,
ella aveva promesso a Charles Grandet di ottenere dal buon Carlo X
un'ordinanza reale che lo autorizzasse, lui Grandet, a portare il
nome d'Aubrion, a prenderne il blasone, e a succedere, in cambio
della costituzione di un maggiorasco con trentaseimila lire di
rendita, ad Aubrion nel titolo di signore di Buch e marchese
d'Aubrion. Riunendo le loro fortune, vivendo in buon accordo, grazie
ad alcune sinecure, si potevano mettere insieme a palazzo d'Aubrion
oltre centomila lire di rendita. «E quando si hanno centomila lire
di rendita, un nome, una famiglia, quando si va a corte poiché io vi
farò nominare gentiluomo di camera, si diventa ciò che si vuole,»
diceva Mme d'Aubrion a Charles. «Perciò potrete diventare, a vostra
scelta, relatore al consiglio di stato, prefetto, segretario
d'ambasciata, ambasciatore. Carlo X ama molto d'Aubrion, si
conoscono fin da bambini.» Inebriato di ambizione da questa donna,
Charles, durante la traversata aveva accarezzato tutte queste
speranze che gli erano state presentate da una mano abile e sotto
forma di confidenze da cuore a cuore. Convinto che gli affari di suo
padre fossero stati sistemati dallo zio, si vedeva installato nel
faubourg Saint-Germain, l'aspirazione di tutti, dove all'ombra nel
naso paonazzo di Mlle Mathilde, sarebbe riapparso quale conte
d'Aubrion. Esaltato dalle fortune della Restaurazione, che aveva
lasciato vacillante, conquistato dallo smalto delle idee
aristocratiche, la sua ebbrezza cominciata sul battello continuò a
Parigi, dove decise di fare il possibile per arrivare a quell'alta
posizione che la suocera egoista gli faceva intravedere. Sua cugina
non era quindi per lui che un punto nello spazio di questa brillante
prospettiva. Rivide Annette. Da donna di mondo, Annette gli
consigliò vivamente di contrarre quel matrimonio, e gli garantì il
proprio appoggio in tutte le sue ambiziose imprese. Annette era
felice di far sposare una signorina brutta e noiosa a Charles, che
il soggiorno nelle Indie aveva reso molto seducente: il colorito era
più abbronzato, i modi erano diventati più decisi, arditi, come lo
sono quelli degli uomini abituati a risolvere, a dominare, a
riuscire. Charles respirava meglio a Parigi vedendo che poteva
sostenervi un ruolo. Des Grassins avendo saputo del suo ritorno, del
suo imminente matrimonio, della sua ricchezza, andò a trovarlo per
parlargli dei trecentomila franchi con i quali avrebbe potuto
saldare i debiti del padre. Trovò Charles in compagnia del
gioielliere al quale aveva ordinato il regalo di nozze per Mlle
d'Aubrion, e che era venuto a fargli vedere i disegni. Malgrado i
magnifici diamanti che Charles aveva portato dalle Indie, le
montature, l'argenteria, i gioielli solidi e futili della giovane
coppia ammontavano a più di duecentomila franchi. Charles ricevette
des Grassins, che non riconobbe, con l'impertinenza del giovane di
mondo che, nelle Indie, aveva ucciso quattro uomini in quattro
differenti duelli. M. des Grassins era già venuto tre volte. Charles
lo ascoltò con distacco; poi gli rispose, senza aver ben capito ciò
che gli aveva detto: «Gli affari di mio padre, non sono i miei. Vi
sono obbligato, signore, per l'interesse che vi avete dedicato ma
del quale non posso approfittare. Non ho messo insieme col sudore
della fronte quasi due milioni per gettarli in pasto ai creditori di
mio padre.»
«E se, di qui a qualche giorno, il vostro signor
padre fosse dichiarato fallito?»
«Signore, di qui a qualche giorno io mi chiamerò
conte d'Aubrion. Capite bene che la cosa mi sarebbe del tutto
indifferente. Del resto, voi sapete meglio di me che, quando un uomo
ha centomila lire di rendita, suo padre non fallisce mai,» aggiunse
spingendo cortesemente il signor des Grassins verso la porta.
All'inizio del mese di agosto di quell'anno,
Eugénie era seduta sulla panchina di legno dove il cugino le aveva
giurato eterno amore, e dove ella veniva a fare colazione quando era
bel tempo. La povera fanciulla si compiaceva in quei momenti,
nell'aria fresca e lieta del mattino, di riandare con la memoria ai
grandi, ai piccoli avvenimenti del suo amore, e alle catastrofi che
lo avevano accompagnato. Il sole rischiarava il bel muro tutto
crepato, quasi in rovina, che per ordine della bizzarra ereditiera
non si poteva toccare, anche se Cornoiller ripeteva spesso alla
moglie che prima o poi qualcuno ci sarebbe rimasto sotto. In quel
momento il fattorino della posta bussò, consegnò una lettera a Mme
Cornolller, che andò in giardino gridando: «Signorina, una lettera!»
La porse alla padrona dicendole: «È quella che aspettavate?»
Queste parole risuonarono con tanta forza nel
cuore di Eugénie, da echeggiare davvero fra le mura del cortile e
del giardino.
«Parigi! È sua! È tornato!»
Eugénie impallidì, e per un momento tenne fra le
mani la lettera senza aprirla. Era troppo turbata per riuscire a
dissuggellarla e a leggerla. La grande Nanon rimase in piedi, le
mani sulle anche, e la gioia sembrava le uscisse come una fumata
dalle pieghe del volto bruno.
«Avanti, leggete, signorina...»
«Ah! Nanon, perché torna a Parigi, quando è
partito da Saumur?»
«Leggete e lo saprete.»
Eugénie apri la lettera tremando. Ne cadde un
mandato sulla banca Madame des Grassins e Corret, di Saumur. Nanon
lo raccolse.
«Mia cara cugina...»
«Non sono più Eugénie,» pensò lei; e sentì una
stretta al cuore.
«Apprenderete...»
«Mi dava del tu!»
Incrociò le braccia, senza aver più la forza di
leggere, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
«È morto?» chiese Nanon.
«Non avrebbe scritto!» disse Eugénie.
E lesse tutta la lettera che segue:
«Mia cara cugina, apprenderete, credo, con
piacere, il successo delle mie imprese. Voi mi avete portato
fortuna, sono tornato ricco, e ho seguito i consigli di mio zio. Ho
appena appreso da M. des Grassins la notizia della sua morte e di
quella della zia. La morte dei genitori è nell'ordine naturale, e a
noi tocca succedergli. Spero che ormai vi siate fatta una ragione.
Niente resiste al tempo, io ne sono una prova. Si, mia cara cugina,
purtroppo per me il tempo delle illusioni è passato. Che volete!
viaggiando attraverso molti paesi, ho riflettuto sulla vita. Sono
partito che ero un ragazzo, ritorno uomo. Oggi penso a molte cose
alle quali un tempo non pensavo. Voi siete libera, cugina, e io sono
ancora libero; nulla impedisce, in apparenza, la realizzazione dei
nostri progetti; ma sono troppo leale per nascondervi la mia
situazione. Non ho dimenticato che non mi appartengo; mi sono sempre
ricordato, durante le mie lunghe traversate, della panchina di legno
..»
Eugénie si alzò come se fosse stata su dei
carboni ardenti, e andò a sedersi sui gradini del cortile.
«... Della panchina di legno sulla quale abbiamo
giurato di amarci per sempre; del corridoio, della sala grigia,
della mia camera nella mansarda, e della notte in cui, con
delicatezza, mi avete reso più facile l'avvenire. Sì, questi ricordi
mi hanno dato coraggio, e mi sono detto che voi pensavate sempre a
me, come io pensavo a voi, nell'ora stabilita fra di noi. Avete
guardato le nuvole alle nove? Sì, vero? Perciò, non voglio tradire
un'amicizia che per me è sacra; no, non devo ingannarvi. Si tratta,
in questo momento, per me, di un'unione che soddisfa tutte le idee
che mi sono fatto sul matrimonio. L'amore, nel matrimonio, è una
chimera. Oggi, l'esperienza mi dice che bisogna sottostare alle
leggi della società e riunire nel matrimonio tutte le convenienze
volute dal mondo. Ora, c'è fra noi una differenza d'età che, forse,
potrebbe pesare di più sul vostro avvenire, cara cugina, che sul
mio. Non voglio parlare dei vostri costumi né della vostra
educazione né delle vostre abitudini che sono quanto mai lontani
dalla vita di Parigi e non si accorderebbero per nulla con i miei
progetti. Ho in mente di tenere un elevato tenore di vita, di
ricevere molta gente, e credo di ricordare che voi amate una vita
dolce e tranquilla. No, sarò franco, e lascerò a voi giudicare la
mia situazione; avete diritto di conoscerla e di giudicarla. Oggi,
possiedo ottantamila lire di rendita. Questa fortuna, mi permette di
imparentarmi con la famiglia d'Aubrion, la cui erede, una giovane di
diciannove anni, mi porta in dote il suo nome, un titolo, la carica
di gentiluomo onorario di camera di Sua Maestà e una posizione fra
le più brillanti. Vi confesserò, cara cugina, che non amo affatto
Mlle d'Aubrion, ma con questo matrimonio assicuro ai miei figli una
posizione sociale i cui vantaggi saranno un giorno incalcolabili: le
idee monarchiche riacquistano sempre più favore. Perciò, fra alcuni
anni, mio figlio, divenuto marchese d'Aubrion, con un maggiorasco di
quarantamila lire di rendita, potrà prendere nello stato quel posto
che riterrà più conveniente. Abbiamo il dovere di pensare ai nostri
figli. Vedete, cugina mia, con quanta schiettezza vi espongo lo
stato del mio cuore, delle mie speranze, della mia fortuna. È
possibile che, da parte vostra, voi abbiate dimenticato le nostre
puerilità dopo sette anni di lontananza; io non ho dimenticato né la
vostra indulgenza né le mie parole; me le ricordo tutte, anche
quelle dette con leggerezza, alle quali un giovane meno coscienzioso
di me, con un cuore meno giovane e meno onesto, non dedicherebbe
nemmeno un pensiero. Dicendovi che intendo solo fare un matrimonio
di convenienza, e che mi ricordo ancora dei nostri amori da ragazzi,
penso di rimettermi interamente a vostra discrezione, di rendervi
arbitra della mia sorte, e di dirvi che, se dovessi rinunciare alle
mie ambizioni sociali mi contenterei volentieri di quella pura e
semplice felicità di cui mi avete offerto immagini tanto
toccanti...»
«Tan ta ta. - Tan ta ti. Tin ta ta. - Tun! - Tun
ta ti. - Tiun ta ta... ecc.» aveva canticchiato Charles Grandet
sull'aria di Non più andrai, mentre firmava:
«Vostro devoto cugino,
CHARLES.»
«Per mille fulmini! questo significa comportarsi
bene,» si disse. Poi aveva preso il mandato, e aveva aggiunto queste
righe:
«P.S. - Unisco alla lettera un mandato sulla
banca des Grassins di ottomila franchi all'ordine vostro, pagabile
in oro e comprendente capitale e interessi della somma che avete
avuto la bontà di prestarmi. Aspetto da Bordeaux una cassa
contenente degli oggetti che mi permettete di offrirvi a
testimonianza della mia eterna riconoscenza. Potete spedirmi con la
diligenza il mio nécessaire a palazzo d'Aubrion, rue
HillerinBertin.»
«Con la diligenza!» disse Eugénie. «Una cosa per
la quale avrei dato mille volte la vita!»
Disastro spaventoso e totale. La nave affondava
senza lasciare nemmeno un relitto, sul vasto oceano della speranza.
Vedendosi abbandonate, certe donne vanno a strappare l'amante dalle
braccia di una rivale, lo uccidono e fuggono in capo al mondo, sul
patibolo o nella tomba. Questo è bello, non v'è dubbio; il movente
di un simile delitto è una sublime passione che mette in imbarazzo
la giustizia umana. Altre donne abbassano il capo e soffrono in
silenzio; se ne vanno morenti e rassegnate, piangono e perdonano,
pregano e ricordano fino all'ultimo anelito. Questo è amore, amore
vero, l'amore degli angeli, l'amore fiero che vive del suo dolore e
ne muore. Fu ciò che provò Eugénie dopo aver letto quella orribile
lettera. Alzò lo sguardo al cielo, pensando alle ultime parole della
madre, che, come certi moribondi, aveva penetrato il futuro con
occhio acuto e lucido; poi Eugénie, ricordando quella morte e quella
vita profetica, misurò con un colpo d'occhio il suo destino. Ella
non doveva fare altro che spiegare le ali, tendere verso il cielo, e
vivere in preghiera fino al giorno della liberazione.
«Mia madre aveva ragione,» disse piangendo.
«Soffrire e morire.»
A passi lenti lasciò il giardino e andò in sala.
Contrariamente alle sue abitudini, non passò dal corridoio; ma in
quel vecchio salone grigio ritrovò il ricordo del cugino, sul camino
dove stava un certo piatto del quale, insieme con la vecchia
zuccheriera di Sèvres, ella si serviva tutte le mattine per la
colazione di Charles. Quella mattinata doveva essere importante e
piena di avvenimenti per lei. Nanon le annunciò il parroco. Questo
sacerdote, parente dei Cruchot, stava dalla parte del presidente de
Bonfons. Qualche giorno prima, il vecchio padre Cruchot lo aveva
convinto a parlare a Mlle Grandet, in un senso puramente religioso,
dell'obbligo che ella aveva di contrarre matrimonio. Vedendo il
parroco, Eugénie pensò che venisse a prendere i mille franchi che
ella dava ogni mese ai poveri, e disse a Nanon di portarle il
denaro; ma il parroco sorrise.
«Oggi, signorina, vengo a parlarvi di una povera
ragazza alla quale si interessa tutta la città di Saumur, e che, per
mancanza di carità verso se stessa, non vive cristianamente.»
«Mio Dio! signor parroco, mi trovo in un momento
nel quale mi è impossibile pensare al prossimo, sono troppo occupata
da me stessa. Sono molto infelice, e il mio unico rifugio è la
chiesa, che ha un seno abbastanza grande per contenere i nostri
dolori e sentimenti tanto fecondi ai quali possiamo attingere senza
tema di prosciugarli.»
«Ebbene, signorina, occupandoci di questa
fanciulla ci occuperemo di noi. Ascoltate! se volete il vostro bene,
non avete che due vie da seguire: o lasciare il mondo o accettarne
le leggi; obbedire al vostro destino terreno o al vostro destino
celeste.»
«Ah! la vostra voce mi parla in un momento in cui
volevo sentire una voce. Sì, è Dio che vi manda, signore. Dirò addio
al mondo e vivrò per Dio nel silenzio e nella solitudine.»
«Su una decisione così drastica, figlia mia,
bisogna riflettere a lungo. Il matrimonio è vita, il velo è morte.»
«Ebbene, la morte, la morte subito, signor
parroco!» disse lei con uno slancio spaventoso.
«La morte? Ma voi avete grandi obblighi verso la
società, signorina. Non siete forse la madre dei poveri ai quali
date abiti, legna d'inverno e lavoro d'estate? La vostra grande
ricchezza è un prestito che bisogna restituire, ed è in questo senso
che voi l'avete santamente accettata. Seppellirvi in un convento,
sarebbe egoismo; e non dovete nemmeno restare nubile. Eppoi, sareste
capace di amministrare da sola la vostra immensa fortuna? Forse la
perdereste. Vi trovereste coinvolta in mille cause e sareste
tormentata da difficoltà inestricabili. Credete al vostro pastore:
uno sposo vi sarà utile, voi dovete conservare ciò che Dio vi ha
dato. Vi parlo come a una pecorella diletta. Voi amate troppo
sinceramente Dio per non fare il bene della vostra anima in mezzo al
mondo, del quale siete uno dei più begli ornamenti e al quale date
edificanti esempi.»
In quel momento, Mme des Grassins si fece
annunciare. Veniva spinta dalla vendetta e da una grande
disperazione.
«Signorina...» disse. «Ah! c'è il signor
parroco... Allora taccio, venivo per parlare d'affari, ma vedo che
siete occupata.»
«Signora,» disse il parroco, «vi lascio il campo
libero.»
«Oh! signor parroco,» disse Eugénie, «tornate fra
poco, il vostro appoggio mi è indispensabile in questo momento.»
«Sì, povera figliola,» disse Mme des Grassins.
«Che volete dire?» chiesero Mlle Grandet e il
parroco.
«Credete che non sappia del ritorno di vostro
cugino, del suo matrimonio con Mlle d'Aubrion?... Una donna sta
sempre con le orecchie dritte.»
Eugénie arrossì e non disse nulla; ma decise di
fingere in futuro quella impassibilità che era una caratteristica di
suo padre.
«Ebbene, signora,» rispose con ironia, «senza
dubbio le mie orecchie non sono dritte, non capisco. Parlate pure
davanti al signor parroco, voi sapete che è il mio confessore.»
«Insomma, signorina, ecco quello che mi scrive
des Grassins. Leggete.»
Eugénie lesse la lettera seguente:
«Mia cara moglie, Charles Grandet è tornato dalle
Indie, è a Parigi da un mese...»
«Un mese!» si disse Eugénie lasciando cadere la
mano che teneva la lettera. Dopo un momento riprese a leggere.
«... Ho dovuto fare anticamera due volte prima di
poter parlare al futuro conte d'Aubrion. Sebbene tutta Parigi parli
del suo matrimonio e le pubblicazioni siano fatte...»
«Mi ha scritto dunque nel momento in cui...?» si
chiese Eugénie.
Non terminò la frase, non gridò come avrebbe
fatto una parigina: «Mascalzone!» Ma anche se non esternato, il
disprezzo non fu meno profondo.
«... Questo matrimonio è lungi dall'essere
concluso; il marchese d'Aubrion non darà sua figlia al figlio di un
bancarottiere. Ero andato a dirgli quanto, suo zio e io, ci eravamo
preoccupati degli affari del padre, e a informarlo delle abili
manovre con le quali siamo riusciti a tenere tranquilli i creditori
fino a oggi. Quel piccolo impertinente ha avuto la sfacciataggine di
rispondermi, a me che, per cinque anni, mi sono dedicato giorno e
notte ai suoi interessi e al suo onore, che gli affari del padre non
erano i suoi! Un legale avrebbe il diritto di chiedergli da trenta a
quarantamila franchi di onorari, l'uno per cento sulla somma dei
debiti. Ma, pazienza, i creditori vantano ancora legittimamente un
milione e duecentomila franchi, e io farò dichiarare il fallimento
di suo padre. Mi sono imbarcato in quest'affare sulla parola di quel
vecchio marpione di Grandet, e ho fatto delle promesse a nome della
famiglia. Se al signor conte d'Aubrion interessa poco il suo onore,
a me interessa molto il mio. Quindi spiegherò ai creditori la mia
posizione. Tuttavia ho troppo rispetto per Mlle Eugénie, con la
quale, in tempi più felici, avevamo pensato di legarci, per passare
all'azione prima che tu le abbia parlato di questa faccenda...»
A questo punto, Eugénie restitui con freddezza la
lettera senza finire di leggerla. «Vi ringrazio,» disse a Mme des
Grassins, «vedremo.»
«State parlando come vostro padre,» disse Mme des
Grassins.
«Signora, dovete versarci ottomilacento franchi
in oro,» le disse Nanon.
«È vero; fatemi il favore di venire con me, Mme
Cornoiller.»
«Signor parroco,» disse Eugénie con un nobile
sangue freddo che le veniva da ciò che stava per dire, «sarebbe
peccato se rimanessi in stato di verginità nel matrimonio?»
«È un caso di coscienza del quale non conosco la
soluzione. Se volete sapere ciò che ne pensa nella somma De
matrimonio il celebre Sanchez, potrò dirvelo domani.»
Uscito il parroco, Mlle Grandet salì nello studio
del padre e vi passò la giornata da sola senza nemmeno scendere
all'ora di cena, malgrado le insistenze di Nanon. Ricomparve la
sera, all'ora in cui cominciavano ad arrivare i soliti frequentatori
della casa. Mai la casa dei Grandet era stata così piena di gente
come in quella serata. La notizia del ritorno e dello sciocco
tradimento di Charles si era sparsa in tutta la città. Ma, la
curiosità dei visitatori per quanto fosse acuta, rimase
insoddisfatta. Eugénie, che se l'era aspettato, non lasciò trapelare
sul volto calmo alcuna delle crudeli emozioni che l'agitavano.
Assunse un'espressione ridente per rispondere a coloro che vollero
dimostrarle il loro interesse con sguardi o parole malinconiche.
Insomma seppe dissimulare la propria infelicità sotto i veli della
buona educazione. Verso le nove, le partite finivano, e i giocatori
lasciavano i tavoli, regolavano i conti, discutevano sulle ultime
mani di whist e andavano a raggiungere gli altri che conversavano.
Nel momento in cui tutti si alzarono per andarsene, ci fu un colpo
di scena che fece scalpore a Saumur, e successivamente nel
circondario e nelle quattro prefetture limitrofe.
«Restate, signor presidente,» disse Eugénie a M.
de Bonfons, quando lo vide prendere il bastone.
A queste parole, non ci fu alcuno in quella
numerosa compagnia che non si sentisse turbato. Il presidente
impallidì e dovette sedersi.
«I milioni al presidente,» disse Mlle de
Gribeaucourt.
«È chiaro, il presidente de Bonfons sposa Mlle
Grandet,» esclamò Mme d'Orsonval.
«Ecco la migliore mano della serata,» disse padre
Cruchot.
«È un bello schleem,» disse il notaio.
Ognuno disse la sua, ognuno fece una battuta,
tutti vedevano l'ereditiera in cima ai suoi milioni come su un
piedestallo. Il dramma cominciato nove anni prima giungeva alla
fine. Dire al presidente, davanti a tutta Saumur, di restare, non
era come annunciare che voleva sposarlo? Nelle piccole città, le
convenienze vengono osservate in modo così rigoroso, che una
infrazione del genere equivale alla più solenne delle promesse.
«Signor presidente,» gli disse Eugénie con voce
emozionata, «io so ciò che vi piace di me. Giurate di lasciarmi
libera per il resto della mia vita, di non ricordarmi mai i diritti
che il matrimonio vi darà su di me, e la mia mano è vostra. Oh!»
riprese vedendo che l'altro si buttava in ginocchio, «non ho finito.
Non voglio ingannarvi, signore. Porto nel cuore un sentimento
inestinguibile. L'amicizia sarà il solo sentimento che potrò
accordare a mio marito: non voglio offenderlo e nemmeno
contravvenire alle leggi del mio cuore. Voi avrete la mia mano e il
mio patrimonio solo a prezzo di un immenso servizio.»
«Sono pronto a tutto,» disse il presidente.
«Ecco un milione e mezzo di franchi, signor
presidente,» disse lei tirando fuori dal seno un'attestazione per
cento azioni della Banca di Francia, «partite per Parigi, non
domani, non questa notte, ma in questo preciso istante. Recatevi da
M. des Grassins, fatevi dare i nomi di tutti i creditori di mio zio,
riuniteli, pagate tutto ciò che grava sulla successione, capitale e
interessi al cinque per cento dal giorno in cui fu contratto il
debito fino a quello del rimborso, infine fatevi rilasciare una
ricevuta generale compilata in buona forma da un notaio. Voi siete
magistrato, mi fido di voi per quest'affare. Voi siete un uomo
leale, un galantuomo; sulla vostra parola io sarò disposta ad
affrontare i pericoli della vita al riparo del vostro nome. Noi
avremo l'uno per l'altra una reciproca indulgenza. Ci conosciamo da
tanto tempo, siamo quasi parenti, non vorrete certo rendermi
infelice.»
Il presidente cadde ai piedi della ricca
ereditiera, ansimando per la gioia e l'angoscia.
«Sarò il vostro schiavo!» le disse.
«Quando avrete la ricevuta, signore,» riprese lei
gettandogli un'occhiata gelida, «la porterete con tutti i titoli di
credito a mio cugino Grandet, e gli consegnerete questa lettera. Al
vostro ritorno, io manterrò la mia parola.»
Il presidente capì che doveva Mlle Grandet a un
dispetto amoroso; si affrettò quindi a eseguire gli ordini con la
massima prontezza, per evitare che fra i due amanti intervenisse una
riconciliazione.
Quando M. de Bonfons se ne fu andato, Eugénie si
lasciò andare su una poltrona e scoppiò in lacrime. Tutto era
consumato. Il presidente prese la diligenza e arrivò a Parigi
l'indomani sera. La mattina del giorno seguente andò da des
Grassins.
Il magistrato convocò i creditori nello studio
del notaio presso il quale erano depositati i titoli di credito, e
nessuno mancò all'appello. Benché fossero dei creditori, bisogna
rendere loro giustizia: furono puntuali.
Il presidente de Bonfons, a nome di Mlle Grandet,
pagò il capitale e gli interessi dovuti. Il pagamento degli
interessi fu per l'ambiente commerciale di Parigi uno degli
avvenimenti più sbalorditivi dell'epoca. Quando la ricevuta fu
registrata e des Grassins compensato per il suo lavoro con la somma
di cinquantamila franchi assegnatagli da Eugénie, il presidente si
recò a palazzo d'Aubrion, e vi trovò Charles che stava rientrando
nel suo appartamento dopo una sfuriata del suocero. Il vecchio
marchese gli aveva detto che avrebbe avuto sua figlia solo quando
tutti i creditori di Guillaume Grandet fossero stati pagati.
Per prima cosa il presidente gli consegnò la
lettera che segue:
«Cugino,
Il signor presidente de Bonfons si è incaricato
di rimettervi la quietanza liberatoria di tutte le somme dovute da
mio zio e quella con la quale riconosco di aver ricevuto tali somme
da voi. Mi hanno parlato di fallimento! Ho pensato che forse il
figlio di un fallito non avrebbe potuto sposare Mlle d'Aubrion. Sì,
cugino, avete ben giudicato la mia mentalità e i miei modi: io non
sono fatta per il mondo, non ne conosco i calcoli e le usanze, e non
saprei darvi i piaceri che voi volete trovarvi. Siate felice,
secondo le convenzioni sociali alle quali sacrificate il nostro
primo amore. Per rendere completa la vostra felicità non posso
offrirvi altro che l'onore di vostro padre. Addio, avrete sempre
un'amica fedele in vostra cugina,
EUGÉNIE.»
Il presidente sorrise udendo l'esclamazione di
quell'ambizioso nel momento in cui ricevette l'atto autenticato.
«Ci comunicheremo reciprocamente i nostri
matrimoni,» gli disse.
«Ah! voi sposate Eugénie. Bene, sono contento, è
una brava ragazza. Ma allora,» soggiunse, colpito a un tratto da
un'idea illuminante, «è ricca?»
«Aveva,» rispose il presidente con un'aria
ironica, «fino a quattro giorni fa, quasi diciannove milioni; oggi
ne ha solo diciassette.»
Charles guardò il presidente come inebetito.
«Diciassette... mil...»
«Diciassette milioni, sì, signore. Sposandoci,
Mlle Grandet e io mettiamo insieme una rendita di
settecentocinquantamilalire.»
«Caro cugino,» disse Charles riprendendosi,
«potremo spalleggiarci l'un l'altro.»
«D'accordo,» disse il presidente. «Ecco, inoltre,
una cassetta
che devo consegnare personalmente a voi,»
aggiunse mettendo sul tavolo il cofanetto che conteneva il
nécessaire da toeletta.
«Ebbene, caro amico,» disse la signora marchesa
d'Aubrion entrando senza far caso a Cruchot, «non preoccupatevi per
ciò che vi ha detto il povero M. d'Aubrion, che si è lasciato
montare la testa dalla duchessa di Chaulieu. Ve lo ripeto, nulla
impedirà il vostro matrimonio...»
«Nulla, signora,» rispose Charles. «Il debito di
tre milioni che un tempo aveva mio padre è stato saldato ieri.»
«In denaro?» chiese lei.
«Integralmente, interessi e capitale, e io farò
riabilitare la sua memoria.»
«Che stupidaggine!» esclamò la suocera. «Chi è
questo signore?» disse all'orecchio del genero, quando si accorse di
Cruchet.
«Il mio agente d'affari,» le rispose Charles a
bassa voce.
La marchesa salutò con fare altezzoso M. de
Bonfons e uscì.
«Ci stiamo già spalleggiando,» disse il
presidente prendendo il cappello. «Addio, cugino.»
«Si burla di me, questo cacatoa di Saumur. Avrei
voglia di cacciargli sei pollici di ferro nel ventre.»
Il presidente era uscito. Tre giorni dopo, M. de
Bonfons, di ritorno a Saumur, fece le pubblicazioni del suo
matrimonio con Eugénie. Sei mesi più tardi veniva nominato
consigliere al tribunale reale di Angers. Prima di lasciare Saumur,
Eugénie fece fondere i gioielli che per tanto tempo erano stati cari
al suo cuore, e insieme con gli ottomila franchi del cugino ne fece
fare un ostensorio d'oro che donò alla parrocchia nella quale aveva
tanto pregato per lui! Comunque ella divise il suo tempo fra Angers
e Saumur. Il marito, che in una circostanza politica aveva dato
prova di lealismo, diventò presidente di sezione e in capo a qualche
anno primo presidente. Attese con impazienza le rielezioni generali
per poter avere un seggio alla Camera. Ambiva a diventare pari, e
allora...
«Allora, il re diventerebbe suo cugino,» diceva
Nanon, la grande Nanon, Mme Cornoiller, borghese di Saumur, quando
la padrona le comunicò a quali altezze era chiamata. Tuttavia, il
signor presidente de Bonfons (alla fine aveva abolito il patronimico
Cruchot) non poté realizzare nessuno dei suoi progetti ambiziosi.
Morì otto giorni dopo essere stato eletto deputato di Saumur. Dio
che vede tutto e non colpisce mai a caso, lo punì senza dubbio per i
suoi calcoli e per la scaltrezza giuridica con la quale aveva
redatto, accurante Cruchot, il contratto di matrimonio in virtù del
quale i due futuri sposi cedevano l'uno all'altro, nel caso in cui
non avessero figli, l'universalità dei loro beni, mobili e immobili,
nessuno eccettuato o riservato, in proprietà assoluta, dispensandosi
anche dalla formalità dell'inventario, senza che l'omissione del
detto inventario possa essere opposta ai loro eredi o aventi causa,
intendendo che la detta donazione sia ecc. Questa clausola spiega il
profondo rispetto che il presidente ebbe sempre per la volontà, per
la solitudine di Mme de Bonfons. Le donne elogiavano il signor primo
presidente come un uomo fra i più delicati, lo compativano e
arrivavano spesso a mettere sotto accusa il dolore, la passione di
Eugénie, e lo facevano con ipocrisie crudeli come sanno fare le
donne nei confronti di una donna.
«Bisogna che la signora presidentessa de Bonfons
stia proprio male per lasciare solo il marito. Povero donnino!
Guarirà presto? Ma che cosa ha, una gastrite, un cancro? Perché non
si fa visitare da qualche medico? Da un po' di tempo ha messo su un
colorito giallastro; dovrebbe andare a consultare qualche celebrità
a Parigi. Come può non desiderare un bambino? Dicono che ami molto
il marito; perché, nella sua posizione, non gli dà un erede? È
spaventoso, sapete; e se la causa fosse un capriccio, sarebbe
riprovevole. Povero presidente!»
Dotata di quell'intuito che una creatura
solitaria sviluppa attraverso le continue meditazioni e la visione
acuta con cui percepisce le cose che rientrano nella sua sfera,
Eugénie, abituata dall'infelicità e dalla sua ultima educazione a
indovinare tutto, sapeva che il presidente desiderava la sua morte
per ritrovarsi padrone di quella immensa fortuna accresciuta per
giunta dalle eredità dello zio notaio e dello zio prete, che Dio
aveva voluto chiamare a sé. La povera reclusa aveva pietà del
presidente. La Provvidenza la vendicò dei calcoli e dell'infame
indifferenza di uno sposo che rispettava, come la più forte delle
garanzie, la passione senza speranza di cui si nutriva Eugénie. Dare
la vita a un figlio, non sarebbe stato come distruggere le speranze
dell'egoismo, le gioie dell'ambizione vagheggiate dal primo
presidente? Dio gettò dunque mucchi d'oro alla sua prigioniera, cui
l'oro era indifferente e che aspirava al cielo, che viveva, pia e
buona, fra santi pensieri, che in segreto soccorreva sempre gli
infelici. Mme de Bonfons rimase vedova a trentatré anni, con una
rendita di ottocentomila lire, ancora bella, ma come lo è una donna
che si avvicina alla quarantina. Il viso è bianco, riposato, calmo.
La voce è dolce e contenuta, i suoi modi sono semplici. Ella ha la
nobiltà del dolore, la santità di una persona che non si è macchiata
l'anima a contatto con il mondo, ma anche la rigidità della vecchia
zitella e le abitudini meschine che derivano dalla limitata vita di
provincia. Malgrado le sue ottocentomila lire di rendita, vive come
aveva vissuto la povera Eugénie Grandet, accende il fuoco in camera
sua nei giorni in cui un tempo suo padre le permetteva di accendere
il camino in sala, e lo spegne secondo il programma in vigore quando
era giovane. Va vestita sempre come sua madre. La casa di Saumur,
casa senza sole, senza calore, sempre all'ombra, malinconica, è
l'immagine della sua vita. Ella accumula con cura le entrate, e
forse sembrerebbe parsimoniosa se non smentisse i maldicenti usando
nobilmente la sua ricchezza. Fondazioni pie e caritatevoli, un
ospizio per vecchi e scuole cristiane per i bambini, una biblioteca
pubblica con un ricco fondo, testimoniano ogni anno contro
l'avarizia che le rinfacciano certe persone. Le chiese di Saumur
devono a lei degli abbellimenti. Mme de Bonfons, che, per burla,
chiamano signorina, ispira in genere, un rispetto religioso. Questo
nobile cuore, che batteva solo per i sentimenti più teneri, è
soggetto ai calcoli dell'interesse umano. Il denaro finisce per
trasmettere le sue tinte fredde a questa vita celeste e infondere
diffidenza per i sentimenti a una donna che era tutta sentimento.
«Non ci sei che tu a volermi bene,» diceva a
Nanon.
La mano di questa donna cura le piaghe segrete di
tutte le famiglie. Eugénie si avvia verso il cielo accompagnata da
un corteo di buone azioni. La grandezza della sua anima annulla le
piccolezze della sua educazione e le abitudini contratte in gioventù
Ecco la storia di questa donna, che non appartiene al mondo pur
standoci in mezzo; che, fatta per essere una sposa e madre
magnifica, non ha né un marito né dei figli né una famiglia. Da
qualche giorno, si parla di nuovo di matrimonio. La gente di Saumur
si occupa di lei e del marchese di Froidfond, la cui famiglia
comincia a circuire la ricca vedova come un tempo avevano fatto i
Cruchot. Nanon e Cornoiller, si dice, appoggiano il marchese; ma
niente è più falso. Né la grande Nanon né Cornoiller hanno
abbastanza cervello per capire le corruzioni del mondo.
Parigi, settembre 1833