www.sapere.it
Gerarca del fascismo e aviatore italiano (Quartesana, Ferrara, 1896-Tobruch 1940).
Valoroso ufficiale nella prima guerra mondiale, fu tra i fondatori dell'Associazione Nazionale Alpini. Approdò al fascismo nel 1921, dopo la laurea in scienze politiche conseguita a Firenze. Esponente del fascismo agrario, organizzò l'azione squadristica in Emilia facendo saltare il patto di pacificazione raggiunto da Mussolini con i socialisti. Nell'ottobre 1922 fu quadrumviro della marcia su Roma e, successivamente, comandante generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.
Sottosegretario all'Economia Nazionale, nel novembre 1926 approdò all'Aeronautica come sottosegretario e poi ministro (1929-33) e lanciò un programma organico di potenziamento, di cui le crociere collettive (celebre quella del Nord Atlantico del 1933) restano l'aspetto più spettacolare.
La sua popolarità suscitò l'invidia del Duce, che lo rimosse dall'incarico di ministro promuovendolo maresciallo dell'aria e nominandolo governatore della Libia.
Moderato, si oppose alle leggi razziali, all'alleanza con i Tedeschi e all'entrata nella seconda guerra mondiale.
Morì il 28 giugno 1940 quando il suo aereo fu abbattuto per errore nel cielo di Tobruch dall'artiglieria antiaerea italiana.
Txt.: Storia d'Italia
www.treccani.it
DBI
di Ettore Passerin d'Entrèves
Nacque in Torino da Prospero e da Enrichetta
Taparelli d'Azeglio il 21 nov. 1789. Orfano della madre già
nel 1792, fu affidato, col fratello cadetto Ferdinando e colla
sorella Paolina, alle cure della nonna materna del padre, Teresa
Beraudo di Pralormo, moglie in seconde nozze del conte G. B. Bogino,
il ministro riformatore, "nobile e fiera vecchia", che aveva
già contribuito all'educazione dello stesso Prospero, tenuto
sempre dal B. come esempio di virtù civiche e di pratica
saggezza. Esemplare giudicò più tardi la "difesa
diplomatica" dello Stato sabaudo occupato dai Francesi, dopo la "vil
tregua" di Cherasco e la pace di Parigi del '96, che il ministro
Damiano di Priocca e Prospero B., ambasciatore a Parigi, dovevan
sostenere fino alla caduta del debole Carlo Emanuele IV. Condotto a
Parigi nel '98, il B. seguì il padre anche nelle
peregrinazioni dell'esilio: a Barcellona e a Bologna, prima di
Marengo, poi più a lungo a Firenze tra il 1800 ed il 1802. Di
Firenze doveva ricordare molte bellezze, ed alcuni memorabili
incontri: "V. Alfieri, che veniva per casa a noi, e da cui si
andava", in primo luogo (Autobiografia,p.355). Tornato a Torino nel
1802, il B. continuò ad avere per maestro il padre, che
insegnava anche ad altri giovani delle famiglie amiche, coadiuvato
dal conte M. S. Provana per le materie scientifiche. In questo
gruppo di giovani sorse una "ragazzata d'accademia" detta "dei
Concordi": essa rispecchiava anche certe iniziali aspirazioni
patriottiche, collegate ad una resistenza culturale contro
l'assimilazione del Piemonte alla Francia imperiale.
Più marcato il motivo guelfo-italico nel più anziano
fra i "Concordi", Carlo Vidua, che indusse per primo il B. ad
ammirare la resistenza nazionale degli Spagnoli, fatta in nome della
religione e delle tradizioni patrie; pre-liberali piuttosto che
guelfi appaiono, invece, gli ideatori dell'accademia, Luigi Ornato e
Luigi Provana del Sabbione. Presto il culto del forte sentire
alfieriano doveva farsi comune a tutto il gruppo d'amici, cui si
sarebbe aggiunto anche Santorre di Santarosa: in tutti troviamo
precoci motivi e orientamenti romantici, e qualche anticipazione
delle tesi neoguelfe che avranno corso nell'età della
restaurazione.
Nel 1805 il B. doveva interrompere i prediletti studi di matematica
per la sua cattiva salute, ma nel 1806-1807 poteva frequentare un
corso di fisica dell'illustre Vassalli-Eandi. Sempre nel 1807 il
padre cercava di sottrarlo a una nomina non desiderata presso il
Consiglio di Stato napoleonico, ma nel 1808 non poteva impedire che
partisse, al seguito del generale Menou, divenuto governatore
generale della Toscana unita ormai all'impero, col titolo di
segretario generale. Così restavano anche interrotti gli
studi di legge, iniziati nell'autunno precedente, e cominciava per
il B. un quinquennio di servizio nell'amministrazione imperiale.
A Firenze aveva modo di frequentare il Fossombroni, don Neri
Corsini, il Puccini, e stringeva amicizia con Gino Capponi,
più vicino a lui negli anni e nelle aspirazioni. Nel maggio
del 1809 veniva a un tratto nominato segretario della Consulta che
doveva, sotto la direzione del generale Miollis, organizzare
l'amministrazione imperiale in quella Roma che stava appunto per
essere strappata al pontefice: il 17 maggio Napoleone firmava a
Schönbrunn il decreto che riuniva gli Stati pontifici
all'impero, e al B. toccava di controfirmare, come segretario, il
decreto della Consulta che applicava e convalidava la volontà
imperiale. Ne doveva provare vergogna, come conferma la posteriore
Autobiografia: certo fu scosso dallo "spettacolo rimproveratore" del
coraggio che dimostrava una parte notevole del clero nel resistere a
Napoleone, e in specie nel far noti, malgrado ogni divieto, i
decreti papali di scomunica. Ma soltanto nel 1811 egli riusciva a
staccarsi da quell'incarico, e assumeva, dopo breve sosta a Torino,
quel posto di auditore al Consiglio di Stato, a Parigi, che gli era
stato destinato nel 1807. "A me fu dato un solo affare a riferire;
un fascio, anzi un monte di carte... contenente una parte della
liquidazione di Roma". Forse per non essersi adattato a
sabrer,secondo il termine allora corrente, quel lavoro, il B. fu
mandato come "liquidatore" nel nuovo dipartimento illirico, dove
doveva aver per superiore il Las Casas, poi compagno di Napoleone a
Sant'Elena. Più importante il soggiorno, reduce da Lubiana, a
Parigi, nel primi mesi del 1812, per i rapporti che da allora si
fanno più stretti, con la famiglia di Cl.-Emm. Pastoret, che
il padre del B. aveva aiutato a fuggire, quand'era stato condannato
alla deportazione dal Direttorio, dopo il colpo di stato del 3
fruttidoro. La moglie del Pastoret, Adelaide-Luisa Piscatory,
illustre come fondatrice dei primi asili d'infanzia a Parigi e come
organizzatrice d'opere d'assistenza pubblica, avrebbe dissuaso il B.
dall'attentare addirittura alla vita del despota, nel momento in cui
gli veniva imposto un incarico sgradito ed umiliante, alle
dipendenze del ministro di polizia Savary. Tramite i Pastoret,
scrive il B. nell'Autobiografia, "conobbi... gli uomini non sempre i
più grandi per potenza, ma i più distinti per
qualità, che fossero in tutta Francia... in quella benedetta
casa... le dovetti più che l'ospitalità... quella
fiducia in sé che è necessaria per operare" (pp. 345
s.).
Alle prime reazioni, piuttosto affettive che ragionate, contro il
despotismo napoleonico, s'aggiungeva intanto un nuovo motivo
d'amarezza e di risentimento: il fratello minore del B. periva nella
campagna di Russia, ed egli non lo ritrovava fra i suoi, quando
riusciva a tornare a Torino con attestati di debole salute,
soggiornandovi per circa un anno fra il '12 ed il '13. Ma nel '13,
riassunto il suo incarico presso il Consiglio di Stato, e staccato
finalmente dalla sezione che dipendeva dal Savary, si faceva inviare
verso il fronte di guerra in Germania, e giungeva sul "fatal campo
di Lipsia" il giorno stesso della grande disfatta francese, di cui
dava poi una colorita descrizione nella citata Autobiografia (pp.
349-53). Va notato, in questa descrizione, il cenno su di un suo
incontro con parecchi ufficiali della "guardia reale d'Italia", che
manifestavano la loro ostilità contro l'imperatore ed i
Francesi, coi quali pur avevano fin allora combattuto, e "parlavan
d'Italia altamente, generosamente".
Alla caduta dell'edificio politico napoleonico, tornato al servizio
dei suoi sovrani, quale tenente del corpo di Stato Maggiore, il B.,
che aveva già conosciuto un alto ufficiale napoleonico
d'origine piemontese, animato da patriottici sentimenti, A. Derege
di Gifflenga, e cominciato a frequentarlo, avrebbe cercato di nuovo
l'occasione di avvicinarlo. Ed infatti durante i Cento Giorni questi
lo avrebbe chiamato a far parte dell'avanguardia dell'esercito
sabaudo, che stava muovendosi contro le truppe di Murat, ma che poi,
volgendosi in direzione opposta contro le forze francesi sul confine
di Savoia, giungeva ad occupare Grenoble. Il B., che aveva steso
appunto un memoriale per proporre che "s'entrasse in Delfinato con
quello che si potesse raccozzare bene o male di truppe nostre,
contro all'invasore che minacciava noi e l'Italia non men che la
Francia" (p. 363), dava le dimissioni dall'esercito non appena
appreso che era stata stipulata una pace duratura.
Prospero B., guardato inizialmente con sospetto a corte, otteneva
nel 1816 l'incarico di ambasciatore a Madrid e riusciva a farvi
nominare come gentiluomo d'ambasciata il figlio, che vi sarebbe
rimasto fino ai primi del '19.
Al B. balenò subito l'idea di farsi storico della "guerra
d'indipendenza fatta dal 1808 al 1814 dagli Spagnuoli contro
Napoleone... per l'esempio che parevagli utile a mostrare, per
quando che sia, alla patria" (nel 1847, in effetti, pubblicava gli
Studii sulla guerra d'indipendenza di Spagna e di Portogallo,stesi a
Madrid nel '17: le preoccupazioni pedagogico-politiche dominano, in
modo assai caratteristico, sulle esigenze propriamente
storiografiche). Nell'Autobiografia egli rivela pure come
l'esperienza fatta in circa tre anni di soggiorno in Spagna
rassodasse le sue tendenze liberali e costituzionali, mostrandogli
gli errori dell'"assoluta legittimità" e i vizi d'una
monarchia arbitraria e dominata dalla camarilla (pp. 366 s.).
D'altra parte, i patrioti spagnoli del 1809 e del 1812 avevano
"mescolato di troppo le dispute di libertà interna" alle
più urgenti battaglie per l'indipendenza: questo pensava il
B. nel 1844, mentre stendeva le Speranze d'Italia. A Madrid si
legava inoltre con gli inviati francese, duca di Laval, ed inglese,
sir Henry Wellesley; nel periodo in cui doveva rimanere da solo,
come incaricato d'affari, in attesa del nuovo ambasciatore che
succedeva al padre, chiamato a coprire la carica di presidente del
Magistrato della Riforma a Torino, cioè negli ultimi mesi del
1818 e nei primi mesi del '19, si legava maggiormente ad uno
studioso americano, Giorgio Ticknor. Nel suo diario questi doveva
poi scrivere che i due Balbo, padre e figlio, gli erano apparsi come
le figure più interessanti fra tutti i diplomatici incontrati
a Madrid. Scriveva inoltre che il B. gli appariva "coltissimo, di
buon gusto, pieno di sentimento per tutto ciò che è
grande e bello, e letteralmente divorato dall'entusiasmo... Non
pensa ad altro che all'Italia... e sogna il grande progetto di
riunire l'Italia in una nazione difesa dalla barriera delle Alpi
dalle invasioni del Nord" (Life, Letters and Journal of G. T., I,
Boston 1909, p. 209).
Chiusa la parentesi spagnola, il B. si sentì ripreso dalla
"smania militare" ed accettò il grado di maggiore in un
reggimento, per scendere alla pratica, dopo i "lunghi studi fatti da
cinque anni (per consiglio principalmente del Gifflenga) nella
teorica" (Autobiografia, p. 371). Gli impegni militari lo portarono
a Genova, dove poté valutare le difficoltà che
nascevano dall'imperfetta connessione fra le province liguri, di
recente acquisto, ed il resto dello Stato sabaudo. Parlava anche di
questo nella fitta corrispondenza con gli amici più cari di
Torino, L. Ornato, Santorre Santarosa, L. Provana del Sabbione: le
aspirazioni vaghe dei "Concordi" si stavano ora precisando, al di
là delle premesse alfieriane e dell'opposizione a Napoleone.
In queste lettere, in gran parte tuttora inedite, scambiate fra i
quattro amici, s'intravvede però già qualche
differenza di opinione politica, e il dissenso si acuisce, fra il B.
e il Santarosa, nel '20, quando si pone il dilemma fra il metodo
della legalità, dell'evoluzione riformistica, e quello del
moto popolare e militare, al quale il Santarosa inclina, per gli
stimoli dei settari con i quali è in contatto, e per la
suggestione esercitata dagli esempi di Spagna e di Napoli (si veda
la Professione di fede politica mandatagli dal B., da Genova, edita
in Ricotti, App. 6, pp. 393-95). Il B. definisce "infame" il moto
militare, ed osserva che lo Stato sabaudo si smembrerebbe, in caso
di rivoluzione: si vede così quanto egli fosse fiducioso
nella missione dello Stato dinastico, che voleva porre al servizio
della nazionalità italiana, ma senza metterlo in crisi.
In quei mesi Prospero B., passando alla segreteria degli Interni
(dal settembre 1819), cercava appunto di dar vita al difficile
ideale di un riformismo paternalistico, ma liberaleggiante: il
figlio avrebbe più tardi rimpianto che i suoi sforzi si
fossero infranti fra le tenaci resistenze e i sospetti dei ministri
reazionari, e le impazienze dei giovani che erano giunti a
sollecitare le confuse ambizioni dello stesso principe di Carignano,
Carlo Alberto, per una "guerra nazionale" contro l'Austria. Il B.
doveva agire come moderatore, fra le opposte intransigenze, sia
nelle giornate dei moti studenteschi torinesi del gennaio, sia in
quelle ben più drammatiche del marzo del '21. Ma egli doveva
riuscire soltanto a scontentare gli uni e gli altri: utopistica
appare la sua idea di chiedere in ginocchio al reggente di concedere
una costituzione modellata sui migliori esempi d'Inghilterra o di
Sicilia, prima che l'agitazione degenerasse in rivoluzione. Del
resto, lo stesso Prospero B. fu per un decennio in disgrazia, mentre
il figlio, benché risultasse immune da ogni imputazione di
fronte ai superiori, nell'esercito doveva subire misure più
severe, l'esilio e il confino.
Aveva il B. dato qualche motivo ai provvedimenti, sia dichiarando
che "voleva rimaner amico prìvato", benché "avversario
politico e militare dei capi della rivoluzione", sia col dimettersi
dal grado e dall'ufficio nel momento in cui il Sallier de la Tour
gli mostrava una lettera di Carlo Felice "che gli diceva
d'allontanarlo dal quartier generale" (Autobiografia,p. 378).
Ottenuto un passaporto, si recava a Parigi, ed ivi visitava
più volte l'esule Santarosa. Più a lungo risiedeva a
Susa in Provenza, presso la famiglia della seconda moglie del padre,
Maddalena des Isnards. Mentre già credeva di poter
rimpatriare, nel 1822, veniva esiliato "per misura economica,e vuol
dire senza forma di giudizio e nemmen decreto" (Vita, in Ricotti,
App. 2, p. 384). Il 23 apr. 1823 sposava Felicita "figlia del barone
di Villeneuve e di Laura di Ségur, pronepote di D'Aguessau",
e con lei passava ancora un anno fra Chenonceaux e Parigi. Nel 1824
otteneva di ritornare in Piemonte, ma restava confinato nella
propria terra di Camerano per altri due anni.
Il B., ormai più che trentenne, si staccava da quella
"prattica", da quella via dell'azione, che continuava a costituire
il suo ideale segreto. Ma la crisi del '21 aveva stimolato la sua
vocazione di studioso, di scrittore politico, di pubblicista, oltre
a spingerlo verso l'indagine storica: già a Madrid aveva
lavorato sulle antiche costituzioni di Castiglia e di Aragona; aveva
abbozzato un romanzo storico e altri scritti minori; fra il '22 e il
'23 stendeva tutta una serie di brevi saggi sulla missione della
dinastia sabauda, sulla nobiltà in Italia, sul principio di
legittimità, sul "sistema di equilibrio" in Europa, ecc.
Più importanti gli abbozzati Pensieri ed esempi di morale e
di politica (collo stesso titolo, avrebbe poi scritto un altro
insieme di saggi nel 1832-33: soltanto questi sarebbero stati
pubblicati postumi, nel 1854); notevoli pure le
Considérations sur le soulèvement des Grecs,che
mostrano com'egli seguisse attentamente i vari movimenti
indipendentistici, e guardasse soprattutto alla Francia liberale e
cristiana, come ad un fulcro della nuova politica europea. Alla
Francia assegnava anche un compito di mediazione fra i patrioti
radicali di Spagna e d'Italia, e l'opposto radicalismo reazionario,
in favore del vero "partito nazionale italiano", moderato e
riformatore. Si augurava fin dal 1821 che l'Austria
"s'inorientasse", per il bene dell'Italia e dell'Europa.
Nel 1830 uscivano dal Pomba, a Torino, i due tomi della Storia
d'Italia,in cui, partendo dalla crisi conclusiva dell'Impero romano,
giungeva appena a trattare della dominazione dei Longobardi, fino al
774. Nello stesso anno, pubblicava una traduzione degli Annali di
Tacito, che veniva poi completata con quella delle altre opere dello
stesso autore, nel 1832. Ritentava, in quello stesso periodo, la via
del dramma storico, sempre scegliendo soggetti patriottici, e
meditava sugli scritti del Cousin, che lo inducevano a scriver anche
qualche pagina di riflessioni filosofiche: di tutti questi inediti
ci dà conto il Ricotti.
Morto Carlo Felice nell'aprile del '31, il B. stendeva una memoria
Des Conseils provinciaux et du Conseil d'Etat,in cui pareva
ripiegare sulle posizioni care al padre, e già da noi
accennate: ma lo stesso Prospero veniva poi deluso dal modo di
attuazione dell'istituto che pure egli aveva consigliato,
cioè dal Consiglio di Stato a cui il nuovo re Carlo Alberto
dava vita con l'editto del 20 ag. 1831. Affidando a Prospero la
presidenza d'una sezione, il re ne escludeva invece il figlio,
confermando la diffidenza nei suoi confronti. Colpito duramente, nel
novembre del '33, dalla morte della moglie, da cui aveva avuto otto
figli, il B. sposava in seconde nozze, nel '36, la figlia del conte
Galeani Napione. Nel marzo del '37 moriva anche Prospero e al B.
riusciva sempre più amara l'inazione.
Il Ricotti ha pubblicato, a tale proposito, una sua significativa
lettera del 1835, in cui deplorava di non poter combattere la buona
battaglia, in favore delle libertà civili non viziate dallo
spirito di fanatismo livellatore e rivoluzionario, perché nel
Piemonte di Carlo Alberto il tormento della censura impediva persino
di pensare con indipendenza, di scrivere con chiarezza (Ricotti,
App. 10, p. 420).
Si possono tralasciare alcuni scritti minori pubblicati fra il 1829
(le Quattro Novelle che ebbero sei edizioni fra il 1829 e il 1854)
ed il 1836 (sono di quest'anno le lettere all'abate Peyron su La
letteratura ne' primi XI secoli dell'èra
cristiana,ripubblicate fra le Lettere di politica e di
letteratura,che uscirono nel 1855 presso il Le Monnier, e la lettera
a C. Cantù, edita soltanto postuma in questa raccolta, su La
civiltà e la moralità nel mondo antico e nel nuovo).
Occorre invece accennare allo sforzo ch'egli fece per assimilare in
quegli anni i risultati della ricerca erudita e della critica
storica germanica, di cui si ha un segno nella traduzione delle
Vicende delle costituzioni delle città lombarde di Enrico
Leo, edita nel 1836 a Torino, ed in certe lezioni su I titoli e la
potenza dei conti, duchi e marchesi dell'Italia settentrionale, e in
particolare dei conti di Torino,lette alla Reale Accademia delle
Scienze di Torino nel febbr. 1833, e da questa pubblicate nelle
Memorie (t. XXXVIII, 1835, pp. 241-291. Tali lezioni, ripubblicate
insieme ad altri scritti storici minori e a un saggio sull'Italia
nel periodo carolingio a cura di C. Boncompagni, formano il volume
Il regno di Carlomagno in Italia,Firenze 1862).
Per le discussioni sul metodo storico con altri studiosi italiani,
cfr. Lettere inedite di C. Troya e di C. B., Napoli 1869, edite dal
Mandarini.
Un cauto tentativo di pedagogia etico-politica, spezzata in massime
moraleggianti, si ha nei secondi Pensieri ed Esempi, scritti vari
anni prima pubblicati soltanto nel 1854, con altri "pensieri" in
parte già editi sulle Letture popolari,il periodico di L.
Valerio; vi si univano inoltre i Dialoghi del maestro di scuola,che
risultano pure, dal contesto, posteriori al '30 ma anteriori al '40,
e che contengono qualche interessante accenno autobiografico.
I concetti sui quali più volentieri insiste il B. son
già quelli di civiltà e progresso nell'ambito della
"cristianità" (in polemica sia con le tesi illuministiche e
sansimoniane, sia con quelle dei retrogradi); di diritti, doveri e
affetti patriottici, che egli vuole indirizzare specialmente
all'acquisto dell'indipendenza, ma conciliando sempre il
patriottismo piemontese con quello italiano,i doveri di fronte alla
nazione con quelli di fronte allo Stato sabaudo, aventi per sfondo
le esigenze di "legittimità e legalità, che son
tutt'uno" (p. 81). Sono i temi che verranno approfonditi e
sviluppati nelle opere maggiori del B., di carattere storico e
politico, con un'insistenza quasi ossessiva. Un bel gruppo di
scritti minori (fra i quali spicca una lettera, Del naturale dei
piemontesi),degli stessi anni dei Pensieri ed Esempi,furono riuniti
fra le Lettere di politica e di letteratura: anche qui troviamo
affrontati gli stessi temi, e qualche cenno che sta fra la storia e
l'autobiografia: così il severo giudizio sul governo
piemontese sotto la Restaurazione "la mediocrità produce le
eliminazioni, e le eliminazioni riproducono la mediocrità":
p. 261), ma anche l'affermazione che non sia lecito abbandonare il
proprio paese e porlo in stato d'accusa dal di fuori (Alfieri,
espatriato, è colpevole in tal senso, secondo il B., anche se
parlò per "correggere i propri concittadini": p. 261).
Nel 1837-38 il B. lavorò ad una Vita di Dante,che uscì
presso il Pomba, in due volumi, nel 1839. Dal punto di vista
politico lo scritto aveva un valore stimolante, specialmente dove
attribuiva tutti i mali sofferti dalla nazione italiana, a partire
dall'età dei liberi Comuni, all'aver essa ottenuto soltanto
un'"incompiuta indipendenza"; dal punto di vista del gusto
letterario non era priva di significato, recando un forte contributo
alla rivalutazione di Dante, nel quadro della idealizzazione ancora
in parte alfieriana, ma più pienamente romantica, del forte
sentire,e della missione civile del libero scrittore.
Le successive edizioni furon condotte tutte su questa prima
torinese: la quarta e più maneggevole, in un solo volume,
uscita nel 1851 presso il Le Monnier, reca le note aggiunte da E.
Rocco nell'edizione napoletana del 1840. Fu tradotta in francese nel
1844, e in inglese nel 1852. Severamente giudicata da C. Cattaneo,
in un famoso articolo sul Politecnico (vol.I, fasc. 4, aprile 1839;
e ora in Scritti critici,Firenze 1954, pp. 61 ss.), specialmente in
quanto il B. introduceva una tesi politica stravagante nella sua
interpretazione: "quando il signor B. si chiama guelfo, anzi ci
vuole in Italia tutti guelfi, siamo tentati di guardarlo attoniti,
come uno dei Sette Dormienti,che si sveglia a finire d'un discorso
cominciato cinquecento anni fa", l'opera del B. aveva tuttavia, per
il Cattanco, il pregio di "destare un senso di affezione e di
pietà per la bell'anima e, la dolorosa vita del grande
Alighieri".
Intorno al 1840-41 gli interessi eruditi sembrano attenuarsi
ulteriormente nella mente del B.: egli stende i Pensieri sulla
storia d'Italia,che avrebbero poi visto la luce soltanto postumi,
nella serie delle sue opere edita dal Le Monnier, raccogliendo le
sue riflessioni intorno a quest'idea centrale: le lettere, le arti,
la cultura acquistano un valore solo in quanto sono azione e servono
di stimolo all'indipendenza nazionale. Questa viene contrapposta
alla "libertà politica", cosa "incerta, in teorica", "varia
nella pratica", fonte di dispute e dissidi: non per la sola Italia,
ma per ogni nazione europea è consigliabile la forma
monarchica; in Italia poi l'utopia delle repubblichette è
tanto pericolosa, come il sogno dello Stato unitario machiavellico.
Il papato, col potere temporale, coll'indipendenza della Chiesa,
è, secondo il B., un elemento essenziale della "missione
d'Italia", che "fu capo e guida... all'intera Cristianità"
quando seppe adempite bene a quel suo ufficio, che può
risolversi in un "soffrire e trionfare", ma anche in un "martirio
continuo", a favore del corpo della "repubblica cristiana",
cioè dell'insieme delle nazioni cristiane, ma più
ancora di quel principio animatore della civiltà cristiana
ch'è l'indipendenza della Chiesa (si veda specialmente la
conclusione dell'opera, intitolata appunto "Della missione d'Italia
nella cristianità", e in questa più specialmente le
pagine in difesa del "principato" dei papi). Pur nel raccogliere
tutte le sue riflessioni, o la sua filosofia della storia, intorno
ai concetti di civiltà cristiana, di indipendenza della
Chiesa, di indipendenza nazionale, il B. non riduceva però in
posizione del tutto subordinata l'esigenza della libertà
morale e politica, che aveva sentito così fortemente fino
dagli anni giovanili: pur raccomandando d'intenderla "in senso
moderato", la libertà è posta dal B. al centro della
storia, poiché "è quella che fa la civiltà"
(Pensieri..., p.47); e precisa ancora: "La civiltà moderna
non poteva nascere se non nelle città italiane solo libere
nel medio evo; nata poi, poté spandersi in paesi più o
meno lontani da libertà..." (p. 48). Coerentemente a queste
idee, definisce i maggiori ostacoli del progresso civile e morale in
Italia: la censura è il principale, e la libertà di
stampa è indispensabile per la libertà politica, ma
non può esser richiesta "prima che sia conseguita la
indipendenza compiuta" (p. 332). La "libera pubblicità" resta
comunque un ideale per il B., che la connette alla fede nella
verità, e nel suo trionfo "sol ch'abbia campo giusto e
aperto" (p. 333).
Di altri scritti minori elaborati od abbozzati dal B. fra il '41 e
il '42 dice il Ricotti (notevoli alcuni articoli editi nelle Letture
di famiglia,e l'inedita Idea della civiltà cristiana,da cui
doveva, però, trarre non pochi elementi per le Speranze
d'Italia). Nei primi mesi del '42 il B. portava più innanzi
le sue ambizioni di filosofo della storia, stendendo le Meditazioni
storiche,pubblicate in forma di dispense dall'editore Pomba, fra
l'estate del '42 ed il marzo del '45 (nelle due edizioni postume del
Le Monnier, Firenze 1854-1855 furono aggiunte tre meditazioni
inedite, ed un frammento, alle quattordici già edite).
Dalla "filosofia della storia d'Italia" il B. passava qui a
teorizzare una filosofia della storia dell'umanità, e tentava
una storia universale nel piano della rivelazione cristiana,
inserendo poi, di suo, uno schema in cui al progressivo
peggioramento pre-cristiano si contrapponeva il miglioramento, il
progresso dei popoli cristiani. Notava infatti come al fiorire della
civiltà (intesa come "complesso di condizioni sociali" di
progresso) e della cultura ("complesso di condizioni intellettuali")
si contrapponesse pur sempre nell'antichità pre-cristiana una
decadenza negli elementi morali, nella virtù. Ilvero
progresso consiste dunque secondo il B. in un armonico associarsi
dei predetti elementi, assegnando tuttavia il primo posto alla
virtù: le sue meditazioni si aggirano "sulle varianti armonie
della civiltà, della coltura, della virtù e della
religione" (Meditazione VII). "Lareligione vera ha senza dubbio
portata la Cristianità a un apice di civiltà non mai
arrivato" (ibid.). Vi è una feconda gara delle nazioni
cristiane sul cammino della civiltà, della cultura e della
virtù, benché poi si mantenga fra tutte, nella
comunità internazionale, "una solidarietà, una
comunanza" che tende a far cadere le barriere intermedie, a portare
le "nazioni figliuole" coloniali all'indipendenza e al livello delle
"nazioni madri", a completare la formazione nazionale e
l'indipendenza di popoli come l'italiano ("se l'inorientarsi
dell'Austria lascerà alla nazione raccoglitrice di tutta la
antica civiltà, educatrice di tutta la cristiana,
lascerà luogo alla nazione Italiana di raccogliersi in
sé, di essere tutta intiera indipendente..." : Meditazione
XVII, ad finem).
Uscito alla luce il Primato del Gioberti nel 1843, il B. ne
ricevette ben altra scossa, e notò appunto che si trattava,
più che d'un libro, di un'azione, benché dissentisse
poi nel modo di concepire il "primato", e volesse sottolineare che
"prima di mirare a primati, si vuole arrivare a parità, e che
la prima parità colle nazioni indipendenti è
l'indipendenza". Per questo stendeva le Speranze
d'Italia,dedicandole al Gioberti e dicendosi apertamente ispirato
dall'opera sua. Risolveva non senza coraggio, ma sempre da leale
suddito di Carlo Alberto, il problema di pubblicare uno scritto
relativamente audace, e non certo gradevole all'Austria (che
già aveva proibito il Primato nel Lombardo-Veneto), chiedendo
ed ottenendo dal suo sovrano di stamparlo all'estero (uscì a
Parigi nel '44; seguono due edizioni di Capolago, nel '44 e nel '45,
quella di Napoli del '48, poi quella postuma di Firenze nel '55,
nella quale troviamo riunite tutte le appendici del'44-'46, le
aggiunte del '47, e uno scritto del '44 sulla questione d'Oriente;
non vi si trova invece più in epigrafe il porro unum est
necessarium,di cui il B. aveva sentito l'inopportunità, da un
punto di vista religioso, poco prima di morire). Pur partendo dai
suoi già noti schemi di filosofia della storia, il B.
attingeva, nelle Speranze,ad una lucidità, ad una
concretezza, ad una certa coerenza ed organicità, che resero
presto illustre l'opera sua.
Nella stessa sua moderazione, elevata quasi alla dignità di
principio, non mancano le note vigorose, come quando, nel cap. X,
stendeva l'apologia d'un ipotetico principe italiano "forte
d'animo... forte della fede antica e provata de' suoi popoli, forte
degli apparecchi legislativi, e dello sperimento del governo
consultativo", che sapesse passare da queste premesse a forma di
"governo deliberativo". Ammetteva però che si trattasse di
"decisione piena di pericoli, feconda di disunioni, distraente
dall'impresa d'indipendenza" e perfino "nociva" a questa: che era
come giustificare la politica di quel Carlo Alberto, al quale
sembrava rivolta l'esortazione or ora citata: e si comprende che un
recensore inglese giudicasse l'opera addirittura come ispirata dal
sovrano, ed il B. dovesse rispondere ch'egli era invece appena
"tollerato", come scrittore, e non certo ufficioso. Un'altra
contraddizione, nell'opera del B., fu argutamente rilevata nel noto
epigramma del Salvagnoli: dopo aver dato tanto peso all'idea
dell'indipendenza nazionale, alla virtù "come mezzo
necessario d'indipendenza"; dopo aver condannato senza ambagi gli
stranieri "oppressori e corruttori, l'uno e l'altro insieme", poteva
sembrare che il B. indulgesse ad un certo fatalismo
provvidenzialistico, nel dar tanto peso ad un'occasione storica
ch'egli giudicava immancabile, e che voleva s'aspettasse con
utopistica "longanimità": la spartizione dell'impero
ottomano, e l'inorientarsi inevitabile dell'Austria. Lo stesso B.
ricordava nell'appendice V delle Speranze,intitolata L'anno
1846,come "una persona meglio di lui informata della condizione
presente dell'impero austriaco" l'avesse criticato in tal senso,
suggerendogli di tener conto di un'altra "più probabile
speranza", quella dello "sfasciarsi" dell'impero austriaco: e
ammettendo il difetto, il B. giungeva ora a tener conto di tale
eventualità, e vedeva nei fatti di Galìzia del '46 il
"principio della fine" per quell'impero. Ma a dir questo,
così recisamente, era mosso anche dall'"atto di resistenza
italiana", che definiva "inaspettato" e "non più udito",
compiuto allora da Carlo Alberto, e registrato dall'opinione
pubblica italiana in modo ugualmente disusato, benché si
trattasse soltanto di un "affaruccio diplomatico-doganale
austro-sardo". Non voleva predicare odio, ma predicava ormai
più apertamente resistenza attiva alle prepotenze austriache,
e prevedeva imminenti "occasioni maggiori", e si diceva certo che
"il popolo italiano si mostrasse degno di esse, e degno di quella
civiltà cristiana che lo circonda" (ediz. 1855, pp. 374-76).
Lo incoraggiava pure, in quell'anno fatidico per l'Italia,
l'atteggiamento del nuovo papa, di Pio IX, che senz'esser stato
"uomo di parte", né "liberale", era già vicino, dopo
sei mesi di saggio e benefico governo, a giungere, come sovrano,
dove il Gioberti aveva auspicato che un papa italiano giungesse,
cioè "al primato della opinione, della potenza italiana"; e
poco gli restava a diventare "guida dell'opinione e della
civiltà cristiana" come pontefice (pp. 384 ss.). Infine il B.
esaltava la straordinaria concordia fra Italiani, già adusati
a tante divisioni e contrasti e da questa constatazione un po'
idillica prendeva poi lo spunto per esortare i principi italiani a
concedere più ampie libertà ai popoli (pp. 375 ss.).
Ma in una lettera confidenziale al Gioberti, del 1° nov. 1846,
aveva già più realisticamente tenuto conto delle
polemiche con lo stesso progredire del movimento d'opinione, e
ravvivate dallo stesso Gioberti con la pubblicazione dei
Prolegomeni,nei quali attaccava, come è noto, i gesuiti, anzi
creava quasi un nuovo mito, per scindere la tradizione cattolica dal
supposto gesuitismo. Il B. lo esortava ad acquietare la "tempesta di
Gesuiti qui suscitata da lui" e a scrivere un "libro pacificatore"
per compiere l'"opera della moderazione", da lui iniziata
(Carteggì di V. Gioberti,V, Lettere di illustri italiani,a
cura di L. Madaro, Roma 1937, pp. 164-167). Il Gioberti avrebbe
pubblicato, invece, il Gesuita moderno...
Nella battaglia condotta dai pubblicisti di parte moderata, fra il
'46 ed il '47, il B. aveva intanto gettato un altro scritto di
grandissimo rilievo, il Sommario della storia d'Italia. Improvvisato
in poco più di quaranta giorni per l'Enciclopedia popolare
del Pomba e del Predari, rappresentava però il frutto maturo
di molti anni di appassionata meditazione sul passato e sul presente
della sua patria: la passione che lo animava, piuttosto morale e
politica che propriamente scientifica ed erudita, dava vigore e
calore al suo scritto, che non era tanto un'opera di storia, quanto
"l'ammonimento di un uomo diritto e saldo, spiritualizzato dalla
lunga macerazione, atto perciò ad incidere profondamente
nelle coscienze" (N. Valeri, in C. B.Pagine scelte precedute da un
saggi0, Milano 1960, p. 45).
Nello stile come nella sostanza, al notato vigore s'accompagnava
tuttavia quella monotonia, quel martellamento di assiomi un po'
dogmaticamente assunti, di cui doveva parlare B. Croce in alcune
pagine critiche sulla storiografia cattolico-liberale. Non per
questo si potranno sottovalutare certe istanze contro gli eccessi
delle tesi patriottiche, contro le "teorie dell'isolamento"; contro
le pretese al primato o a diversi primati; certe riserve di fronte
al riformismo autoritario del Settecento "o non bisogna educare i
popoli, o bisogna compier loro educazione... non bisogna voler
parere, e non esser liberali". Infine, nell'appendice sugli anni dal
1814 al 1849, scritta per la nona edizione del 1852, ma non
compiuta, e pubblicata solo nell'edizione decima, postuma, del 1856,
troviamo un interessante giudizio sul regno di Carlo Alberto: per un
verso, il B. ne onora la memoria dedicandogli il volume, "scritto
già tra gli urgenti desideri del gran tentativo di lui,
omaggio postumo ora di gratitudine", e definendolo "sommo martire
dell'indipendenza", e "somma vittima delle invidie italiane"; ma poi
dice che il suo regno era stato caratterizzato da "titubanze
continuate fin presso alla fine".
Con le Speranze e col Sommario il B. aveva attinto al punto
più alto del suo apostolato etico-politico: ma l'aprirsi di
crescenti possibilità di libera discussione pareva
moltiplicare le sue forze e risuscitare in lui quella vocazione di
pubblicista e di scrittore politico che la censura piemontese aveva
soffocato. Fra molti scritti composti in quel periodo di eccezionale
fecondità, emergono le Lettere politiche,indirizzate al
Farini, e stese fra il dicembre del '46 e l'aprile del '47 (edite in
parte nel '47 a Torino, e per intero fra le Lettere di politica e
letteratura,cit.). Notevole pure il programma del giornale Il
Risorgimento,apparso sul primo numero, il 15 dic. '47, a cui
seguivano poi diversi articoli, specie nei primi mesi del '48, e
fino alla vigilia della tanto desiderata concessione dello Statuto.
Ma già il confronto fra tali articoli e quelli d'altri
collaboratori del giomale, da C. Cavour a M. A. Castelli, a R.
d'Azeglio, ecc., fa sentire come il B. andasse progressivamente
chiudendosi nel guscio del suo dottrinarismo, benché si
sforzasse di seguire il moto dell'opinione, e avesse il merito di
stimolare in tal senso il titubante Carlo Alberto, ben meno
chiaroveggente e sensibile di lui.
Son da vedere, per questo specialmente, le critiche e le esortazioni
contenute in un memoriale al re dell'ottobre del '47, riferite in
parte dal Ricotti, e stampate per intero da E. Passamonti, in
IlRisorgimento Italiano,VI (1913), pp. 763-826: da notare che il B.
non osava spingersi fino a chiedere una costituzione. Inoltre va
ricordato il rifiuto di far parte di una Commissione superiore di
revisione, cioè di censura, rifiuto giustificato con un
preciso riferimento alle sue convinzioni liberali, in una lettera
pure citata dal Ricotti. In uno scritto del novembre del '47,
intitolato Prime parole sulla situazione nuova dei popoli liguri e
Piemontesi,e pubblicato prima sull'Antologia italiana,poi in
estratto dal Pomba, e infine in appendice alla quinta edizione delle
Speranze, ilB. affronta un tema che riprende poi nel primo numero
del Risorgimento: le riforme devono tendere a perfezionare l'unione
politica e giuridico-amministrativa tra le diverse parti degli Stati
italiani, abolendo anche gli organi ed istituti peculiari, i "corpi
consultivi diversi". Il B. rivaluta insomma l'accentramento e il
livellamento istituzionale, sia pur proponendo di porre nuovi organi
rappresentativi al centro come valida garanzia di libertà
(nel Risorgimento si raccoglie, però, qualche voce
diversamente orientata). Per lo Stato sabaudo, situato a cavallo
delle Alpi, e con popoli diversi per lingua e per cultura, il B.
avrebbe dovuto tener conto dell'evidente contraddizione fra
unità statale-dinastica e unità nazionale, ma egli
credeva di risolvere il problema dichiarando nettamente
l'opportunità di salvare l'unità dello Stato sabaudo
come strumento della nazionalità italiana, appellandosi
inoltre a una tradizione di otto secoli di storia comune
(Speranze,ed. cit., p. 481).
Quando s'apre la discussione alla Camera dei Pari francese sugli
affari d'Italia, nel gennaio del '48, il B. vi dedica tre articoli,
e si accosta al Cavour nel giudicare severamente la politica
austrofila del Guizot, di cui però si augura "la conversione,
non la caduta" (n. 17, del 19 gennaio). Poi concentra la sua
attenzione, insieme con M. d'Azeglio, sul problema della
costituzione di forti eserciti regolari negli Stati dell'Italia
centrale, tenendo però fermo il concetto di un'egemonia
militare e quindi politica del Piemonte nell'auspicata
confederazione italica: giunge a definire "divino" l'esercito
piemontese-italiano! In un articolo del 3 febbraio ammette
senz'ambagi che l'annunzio d'una costituzione, dato da Ferdinando di
Borbone, il 29 gennaio, "ha instaurato il secondo periodo" e aperto
una nuova fase del Risorgimento: si può quindi immaginare con
quanto entusiasmo egli commenti poi l'annuncio dello Statuto
piemontese, in un ampio articolo del 10 febbraio.
Chiamato da Carlo Alberto a presiedere la commissione che doveva
elaborare la legge elettorale, il B. seppe dirigerne e accelerarne
l'opera, che fu compiuta in quindici giorni, ed è notevole
che, nonostante la fretta, la legge elaborata reggesse poi alla
prova del tempo. L'8 marzo Carlo Alberto, subendo a malincuore la
necessità di ricorrere a uomini "nuovi", finì per
chiamare il B. a comporre il primo ministero costituzionale
piemontese, e con lui chiamò un genovese, il marchese Lorenzo
Pareto. Questi, insieme al marchese Vincenzo Ricci, pure genovese,
creò le prime difficoltà al B., facendo proprie le
esigenze di correnti d'opinioni alquanto più avanzate ma
piuttosto venate di particolarismo ligure. Il B. seppe respingere
quello che pareva umiliante per il governo (la distruzione del forte
del Castelletto, o la sua consegna alla Guardia civica), accentuando
la già menzionata esigenza di salvare l'unità dello
Stato. Per contro, egli accettava la linea di politica estera
proposta dal Pareto: conservava però le sue tipiche premesse
sull'egemonia militare-politica piemontese nella lega con gli altri
principi italiani, definendola come "una specie di protettorato di
fatto", e giustificandola con il maggior onere che lo Stato sabaudo
assumeva nel difendere tutti gli altri, con forze più
numerose e meglio organizzate. Nella politica interna, il B. si
pronunciava contro ogni revisione dello Statuto, ma faceva suo il
principio derivato dalla tradizione costituzionale inglese,
dell'onnipotenza parlamentare (da non confondere col parlamentarismo
più avanzato). Il Parlamento doveva essere immediatamente
convocato. Avrebbe voluto che il Gioberti entrasse nel ministero, ma
Carlo Alberto s'oppose. Fu questa una seconda ragione di debolezza
del ministero: la questione della fusione della Lombardia col
Piemonte, e l'ostilità del B. all'idea d'una Costituente,
anche se rinviata a data incerta, contribuì ad aggravare i
dissidi fra il B. e i suoi colleghi, nel maggio. Quando poi fu
riunito il Parlamento (dal 9 maggio), il B. vi dovette rappresentare
il ministro della Guerra, Franzini, ch'era al campo, mentre
paradossalmente sospirava un'occasione di abbandonare egli stesso il
suo posto per combattere (ma un suo breve intervento sul fronte, a
fine aprile, doveva invece accentuare i sospetti che nutriva contro
di lui il capo del governo provvisorio di Milano, Gabrio Casati,
come risulta dal carteggio di quest'ultimo col conte C. di
Castagnetto).
Quando nacquero i primi dubbi e dissapori sulla condotta della
guerra, sulla quale il B. non aveva mai potuto influire, parve
ch'egli fosse troppo indulgente, troppo preoccupato di giustificare
tutto e tutti. Allora egli sentì che il ministero da lui
presieduto apparteneva alla categoria deteriore dei "governi di
coalizione"; e si manifestò anche la sua incapacità di
"superare il dissidio fra interessi sabaudi e interessi nazionali,
fra orgoglio del primato subalpino e fede nella patria comune, fra
ragion di stato e guerra di popolo... fra indipendenza imposta dai
Piemontesi e indipendenza conquistata dagli Italiani" (N. Valeri, C.
B. Pagine scelte...,cit., p. 38), e toccò ai giobertiani quel
compito di mediazione fra radicali democraticheggianti e difensori
della politica dinastico-piemontesista, che il B. non aveva saputo
assolvere. Il B. aveva chiesto di dimettersi due volte, fin dal
maggio, poi insistette insieme a tutti i colleghi: "rimanemmo
dimissionari agonizzanti, impotenti un altro mese e mezzo", annotava
in una prefazione ai Saggi sul governo rappresentativo in Italia,
del '49-'50; anche questa situazione ambigua, di cui il B. doveva
portare il peso, era un frutto dell'ambiguo atteggiamento del re,
che in sostanza continuava a procedere autocraticamente, disdegnando
di consigliarsi con i ministri costituzionali. La caduta del
ministero avvenne poi il 26 luglio 1848.
Il B. restava in Parlamento come semplice deputato, eletto dal
collegio di Chieri, poi dal 2° collegio di Torino nella terza e
quarta legislatura, e, accettando con coraggio, dopo il favore
dell'opinione, l'impopolarità nata dalle speranze cadute,
riprendeva inflessibilmente le sue tesi guelfe e conservatrici.
Nella tornata del 28 febbr. 1849 si alzava a difendere il potere
temporale dei papi, dichiarando, però, che "in teoria la
potenza temporale... non è per nulla necessaria alla
religione cattolica". Il 17 genn. 1850 presentava la relazione sul
trattato di pace coll'Austria, a nome della commissione parlamentare
a ciò delegata. Poco più tardi, il 25 febbraio, si
opponeva alla legge per l'abolizione del foro ecclesiastico proposta
dal ministero d'Azeglio, dichiarando che "non si può, non si
deve mutare [un diritto], se non col consenso, con l'accordo di chi
ne è materialmente in possesso". Il 29 giugno 1852 avrebbe
ancora fatto opposizione ad una proposta di legge sul matrimonio
civile, affermando che, senza prender posizione sul diritto dello
Stato di statuire in materia, non gli sembrava comunque opportuno
che se ne ingerisse, sostenendo così implicitamente che
convenisse non innovare in tal campo. Fu tacciato, per queste prese
di posizione, di spirito retrivo.
Un aspetto invece più modemo, più liberale, delle sue
convinzioni politiche era apparso chiaro nella missione che aveva
accettato dallo stesso ministero d'Azeglio, di recarsi come
mediatore presso Pio IX, a Gaeta, nel maggio-luglio del '49: aveva
invano tentato di "persuadere Pio IX e il suo ministro di fare come
noi, di tenersi stretto allo Statuto da lui dato".
Notevoli gli scritti che il B. riuscì ancora a stendere in
quegli ultimi tre anni di vita, benché fosse tornato da Gaeta
quasi cieco (Ricotti, p. 283). Alludiamo soprattutto ai già
citati saggi sul governo rappresentativo, ed allo scritto incompiuto
Della politica nella presente civiltà,che emergono fra cose
minori ed abbozzi di quest'epoca e che furono poi raccolti sotto il
titolo Della monarchia rappresentativa in Italia (Firenze 1857).
Curiosamente, il B. giungeva allora, dopo il fallimento dell'impresa
d'indipendenza, che attribuiva principalmente alle distrazioni e
alle discordie generate dalle inopportune ambizioni di
libertà e di unità, a rivalutare il momento della
libertà.
Scriveva: "ora è tempo di ripigliare l'opera della nostra
libertà, di ordinarla, di assodarla, di radicarla, di farla
universalmente accetta e forte in Italia" per creare una nuova
piattaforma all'indipendenza futura (prefaz. cit., edita in Della
monarchia rappresentativa..., cit., p. 9). Più che mai
metteva in guardia gli Italiani contro l'egocentrismo nazionale, e
additava all'Italia la via dell'Europa: "Moderiamo la nostra stolta
ambizione! Limitiamola ad entrare, quasi onesta famiglia in una
città, onesta nazione nella grande repubblica europea". In
tal modo poneva un limite alla retorica dei giobertiani e dei
radicali democraticheggianti, e lasciava un'eredità viva alla
scuola politica moderata e costituzionale: altrettanto vigorosamente
antiretorica la proposta da lui fatta alla Camera, in sede di
discussione della ratifica al trattato di pace coll'Austria.
Proponeva di approvarlo "senza discussione, ma colla sola protesta
del silenzio". La proposta fu tuttavia respinta.
Un ultimo episodio di politica attiva veniva a turbare le
meditazioni del B., precocemente invecchiato, anzi consumato da
tante esperienze dolorose, da tante difficoltà: al cadere dei
ministero d'Azeglio, nell'ottobre del '52, egli fu richiesto ancora
da Vittorio Emanuele II, perché formasse una nuova compagine
ministeriale. Il B. volle anzitutto avere il Rével alle
Finanze, ed era incline persino a cedergli la presidenza del
Consiglio, poi interpellò il Cavour, ma mentre il
Rével prevedeva di non trovar sufficiente appoggio nella
Camera dei deputati, il Cavour notava che un avvicinamento fra il B.
e lui avrebbe avuto effetti politici negativi. Il B. finì per
declinare l'incarico, e continuò ad intervenire in
parlamento, come deputato, fino ai primi del '53 (il 12 gennaio
diede chiarimenti sull'episodio or ora riferito, il 7 febbraio disse
ancora qualche parola per regolare la discussione). Il 3 giugno del
1853 morì a Torino.