BALBO, Cesare


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Gerarca del fascismo e aviatore italiano (Quartesana, Ferrara, 1896-Tobruch 1940).

Valoroso ufficiale nella prima guerra mondiale, fu tra i fondatori dell'Associazione Nazionale Alpini. Approdò al fascismo nel 1921, dopo la laurea in scienze politiche conseguita a Firenze. Esponente del fascismo agrario, organizzò l'azione squadristica in Emilia facendo saltare il patto di pacificazione raggiunto da Mussolini con i socialisti. Nell'ottobre 1922 fu quadrumviro della marcia su Roma e, successivamente, comandante generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.

Sottosegretario all'Economia Nazionale, nel novembre 1926 approdò all'Aeronautica come sottosegretario e poi ministro (1929-33) e lanciò un programma organico di potenziamento, di cui le crociere collettive (celebre quella del Nord Atlantico del 1933) restano l'aspetto più spettacolare.

La sua popolarità suscitò l'invidia del Duce, che lo rimosse dall'incarico di ministro promuovendolo maresciallo dell'aria e nominandolo governatore della Libia.

Moderato, si oppose alle leggi razziali, all'alleanza con i Tedeschi e all'entrata nella seconda guerra mondiale.

Morì il 28 giugno 1940 quando il suo aereo fu abbattuto per errore nel cielo di Tobruch dall'artiglieria antiaerea italiana.

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Txt.: Storia d'Italia

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DBI

di Ettore Passerin d'Entrèves

Nacque in Torino da Prospero e da Enrichetta Taparelli d'Azeglio il 21 nov. 1789. Orfano della madre già nel 1792, fu affidato, col fratello cadetto Ferdinando e colla sorella Paolina, alle cure della nonna materna del padre, Teresa Beraudo di Pralormo, moglie in seconde nozze del conte G. B. Bogino, il ministro riformatore, "nobile e fiera vecchia", che aveva già contribuito all'educazione dello stesso Prospero, tenuto sempre dal B. come esempio di virtù civiche e di pratica saggezza. Esemplare giudicò più tardi la "difesa diplomatica" dello Stato sabaudo occupato dai Francesi, dopo la "vil tregua" di Cherasco e la pace di Parigi del '96, che il ministro Damiano di Priocca e Prospero B., ambasciatore a Parigi, dovevan sostenere fino alla caduta del debole Carlo Emanuele IV. Condotto a Parigi nel '98, il B. seguì il padre anche nelle peregrinazioni dell'esilio: a Barcellona e a Bologna, prima di Marengo, poi più a lungo a Firenze tra il 1800 ed il 1802. Di Firenze doveva ricordare molte bellezze, ed alcuni memorabili incontri: "V. Alfieri, che veniva per casa a noi, e da cui si andava", in primo luogo (Autobiografia,p.355). Tornato a Torino nel 1802, il B. continuò ad avere per maestro il padre, che insegnava anche ad altri giovani delle famiglie amiche, coadiuvato dal conte M. S. Provana per le materie scientifiche. In questo gruppo di giovani sorse una "ragazzata d'accademia" detta "dei Concordi": essa rispecchiava anche certe iniziali aspirazioni patriottiche, collegate ad una resistenza culturale contro l'assimilazione del Piemonte alla Francia imperiale.

Più marcato il motivo guelfo-italico nel più anziano fra i "Concordi", Carlo Vidua, che indusse per primo il B. ad ammirare la resistenza nazionale degli Spagnoli, fatta in nome della religione e delle tradizioni patrie; pre-liberali piuttosto che guelfi appaiono, invece, gli ideatori dell'accademia, Luigi Ornato e Luigi Provana del Sabbione. Presto il culto del forte sentire alfieriano doveva farsi comune a tutto il gruppo d'amici, cui si sarebbe aggiunto anche Santorre di Santarosa: in tutti troviamo precoci motivi e orientamenti romantici, e qualche anticipazione delle tesi neoguelfe che avranno corso nell'età della restaurazione.

Nel 1805 il B. doveva interrompere i prediletti studi di matematica per la sua cattiva salute, ma nel 1806-1807 poteva frequentare un corso di fisica dell'illustre Vassalli-Eandi. Sempre nel 1807 il padre cercava di sottrarlo a una nomina non desiderata presso il Consiglio di Stato napoleonico, ma nel 1808 non poteva impedire che partisse, al seguito del generale Menou, divenuto governatore generale della Toscana unita ormai all'impero, col titolo di segretario generale. Così restavano anche interrotti gli studi di legge, iniziati nell'autunno precedente, e cominciava per il B. un quinquennio di servizio nell'amministrazione imperiale.

A Firenze aveva modo di frequentare il Fossombroni, don Neri Corsini, il Puccini, e stringeva amicizia con Gino Capponi, più vicino a lui negli anni e nelle aspirazioni. Nel maggio del 1809 veniva a un tratto nominato segretario della Consulta che doveva, sotto la direzione del generale Miollis, organizzare l'amministrazione imperiale in quella Roma che stava appunto per essere strappata al pontefice: il 17 maggio Napoleone firmava a Schönbrunn il decreto che riuniva gli Stati pontifici all'impero, e al B. toccava di controfirmare, come segretario, il decreto della Consulta che applicava e convalidava la volontà imperiale. Ne doveva provare vergogna, come conferma la posteriore Autobiografia: certo fu scosso dallo "spettacolo rimproveratore" del coraggio che dimostrava una parte notevole del clero nel resistere a Napoleone, e in specie nel far noti, malgrado ogni divieto, i decreti papali di scomunica. Ma soltanto nel 1811 egli riusciva a staccarsi da quell'incarico, e assumeva, dopo breve sosta a Torino, quel posto di auditore al Consiglio di Stato, a Parigi, che gli era stato destinato nel 1807. "A me fu dato un solo affare a riferire; un fascio, anzi un monte di carte... contenente una parte della liquidazione di Roma". Forse per non essersi adattato a sabrer,secondo il termine allora corrente, quel lavoro, il B. fu mandato come "liquidatore" nel nuovo dipartimento illirico, dove doveva aver per superiore il Las Casas, poi compagno di Napoleone a Sant'Elena. Più importante il soggiorno, reduce da Lubiana, a Parigi, nel primi mesi del 1812, per i rapporti che da allora si fanno più stretti, con la famiglia di Cl.-Emm. Pastoret, che il padre del B. aveva aiutato a fuggire, quand'era stato condannato alla deportazione dal Direttorio, dopo il colpo di stato del 3 fruttidoro. La moglie del Pastoret, Adelaide-Luisa Piscatory, illustre come fondatrice dei primi asili d'infanzia a Parigi e come organizzatrice d'opere d'assistenza pubblica, avrebbe dissuaso il B. dall'attentare addirittura alla vita del despota, nel momento in cui gli veniva imposto un incarico sgradito ed umiliante, alle dipendenze del ministro di polizia Savary. Tramite i Pastoret, scrive il B. nell'Autobiografia, "conobbi... gli uomini non sempre i più grandi per potenza, ma i più distinti per qualità, che fossero in tutta Francia... in quella benedetta casa... le dovetti più che l'ospitalità... quella fiducia in sé che è necessaria per operare" (pp. 345 s.).

Alle prime reazioni, piuttosto affettive che ragionate, contro il despotismo napoleonico, s'aggiungeva intanto un nuovo motivo d'amarezza e di risentimento: il fratello minore del B. periva nella campagna di Russia, ed egli non lo ritrovava fra i suoi, quando riusciva a tornare a Torino con attestati di debole salute, soggiornandovi per circa un anno fra il '12 ed il '13. Ma nel '13, riassunto il suo incarico presso il Consiglio di Stato, e staccato finalmente dalla sezione che dipendeva dal Savary, si faceva inviare verso il fronte di guerra in Germania, e giungeva sul "fatal campo di Lipsia" il giorno stesso della grande disfatta francese, di cui dava poi una colorita descrizione nella citata Autobiografia (pp. 349-53). Va notato, in questa descrizione, il cenno su di un suo incontro con parecchi ufficiali della "guardia reale d'Italia", che manifestavano la loro ostilità contro l'imperatore ed i Francesi, coi quali pur avevano fin allora combattuto, e "parlavan d'Italia altamente, generosamente".

Alla caduta dell'edificio politico napoleonico, tornato al servizio dei suoi sovrani, quale tenente del corpo di Stato Maggiore, il B., che aveva già conosciuto un alto ufficiale napoleonico d'origine piemontese, animato da patriottici sentimenti, A. Derege di Gifflenga, e cominciato a frequentarlo, avrebbe cercato di nuovo l'occasione di avvicinarlo. Ed infatti durante i Cento Giorni questi lo avrebbe chiamato a far parte dell'avanguardia dell'esercito sabaudo, che stava muovendosi contro le truppe di Murat, ma che poi, volgendosi in direzione opposta contro le forze francesi sul confine di Savoia, giungeva ad occupare Grenoble. Il B., che aveva steso appunto un memoriale per proporre che "s'entrasse in Delfinato con quello che si potesse raccozzare bene o male di truppe nostre, contro all'invasore che minacciava noi e l'Italia non men che la Francia" (p. 363), dava le dimissioni dall'esercito non appena appreso che era stata stipulata una pace duratura.

Prospero B., guardato inizialmente con sospetto a corte, otteneva nel 1816 l'incarico di ambasciatore a Madrid e riusciva a farvi nominare come gentiluomo d'ambasciata il figlio, che vi sarebbe rimasto fino ai primi del '19.

Al B. balenò subito l'idea di farsi storico della "guerra d'indipendenza fatta dal 1808 al 1814 dagli Spagnuoli contro Napoleone... per l'esempio che parevagli utile a mostrare, per quando che sia, alla patria" (nel 1847, in effetti, pubblicava gli Studii sulla guerra d'indipendenza di Spagna e di Portogallo,stesi a Madrid nel '17: le preoccupazioni pedagogico-politiche dominano, in modo assai caratteristico, sulle esigenze propriamente storiografiche). Nell'Autobiografia egli rivela pure come l'esperienza fatta in circa tre anni di soggiorno in Spagna rassodasse le sue tendenze liberali e costituzionali, mostrandogli gli errori dell'"assoluta legittimità" e i vizi d'una monarchia arbitraria e dominata dalla camarilla (pp. 366 s.). D'altra parte, i patrioti spagnoli del 1809 e del 1812 avevano "mescolato di troppo le dispute di libertà interna" alle più urgenti battaglie per l'indipendenza: questo pensava il B. nel 1844, mentre stendeva le Speranze d'Italia. A Madrid si legava inoltre con gli inviati francese, duca di Laval, ed inglese, sir Henry Wellesley; nel periodo in cui doveva rimanere da solo, come incaricato d'affari, in attesa del nuovo ambasciatore che succedeva al padre, chiamato a coprire la carica di presidente del Magistrato della Riforma a Torino, cioè negli ultimi mesi del 1818 e nei primi mesi del '19, si legava maggiormente ad uno studioso americano, Giorgio Ticknor. Nel suo diario questi doveva poi scrivere che i due Balbo, padre e figlio, gli erano apparsi come le figure più interessanti fra tutti i diplomatici incontrati a Madrid. Scriveva inoltre che il B. gli appariva "coltissimo, di buon gusto, pieno di sentimento per tutto ciò che è grande e bello, e letteralmente divorato dall'entusiasmo... Non pensa ad altro che all'Italia... e sogna il grande progetto di riunire l'Italia in una nazione difesa dalla barriera delle Alpi dalle invasioni del Nord" (Life, Letters and Journal of G. T., I, Boston 1909, p. 209).

Chiusa la parentesi spagnola, il B. si sentì ripreso dalla "smania militare" ed accettò il grado di maggiore in un reggimento, per scendere alla pratica, dopo i "lunghi studi fatti da cinque anni (per consiglio principalmente del Gifflenga) nella teorica" (Autobiografia, p. 371). Gli impegni militari lo portarono a Genova, dove poté valutare le difficoltà che nascevano dall'imperfetta connessione fra le province liguri, di recente acquisto, ed il resto dello Stato sabaudo. Parlava anche di questo nella fitta corrispondenza con gli amici più cari di Torino, L. Ornato, Santorre Santarosa, L. Provana del Sabbione: le aspirazioni vaghe dei "Concordi" si stavano ora precisando, al di là delle premesse alfieriane e dell'opposizione a Napoleone.

In queste lettere, in gran parte tuttora inedite, scambiate fra i quattro amici, s'intravvede però già qualche differenza di opinione politica, e il dissenso si acuisce, fra il B. e il Santarosa, nel '20, quando si pone il dilemma fra il metodo della legalità, dell'evoluzione riformistica, e quello del moto popolare e militare, al quale il Santarosa inclina, per gli stimoli dei settari con i quali è in contatto, e per la suggestione esercitata dagli esempi di Spagna e di Napoli (si veda la Professione di fede politica mandatagli dal B., da Genova, edita in Ricotti, App. 6, pp. 393-95). Il B. definisce "infame" il moto militare, ed osserva che lo Stato sabaudo si smembrerebbe, in caso di rivoluzione: si vede così quanto egli fosse fiducioso nella missione dello Stato dinastico, che voleva porre al servizio della nazionalità italiana, ma senza metterlo in crisi.

In quei mesi Prospero B., passando alla segreteria degli Interni (dal settembre 1819), cercava appunto di dar vita al difficile ideale di un riformismo paternalistico, ma liberaleggiante: il figlio avrebbe più tardi rimpianto che i suoi sforzi si fossero infranti fra le tenaci resistenze e i sospetti dei ministri reazionari, e le impazienze dei giovani che erano giunti a sollecitare le confuse ambizioni dello stesso principe di Carignano, Carlo Alberto, per una "guerra nazionale" contro l'Austria. Il B. doveva agire come moderatore, fra le opposte intransigenze, sia nelle giornate dei moti studenteschi torinesi del gennaio, sia in quelle ben più drammatiche del marzo del '21. Ma egli doveva riuscire soltanto a scontentare gli uni e gli altri: utopistica appare la sua idea di chiedere in ginocchio al reggente di concedere una costituzione modellata sui migliori esempi d'Inghilterra o di Sicilia, prima che l'agitazione degenerasse in rivoluzione. Del resto, lo stesso Prospero B. fu per un decennio in disgrazia, mentre il figlio, benché risultasse immune da ogni imputazione di fronte ai superiori, nell'esercito doveva subire misure più severe, l'esilio e il confino.

Aveva il B. dato qualche motivo ai provvedimenti, sia dichiarando che "voleva rimaner amico prìvato", benché "avversario politico e militare dei capi della rivoluzione", sia col dimettersi dal grado e dall'ufficio nel momento in cui il Sallier de la Tour gli mostrava una lettera di Carlo Felice "che gli diceva d'allontanarlo dal quartier generale" (Autobiografia,p. 378). Ottenuto un passaporto, si recava a Parigi, ed ivi visitava più volte l'esule Santarosa. Più a lungo risiedeva a Susa in Provenza, presso la famiglia della seconda moglie del padre, Maddalena des Isnards. Mentre già credeva di poter rimpatriare, nel 1822, veniva esiliato "per misura economica,e vuol dire senza forma di giudizio e nemmen decreto" (Vita, in Ricotti, App. 2, p. 384). Il 23 apr. 1823 sposava Felicita "figlia del barone di Villeneuve e di Laura di Ségur, pronepote di D'Aguessau", e con lei passava ancora un anno fra Chenonceaux e Parigi. Nel 1824 otteneva di ritornare in Piemonte, ma restava confinato nella propria terra di Camerano per altri due anni.

Il B., ormai più che trentenne, si staccava da quella "prattica", da quella via dell'azione, che continuava a costituire il suo ideale segreto. Ma la crisi del '21 aveva stimolato la sua vocazione di studioso, di scrittore politico, di pubblicista, oltre a spingerlo verso l'indagine storica: già a Madrid aveva lavorato sulle antiche costituzioni di Castiglia e di Aragona; aveva abbozzato un romanzo storico e altri scritti minori; fra il '22 e il '23 stendeva tutta una serie di brevi saggi sulla missione della dinastia sabauda, sulla nobiltà in Italia, sul principio di legittimità, sul "sistema di equilibrio" in Europa, ecc. Più importanti gli abbozzati Pensieri ed esempi di morale e di politica (collo stesso titolo, avrebbe poi scritto un altro insieme di saggi nel 1832-33: soltanto questi sarebbero stati pubblicati postumi, nel 1854); notevoli pure le Considérations sur le soulèvement des Grecs,che mostrano com'egli seguisse attentamente i vari movimenti indipendentistici, e guardasse soprattutto alla Francia liberale e cristiana, come ad un fulcro della nuova politica europea. Alla Francia assegnava anche un compito di mediazione fra i patrioti radicali di Spagna e d'Italia, e l'opposto radicalismo reazionario, in favore del vero "partito nazionale italiano", moderato e riformatore. Si augurava fin dal 1821 che l'Austria "s'inorientasse", per il bene dell'Italia e dell'Europa.

Nel 1830 uscivano dal Pomba, a Torino, i due tomi della Storia d'Italia,in cui, partendo dalla crisi conclusiva dell'Impero romano, giungeva appena a trattare della dominazione dei Longobardi, fino al 774. Nello stesso anno, pubblicava una traduzione degli Annali di Tacito, che veniva poi completata con quella delle altre opere dello stesso autore, nel 1832. Ritentava, in quello stesso periodo, la via del dramma storico, sempre scegliendo soggetti patriottici, e meditava sugli scritti del Cousin, che lo inducevano a scriver anche qualche pagina di riflessioni filosofiche: di tutti questi inediti ci dà conto il Ricotti.

Morto Carlo Felice nell'aprile del '31, il B. stendeva una memoria Des Conseils provinciaux et du Conseil d'Etat,in cui pareva ripiegare sulle posizioni care al padre, e già da noi accennate: ma lo stesso Prospero veniva poi deluso dal modo di attuazione dell'istituto che pure egli aveva consigliato, cioè dal Consiglio di Stato a cui il nuovo re Carlo Alberto dava vita con l'editto del 20 ag. 1831. Affidando a Prospero la presidenza d'una sezione, il re ne escludeva invece il figlio, confermando la diffidenza nei suoi confronti. Colpito duramente, nel novembre del '33, dalla morte della moglie, da cui aveva avuto otto figli, il B. sposava in seconde nozze, nel '36, la figlia del conte Galeani Napione. Nel marzo del '37 moriva anche Prospero e al B. riusciva sempre più amara l'inazione.

Il Ricotti ha pubblicato, a tale proposito, una sua significativa lettera del 1835, in cui deplorava di non poter combattere la buona battaglia, in favore delle libertà civili non viziate dallo spirito di fanatismo livellatore e rivoluzionario, perché nel Piemonte di Carlo Alberto il tormento della censura impediva persino di pensare con indipendenza, di scrivere con chiarezza (Ricotti, App. 10, p. 420).

Si possono tralasciare alcuni scritti minori pubblicati fra il 1829 (le Quattro Novelle che ebbero sei edizioni fra il 1829 e il 1854) ed il 1836 (sono di quest'anno le lettere all'abate Peyron su La letteratura ne' primi XI secoli dell'èra cristiana,ripubblicate fra le Lettere di politica e di letteratura,che uscirono nel 1855 presso il Le Monnier, e la lettera a C. Cantù, edita soltanto postuma in questa raccolta, su La civiltà e la moralità nel mondo antico e nel nuovo). Occorre invece accennare allo sforzo ch'egli fece per assimilare in quegli anni i risultati della ricerca erudita e della critica storica germanica, di cui si ha un segno nella traduzione delle Vicende delle costituzioni delle città lombarde di Enrico Leo, edita nel 1836 a Torino, ed in certe lezioni su I titoli e la potenza dei conti, duchi e marchesi dell'Italia settentrionale, e in particolare dei conti di Torino,lette alla Reale Accademia delle Scienze di Torino nel febbr. 1833, e da questa pubblicate nelle Memorie (t. XXXVIII, 1835, pp. 241-291. Tali lezioni, ripubblicate insieme ad altri scritti storici minori e a un saggio sull'Italia nel periodo carolingio a cura di C. Boncompagni, formano il volume Il regno di Carlomagno in Italia,Firenze 1862).

Per le discussioni sul metodo storico con altri studiosi italiani, cfr. Lettere inedite di C. Troya e di C. B., Napoli 1869, edite dal Mandarini.

Un cauto tentativo di pedagogia etico-politica, spezzata in massime moraleggianti, si ha nei secondi Pensieri ed Esempi, scritti vari anni prima pubblicati soltanto nel 1854, con altri "pensieri" in parte già editi sulle Letture popolari,il periodico di L. Valerio; vi si univano inoltre i Dialoghi del maestro di scuola,che risultano pure, dal contesto, posteriori al '30 ma anteriori al '40, e che contengono qualche interessante accenno autobiografico.

I concetti sui quali più volentieri insiste il B. son già quelli di civiltà e progresso nell'ambito della "cristianità" (in polemica sia con le tesi illuministiche e sansimoniane, sia con quelle dei retrogradi); di diritti, doveri e affetti patriottici, che egli vuole indirizzare specialmente all'acquisto dell'indipendenza, ma conciliando sempre il patriottismo piemontese con quello italiano,i doveri di fronte alla nazione con quelli di fronte allo Stato sabaudo, aventi per sfondo le esigenze di "legittimità e legalità, che son tutt'uno" (p. 81). Sono i temi che verranno approfonditi e sviluppati nelle opere maggiori del B., di carattere storico e politico, con un'insistenza quasi ossessiva. Un bel gruppo di scritti minori (fra i quali spicca una lettera, Del naturale dei piemontesi),degli stessi anni dei Pensieri ed Esempi,furono riuniti fra le Lettere di politica e di letteratura: anche qui troviamo affrontati gli stessi temi, e qualche cenno che sta fra la storia e l'autobiografia: così il severo giudizio sul governo piemontese sotto la Restaurazione "la mediocrità produce le eliminazioni, e le eliminazioni riproducono la mediocrità": p. 261), ma anche l'affermazione che non sia lecito abbandonare il proprio paese e porlo in stato d'accusa dal di fuori (Alfieri, espatriato, è colpevole in tal senso, secondo il B., anche se parlò per "correggere i propri concittadini": p. 261).

Nel 1837-38 il B. lavorò ad una Vita di Dante,che uscì presso il Pomba, in due volumi, nel 1839. Dal punto di vista politico lo scritto aveva un valore stimolante, specialmente dove attribuiva tutti i mali sofferti dalla nazione italiana, a partire dall'età dei liberi Comuni, all'aver essa ottenuto soltanto un'"incompiuta indipendenza"; dal punto di vista del gusto letterario non era priva di significato, recando un forte contributo alla rivalutazione di Dante, nel quadro della idealizzazione ancora in parte alfieriana, ma più pienamente romantica, del forte sentire,e della missione civile del libero scrittore.

Le successive edizioni furon condotte tutte su questa prima torinese: la quarta e più maneggevole, in un solo volume, uscita nel 1851 presso il Le Monnier, reca le note aggiunte da E. Rocco nell'edizione napoletana del 1840. Fu tradotta in francese nel 1844, e in inglese nel 1852. Severamente giudicata da C. Cattaneo, in un famoso articolo sul Politecnico (vol.I, fasc. 4, aprile 1839; e ora in Scritti critici,Firenze 1954, pp. 61 ss.), specialmente in quanto il B. introduceva una tesi politica stravagante nella sua interpretazione: "quando il signor B. si chiama guelfo, anzi ci vuole in Italia tutti guelfi, siamo tentati di guardarlo attoniti, come uno dei Sette Dormienti,che si sveglia a finire d'un discorso cominciato cinquecento anni fa", l'opera del B. aveva tuttavia, per il Cattanco, il pregio di "destare un senso di affezione e di pietà per la bell'anima e, la dolorosa vita del grande Alighieri".

Intorno al 1840-41 gli interessi eruditi sembrano attenuarsi ulteriormente nella mente del B.: egli stende i Pensieri sulla storia d'Italia,che avrebbero poi visto la luce soltanto postumi, nella serie delle sue opere edita dal Le Monnier, raccogliendo le sue riflessioni intorno a quest'idea centrale: le lettere, le arti, la cultura acquistano un valore solo in quanto sono azione e servono di stimolo all'indipendenza nazionale. Questa viene contrapposta alla "libertà politica", cosa "incerta, in teorica", "varia nella pratica", fonte di dispute e dissidi: non per la sola Italia, ma per ogni nazione europea è consigliabile la forma monarchica; in Italia poi l'utopia delle repubblichette è tanto pericolosa, come il sogno dello Stato unitario machiavellico.

Il papato, col potere temporale, coll'indipendenza della Chiesa, è, secondo il B., un elemento essenziale della "missione d'Italia", che "fu capo e guida... all'intera Cristianità" quando seppe adempite bene a quel suo ufficio, che può risolversi in un "soffrire e trionfare", ma anche in un "martirio continuo", a favore del corpo della "repubblica cristiana", cioè dell'insieme delle nazioni cristiane, ma più ancora di quel principio animatore della civiltà cristiana ch'è l'indipendenza della Chiesa (si veda specialmente la conclusione dell'opera, intitolata appunto "Della missione d'Italia nella cristianità", e in questa più specialmente le pagine in difesa del "principato" dei papi). Pur nel raccogliere tutte le sue riflessioni, o la sua filosofia della storia, intorno ai concetti di civiltà cristiana, di indipendenza della Chiesa, di indipendenza nazionale, il B. non riduceva però in posizione del tutto subordinata l'esigenza della libertà morale e politica, che aveva sentito così fortemente fino dagli anni giovanili: pur raccomandando d'intenderla "in senso moderato", la libertà è posta dal B. al centro della storia, poiché "è quella che fa la civiltà" (Pensieri..., p.47); e precisa ancora: "La civiltà moderna non poteva nascere se non nelle città italiane solo libere nel medio evo; nata poi, poté spandersi in paesi più o meno lontani da libertà..." (p. 48). Coerentemente a queste idee, definisce i maggiori ostacoli del progresso civile e morale in Italia: la censura è il principale, e la libertà di stampa è indispensabile per la libertà politica, ma non può esser richiesta "prima che sia conseguita la indipendenza compiuta" (p. 332). La "libera pubblicità" resta comunque un ideale per il B., che la connette alla fede nella verità, e nel suo trionfo "sol ch'abbia campo giusto e aperto" (p. 333).

Di altri scritti minori elaborati od abbozzati dal B. fra il '41 e il '42 dice il Ricotti (notevoli alcuni articoli editi nelle Letture di famiglia,e l'inedita Idea della civiltà cristiana,da cui doveva, però, trarre non pochi elementi per le Speranze d'Italia). Nei primi mesi del '42 il B. portava più innanzi le sue ambizioni di filosofo della storia, stendendo le Meditazioni storiche,pubblicate in forma di dispense dall'editore Pomba, fra l'estate del '42 ed il marzo del '45 (nelle due edizioni postume del Le Monnier, Firenze 1854-1855 furono aggiunte tre meditazioni inedite, ed un frammento, alle quattordici già edite).

Dalla "filosofia della storia d'Italia" il B. passava qui a teorizzare una filosofia della storia dell'umanità, e tentava una storia universale nel piano della rivelazione cristiana, inserendo poi, di suo, uno schema in cui al progressivo peggioramento pre-cristiano si contrapponeva il miglioramento, il progresso dei popoli cristiani. Notava infatti come al fiorire della civiltà (intesa come "complesso di condizioni sociali" di progresso) e della cultura ("complesso di condizioni intellettuali") si contrapponesse pur sempre nell'antichità pre-cristiana una decadenza negli elementi morali, nella virtù. Ilvero progresso consiste dunque secondo il B. in un armonico associarsi dei predetti elementi, assegnando tuttavia il primo posto alla virtù: le sue meditazioni si aggirano "sulle varianti armonie della civiltà, della coltura, della virtù e della religione" (Meditazione VII). "Lareligione vera ha senza dubbio portata la Cristianità a un apice di civiltà non mai arrivato" (ibid.). Vi è una feconda gara delle nazioni cristiane sul cammino della civiltà, della cultura e della virtù, benché poi si mantenga fra tutte, nella comunità internazionale, "una solidarietà, una comunanza" che tende a far cadere le barriere intermedie, a portare le "nazioni figliuole" coloniali all'indipendenza e al livello delle "nazioni madri", a completare la formazione nazionale e l'indipendenza di popoli come l'italiano ("se l'inorientarsi dell'Austria lascerà alla nazione raccoglitrice di tutta la antica civiltà, educatrice di tutta la cristiana, lascerà luogo alla nazione Italiana di raccogliersi in sé, di essere tutta intiera indipendente..." : Meditazione XVII, ad finem).

Uscito alla luce il Primato del Gioberti nel 1843, il B. ne ricevette ben altra scossa, e notò appunto che si trattava, più che d'un libro, di un'azione, benché dissentisse poi nel modo di concepire il "primato", e volesse sottolineare che "prima di mirare a primati, si vuole arrivare a parità, e che la prima parità colle nazioni indipendenti è l'indipendenza". Per questo stendeva le Speranze d'Italia,dedicandole al Gioberti e dicendosi apertamente ispirato dall'opera sua. Risolveva non senza coraggio, ma sempre da leale suddito di Carlo Alberto, il problema di pubblicare uno scritto relativamente audace, e non certo gradevole all'Austria (che già aveva proibito il Primato nel Lombardo-Veneto), chiedendo ed ottenendo dal suo sovrano di stamparlo all'estero (uscì a Parigi nel '44; seguono due edizioni di Capolago, nel '44 e nel '45, quella di Napoli del '48, poi quella postuma di Firenze nel '55, nella quale troviamo riunite tutte le appendici del'44-'46, le aggiunte del '47, e uno scritto del '44 sulla questione d'Oriente; non vi si trova invece più in epigrafe il porro unum est necessarium,di cui il B. aveva sentito l'inopportunità, da un punto di vista religioso, poco prima di morire). Pur partendo dai suoi già noti schemi di filosofia della storia, il B. attingeva, nelle Speranze,ad una lucidità, ad una concretezza, ad una certa coerenza ed organicità, che resero presto illustre l'opera sua.

Nella stessa sua moderazione, elevata quasi alla dignità di principio, non mancano le note vigorose, come quando, nel cap. X, stendeva l'apologia d'un ipotetico principe italiano "forte d'animo... forte della fede antica e provata de' suoi popoli, forte degli apparecchi legislativi, e dello sperimento del governo consultativo", che sapesse passare da queste premesse a forma di "governo deliberativo". Ammetteva però che si trattasse di "decisione piena di pericoli, feconda di disunioni, distraente dall'impresa d'indipendenza" e perfino "nociva" a questa: che era come giustificare la politica di quel Carlo Alberto, al quale sembrava rivolta l'esortazione or ora citata: e si comprende che un recensore inglese giudicasse l'opera addirittura come ispirata dal sovrano, ed il B. dovesse rispondere ch'egli era invece appena "tollerato", come scrittore, e non certo ufficioso. Un'altra contraddizione, nell'opera del B., fu argutamente rilevata nel noto epigramma del Salvagnoli: dopo aver dato tanto peso all'idea dell'indipendenza nazionale, alla virtù "come mezzo necessario d'indipendenza"; dopo aver condannato senza ambagi gli stranieri "oppressori e corruttori, l'uno e l'altro insieme", poteva sembrare che il B. indulgesse ad un certo fatalismo provvidenzialistico, nel dar tanto peso ad un'occasione storica ch'egli giudicava immancabile, e che voleva s'aspettasse con utopistica "longanimità": la spartizione dell'impero ottomano, e l'inorientarsi inevitabile dell'Austria. Lo stesso B. ricordava nell'appendice V delle Speranze,intitolata L'anno 1846,come "una persona meglio di lui informata della condizione presente dell'impero austriaco" l'avesse criticato in tal senso, suggerendogli di tener conto di un'altra "più probabile speranza", quella dello "sfasciarsi" dell'impero austriaco: e ammettendo il difetto, il B. giungeva ora a tener conto di tale eventualità, e vedeva nei fatti di Galìzia del '46 il "principio della fine" per quell'impero. Ma a dir questo, così recisamente, era mosso anche dall'"atto di resistenza italiana", che definiva "inaspettato" e "non più udito", compiuto allora da Carlo Alberto, e registrato dall'opinione pubblica italiana in modo ugualmente disusato, benché si trattasse soltanto di un "affaruccio diplomatico-doganale austro-sardo". Non voleva predicare odio, ma predicava ormai più apertamente resistenza attiva alle prepotenze austriache, e prevedeva imminenti "occasioni maggiori", e si diceva certo che "il popolo italiano si mostrasse degno di esse, e degno di quella civiltà cristiana che lo circonda" (ediz. 1855, pp. 374-76). Lo incoraggiava pure, in quell'anno fatidico per l'Italia, l'atteggiamento del nuovo papa, di Pio IX, che senz'esser stato "uomo di parte", né "liberale", era già vicino, dopo sei mesi di saggio e benefico governo, a giungere, come sovrano, dove il Gioberti aveva auspicato che un papa italiano giungesse, cioè "al primato della opinione, della potenza italiana"; e poco gli restava a diventare "guida dell'opinione e della civiltà cristiana" come pontefice (pp. 384 ss.). Infine il B. esaltava la straordinaria concordia fra Italiani, già adusati a tante divisioni e contrasti e da questa constatazione un po' idillica prendeva poi lo spunto per esortare i principi italiani a concedere più ampie libertà ai popoli (pp. 375 ss.). Ma in una lettera confidenziale al Gioberti, del 1° nov. 1846, aveva già più realisticamente tenuto conto delle polemiche con lo stesso progredire del movimento d'opinione, e ravvivate dallo stesso Gioberti con la pubblicazione dei Prolegomeni,nei quali attaccava, come è noto, i gesuiti, anzi creava quasi un nuovo mito, per scindere la tradizione cattolica dal supposto gesuitismo. Il B. lo esortava ad acquietare la "tempesta di Gesuiti qui suscitata da lui" e a scrivere un "libro pacificatore" per compiere l'"opera della moderazione", da lui iniziata (Carteggì di V. Gioberti,V, Lettere di illustri italiani,a cura di L. Madaro, Roma 1937, pp. 164-167). Il Gioberti avrebbe pubblicato, invece, il Gesuita moderno...

Nella battaglia condotta dai pubblicisti di parte moderata, fra il '46 ed il '47, il B. aveva intanto gettato un altro scritto di grandissimo rilievo, il Sommario della storia d'Italia. Improvvisato in poco più di quaranta giorni per l'Enciclopedia popolare del Pomba e del Predari, rappresentava però il frutto maturo di molti anni di appassionata meditazione sul passato e sul presente della sua patria: la passione che lo animava, piuttosto morale e politica che propriamente scientifica ed erudita, dava vigore e calore al suo scritto, che non era tanto un'opera di storia, quanto "l'ammonimento di un uomo diritto e saldo, spiritualizzato dalla lunga macerazione, atto perciò ad incidere profondamente nelle coscienze" (N. Valeri, in C. B.Pagine scelte precedute da un saggi0, Milano 1960, p. 45).

Nello stile come nella sostanza, al notato vigore s'accompagnava tuttavia quella monotonia, quel martellamento di assiomi un po' dogmaticamente assunti, di cui doveva parlare B. Croce in alcune pagine critiche sulla storiografia cattolico-liberale. Non per questo si potranno sottovalutare certe istanze contro gli eccessi delle tesi patriottiche, contro le "teorie dell'isolamento"; contro le pretese al primato o a diversi primati; certe riserve di fronte al riformismo autoritario del Settecento "o non bisogna educare i popoli, o bisogna compier loro educazione... non bisogna voler parere, e non esser liberali". Infine, nell'appendice sugli anni dal 1814 al 1849, scritta per la nona edizione del 1852, ma non compiuta, e pubblicata solo nell'edizione decima, postuma, del 1856, troviamo un interessante giudizio sul regno di Carlo Alberto: per un verso, il B. ne onora la memoria dedicandogli il volume, "scritto già tra gli urgenti desideri del gran tentativo di lui, omaggio postumo ora di gratitudine", e definendolo "sommo martire dell'indipendenza", e "somma vittima delle invidie italiane"; ma poi dice che il suo regno era stato caratterizzato da "titubanze continuate fin presso alla fine".

Con le Speranze e col Sommario il B. aveva attinto al punto più alto del suo apostolato etico-politico: ma l'aprirsi di crescenti possibilità di libera discussione pareva moltiplicare le sue forze e risuscitare in lui quella vocazione di pubblicista e di scrittore politico che la censura piemontese aveva soffocato. Fra molti scritti composti in quel periodo di eccezionale fecondità, emergono le Lettere politiche,indirizzate al Farini, e stese fra il dicembre del '46 e l'aprile del '47 (edite in parte nel '47 a Torino, e per intero fra le Lettere di politica e letteratura,cit.). Notevole pure il programma del giornale Il Risorgimento,apparso sul primo numero, il 15 dic. '47, a cui seguivano poi diversi articoli, specie nei primi mesi del '48, e fino alla vigilia della tanto desiderata concessione dello Statuto. Ma già il confronto fra tali articoli e quelli d'altri collaboratori del giomale, da C. Cavour a M. A. Castelli, a R. d'Azeglio, ecc., fa sentire come il B. andasse progressivamente chiudendosi nel guscio del suo dottrinarismo, benché si sforzasse di seguire il moto dell'opinione, e avesse il merito di stimolare in tal senso il titubante Carlo Alberto, ben meno chiaroveggente e sensibile di lui.

Son da vedere, per questo specialmente, le critiche e le esortazioni contenute in un memoriale al re dell'ottobre del '47, riferite in parte dal Ricotti, e stampate per intero da E. Passamonti, in IlRisorgimento Italiano,VI (1913), pp. 763-826: da notare che il B. non osava spingersi fino a chiedere una costituzione. Inoltre va ricordato il rifiuto di far parte di una Commissione superiore di revisione, cioè di censura, rifiuto giustificato con un preciso riferimento alle sue convinzioni liberali, in una lettera pure citata dal Ricotti. In uno scritto del novembre del '47, intitolato Prime parole sulla situazione nuova dei popoli liguri e Piemontesi,e pubblicato prima sull'Antologia italiana,poi in estratto dal Pomba, e infine in appendice alla quinta edizione delle Speranze, ilB. affronta un tema che riprende poi nel primo numero del Risorgimento: le riforme devono tendere a perfezionare l'unione politica e giuridico-amministrativa tra le diverse parti degli Stati italiani, abolendo anche gli organi ed istituti peculiari, i "corpi consultivi diversi". Il B. rivaluta insomma l'accentramento e il livellamento istituzionale, sia pur proponendo di porre nuovi organi rappresentativi al centro come valida garanzia di libertà (nel Risorgimento si raccoglie, però, qualche voce diversamente orientata). Per lo Stato sabaudo, situato a cavallo delle Alpi, e con popoli diversi per lingua e per cultura, il B. avrebbe dovuto tener conto dell'evidente contraddizione fra unità statale-dinastica e unità nazionale, ma egli credeva di risolvere il problema dichiarando nettamente l'opportunità di salvare l'unità dello Stato sabaudo come strumento della nazionalità italiana, appellandosi inoltre a una tradizione di otto secoli di storia comune (Speranze,ed. cit., p. 481).

Quando s'apre la discussione alla Camera dei Pari francese sugli affari d'Italia, nel gennaio del '48, il B. vi dedica tre articoli, e si accosta al Cavour nel giudicare severamente la politica austrofila del Guizot, di cui però si augura "la conversione, non la caduta" (n. 17, del 19 gennaio). Poi concentra la sua attenzione, insieme con M. d'Azeglio, sul problema della costituzione di forti eserciti regolari negli Stati dell'Italia centrale, tenendo però fermo il concetto di un'egemonia militare e quindi politica del Piemonte nell'auspicata confederazione italica: giunge a definire "divino" l'esercito piemontese-italiano! In un articolo del 3 febbraio ammette senz'ambagi che l'annunzio d'una costituzione, dato da Ferdinando di Borbone, il 29 gennaio, "ha instaurato il secondo periodo" e aperto una nuova fase del Risorgimento: si può quindi immaginare con quanto entusiasmo egli commenti poi l'annuncio dello Statuto piemontese, in un ampio articolo del 10 febbraio.

Chiamato da Carlo Alberto a presiedere la commissione che doveva elaborare la legge elettorale, il B. seppe dirigerne e accelerarne l'opera, che fu compiuta in quindici giorni, ed è notevole che, nonostante la fretta, la legge elaborata reggesse poi alla prova del tempo. L'8 marzo Carlo Alberto, subendo a malincuore la necessità di ricorrere a uomini "nuovi", finì per chiamare il B. a comporre il primo ministero costituzionale piemontese, e con lui chiamò un genovese, il marchese Lorenzo Pareto. Questi, insieme al marchese Vincenzo Ricci, pure genovese, creò le prime difficoltà al B., facendo proprie le esigenze di correnti d'opinioni alquanto più avanzate ma piuttosto venate di particolarismo ligure. Il B. seppe respingere quello che pareva umiliante per il governo (la distruzione del forte del Castelletto, o la sua consegna alla Guardia civica), accentuando la già menzionata esigenza di salvare l'unità dello Stato. Per contro, egli accettava la linea di politica estera proposta dal Pareto: conservava però le sue tipiche premesse sull'egemonia militare-politica piemontese nella lega con gli altri principi italiani, definendola come "una specie di protettorato di fatto", e giustificandola con il maggior onere che lo Stato sabaudo assumeva nel difendere tutti gli altri, con forze più numerose e meglio organizzate. Nella politica interna, il B. si pronunciava contro ogni revisione dello Statuto, ma faceva suo il principio derivato dalla tradizione costituzionale inglese, dell'onnipotenza parlamentare (da non confondere col parlamentarismo più avanzato). Il Parlamento doveva essere immediatamente convocato. Avrebbe voluto che il Gioberti entrasse nel ministero, ma Carlo Alberto s'oppose. Fu questa una seconda ragione di debolezza del ministero: la questione della fusione della Lombardia col Piemonte, e l'ostilità del B. all'idea d'una Costituente, anche se rinviata a data incerta, contribuì ad aggravare i dissidi fra il B. e i suoi colleghi, nel maggio. Quando poi fu riunito il Parlamento (dal 9 maggio), il B. vi dovette rappresentare il ministro della Guerra, Franzini, ch'era al campo, mentre paradossalmente sospirava un'occasione di abbandonare egli stesso il suo posto per combattere (ma un suo breve intervento sul fronte, a fine aprile, doveva invece accentuare i sospetti che nutriva contro di lui il capo del governo provvisorio di Milano, Gabrio Casati, come risulta dal carteggio di quest'ultimo col conte C. di Castagnetto).

Quando nacquero i primi dubbi e dissapori sulla condotta della guerra, sulla quale il B. non aveva mai potuto influire, parve ch'egli fosse troppo indulgente, troppo preoccupato di giustificare tutto e tutti. Allora egli sentì che il ministero da lui presieduto apparteneva alla categoria deteriore dei "governi di coalizione"; e si manifestò anche la sua incapacità di "superare il dissidio fra interessi sabaudi e interessi nazionali, fra orgoglio del primato subalpino e fede nella patria comune, fra ragion di stato e guerra di popolo... fra indipendenza imposta dai Piemontesi e indipendenza conquistata dagli Italiani" (N. Valeri, C. B. Pagine scelte...,cit., p. 38), e toccò ai giobertiani quel compito di mediazione fra radicali democraticheggianti e difensori della politica dinastico-piemontesista, che il B. non aveva saputo assolvere. Il B. aveva chiesto di dimettersi due volte, fin dal maggio, poi insistette insieme a tutti i colleghi: "rimanemmo dimissionari agonizzanti, impotenti un altro mese e mezzo", annotava in una prefazione ai Saggi sul governo rappresentativo in Italia, del '49-'50; anche questa situazione ambigua, di cui il B. doveva portare il peso, era un frutto dell'ambiguo atteggiamento del re, che in sostanza continuava a procedere autocraticamente, disdegnando di consigliarsi con i ministri costituzionali. La caduta del ministero avvenne poi il 26 luglio 1848.

Il B. restava in Parlamento come semplice deputato, eletto dal collegio di Chieri, poi dal 2° collegio di Torino nella terza e quarta legislatura, e, accettando con coraggio, dopo il favore dell'opinione, l'impopolarità nata dalle speranze cadute, riprendeva inflessibilmente le sue tesi guelfe e conservatrici.

Nella tornata del 28 febbr. 1849 si alzava a difendere il potere temporale dei papi, dichiarando, però, che "in teoria la potenza temporale... non è per nulla necessaria alla religione cattolica". Il 17 genn. 1850 presentava la relazione sul trattato di pace coll'Austria, a nome della commissione parlamentare a ciò delegata. Poco più tardi, il 25 febbraio, si opponeva alla legge per l'abolizione del foro ecclesiastico proposta dal ministero d'Azeglio, dichiarando che "non si può, non si deve mutare [un diritto], se non col consenso, con l'accordo di chi ne è materialmente in possesso". Il 29 giugno 1852 avrebbe ancora fatto opposizione ad una proposta di legge sul matrimonio civile, affermando che, senza prender posizione sul diritto dello Stato di statuire in materia, non gli sembrava comunque opportuno che se ne ingerisse, sostenendo così implicitamente che convenisse non innovare in tal campo. Fu tacciato, per queste prese di posizione, di spirito retrivo.

Un aspetto invece più modemo, più liberale, delle sue convinzioni politiche era apparso chiaro nella missione che aveva accettato dallo stesso ministero d'Azeglio, di recarsi come mediatore presso Pio IX, a Gaeta, nel maggio-luglio del '49: aveva invano tentato di "persuadere Pio IX e il suo ministro di fare come noi, di tenersi stretto allo Statuto da lui dato".

Notevoli gli scritti che il B. riuscì ancora a stendere in quegli ultimi tre anni di vita, benché fosse tornato da Gaeta quasi cieco (Ricotti, p. 283). Alludiamo soprattutto ai già citati saggi sul governo rappresentativo, ed allo scritto incompiuto Della politica nella presente civiltà,che emergono fra cose minori ed abbozzi di quest'epoca e che furono poi raccolti sotto il titolo Della monarchia rappresentativa in Italia (Firenze 1857). Curiosamente, il B. giungeva allora, dopo il fallimento dell'impresa d'indipendenza, che attribuiva principalmente alle distrazioni e alle discordie generate dalle inopportune ambizioni di libertà e di unità, a rivalutare il momento della libertà.

Scriveva: "ora è tempo di ripigliare l'opera della nostra libertà, di ordinarla, di assodarla, di radicarla, di farla universalmente accetta e forte in Italia" per creare una nuova piattaforma all'indipendenza futura (prefaz. cit., edita in Della monarchia rappresentativa..., cit., p. 9). Più che mai metteva in guardia gli Italiani contro l'egocentrismo nazionale, e additava all'Italia la via dell'Europa: "Moderiamo la nostra stolta ambizione! Limitiamola ad entrare, quasi onesta famiglia in una città, onesta nazione nella grande repubblica europea". In tal modo poneva un limite alla retorica dei giobertiani e dei radicali democraticheggianti, e lasciava un'eredità viva alla scuola politica moderata e costituzionale: altrettanto vigorosamente antiretorica la proposta da lui fatta alla Camera, in sede di discussione della ratifica al trattato di pace coll'Austria. Proponeva di approvarlo "senza discussione, ma colla sola protesta del silenzio". La proposta fu tuttavia respinta.

Un ultimo episodio di politica attiva veniva a turbare le meditazioni del B., precocemente invecchiato, anzi consumato da tante esperienze dolorose, da tante difficoltà: al cadere dei ministero d'Azeglio, nell'ottobre del '52, egli fu richiesto ancora da Vittorio Emanuele II, perché formasse una nuova compagine ministeriale. Il B. volle anzitutto avere il Rével alle Finanze, ed era incline persino a cedergli la presidenza del Consiglio, poi interpellò il Cavour, ma mentre il Rével prevedeva di non trovar sufficiente appoggio nella Camera dei deputati, il Cavour notava che un avvicinamento fra il B. e lui avrebbe avuto effetti politici negativi. Il B. finì per declinare l'incarico, e continuò ad intervenire in parlamento, come deputato, fino ai primi del '53 (il 12 gennaio diede chiarimenti sull'episodio or ora riferito, il 7 febbraio disse ancora qualche parola per regolare la discussione). Il 3 giugno del 1853 morì a Torino.