Discorso sulla presentazione del volume 'Rifare l’Italia!' di Filippo Turati

Gaetano Arfé

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Ho sentito per la prima volta il nome di Filippo Turati nella mia remota infanzia quando mio padre, visibilmente commosso, mi annunciò che era morto in Francia un uomo grande e buono che aveva lottato per tutta la vita per aiutare i poveri. Parecchi anni dopo mi mise tra le mani delle annate di "Critica Sociale" religiosamente conservate nella sua biblioteca e le scorsi con fievole impegno e con scarso interesse.

Mi appassionò, invece, per lucidità di pensiero, per il vigore dell'oratoria, per l'ironia, sempre pungente e mai malevola della quale infiorava i suoi interventi, la lettura dei suoi discorsi, apparsi a cura di Rodolfo Mondolfo, di cui io stesso, per ordine di Giuseppe Faravelli e in collaborazione con Mondolfo curai una seconda frettolosa edizione pubblicata da Morano in occasione dell'unificazione socialista del 1966 e una terza, più accurata, per l'editore Lacaita promossa dalla Fondazione Turati. Fu per fedeltà postuma alla sua persona che nel 1947 seguii Saragat nella sua scissione e lo lasciai dopo un anno perché mi parve che, al di là della buona volontà e della sincerità degli intendimenti dei protagonisti della operazione, Turati in quel partito non fosse di casa.

Che nella mia decisione ci fosse una carica di giovanile e intollerante inquietudine è probabilmente vero, ma è anche vero che il fedele più fervente di Filippo Turati, che con guido Mondolfo aveva ridato vita alla "Critica Sociale", Giuseppe Faravelli, finì col trovarsi emarginato dal partito e alla fine lo abbandonò. Rientrato nella "casa madre", il partito socialista italiano, dovetti prendere atto che lì Turati era stato relegato in soffitta e la porta era stata rudemente sprangata. Il mio "turatismo" ebbe modo di manifestarsi solo nel 1956, quando per effetto del XX congresso di Mosca, quello del "rapporto Krusciov" entrarono in crisi gli schemi ideologici di marca comunista dentro i quali era stata mortificata e compressa la storia del socialismo italiano.

Scrissi allora per la "Rivista Storica del Socialismo" al suo primo numero un articolo assai frettoloso e assai polemico, intitolato"Giudizi e pregiudizi su Filippo Turati", che non si levava alla superiore serenità della storia e che fece scoppiare il putiferio nella redazione per un malizioso raffronto tra il patriottismo neutralista di Turati e il combattentismo di Togliatti, raffigurato in un manifesto da divisa di alpino. Da allora molte volte sono ritornato sulla figura di Turati e non ho difficoltà ad ammettere che, al di là del giudizio storico, il mio sentimento di ammirata devozione si è rafforzato: a costo di ricorrere a una espressione contaminata dal maluso, direi che, di fronte a tutti i grandi eventi della storia d'Italia da lui vissuti, Turati ebbe sempre ragione.

Turati ebbe ragione quando sul calare del secolo, collegandosi al grande filone del socialismo europeo di cui la Germania era il faro, contro i dottrinari e gli agnostici, fece nascere il partito socialista in Italia ed ebbe ragione quando nella crisi di fine secolo, fitta di persecuzioni e segnata di morti - egli stesso si ebbe una condanna a dodici anni di reclusione e in galera finì anche Anna Kuliscioff - egli elaborò una linea che era di difesa dell'autonomia del giovane partito, ma anche rifiuto dell'isolamento che collocò i socialisti nel cuore della vasta alleanza che rese possibile la svolta giolittiana. Turati ebbe ragione quando condannò l'impresa libica e la definì una guerra contro l'Italia. I motivi ideali e dottrinali della sua opposizione si caricano di quel realismo politico che non è cinico adeguamento a una realtà deterministicamente vista come priva di alternative. La guerra darà una scossa al precario equilibrio internazionale, disperderà e distruggerà risorse di cui il paese è povero, esalterà le correnti nazionalistiche, antiparlamentari e antiliberali emergenti nel paese, farà entrare nel costume l'accettazione della crudeltà e della violenza. "Da voi ci divide il ribrezzo", dirà a commento delle fotografie degli arabi impiccati.

Turati ha ragione quando si oppone all'intervento dell'Italia in guerra. Anche questa volta le ragioni dell'etica e della dottrina si fondono con quelle della politica. Le sue simpatie vanno all'Inghilterra liberale e alla Francia repubblicana, ma gli riesce difficile credere che esse siano scese in campo, sacrificando vite umane e ricchezze, per difendere l'autonomia e la libertà dei popoli a fianco del più reazionario e spietato regime d'Europa, la Russia zarista, nota e denuncia che l'intervento reclamato quale evento liberatorio anche da amici a lui cari, è stato imposto da una minoranza facinorosa che ha mobilitato con crescente audacia la piazza a una maggioranza neutralista - socialisti, cattolici, giolittiani - vibrando così un duro colpo, destinato a lasciare il segno, alla sovranità del parlamento. Respinge con fermezza la tesi, già intrisa di fascismo nascente, che l'interventismo sia l'equivalente del patriottismo, ma alla tenuta del fronte interno dà un apporto di decisiva importanza schierandosi con le organizzazioni sindacali e le amministrazioni rosse - esemplare il caso della Bologna di Zanardi - che difendono e assistono le classi più colpite dalla guerra, si oppongono al rincrudimento delle ingiustizie sociali volute da "padroni del vapore", favorite dalla militarizzazione del regime di fabbrica. Il suo discorso dopo Caporetto "Anche la nostra patria è sul Grappa" raggiunge le trincee. Il testo che in questa sede si ricorda e si commenta ha dietro di sé questa storia.

Carlo Lacaita, corredandolo di preziose note, ne ha magistralmente illustrato la genesi, il contenuto, la collocazione nella storia del socialismo italiano e del paese, ne ha posto in luce la straordinaria lucidità di analisi politica, la eccezionale modernità rispetto ai tempi. L'incubazione del discorso è lunga - se ne possono trovare i primi segni negli anni di guerra nei rapporti di Turati con la Confederazione Generale del Lavoro - ed il frutto di una collaborazione dove parecchi sono i consiglieri, ma dove la spinta, insistentemente ripetuta, politicamente e appassionatamente, motivata viene ancora una volta da Anna Kuliscioff e dove le proposte concrete e documentate vengono da Angelo Omodeo, un ingegnere, tecnico di altissimo livello, legato da affettuosa devozione a Anna e Filippo. Turati vi porta le sue riflessioni, le conoscenze e le esperienze maturate nella direzione della sua rivista e nell'aula di Montecitorio, dà al discorso la sua inconfondibile impronta, imprimendogli il respiro di chi conosce il peso del passato ma sa proiettarsi nell'avvenire. Prima di questa edizione destinata a trovare un posto di rilievo nella storiografia socialista, il testo di "Rifare l'Italia" era stato più volte riprodotto a partire dal momento in cui era stato pronunciato ma ne era stata fin qui sottovalutata la novità - un articolato programma di governo presentato alla Camera dal maggior parlamentare socialista, più ancora, non ne erano stati colti gli stimoli che ne vengono all'allargamento e all'arricchimento della problematica storiografica relativa al primo dopoguerra. La premessa, fermissima, pregiudiziale, dalla quale Turati è che la guerra - l'orrendo "misfatto" della guerra - ha creato le condizioni economiche, sociali, politiche, psicologiche, per le quali non è più possibile ritornare alle pratiche del passato. la borghesia non è più in grado di governare secondo i suoi metodi tradizionali, il proletariato non ha la forza e la maturazione necessarie per sperimentare i suoi.

Il suo alter ego, Claudio Treves, lo aveva già detto e aveva concluso con una frase che ha l'ineluttabilità della profezia: è l'ora dell'espiazione. Turati, per atto di volontà più che di fede non vuole crederci: così, egli commenta, si può chiudere un dramma, non si chiude il cammino della storia. Il suo tentativo è rivolto a fare in modo che il peso della espiazione non ricada sugl'innocenti. E' questo il senso del suo discorso ed è questo spirito che ne fa - a prescindere dal merito - un capolavoro di oratoria parlamentare senza precedenti che io ricordi nell'aula di Montecitorio. C'è un'analisi politica finissima, ravvivata dall'ironia, del trapasso da Nitti a Giolitti, dove si trovano, sui due personaggi, spunti di giudizi che hanno validità storica; c'è, ricorrente, sullo sfondo, la visione della realtà di un paese squassato dalla guerra e percorso da un'ondata massimalistica, che è fenomeno non limitato al partito socialista perché esiste e imperversa una sorta di massimalismo di destra, una demagogia reazionaria e anche di governo, che opera più a fondo ed è assai più nefasta; c'è la consapevolezza degli effetti negativi di cui anche l'Italia risente di una situazione internazionale che è di pace senza pace. In questo quadro i problemi dell'Italia da rifare ci sono tutti, puntuali, concreti, articolati in proposte: risanare la finanza e sviluppare l'economia colpendo i capitali di speculazione e di rapina, ma soprattutto - è questa l'intuizione nuova - coinvolgendo nell'opera di ricostruzione la scienza, quella vera della quale il suo amico Omodeo è vivente esempio - per promuovere lo sfruttamento razionale di tutte le risorse naturali del paese, le acque per produrre energie, le paludi da bonificare, i latifondi incolti da mettere a frutto, il Mezzogiorno da risanare, la rete ferroviaria. Il discorso si conclude con una nota tipicamente turatiana, col richiamo a uno scritto di Cavour del 1847 su "Les Chemins de fer en Italie" e con un ironico, garbato rimpianto che non sia lui a sedere al posto di Giolitti. La chiusa non ha accenni solenni. Si ha l'impressione che egli abbia parlato "a futura memoria", che in cuor suo, inconfessatamente, egli si aspetti, come l'amico Treves che scocchi l'ora dell'espiazione.

Ancora una volta Turati aveva ragione, ma non gliela riconobbe neanche il consiglio direttivo del suo gruppo parlamentare il quale non consentì che l'ordine del giorno nel quale venivano sintetizzate le sue proposte fosse sottoposto al voto della Camera. Gliela riconobbe tardivamente, ormai in sede storica un uomo della levatura intellettuale e morale di Umberto Terracini, allora tra i giovani capi della frazione comunista che si batteva per l'espulsione di lui e della sua corrente dal partito. Turati, egli disse, aveva ragione. L'ultima occasione di aver ragione Turati la colse nella ultima fase della sua esistenza quando, evaso dall'Italia grazie a Carlo Rosselli e Ferruccio Parri, a Sandro Pertini e ai loro amici, in terra d'esilio, lanciò, argomentandolo e motivandolo, il monito alla democrazia e alla socialdemocrazia d'Europa che il fascismo non era un deteriore fenomeno di folklore politico di un popolo arretrato ma l'espressione di una tendenza del capitalismo operante su scala europea che minacciava la libertà e la pace di tutti i popoli. Turati non era un profeta e se ebbe ragione fu per le sue doti altissime di moralità e d'ingegno ma anche perché egli fu maestro di una cultura, il marxismo filtrato attraverso il positivismo umanitario lombardo ma conservandone il nerbo dialettico che mancò ai dottrinari e agli ortodossi che contro di lui si levarono. Mi hanno insegnato e ho insegnato che la storia non si scrive con i se e che non conosce i torti e le ragioni. Ma il gioco dei "se" può giovare a capir meglio la storia nella sua perenne dialetticità, a identificare la responsabilità e a onorare le grandezze degli uomini, e mi provo a immaginare una storia d'Italia e d'Europa quale sarebbe stata se le ragioni di Turati fossero state riconosciute per tempo e si fossero tradotte in atti e in fatti. Lo dico, e ne chiedo venia come della fantasia senile di chi ha praticato il mestiere di storico nel rispetto della verità, col rigore del metodo, ma anche con una passione civile trasmessagli anch'essa dai suoi maestri e alla quale resta fedele.