(1878)
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1878/antiduhring/index.htm
Trascritta per Internet da Dario Romeo, Settembre-Ottobre 1999
Prefazioni
Alla prima edizione (1878)
Alla seconda edizione (1885)
Alla terza edizione (1894)
Introduzione
I Considerazioni generali
II Che cosa promette il signor Dühring
Prima sezione: Filosofia
III: Suddivisione: Apriorismo
IV: Schematizzazione del mondo
V: Filosofia della natura. Tempo e
spazio
VI: Filosofia della natura. Cosmogonia,
fisica, chimica
VII: Filosofia della natura. Mondo organico
VIII: Filosofia della natura. Mondo organico
(conclusione)
IX: Morale e diritto. Verità eterne
X: Morale e diritto. Eguaglianza
XI: Morale e diritto. Libertà e
necessità
XII: Dialettica. Quantità e
qualità
XIII: Dialettica. Negazione della negazione
XIV: Conclusione
Seconda Sezione: Economia
Politica
I: Oggetto e metodo
II: Teoria della violenza
III: Teoria della violenza
(continuazione)
IV: Teoria della violenza (conclusione)
V: Teoria del valore
VI: Lavoro semplice e lavoro composto
VII: Capitale e plusvalore
VIII: Capitale e plusvalore (continuazione)
IX: Leggi naturali dell'economia. Rendita
fondiaria
X: Dalla "Storia critica"
Terza Sezione: Socialismo
I: Cenni storici
II: Elementi teorici
III: Produzione
IV: Distribuzione
V: Stato, famiglia, educazione
Prefazione alla prima edizione (1878)
Il seguente lavoro non è affatto il frutto di un "impulso
interiore". Al contrario.
Quando tre anni or sono tutto ad un tratto il sig. Dühring,
nella sua qualità di neofita e ad un tempo di riformatore
del socialismo, sfidò a battaglia il suo secolo, in
Germania alcuni amici mi fecero ripetutamente sentire il loro
desiderio che io esaminassi criticamente questa nuova teoria
socialista nell'organo centrale del partito socialdemocratico, che
era allora il "Volksstaat" [2]. Essi ritenevano che la cosa fosse
assolutamente necessaria, se non si voleva dare di nuovo occasioni
a scissioni settarie e a confusione nel partito ancora così
giovane e che aveva proprio allora appena raggiunto la sua
definitiva unificazione. Essi erano in condizione di giudicare la
condizione in Germania molto meglio di me, ed io ero quindi in
dovere di aver fede in loro. Inoltre si vedeva che una parte della
stampa socialista aveva dato al neofita il suo benvenuto con un
calore che certo valeva solo per la buona volontà di
Dühring, ma che nello stesso tempo lasciava scorgere anche,
in questa parte della stampa del partito, la buona volontà
di accettare ad occhi chiusi, proprio in conto di questa buona
volontà di Dühring, anche la sua dottrina. C'era anche
della gente che già si accingeva a diffondere tra gli
operai questa dottrina resa in una forma più popolare. E
finalmente Dühring e la sua piccola setta impiegavano tutte
le arti della réclame e dell'intrigo per costringere il
"Volksstaat" a pendere una posizione decisa di fronte alla nuova
dottrina che si presentava con pretese così imponenti.
Tuttavia c'è voluto un anno per potermi decidere,
trascurando altri lavori, e prendere questa gatta da pelare. Era
proprio una faccenda che, una volta affrontata, doveva essere
portata fino in fondo. E non era solo molto spiacevole, ma anche
molto grossa. La nuova teoria socialista si presentava come
l'ultimo frutto pratico di un nuovo sistema filosofico. Si
trattava quindi di esaminarla in connessione con questo sistema e,
di conseguenza, di esaminare il sistema stesso: si trattava di
seguire Dühring in quel vasto campo in cui egli tratta di
tutte le cose possibili e di altre ancora. Così ebbe
origine una serie di articoli che dal principio del 1877 sono
apparsi nel "Vorwärts" di Lipsia, succeduto al "Volksstaat",
e che si presentano qui in un tutto unico.
Così proprio la natura dell'oggetto stesso ha costretto la
critica ad un'ampiezza che è assolutamente sproporzionata
al contenuto scientifico di questo oggetto, cioè degli
scritti dühringiani. Ma anche altre due circostanze possono
giustificare quest'ampiezza. Da una parte essa mi ha dato la
possibilità di sviluppare positivamente nei campi
diversissimi, che qui devono essere toccati, il mio modo di vedere
su punti controversi che oggi hanno un vasto interesse scientifico
o pratico. Ciò è accaduto in ogni singolo capitolo
e, per quanto poco io possa avere il fine di contrapporre un altro
sistema al "sistema" di Dühring, è sperabile tuttavia
che al lettore non sfuggirà il nesso interno nelle opinioni
che io sostengo. E già ora ho prove sufficienti che il mio
lavoro, sotto questo riguardo, non è stato completamente
infruttuoso.
D'altra parte il "creatore di sistema" Dühring non è
un fenomeno isolato nella Germania del tempo presente. Da qualche
tempo in Germania i sistemi di cosmogonia, di filosofia della
natura in generale, di politica, di economia, ecc., spuntano come
i funghi a dozzine dalla sera alla mattina. Ormai l'ultimo
dottorello in filosofia, e perfino lo studente, non si accinge a
qualcosa che non sia meno di un "sistema" compiuto. Come nello
Stato moderno si presume che ogni cittadino sia maturo per
giudicare su tutte le questioni sulle quali deve votare; come in
economia si suppone che ogni consumatore sia un profondo
conoscitore di tutte le merci che si trova a dover acquistare per
il suo sostentamento, analogamente ora ci si deve comportare anche
nella scienza. Libertà scientifica significa che si scrive
su tutto ciò che non si è appreso, e questo si
spaccia per l'unico metodo rigorosamente scientifico. Ma
Dühring è uno dei tipi più caratteristici di
questa invadente pseudoscienza che al giorno d'oggi in Germania si
spinge dappertutto in prima linea e che soverchia ogni voce con le
sue chiassose sublimi sciocchezze. Sublimi sciocchezze in poesia,
in filosofia, in politica, in economia, in storiografia; sublimi
sciocchezze dalla cattedra e alla tribuna, sublimi sciocchezze
dappertutto; sublimi sciocchezze con la pretesa ad una
superiorità e ad una profondità di pensiero che le
distingue dalle sciocchezze semplici, piattamente volgari di altre
nazioni; sublimi sciocchezze: è questo il prodotto
più caratteristico e più abbondante dell'industria
intellettuale tedesca, a buon mercato ma cattivo, proprio come
altri manufatti tedeschi accanto ai quali, disgraziatamente, non
era stato esposto a Filadelfia [3]. Perfino il socialismo tedesco,
specialmente dopo il buon esempio di Dühring, si è
messo di recente a produrre in misura assai cospicua sublimi
sciocchezze e lancia uno dopo l'altro individui si
ringalluzziscono in una "scienza" della quale "in realtà
non hanno imparato niente" [4]. È questa una malattia
infantile che rileva l'incipiente conversione dell'uomo di studio
tedesco alla socialdemocrazia ed è inseparabile da essa, ma
che sarà certo superata dalla natura notevolmente sana dei
nostri operai.
Non è stata colpa mia se ho dovuto seguire il sig.
Dühring in campi dei quali io posso muovermi tutt'al
più con le pretese che può avere un dilettante. In
tali casi mi sono quasi sempre limitato a contrapporre alle
affermazioni false o storte del mio avversario i fatti precisi e
incontestati. Così è avvenuto nella scienza
giuridica e in parecchi casi della scienza della natura. In altri
casi si tratta di visioni generali della scienza teorica della
natura, e quindi di un terreno in cui anche il naturalista di
professione deve oltrepassare la sua specialità e invadere
campi collaterali, campi nei quali, secondo la confessione di
Virchow [5], anche lo specialista è altrettanto
"superficiale" quanto noi altri. È sperabile che anche a me
sarà accordata, per piccole imprecisioni e impacci di
espressione, la stessa indulgenza che ci si usa vicendevolmente in
questi campi.
Sul punto di chiudere questa prefazione mi perviene un annunzio
libraio, stilato da Dühring, di una nuova opera "decisiva" di
Dühring: "Nuove leggi fondamentali di fisica razionale e
chimica razionale". Ora, per quanto io sia consapevole anche della
deficienza delle mie conoscenze di fisica e di chimica, credo
tuttavia di conoscere il mio Dühring e perciò di avere
il diritto di dire in anticipo, senza aver mai visto il lavoro
stesso, che le leggi di fisica e di chimica che qui vengono poste
in campo, quanto a fraintendimenti e luoghi comuni, troveranno
degnamente posto accanto alle leggi di economia, di figurazione
schematica del mondo ecc. precedentemente scoperte dal
Dühring ed esaminate nel mio lavoro, e che il rigometro, o
strumento per la misurazione temperature estremamente basse,
costruito da Dühring, servirà come misura non di
temperature alte o basse, ma unicamente e solamente dell'ignorante
arroganza del sig. Dühring.
Londra, 11 giugno 1878
Prefazione alla seconda edizione (1885)
Non mi aspettavo che il seguente scritto dovesse uscire in una
nuova edizione. Il soggetto che esso critica è oggi in
pratica già dimenticato; lo scritto stesso non solo ha
avuto molte migliaia di lettori quando nel 1877 e nel 1878
uscì a puntate nel "Vorwärts" di Lipsia, ma è
stato anche stampato integralmente e separatamente in un'edizione
a forte tiratura. Come può allora interessare ancora a
qualcuno ciò che anni fa io ebbi a dire di Dühring.
In primo luogo forse io sono debitore di tutto ciò alla
circostanza che questo scritto, come in generale quasi tutti i
miei scritti che in quel tempo erano ancora in circolazione, fu
proibito nell'impero tedesco immediatamente dopo la promulgazione
della legge contro i socialisti [6]. L'effetto di questa misura
doveva esser chiaro a chi non era inchiodato ai pregiudizi
burocratici ereditario dei paesi della Santa Alleanza: smercio
raddoppiato e triplicato dei libri proibiti, rivelazione
dell'impotenza dei signori di Berlino che promulgano divieti e non
possono farli osservare. In effetti l'amabilità del governo
imperiale mi frutta più edizioni nuove dei miei scritti
minori di quante io me ne possa accollare; non ho quindi il tempo
di rivedere convenientemente il testo e sono costretto a farlo
semplicemente ristampare quasi invariato.
Ma si aggiunge a ciò ancora un altra circostanza. Il
"sistema" di Dühring, che qui io critico, si diffonde su un
campo teorico molto vasto; sono stato quindi obbligato a seguirlo
dappertutto e a contrapporre alle sue le mie concezioni. La
critica negativa è di conseguenza diventata positiva; la
polemica si è trasformata in un'esposizione più o
meno unitaria del metodo dialettico e della visione comunista del
mondo rappresentati da Marx e da me, e ciò in una serie
piuttosto ampia di campi. Da quando con la "Miseria della
filosofia" di Marx e col "Manifesto dei comunisti" questa nostra
maniera di vedere le cose si presentò per la prima volta
pubblicamente, essa ha subito un periodo di incubazione di venti
anni buoni sino a che, da quando è stato pubblicato "Il
Capitale", ha conquistato con rapidità crescente circoli
sempre più vasti ed ora trova attenzione e seguito molto al
di là dei confini dell'Europa, in tutti i paesi in cui ci
sono da una parte dei proletari e dall'altra dei teorici
spregiudicati della scienza. Sembra dunque che ci sia un pubblico
il cui interesse per la cosa è sufficientemente grande per
sorbirsi la polemica, per molto riguardi oggi priva di contenuto,
contro le posizioni dühringiane, per amore degli sviluppi
positivi che l'accompagnano.
Noto di passaggio che, poiché la maniera di vedere le cose
qui sviluppata per la massima parte è stata fondata e
sviluppata da Marx e solo in minima parte da me, si intende che la
mia esposizione non poteva aver luogo senza che egli ne fosse a
conoscenza. Prima di darlo alle stampe gli lessi tutto il
manoscritto, e il decimo capitolo della sezione riguardante
l'economia ("Della "storia critica"") è scritto da Marx e
io ho dovuto solo, per considerazioni estrinseche, con mio
rincrescimento, abbreviarlo un poco. Da sempre è stata
appunto nostra consuetudine prestarci vicendevolmente aiuto quando
si trattava di materie specialistiche.
La presente nuova edizione è, ad eccezione di un capitolo,
una ristampa invariata della precedente. Anzitutto mi è
mancato il tempo di una revisione radicale, per quanto desiderassi
cambiare varie cose nell'esposizione. Inoltre ho il dovere di
preparare per la stampa i manoscritti lasciati da Marx e questo
è molto più importante di ogni altra cosa. D'altra
parte la mia coscienza si oppone ad ogni correzione. Lo scritto
è infatti una polemica ed io credo di essere in dovere
verso il mio avversario di non apportare nessun miglioramento da
parte mia dato che nessun miglioramento egli può apportare.
Io potevo solo accampare il diritto di replicare alla risposta di
Dühring. Ma non ho letto, e non leggerò, a meno che
non ci sia un motivo particolare, ciò che Dühring ha
scritto sul mio attacco: con lui, per quanto riguarda la teoria,
l'ho finita. Del resto tanto più devo osservare nei suoi
confronti le regole di convenienza delle lotte letterarie, in
quanto dopo di allora egli è stato vittima di una
vergognosa ingiustizia da parte dell'Università di Berlino.
In verità essa ne è stata punita.
Un'università che, nelle circostanze note, si presta a
togliere a Dühring la facoltà di insegnare, non
può meravigliarsi se nelle circostanze parimenti note, le
si impone il sig. Schweninger [7].
Il solo capitolo nel quale mi sono permesso di aggiungere
delucidazioni è il secondo della terza sezione, intitolato
"Elementi teorici". In questo capitolo si tratta unicamente e
solamente dell'esposizione di un punto centrale della concezione
da me rappresentata, e il mio avversario non potrà
lamentarsi se ho cercato di parlare in una forma più
popolare e di completarne il contesto. E questo fatto ha avuto in
verità un motivo estrinseco. Avevo infatti rielaborato tre
capitoli dell'opera (il primo dell'introduzione e il primo ed il
secondo della terza sezione) per il mio amico Lafargue in vista di
una traduzione francese da pubblicarsi in opuscolo indipendente, e
dopo che l'edizione francese era servita come base per un'edizione
italiana ed una polacca, avevo curata un'edizione tedesca dal
titolo "L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza".
Essa, in pochi mesi, ha avuto tre edizioni ed è apparsa
anche tradotta in russo e in danese. In tutte queste edizioni
soltanto il capitolo in questione aveva avuto delle aggiunte e
sarebbe stato da pedante se nella nuova edizione dell'opera
originale io mi fossi voluto attenere al testo originario di
fronte alla sua forma più recente, divenuta internazionale.
Per altro, ciò che avrei voluto modificare si riferisce
principalmente a due punti. Il primo riguarda la storia primitiva
dell'umanità, della quale solo nel 1877 Morgan ci ha
fornito la chiave. Ma poiché dopo di allora ho avuto
occasione di rielaborare il materiale, che frattanto mi era
diventato accessibile, nel mio scritto "L'origine della famiglia,
della proprietà privata e dello Stato", Zurigo 1884,
basterà rinviare a questo più recente lavoro.
Il secondo punto concerne la parte che tratta della scienza
teorica della natura. Qui domina un'esposizione grandemente
impacciata e parecchie cose potrebbero essere espresse con
più chiarezza e precisione. Se non mi attribuisco il
diritto di apportare delle correzioni a questa parte, appunto per
questo sono in dovere invece di criticare qui me stesso.
Marx ed io siamo stati pressappoco i soli a salvare dalla
filosofia idealistica tedesca la dialettica consapevole e a
trasferirla nella concezione materialistica della natura e della
storia. Ma per una concezione dialettica ed allo stesso tempo
materialistica della natura è necessario conoscere la
matematica e le scienze naturali. Marx aveva solide cognizioni di
matematica, ma le scienze naturali le potevamo seguire solo
parzialmente, saltuariamente, sporadicamente. Perciò,
quando col mio ritiro dalla mia azienda commerciale ed il mio
trasferimento a Londra [8], ne ebbi il tempo, nella misura in cui
mi fu possibile mi sottoposi ad una compiuta "muda" matematica e
scientifica, come la chiama Liebig [9], e vi consacrai la parte
migliore di otto anni. Ero precisamente nel bel mezzo di questo
processo di muda, quando mi si presentò l'occasione di
occuparmi della cosiddetta filosofia della natura di Dühring.
È quindi fin troppo naturale che più di una volta io
non trovi l'esatta espressione tecnica e che mi muova in generale
con una certa goffaggine nel campo della scienza teorica della
natura. Ma d'altra parte la coscienza di non avere ancora vinta la
mia incertezza in questo campo mi ha reso cauto. Non mi si
potrà accusare di vere trasgressioni per quel che concerne
i fatti allora noti né di una esposizione inesatta delle
teorie allora accettate. A questo riguardo soltanto un grande
matematico misconosciuto si è lamentato per lettera con
Marx che io abbia criminosamente intaccato l'onore della
[10].
Va da sé che in questa mia ricapitolazione della matematica
e delle scienze naturali si trattava di convincere me stesso,
anche nei particolari singoli - cosa della quale, su un piano
generale, per me non c'era alcun dubbio - che nella natura sono
operanti, nell'intrico degli innumerevoli cambiamenti, quelle
stesse leggi dialettiche del movimento che anche nella storia
dominano l'apparente accidentalità degli avvenimenti;
quelle stesse leggi che, costituendo del pari il filo conduttore
della storia dello sviluppo del pensiero umano, diventano
gradualmente note agli uomini che pensano; leggi che per la prima
volta furono sviluppate da Hegel in maniera comprensiva, ma in
forma mistificata, e che è stato uno dei nostri intenti
liberare da questa forma mistica e rendere chiaramente
comprensibili in tutta la loro semplicità e universale
validità. S'intende che la vecchia filosofia della natura -
per quanto essa contenga qualcosa di realmente buono e dei germi
fecondi [11] - non poteva soddisfarci. Come sarà
ulteriormente spiegato in questo libro, la sua deficienza, e
specialmente nella forma che le fu data da Hegel, consisteva nel
fatto che essa non riconosceva nessuno sviluppo della natura nel
tempo nessuna "successione", ma solo una "giustapposizione".
Questa deficienza deriva il suo fondamento da una parte dello
stesso sistema hegeliano, che attribuiva uno sviluppo storico
progressivo solamente allo "spirito", ma d'altra parte anche nelle
condizioni complessive delle scienze della natura in quel periodo.
Così Hegel in questo punto ricadde in posizioni
notevolmente arretrate rispetto a Kant, che con la sua teoria
della nebulosa aveva già proclamato la nascita del sistema
solare e con la scoperta dell'ostacolo opposto dalla marea alla
rotazione terrestre ne aveva già proclamata anche la morte
[12]. E finalmente per me non poteva trattarsi di costruire le
leggi dialettiche introducendole nella natura, ma di rintracciarle
in essa e di svilupparle da essa.
Ma far questo in modo conseguente ed in ogni singolo campo
è un lavoro gigantesco. Non solo il campo che deve
dominarsi è quasi sconfinato, ma anche in tutto questo
campo la stessa scienza della natura sta compiendo un processo di
rivoluzionamento così imponente che a stento può
seguirlo anche chi per questo fine dispone liberamente di tutto il
suo tempo. Da quando è morto Karl Marx, invece, il mio
tempo è sequestrato da doveri più urgenti e
perciò ho dovuto interrompere il mio lavoro. Sono quindi
costretto ad accontentarmi provvisoriamente dei cenni dati nel
presente scritto ed aspettare se mai si troverà più
tardi un'occasione di raccogliere e di pubblicare, probabilmente
insieme con gli importantissimi manoscritti di matematica lasciati
da Marx, i risultati raggiunti [13].
Ma il progresso della scienza teorica della natura renderà
in gran parte, o completamente, superfluo il mio lavoro. Infatti
la rivoluzione che nella scienza teorica della natura è
imposta dalla semplice necessità di ordinare le scoperte
puramente empiriche che si accumulano in tal massa, è di
tal fatta da dover far comprendere sempre maggiormente, anche
all'empirista più riluttante, il carattere dialettico dei
fenomeni naturali. Le vecchie rigide contrapposizioni, le linee di
demarcazione nette e invalicabili svaniscono sempre più. Da
quando sono stati liquefatti anche gli ultimi gas "permanenti", da
quando è stato dimostrato che un corpo può essere
portato ad uno stato nel quale la forma fluida e la gassosa non
sono distinguibili l'una dall'altra, gli stati di aggregazione
hanno perduto l'ultimo residuo del carattere assoluto che avevano
una volta [14]. Col principio della teoria cinetica dei gas - per
cui, nei gas perfetti, il quadrato della velocità con cui
si muovono le singole molecole gassose è, a temperatura
costante, inversamente proporzionale al peso molecolare - anche il
calore entra direttamente nella serie delle forme di movimento che
come tali sono direttamente misurabili. Se ancora dieci anni fa la
grande legge fondamentale del movimento appena scoperta era
concepita come una semplice legge della conservazione
dell'energia, come una semplice espressione
dell'indistruttibilità e increabilità del movimento,
e quindi semplicemente nel suo aspetto quantitativo, questa
ristretta espressione negativa viene sostituita sempre più
dall'espressione positiva della trasformazione dell'energia, in
cui per la prima volta il contenuto qualitativo del processo
prende il suo giusto posto e viene cancellato l'ultimo ricordo di
un creatore fuori del mondo. Che la quantità del movimento
(la cosiddetta energia) non subisca alcun cambiamento,
allorché si trasforma da energia cinetica (la cosiddetta
forza meccanica) in elettricità, calore, energia potenziale
ecc. e inversamente, è cosa che ora non ha più
bisogno di essere predicata come una novità; essa serve
come base ormai acquisita dell'indagine, ora molto più
ricca di significato, dello stesso processo di trasformazione, di
quel grande processo fondamentale, nella cui conoscenza si
riassume tutta la conoscenza della natura. E da quando la biologia
viene coltivata alla luce della teoria dell'evoluzione, una dopo
l'altra le rigide linee di demarcazione della classificazione si
sono dissolte; i membri intermedi quasi inclassificabili aumentano
di giorno in giorno; l'indagine più precisa spinge
organismi da una classe all'altra e le caratteristiche distintive,
diventate quasi articoli di fede, perdono la loro incondizionata
validità; abbiamo ora mammiferi ovipari, e, se la notizia
è confermata, uccelli che camminano a quattro zampe [15].
Se già alcuni anni fa Virchow, in seguito alla scoperta
della cellula, fu costretto a dissolvere l'unità
dell'individuo animale in una federazione di stati cellulari, in
una maniera più da progressista [16] che da scienziato e da
dialettico, il concetto dell'individualità animale (e
quindi anche umana) diventa ancora molto più complicato con
la scoperta dei globuli bianchi che circolano a guisa di amebe nel
corpo degli animali superiori. Ma sono precisamente le opposizioni
diametrali, rappresentate come irreconciliabili ed insolubili, le
linee di demarcazione e le differenze tra le classi fissate a
forza quelle che hanno dato alla moderna scienza teorica della
natura il suo ristretto carattere metafisico. Il riconoscimento
che queste opposizioni e queste differenze in verità sono
presenti nella natura, ma con una validità solo relativa, e
che invece quella rigidità e quell'assoluta rigidità
con cui sono presentate viene introdotta nella natura solo dalla
nostra riflessione; questo riconoscimento costituisce il punto
centrale della concezione dialettica della natura. È
possibile arrivare a questa concezione perché vi si
è costretti dall'accumularsi dai fatti della scienza della
natura, ma vi si arriva più facilmente se si raccosta al
carattere dialettico di questi fatti la coscienza delle leggi del
pensiero dialettico. In ogni caso, la scienza della natura
è oggi così avanzata che non sfugge più alla
sintesi dialettica. Ma essa renderà più agevole
questo processo se non dimenticherà che i risultati, in cui
sono sintetizzate le sue esperienze, sono concetti; ma che l'arte
di operare con questi concetti non è innata e neppure
è acquisita con la coscienza comune di tutti i giorni, ma
richiede invece un pensiero reale, e questo pensiero ha una lunga
storia sperimentale; né più né meno
dell'indagine naturalistica sperimentale. Appunto imparando a far
propri i risultati dello sviluppo della filosofia durante
venticinque secoli, essa si libererà da un lato da ogni
filosofia della natura che stia a parte e al di fuori e al di
sopra di essa, ma anche, d'altro lato, dal suo proprio metodo
limitato di pensare, ereditato dall'empirismo inglese.
Londra, 23 settembre 1885
Prefazione alla terza edizione (1994)
La presente nuova edizione, tranne qualche modificazione
stilistica di scarsissimo rilievo, è una ristampa della
precedente. Solo in un capitolo, il decimo della seconda sezione
"Dalla "storia critica"", mi sono permesso di aggiunte
sostanziali, e ciò per i motivi che seguono.
Come fu già ricordato nella prefazione della seconda
edizione, questo capitolo, in tutto ciò che è
essenziale, è opera di Marx. Nella prima redazione,
destinata ad un articolo di giornale, ero stato costretto ad
abbreviare notevolmente il manoscritto di Marx, e in verità
proprio in quelle parti in cui la critica alle asserzioni di
Dühring passa maggiormente in seconda linea di fronte agli
sviluppi autonomi riguardanti la storia dell'economia. Ma questi
costituiscono proprio la parte del manoscritto che anche oggi
conserva l'interesse maggiore e più duraturo. Ritengo
pertanto che sia mio dovere pubblicare nel modo più
completo e più letterale possibile quegli sviluppi con cui
Marx assegna ad uomini come Petty, North, Locke, Hume, il posto
che loro compete nella genesi dell'economia classica; ma ancor
più la spiegazione del "Tableau économique" di
Quesnay, questo sfingeo enigma che è rimasto insoluto per
tutta l'economia moderna. Ho invece lasciato da parte, per quanto
lo permetteva il contesto, ciò che si riferiva
esclusivamente agli scritti di Dühring.
Del resto io posso essere pienamente soddisfatto della diffusione
che, dal tempo dell'edizione precedente, hanno avuto le idee
rappresentate in questo libro nella pubblica coscienza degli
studiosi e della classe operaia e, invero, in tutti i paesi civili
del mondo.
Londra, 23 maggio 1894
F. Engels
Note
1. Il titolo "Anti-Dühring" sostituisce da molto tempo in
tutte le edizioni quello originale che era: "Hans Eugen
Dühring's Umwälzung der Wissenschaft" o, secondo la
traduzione italiana più usata, "La scienza sovvertita dal
signor Dühring". Era la parodia di "Carey's Umwälzung
der Volkswirthschaftslehre und Socialwissenschaft" ("La
rivoluzione della dottrina dell'economia politica e della scienza
sociale, compiuta da Carey"), titolo di uno scritto di
Dühring, pubblicato a Monaco nel 1865, che elogiava H. C.
Carey, uno dei maestri di Dühring in materia di economia
politica.
L'"Anti-Dühring" rappresenta un momento essenziale della
battaglia ideologica e politica che si svolse negli anni settanta
in seno al partito socialdemocratico e al movimento operaio
tedesco.
Il libero docente berlinese Eugen Dühring attirò per
la prima volta l'attenzione di Marx ed Engels quando, nel 1868,
pubblicò sulla rivista "Ergänzungsblätter zur
Kenntniss der Gegenwart", vol. III, fasc. 3, una recensione del
primo libro del "Capitale". In una serie di lettere, in
particolare del periodo gennaio-marzo 1868, essi giudicano
già Dühring (e il giudizio sarà presto
confermato) come il predicatore di un socialismo vago,
piccolo-borghese e pseudoscientifico.
In seguito l'influsso di Dühring e dei suoi seguaci assunse
dimensioni notevoli, e diventò pericoloso a metà
degli anni settanta. Tra i discepoli di Dühring si rivelarono
i più attivi Eduard Bernstein, Johann Most e Friedrich
Wilhelm Fritzsche. Per breve tempo lo stesso August Bebel
subì l'influsso di Dühring. Di Bebel, nel marzo 1874,
apparvero sul "Volksstaat" due articoli anonimi su Dühring,
intitolati "Ein neuer Kommunist" ("Un nuovo comunista") che
indussero Marx ed Engels a protestare decisamente contro Wilhelm
Liebknecht, direttore del giornale, contro la loro pubblicazione.
Quando poi, nel 1875, uscirono la seconda edizione della
"Kritische Geschichte del Nationalökonomie und des
Socialismus" e il "Cursus der Philosophie..." di Dühring, i
suoi sostenitori si fecero ancora più audaci. Specialmente
nel primo di questi scritti Dühring attaccava duramente Marx
e ne deformava le teorie, tanto che infine Liebknecht, in una
lettera del 21 aprile 1875, mise sull'avviso Engels scrivendogli:
"Devi deciderti a mettere apposto Dühring". Per insistere
ancora una volta sull'urgenza di un intervento, il 1° novembre
1875 Liebknecht mandò un articolo rifiutato dalla redazione
del "Volksstaat" in cui Abraham Enss lodava il "signor dr. E.
Dühring di Berlino" come "il nostro più fervido,
deciso e alacre pioniere nel campo della scienza". Quando Engels,
il 16 maggio 1876, ricevette da Liebknecht un analogo elogio di
Dühring scritto da Johann Most, egli aveva peraltro
già assestato a Dühring il primo colpo, nell'articolo
"Preussischer Schnaps im deutschen Reichstag" ("Acquavite
prussiana nel Reichstag tedesco") pubblicato nei numeri 23, 24 e
25 (25 e 27 febbraio e 1° marzo) del "Volksstaat".
Alla fine del maggio 1876 Engels decise di interrompere il lavoro
alla "Dialettica della natura" per prendere di petto la "teoria
socialista" allora apparsa e il "rigeneratore del socialismo", e
per difendere contro tutti gli attacchi il marxismo come
concezione del partito proletario. Nella sua lettera a Marx del 24
maggio 1876 egli chiedeva "se non sia il momento di considerare
seriamente la nostra posizione vis-à-vis di questo
signore". Il giorno dopo Marx rispose "che "di fronte a questi
signori" si può prendere "posizione" solo criticando
Dühring senza alcun riguardo". Engels si mise subito a lavoro
e già nella lettera a Marx del 28 maggio sviluppò il
piano generale e il carattere del suo scritto.
Engels lavorò all'"Anti-Dühring" quasi due anni: dalla
fine del 1876 all'inizio di luglio del 1878.
La prima sezione fu scritta per l'essenziale dal settembre 1876 al
gennaio 1877 e fu pubblicata come serie di articoli, sotto il
titolo "Herrn Eugen Dühring's Umwälzung der
Philosophie", sul foglio principale del "Vorwärts":
uscì in venti numeri del giornale, dal 3 gennaio al 13
maggio 1877. in questa prima sezione sono compresi anche i primi
due capitoli che più tardi, a partire dalla prima edizione
in volume, furono presentati come introduzione generale, autonoma,
di tutte e tre le sezioni.
La seconda sezione fu scritta dal giugno all'agosto 1877. Il
capitolo X, "Della "storia critica"", è opera di Marx: egli
mandò ad Engels la prima parte già il 5 marzo '77 e
la seconda, con l'analisi del "tableau économique" di
Quesnay, l'8agosto. Questa sezione, dal titolo "Herrn Eugen
Dühring's Umwälzung der Politischen ökonomie", fu
pubblicata dal 27 luglio al 30 settembre in parte sul supplemento
scientifico, in parte sul supplemento del "Vorwärts" (divisa
in nove numeri del giornale).
Per la stesura della terza sezione si può indicare con una
certa sicurezza il periodo tra l'inizio di agosto 1877 e fine
marzo/inizio aprile 1878. Il 30 aprile 1878 Engels scrisse a
Bracke: "Col signor Dühring -a parte la revisione dell'ultimo
articolo- ho felicemente concluso, e per nulla al mondo voglio
più sapere della sua pregiata compagnia...".
La terza sezione fu pubblicata sul supplemento del
"Vorwärts", sotto il titolo "Herrn Eugen Dühring's
Umwälzung des Sozialismus", dal 5 maggio al 7 luglio 1878 (in
cinque numeri).
Subito dopo la pubblicazione del primo articolo, nel gennaio 1877,
gli animi si divisero. Alle testimonianze di vivo entusiasmo si
opposero gli sfoghi rabbiosi dei seguaci di Dühring; la
decisione si ebbe al Congresso di Gotha del partito (27-30 maggio
1877). La mozione di Most, secondo cui "articoli come per esempio
le critiche contro Dühring pubblicate negli ultimi mesi da
Engels (...) in futuro devono restare esclusi dall'organo
centrale", fu respinta dopo cheBebel ebbe dapprima presentato la
proposta di "sospendere la pubblicazione degli articoli di Engels
contro Dühring nel foglio principale e pubblicarli come
opuscolo", e Liebknecht presentò la proposta aggiuntiva di
pubblicarli nel supplemento scientifico del "Vorwärts".
Così modificata, la proposta di Bebel fu approvata e
l'attacco di Most fu sventato.
Nel luglio del '77 la prima sezione del lavoro di Engels fu
pubblicata separatamente a Lipsia sotto il titolo "Hans Eugen
Dühring's Umwälzung der Wissenschaft. I. Philosophie";
nel luglio 1878 seguirono la seconda e la terza sezione sotto il
titolo "Hans Eugen Dühring's Umwälzung der Wissenschaft.
II. Politische Oekonomie. Sozialismus". Contemporaneamente, a
metà luglio '78, apparve a Lipsia, con prefazione di
Engels, la prima edizione dell'intera opera ("Hans Eugen
Dühring's Umwälzung der Wissenschaft. Philosophie.
Politische Oekonomie. Sozialismus". Nelle edizioni successive fu
tralasciato il sottotitolo "Philosophie. Politische Oekonomie.
Sozialismus". la seconda edizione fu pubblicata nel 1886 a
Hottingen-Zurigo; la terza, riveduta e ampliata, nel 1894 a
Stoccarda. Questa fu l'ultima edizione in vita di Engels.
Dopo l'emanazione della legge contro i socialisti
l'"Anti-Dühring" fu proibito, come altre opere di Engels.
Nel 1880, per richiesta di Paul Lafargue, Engels rielaborò
tre capitoli dell'opera (il capitolo I dell'introduzione ed i
capitoli I e II della terza sezione) e li pubblicò a Parigi
come opuscolo a sé, sotto il titolo "Socialisme utopique et
socialisme scientifique", nella traduzione di Lafargue.
Un'edizione tedesca in tre ristampe, intitolata "Die Entwicklung
des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft", fu pubblicata
nel 1883 a Hottingen-Zurigo. In vita di Engels, l'ultima (quarta)
edizione tedesca di questo opuscolo apparve a Berlino nel 1891.
Engels vide anche l'opuscolo tradotto in italiano, inglese, russo,
spagnolo, polacco danese e olandese.
Nel preparare l'opuscolo (più volte tradotto in italiano
col titolo "Socialismo utopistico e socialismo scientifico" o con
quello, ora generalmente adottato, "L'evoluzione del socialismo
dall'utopia alla scienza") per la prima e la quarta edizione
tedesca Engels modificò o ampliò in alcuni punti il
testo dei capitoli corrispondenti dell'"Anti-Dühring". Alcune
delle aggiunte (quelle del capitolo II della terza sezione) furono
da lui introdotte anche nella seconda
edizionedell'"Anti-Dühring", come è detto nella
prefazione del 1885. Nella presente edizione tutte queste
modifiche e aggiunte sono riportate sotto forma di nota.
2. Der Volksstaat (Lo Stato Popolare), organo della
Sozialdemokratische Arbeiterpartei (Partito Socialdemocratico dei
Lavoratori), uscì a Lipsia dal 2 ottobre del 1869 al 29
settembre 1876. A causa del suo coraggioso atteggiamento
rivoluzionario il giornale fu esposto continuamente alle
persecuzioni della polizia e del governo. La composizione del
corpo redazionale mutò spesso in seguito all'arresto di
taluni redattori, mentre la direzione restò sempre nelle
mani di Wilhelm Liebknecht; grande influenza sull'impostazione del
foglio ebbe August Bebel.
Marx ed Engels furono collaboratori del giornale fin dalla sua
fondazione. Furono attivamente a fianco della redazione e con la
loro critica contribuirono a far sì che il giornale si
mantenesse costantemente fedele alla sua linea rivoluzionaria.
Per decisione del Congresso di Gotha del partito, dal 1°
ottobre 1876 il "Volksstaat" e il "Neuer Social-Demokrat" (organo
dei lassalliani) furono sostituiti dal "Vorwärts", quale
"organo centrale della socialdemocrazia tedesca". Con la
promulgazione della legge contro i socialisti, il 27 ottobre 1878
il "Vorwärts" cessò le pubblicazioni.
3. Il 10 maggio 1876, nel centenario della dichiarazione
d'indipendenza degli Stati Uniti (4 luglio 1776), si aprì a
Filadelfia la sesta Esposizione mondiale dell'industria. Il
direttore dell'Accademia dell'industria di Berlino, Franz
Reuleaux, nominato presidente della commissione tedesca, nella
prima delle "Lettere da Filadelfia" (2 giugno 1876) da lui
indirizzate alla "Nationalzeitung" si vide costretto a constatare:
"Nella parte di gran lunga maggiore degli oggetti esposti la
nostra produzione è inferiore a quella di altre nazioni
(...) in sostanza tutti i biasimi si riducono a questo giudizio:
"a buon mercato ma cattivo" è il principio fondamentale
dell'industria tedesca". Ciò provocò un ampio
dibattito sulla stampa; il "Volksstaat", in particolare, tra il
luglio e il settembre pubblicò in proposito una serie
diarticoli.
4. Questa frase, passata in proverbio, deriva da una lettera
(1796) del contrammiraglio francese Chevalier de Panat, che
scriveva "Personne n'a su ni rien oublier, ni rien apprendre"
(Nessuno ha saputo dimenticare niente, né imparare niente).
Talvolta queste parole sono attribuite anche a Talleyrand. Esse si
riferivano ai realisti francesi che si erano rivelati incapaci di
trarre qualsiasi lezione dalla rivoluzione del 1889-93.
5. Riferimento al discorso tenuto a Rudolf Virchow a Monaco, il 22
settembre 1877, alla 50a Assemblea degli scienziati e dei medici
tedeschi. (cfr. R. Virchow "Die Freiheit der Wissenschaft im
modernen Staat...", pag. 13).
6. La "legge contro i socialisti" fu fatta approvare al Reichstag
da Bismarck il 19 ottobre 1878 ed entrò in vigore il 21
ottobre. Essa mise "fuori legge la socialdemocrazia. I giornali
degli operai, più di cinquanta, furono soppressi, le loro
associazioni vietate, i loro circoli chiusi, i loro denari
confiscati, le loro assemblee sciolte dalla polizia, e a
coronamento di tutto ciò fu disposto che si potesse imporre
lo "stato d'assedio" su intere città e provincie" (Engels).
Vi furono arresti ed espulsioni di massa. Tuttavia il partito
socialdemocratico continuò a lavorare
nell'illegalità. Con l'aiuto di Marx e di Engels, esso
riuscì a vincere le tendenze opportunistiche e
"ultrasinistre", a collegare il lavoro illegale con le
possibilità legali e ad estendere il suo influsso sulle
masse. Infine il 1° ottobre 1890 la pressione crescente della
classe operaia costrinse il governo a revocare questa legge
eccezionale.
7. Eugen Dühring (dal 1863 libero docente
all'Università di Berlino e dal 1877 docente in un liceo
femminile privato) a partire dal 1872 rivolse nei suoi scritti
duri attacchi contro alcuni professori universitari. Già
nella prima edizione della sua "Kritische Geschichte der
allgemeinen Principien der Mechanik" ("Storia critica dei principi
generali della meccanica"), 1873, per esempio, egli affermò
che Hermann von Helmholtz nella sua trattazione "über die
Erhatung der Kraft...", del 1847, aveva ignorato di proposito la
legge della conservazione della forza scoperta da Robert Mayer nel
1842. Dühring mosse anche dure critiche all'ordinamento
universitario. Perciò i professori reazionari lo
perseguitarono e sollecitarono il suo allontanamento dal liceo
femminile. Nella seconda edizione del libro sopra citato (1877) e
nel breve scritto "Der Weg der höheren Berufsbidung der
Frauen und die Lehrweise der Univeritäten" ("Il corso
dell'istruzione professionale superiore delle donne e il metodo
d'insegnamento dell'università") (1877) Dühring
ripeté in forma anche più aspra le sue accuse al
sistema universitario. Quindi, per istigazione dei suoi colleghi
della facoltà filosofica, nel luglio 1877 gli fu tolto
diritto d'insegnare all'università. Ciò
provocò una rumorosa campagna di protesta da parte dei suoi
seguaci, ma anche larghi ambienti democratici condannarono questo
atto d'arbitrio.
8. Il 1° luglio 1869 Engels si ritirò dagli affari,
congedandosi dalla ditta Ermen & Engels di Manchester, e il 20
settembre 1870 si trasferì a Londra.
9. Alla muda, il cambiamento annuale delle penne degli uccelli, si
riferisce in questo senso Justus von Liebig, parlando
dell'evolversi delle sue opinioni scientifiche: " (...) la chimica
fa progressi estremamente rapidi, e i chimici che vogliono tenersi
al passo sono in una costante condizione di muta (deplumatia, la
mue). Colui al quale spuntano nuove penne, perde dalle ali quelle
vecchie, che non lo vogliono più sostenere, e quindi vola
tanto meglio". ("Die Chemie in ihrer Anwendung auf Agricultur und
Physiologie", pag. 26).
10. Engels parla della nel XII capitolo della prima sezione
dell'"Anti-Dühring". In proposito, una lettera di dissenso
era stata scritta a Marx, in data 6 novembre 1880 dal
socialdemocratico H. W. Faian, residente in America.
*1. È molto più facile, insieme con il volgo privo
di idee à la Karl Vogt, dare addosso alla vecchia filosofia
della natura piuttosto che apprezzarne il significato storico.
Essa contiene una gran quantità di assurdi e di
fantasticherie, ma non più di quanto ne contengano le coeve
teorie non filosofiche degli scienziati empirici, e da quando si
è diffusa la teoria dell'evoluzione, si è cominciato
a riconoscere che essa contiene anche molto senso e molto
intelletto. Così Haeckel, a giusta ragione, ha riconosciuto
i meriti di Treviranus e di Oken [11]. Oken nella sua mucillagine
primitiva e nella sua vescicola primitiva pone come postulati
della biologia quelle stesse cose che dopo di allora sono state
effettivamente scoperte come protoplasma e cellula. Per quanto
concerne in modo speciale Hegel, egli per molti rispetti è
di gran lunga superiore agli empiristi suoi contemporanei che
credevano di avere spiegato tutti i fenomeni inesplicati quando
sostituivano ad essi una forza, forza di gravitazione, forza di
galleggiamento, forza di contatto elettrico, ecc., o, nel caso che
questo non andasse, una sostanza ignota: sostanza luminosa,
sostanza calorica, sostanza elettrica, ecc. Le sostanze
immaginarie sono ora pressappoco eliminate, ma la fandonia delle
forze che era stata combattuta da Hegel continua allegramente a
fare la sua apparizione, per es. non più in là del
1869 nel discorso di Helmholtz a Innsbruck (Helmholtz, "Conferenze
popolari", fasc. II, 1871, pag. 190). Di fronte alla deificazione
di Newton, ereditata dai francesi del XVIII secolo, di quel Newton
che l'Inghilterra colmò di onori e di ricchezze, Hegel mise
in rilievo come Keplero, che la Germania lasciò morire di
fame, fosse il vero fondatore della moderna meccanica dei corpi
celesti e come la legge di gravitazione newtoniana fosse
già contenuta in tutte e tre le leggi di Keplero, e nella
terza perfino esplicitamente. Ciò che Hegel dimostra nella
sua "Filosofia della natura", par. 270 e aggiunte ("Hegels Werke",
1842, vol. VII, pp. 98 e 113-115) con alcune semplici equazioni,
si ritrova come risultato della più recente meccanica
razionale di Gustav Kirchhoff, "Lezioni di fisica matematica", II
edizione, Lipsia, pag. 10, ed essenzialmente nella stessa semplice
forma matematica che era stata per la prima volta sviluppata da
Hegel. I filosofi della natura stanno alla scienza della natura
coscientemente dialettica nello stesso rapporto in cui stanno gli
utopisti al comunismo moderno.
11. Cfr. la quarta lezione di Ernst Haeckel ("Teoria
dell'evoluzione secondo Goethe e Oken") nel suo libro
"Natürliche Schöpfungsgeschichte...", pagg. 83-88.
12. La teoria della nebulosa, secondo la quale "tutti gli attuali
corpi celesti sono nati da masse nebulose rotanti" (Engels) fu
esposta da Kant nello scritto, apparso anonimo nel 1875 a
Köningsberg e Lipsia, "Allgemeine Naturgeschicthe und Theorie
des Himmels". Sulla teoria kantiana della resistenza opposta dalle
maree alla rotazione terrestre vedi il capitolo "L'attrito delle
maree. Kant e Thomson-Tair" (cfr. K. Marx-F. Engels, Opere, vol.
XXV, Roma, Editori riuniti, 1974, pp.395-400).
13. Qui Engels parla della sua "Dialettica della natura" e dei
lavori matematici condotti da Marx dalla fine degli anni '50 agli
inizi degli anni '80. I manoscritti matematici di Marx comprendono
oltre 1.000 fogli.
14. Riferimento ai lavori del fisico inglese Thomas Andrews (nel
1869 studiò lo stato critico dei gas), del fisico francese
Luois-Paul Cailletet (nel 1877 dimostrò la
condensabilità dell'ossigeno) e del fisico svizzero Raoul
Pictet (lavorò contemporaneamente a Cailletet alla
liquidazione di gas).
15. Nel primo caso si tratta dell'ornitorinco, nel secondo
probabilmente dell'archaeopterix (animale preistorico, forse forma
intermedia tra uccello e rettile).
16. 16. Engels allude alla prima edizione (1858) dell'opera di R.
Virchow ("Die Cellulaphatologie..."), e con la parola progressista
fa riferimento al Partito progressista tedesco, del quale Virchow
era stato uno dei fondatori. Creato il 9 giugno 1861, questo
partito propugnava in particolare l'unificazione della Germania
sotto la direzione prussiana e il principio delle autonomie
locali.
Il socialismo moderno, considerato nel suo contenuto, è
anzitutto il risultato della visione, da una parte, degli
antagonismi di classe, dominanti nella società moderna, tra
possidenti e non possidenti, salariati e borghesi; dall'altra,
dell'anarchia dominante nella produzione. Considerato invece nella
sua forma teorica, esso appare all'inizio come una continuazione
più avanzata, che vuol esser conseguente, dei principi
sostenuti dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo [b1].
Come ogni nuova teoria, esso ha innanzitutto ricollegarsi al
materiale preesistente di idee, per quanto avesse la sua radice
nei fatti economici [b2].
I grandi uomini che in Francia, illuminando gli spiriti, li
prepararono alla rivoluzione che si avvicinava, agirono essi
stessi in un modo estremamente rivoluzionario. Non riconoscevano
alcuna autorità esterna di qualsiasi specie essa fosse.
Religione, concezione della natura, società, ordinamento
dello Stato, tutto fu sottoposto alla critica più spietata;
tutto doveva spiegare la propria esistenza davanti al tribunale
della ragione o rinunziare all'esistenza. L'intelletto pensante fu
applicato a tutto come unica misura. Era il tempo in cui, come
dice Hegel, il mondo venne poggiato sulla testa [b3], dapprima nel
senso che la testa dell'uomo e i princìpi trovati dal suo
pensiero pretendevano di valere come base di ogni azione e d'ogni
associazione umana; ma più tardi anche nel senso più
ampio che la realtà che era in contraddizione con questi
princìpi fu effettivamente rovesciata da cima a fondo.
Tutte le forme sociali e politiche che sino allora erano esistite,
tutte le antiche concezioni che si erano tramandate furono gettate
in soffitta come cose irrazionali; il mondo si era fino a quel
momento lasciato guidare unicamente da pregiudizi; il passato
meritava solo compassione e disprezzo. Ora per la prima volta
spuntava la luce del giorno [b4]; da ora in poi la superstizione,
l'ingiustizia, il privilegio e l'oppressione dovevano essere
soppiantati dalla verità eterna, dalla giustizia eterna,
dall'eguaglianza fondata sulla natura, dai diritti inalienabili
dell'uomo.
Noi sappiamo ora che questo regno della ragione non fu altro che
il regno della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna
trovò la sua realizzazione nella giustizia borghese; che
l'eguaglianza andò a finire nella borghese eguaglianza
davanti alla legge; che la proprietà borghese fu proclamata
proprio come uno dei più essenziali diritti dell'uomo; e
che lo Stato secondo ragione, il contratto sociale di Rousseau, si
realizzò, e solo così poteva realizzarsi, come
repubblica democratica borghese. I grandi pensatori del secolo
XVIII non poterono oltrepassare i limiti imposti loro dalla loro
epoca più di quanto avevano potuto tutti i loro
predecessori.
Ma, accanto all'antagonismo tra nobiltà feudale e borghesia
[b5], sussisteva l'antagonismo generale tra sfruttatori e
sfruttati, tra ricchi oziosi e lavoratori poveri. E precisamente
questa circostanza rendeva possibile ai rappresentanti della
borghesia di ergersi a rappresentanti non soltanto di una classe
particolare, ma di tutta l'umanità sofferente. E c'è
di più, sin dalla sua origine la borghesia era affetta
dall'antagonismo che le è proprio: non possono esserci
capitalisti senza operai salariati, e nella stessa misura in cui
il maestro della corporazione medievale evolveva nel borghese
moderno, il garzone della corporazione e il giornaliero che non
apparteneva a nessuna corporazione evolvevano nel proletario. E
sebbene nel complesso la borghesia avesse il diritto di pretendere
di rappresentare contemporaneamente, nella lotta contro la
nobiltà, gli interessi delle diverse classi lavoratrici di
quell'epoca, pure, in ogni grande movimento borghese, scoppiavano
dei moti autonomi di quella classe che era la precorritrice
più o meno sviluppata del proletariato moderno. Così
nell'epoca tedesca della Riforma e della guerra dei contadini [17]
si ebbe la corrente di Thomas Münzer [b6]; nella grande
rivoluzione inglese i Levellers [18]; nella grande rivoluzione
francese Babeuf. Accanto a queste rivoluzionarie levate di scudi
di una classe ancora immatura fecero la loro comparsa
manifestazioni teoriche ad essa adeguate: nei secoli XVI e XVII
descrizioni utopistiche di regimi sociali ideali [19], secolo
XVIII già teorie comuniste vere e proprie (Morelly e
Mably). La rivendicazione dell'uguaglianza non si limitò
più ai diritti politici, essa doveva estendersi anche alla
posizione sociale dei singoli; non si dovevano sopprimere
semplicemente i privilegi di classe, ma le stesse differenze di
classe. La prima forma con cui la nuova dottrina fece la sua
comparsa fu così un comunismo ascetico che si ricollegava a
Sparta [b7]. Seguirono poi i tre grandi utopisti: Saint-Simon, nel
quale le tendenze borghesi conservavano ancora una certa
validità accanto alla tendenza proletaria, Fourier e Owen,
il quale, nel paese in cui la produzione capitalistica era
più sviluppata e sotto l'impressione degli antagonismo che
ne risultavano, sviluppò sistematicamente i suoi progetti
per l'eliminazione delle differenze di classe ricollegandosi
direttamente al materialismo francese.
È comune a tutti e tre il fatto che essi non si presentano
come rappresentanti degli interessi del proletariato, che
frattanto si era prodotto storicamente. Come gli illuministi, essi
vogliono liberare non una classe determinata, ma tutta
l'umanità [b8]. Come quelli, essi vogliono instaurare il
regno della ragione e della giustizia eterna; ma il loro regno
è infinitamente diverso da quello degli illuministi. Anche
il mondo borghese ordinato secondo i princìpi di questi
illuministi è irrazionale e ingiusto e trova il suo posto
nel secchio dell'immondizia proprio come il feudalesimo e tutti i
regimi sociali precedenti. Se la ragione e la giustizia effettive
non hanno ancora regnato nel mondo, ciò proviene dal fatto
che non se ne è avuta sinora una giusta conoscenza. Mancava
proprio quel singolo uomo geniale che ora è apparso ed ha
riconosciuto la verità; che esso sia comparso ora, che
proprio ora sia stata conosciuta la verità, non è un
avvenimento inevitabile che consegue necessariamente dal contesto
dello sviluppo storico, ma un puro caso fortunato. Sarebbe potuto
nascere ugualmente cinquecento anni prima e avrebbe allora
risparmiato all'umanità cinquecento anni di errori, di
lotte e di sofferenze.
Questo modo di vedere è sostanzialmente quello di tutti i
socialisti inglesi e francesi e dei primi socialisti tedeschi,
compreso Weitling. Il socialismo è l'espressione
dell'assoluta verità [b9], dell'assoluta ragione,
dell'assoluta giustizia e basta che sia scoperto perché
conquisti il mondo con la propria forza; poiché la
verità è assoluta e indipendente dal tempo, dallo
spazio e dallo sviluppo storico dell'uomo, è un semplice
caso quando e dove sia scoperta. Inoltre poi la verità, la
ragione e la giustizia assolute a loro volta sono diverse per ogni
caposcuola; e poiché la forma particolare che la
verità, la ragione e la giustizia assolute assumono
è a sua volta condizionata dall'intelletto soggettivo,
dalle condizioni di vita, dal grado di cognizioni e d'educazione a
pensare di ognuno di essi, in questo conflitto di assolute
verità non c'è nessuna altra soluzione possibile se
non che esse si elidano vicendevolmente. Così stando le
cose, non poteva allora venir fuori altro che una specie di
socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna fino ad
oggi nella testa della maggior parte degli operai socialisti in
Francia e in Inghilterra, una miscela che ammette
un'infinità molteplicità di sfumature, e che risulta
da ciò che hanno di meno incisivo le invettive critiche, i
princìpi di economia e le rappresentazioni della
società futura dei vari fondatori di sette; miscela che si
ottiene tanto più facilmente, quanto più ai singoli
elementi componenti, nel corso della discussione, vengono smussati
gli angoli acuti della precisione, come ciottoli levigati nel
torrente. Per fare del socialismo una scienza, bisognava anzitutto
farlo poggiare su una base reale.
Frattanto, accanto e dopo la filosofia francese del XVIII secolo,
era sorta la filosofia tedesca moderna e aveva trovato la sua
conclusione in Hegel. Il suo merito maggiore fu la riassunzione
della dialettica come la forma più alta del pensiero. Gli
antichi filosofi greci erano stati tutti dei dialettici nati,
spontanei, e la mente più universale che vi fu tra loro,
Aristotele, aveva già indagato anche le forme più
essenziali del pensiero dialettico [b10]. Per contro la filosofia
moderna, quantunque la dialettica anche in essa abbia avuto degli
splendidi rappresentanti (per es. Descartes e Spinoza),
particolarmente per l'influenza inglese si era sempre più
arenata nel cosiddetto modo di pensare metafisico, che quasi
esclusivamente aveva dominato anche i filosofi francesi del secolo
XVIII, almeno in quel che concerne i loro lavori specificamente
filosofici. Al di fuori della filosofia propriamente detta, essi
erano pure in condizione di dare dei capolavori di dialettica;
ricorderemo solo il "Nipote di Rameau" di Diderot e il "Discorso
sull'origine dell'ineguaglianza tra gli uomini di Rousseau".
Daremo qui brevemente l'essenziale di questi due metodi di
pensiero, su cui dovremo ritornare ancora diffusamente.
Se sottoponiamo alla considerazione del nostro pensiero la natura
o la storia umana o la nostra specifica attività
spirituale, ci si offre anzitutto il quadro di un infinito
intreccio di nessi, di azioni reciproche, in cui nulla rimane quel
che era, ma tutto si muove, si cambia, nasce e muore [b11]. Questa
visione primitiva, ingenua, ma sostanzialmente giusta del mondo
è quella dell'antica filosofia greca e fu espressa
chiaramente per la prima volta da Eraclito: Tutto è ed
anche non è, perché tutto scorre, è in
continuo cambiamento, è in continuo nascere e morire. Ma
questa concezione, sebbene colga giustamente il carattere generale
del quadro d'insieme dei fenomeni, pure non è ancora
sufficiente per spiegare i particolari di cui questo quadro
d'insieme si compone, e fino a quando non sappiamo far questo
[b12], non siamo chiaramente edotti neppure del quadro stesso. Per
conoscere questi particolari dobbiamo staccarli dal loro contesto
naturale e storico ed esaminarli ciascuno per sé, nella sua
natura, nelle sue cause, nei suoi effetti particolari ecc. Questo
è anzitutto il compito della scienza della natura e della
ricerca storica, campi d'indagine che per ragioni molto valide non
ebbero presso i greci dell'antichità classica che una
posizione di secondo piano, perché questi dovevano prima di
tutto raccogliere il materiale [b13]. Gli inizi dell'indagine
scientifica della natura sorsero solo con i greci del periodo
alessandrino [20] e, più tardi, nel medioevo, furono
ulteriormente sviluppati dagli arabi; una vera scienza della
natura data, però, solo dalla seconda metà del
secolo XV e da allora ha progredito con celerità sempre
crescente. L'analisi della natura nelle sue singole parti, la
ripartizione dei diversi fenomeni e degli oggetti della natura in
classi determinate, l'analisi dell'interno dei corpi organici
nelle loro molteplici conformazioni anatomiche sono state la
condizione principale dei progressi giganteschi che nella
conoscenza della natura gli ultimi quattrocento anni ci hanno
portato. Ma questo metodo ci ha del pari lasciata l'abitudine di
concepire le cose e i fenomeni della natura nel loro isolamento,
al di fuori del loro vasto contesto complessivo; di concepirli
perciò non nel loro movimento, ma nel loro stato di quiete,
non come essenzialmente mutevoli, ma come entità fisse e
stabili, non nella loro vita, ma nella loro morte. E poiché
questa maniera di vedere le cose, come è accaduto con
Bacone e con Locke, è passata dalla scienza della natura
nella filosofia, ha prodotto la limitatezza specifica degli ultimi
secoli, cioè il modo di pensare metafisico.
Per il metafisico le cose e le loro immagini riflesse nel
pensiero, i concetti, sono oggetti isolati di indagine, da
considerarsi successivamente e indipendentemente l'uno dall'altro,
fissi, rigidi, dati una volta per sempre. Egli pensa per antitesi
assolutamente immediate. Il suo parlare è: sì,
sì, no, no. Quello che c'è di più viene dal
maligno. Per lui una cosa esiste o non esiste; ugualmente è
impossibile che una cosa sia nello stesso tempo se stessa ed
un'altra. Positivo e negativo si escludono reciprocamente in modo
assoluto; causa ed effetto stanno dal pari in rigida opposizione
reciproca. Questa maniera di pensare ci appare a prima vista
estremamente plausibile per il fatto che essa è proprio
quella del cosiddetto senso comune. Solo che il senso comune, per
quanto sia un compagno tanto rispettabile finché sta nello
spazio compreso fra le quattro pareti domestiche, va incontro ad
avventure assolutamente sorprendenti appena si arrischia nel vasto
mondo dell'indagine scientifica; e la maniera metafisica di vedere
le cose, giustificata e perfino necessaria in campi la cui
estensione è più o meno vasta a seconda della natura
dell'oggetto, tuttavia, ogni volta, urta prima o poi contro un
limite, al di là del quale diventa unilaterale, limitata,
astratta e si avvolge in contraddizioni insolubili,
giacché, per le cose singole, dimentica il loro nesso, per
il loro essere, dimentica il loro sorgere e tramontare, per il
loro stato di quiete, dimentica il loro movimento, giacché,
per vedere gli alberi, non vede la foresta. Per es., per i casi
della vita quotidiana, sappiamo e possiamo dire con precisione se
un animale esiste o meno; ma se indaghiamo con maggiore
precisione, troveremo che alle volte questa è una cosa
estremamente complessa, come sanno molto bene i giuristi, che
invano si sono tormentati per scoprire un limite razionale a
partire dal quale la soppressione del feto dal seno materno
è un assassinio; e del pari è impossibile stabilire
l'istante della morte, poiché la fisiologia dimostra che la
morte non è un avvenimento unico ed istantaneo, ma un
fenomeno la cui durata è molto lunga. Parimenti ogni corpo
organico, in ogni istante, è e non è il medesimo; in
ogni istante elabora materie tratte dall'esterno e ne secerne
delle altre, in ogni istante cellule de suo corpo muoiono e se ne
formano di nuove; dopo un tempo più o meno lungo la materia
di questo corpo si è completamente rinnovata, sostituita da
altri atomi, cosicché ogni essere organizzato è
costantemente il medesimo e pure un altro. Considerando le cose
con precisione, noi troviamo anche che i due poli di
un'opposizione, il positivo e il negativo, sono tanto inseparabili
l'uno dall'altro quanto contrapposti e che malgrado tutta la loro
contrarietà si compenetrano vicendevolmente; troviamo del
pari che causa ed effetto sono concetti che hanno validità
come tali solo se li applichiamo ad un caso singolo, ma che, nella
misura in cui consideriamo questo fatto singolo nella sua
connessione generale con la totalità del mondo, queste
rappresentazioni si confondono e si diffondono nella visione
dell'universale azione reciproca, in cui cause ed effetti si
scambiano continuamente la loro posizione, ciò che ora o
qui è effetto, là e poi diventa causa e viceversa.
Tutti questi fenomeni e metodi di pensiero non rientrano nel
quadro del pensiero metafisico. Per la dialettica invece, che
considera le cose e le loro immagini concettuali essenzialmente
nel loro nesso, nel loro concatenamento, nel loro movimento, nel
loro sorgere e tramontare, fenomeni come quelli che abbiamo
riferiti sopra sono altrettante conferme della maniera con cui
essa peculiarmente procede. La natura è il banco di prova
della dialettica e noi dobbiamo dire a lode della moderna scienza
della natura che essa ha fornito a questo banco di prova un
materiale estremamente ricco che va accumulandosi giornalmente e
che di conseguenza essa ha dimostrato che, in ultima analisi, la
natura procede dialetticamente e non metafisicamente [b14]. Ma
poiché sino ad ora i naturalisti che hanno appreso a
pensare dialetticamente si possono contare sulle dita, la
confusione senza limiti che domina oggi nella scienza teorica
della natura e che porta alla disperazione maestri e scolari,
scrittori e lettori, si spiega con questo conflitto tra i
risultati che sono stati scoperti e la maniera tradizionale di
pensare.
Una rappresentazione esatta della totalità del mondo, del
suo sviluppo e di quello dell'umanità, nonché
dell'immagine di questo sviluppo quale si rispecchia nella testa
degli uomini, può quindi effettuarsi solo per via
dialettica, prendendo costantemente in considerazione le azioni
reciproche del nascere e del morire, dei mutamenti progressivi o
regressivi. E in questo senso ha proceduto la filosofia tedesca
moderna sin dal suo principio. Kant iniziò la sua carriera
scientifica risolvendo la stabilità del sistema sbarre
newtoniano, e la sua eterna durata, una volta dato il famoso
impulso iniziale, in un fenomeno che ha una storia: nella
formazione, cioè, del sole e di tutti i pianeti da una
massa nebulosa rotante. E ne trasse già la conseguenza che,
posta questa formazione, era data del pari necessariamente la
futura fine del sistema solare [12]. Le sue vedute un mezzo secolo
più tardi ricevettero da Laplace una base matematica, e
ancora un altro mezzo secolo più tardi lo spettroscopio
dimostrò l'esistenza nello spazio cosmico di queste tali
masse gassose incandescenti a diverso grado di condensazione [21].
Questa filosofia tedesca moderna trovò la sua conclusione
nel sistema hegeliano, nel quale, per la prima volta, e questo
è il suo grande merito, tutto quanto il mondo naturale,
storico e spirituale venne presentato come un processo,
cioè in un movimento, in un mangiamento, in una
trasformazione, in uno sviluppo che mai hanno tregua, e fu fatto
il tentativo di dimostrare il nesso intimo esistente in questo
movimento e in questo sviluppo [b15]. Mettendosi da questo punto
di vista, la storia dell'umanità appariva non più
come un groviglio confuso di violenze insensate che sono tutte
ugualmente condannabili davanti al tribunale della ragione
filosofica, ora divenuta matura, e che la cosa migliore è
dimenticare al più presto possibile, ma come il processo di
sviluppo dell'umanità stessa. E ora il compito del pensiero
consiste nel seguire, attraverso tutte le deviazioni, la marcia
graduale di tale processo che si compie a poco a poco e
dimostrarne, attraverso tutte le accidentalità apparenti,
l'intima regolarità.
Che Hegel non abbia assolto questo compito, qui non ha importanza
[b16]. Il suo merito, che fa epoca, è quello di averlo
posto, tanto più che questo è un compito che nessun
individuo da solo potrà mai assolvere. Se Hegel, con
Saint-Simon, la mente più universale della sua epofa, pure
egli era limitato in primo luogo dall'ambito necessariamente
ristretto delle sue conoscenze specifiche e in secondo luogo dalle
conoscenze e dalle concezioni della sua epoca che, del pari, erano
ristrette per ambito e profondità. Ma a tutto ciò si
aggiungeva anche una terza cosa. Hegel era un idealista,
cioè per lui i pensieri della sua testa non erano le
immagini rilesse, più o meno astratte, delle cose e dei
fenomeni reali, ma invece le cose e il loro sviluppo erano
immagini riflesse realizzate dall'"idea", esistente già
prima del mondo in qualche luogo. Conseguentemente tutto veniva
poggiato sulla testa, e il nesso reale del mondo veniva
completamente rovesciato. E per quanto [b17] alcuni nessi singoli
venissero concepiti da Hegel in modo giusto e geniale, pure, per
le ragioni che sono state addotte, molto, anche nei dettagli,
doveva riuscire rabberciato, artificioso, architettato di sana
pianta, in breve, sovvertito. Il sistema di Hegel fu come 5tale un
colossale aborto, ma fu anche l'ultimo nel suo genere. Il fatto
è che esso era affetto da un'altra contraddizione interna
insanabile: da una parte aveva come suo presupposto iniziale la
visione storica delle cose, secondo la quale la storia umana
è un processo di sviluppo che, per sua natura, non
può trovare la sua conclusione intellettuale nella scoperta
di una verità cosiddetta assoluta, mentre dall'altra
afferma di essere la quintessenza proprio di questa verità
assoluta. Un sistema che abbracci completamente e concluda una
volta per sempre la conoscenza della natura e della storia
è in contraddizione con le leggi fondamentali del pensiero
dialettico; la qual cosa tuttavia non esclude affatto, ma invece
implica, che la conoscenza sistematica di tutto il mondo esterno
possa fare di generazione in generazione dei passi da gigante
[b18].
La convinzione della completa assurdità dell'idealismo
tedesco quale era esistito fino allora condusse necessariamente al
materialismo, ma, si noti bene, non al materialismo puramente
metafisico, esclusivamente meccanicistico, del secolo XVIII.
Anziché rigettare semplicemente, in modo ingenuamente
rivoluzionario, tutta la storia precedente, il materialismo
moderno vede nella storia il processo di sviluppo
dell'umanità ed è suo compito scoprirne le leggi di
movimento. In contrasto con la rappresentazione dominante tanto
nei francesi del XVIII secolo [b19] quanto in Hegel, secondo la
quale la natura è un tutto che si muove in orbite ristrette
e che rimane [b20] eguale a se stessa, con i suoi eterni corpi
celesti, come aveva insegnato Newton, e con le sue specie
immutabili di esseri organici, come aveva insegnato Linneo, il
materialismo moderno riassume i moderni progressi della scienza
della natura, secondo cui la natura ha anch'essa la sua storia
svolgentesi nel tempo, i corpi celesti nascono e muoiono
così come le specie degli organismi, dalle quali vengono
abitati se si presentano circostanze favorevoli, e le orbite,
nella misura in cui sono [b21] in generale ammissibili, assumono
delle dimensioni infinitamente più grandiose. In entrambi i
casi il materialismo moderno è essenzialmente dialettico e
non ha più bisogno di una filosofia che stia al di sopra
delle altre scienze. Dal momento in cui si esige da ciascuna
scienza particolare che essa si renda conto della sua posizione
nel nesso complessivo delle cose e della conoscenza delle cose,
ogni scienza particolare che abbia per oggetto il nesso
complessivo diventa superflua. Ciò che resta quindi ancora
in piedi, autonomamente, di tutta quanta la filosofia che si
è avuta fino ad ora è la dottrina del pensiero e
delle sue leggi, cioè la logica formale e la dialettica.
Tutto il resto si risolve nella scienza positiva della natura e
della storia.
Tuttavia, mentre il rovesciamento della concezione della natura
non s poteva compiere che nella misura in cui l'indagine forniva
l'adeguato materiale di conoscenze positive, già molto
prima si erano verificati dei fatti storici che determinarono una
svolta decisiva nella concezione della storia. Nel 1831 a Lione
era avvenuta la prima sollevazione di operai; dal 1838 al 1842
aveva raggiunto il suo culmine il primo movimento operaio
nazionale, quello dei cartisti inglesi. La lotta di classe tra il
proletariato e la borghesia si presentava in primo piano nella
storia dei paesi più progrediti d'Europa, nella stessa
misura in dui in quei paesi si sviluppavano da una parte la grande
industria e dall'altra il dominio politico che la borghesia aveva
di recente conquistato. Le dottrine dell'economia borghese
sull'identità di interessi tra capitale e lavoro,
sull'armonia universale e sul benessere universale del popolo come
conseguenza della libera concorrenza venivano smentite dai fatti
in modo sempre più convincente [b22]. Tutte queste cose non
potevano più essere respinte, come non si poteva respingere
il socialismo francese ed inglese che ne era l'espressione
teorica, anche se estremamente imperfetta. Ma la vecchia
concezione idealistica della storia, che non era stata ancora
soppiantata, non conosceva lotte di classi poggianti suinteressi
materiali e, in generale, non conosceva interessi materiali; la
produzione e tutti i rapporti economici non facevano in essa la
loro comparsa che incidentalmente, come elementi subordinati della
"storia della civiltà".
I nuovi fatti costrinsero a sottoporre ad una nuova indagine tutta
la storia precedente e si vide allora che tutta la storia
precedente [b23] era la storia delle lotte delle classi, che
queste classi sociali che si combattono vicendevolmente sono di
volta in volta risultati dei rapporti di produzione e di scambio,
in una parola dei rapporti economici della loro epoca; che quindi
di volta in volta la struttura economica della società
costituisce il fondamento reale della società partendo dal
quale si deve spiegare in ultima istanza tutta la sovrastruttura
delle istituzioni giuridiche e politiche, così come gli
orientamenti religiosi, filosofici e di altro genere di ogni
periodo storico. Conseguentemente l'idealismo [b24] veniva
cacciato dal suo ultimo rifugio, la concezione della storia;
veniva data una concezione, materialistica della storia e veniva
trovata la via per spiegare la coscienza dell'uomo col suo essere,
invece di spiegare, come si era fatto sino allora, il suo essere
con la sua coscienza [b25].
Ma con questa concezione materialistica della storia era
altrettanto incompatibile il socialismo che era esistito fino
allora, quanto la concezione della natura del materialismo
francese con la dialettica e con la moderna scienza della natura.
Il socialismo precedente criticava, è vero, il vigente modo
di produzione capitalistico e le sue conseguenze, ma non poteva
darne una spiegazione né quindi venirne a capo: non poteva
che respingerlo semplicemente come un male [b26]. Si trattava
invece di presentare da una parte questo modo di produzione
capitalistico nel suo nesso storico e nella sua necessità
nell'ambito di un determinato periodo storico, e quindi anche la
necessità del suo tramonto, dall'altra, invece, di svelarne
anche il carattere interiore, che ancora era rimasto celato,
perché sinora la critica si era appuntata più sulle
cattive conseguenze che sul processo della cosa stessa. Questo si
ebbe con la scoperta del plusvalore. Fu dimostrato che
l'appropriazione di lavoro non pagato è la forma
fondamentale del modo di produzione capitalistico e dello
sfruttamento dell'operaio che con esso viene compiuto; che il
capitalista, anche se compra la forza lavoro del suo operaio
secondo il pieno valore che essa, come merce, ha sul mercato, ne
trae tuttavia un valore maggiore di quello che per essa ha pagato,
e che in ultima istanza questo plusvalore costituisce la somma di
valore per cui la massa di capitale continuamente crescente si
accumula tra le mani delle classi possidenti. Il processo tanto
della produzione capitalistica quanto della produzione del
capitale era spiegato.
Entrambe queste grandi scoperte: la concezione materialistica
della storia e la rivelazione del segreto della produzione
capitalistica mediante il plusvalore, le dobbiamo a Marx. Con
queste due grandi scoperte il socialismo è diventato una
scienza che ora si tratta innanzitutto di elaborare ulteriormente
in tutti i suoi particolari e nessi.
Così press'a poco stavano le cose nel campo del socialismo
teorico e della defunta filosofia, quando Dühring, non senza
un baccano notevole, irruppe nella scena e annunziò di aver
compiuto una rivoluzione perfetta e totale della filosofia,
dell'economia politica e del socialismo.
Vediamo che cosa Dühring ci promette e che cosa mantiene.
Note
17. La guerra dei contadini divampò nella Germania
centro-meridionale negli anni 1525-1526; i motivi a base della
rivolta delle popolazioni delle campagne contro i nobili e i
borghesi delle città erano sia economici, sia spirituali e
teologici: di grande importanza furono le richieste comunistiche,
divenute presto generali, che ebbero il principale assertore in
Thomas Münzer. Cfr. F. Engels "La guerra dei contadini in
Germania" (1850).
18. Engels si riferisce ai "veri Levellers" (Livellatori) o
"Diggers" (Scavatori) che durante la rivoluzione inglese del XVII
secolo costituirono l'estrema ala sinistra dei Levellers e poi si
separarono da essi. Nell'interesse degli strati rurali e urbani
più poveri, i Diggers chiedevano che il popolo potesse
coltivare le terre comunali senza pagare l'affitto. In alcuni
villaggi occuparono terreni incolti e li dissodarono per la
semina. Dispersi dai soldati di Cromwell, essi non opposero
resistenza perché nella lotta volevano impiegare solo mezzi
pacifici e confidavano nella loro forza della persuasione.
19. In particolare le opere dei comunisti utopisti Tommaso Moro
("De optimo republicae statu deque nova insula Utopia") e Tommaso
Campanella ("Civitas solis", pubblicata nel 1623 come parte della
"Philosophia realis", e separatamente nel 1643).
20. Nei secoli successivi alla morte di Alessandro Magno (323
a.c.) la città di Alessandria d'Egitto fu il centro della
vita culturale; vi fiorirono la matematica e la meccanica, la
geografia, l'astronomia, l'anatomia, la fisiologia, ecc.
21. Laplace sviluppò la sua ipotesi sull'origine del
sistema solare nell'ultimo capitolo della sua "Exposition du
sistème du monde" (1795-96). Nell'ultima edizione di questo
scritto da lui curata, apparsa postuma nel 1835, l'ipotesi
è esposta nella nota VII. La natura gassosa delle nebulose
diffuse e planetarie fu scoperta nel 1864 dall'astronomi inglese
William Huggins con l'ausilio dell'analisi spettroscopica ideata
nel 1859 da Gustav Kirchhoff e Robert Bunsen. Engels si vale qi
dell'opera di Angelo Secchi "Die Sonne...", pp. 787, 189-190.
Note b (nell'opuscolo "L'evoluzione del socialismo dall'utopia
alla scienza")
b1. (nel primo abbozzo dell'"Introduzione") Il socialismo moderno,
benché nei fatti sia sorto dalla visione degli antagonismi
di classe, già esistenti nella società, tra
possidenti e non possidenti, lavoratori e sfruttatori, nella sua
forma teorica appare tuttavia dapprima come una continuazione
più conseguente, più avanzata, dei princìpi
sostenuti dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo; tra
questi infatti si trovano i suoi primi rappresentanti, Morelly e
Mably.
b2. (nell'opuscolo "Il socialismo...") nei fatti economici
materiali
b3. (nell'opuscolo "Il socialismo...") [nota aggiunta] Il passo
sulla Rivoluzione francese è il seguente: "Il pensiero, il
concetto del diritto, si fece valere di punto in bianco, né
l'antico edificio dell'ingiustizia poté opporre resistenza
alcuna. In nome del diritto è stata proclamata adesso una
Costituzione sulla quale tutto deve poggiare. Da che il sole sta
nel firmamento e i pianeti gli girano intorno, non si era mai
visto che l'uomo si rizzasse sulla testa, cioè sul
pensiero, e che su questo costruisse la realtà. Anassagora
aveva detto per primo che il nous, la ragione, dirige il mondo; ma
solo ora, per la prima volta, l'uomo è pervenuto a
riconoscere che tocca al pensiero dirigere la realtà
spirituale. È stato un meraviglioso levar del sole. Tutti
li esseri pensanti hanno solennizzato quest'epoca. Una sublime
commozione ha regnato in quell'età, un entusiasmo dello
spirito ha scosso il mondo, quasi si fosse per la prima volta
venuti alla conciliazione del divino con il mondo." (Hegel,
"Filosofia della storia", 1840, pag. 535). Non sarebbe tempo di
mettere in moto la legge contro i socialisti nei riguardi di
queste pericolose dottrine sovversive del defunto professor Hegel?
b4. (nell'opuscolo "Il socialismo...") Ora per la prima volta
spuntava la luce del giorno, il regno della ragione
b5. (nell'opuscolo "Il socialismo...") Ma, accanto all'antagonismo
tra nobiltà feudale e la borghesia che si presentava come
rappresentante di tutto il resto della società
b6. (nell'opuscolo "Il socialismo...") Così nell'epoca
tedesca della Riforma e della guerra dei contadini gli anabattisti
e Thomas Münzer
b7. (nell'opuscolo "Il socialismo...") La prima forma con cui la
nuova dottrina fece la sua comparsa fu così un comunismo
ascetico che si ricollegava a Sparta e vietava ogni gioia della
vita
b8. (nell'opuscolo "Il socialismo...") Come gli illuministi, essi
non vogliono liberare dapprima una classe determinata, ma tutta
l'umanità ad un tempo
b9. (nell'opuscolo "Il socialismo...") Il modo di vedere degli
utopisti ha dominato a lungo le idee socialiste del XIX secolo ed
in parte le domina ancora. Ad esso, fino a pochissimo tempo fa, si
inchinavano ancora tutti i socialisti francesi ed inglesi, ad esso
appartiene anche il comunismo degli inizi, compreso quello di
Weitling. Il socialismo è per tutti loro l'espressione
dell'assoluta verità
b10. (nel primo abbozzo dell'"Introduzione") Gli antichi filosofi
greci erano stati tutti dei dialettici nati, spontanei, e
Aristotele, l'Hegel del mondo antico, aveva già indagato
anche le forme più essenziali del pensiero dialettico.
b11. (nell'opuscolo "Il socialismo...") [aggiunta] Noi, quindi, in
un primo tempo vediamo il quadro d'insieme nel quale i particolari
passano più o meno in seconda linea e badiamo più al
movimento, ai passaggi, ai nessi, che a ciò che si muove,
passa e sta in connessione.
b12. (nell'opuscolo "Il socialismo...") e sino a quando non
conosciamo questi
b13. (nell'opuscolo "Il socialismo...") [aggiunta] Solo dopo che
una certa quantità di dati naturali e storici è
stata accumulata, può cominciare il vaglio critico, il
raffronto e rispettivamente la divisione in classi, ordini e
specie.
b14. (nell'opuscolo "Il socialismo...") [aggiunta] che non si
muove nell'eterna uniformità di un circolo che di continuo
si ripete, ma percorre una vera storia. Qui bisogna far menzione,
prima di ogni altro, di Darwin che ha assestato alla concezione
metafisica della natura il colpo più vigoroso con la sua
dimostrazione che tutta quanta la natura organica, quale oggi
esiste, piante e animali, e conseguentemente anche l'uomo,
è il prodotto di un processo di sviluppo che è
durato milioni di anni.
b15. (nel primo abbozzo dell'"Introduzione") Il sistema hegeliano
fu l'ultima, la più compiuta forma della filosofia, intesa
come scienza particolare, superiore a tutte le altre scienze. Con
esso naufragò tutta la filosofia. Ma ciò che rimase
fu il modo di pensare dialettico e la concezione del mondo
naturale, storico e intellettuale visto come un mondo che si muove
e si trasforma all'infinito, in un processo continuo di divenire e
di trapassare. Non solo alla filosofia, ma a tutte le scienze ora
si poneva l'esigenza di mettere in luce, nel proprio campo
particolare, le leggi del movimento di questo continuo processo di
trasformazione. E questa era la parte di eredità che la
filosofia hegeliana lasciò ai suoi successori.
b16. (nell'opuscolo "Il socialismo...") Che il sistema hegeliano
non abbia assolto il compito che esso si era posto, qui non ha
importanza.
b17. (nell'opuscolo "Il socialismo...") E per quanto, quindi,
b18. (nell'opuscolo "Il socialismo...") progressi da gigante.
b19. (nell'opuscolo "Il socialismo...") quanto ancora
b20. (nell'opuscolo "Il socialismo...") che rimase sempre
b21. (nell'opuscolo "Il socialismo...") nella misura in cui
rimangono
b22. (nel primo abbozzo dell'"Introduzione") [di seguito] In
Francia l'insurrezione lionese del 1834 aveva proclamato
altresì la lotta del proletariato contro la borghesia. Le
teorie socialiste inglesi e francesi acquistarono importanza
storica e dovettero suscitare eco e critica anche in Germania,
benché là la produzione cominciasse soltanto allora
ad aprirsi la strada partendo dalle piccole attività. Il
socialismo teorico, quale ora si formava non tanto in Germania
quanto fra tedeschi, doveva dunque importare tutto il suo
materiale...
b23. (nell'opuscolo "Il socialismo...") che tutta la storia
precedente, ad eccezione delle condizioni primitive,
b24. (nell'opuscolo "Il socialismo...") di ogni periodo storico.
Hegel aveva liberato la concezione della storia dalla metafisica,
l'aveva resa dialettica, ma la sua concezione della storia era
essenzialmente idealistica. Ora l'idealismo
b25. (nell'opuscolo "Il socialismo...") [aggiunta]
Conseguentemente il socialismo appariva adesso non più come
scoperta accidentale di questa o quella testa geniale, ma come il
risultato necessario della lotta tra due classi formatesi
storicamente: il proletariato e la borghesia. Il suo compito no
era più quello di apportare un sistema quanto più
possibile perfetto della società, ma quello di indagare il
processo storico economico da cui necessariamente sono sorte
queste classi e il loro conflitto, e scoprire nella situazione
economica, così creata, il mezzo per la soluzione del
conflitto.
b26. (nell'opuscolo "Il socialismo...") [aggiunta] Quanto
più violentemente esso inveiva contro lo sfruttamento della
classe operaia, inseparabile dal modo di produzione capitalistico,
tanto meno era in grado di spiegare chiaramente in che cosa
consista e come sorga questo sfruttamento.
Gli articoli di Dühring che anzitutto rientrano nella
seguente trattazione sono il suo "Corso di filosofia", il suo
"Corso di economia politica e sociale" e la sua "Storia critica
dell'economia politica e del socialismo". Per ora ci interessa
soprattutto la prima opera.
Fin dalla prima pagina Dühring si annunzia come "colui che
pretende di rappresentare [22] questo potere" (la filosofia)
"nella sua epoca e per gli sviluppi che immediatamente se ne
possono prevedere". Egli si proclama l'unico vero filosofo del
presente e del futur "che si può prevedere". Chi si
allontana da lui, si allontana dalla verità. Molta gente,
già prima di Dühring, aveva pensato di se stessa
qualche cosa di simile, ma egli è probabilmente il primo,
eccettuato Richard Wagner, che con l'aria più tranquilla di
questo mondo si sia espresso così parlando di se stesso. E,
a dire il vero, la verità di cui egli si occupa è
"una verità definitiva di ultima istanza".
La filosofia di Dühring è
"il sistema naturale ossia la filosofia della realtà... la
realtà nel suo sistema è pensata in una maniera che
esclude ogni velleità di rappresentare il mondo in modo
fantastico e soggettivamente limitato".
Questa filosofia è quindi di tal natura da elevare
Dühring al di sopra di quei limiti della sua personale e
soggettiva limitatezza che egli stesso non può negare. E
veramente questo è necessario se egli deve essere in grado
di stabilire saldamente delle verità definitive di ultima
istanza, sebbene sino al presente noi non scorgiamo ancora come
debba prodursi questo miracolo.
Questo "sistema naturale del sapere che in se stesso ha valore per
lo spirito", "senza derogare in niente dalla profondità del
pensiero", ha "stabilito saldamente le forme fondamentali
dell'essere". Dal suo "punto di vista effettivamente critico"
questo sistema offre
"gli elementi di una filosofia positiva e, conseguentemente,
rivolta alla realtà della natura e della vita, di una
filosofia che non ammette orizzonti meramente parventi, ma invece,
col suo moto possentemente rivoluzionario, dispiega tutte le terre
e i cieli della natura esterna e interna".
Nel campo economico e politico Dühring non soltanto ci
dà "dei lavori storicamente e sistematicamente
comprensivi", che, mentre quelli storici se ne contraddistinguono,
per di più, per "la mia maniera di delineare la storia in
grande stile", nell'economia hanno introdotto "delle svolte
feconde", ma anche conclude con un suo specifico piano socialista
completamente elaborato per la società dell'avvenire, che
è "il frutto pratico di una teoria chiara e che si profonda
sino alle radici" e che perciò, come la filosofia di
Dühring, è altrettanto infallibile ed unica via per la
salvezza. Infatti
"solo in quella struttura socialista che io ho caratterizzato nel
mio "Corso di economia politica e sociale", una proprietà
autentica può sostituire la proprietà semplicemente
parvente e transitoria o piuttosto fondata sulla violenza".
L'avvenire dovrà regolarsi in conformità.
Questo florilegio di elogi che Dühring tributa a Dühring
potrebbe essere agevolmente decuplicato. Ma sin da ora esso
potrebbe aver suscitato nel lettore qualche dubbio se realmente ha
da fare con un filosofo o con... ma noi preghiamo il lettore di
sospendere il suo giudizio sino a quando abbia conosciuto
più da vicino quell'andare alle radici, del quale abbiamo
detto. Noi abbiamo esposto il florilegio di cui sopra solamente
per mostrare che non abbiamo davanti un filosofo e socialista dei
soliti, che semplicemente esprime i suoi pensieri e rimette la
decisione sul loro valore allo sviluppo ulteriore, ma abbiamo a
che fare con un essere assolutamente al di fuori dell'ordinario,
che afferma di essere non meno infallibile del papa e la cui
dottrina, che è la sola via per la salvezza, si deve
accettare senz'altro, se non si vuol cadere nella più
riprovevole eresia. Non abbiamo assolutamente a che fare con una
di quelle opere di cui sono straricche tutte le letterature
socialiste e recentemente anche la tedesca, opere nelle quali
gente di diversa statura cerca, nella maniera più sincera
del mondo, di veder chiaro su questioni per rispondere alle quali
probabilmente le manca più o meno il materiale; opere in
cui, quali che ne siano le deficienze scientifiche e letterarie,
è sempre apprezzabile la buona volontà socialista.
Al contrario, Dühring ci offre dei principi che dichiara
verità definitive di ultima istanza e di fronte alle quali
ogni altra opinione è quindi a priori falsa; e come della
verità definitiva, egli è in possesso dell'unico
metodo di indagine rigorosamente scientifico di fronte al quale
tutti gli altri non sono scientifici. O egli ha ragione, e allora
noi siamo al cospetto del più grande genio di tutti i
tempi, del primo uomo sovrumano perché infallibile. O ha
torto, e anche allora, quale che sia il giudizio che diamo di lui,
un atteggiamento di benevolo rispetto verso la sua eventuale buona
volontà sarebbe pur sempre l'offesa più mortale per
Dühring.
Se si è in possesso della verità definitiva di
ultima istanza e del suo metodo rigorosamente scientifico,
ovviamente si dovrà avere un discreto disprezzo per il
resto dell'umanità errante e sprovvista di scienza. Non
dobbiamo quindi meravigliarci se Dühring parla dei suoi
predecessori col più straordinario dispregio e se solo
pochi grandi uomini, nominati tali da lui stesso a titolo
d'eccezione, trovino grazia di fronte a quel suo andare alle
radici.
Ascoltiamo anzitutto quello che dice dei filosofi: "Leibniz,
sprovvisto di ogni sentimento un po' elevato... il migliore tra
tutti i filosofi cortigiani possibili". Kant è ancora
ancora tollerato, ma dopo di lui tutto è andato sottosopra:
sono venute le "confusioni e le stoltezze altrettanto puerili
quanto quelle degli ultimi epigoni, e quindi specialmente di un
Fichte e di uno Schelling... enormi caricature di un'ignorante
filosofastreria della natura... le enormità postkantiane" e
"i deliri febbrili" che "un Hegel" portò al culmine. Costui
parlava un "gergo hegeliano" e diffondeva la "peste hegeliana"
mediante quella sua "maniera per giunta non scientifica anche
nella forma" e le sue "crudezze".
Né i naturalisti hanno miglior trattamento, ma solo Darwin
è citato per nome e così dobbiamo limitarci a lui:
"Semipoesia di Darwin e sua abilità nel presentare
metamorfosi con la sua ristrettezza grossolana di comprensione e
l'ottusità del suo discernimento... secondo il nostro
parere il darwinismo specifico, da cui naturalmente si devono
eccettuare le tesi lamarckiane, è un atto di
brutalità contro l'umanità".
Ma quelli che escono peggio di tutti sono i socialisti. Ad
eccezione, se mai, di Luois Blanc, il più insignificante di
tutti, essi sono, tutti insieme, dei peccatori e mancano di quella
gloria che dovrebbero avere davanti (o dietro) a Dühring. E
non solo per quel che concerne la verità e il metodo
scientifico, ma anche per quel che concerne il carattere. Ad
eccezione di Babeuf e di alcuni comunardi del 1871, essi, tutti
quanti insieme, non sono degli "uomini". I tre utopisti vengono
chiamati "alchimisti sociali". Di essi Saint-Simon è ancora
trattato con bontà, in quanto gli si rimprovera solo della
"esaltazione" e si accenna con compassione che era affetto da
mania religiosa. Con Fourier, invece, a Dühring scappa la
pazienza. Infatti Fourier "rivelava tutti gli elementi della
follia... Idee che invece si possono trovare piuttosto nei
manicomi... i sogni più confusi... risultati della
follia... Il Fourier indicibilmente sciocco", questa "testolina da
bambino", questo "idiota", inoltre non è neanche un
socialista; il suo falansterio [23] non è affatto un
elemento del socialismo razionale, ma è "una caricatura
costruita sulla falsariga del commercio quotidiano". E finalmente:
"Colui, al quale queste invettive" (di Fourier contro Newton) "non
sono sufficienti per convincersi che nel nome di Fourier e in
tutto il fourierismo solo la prima sillaba" (fou = pazzo) "dice
qualcosa di vero, dovrebbe, proprio lui, essere classificato in
qualche categoria di idioti".
Infine, Robert Owen "aveva delle idee fiacche e meschine... il suo
pensiero così rozzo in materia di morale... pochi luoghi
comuni degenerati in bislaccherie... maniera assurda e rozza di
vedere le cose... Il corso del pensiero di Owen merita appena di
essere sottoposto ad una critica più seria... la sua
vanità" ecc. Se dunque Dühring caratterizza gli
utopisti col loro nome in modo estremamente spiritoso come segue:
Saint-Simon-saint (santo), Furier-fou (pazzo), Enfantin-enfant
(bambinesco), ci manca solo che aggiunga Owen-oweh!
[ahimè!] e semplicemente con quattro parole è
condannato un periodo di importanza capitale della storia del
socialismo, e chi dubita di questo "dovrebbe, proprio lui, essere
classificato in qualche categoria di idioti"
Dai giudizi di Dühring sui socialisti che sono venuti dopo,
per brevità estraiamo solo quelli su Lassalle e su Marx.
Lassalle:
"Tentativi di popolarizzazione che sofisticano pedantescamente...
scolastica soffocante... miscela mostruosa di teorie generali e di
robaccia di poco conto... superstizione hegeliana priva di senso e
di forma... esempio ripugnante... limitatezza peculiare...
vanteria di cianfrusaglie di nessun valore... il nostro eroe
ebreo... libellista... volgare... intrinseca volubilità
nella visione della vita e del mondo".
Marx:
"Ristrettezza di concezione... i suoi lavori e le sue produzioni
in sé e per sé, cioè considerandole dal punto
di vista teorico, sono per il nostro campo" (la storia critica del
socialismo) "prive di un significato durevole per la storia
generali delle correnti spirituali, tutt'al più sono a
citare come sintomi dell'influenza della moderna scolastica
settaria... incapacità di concentrare ed ordinare...
pensiero e stile informi... eloquio privo di dignità...
vanità anglicizzata...turlupinature... concezioni confuse,
che in realtà sono solo prodotti bastardi di fantasie
storiche e logiche... giri di pensiero fallaci... vanità
personale... mezzucci vili... insolente... scoppiettii e piccoli
lazzi di bello spirito... erudizione cinese... arretratezza
filosofica e scientifica".
E così via, e così via, che anche questo è
solo un piccolo e superficiale florilegio del roseto di
Dühring. Beninteso, per il momento ancora a noi non interessa
affatto se questi amabili insulti, che dovrebbero impedire a
Dühring, posto che abbia una certa educazione, di trovare
qualche cosa vile ed insolente, siano parimente verità
definitive di ultima istanza. E anche - per ora - ci guarderemo
bene dall'esprimere qualche dubbio sulla loro capacità di
andare alle radici, perché, se no, ci potrebbe essere
probabilmente perfino impedito di indagare la categoria di idioti
alla quale apparteniamo. Abbiamo creduto solamente che fosse
nostro dovere da una parte dare un esempio di quello che
Dühring chiama "la sceltezza della maniera di esprimersi
riguardosa e, nel senso genuino della parola, modesta", e
dall'altra parte assodare che per Dühring la riprovevolezza
dei suoi predecessori è non meno certa della sua
infallibilità. Dopo di che noi ci sentiamo venir meno,
presi dal più profondo ossequio di fronte al genio
più possente di tutti i tempi, se le cose stanno
precisamente così.
Note
22. Tutti i corsivi, nelle citazioni dagli scritti di
Dühring, sono di Engels.
23. Col nome di falansteri Fourier designava gli edifici in cui
dovevano vivere, coltivando in comproprietà i terreni
circostanti, le comunità di lavoratori da lui ideate.
La filosofia è per Dühring lo sviluppo della forma
più alta della coscienza del mondo e della vita, e
abbraccia, in un senso alquanto lato, i principi di tutto il
sapere e di tutto il volere. Laddove una serie qualsiasi di
conoscenze o di impulsi o un gruppo di forme di esistenza si
pongono problematicamente alla coscienza umana, i principi di
queste forme costituiscono necessariamente un oggetto della
filosofia. Questi principi sono le parti costitutive semplici, o
che sinora si sono presupposte semplici, da cui si fa risultare il
sapere e il volere nella loro complessità. Analogamente
alla costituzione chimica dei corpi, anche la concezione generale
delle cose può essere ridotta a forme ed elementi
fondamentali. Queste ultime parti costitute, o principi, una volta
che siano state acquisite, sono valide non semplicemente per
ciò che è immediatamente noto e accessibile, ma
anche per il mondo a noi ignoto e inaccessibile. Conseguentemente
i principi filosofici costituiscono l'ultima integrazione di cui
abbisognano le scienze per diventare un sistema unitario di
spiegazione della natura e della vita umana. Oltre alle forme
fondamentali di ogni esistenza, la filosofia ha solo due oggetti
peculiari di indagine, ossia la natura e il mondo umano.
Conseguentemente, per disporre ordinatamente la nostra materia, ci
si offrono in modo assolutamente spontaneo tre gruppi, cioè
la schematizzazione generale del mondo, la dottrina dei principi
della natura e finalmente quella dell'uomo. Questa successione
contiene ad un tempo un ordinamento logico interno; infatti, i
principi formali, che sono validi per tutto l'essere, hanno la
precedenza, e i campi oggettivi, a cui essi devono applicarsi,
seguono in ordine discendente, secondo il loro rapporto di
subordinazione. Sin qui Dühring, e quasi completamente alla
lettera.
In lui si tratta, quindi, di principi, di principi formali,
dedotti dal pensiero e non dal mondo esterno, i quali devono
essere applicati alla natura e al regno dell'uomo, e ai quali,
quindi, devono conformarsi la natura e l'uomo. Ma da dove prende
il pensiero questi principi? Da se stesso? No, infatti
Dühring stesso dice che il campo puramente ideale si limita a
schemi logici e a formulazioni matematiche (la quale ultima cosa,
per giunta, come vedremo, è anche falsa). Gli schemi logici
si possono riferire solo a forme di pensiero; qui si tratta
invece, solo di forme dell'essere, del mondo esterno, e queste
forme il pensiero non può mai crearle né dedurle da
se stesso, ma precisamente solo dal mondo esterno. Ma con
ciò tutto il rapporto si inverte: i principi non sono il
punto di partenza dell'indagine, ma invece il suo risultato
finale; non vengono applicati alla natura e alla storia dell'uomo,
ma invece vengono astratti da esse; non già la natura e il
regno dell'uomo si conformano ai principi, ma i principi, in tanto
sono giusti, in quanto si accordano con la natura e con la storia.
Questa è l'unica concezione materialistica dell'argomento e
quella di Dühring, ad essa contrapposta, è
idealistica, sovverte completamente le cose e costruisce il mondo
reale partendo dal pensiero, da schematismi, schemi o categorie
esistenti dall'eternità in qualche luogo prima del mondo,
precisamente come un Hegel.
Infatti, raffrontiamo l'"Enciclopedia" di Hegel, con tutti i suoi
deliri febbrili, e le verità definitive di ultima istanza
di Dühring. In Dühring abbiamo in primo luogo la
schematizzazione generale del mondo, che in Hegel si chiama
Logica. Abbiamo poi l'applicazione di questi schemi, ovvero
categorie logiche, alla natura: Filosofia della natura, e infine
la loro applicazione al regno dell'uomo, che è ciò
che Hegel chiama Filosofia dello spirito. L'"ordinamento logico
interno" della successione dühringiana ci riporta dunque "in
modo assolutamente spontaneo" all'Enciclopedia di Hegel da cui
è stata desunta con una fedeltà che muoverebbe alle
lacrime l'ebreo errante della scuola hegeliana, il professor
Michelet di Berlino [24].
Questo è il risultato che si ha, se si accetta "la
coscienza", "il pensiero", in modo assolutamente naturalistico,
come qualche cosa di dato, di contrapposto a priori all'essere,
alla natura. Si deve trovare allora sommamente strano che
coscienza e natura, pensiero ed essere, leggi del pensiero e leggi
della natura coincidano tanto. Ma se ci si chiede ulteriormente
che cosa siano allora pensiero e coscienza, e da dove essi
traggono origine, si trova che essi sono prodotti dal cervello
umano e che l'uomo stesso è un prodotto della natura che si
è sviluppato col e nel suo ambiente; da ciò si
intende allora senz'altro che i prodotti del cervello umano, i
quali in ultima istanza sono anch'essi prodotti naturali, non
contraddicono il restante nesso della natura, ma invece vi
corrispondono [25].
Ma Dühring non si può permettere una trattazione
così semplice della cosa. Egli pensa non solo in nome
dell'umanità, il che sarebbe già un bell'affare, ma
in nome degli esseri coscienti e pensanti di tutti i corpi
celesti.
"In effetti sarebbe "una degradazione delle forme fondamentali
della coscienza e del sapere, il volere, con l'epiteto di umane,
escludere o anche solo mettere in dubbio la loro sovrana
validità e il loro incondizionato diritto alla
verità".
Poiché, quindi, non sorga il sospetto che in qualche altro
corpo celeste due e due non facciano cinque, Dühring non
può dare al pensiero la qualifica di umano, e deve
conseguentemente separarlo dall'unica base reale su cui esso
esiste per noi, ossia dall'uomo e dalla natura; e con ciò
piomba senza scampo in un'ideologia che lo rivela epigono
dell'"epigono" Hegel. Del resto incontreremo ancora spesso
Dühring su altri corpi celesti.
Si intende facilmente che su una siffatta base ideologica non si
può fondare nessuna dottrina materialistica. Vedremo
più tardi che Dühring più di una volta è
costretto a sostituire alla natura un modo di agire cosciente, e
dunque ciò che in linguaggio comune si chiama dio.
Ma il nostro filosofo della realtà ha ancora un altro
motivo per trasferire la base di tutta la realtà dal mondo
reale al mondo del pensiero. Invero, la scienza di questo
schematismo generale del mondo, di questi principi generali
dell'essere, è precisamente la base della filosofia di
Dühring. Se non facciamo poggiare lo schematismo del mondo
sulla testa, ma semplicemente deduciamo per mezzo della testa i
principi dell'essere dal mondo reale, da ciò che è,
non abbiamo bisogno per far questo di alcuna filosofia, ma di
conoscenze positive del mondo e di ciò che avviene in esso,
e parimente ciò che ne risulta non è filosofia, ma
scienza positiva. Ma così tutto il volume di Dühring
non sarebbe che una fatica d'amore perduta.
Inoltre: se non è più necessaria una filosofia come
tale, allora non sarà più necessario neanche un
sistema e neppure un sistema naturale di filosofia. L'aver
compreso che la totalità dei fenomeni della natura sta in
un nesso sistematico, spinge la scienza a dimostrare questo nesso
sistematico dappertutto, così nel particolare come
nell'insieme. Ma un'esposizione adeguata, esauriente, scientifica
di questo nesso, la costruzione di un'immagine concettuale esatta
del sistema del mondo in cui viviamo resta impossibile per noi
come per ogni altra epoca. Se in un qualsiasi momento dello
sviluppo umano fosse portato a compimento un tale sistema
definitivamente conclusivo dei nessi del mondo, tanto fisici che
spirituali e storici, il regno della conoscenza umana sarebbe
così concluso, e dal momento in cui la società si
fosse organizzata in accordo con quel sistema, sarebbe troncato il
futuro sviluppo storico progressivo: la qual cosa sarebbe un
assurdo, un puro controsenso. Gli uomini si trovano quindi davanti
a questa contraddizione: da una parte di aver da conoscere in modo
esauriente il sistema del mondo in tutti i suoi nessi, dall'altra,
sia per la propria natura che per la natura del sistema del mondo,
di non poter mai assolvere completamente a questo compito. Ma
questa contraddizione non è insita solo nella natura dei
due fattori, mondo e uomo, ma è anche la leva principale di
tutto il progresso intellettuale e si risolve giornalmente e
continuamente nell'infinito sviluppo progressivo
dell'umanità, precisamente come certi problemi matematici
trovano la loro soluzione in una serie infinita o in una frazione
continua. In effetti ogni immagine concettuale del sistema mondo
è e resta limitata oggettivamente dalla posizione storica,
e soggettivamente dalla costituzione fisica e spirituale del suo
autore. Ma Dühring proclama a priori che la sua maniera di
pensare è tale da escludere ogni velleità di
rappresentare il mondo in modo soggettivamente limitato. Abbiamo
visto prima che egli è onnipresente in tutti i corpi
celesti. Ora vediamo anche che è onnisciente. Ha risolto i
problemi ultimi della scienza e così ha sprangato il futuro
di ogni scienza.
Come le forme fondamentali dell'essere, Dühring ritiene di
poter far nascere bella e pronta dalla testa anche tutta la
matematica pura, aprioristicamente, cioè senza servirsi
dell'esperienza che il mondo esterno ci fornisce. Nella matematica
pura l'intelletto deve occuparsi "delle sue proprie libere
creazioni ed immaginazioni"; i concetti di numero e di figura sono
"un oggetto adeguato ad essa e che da essa stessa può
essere prodotto", e conseguentemente essa ha una "validità
indipendente dall'esperienza particolare e dal reale contenuto del
mondo".
Che la matematica pura abbia una validità indipendente
dall'esperienza particolare di ogni singolo individuo è
certamente giusto e vale per tutti i fatti stabiliti di ogni
scienza, anzi per tutti i fatti in generale. Il fatto che l'acqua
è composta di idrogeno e di ossigeno, il fatto che Hegel
è morto e Dühring vive, hanno una validità
indipendente dall'esperienza mia o di altri singoli individui e
persino indipendente dall'esperienza di Dühring, non appena
egli dorme il sonno del giusto. Ma non è affatto vero che
nella matematica pura l'intelletto si occupi semplicemente delle
creazioni e delle immaginazioni sue proprie. I concetti di numero
e di figura non sono presi assolutamente da altro che dal mondo
reale. Le dieci dita con cui gli uomini hanno imparato a contare e
quindi a compiere le prime operazioni aritmetiche sono tutto quel
che si vuole fuorché una libera creazione dell'intelletto.
Per contare occorrono non solo oggetti numerabili, ma anche la
capacità di prescindere, nella considerazione di questi
oggetti, da tutte le altre loro proprietà tranne che dal
loro numero: e questa capacità è il risultato di un
lungo sviluppo storico fondato sull'esperienza. Come il concetto
di numero, così il concetto di figura è preso a
prestito esclusivamente dal mondo esterno e non è nato
nella mente per opera del puro pensiero. Prima che si sia potuto
arrivare al concetto di figura, ci dovevano essere delle cose che
avevano una forma e le cui forme sono state raffrontate. La
matematica pura ha per oggetto le forme spaziali e i rapporti
quantitativi del mondo reale, è quindi una materia molto
reale. Il fatto che questa materia si presenti in una forma
estremamente astratta, solo superficialmente può nascondere
la sua origine dal mondo esterno. Ma per potere indagare queste
forme e questi rapporti nella loro purezza è necessario
separarli completamente dal loro contenuto e accantonare questo
contenuto come cosa irrilevante; così si perviene al punto
senza dimensioni, alle linee senza spessore e senza lunghezza,
agli a e b e x e y, alle costanti e alle variabili e poi proprio
solo alla fine di tutto questo si arriva alle vere e proprie
libere creazioni e immaginazioni dell'intelletto, ossia alle
grandezze immaginarie. Anche l'apparente deduzione delle grandezze
matematiche l'una dall'altra non prova la loro origine a priori,
ma solo il loro nesso razionale. Prima di arrivare all'idea di
dedurre la forma di un cilindro dalla rotazione di un rettangolo
intorno ad uno dei suoi lati, si son dovuti esaminare un buon
numero di rettangoli e cilindri reali, se pure in una forma tanto
imperfetta. Come tutte le altre scienze la matematica è
sorta dai bisogni degli uomini: dalla misurazione di terre e dalla
capacità dei vasi, dal computo cronologico e dalla
meccanica. Ma, come tutti i campi del pensiero, ad un ceto grado
di sviluppo le leggi, astratte dal mondo reale, vengono separate
dal mondo reale e contrapposte ad esso come qualche cosa di
indipendente, come leggi che vengono dall'esterno e a cui il mondo
deve conformarsi. Così avviene nella società e nello
Stato e così non altrimenti la matematica pura viene
applicata al mondo posteriormente, sebbene proprio da questo mondo
essa sia presa a prestito e rappresenti solo una parte delle sue
forme di composizione e proprio solo per questo possa in generale
avere applicazione.
Ma Dühring, come immagina di poter dedurre, senza alcuna
aggiunta sperimentale, degli assiomi matematici, i quali, "anche
secondo l'idea puramente logica che se ne ha, non sono né
suscettibili né bisognevoli di una dimostrazione", tutta la
matematica pura e di poterla poi applicare al mondo, del pari
immagina di potere far prima sorgere dalla testa le forme
fondamentali dell'essere, le parti costitutive semplici di tutto
il sapere, gli assiomi della filosofia, di poter poi dedurre da
essi tutta la filosofia o schematizzazione del mondo, e di poter
finalmente, da sovrano, elargire questa sua concezione alla natura
e al mondo umano. Disgraziatamente la natura non è per
nulla costituita dalla Prussia di Manteuffel del 1850 e il mondo
umano lo è solo per una parte infinitesima [26].
Gli assiomi matematici sono espressioni di quel contenuto
concettuale estremamente povero che la matematica deve prendere a
prestito dalla logica. Essi si possono ridurre a due:
1. Il tutto è maggiore della parte. Questo principio
è una pura tautologia, giacché l'idea
quantitativamente concepita di parte si riferisce a priori
precisamente all'idea di tutto, di guisa che "parte" dice,
senz'altro, che il "tutto" quantitativo consta di più
"parti" quantitative. Constatando semplicemente questo fatto, il
cosiddetto assioma non ci fa avanzare di un passo. Questa
tautologia può in certo modo essere dimostrata dicendo: un
tutto è ciò che consta di più parti; una
parte è una delle cose la cui pluralità costituisce
un tutto, conseguentemente la parte è minore del tutto. E
qui lo squallore della ripetizione fa emergere ancora più
vivamente lo squallore del contenuto.
2. Se due grandezze sono eguali a una terza esse sono eguali tra
loro. Questo principio, come ha già dimostrato Hegel,
è una conclusione della cui esattezza è garante la
logica [27]: esso è dunque provato, anche se provato fuori
dalla matematica pura. Gli altri assiomi sull'eguaglianza e sulla
disuguaglianza sono semplici estensioni logiche di questa
conclusione.
Questi magri principi roncavano un ragno dal buco né nella
matematica né altrove. Per andare avanti dobbiamo
introdurre rapporti reali, rapporti e forme spaziali che sono
tratti da corpi reali. Le rappresentazioni di linee, piani,
angoli, poligoni, cubi, sfere, ecc. sono tutte prese a prestito
dalla realtà e ci vuole un bel po' di ingenuità
ideologica per prestar fede ai matematici secondo cui la prima
linea si sarebbe generata dal movimento di un punto nello spazio,
il primo piano dal movimento di una linea, il primo corpo dal
movimento di un piano, ecc. Perfino la lingua vi si ribella. Una
figura matematica di tre dimensioni si dice corpo, corus solidum,
quindi in latino perfino corpo tangibile; essa dunque porta un
nome che non è affatto preso a prestito dalla libera
immaginazione, ma dalla solida realtà.
Ma perché tutta questa prolissità? Dopo avere, a pp.
42 e 43 [28], cantato entusiasticamente l'indipendenza della
matematica pura dal mondo sperimentale, la sua apriorità,
il suo occuparsi delle libere creazioni e immaginazioni
intellettive che le sono proprie, Dühring dice a p. 63:
"È certo facile scorgere che quegli elementi matematici"
("numero, grandezza, tempo, spazio e movimento geometrico") "sono
ideali solo per la loro forma (...) che le grandezze assolute sono
perciò qualcosa di assolutamente empirico, a qualunque
specie esse appartengono"... ma "gli schemi matematici sono
suscettibili di una caratterizzazione che, pur avulsa della
esperienza, è tuttavia sufficiente",
la quale ultima affermazione vale più o meno per ogni
astrazione, ma non dimostra affatto che essa non sia astratta
dalla realtà. Nella schematizzazione del mondo la
matematica sorge dal puro pensiero, nella filosofia della natura
è qualcosa di assolutamente empirico, tratto dal mondo
esterno e poi separato da esso. A chi dunque dobbiamo credere?
"L'essere che tutto abbraccia è unico. Nella sua
autosufficienza esso non ha niente accanto a sé.
Associargli un secondo essere significa farlo diventare ciò
che non è, cioè una parte o un elemento costitutivo
di un tutto più ampio. Poiché noi distendiamo il
nostro pensiero unitario, per così dire, come una cornice,
niente di ciò che deve rientrare in questa unità di
pensiero può contenere in sé una dualità. Ma
niente può neppure sottrarsi a questa unità di
pensiero (...) l'essenza di tutto il pensiero consiste nella
riunione degli elementi della coscienza in una unità (...)
Proprio l'unità puntuale della sintesi fa sorgere il
concetto del mondo indivisibile e riconoscere l'universo, come
dice la parola, come qualcosa in cui tutto è riunito come
in una unità".
Sin qui Dühring. Il metodo matematico per cui "ogni questione
deve risolversi assiomaticamente in forme fondamentali semplici,
come se si trattasse di semplici... principi della matematica",
questo metodo è qui applicato per la prima volta.
"L'essere che tutto abbraccia è unico." Se una tautologia,
semplice ripetizione nel predicato di ciò che è
già espresso nel soggetto, costituisce un assioma, qui ne
abbiamo uno della più bell'acqua. Nel soggetto Dühring
ci dice che l'essere che tutto abbraccia è unico e nel
predicato afferma intrepido che allora niente è fuori di
esso. Che colossale idea "creatrice di un sistema"!
Creatrice di un sistema, infatti. Non son ancora passate altre sei
righe ed ecco che Dühring, per mezzo del nostro pensiero
unitario, ha trasformato l'unicità dell'essere nella sua
unità. Poiché l'essenza di tutto il pensiero
consiste nell'attività sintetica unitaria, l'essere, tosto
che viene pensato, viene pensato come unitario: il concetto del
mondo è un concetto indivisibile; e poiché l'essere
pensato, il concetto del mondo, è unitario, l'essere reale,
il mondo reale, è parimente una unità indivisibile.
Conseguentemente, "una volta che lo spirito abbia imparato a
concepire l'essere nella sua omogenea universalità, non
c'è più luogo per le trascendenze".
È questa una campagna di fronte alla quale scompaiono
completamente Austerlitz e Jena, Königgrätz e Sedan
[29]. Con poche frasi, appena una pagina dopo che abbiamo
mobilitato il primo assioma, abbiamo già abolito,
eliminato, annientato ogni trascendenza, dio, le schiere celesti,
il cielo, l'inferno e il purgatorio, insieme
all'immortalità dell'anima.
Come arriviamo dall'unicità dell'essere alla sua
unità? In generale col pensarlo nella mostra mente.
L'essere unico diventa nel pensiero un essere unitario, una
unità ideale, non appena intorno ad esso tendiamo il nostro
pensiero unitario come una cornice; infatti l'essenza di tutto il
pensiero consiste nella riunione di elementi della coscienza in
una unità.
Quest'ultima proposizione è semplicemente falsa. In primo
luogo il pensiero consiste tanto nella scomposizione degli oggetti
della coscienza nei loro elementi, tanto nella riunione di
elementi omogenei in una unità. Senza analisi non
c'è sintesi. In secondo luogo, il pensiero non può,
se non vuol prendere un granchio, che raccogliere in una
unità quegli elementi della coscienza nei quali, o nei
prototipi reali dei quali, questa unità esisteva già
da prima. Se si assume una spazzola da scarpe sotto l'unità
mammifero, ci vuol altro perché le crescano le mammelle.
L'unità dell'essere, ossia la legittimità del fatto
che esso venga concepito nel pensiero come unità, è
quindi proprio ciò che si doveva dimostrare, e se
Dühring ci assicura che egli pensa nella sua mente l'essere
unitariamente e non già come dualità, con ciò
non ci racconta altro che la sua non autorevole opinione.
Se vogliamo presentare nettamente la linea del suo pensiero, essa
è la seguente: Io comincio con l'essere. Quindi io penso
nella mia mente l'essere. Il pensiero dell'essere è
unitario. Ma pensare ed essere devono armonizzare; essi sono in
corrispondenza l'uno con l'altro: "coincidono". Quindi l'essere
è unitario anche nella realtà. Quindi non ci sono
"trascendenze". Ma se Dühring avesse parlato così
scopertamente invece di regalarci lesentenze oracolari che abbiamo
riportate sopra, l'ideologia sarebbe stata chiaramente visibile.
Voler dimostrare, partendo dall'unità di pensiero ed
essere, la realtà di qualsiasi prodotto del pensiero:
questo è stato precisamente uno dei più folli deliri
febbrili di un Hegel.
Anche se il suo procedimento dimostrativo fosse giusto,
Dühring non avrebbe guadagnato sugli spiritualisti neanche un
pollice di terreno. Gli spiritualisti gli risponderebbero in
breve: il mondo è semplice anche per noi; la divisione in
al di qua e al di là esiste solo per il nostro punto di
vista specificamente terreno, inficiato dal peccato originale; di
sé e per sé, cioè in dio, tutto l'essere
è uno. E accompagnerebbero Dühring sugli altri corpi
celesti a lui cari e gliene mostrerebbero uno e più in cui
non ha avuto luogo nessun peccato originale; in cui quindi non
esiste antitesi tra al di qua e al di là e in cui
l'unità del mondo è un postulato della fede.
L'elemento più comico della cosa è che Dühring
per dimostrare la non esistenza di dio partendo dal concetto
dell'essere, applica la prova ontologica dell'esistenza di dio.
Essa suona così: se noi immaginiamo dio, lo immaginiamo
come la somma di tutte le perfezioni. Ma alla somma di tutte le
perfezioni è inerente prima di tutto l'esistenza, infatti
un essere inesistente è necessariamente imperfetto. Quindi
tra le perfezioni di dio dobbiamo annoverare anche l'esistenza.
Quindi dio deve esistere... Precisamente nella stessa maniera
ragiona Dühring: se noi pensiamo nella nostra mente l'essere,
lo pensiamo come un concetto. Ciò che è compreso in
un concetto è unitario. L'essere dunque non
corrisponderebbe al suo concetto se non fosse unitario.
Conseguentemente dio non esiste, ecc.
Se noi parliamo dell'essere, e semplicemente dell'essere,
l'unità può consistere solo nel fatto che tutti gli
oggetti di cui si tratta sono, esistono. Essi sono raccolti
nell'unità di quest'essere e in nessun'altra, e
l'espressione comune che, essi tutti, sono, non solo non
può dar loro nessun'altra proprietà comune o non
comune, ma esclude, per il momento, dalla nostra considerazione
ogni altra proprietà. Infatti appena ci allontaniamo anche
solo di un millimetro dal semplice fatto fondamentale che tutte
queste cose hanno in comune l'essere, cominciano a balzarci agli
occhi le differenze di queste cose, e se queste differenze
consistono nel fatto che di queste cose le une sono bianche e le
altre sono nere, le une sono animate e le altre inanimate, le une
sono, diciamo, dell'al di qua, le altre dell'al di là,
è cosa che non possiamo decidere partendo dal fatto che ad
esse tutte egualmente è attribuita la semplice esistenza.
L'unità del mondo non consiste nel suo essere, sebbene il
suo esser sia un presupposto della sua unità, poiché
esso deve anzitutto pur essere, prima di poter essere uno. Invero
l'essere è in generale una questione aperta a partire da
quel limite oltre il quale cessa il nostro orizzonte visivo.
L'unità reale del mondo consiste nella sua
materialità, e questa è dimostrata non da alcune
frasi cabalistiche, ma da uno sviluppo lungo e laborioso della
filosofia e delle scienze naturali.
Andiamo avanti nella lettura del testo. L'essere, sul quale ci
intrattiene Dühring,
"non è quel puro essere che, eguale a se stesso, sarebbe
privo di ogni determinazione particolare ed effettivamente
rappresenta solo un riflesso del nulla di pensiero o dell'assenza
di pensiero".
Ma vedremo ora molto presto che il mondo di Dühring in
verità prende l'inizio da un essere che è privo di
ogni distinzione interna, di ogni movimento e di ogni cambiamento
e quindi è effettivamente solo un riflesso del nulla di
pensiero, dunque un reale nulla. Solo da questo essere-nulla si
sviluppa l'attuale stato del mondo, differenziato, pieno di
cambiamenti e che presenta uno sviluppo, un divenire; e solo dopo
aver compreso questo, arriveremo a "tener fermo il concetto
dell'essere universale eguale a se stesso", pur in questo eterno
cambiamento. Noi quindi abbiamo ora il concetto dell'essere a un
grado superiore, grado in cui comprende in se stesso il permanere
quanto il mutare, tanto l'essere quanto il divenire. Arrivati a
questo punto troviamo che "genere e specie o, in generale,
universale e particolare, sono i più semplici mezzi di
differenziazione, senza i quali non può essere compresa la
costituzione delle cose". Ma questi sono mezzi di differenziazione
della qualità; e avendone trattato, possiamo dire "di
fronte ai generi sia il concetto della grandezza, come concetto di
quell'omogeneo nel quale non si trova più nessuna
differenza specifica"; cioè dalla qualità passiamo
alla quantità, e questa è sempre "misurabile".
Confrontiamo ora questa "distinzione precisa degli schemi generali
d'azione" e il suo "punto di vista realmente critico" con le
crudezze, le confusioni, i deliri febbrili di un Hegel. Troveremo
che la logica di Hegel comincia dall'essere, come Dühring;
che l'essere risulta come il nulla, come in Dühring; che da
questo essere-nulla si passa al divenire, il cui risultato
è l'esistenza, cioè una forma più alta,
più piena dell'essere, precisamente come in Dühring.
L'esistenza porta alla qualità, la qualità alla
quantità, precisamente come in Dühring. E
perché non manchi nessun elemento essenziale, ecco che cosa
ci racconta Dühring in un'altra occasione:
"Dal regno della insensibilità non si entra in quello della
sensazione, malgrado ogni gradualità quantitativa, che con
un salto qualitativo del quale noi (...) Possiamo affermare che si
differenzia infinitamente dalla semplice gradazione di una
medesima proprietà".
Questa è precisamente la linea nodale dei rapporti di
misura di Hegel, nella quale un incremento o una diminuzione
semplicemente quantitativi causano, in certi particolari punti
nodali, un salto qualitativo; il che si ha per es. nel caso
dell'acqua riscaldata o raffreddata in cui il punto di ebollizione
e il punto di congelamento sono quei nodi nei quali si compie, a
pressione normale, il salto in un nuovo stato di aggregazione, nei
quali, quindi, la quantità si converte repentinamente in
qualità.
La nostra indagine ha tentato, anch'essa, di andare sino alle
radici e ha trovato, quali radici di quegli schemi fondamentali
dühringiani che vanno alle radici... i "deliri febbrili" di
un Hegel, le categorie della "Logica" hegeliana, Parte prima,
Dottrina dell'essere, con la "sequenza" rigorosamente conforme al
vecchio hegelismo e con un timido tentativo di occultare il
plagio!
E non contento di rubare al più calunniato dei suoi
predecessori tutta la schematizzazione dell'essere, Dühring,
dopo aver portato egli stesso l'esempio surriferito della
conversione repentina, a salti, della quantità alla
qualità, ha la faccia tosta di dire di Marx:
"Come è comico per esempio l'appello" (di Marx) "alla
confusa è nebulosa idea hegeliana che la quantità si
muta in qualità!".
Confusa e nebulosa idea! Chi si converte qui repentinamente e chi
è comico, signor Dühring?
Tutte queste belle cosette, quindi, non solo non sono
"assiomaticamente risolte", secondo le prescrizioni, ma sono
semplicemente riportate dall'esterno, cioè dalla "Logica"
hegeliana. E precisamente, in modo tale che in tutto il capitolo
non figura mai, neppure una volta, neanche la parvenza di un nesso
interno, se non nella misura in cui anch'esso è preso in
prestito da Hegel, e finalmente il tutto va a finire in un vuoto
sottilizzare sullo spazio e il tempo, sul permanere e il cambiare.
Dall'essere, Hegel passa all'essenza, alla dialettica. Qui egli
tratta delle determinazioni della riflessione, delle loro
opposizioni e contraddizioni interne, come per es. positivo e
negativo, arriva poi alla causalità o rapporto di causa ed
effetto e chiude con la necessità. Non diversamente
Dühring. Ciò che Hegel chiama dottrina dell'essenza,
Dühring lo traduce in proprietà logiche dell'essere.
Ma queste consistono anzitutto nell'"antagonismo di forze", in
opposizioni. La contraddizione, per contro, Dühring la nega
radicalmente. Ritorneremo più tardi su questo argomento.
Egli passa poi alla causalità e da questa alla
necessità. Se dunque Dühring dice di se stesso: "Noi
che non filosofiamo da una gabbia", probabilmente intende che
filosofa in gabbia, cioè nella gabbia dello schematismo
hegeliano delle categorie.
Passiamo ora alla filosofia della natura. Qui Dühring ha
ancora una volta tutte le ragioni di essere insoddisfatto dei suoi
predecessori. La filosofia della natura "è caduta
così in basso da essere diventata un'arida pseudopoesia
fondata sull'ignoranza" e "da esser toccata in sorte alla
prostituita filosofastreria di uno Schelling e simili piccoli
barattieri del sacerdozio dell'assoluto e mistificatori del
pubblico". La stanchezza ci ha salvato da queste
"deformità", ma sino ad ora essa ha fatto posto solo
all'"inconsistenza"; "e per quel che concerne il gran pubblico,
è notorio che la scomparsa di un ciarlatano più
grande spesso non è stata, per un successore minore, ma
più esperto negli affari, che l'occasione per ripetere,
sotto mutata insegna, le produzioni dell'altro". Gli stessi
naturalisti sentono poco "gusto per una escursione nel regno delle
idee che abbracciano l'universo" e perciò non compiono, in
campo teorico, che delle "improvvisazioni sconclusionate".
C'è qui da fare un urgente salvataggio, e fortunatamente
è presente Dühring.
Per apprezzare giustamente le rivelazioni che ora seguiranno sul
dispiegamento del mondo nel tempo e sulla sua limitazione nello
spazio, dobbiamo rifarci ad alcuni passi della "schematizzazione
del mondo".
In perfetta concordanza con Hegel ("Enciclopedia", par. 93)
all'essere viene attribuita l'infinità, quella che Hegel
chiama la cattiva infinità, e questa infinità viene
ora sottoposta a indagine.
"La forma più evidente di una infinità che debba
essere pensata senza contraddizioni è l'indefinito
accumularsi dei numeri nella serie matematica (...) come ad ogni
numero noi possiamo sempre aggiungere un'altra unità, senza
mai esaurire la possibilità di un'ulteriore numerazione,
così anche ad ogni stato dell'essere succede uno stato
ulteriore; e nell'illimitato prodursi di questi stati consiste
l'infinità. Anche questa infinità, pensata con
esattezza, non ha perciò che una sola forma fondamentale
con una sola direzione. Cioè, sebbene per il nostro
pensiero sia indifferente tracciare una direzione opposta
nell'accumulazione degli stati, tuttavia l'infinità
regressiva non è, con precisione, che una affermazione
ideale concepita affrettatamente. Invero. Poiché essa
dovrebbe aver percorso la realtà in direzione inversa, in
ognuno dei suoi stati avrebbe dietro di sé una serie
infinita di numeri. Ma con ciò si andrebbe incontro alla
contraddizione inammissibile di una serie numerica infinita e
numerata; e così si dimostra assurdo il postulare ancora
una seconda direzione dell'infinità".
La prima conclusione che si trae da questa concezione
dell'infinità è che il concatenamento di cause ed
effetti nel mondo deve, una volta, aver avuto un principio: "un
numero infinito di cause, che debbano essersi già allineate
in serie una accanto all'altra, è impensabile, non fosse
altro per il fatto che esso postula come numerato l'innumere".
Quindi l'esistenza di una causa ultima è dimostrata.
La seconda conclusione è "la legge del numero determinato:
l'accumulazione di ciò che hanno di identico cose
indipendenti di qualsiasi genere reale è pensabile solo
come formazione di un numero determinato". Non solo il numero
attuale dei corpi celesti deve in ogni istante essere un numero in
sé determinato, ma lo deve essere anche il numero reale di
tutte le più piccole parti di materia esistenti nel mondo.
Quest'ultima necessità è la vera ragione per cui non
può pensarsi nessun composto senza atomi. Ogni divisione
reale ha sempre un limite finale, e deve averlo se non ha da
presentarsi la contraddizione dell'innumere numerato. Per la
stessa ragione, non solo il numero delle rivoluzioni che sino ad
ora la terra ha compiuto intorno al sole deve essere un numero
determinato, sebbene non possa essere indicato, ma tutti i
processi naturali periodici debbono avere avuto un qualche
principio, e tutte le forme differenti e le varietà della
natura che si susseguono devono avere le loro radici in uno stato
eguale a se stesso. Questo stato può, senza contraddizione,
essere esistito sin dall'eternità, ma anche quest'idea
sarebbe esclusa se in sé il tempo stesso fosse costituito
da parti reali e non fosse invece diviso in modo meramente
arbitrario mediante le possibilità ideali che il nostro
intelletto pone. La cosa è diversa quando si tratta del
contenuto reale ed in se stesso differenziato del tempo; questo
tempo realmente riempito di fatti per loro natura distinguibili e
le forme di esistenza di questa sfera appartengono precisamente,
per via del loro essere distinto, all'ambito del numerabile.
Immaginiamo uno stato che sia senza cambiamenti e che, nella sua
eguaglianza con se stesso, non offra alcuna distinzione e alcuna
successione di nessun genere; in questo caso anche il concetto
più specifico di tempo si trasforma nell'idea più
generale di essere. Che cosa possa significare l'accumularsi di un
durare vuoto, non si può assolutamente pensare. Sin qui
Dühring: ed egli è non poco entusiasta dell'importanza
delle sue scoperte. Dapprima spera che esse "almeno non saranno
prese per una verità di poco conto"; ma più tardi
dice:
"Ci si ricordi di quei procedimenti della più grande
semplicità con i quali noi abbiamo reso possibile ai
concetti di infinità e alla loro critica di raggiungere una
portata sinora sconosciuta (...) gli elementi della concezione
universale dello spazio e del tempo che, dalla precisazione e
dall'approfondimento presenti, hanno avuto una forma tanto
semplice".
Noi abbiamo reso possibile! Precisazione e approfondimento
presenti! Ma chi siamo noi, e quando ha luogo il nostro presente?
Chi approfondisce e precisa?
"Tesi. Il mondo ha un principio nel tempo e, per quanto concerne
lo spazio, è anche incluso in limiti. Dimostrazione:
Infatti, se si ammette che il mondo non abbia un principio nel
tempo, fino ad ogni istante dato sarà trascorsa una
eternità, e conseguentemente nel mondo sarà
trascorsa una serie infinita di stadi successivi delle cose. Ma
ora, l'infinità di una serie consiste precisamente nel
fatto che essa non può mai essere completata da una sintesi
successiva. Dunque una serie infinita di mondi passati è
impossibile, e con ciò un principio del mondo è
condizione necessaria della sua esistenza; come dovevasi
dimostrare. Riguardo al secondo punto, si ammetta, ancora una
volta, il contrario; il mondo sarà un tutto dato e infinito
di cose coesistenti. Ora, noi non possiamo pensare lagrandezza di
un quantum, che non sia dato ad ogni intuizione entro certi
limiti, in nessun'altra maniera che mediante la sintesi delle due
parti e non possiamo pensare la totalità di un tale quantum
se non per mezzo della sintesi completa o per mezzo del ripetuto
aggiungersi dell'unità a se stessa. Di conseguenza, per
pensare il mondo che riempie tutti gli spazi, come un tutto, la
sintesi successiva delle parti di un mondo infinito dovrebbe
ritenersi completata, cioè dovrebbe ritenersi trascorso,
nella enumerazione di tutte le cose coesistenti, un tempo
infinito, il che è impossibile. Per conseguenza un
aggregato infinito di cose reali non può ritenersi come un
tutto dato e conseguentemente nemmeno come dato nello stesso
tempo. Ne consegue che un mondo, per quel che concerne
l'estensione nello spazio, non è infinito, ma incluso nei
suoi limiti; ciò che era il secondo punto" (da dimostrare).
Queste proposizioni sono copiate letteralmente da un libro ben
noto, che apparve per la prima volta nel 1781 ed è
intitolato "Critica alla ragion pura", di Immanuel Kant, dove
ognuno può leggerle nella prima parte, seconda sezione,
secondo libro, secondo capitolo, secondo paragrafo: Prima
antinomia della ragion pura. A Dühring spetta perciò
solamente la gloria di avere applicato il nome di legge del numero
determinato ad un'idea espressa da Kant e di avere fatto la
scoperta che una volta c'era un tempo nel quale non c'era tempo,
sebbene ci fosse un mondo. Per tutto il resto, quindi per tutto
ciò che nella disquisizione di Dühring ha ancora
qualche senso, "noi" è Immanuel Kant e il "presente" non ha
che novantacinque anni. "Semplicissimo", in verità!
Notevole "portata sinorasconosciuta"!
Ma invero Kant non sostiene affatto che i teoremi surriferiti
siano esauriti dalla sua dimostrazione. Al contrario: nella pagina
di fronte egli afferma e dimostra l'opposto: che il mondo non ha
un principio nel tempo e non ha un termine nello spazio; e fa
consistere l'antinomia, la contraddizione insolubile, proprio nel
fatto che delle due proposizioni l'una è altrettanto
dimostrabile quanto l'altra. Gente di minore statura sarebbe
probabilmente rimasta perplessa vedendo come "un Kant" trova qui
una difficoltà insolubile. Non così il nostro
valoroso manipolatore "di conclusioni e di vedute originali sin
dalle fondamenta": di una antinomia di Kant costui copia
intrepidamente ciò che gli può servire e il resto lo
butta via.
Il problema per se stesso si risolve in modo molto semplice.
Eternità nel tempo e infinità nello spazio
consistono, già originariamente e secondo il semplice senso
letterale delle parole, nel non aver un termine in nessuna
direzione, né avanti né indietro, né su
né giù, né a destra né a sinistra.
Questa infinità è una cosa assolutamente diversa da
quella di una serie infinita, infatti questa comincia a priori
sempre da uno, da un primo membro. L'inapplicabilità di
questa idea della serie al nostro oggetto diviene immediatamente
evidente se la applichiamo allo spazio. La serie infinita,
tradotta in linguaggio spaziale, è la linea tirata da un
punto determinato, in una direzione determinata e prolungata
all'infinito. È con ciò espressa, sia pure solo
lontanamente, l'infinità dello spazio? Al contrario; per
concepire le dimensioni dello spazio, si devono avere giusto sei
linee tirate da questo unico punto in tre dimensioni opposte; e
conseguentemente di queste dimensioni ne avremmo sei. Kant
comprese così bene tutto questo, che solo indirettamente,
per una via traversa, trasportò la sua serie numerica anche
nella spazialità del mondo. Dühring, invece, ci
costringe ad ammettere sei dimensioni nello spazio e subito dopo
non trova parole sufficienti per esprimere la sua indignazione
contro il misticismo matematico di Gauss, che non intendeva
accontentarsi delle solite tre dimensioni dello spazio [30].
Applicata al tempo, la linea, o serie di unità, infinita
nelle due direzioni ha un certo senso metaforico. Ma se ci
rappresentiamo il tempo come numerato a partire da uno, o come una
linea che parta da un punto determinato, con ciò diciamo in
anticipo che il tempo ha un principio: diamo come presupposto
precisamente ciò che dobbiamo dimostrare. Diamo
all'infinità del tempo un carattere unilaterale, dimezzato;
ma un'infinità unilaterale, un'infinità dimezzata,
è una contraddizione anche in se stessa, il contrario
esatto di una "infinità pensata senza contraddizioni". Da
questa contraddizione possiamo venir fuori solo se ammettiamo che
l'uno con cui cominciamo a numerare la serie, che il punto dal
quale partiamo per misurare la linea, sia un qualunque uno della
serie, un punto qualunque nella linea, riguardo ai quali, per la
linea o per la serie, non ha alcuna importanza dove li poniamo.
Ma la contraddizione della "serie numerica infinita e numerata"?
Saremo in grado di indagarla da vicino non appena Dühring ci
avrà esibito il pezzo di bravura di numerarla. Ne
riparleremo quando sarà riuscito a contare da - ∞ (meno
infinito) a zero. È chiaro invero che dovunque egli
comincerà a contare, si lascerà sempre alle spalle
una serie infinita e con essa il compito che doveva assolvere. Si
provi solo a rovesciare la sua serie infinita 1 + 2 + 3 + 4... e
tenti di contare da capo, partendo dal termine infinito sino ad
uno: sarà evidentemente il tentativo di un uomo che non
capisce affatto di che cosa si tratta. Ma c'è di
più. Dühring, affermando che la serie infinita del
tempo trascorso è numerata, afferma conseguentemente che il
tempo ha un principio; infatti, diversamente non potrebbe, di
certo, nemmeno cominciare a "numerare". Quindi ancora una volta
introduce di soppiatto come presupposto ciò che deve
dimostrare. L'idea della serie infinita e numerata, in altri
termini, la legge dühringiana del numero determinato, legge
che abbraccia l'universo, non è quindi che una contradictio
in adjecto, contiene in se stessa una contraddizione, e invero una
contraddizione assurda.
È chiaro che l'infinità che ha una fine, ma non ha
un principio, non è più né meno infinita di
quella che ha un principio ma non ha una fine. L'intuito
dialettico più modesto avrebbe dovuto suggerire a
Dühring che principio e fine sono necessariamente legati
l'uno all'altra, come il polo nord e il polo sud, che, se si
omette la fine, il principio diventa precisamente la fine, l'unica
fine che la serie ha, e viceversa. Tutta l'illusione sarebbe
impossibile senza la consuetudine propria della matematica di
operare con serie infinite. Poiché nella matematica si deve
partire dal determinato, dal finito, per arrivare
all'indeterminato, all'infinito, tutte le serie matematiche,
positive o negative, devono cominciare da uno, altrimenti sarebbe
impossibile servirsene per calcolare. Ma l'esigenza ideale del
matematico è molto lontana dall'essere una legge
obbligatoria per il mondo reale.
Del resto Dühring non riuscirà a pensare senza
contraddizione la reale infinità. L'infinità
è una contraddizione ed è piena di contraddizioni.
È già una contraddizione che una infinità
debba essere composta puramente di cose finite, eppure questo
avviene. La limitatezza del mondo materiale porta a contraddizioni
non meno della sua illimitatezza, ed ogni tentativo di eliminare
queste contraddizioni porta, come abbiamo visto, a nuove e
peggiori contraddizioni. Precisamente perché
l'infinità è una contraddizione, essa è un
processo infinito che si svolge senza un termine nello spazio e
nel tempo. La soppressione della contraddizione sarebbe la fine
dell'infinità. Tutto questo Hegel lo aveva già
compreso in modo assolutamente giusto e perciò egli tratta
con meritato disprezzo anche quei signori che si stillano il
cervello intorno a questa contraddizione.
Andiamo avanti. Dunque il tempo ha avuto un principio. Che cosa
c'era prima di questo principio? Il mondo che si trovava in uno
stato eguale a se stesso, immutabile. E poiché in questo
stato non abbiamo mutamenti successivi, anche il concetto
più specifico di tempo si trasforma nell'idea più
generale dell'essere. In primo luogo, qui a noi non interessa
affatto quali concetti si trasformino in testa a Dühring. Non
si tratta del concetto di tempo, ma del tempo reale e di questo
Dühring non si libererà tanto a buon mercato. In
secondo luogo, per quanto il concetto di tempo possa trasformarsi
nell'idea più generale dell'essere, non perciò noi
faremo un passo avanti. Infatti, le forme fondamentali di tutto
l'essere sono spazio e tempo, e un essere fuori del tempo è
un assurdo altrettanto grande quanto un essere fuori dello spazio.
L'"essere trascorso senza tempo" di Hegel, il neoschellingiano
"essere impensabile in precedenza" [31] sono idee razionali in
confronto a quest'essere fuori dal tempo. Perciò
Dühring si mette all'opera anche con molta cautela: parlando
con precisione, probabilmente c'è un tempo, ma è un
tempo tale che in fondo non si può chiamare tempo: il
tempo, invero, in se stesso, non consta di parti reali, e solo dal
nostro intelletto viene arbitrariamente diviso, solo un tempo
realmente riempito di parti distinguibili appartiene alla sfera
del numerabile: che cosa possa significare l'accumularsi di un
vuoto durare è cosa che non si può assolutamente
pensare. Che cosa possa significare questo accumularsi è
cosa qui assolutamente indifferente; ci si chiede se il mondo,
nello stato che qui è presupposto, dura, ha una durata nel
tempo. Che a misurare una tale durata priva di contenuto non si
ricavi niente, precisamente come a misurare lo spazio vuoto senza
scopo e senza meta, è cosa che sappiamo già da lungo
tempo, e anzi, proprio per via dell'insulsaggine di questo
procedere, Hegel questa infinità la chiama anche cattiva
infinità. Secondo Dühring il tempo esiste solo in
virtù del cambiamento e non esiste il cambiamento nel tempo
e in virtù del tempo. Precisamente perché il tempo
è diverso e indipendente dal cambiamento, lo si può
misurare per mezzo del cambiamento, infatti il misurare implica
sempre una cosa diversa da quella da misurare. E il tempo nel
quale non avvengono cambiamenti avvertibili è molto lontano
da non essere un tempo; esso è invece il tempo puro, non
affetto da mescolanze estranee, e quindi il tempo vero, il tempo
come tale. Infatti se noi vogliamo cogliere il concetto di tempo
in tutta la sua purezza, separato da ogni mescolanza estranea e
indebita, siamo costretti a metter da parte come indebiti tutti i
veri avvenimenti che accadono simultaneamente o successivamente
nel tempo, e conseguentemente a rappresentarci un tempo nel quale
non avviene niente. Con ciò, dunque, noi non abbiamo fatto
assorbire il concetto di tempo dall'idea generale dell'essere, ma
siamo solo arrivati al concetto puro di tempo.
Ma tutte queste contraddizioni e impossibilità sono ancora
un puro giuoco da bambino di fronte alla confusione in cui cade
Dühring col suo stato iniziale eguale a se stesso del mondo.
Se una volta il mondo era in uno stato in cui non avveniva
assolutamente nessun cambiamento, come ha potuto passare da questo
stato al cambiamento? Ciò che è assolutamente privo
di cambiamento e che inoltre è in questo stato
dall'eternità, non può da se stesso uscire da questo
stato e passare a quello di movimento e di cambiamento. È
necessario quindi che dall'esterno, dal di fuori del mondo, sia
venuto un primo impulso che lo abbia posto in movimento. Ma
è noto che il "primo impulso" non è che un'altra
espressione per dire dio. Quel dio e quell'al di là che
Dühring nella sua schematizzazione del mondo pretendeva di
aver così bellamente liquidato, egli stesso li riporta
tutti e due, precisati e approfonditi, nella filosofia della
natura.
Inoltre Dühring dice:
"Laddove un elemento costante dell'essere ha una grandezza, questa
rimarrà immutata nella sua determinatezza. Questo vale
(...) per la materia e per l'energia meccanica".
Detto di passaggio, la prima proposizione fornisce un esempio
prezioso della magniloquenza assiomatico-tautologica di
Dühring: laddove una grandezza non cambia, resta la stessa.
Quindi la quantità di energia meccanica che c'è nel
mondo resta eternamente la stessa. Noi prescinderemo dal fatto
che, nella misura in cui tutto questo è giusto, nella
filosofia Descartes lo aveva già saputo e detto circa
trecento anni fa [32], e che nella scienza della natura la
dottrina della conservazione dell'energia da vent'anni è in
voga dappertutto; prescinderemo anche dal fatto che Dühring,
limitandola all'energia meccanica, non migliora in nessun modo
questa dottrina. Ma dov'era l'energia meccanica al tempo dello
stato d'immutabilità? A questa domanda Dühring ci
rifiuta ostinatamente ogni risposta.
Signor Dühring, dov'era allora quell'energia meccanica che
resta eternamente eguale a se stessa, e che cosa faceva? Risposta:
"Lo stato originario dell'universo o, più chiaramente, di
un essere della materia privo di cambiamenti,non includente nessun
accumularsi di cambiamenti nel tempo, è una questione che
può essere respinta solo da quell'intelligenza che vede
l'apice della saggezza nell'accumularsi della propria forza di
procreazione".
Dunque: o accettate ad occhi chiusi il mio stato originario di
immutabilità o io, il valido procreatore Eugen
Dühring, vi dichiaro spiritualmente eunuchi. Certo più
d'uno si spaventerà di tutto questo. Noi, noi che abbiamo
visto qualche esempio della forza di procreazione di Dühring,
potremo permetterci provvisoriamente di lasciare senza risposta
l'elegante ingiuria e domandare ancora una volta: Ma, signor
Dühring, per favore, come la mettiamo con l'energia
meccanica?
Il sig. Dühring si confonde subito. In effetti, balbetta,
"l'assoluta identità di quello stato-limite iniziale non
fornisce in se stessa nessun principio di transizione.
Richiamiamoci tuttavia alla memoria che la situazione è, in
fondo, eguale in ogni nuovo anello, per piccolo che sia, della
catena delle esistenze che noi ben conosciamo. Chi, dunque,
solleva difficoltà nel caso principale che ci sta davanti,
stia attento a non dispensarsene in occasioni meno appariscenti.
Inoltre la possibilità di inserire stati intermedi in
gradazione progressiva sussiste, e con ciò si apre quel
ponte della continuità che ci fa arrivare regressivamente
sino all'estinzione del processo di cambiamento. In verità
in sede puramente concettuale questa continuità non ci
aiuta a superare la difficoltà dell'idea principale, ma
essa è per noi la forma fondamentale di ogni
regolarità e di ogni processo di transizione altrimenti
noto, cosicché noi abbiamo il diritto di servircene come di
un anello di congiunzione tra quel primo stato di equilibrio e la
sua rottura. Invece, se noi pensassimo l'equilibrio cosiddetto (!)
immobile secondo quei concetti che ella nostra meccanica odierna
sono ammessi senza nessuna particolare presa di posizione (!), non
sarebbe assolutamente possibile indicare in che modo la materia
sia potuta arrivare al processo di cambiamento".
Oltre alla meccanica delle masse ci sarebbe ancora una
trasformazione del movimento delle masse in movimento delle
particelle più piccole, ma riguardo al modo in cui questo
accade,
"per questo noi non abbiamo a disposizione sino ad ora nessun
principio generale e non dobbiamo perciò affatto
meravigliarci se questi fenomeni vanno a perdersi un po'
nell'oscurità".
Questo è tutto ciò che Dühring ha da dire. E in
effetti per farci pascere di questi sotterfugi e di queste
circonlocuzioni veramente miserevoli, dovremmo vedere il culmine
della saggezza non solamente nell'autolimitarsi della propria
forza di procreazione, ma anche nella più cieca
superstizione. Da se stessa, lo conferma Dühring, l'assoluta
identità non può pervenire al cambiamento. Non
esiste di per sé nessun mezzo per cui l'equilibrio assoluto
possa passare nel movimento. Che cosa c'è allora? Ci sono
tre argomentazioni false e miserevoli.
Primo: si afferma che è altrettanto difficile dimostrare il
passaggio da ogni anello, per piccolo che sia, della catena
dell'esistenza a noi ben nota, al successivo. Sembra che
Dühring ritenga i suoi lettori dei lattanti. La dimostrazione
dei singoli passaggi e dei singoli nessi dei più piccoli
anelli della catena dell'esistenza costituisce appunto il
contenuto della scienza della natura, e se qualche cosa non va,
nessuno pensa, neanche Dühring, di spiegare dal nulla il
movimento avvenuto, ma solo dalla trasmissione, dalla
trasformazione o dalla propagazione di un movimento precedente.
Qui invece si tratta, come ammette egli stesso, di far sorgere il
movimento dall'immobilità e quindi dal nulla.
Secondo: abbiamo il "ponte della continuità". Questo,
certamente, in sede puramente concettuale non ci aiuta a vincere
la difficoltà, ma noi abbiamo pure diritto di usarlo come
anello di congiunzione tra l'immobilità e il movimento.
Disgraziatamente la continuità dell'immobilità
consiste nel non muoversi; rimane più misterioso che mai.
Il modo con cui si possa così generare il movimento.
Dühring frazioni pure in particelle infinitamente piccole il
suo passaggio dal nulla di movimento al movimento universale e
attribuisca a questo nulla una durata temporale lunga quanto
vuole, non avremo progredito comunque neppure di un decimillesimo
di millimetro. Dal nulla non possiamo mai arrivare a qualcosa
senza un atto creativo, fosse anche questo qualche cosa piccolo
come una differenziale matematica. Il ponte della
continuità non è quindi neppure un ponte dell'asino,
è un ponte che solo Dühring può passare.
Terzo: sino a quando la meccanica odierna avrà
validità, ed essa secondo Dühring è una delle
leve essenziali per la formazione del pensiero, non si
potrà assolutamente indicare come si arriva dalla
immobilità al movimento. Ma la teoria meccanica del calore
ci mostra che un movimento di masse si trasforma, in circostanze
determinate, in un movimento molecolare (sebbene anche qui un
movimento proceda da un altro movimento e mai da uno stato
d'immobilità) e questo, accenna timidamente Dühring,
potrebbe fornirci, eventualmente, un ponte tra ciò che
è strettamente statico (in equilibrio) e ciò che
è dinamico (in movimento). Ma questi processi "vanno a
perdersi un po' nell'oscurità". Ed è proprio
nell'oscurità che Dühring ci lascia.
Con tutto questo approfondimento e con tutta questa precisazione
siamo arrivati al punto di esserci sempre più sprofondati
in un assurdo sempre più precisato e di avere toccato terra
alla fine dove necessariamente dovevamo toccar terra:
"nell'oscurità". Ma tutto questo preoccupa poco
Dühring. Proprio alla pagina seguente ha la faccia tosta di
affermare che egli ha potuto "concordare il concetto del permanere
immutabile di un contenuto reale tratto immediatamente dal
comportamento della materia e dalle forze meccaniche". E
quest'uomo dà del "ciarlatano" ad altri!
Fortunatamente in tutto questo disperato smarrimento, in tutta
questa disperata confusione nell'"oscurità", resta ancora
una consolazione, ed è certo edificante: "La matematica
degli abitanti di altri corpi celesti non può poggiare su
assiomi diversi da quelli della nostra!".
Note
24. Karl Ludwing Michelet è detto "l'ebreo errante della
scuola hegeliana" evidentemente perché egli non faceva che
correre dietro a un hegelismo superficialmente inteso. Nel 1876
cominciò a pubblicare un "sistema di filosofia" in cinque
volumi (l'ultimo risale al 1881) che nella struttura generale
imitava il piano dell'"Enciclopedia" di Hegel (G. L. Michelet, "Il
sistema della filosofia come scienza esatta comprendente logica,
filosofia della natura e filosofia dello spirito").
25. Nel 1885, mentre preparava la seconda edizione
dell'"Anti-Dühring", Engels pensò di mettere a questo
punto una nota, il cui abbozzo ("Sui prototipi dell'infinito
matematico nel mondo reale") fu poi da lui incluso tra i materiali
per la "Dialettica della natura".
26. Allusione alla sottomissione servile dei prussiani, che
accettarono la costituzione "elargita" (oktroyert) loro il 5
dicembre 1848 da Federico Guglielmo IV, contemporaneamente allo
scioglimento dell'Assemblea nazionale. Nell'elaborazione di questa
"carta costituzionale per lo Stato prussiano" ebbe parte decisiva
il ministro reazionario Manteuffel.
27. Vedi Hegel, "Encyklopädie der philosophischen...", par.
188, e "Wissenschaft der Logik", libro terzo, sezione prima,
capitolo terzo, e sezione terza, capitolo secondo.
28. Nella prima sezione dell'"Anti-Dühring" tutti questi
riferimenti senza ulteriore indicazione concernono il "Cursus der
Philosophie..." di Dühring.
29. Ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, truppe russe e austriache
si scontrarono con le truppe francesi di Napoleone, che
riportò la vittoria. La battaglia di Jena, combattuta il 14
ottobre 1806 tra l'esercito francese di Napoleone e le truppe
prussiane, si concluse con la disfatta di queste ultime e
portò alla capitolazione della Prussia. La battaglia di
Königgrätz, il 3 luglio 1866, decise la vittoria della
Prussia nella guerra austro-prussiana; è ricordata anche
come battaglia di Sedowa. Nella battaglia di Sedan il 1° e il
2 settembre 1870, scontro decisivo della guerra franco-tedesca del
1870-71, le truppe tedesche sconfissero l'esercito francese di
Mac-Mahon e lo costrinsero alla capitolazione.
30. Il grande matematico Karl Friedrich Gauss fu un precursore
della geometria non euclidea.
31. Cfr. Hegel, "Wissenschaft der Logik", libro secondo: "Das
Wesen". Della categoria schellinghiana dell'"essere impenabile in
precedenza" Engels parla nel suo opuscolo "Schelling e la
Rivelazione" (1842).
32. La concezione del movimento come un quanto costante
(conservazione della qualità di movimento) fu sviluppata da
Cartesio nella sua trattazione sulla luce (parte prima dell'opera
"De Mundo", scritta negli anni 1630-1633 ma pubblicata nel 1664,
quattordici anni dopo la morte di Cartesio) e nella sua lettera a
de bearne del 30 aprile 1639. Più ampiamente essa è
esposta nei suoi "Principia philosophiae", Amsterdam, 1644, parte
seconda, par 36.
Nel corso ulteriore del nostro cammino arriviamo alle teorie sul
modo in cui il mondo odierno si è formato. Sappiamo che uno
stato di universale dispersione della materia fu l'idea da cui
presero le mosse i filosofi ionici, ma che, dopo Kant
particolarmente, l'ipotesi di una nebulosa primitiva ha avuto una
funzione nuova, per cui gravitazione e irraggiamento di calore
venivano ad essere i mezzi per la graduale formazione dei corpi
celesti solidi. La teoria meccanica del calore della nostra epoca
ha permesso di dare forma più determinata alle deduzioni
sugli stati precedenti dell'universo. Con tutto ciò
"lo stato di dispersione gassosa può essere un punto di
partenza di serie deduzioni, solo se si potrà determinare
in antecedenza più precisamente il sistema meccanico ad
esso inerente. Altrimenti non solo l'idea resta in effetti
nebulosa, ma anche la nebulosa primitiva diventa sempre più
spessa e impenetrabile nel corso delle deduzioni (...) per ora
tutto resta nel vago e nell'informe di un'idea di diffusione non
meglio determinabile" e così "con questo universo gassoso"
(avremo) "solo una concezione estremamente campata in aria".
La teoria kantiana della genesi di tutti gli odierni corpi celesti
da masse nebulose rotanti è stata il più grande
progresso che l'astronomia abbia fatto dopo Copernico. Per la
prima volta fu infirmata l'idea che la natura non abbia una storia
nel tempo. Sino allora si riteneva che i corpi celesti
permanessero sin dall'origine in stati e traiettorie sempre
uguali; e se anche si ammetteva che nei singoli corpi celesti gli
individui organici perissero, tuttavia i generi e le specie erano
considerati immutabili. Certo la natura era visibilmente in
continuo movimento, ma questo movimento appariva come l'incessante
ripetizione degli stessi processi. In questa idea assolutamente
conforme al modo di pensare metafisico, Kant aperse la prima
breccia, e in verità in modo così scientifico che la
massima parte degli argomenti da lui usati conservano anche oggi
la loro validità. Certo la teoria kantiana, considerata
rigorosamente, è ancora oggi un'ipotesi. Ma anche il
sistema cosmologico copernicano, sino al giorno d'oggi, non
è qualcosa di più [33], e dopo che la prova
spettroscopica dell'esistenza di simili masse gassose
incandescenti nella volta celeste ha annientato le affermazioni
contrarie, l'opposizione scientifica alla teoriakantiana è
stata ridotta al silenzio. Neanche Dühring può portare
a termine la sua costruzione del mondo senza un tale stadio
nebulare, ma se ne vendica, pretendendo che gli si debba mostrare
il sistema meccanico esistente in questo stato nebulare e,
poiché questo non è possibile, caricando lo stato
nebulare di ogni sorta di epiteti ingiuriosi. Disgraziatamente la
scienza moderna non può individuare questo sistema in modo
da dar gioia a Dühring. Né, egualmente, può
rispondere ad altre domande. Alla domanda: perché i corpi
celesti non hanno la coda? sino ad ora si può solo
rispondere: perché l'hanno perduta. Ma se ci si volesse
impuntare e dire che così tutto rimane nel vago e
nell'informe di un'idea di perdita non ulteriormente determinabile
e che questa è una concezione estremamente campata in aria,
con siffatte applicazioni della morale alla scienza della natura
non avremmo fatto un passo avanti. Siffatte acrimonie e
manifestazioni di insofferenza possono essere applicate sempre e
dappertutto e proprio per questo fatto esse non sono mai a
proposito e in nessun luogo. Chi impedisce poi a Dühring di
scoprire da sé il sistema meccanico della nebulosa
primitiva?
Per fortuna oggi sappiamo che la massa nebulare kantiana "è
molto lontana dal coincidere con uno stato completamente eguale a
se stesso del mezzo universale o, per esprimerci diversamente, con
lo stato eguale a se stesso della materia". Una vera fortuna per
Kant, il quale poteva accontentarsi di risalire dai corpi celesti
esistenti alla sfera nebulare e ancora non poteva nemmeno
immaginare lo stato eguale a se stesso della materia! Notiamo di
passaggio che se nell'odierna scienza della natura la sfera
nebulare kantiana viene indicata come nebulosa primitiva, va da
sé che questo fatto deve intendersi solo in un senso
relativo. Essa è nebulosa primitiva, da una parte in quanto
è l'origine dei corpi celesti e dall'altra in quanto
è la forma più remota di materia alla quale possiamo
sino ad oggi risalire. La qual cosa non esclude affatto, ma invece
implica, che prima della nebulosa primitiva la materia abbia
percorso una serie infinita di altre forme.
Dühring segna qui un suo vantaggio. Laddove noi, con la
scienza, rimaniamo provvisoriamente fermi alla nebulosa primitiva,
del pari provvisoria, la sua scienza della scienza lo aiuta a
risalire ancora più in là, a quello "stato del mezzo
universale, che non è possibile concepire né come
puramente statico nel senso che quest'idea ha oggi, né come
dinamico" e che quindi in generale non "è possibile
concepire. L'unità di materia ed energia meccanica, che noi
oggi designiamo col nome di mezzo universale, è per
così dire una formula logico-reale per indicare lo stato
eguale a se stesso della materia come il presupposto di tutti
quegli stadi di sviluppo che sono numerabili".
Evidentemente ancora per molto tempo non ci libereremo dallo stato
primitivo eguale a se stesso della materia. Questo stato è
designato come unità di materia ed energia meccanica, e
ciò è designato come una formula logico-reale ecc.
Quindi non appena cessa l'unità di materia ed energia
meccanica, comincia il movimento.
La formula logico-reale non è altro che un fiacco tentativo
di rendere utilizzabili per la filosofia della realtà le
categorie hegeliane dell'in sé e per sé. Per Hegel
nell'in sé consiste l'identità originaria delle
opposizioni non sviluppate celate in una cosa, in un processo, in
un concetto; nel per sé si manifestano la distinzione e la
separazione di questi elementi celati e comincia il loro
conflitto. Dobbiamo quindi rappresentaci lo stato primitivo privo
di movimento come unità di materia ed energia meccanica, e
il passaggio al movimento come separazione e contrapposizione di
entrambe. Quello che abbiamo guadagnato con ciò non
è la prova della realtà di quello stato primitivo
fantastico, ma solo questo, che lo si può comprendere sotto
la categoria hegeliana dell'in sé e che la sua egualmente
fantastica cessazione la si può comprendere sotto la
categoria del per sé. Hegel, aiuto!
La materia, dice Dühring, è la portatrice di tutto
ciò che è reale; conseguentemente non può
esserci nessuna energia meccanica fuori della materia. L'energia
meccanica è inoltre uno stato della materia. Ora nello
stato primitivo, in cui niente avveniva, la materia era una cosa
sola con il suo stato, l'energia meccanica. Più tardi,
quando qualche cosa cominciò ad accadere, certamente allora
questo stato diventò qualcosa di distinto dalla materia.
Dovremmo dunque lasciarci pascere di queste frasi mistiche e
dell'assicurazione che lo stato eguale a se stesso non era
né statico, né dinamico, né in equilibrio,
né in movimento. E non sappiamo ancora dove mai in quello
stato fosse l'energia meccanica, né come dovremmo, senza un
impulso esterno, cioè senza dio, passare dall'assoluta
immobilità al movimento.
Prima di Dühring i materialisti parlavano di materia e
movimento. Egli riduce il movimento all'energia meccanica come
presunta forma fondamentale di esso, e conseguentemente si toglie
la possibilità di intendere il nesso reale tra materia e
movimento, del resto non chiaro neppure a tutti i materialisti
precedenti. Eppure la cosa è abbastanza semplice. Il
movimento è il modo di esistere della materia. Mai in
nessun luogo c'è stata e può esserci materia senza
movimento. Movimento nello spazio cosmico, movimento meccanico di
masse più piccole nei singoli corpi celesti, vibrazione
molecolare come calore o come corrente elettrica o magnetica,
scomposizione e combinazione chimica, vita organica: sono queste
le forme di movimento, nell'una o nell'altra o contemporaneamente
in parecchie delle quali si trova, in ogni dato istante, ogni
singolo atomo di materia cosmica. Ogni stato di quiete, ogni stato
di equilibrio, è solo relativo, ha un senso solo in
riferimento all'una o all'altra forma determinata di movimento. Un
corpo sulla terra può trovarsi per es. in equilibrio
meccanico, meccanicamente in quiete, ma questo fatto non impedisce
per nulla che esso prenda parte al movimento della terra, come a
quello di tutto il sistema solare; nella stessa maniera che non
impedisce alle sue piccole particelle fisiche di compiere le
vibrazioni determinate dalla sua temperatura, o ai suoi atomi di
passare attraverso un processo chimico. Materia senza movimento
è altrettanto impensabile quanto movimento senza materia.
Il movimento è perciò tanto increabile e
indistruttibile quanto lo è la materia stessa; ciò
che la vecchia filosofia (Descartes) esprime dicendo che la
quantità di movimento presente è sempre la stessa
[32]. Quindi il movimento non può essere creato, può
solo essere trasmesso. Se un movimento è trasmesso da un
corpo a un altro, in quanto si trasmette, è attivo, lo si
può considerare come causa del movimento; in quanto viene
trasmesso, è passivo. Questo movimento attivo noi lo
chiamiamo energia, il movimento passivo, manifestazione
dell'energia. Conseguentemente è chiaro ed evidente che
l'energia ha la stessa grandezza della sua manifestazione,
perché in entrambe si compie precisamente lo stesso
movimento.
Di conseguenza uno stato della materia privo di movimento si
dimostra come una delle idee più vuote e più
insulse, come un puro "delirio febbrile". Per arrivare a questo ci
si deve rappresentare come quiete assoluta l'equilibrio meccanico
relativo, in cui un corpo si può trovare su questa terra, e
quindi estenderlo a tutto quanto l'universo. Ciò viene
certamente facilitato riducendo il movimento universale alla
semplice energia meccanica. E in questo caso la limitazione del
movimento a semplice energia meccanica offre anche il vantaggio
che ci si può rappresentare un'energia come se fosse in
quiete, come vincolata e quindi momentaneamente inattiva. Se
infatti la trasmissione di un movimento è, come accade
molto spesso, un fenomeno alquanto complesso, che implica vari
termini intermedi, si può differire la trasmissione
effettiva ad un insieme fissato a piacere, omettendo l'ultimo
anello della catena. Così avviene ad es. quando si carica
un fucile e si ritarda il momento in cui, tirando il grilletto,
dovrà compiersi la scarica, cioè la trasmissione del
movimento sprigionato dall'accensione della polvere. Ci si deve
quindi immaginare che la materia, durante lo stato immobile,
eguale a se stesso, sia stata caricata di energia, e proprio
questo è ciò che Dühring sembra intendere,
ammesso che in generale intenda qualche cosa, come unità di
materia ed energia meccanica. Questa idea è assurda,
poiché attribuisce all'universo come assoluto uno stato
che, per sua natura, è relativo, ed al quale quindi
può essere soggetta, nel medesimo tempo, solo una parte
della materia. Ma anche prescindendo da questo, rimane sempre la
difficoltà di sapere, in primo luogo, come il mondo
è arrivato ad essere caricato, poiché al giorno
d'oggi i fucili non si caricano da sé, e poi di chi
è il dito che ha tirato il grilletto. Potremo fare e dire
quello che vogliamo: sotto la guida di Dühring ritorneremo
sempre al... dito di dio.
Dall'astronomia il nostro filosofo della realtà passa alla
meccanica e alla fisica e si rammarica che la teoria meccanica del
calore, nel corso di una generazione, non sia stata portata
sostanzialmente più avanti del punto a cui l'aveva portata
a poco a poco Robert Mayer. Inoltre, egli dice, la cosa resta
molto oscura; dobbiamo
"ricordarci sempre che insieme agli stati di movimento della
materia esistono anche condizioni statiche e che queste ultime non
sono misurabili in lavoro meccanico (...) se precedentemente
abbiamo designato la natura come una grande lavoratrice e
prendiamo ora questa espressione nel suo senso rigoroso, dobbiamo
ancora aggiungere che gli stati eguali a se stessi e le condizioni
di quiete non rappresentano alcun lavoro meccanico. Quindi ancora
una volta manca il ponte di passaggio dallo statico al dinamico, e
se sinora il cosiddetto calore latente è rimasto uno
scoglio per la teoria, ancora qui dobbiamo riconoscere una lacuna
che meno che mai si dovrebbe misconoscere nelle applicazioni
cosmiche".
Tutto questo sproloquio in tono oracolare non è altro,
ancora una volta, che lo sfogo della cattiva coscienza che sente
molto bene che, con quel suo far sorgere il movimento
dall'assoluta immobilità, si è arenata senza alcuna
possibilità di salvezza e pur si vergogna di ricorrere
all'unico salvatore, cioè al creatore del cielo e della
terra. Se neanche nella meccanica, inclusa quella del calore, si
può trovare il ponte di passaggio dallo statico al
dinamico, dall'equilibrio al movimento, come dovrebbe Dühring
essere tenuto a trovare il suo ponte di passaggio dallo stato
privo di movimento al movimento? E così sarebbe allora
felicemente fuori dai guai.
Nella comune meccanica, il ponte di passaggio dallo statico al
dinamico è l'impulso dall'esterno. Se una pietra del peso
di un quintale viene portata a dieci metri di altezza e sospesa
liberamente in modo a rimanere appesa lassù in uno stato
eguale a se stesso e in condizione di queste, si dovrebbe far
appello ad un pubblico di lattanti per poter affermare che
l'attuale posizione di questo corpo non rappresenti nessun lavoro
meccanico o che la distanza dalla posizione precedente non sia
misurabile in lavoro meccanico. Un qualunque passante
spiegherà senza fatica a Dühring che la pietra non
è andata lassù ad appendersi da se stessa alla
corda, e un qualunque manuale di meccanica gli potrà dire
che se egli lascerà ricadere la pietra, questa nella sua
caduta produrrà tanto lavoro meccanico quanto ne è
occorso per elevarla a dieci metri d'altezza. Anche il fatto
più semplice, che la pietra è sospesa lassù,
rappresenta un lavoro meccanico; infatti, se resta sospesa
abbastanza a lungo, la corda si spezzerà non appena, in
seguito a un processo di decomposizione chimica, non è
più sufficientemente forte da reggere la pietra. Ma,
secondo Dühring, tutti i processi meccanici possono ridursi a
siffatte forme fondamentali semplici, e deve ancora nascere
l'ingegnere che sia incapace di trovare il ponte di passaggio
dallo statico al dinamico, se dispone di un impulso sufficiente.
Certo per il nostro metafisico è un osso molto duro,
è una pillola molto amara il fatto che il movimento abbia a
trovare la sua misura nel suo contrario, nella quiete. È
veramente una contraddizione stridente, ed ogni contraddizione
è, per Dühring, un controsenso. Ciò nondimeno
è un fatto che la pietra che sta sospesa rappresenta,
precisamente come un fucile carico, una quantità
determinata di movimento meccanico, che può misurarsi con
precisione, mediante il suo peso e la sua distanza dal suolo, e
che può risolversi indifferentemente in varie maniere, per
es. con la caduta diretta, con lo slittamento su un piano
inclinato, col far girare un albero di trasmissione. Per la
concezione dialettica non costituisce per nulla una
difficoltà il fatto che il movimento possa essere espresso
mediante il suo contrario, la quiete. Per questa concezione, come
abbiamo visto, l'opposizione completa è solo relativa; non
esistono né quiete assoluta né equilibrio
incondizionato. Il movimento nella sua singolarità tende
all'equilibrio, il movimento nella sua totalità, a sua
volta, sopprime l'equilibrio. Così quiete ed equilibrio,
dove si riscontrano, sono il risultato di un movimento limitato,
ed è evidente che questo movimento può essere
misurato mediante il suo risultato, in esso può essere
espresso e partendo da esso può essere ristabilito in una
forma o nell'altra. Ma Dühring non può appagarsi di
una presentazione così semplice della cosa. Da buon
metafisico, tra movimento ed equilibrio scava prima una voragine
paurosa, che nella realtà non esiste, poi si stupisce di
non poter trovare un ponte gettato su questa voragine che egli
stesso ha costruito. Avrebbe potuto egualmente inforcare il suo
metafisico Ronzinante e andare a caccia della kantiana "cosa in
sé"; infatti questo e nient'altro è ciò che
alla fine si nasconde dietro questo introvabile ponte.
Ma che ne è della teoria meccanica del calore e del calore
vincolato o latente che è "restato uno scoglio" per questa
teoria?
Se si prende una libbra di ghiaccio alla temperatura del punto di
congelamento dell'acqua e, in condizioni di pressione atmosferica
normale, mediante il calore la si trasforma in una libbra di acqua
alla stessa temperatura, sparisce una quantità di calore
che sarebbe sufficiente per elevare da 0° a 79,4° della
scala del termometro centigrado la stessa libbra di acqua o per
elevare di un grado 79,4 libbre di acqua. Se si riscalda questa
libbra di acqua fino al punto di ebollizione, cioè a
100°, e quindi la si trasforma in vapore a 100°, prima che
l'ultima goccia di acqua si sia trasformata in vapore, sparisce
una quantità di calore quasi sette volte maggiore,
sufficiente per elevare di un grado 537,2 libbre di acqua. Questo
calore che è sparito si chiama calore latente. Se per
raffreddamento si trasforma il vapore in acqua e l'acqua in
ghiaccio, questa stessa quantità di calore che prima era
latente diventa a sua volta libera, cioè percepibile e
misurabile come calore. Questa liberazione del calore col
condensarsi del vapore e col congelarsi dell'acqua è la
causa per cui il vapore, quando viene raffreddato a 100°, solo
gradualmente si trasforma in acqua e per cui una massa di acqua
alla temperatura del punto di congelamento, solo molto lentamente
si trasforma in ghiaccio. Questi sono i fatti. La questione
è ora: che cosa accade del calore mentre è latente?
La teoria meccanica del calore, secondo la quale il calore
consiste in una oscillazione maggiore o minore, a seconda della
temperatura e dello stato di aggregazione, delle più
piccole particelle fisicamente attive (molecole) dei corpi,
oscillazione che in certe circostanze può trasformarsi in
ogni forma di movimento, spiega la cosa partendo dal fatto che il
calore sparito ha compiuto un lavoro, si è trasformato in
lavoro. Quando il ghiaccio fonde, la connessione stretta e salda
delle singole molecole tra loro viene rotta e viene trasformata in
una giustapposizione slegata; quando l'acqua evapora, al punto di
ebollizione si presenta uno stato in cui le singole molecole non
esercitano assolutamente nessun rilevante influsso l'una
sull'altra e sotto l'azione del calore si disperdono perfino in
tutte le direzioni. È chiaro ora che le singole molecole di
un corpo allo stato gassoso sono provviste di un'energia di gran
lunga maggiore che allo stato solido. Il calore latente non
è quindi sparito, esso si è semplicemente
trasformato ed ha assunto la forma di tensione molecolare. Non
appena vien meno la condizione alla quale le molecole possono
mantenere questa loro assoluta o relativa libertà
reciproca, non appena, cioè, la temperatura scende al di
sotto del minimo di 100° e rispettivamente di 0°, questa
tensione sparisce, le molecole urgono l'una verso l'altra con la
stessa forza con la quale prima fuggivano l'una dall'altra, e
questa forza sparisce, ma solo per riapparire come calore, e
invero precisamente come quella stessa quantità di calore
che prima era latente. Naturalmente questa spiegazione è
un'ipotesi, come tutta la teoria meccanica del calore, in quanto
nessuno sinora ha mai visto una molecola e tanto meno una molecola
in vibrazione. Proprio per questo essa è certamente piena
di lacune, come tutta la teoria che è ancora molto giovane,
ma almeno essa può spiegare il processo senza in nessun
modo venire in conflitto con l'indistruttibilità e
l'increabilità del movimento ed è atta a render
conto persino con precisione della presenza del calore durante la
metamorfosi. Il calore latente o vincolato non è quindi uno
scoglio per la teoria meccanica del calore. Al contrario questa
teoria per la prima volta giunge ad una spiegazione razionale del
processo, e uno scoglio può sorgere tutt'al più dal
fatto che i fisici continuano a designare il calore che si
è trasformato in un'altra forma di energia molecolare con
l'espressione invecchiata e diventata impropria di calore
"vincolato".
Quindi gli stati eguali a se stessi e le condizioni degli stati di
aggregazione, solido, liquido e gassoso, rappresentano, in
verità, lavoro meccanico, in quanto il lavoro meccanico
è la misura del calore. Tanto la crosta solida della terra
quanto l'acqua dell'oceano, nel loro stato attuale di
aggregazione, rappresentano una quantità assolutamente
determinata di calore sprigionatosi, al quale, si intende,
corrisponde una quantità parimente determinata di energia
meccanica. Nel passaggio dalla sfera gassosa dalla quale è
sorta la terra, allo stato fluido di aggregazione, e, più
tardi, lo stato gran parte solido di aggregazione, un quantum
determinato di energia molecolare è stato irraggiato come
calore nello spazio celeste. La difficoltà di cui va
misteriosamente brontolando Dühring, non esiste dunque: anche
nelle applicazioni cosmiche possiamo certo incontrare deficienze e
lacune, dovute all'imperfezione dei nostri mezzi di conoscenza, ma
non urteremo mai in ostacoli teoricamente insuperabili. Il ponte
di passaggio dallo statico al dinamico è anche qui
l'impulso esterno, raffreddamento o riscaldamento, occasionato da
altri corpi che agiscano sull'oggetto che si trova in equilibrio.
Quanto più ci inoltriamo in questa filosofia della natura
dühringiana, tanto più impossibili appaiono i
tentativi di spiegare il movimento partendo
dall'immobilità, o di trovare quel ponte su cui ciò
che è puramente statico, in quiete, può arrivare da
se stesso a ciò che è dinamico, al movimento.
Con ciò ci saremo felicemente liberati per qualche tempo
dello stato primitivo uguale a se stesso. Dühring passa alla
chimica e coglie quest'occasione per rivelarci le seguenti tre
leggi di permanenza della natura acquisite sinora dalla filosofia
della realtà:
1) la quantità della materia universale; 2) quella degli
elementi (chimici) semplici; 3) quella dell'energia meccanica,
sono immutabili.
Quindi, increabilità e indistruttibilità, sia della
materia che delle sue parti costitutive semplici, nella misura in
cui essa ne ha, e indistruttibilità e increabilità
del movimento; vecchi fatti universalmente noti, espressi in modo
estremamente inadeguato: ecco l'unico elemento effettivamente
positivo che Dühring è in grado di offrirci come
risultato della sua filosofia della natura e del mondo inorganico.
Tutte cose che sapevamo da lungo tempo. Quel che non sapevamo
è che esse siano "leggi di permanenza" e come tali
"proprietà schematiche del sistema delle cose". Qui noi
dobbiamo dire di nuovo quello che abbiamo detto sopra a proposito
di Kant: Dühring prende una qualsiasi storiella nota a tutti,
ci appiccica un'etichetta dühringiana, e chiama questo:
"conclusioni e vedute fondamentalmente originali ... idee che
creano un sistema... scienza che va alle radici".
Ma ci vuol altro perché ci si debba disperare per questa
ragione. Quali che siano le deficienze che scienza che più
va alle radici e la migliore organizzazione della società
possano avere, una cosa Dühring può affermare con
precisione:
"La quantità di oro esistente nell'universo deve in ogni
epoca essere stata sempre la stessa e tanto poco può
essersi cresciuta o diminuita quanto la materia universale".
Ma che cosa possiamo comprarci con quest'"oro esistente", questo
disgraziatamente Dühring non lo dice.
"Dalla meccanica della pressione e dell'urto al legame delle
sensazioni e dei pensieri si stende un'unica e unitaria serie di
gradini intermedi".
Con questa assicurazione Dühring si risparmia di dire qualche
cosa di più sull'origine della vita, sebbene da un
pensatore che è risalito, seguendo lo sviluppo del mondo,
sino allo stato eguale a se stesso e che si sente tanto a casa sua
sugli altri corpi celesti, ci si dovessero pur aspettare anche
delle informazioni precise. Del resto quell'asserzione è
esatta solo per metà, finché non venga integrata
dalla linea nodale delle relazioni di misura di Hegel, della quale
abbiamo già fatto menzione. Malgrado ogni
gradualità, il passaggio da una forma di movimento ad
un'altra rimane sempre un salto, una svolta decisiva. Così
il passaggio dalla meccanica dei corpi celesti a quella delle
masse minori che esistono su un singolo corpo celeste; altrettanto
il passaggio dalla meccanica delle masse alla meccanica delle
molecole, includendo le forme di movimento che indaghiamo nella
fisica propriamente detta: calore, luce, elettricità,
magnetismo; egualmente, il passaggio dalla fisica delle molecole
alla fisica degli atomi, la chimica, si compie a sua volta con un
salto netto, e questo è ancor più chiaramente il
caso del passaggio dall'azione chimica ordinaria al chimismo
dell'albume [34] che chiamiamo vita [35]. Nell'interno della sfera
della vita i salti diventano sempre più rari ed
insensibili. È quindi di nuovo Hegel che Dühring deve
correggere.
Il passaggio concettuale al mondo organico viene fornito a
Dühring dal concetto di finalità. Questo concetto
è a sua volta preso a prestito da Hegel che nella "Logica",
Dottrina del concetto, passa dal chimismo alla vita mediante la
teleologia o dottrina della finalità. Dovunque gettiamo lo
sguardo, in Dühring ci imbattiamo sempre in una "credenza"
hegeliana che disinvoltamente spaccia per quella sua propria
scienza che va alle radici. Andremmo troppo in là se
indagassimo qui in che misura sia giustificata ed opportuna
l'applicazione delle idee di finalità e di mezzo al mondo
organico. In ogni caso, anche l'applicazione della
"finalità interna" hegeliana, cioè di una
finalità che non è introdotta nella natura mediante
un terzo che agisce intenzionalmente, come sarebbe la saggezza
della provvidenza, ma invece è insita nella
necessità della cosa stessa, porta costantemente in gente
non perfettamente ferrata in filosofia, all'interpolazione
inconsiderata di azione cosciente e intenzionale. Lo stesso
Dühring che, di fronte al più piccolo moto
"spiritistico" altrui, cade in un'indignazione morale smisurata,
assicura "con decisione che le sensazioni istintive (...)
essenzialmente sono state create per la soddisfazione che è
legata alla loro attività". E ci racconta che la povera
natura "deve sempre ricominciare da capo a mantenere in ordine il
mondo oggettivo", e che inoltre ha anche da sbrigare più di
un affare "che esige da parte della natura una sottigliezza
maggiore di quella che di solito le si concede". Ma la natura non
solo sa perché fa or questa or quella cosa, non solo deve
sbrigare i servizi di una domestica tuttofare, non solo ha della
sottigliezza, ciò che è già un simpatico
grado di perfezione nel pensiero soggettivo consapevole, ma ha
anche una volontà. Infatti l'ulteriore attributo degli
istinti, cioè che essi compiano inoltre reali funzioni
naturali, nutrizione, propagazione, ecc., questo ulteriore
attributo "dobbiamo ritenere che sia voluto non direttamente, ma
solo indirettamente". Con ciò siamo arrivati ad una natura
che pensa ed agisce consapevolmente, siamo quindi già sul
ponte, ma non sul ponte che porta dallo statico al dinamico,
bensì su quello che porta dal panteismo al deismo. O forse
aggrada a Dühring fare, una volta tanto, un po' di quella
"semipoesia che è propria della filosofia della natura"?
Impossibile. Tutto ciò che il nostro filosofo della
realtà ci sa dire sulla natura organica, si limita alla
lotta contro questa semipoesia della filosofia della natura,
contro "la ciarlataneria con le sue superficiali facilonerie e con
le sue mistificazioni pseudo-scientifiche", contro i "caratteri di
pura poesia" del darwinismo.
Prima di ogni altra cosa si rimprovera a Darwin di trasferire la
teoria malthusiana della popolazione dall'economia alla scienza
della natura, di essere prigioniero delle idee degli allevatori di
animali, di fare, sulla lotta per l'esistenza, della semipoesia
non scientifica; e inoltre tutto il darwinismo, toltone quanto
è stato mutato da Lamarck, è un atto di
brutalità diretta contro l'umanità.
Darwin aveva riportato dai suoi viaggi scientifici l'idea che le
specie vegetali e animali, anziché essere costanti, sono
variabili. Per proseguire nello sviluppo di questi pensieri dopo
il suo ritorno, non gli si offriva miglior campo di osservazione
che l'allevamento delle piante e degli animali. Per questo scopo
l'Inghilterra è proprio il paese classico; ciò che
si è fatto in altri paesi, per es. in Germania, non
può dare neanche lontanamente la misura di ciò che a
questo riguardo è stato raggiunto in Inghilterra. Inoltre
la maggior parte dei successi appartengono agli ultimi cento anni,
cosicché la constatazione dei fatti presenta poche
difficoltà. Ora, Darwin trovò che tale allevamento
aveva provocato artificialmente, in piante ed animali della stessa
specie, differenze maggiori di quelle che si presentavano tra
specie che in generale sono riconosciute come differenti. Quindi,
da una parte era dimostrata la modificabilità delle specie
sino ad un certo grado, dall'altra la possibilità di
antenati comuni per organismi che possedevano caratteri specifici
differenti. Darwin si diede ora ad indagare la possibilità
che nella natura si trovino cause che, senza l'intenzione
cosciente dell'allevatore, tuttavia alla lunga provochino negli
organismi viventi modificazioni analoghe a quelle provocate
dall'allevamento artificiale. Queste cause egli le trovò
nella sproporzione tra il numero enorme di germi prodotti dalla
natura e il numero ristretto di organismi che effettivamente
raggiungono la maturità. Ma poiché ogni germe tende
allo sviluppo, sorge necessariamente una lotta per l'esistenza che
si presenta non solo come l'atto diretto, corporeo, di combattersi
o di mangiarsi, ma anche, perfino nelle piante, come lotta per lo
spazio e per la luce. Ed è evidente che in questa lotta
avranno la migliore prospettiva di raggiungere la maturità
e di riprodursi quegli individui che posseggono certe
particolarità individuali che, per insignificanti che
siano, sono però vantaggiose nella lotta per l'esistenza.
Queste proprietà individuali hanno perciò la
tendenza a trasmettersi ereditariamente e, se si presentano in
più individui della stessa specie, ad incrementarsi, per
trasmissione ereditaria accumulata, nella direzione che hanno
preso; mentre gli individui che non posseggono queste
proprietà, soccombono più facilmente nella lotta per
l'esistenza e gradualmente spariscono. In questa maniera una
specie si modifica per selezione naturale, mediante la
sopravvivenza del più adatto.
Contro questa teoria darwiniana Dühring dice che l'origine di
quest'idea per la lotta dell'esistenza debba, come Darwin stesso
avrebbe confessato, ricercarsi in una generalizzazione delle
vedute dell'economista Malthus, teorico del fenomeno della
popolazione, e che conseguentemente sarebbe affetta da tutte
quelle pecche che sono proprie delle vedute di sapore sacerdotale
di Malthus sulla pressione demografica. Ora, a Darwin, neanche da
lontano è mai venuto in mente di dire che l'origine
dell'idea della lotta per l'esistenza si debba ricercare in
Malthus. Egli dice solamente che la sua teoria della lotta per
l'esistenza è la teoria di Malthus applicata a tutto il
mondo animale e vegetale. Per quanto grosso possa essere il
granchio preso da Darwin nell'accettare ingenuamente, senza averla
esaminata, la dottrina di Malthus, ognuno vede a prima vista che
non occorrono gli occhiali di Malthus per percepire la lotta per
l'esistenza nella natura, la contraddizione, cioè, tra
l'innumerevole quantità di germi che la natura produce a
profusione e il ristretto numero di essi che in generale
può arrivare a maturità; contraddizione che si
risolve in effetti, per la massima parte, in una lotta, a volte
straordinariamente crudele, per l'esistenza. E come la legge del
salario ha conservato il suo valore anche dopo che da gran tempo
sono screditati gli argomenti di Malthus sui quali la faceva
poggiare Ricardo, così nella natura può egualmente
aver luogo la lotta per l'esistenza, anche senza nessuna
interpretazione maltusiana. Del resto gli organismi della natura
hanno egualmente le loro leggi demografiche, le quali vengono poco
o niente indagate, ma la cui constatazione sarà di
importanza decisiva per la teoria dell'evoluzione delle specie. E
chi ha dato anche in questa direzione l'impulso decisivo? Nessun
altro che Darwin.
Dühring si guarda bene dall'entrare in questo lato positivo
della questione. Invece deve sempre ritornare in discussione la
lotta per l'esistenza. È escluso a priori che si possa
parlare di una lotta per l'esistenza tra piante prive di coscienza
e bonari erbivori: "ora in senso preciso e determinato la lotta
per l'esistenza rientra nella brutalità se e in quanto
l'alimentazione avviene rapinando e divorando". E, dopo aver
ridotto il concetto di lotta per l'esistenza a questi limiti
angusti, Dühring può lasciar libero corso alla sua
indignazione sulla brutalità di questo concetto, che egli
stesso ha limitato alla brutalità. Ma questa indignazione
morale colpisce solo Dühring, che invero è il solo
autore della lotta per l'esistenza ridotta a questi limiti, e
perciò ne è il solo responsabile. Non è
dunque Darwin colui "che cerca nel dominio delle fiere le leggi e
l'intelligenza di ogni azione della natura", ché anzi
Darwin aveva incluso nella lotta precisamente tutta la natura
organica, ma è invece uno spauracchio fantastico allestito
da Dühring stesso. Il nome di lotta per l'esistenza
può del resto essere volentieri sacrificato alla collera
altamente morale di Dühring. Che la cosa esista anche tra le
piante glielo può provare ogni prato, ogni campo di grano,
ogni bosco; e non si tratta del nome, se, cioè, tutto
questo debba chiamarsi "lotta per l'esistenza" o "mancanza di
condizioni per l'esistenza e suoi effetti meccanici", si tratta
invece di sapere come questo fatto agisca sulla conservazione o
sulla modificazione delle specie. Su questo Dühring persiste
in un silenzio perfettamente eguale a se stesso. Quindi
provvisoriamente bisognerà accontentarsi della selezione
naturale.
Ma il darwinismo "produce dal nulla le sue trasformazioni e le sue
differenziazioni". In verità Darwin, laddove tratta della
selezione naturale, astrae dalle cause che hanno provocato le
modificazioni dei singoli individui, e tratta anzitutto del modo e
della maniera in cui tali variazioni individuali a poco a poco
diventano caratteristiche di una razza, di una varietà, di
una specie. Per Darwin, prima di ogni altra cosa, si tratta di
trovare non tanto queste cause, le quali sinora sono in parte del
tutto sconosciute, in parte possono essere indicate soltanto in
una maniera del tutto generale, quanto invece una forma razionale
nella quale i loro effetti si fissino e acquistino un valore
durevole. Che Darwin abbia inoltre attribuito alla sua scoperta
una sfera d'azione esagerata, che ne abbia fatta una leva per la
modificazione della specie, e che abbia trascurato le cause delle
modificazioni individuali ripetute, per occuparsi della forma in
cui si generalizzano, è un errore che ha in comune con
tutti quelli che compiono un progresso. Inoltre, se Darwin fa
uscire dal nulla le sue trasformazioni individuali, e vi applica
esclusivamente "la pazienza del selettore", il selettore deve
perciò egualmente far nascere dal nulla le sue
trasformazioni delle specie animali e vegetali, non solamente
immaginate, ma reali. Ma chi ha dato l'impulso per indagare da
dove propriamente sorgano queste trasformazioni e queste
differenziazioni, ancora una volta non è altro che Darwin.
Di recente, specialmente nell'opera di Haeckel, l'idea della
selezione naturale è stata estesa e la variazione della
specie è stata intesa come risultato dell'azione reciproca
dell'adattamento e della trasmissione ereditaria, rappresentandosi
nel processo l'adattamento come l'aspetto che produce le
modificazioni, la trasmissione ereditaria come l'aspetto che le
conserva. Ma per Dühring neanche questo, ancora una volta,
è giusto.
"Un vero e proprio adattamento alle condizioni di vita, quali
vengono fornite o sottratte dalla natura, postula istinti e
attività che sono idealmente determinati. In caso contrario
l'adattamento è solo un'apparenza e la causalità che
allora agisce non si eleva al disopra dei gradi inferiori del
mondo della fisica, della chimica e della fisiologia generale".
Di nuovo è il nome quello che fa dispetto a Dühring.
Ma quale che sia il nome da dare al processo, la questione qui
è questa: mediante tali processi sono o non sono provocate
modificazioni nelle specie organiche? E ancora una volta
Dühring non dà nessuna risposta.
"Se una pianta, nel suo sviluppo, prende una direzione nella quale
riceve la maggior quantità di luce, questo effetto dello
stimolo non è stato che una combinazione di forze fisiche e
di agenti chimici, e se qui si vuol parlare non metaforicamente ma
propriamente di un adattamento, ciò significa portare nei
concetti una confusione spiritistica."
Così severo è contro gli altri lo stesso uomo che sa
in modo assolutamente preciso per volontà di chi la natura
fa una cosa o l'altra, che parla della sottigliezza della natura,
anzi della sua volontà; confusione spiritistica, in
effetti, ma dove? In Haeckel o in Dühring?
E non solo confusione spiritistica, ma anche logica. Abbiamo visto
che Dühring insiste con tutte le sue forze a far valere nella
natura il concetto di fine: "La relazione di mezzo e fine non
postula in nessun modo una intenzione cosciente". Ma che
cos'è dunque l'adattamento senza intenzione cosciente,
senza quella meditazione di idee, contro la quale egli si
infervora tanto, se non una siffatta attività finalistica
incosciente?
Se quindi le raganelle e gli insetti erbivori sono verdi, se gli
animali del deserto sono giallo-sabbia, se gli animali polari sono
prevalentemente del colore bianco della neve, è certo che
essi non si sono appropriati di questi colori intenzionalmente o
seguendo una qualche idea; al contrario i colori si possono
spiegare partendo da forze fisiche e da agenti chimici. Eppure
è innegabile che questi animali sono adattati secondo un
fine, con quei colori, al mezzo nel quale vivono e, precisamente,
perché in tal modo sono molto meno visibili ai loro nemici.
Del pari gli organi con cui certe piante catturano e mangiano gli
insetti che si posano su di esse, sono adattati a questa
attività e adattati persino secondo un fine. Se ora
Dühring insiste sul fatto che l'adattamento deve essere
effettuato da idee, egli non fa che dire con altre parole che
l'attività secondo un fine deve essere del pari mediata da
idee, cosciente, intenzionale. E con questo siamo arrivati ancora
una volta, come avviene di solito nella filosofia della
realtà, al creatore che agisce finalisticamente, a dio.
"Nel passato un siffatto modo di intendere lo si chiamava deismo e
non era tenuto in gran conto" (dice Dühring); "ma oggi anche
sotto questo rapporto sembra che ci si sia sviluppati a rovescio".
Dall'adattamento veniamo all'ereditarietà. Anche qui il
darwinismo, secondo Dühring, è completamente su falsa
strada. Tutto il mondo organico, affermerebbe Dühring,
discende da un essere primitivo, per così dire sarebbe la
progenie di un solo essere. Per Darwin non esisterebbe
assolutamente coordinazione per sè stante di prodotti
naturali della stessa specie, senza la mediazione di una
discendenza comune, e perciò con le sue vedute
retrospettive Darwin dovrebbe alla fine trovarsi ben presto al
punto in cui il filo della generazione o di altra propagazione gli
si spezza tra le mani.
L'affermazione che Darwin faccia derivare tutti gli organismi
attualmente esistenti da un essere primitivo è, per
esprimerci cortesemente, "una libera creazione e una libera
immaginazione" di Dühring. Darwin dice espressamente nella
penultima pagina della "Origin of Species", 6ª edizione, che
egli considera "tutti gli esseri non come creazioni particolari,
ma come i discendenti, in linea diretta, di alcuni pochi esseri
[35bis] ". E Haeckel va ancora notevolmente avanti e ammette "in
ceppo assolutamente indipendente per il regno vegetale e un
secondo per il regno animale" e tra l'uno e l'altro "un ceto
numero di ceppi indipendenti di protesti, ciascuno dei quali si
è sviluppato in modo assolutamente indipendente da quelli,
partendo da una forma peculiare di monera archigonia" [36]
("Storia della creazione", pag. 397). Questo essere primitivo
è stato inventato da Dühring, solo per screditarlo il
più possibile mediante il parallelo con l'ebreo primitivo,
Adamo; ma in quanto a lui, cioè a Dühring, è
capitata la disgrazia che gli è rimasto ignoto in che modo,
attraverso le scoperte assirologiche di Smith, questo ebreo
primitivo si rivela semita primitivo; e che tutta la storia
biblica della creazione e del diluvio si presenta come un
frammento del ciclo degli antichi riti religiosi pagani, comune
agli ebrei e ai babilonesi, ai caldei e agli assiri.
È certo un rimprovero duro contro Darwin, ma inevitabile,
che alla fine egli si trovi ben presto al punto in cui il filo
della discendenza gli si spezza tra le mani. Disgraziatamente
tutta la nostra scienza della natura merita questo rimprovero.
Là dove il filo della discendenza le si spezza tra le mani,
essa è "alla fine". Sinora essa non è ancora
riuscita a creare essere organici senza farli discendere da altri;
anzi non è ancora mai riuscita a produrre un semplice
protoplasma o altre sostanze albuminose derivandole dagli elementi
chimici. Sinora sull'origine della vita non può dire con
precisione più di questo: che essa deve essersi compiuta
per via chimica. Ma forse la filosofia della realtà
è in condizione di poterle venire in aiuto, poiché
essa dispone di prodotti della natura coordinati in modo
indipendente e che non hanno l'intermediario di una discendenza
comune. Come possono essersi originati? Per generazione spontanea?
Ma sinora anche i più temerari rappresentanti della
generazione spontanea non hanno avuto la pretesa che produrre
altro che batteri, germi di funghi e altri organismi molto
primitivi e non insetti, pesci, uccelli o mammiferi. Ora se questi
prodotti naturali della stessa specie -beninteso organici, che di
questi solamente qui si parla- non sono connessi tra loro mediante
discendenza, essi, o ciascuno dei loro antenati, debbono essere
venuti al mondo, là "dove il filo della discendenza si
spezza", mediante uno speciale atto di creazione. Ed eccoci di
nuovo al creatore e a ciò che si chiama deismo.
Inoltre Dühring dichiara che è una grande
superficialità di Darwin "il fare del semplice atto di
composizione sessuale di alcune proprietà, il principio
fondamentale della genesi di queste proprietà". Questa
è ancora una volta una libera creazione e una libera
immaginazione del nostro filosofo che va alle radici. Al contrario
Darwin dichiara decisamente che l'espressione selezione naturale
include solo la conservazione di modificazioni e non la loro
produzione (p. 63). Questa nuova interpolazione di cose che Darwin
non ha mai dette, serve però ad aiutarci ad intendere la
seguente profonda riflessione di Dühring:
"Se si fosse cercato nello schematismo interno della generazione
qualche principio della modificazione per sé stante,
quest'idea sarebbe stata assolutamente razionale; infatti è
un'idea conforme a natura il raccogliere in unità il
principio della genesi intesa in generale e quella della
propagazione sessuale e il considerare da un punto di vista
più alto la così detta generazione spontanea, non
come un'antitesi assoluta della riproduzione, ma precisamente come
una produzione".
E l'uomo che ha potuto scrivere questi guazzabugli non ha
soggezione di rimproverare a Hegel il suo "gergo"!
Ma ora basta con questi brontolii e con questi cavilli noiosi e
contraddittori con cui Dühring esprime il suo dispetto per lo
slancio colossale che la scienza della natura deve all'impulso
avuto dalla teoria darwiniana. Né Darwin né i
naturalisti suoi seguaci pensano di sminuire in qualche modo i
meriti di Lamarck; sono proprio loro che per primi lo hanno ancora
una volta levato sugli scudi. Ma non dobbiamo dimenticare che al
tempo di Lamarck la scienza era ancora bel lontana dal disporre di
un materiale sufficiente per poter dare alla questione
dell'origine della specie una risposta che non fosse
un'anticipazione e, per così dire, una profezia. Oltre
all'enorme materiale tratto dal dominio della botanica e della
zoologia, sia descrittive che anatomiche, e che da allora si e
accumulato, dopo Lamarck sono sorte due scienze completamente
nuove, che sono qui di importanza decisiva: l'indagine dello
sviluppo dei germi vegetali e animali (embriologia) e quella dei
resti organici conservati nei diversi strati della superficie
terrestre (paleontologia). Si trova cioè un singolare
accordo tra lo sviluppo graduale mediante il quale i germi
organici diventano organismi maturi e l'ordine con cui piante e
animali sono comparsi successivamente nella storia della terra. E
precisamente questo accordo ha dato alla teoria dell'evoluzione la
sua base più solida. Ma la stessa teoria dell'evoluzione
è ancora molto giovane, ed è perciò
indubitabile che l'indagine ulteriore modificherà
notevolmente le idee attuali, anche quella strettamente darwiniana
sul processo evolutivo della specie.
Che cosa ha ora da dirci di positivo la filosofia della
realtà sullo sviluppo della vita organica?
"La (...) variabilità delle specie è un postulato
accettabile." Ma parallelamente vale anche "la coordinazione per
sé stante di prodotti naturali della stessa specie senza
l'intermediario di una discendenza comune". Conseguentemente si
dovrebbe ritenere che i prodotti naturali non della stessa specie,
non le specie che si modificano, discenderebbero l'uno dall'altro;
quelli della stessa specie invece no. Ma neppure questo è
assolutamente esatto; infatti anche nelle specie che si modificano
"la mediazione per discendenza dovrebbe essere soltanto un atto
assolutamente secondario della natura". Quindi ancora discendenza,
ma di "seconda classe". Rallegriamoci allora che la discendenza,
dopo che Dühring le ha attribuito tanti mali e tanta
oscurità, alla fine venga riammessa per la porta di
servizio. Con la selezione naturale non accade diversamente:
infatti, dopo tutta l'indignazione morale sulla lotta per
l'esistenza, in virtù della quale si compie in vero la
selezione naturale, d'un tratto ci si dice: "La base più
profonda della costituzione degli esseri deve per conseguenza
cercarsi nelle condizioni di vita e nelle relazioni economiche,
mentre la selezione naturale, messa in rilievo da Darwin,
può venire solo in seconda linea". Quindi ancora selezione
naturale se anche di seconda classe; e dunque con la selezione
naturale anche la lotta per l'esistenza e conseguentemente anche
sacerdotale pressione demografica di Malthus! Questo è
tutto; per il resto Dühring ci rimanda a Lamarck.
Infine egli ci mette in guardia sull'abuso delle parole
metamorfosi ed evoluzione. Metamorfosi sarebbe un concetto non
chiaro e il concetto di evoluzione sarebbe ammissibile solo nella
misura in cui si può realmente provare che ci sono leggi
dell'evoluzione. Invece di usare questi due termini dobbiamo dire:
"composizione", e allora tutto andrà bene. È di
nuovo la vecchia storia: le cose rimangono com'erano e
Dühring è completamente soddisfatto purché
modifichiamo i nomi. Se parliamo dell'evoluzione del pulcino
nell'uovo, facciamo confusione, perché solo in modo
incompleto possiamo provare le leggi dell'evoluzione. Parliamo
invece della sua composizione e tutto diventa chiaro. Quindi non
diremo più che questo bambino si sviluppa magnificamente,
ma che si compone eccellentemente, e possiamo congratularci con
Dühring che è degno di stare a fianco dell'autore
dell'Anello di Nibelungo, non solo nella nobile stima di se
stesso, ma anche nella sua qualità di compositore
dell'avvenire [37].
"Si consideri, (...) al fine di dotare la nostra sezione
riguardante la filosofia della natura di tutti i suoi presupposti
scientifici, quanta conoscenza positiva essa richieda. Essa ha per
fondamento in primo luogo tutte le conquiste essenziali della
matematica e poi le acquisizioni capitali delle scienze esatte nel
campo della meccanica, della fisica, della chimica, nonché
in generale i risultati raggiunti dalle scienze naturali nella
fisiologia, nella zoologia e in analoghi campi d'indagine".
Tale è la sicurezza e la decisione con cui si esprime
Dühring sull'erudizione di Dühring nella matematica e
nelle scienze naturali. Non si riesce a scorgere quale radicale
profondità di conoscenza positiva si nasconda dietro quella
magra sezione e tanto meno dietro ai suoi risultati ancor
più meschini. In ogni caso, per venire a capo di ciò
che Dühring oracoleggia intorno alla fisica e alla chimica
non occorre sapere altro della fisica che l'equazione che esprime
l'equivalente meccanico del calore, e della chimica solo questo:
che tutti i corpi si dividono in elementi e composti di elementi.
Chi inoltre, come Dühring a p. 131, può parlare della
"gravitazione degli atomi", con ciò prova soltanto che
è completamente "all'oscuro" sulla differenza di atomo e
molecola. È noto che gli atomi esistono non già in
rapporto alla gravitazione o ad altre forme meccaniche o fisiche
di movimento, ma in rapporto all'azione chimica. E chi legga il
capitolo sulla natura organica, davanti a quello sproloquio
tortuoso, vuoto, contraddittorio e, nel punto decisivo, privo di
senso come gli oracoli, davanti all'assoluta nullità della
conclusione finale, non può fare a meno di accorgersi fin
dal principio che qui Dühring parla di cose di cui sa
stranamente poco. Questa opinione diventa certezza allorché
si arriva alla sua proposta di parlare d'ora in poi, nella
dottrina degli esseri organici (biologia), di composizione
anziché di evoluzione. Chi è capace di fare una
simile proposta, dimostra di non avere la minima idea sulla
formazione dei corpi organici.
Tutti i corpi organici si compongono, ad eccezione degli infimi,
di cellule, di piccoli grumi albuminosi, visibili solo a forte
ingrandimento e aventi al loro interno un nucleo cellulare. Di
regola la cellula sviluppa anche una membrana esterna, e il suo
contenuto è allora più o meno fluido. I corpi
cellulari più bassi si compongono di una sola cellula;
l'enorme maggioranza di esseri organici è pluricellulare,
è un complesso armonico di molte cellule, che negli
organismi inferiori sono ancora omogenee, negli organismi
superiori acquistano forme, raggruppamenti, attività sempre
più distinti. Nel corpo umano per es. ossa, muscoli, nervi,
tendini, legamenti, cartilagine, pelle, in breve tutti i tessuti,
sono composti di cellule o sono originati da esse. Ma a tutti gli
esseri cellulari organici, dall'ameba, che è un semplice
grumo cellulare per la maggior parte della sua vita privo di
membrana e avente all'interno un nucleo cellulare, sino all'uomo;
e dalla più piccola desmidiacea unicellulare sino alle
piante più altamente sviluppate, il modo in cui le cellule
si moltiplicano è comune: per scissione. Dapprima il nucleo
cellulare si strozza nel mezzo, poi la strozzatura che separa i
due lobi del nucleo diventa sempre più forte, finalmente
questi si separano e formano due nuclei cellulari. Lo stesso
processo ha luogo nella cellula medesima, ciascuno dei due nuclei
diventa il punto centrale di un ammassamento di protoplasma che
è messo in comunicazione con l'altro per mezzo di una
strozzatura, che diventa sempre più stretta finché
alla fine si separano l'uno dall'altro e continuano a vivere come
cellule a sé stanti. Mediante il ripetersi di una tale
scissione cellulare, dalla vescicola germinale dell'uovo animale,
intervenuta la fecondazione, si sviluppa poco a poco tutto
l'animale completo, e in modo analogo si effettua, nell'animale
adulto, la sostituzione dei tessuti consumati. Per chiamare
composizione un tale processo e "pura immaginazione" il designarlo
come evoluzione, ci vuole certo qualcuno che non sappia proprio
niente di questo processo, per quanto possa essere difficile
ammettere ciò; qui invero, c'è proprio solo, e
precisamene nel senso più letterale della parola,
evoluzione, e di composizione, invece, non c'è neanche
l'ombra!
Su ciò che Dühring intende in generale per vita,
avremo più oltre da dire ancora qualche cosa. In
particolare, ecco che cosa egli immagina per vita:
"Anche il modo inorganico è un sistema di movimenti che si
compiono automaticamente; ma solo laddove comincia la specifica
articolazione in organi e l'intervento della circolazione delle
sostanze attraverso particolari canali partendo da un punto
interno e secondo uno schema germinale trasmissibile ad un essere
più piccolo, solo allora si può cominciare a parlare
di vita propriamente detta in un senso più stretto e
più rigoroso".
Questa asserzione è, nel senso più stretto e
più rigoroso, un sistema di movimenti automatici (qualunque
cosa possono essere questi), di insulsaggini, anche a prescindere
la grammatica disperatamente confusa. Se la vita comincia solo con
l'inizio dell'articolazione propriamente detta, dobbiamo
dichiarare morto tutto il regno haeckeliano dei protesti e forse
molte altre cose ancora, a seconda del modo in cui viene concepito
il concetto di articolazione. Se la vita comincia solo laddove
questa articolazione è trasmissibile mediante uno schema
germinale più piccolo, tutti gli organismi, almeno sino
agli organismi unicellulari, e questi inclusi, non sono viventi.
Se l'intervento della circolazione delle sostanze attraverso
particolari canali è il contrassegno della vita, dobbiamo
cancellare dalla serie degli esseri viventi, oltre a quelli di cui
si è detto, anche tutta la classe superiore dei
celenterati, eccettuate semmai le meduse, e quindi tutti i polipi
e gli altri fitozoi [38]. Ma se poi si pone come contrassegno
essenziale della vita la circolazione delle sostanze attraverso
particolari canali partendo da un punto interno, dobbiamo
dichiarare senza vita tutti quegli animali che non hanno cuore
oppure hanno più cuori. Vi appartengono, oltre a quelli che
abbiamo menzionato precedentemente, anche tutti i vermi, le stelle
marine e i rotiferi (annuloida e annulosa, nella classificazione
di Huxley [39]), una parte dei crostacei (granchi), e finalmente
anche un vertebrato, l'anfiosso (anphioxus). Inoltre tutte le
piante.
Dühring, intendendo quindi individuare i caratteri della vita
propriamente detta nel senso più stretto e più
rigoroso, ce ne indica quattro che si contraddicono completamente
l'un l'altro, l'uno dei quali condanna a morte eterna non solo
tutto il regno vegetale, ma anche quasi la metà del regno
animale. In verità nessuno può dire che egli ci
infinocchiasse, quando ci prometteva "conclusioni e vedute
originali sin dalle fondamenta"!
In altro luogo dice: "Anche nella natura, in tutte le
organizzazioni, dalle più basse alle più alte,
c'è alla base un tipo semplice" e questo tipo è
"possibile coglierlo pienamente e assolutamente nel suo essere
generale già nel movimento più elementare della
pianta meno sviluppata". Questa affermazione è di nuovo
"pienamente e assolutamente" un assurdo. Il tipo più
semplice che si può cogliere in tutta la natura organica
è la cellula, ed essa è certamente alla base delle
organizzazioni più alte. Per contro, tra gli organismi
più bassi se ne trovano una moltitudine che stanno ancora
molto più in basso della cellula: la protameba, semplice
grumo albuminoide senza alcuna differenziazione, un'intera serie
di altre monere e tutte le alghe triformi (sifonee). Tutti questi
sono legati agli organismi superiori solo per il fatto che loro
elemento costitutivo essenziale è l'albume e
conseguentemente compiono funzioni proprie dell'albume,
cioè vivono e muoiono.
Dühring ci racconta inoltre:
"Fisiologicamente la sensazione è legata alla presenza di
un qualche apparato nervoso, per semplice che esso possa essere.
Perciò è caratteristico di tutti gli esseri animali
l'essere capaci di sensazione, cioè di prendere
soggettivamente coscienza delle loro condizioni. La linea di
confine netta tra piante e animali è lì dove avviene
il salto alla sensazione. Tanto poco questa linea di confine
può essere cancellata dagli esseri intermedi noti, che anzi
proprio queste formazioni esteriormente indistinte o
indistinguibili la hanno fatta diventare più che mai un
bisogno logico". E più tardi: "Per contro, le piante sono
interamente e per sempre prive della pù lieve traccia di
sensazione e anche di ogni apparato che serva a riceverle".
In primo luogo, Hegel, nell'aggiunta al par. 351 della "Filosofia
della natura", dice che "la sensazione è la differenza
specifica, è ciò che assolutamente contraddistingue
gli animali". Quindi di nuovo una "crudezza" di Hegel, la quale,
per semplice appropriazione da parte di Dühring, viene
elevata alla dignità di verità definitiva di ultima
istanza.
In secondo luogo sentiamo parlare qui per la prima volta di esseri
intermedi, di formazioni esteriormente indistinte o
indistinguibili (che razza di gergo!) tra pianta e animale. Che
queste forme intermedie esistano; che ci siano organismi dei quali
non possiamo assolutamente dire se sono piante o animali; che in
generale non possiamo stabilire nettamente la linea di confine tra
pianta e animale; tutto questo diventa per Dühring il bisogno
logico di stabilire un criterio di distinzione, del quale, nello
stesso istante, ammette che non è solido! Ma non abbiamo
nessun bisogno di far ritorno al campo equivoco che sta tra piante
e animali; le piante sensitive, che al più lieve tocco
distendono le loro foglie o chiudono i loro fiori, le piante
insettivore, sono prive di ogni più lieve traccia di
sensazione e anche di ogni apparato che serva a riceverle? Questo
anche lo stesso Dühring non può affermarlo senza
"semipoesia priva di scienza".
In terzo luogo, è ancora una volta una libera creazione e
una libera immaginazione di Dühring la sua affermazione che
la sensazione sia fisiologicamente legata alla presenza di un
qualche apparato nervoso, per semplice che esso sia. Non solo
nessuna forma animale inferiore, ma neppure i fitozoi, almeno
nella loro grande maggioranza, presentano alcuna traccia di
apparato nervoso. Un tale apparato si trova regolarmente soltanto
a partire dai vermi e Dühring è il primo ad affermare
che quegli animali non avrebbero sensazioni perché non
hanno nervi. La sensazione non è necessariamente legata ai
nervi, ma probabilmente a certe sostanze albuminose che sinora non
sono state meglio determinate.
Del resto le cognizioni biologiche di Dühring sono
sufficientemente caratterizzate dalla domanda che egli non si
merita di porre a Darwin: "È possibile che l'animale si sia
sviluppato dalla pianta?". Una tale domanda può farla solo
qualcuno che non sappia niente, né di animali né di
piante.
Della vita in generale Dühring ci sa dire soltanto questo:
"Il ricambio materiale che si compie per via di una
schematizzazione plasticamente costruttiva" (che è mai
tutto ciò?) "resta sempre un carattere distintivo del
processo vitale propriamente detto".
Questo è tutto ciò che veniamo a sapere della vita,
restando, con la "schematizzazione plasticamente costruttiva",
ancora ingolfati sono al collo nelle parole senza senso del
più puro gergo dühringiano. Se quindi vogliamo sapere
che cosa è la vita, dovremo occuparcene noi stessi
più da vicino.
Che il ricambio materiale organico sia il fenomeno più
generale e più caratteristico della vita, è cosa che
da trent'anni a questa parte è stata detta infinite volte
dalla chimica fisiologica e dalla fisiologia chimica e che qui
Dühring semplicemente traduce nel suo peculiare linguaggio
elegante e chiaro. Ma definire la vita come ricambio materiale
organico o ricambio materiale con schematizzazione plasticamente
costruttiva è precisamente un'espressione che a sua volta
richiede essa stessa di essere spiegata per mezzo della vita, per
mezzo della differenza tra l'organico e l'inorganico, cioè
del vivente e del non vivente. Con questa spiegazione dunque non
facciamo un passo avanti.
Il ricambio materiale come tale può avvenire anche senza la
vita. C'è tutta una serie di processi chimici che, con un
sufficiente apporto di materie prime, rigenerano costantemente le
loro proprie condizioni in modo tale che un corpo determinato sia
così il veicolo del processo. Così avviene nella
fabbricazione dell'acido solforico per combustione dello zolfo. Si
produce in questo caso un'anidride solforosa, SO2, e aggiungendo
vapore acqueo e acido nitrico, l'anidride solforosa assorbe
idrogeno e ossigeno e si trasforma in acido solforico, H2SO4. Nel
processo l'acido nitrico fornisce ossigeno e si riduce ad ossido
di azoto; questo ossido di azoto assorbe subito a sua volta nuovo
ossigeno dall'aria e si trasforma in ossidi di azoto più
elevati, ma solo per rifornire subito quest'ossigeno all'anidride
solforosa e ripercorrere lo stesso processo, cosicché
teoricamente una quantità infinitamente piccola di acido
nitrico potrebbe essere sufficiente per trasformare in acido
solforico una quantità illimitata di anidride solforosa, di
ossigeno e di acqua. Un ricambio materiale ha luogo inoltre nel
passaggio di fluidi attraverso membrane organiche prive di vita e
attraverso membrane inorganiche come nelle cellule artificiali di
Traube [40]. Qui è ancora una volta evidente che col
ricambio materiale non si va avanti, infatti quel
particolarericambio materiale che si chiama vita ha bisogno esso
stesso di essere spiegato a sua volta per mezzo della vita.
Dobbiamo quindi condurre le nostre ricerche per altra via.
La vita è il modo di esistenza delle sostanze albuminose, e
questo modo di esistenza consiste essenzialmente nel costante
autorinnovarsi dei componenti chimici di queste sostanze.
Sostanza albuminosa è intesa qui nel senso della chimica
moderna che raccoglie sotto questo nome tutti i corpi costituiti
analogamente al comune albume d'uovo, altrimenti detti anche
sostanze proteiche. Il nome è improprio perché il
comune albume d'uovo ha, tra tutte le sostanze ad esso affini, la
funzione meno vitale e più passiva, essendo insieme al
tuorlo solo una sostanza nutritiva per il germe che si sviluppa.
Ma sino a che si saprà ancora tanto poco della composizione
chimica delle sostanze albuminose, questo nome sarà
tuttavia migliore di tutti gli altri, perché più
generale.
Ovunque troviamo la vita, la troviamo legata ad una sostanza
albuminosa, e dovunque trovassimo una sostanza albuminosa che non
sia in decomposizione, troviamo anche, senza eccezioni, fenomeni
vitali. È indubitato che è necessaria la presenza
anche di altri composti chimici di un corpo vivente per provocare
particolari differenziazioni di questi fenomeni vitali; ma per la
vita pura e semplice esse non sono necessarie se non nella misura
in cui intervengono come alimento e si trasformano in albume. Gli
esseri viventi più elementari a noi noti non sono
assolutamente altro che semplici piccoli aggregati albuminosi e
manifestano già tutti i fenomeni vitali essenziali.
Ma in che cosa consistono questi fenomeni vitali essenziali che
sono egualmente presenti dappertutto, in tutti gli esseri viventi?
Anzitutto nel fatto che la sostanza albuminosa assorbe dal suo
ambiente altre materie appropriate e le assimila, mentre altre
parti del corpo più vecchie si consumano e vengono
eliminate. Nel corso naturale delle cose altri corpi non viventi
si modificano, si consumano o si combinano; ma così cessano
di essere quello che erano. La roccia erosa dal tempo non è
più una roccia, il metallo che si ossida si cambia in
ruggine. Ma ciò che nei corpi privi di vita è causa
di distruzione, nell'albume è condizione fondamentale di
esistenza. Dal momento in cui cessa questa trasformazione
ininterrotta degli elementi componenti dell'albume, cessa questo
alternarsi permanente di nutrizione e di eliminazione, da questo
momento la stessa sostanza albuminosa cessa, si decompone,
cioè muore. La vita, il modo di essere della sostanza
albuminosa, consiste dunque, anzitutto, nel fatto che in ogni
istante essa è ad un tempo se stessa ed un'altra; e questo
non avviene in conseguenza di un processo cui una sostanza sia
sottoposta dall'esterno, come può anche essere il caso per
le sostanze prive di vita. Al contrario, la vita, il ricambio
materiale che ha luogo per via di nutrizione e di eliminazione,
è un processo che si compie spontaneamente, inerente,
connaturato al suo veicolo, l'albume, senza il quale non
può esserci. E consegue da ciò che semmai la chimica
arrivasse a produrre artificialmente albume, questo albume
dovrà manifestare fenomeni vitali, per deboli che essi
possano essere. È certo cosa dubbia se nello stesso tempo
la chimica scoprirà anche l'alimento conveniente a questo
albume.
Del ricambio materiale che ha luogo mediante la nutrizione e
l'eliminazione come funzione essenziale dell'albume e della
plasticità che ad esso è propria, derivano poi tutti
gli altri fattori più semplici della vita:
eccitabilità, che è già inclusa nell'azione
reciproca tra albume e il suo alimento; contrattilità che
già si manifesta in un grado molto basso nella consumazione
del cibo, possibilità di accrescimento che nel grado
più basso include la propagazione per divisione; movimento
interno, senza il quale non sono possibili né consumazione
né assimilazione del cibo.
La nostra definizione della vita è naturalmente molto
deficiente, poiché essa, ben lungi dall'includere tutti i
fenomeni vitali, deve limitarsi ai più generali e semplici.
Tutte le definizioni hanno scientificamente scarso valore. Per
sapere in modo veramente esauriente che cosa è la vita,
dovremmo percorrere tutte le sue forme fenomeniche dalle
più basse alle più alte. Tuttavia per l'uso
ordinario tali definizioni sono molto comode e in parte non si
può farne a meno; inoltre non possono fare del danno,
purché non si dimentichino le loro inevitabili deficienze.
Ma ritorniamo a Dühring. Allorché le cose gli vanno
piuttosto male nel dominio della biologia terrena, egli sa
consolarsi: si rifugia nel suo cielo stellato.
"Non solo la costituzione speciale di un organo senziente, ma
proprio tutto il mondo oggettivo è fatto per la produzione
di piacere e dolore. Per questa ragione noi supponiamo che
l'antitesi piacere e dolore, e precisamente proprio nella forma
che ci è familiare, sia un'antitesi universale che debba
essere rappresentata nei vari mondi dell'universo da sentimenti
essenzialmente simili (...) questa concordanza ha non poco
significato; infatti essa è la chiave per l'universo delle
sensazioni (...) Di conseguenza il mondo cosmico soggettivo non ci
è molto più estraneo di quello oggettivo. La
costituzione di questi due regni deve pensarsi secondo un tipo
concordante e così abbiamo i principi per una dottrina
della coscienza che ha una portata superiore a quella
semplicemente terrena."
Che cosa importano pochi grossolani strafalcioni della scienza
terrena ad un uomo che abbia in tasca la chiave per l'universo
delle sensazioni? Allons donc! [Avanti allora!]
Note
32. La concezione del movimento come un quanto costante
(conservazione della qualità di movimento) fu sviluppata da
Cartesio nella sua trattazione sulla luce (parte prima dell'opera
"De Mundo", scritta negli anni 1630-1633 ma pubblicata nel 1664,
quattordici anni dopo la morte di Cartesio) e nella sua lettera a
de bearne del 30 aprile 1639. Più ampiamente essa è
esposta nei suoi "Principia philosophiae", Amsterdam, 1644, parte
seconda, par 36.
33. Sul sistema copernicano cfr. quanto scrive Engels in "Ludwig
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca"
(1886): "Il sistema solare di Copernico fu per tre secoli
un'ipotesi, su cui vi era da scommettere cento, mille, diecimila
contro uno, ma pur sempre un'ipotesi. Quando però
Leverrier, con i dati ottenuti grazie a quel sistema, non solo
dimostrò che doveva esistere un altro pianeta, ignoto fino
a quel tempo, ma calcolò pure in modo esatto il posto
occupato da quel pianeta nello spazio celeste e quando, in
seguito, Galle lo scoprì, il sistema copernicano era
provato". Il pianeta in questione è Nettuno, scoperto il 23
settembre 1846 dall'astronomo Johann Galle dall'osservatorio di
Berlino.
34. Engels adopera i termini "albume", "sostanze albuminose" ecc.
là dove oggi si direbbe invece "sostanze proteiche". Qui e
altrove si è però mantenuta la traduzione letterale.
35. Nel 1885, mentre preparava la seconda edizione
dell'"Anti-Dühring", Engels pensò di mettere a questo
punto una nota, il cui abbozzo ("Sulla concezione "meccanica"
della natura") fu poi da lui incluso nei materiali per la
"dialettica della natura".
35bis. Corsivo di Engels.
36. Secondo la classificazione di Haeckel i protisti formano un
ampio gruppo di organismi del tipo più semplice,
unicellulari o anche acellulari, costituenti un terzo regno
speciale accanto ai due regni pluricellulari (regno vegetale e
animale). Le monere, secondo Haeckel, sono le "fonti primigenie di
tutta la vita organica", "granuli albuminosi perfettamente
omogenei, privi di struttura e di forma", che compiono tutte le
funzioni vitali essenziali come assorbimento del cibo, movimento,
reazione a stimoli, propagazione. Haeckel distingueva tra monere
originarie, estinte, sorte per autogenesi o autogonia (archigonia)
"dal mare primordiale, per opera di condizioni puramente fisiche e
chimiche concomitanti, di movimenti molecolari della materia"
(monere archigonie), e monere ancora viventi. Nelle prime Haeckel
vedeva il punto di partenza dello sviluppo di tutti e tre i regni
della natura organica, perché credeva che dalla monera
archigonia si fosse sviluppata storicamente la cellula. Le seconde
erano da lui assegnate al regno dei protisti, nel quale
formerebbero la prima classe, la più semplice. Le supposte
monere attuali erano suddivise da Haeckel in varie specie:
Protamoeba primitiva, Protomyxa aurantica, Bathybius Haeckelii.
I termini "protisti" e "monere" furono introdotti da Haeckel nel
1866 ma non sono mai stati accettati dalla scienza. Gli organismi
definiti protesti da Haeckel sono oggi classificati come piante o
animali. Tuttavia egli contribuì molto a diffondere il
concetto di evoluzione.
37. L'"Anello del Nibelungo" è la tetralogia di Richard
Wagner, comprendente le opere: "L'oro del Reno", "La Valchiria",
"Sigfrido", "Il crepuscolo degli dèi". Nell'agosto 1876
l'esecuzione dell'"Anello del Nibelungo" inaugurò il teatro
modello fatto costruire da Wagner a Bayreuth. Con l'espressione
ironica "compositore dell'avvenire" Engels allude alla lettera
indirizzata da Wagner a Frédéric Villot,
conservatore dei musei francesi, che fu pubblicata come libro
sotto il titolo "Musica dell'avvenire. A un amico francese", e al
libro di Wagner "L'opera d'arte dell'avvenire", Lipsia, 1850.
38. A partire dal XVI secolo si chiamarono fitozoi gli
invertebrati che hanno certe caratteristiche in comune con le
piante (in particolare spugne e celenterati) e che erano
considerate forme intermedia tra piante e animali. Dalla
metà del XIX secolo il termine fitozoi fu usato per i
celenterati; oggi è del tutto scomparso dall'uso.
39. La classificazione qui citata fu stabilita da Thomas Huxley
nella sua opera "Lectures on the elements of comparative anatomy"
(Londra, 1864), nella sezione V. Su di essa si fonda il libro di
Henry Alleyne Nicholson, "A manuial of zoology", usato da Engels
nel suo lavoro per l'"Anti-Dühring" e per la "dialettica
della natura".
40. Le cellule artificiali di Traube erano composti inorganici che
rappresentavano modelli di cellule vive, capaci di imitare il
ricambio e la crescita, usate per studiare alcuni aspetti del
fenomeno della vita. Furono create dal chimico e fisiologo Moritz
Traube mescolando soluzioni colloidali. Marx ed Engels
apprezzarono molto questa scoperta, di cui la stampa specialistica
dette notizia nel 1864. (Cfr. le lettere di Marx a P. L. Lavrov
del 18 giugno 1875 e all'istologo Wilhelm Alexander Freund del 21
gennaio 1877).
Ci asterremo dal dare piccoli saggi del guazzabuglio di
insulsaggini e di oracoleggiamenti, in breve delle semplici
corbellerie che Dühring per intere cinquanta pagine propina
ai suoi lettori, come scienza che va alle radici, sugli elementi
della coscienza. Citeremo solo questo: "Chi è capace di
pensare solo con l'aiuto del linguaggio, ancora non ha mai appreso
cosa significhi un pensiero astratto e puro". Su questa base gli
animali sono i pensatori più astratti e puri perché
il loro pensiero non è mai turbato dall'intrusione
indiscreta del linguaggio. A dire il vero, nei pensieri
dühringiani e nel linguaggio che li esprime si può
vedere quanto poco questi pensieri siano fatti per una qualsiasi
lingua e quanto poco la lingua tedesca sia fatta per questi
pensieri.
Alla fine ci salva la quarta sezione che, a prescindere dalla
solita molle retorica, almeno qua e là ci offre qualche
cosa di comprensibile sulla morale e il diritto. Questa volta,
siamo invitati proprio sul principio ad un viaggio sugli altri
corpi celesti: gli elementi della morale si debbono
"concordamente (...) ritrovare in tutti gli esseri sovrumani nei
quali un intelletto attivo deve occuparsi di ordinare
consapevolmente gli elementi istintivi della vita (...) Eppure la
nostra partecipazione a tali deduzioni resterà scarsa (...)
Ma, a prescindere da ciò, resta sempre un'idea che allarga
beneficamente il nostro orizzonte, l'immaginarci che su altri
corpi celesti la vita individuale e comune debba partire da uno
schema che (...) non può né evitare né
sopprimere il fatto fondamentale e generale del costituirsi di un
essere che agisce secondo ragione".
Se la validità delle verità duhringiane anche per
tutti gli altri mondi possibili, in via eccezionale, è
messa qui in cima anziché alla fine del capitolo che ne
tratta, questo fatto ha la sua ragione sufficiente. Se si è
assodata per la prima volta la validità delle idee
dühringiane sulla morale e la giustizia per tutti i mondi,
tanto più facilmente la validità di queste idee si
potrà estendere beneficamente a tutti i tempi. Ma ancora
una volta qui non si tratta di qualcosa meno importante di una
verità definitiva di ultima istanza. Il mondo morale ha
"come quello del sapere in generale (...) i suoi principi stabili
e i suoi elementi semplici", i principi morali stanno
"al di sopra della storia e delle odierne differenze dei caratteri
dei popoli (...) Le verità particolari che nel corso dello
sviluppo compongono la consapevolezza morale più completa
e, per così dire, la coscienza, possono, nella misura in
cui le si conoscono fin nei loro ultimi fondamenti, pretendere una
validità ed una portata analoga alle conoscenze e alle
applicazioni della matematica. Le verità pure in generale
sono immutabili (...) cosicché in generale è una
sciocchezza supporre che l'esattezza della conoscenza possa essere
attaccata dal tempo e dalle alterazioni reali".
Perciò la certezza di un sapere rigoroso e la sufficienza
della più comune conoscenza non ci fanno arrivare, se siamo
in uno stato di riflessione, a dubitare dell'assoluta
validità dei principi scientifici.
"Già lo stesso dubbio permanente è uno stato di
debolezza morbosa e non altro che l'espressione di un'assoluta
confusione che talvolta cerca, nella consapevolezza sistematica
della propria nullità, l'apparenza di un certo carattere.
Nelle questioni etiche la negazione dei principi generali si
aggrappa alle verità geografiche e storiche dei costumi e
dei principi, e si concede al dubbio che ciò che è
eticamente malvagio e cattivo è inevitabilmente necessario,
più che mai essa crede di essersi sbarazzata del
riconoscimento del serio valore e della effettiva efficienza di
impulsi morali concordanti. Questa scepsi corrosiva che si svolge
non già contro singole dottrine false, ma contro la stessa
capacità umana di una moralità cosciente, sbocca
finalmente in un vero nulla, anzi propriamente in un qualche cosa
che è peggio del puro e semplice nichilismo (...) Essa si
illude di dominare a buon mercato nel suo caos confuso di idee
morali disarticolate e di poter spalancare tutte le porte al
capriccio privo di principi. Ma si inganna fortemente: infatti il
semplice richiamo alle inevitabili vicende dell'intelletto
nell'errore e nella verità, è sufficiente per far
riconoscere già con questa sola analogia che la
fallibilità, conforme alle leggi naturali, non esclude di
necessità il raggiungimento di ciò che è
giusto."
abbiamo sinora tranquillamente accettato tutte queste frasi
pompose di Dühring riguardanti verità definitive di
ultima istanza, sovranità del pensiero, assoluta certezza
del conoscere, ecc., perché la cosa poteva essere decisa
solamente al punto a cui ora siamo arrivati. Sinora è stato
sufficiente indagare sino a che punto le singole affermazioni
della filosofia della realtà avessero "valore sovrano" e
"diritto incondizionato alla verità"; qui ci troviamo di
fronte alla questione di sapere se e quali prodotti dell'umano
conoscere possano avere in generale valore sovrano e diritto
incondizionato alla verità. Se dico: dell'umano conoscere,
lo dico non con qualche intenzione offensiva verso gli abitanti di
altri corpi celesti, che non ho l'onore di conoscere, ma solo
perché anche gli animali conoscono, ma in un modo che non
è affatto sovrano. Il cane riconosce nel suo padrone il suo
dio, per quanto questo signore possa essere il più gran
mascalzone.
Il pensiero umano è sovrano? Prima di rispondere con un si
o con un no, dobbiamo indagare che cosa è il pensiero
umano. È il pensiero di un uomo singolo? No. Ma esiste solo
come il pensiero singolo di molti miliardi di uomini passati,
presenti e futuri. Se ora dico che questo pensiero di tutti questi
uomini, compresi i futuri, sintetizzato nella mia
rappresentazione, è sovrano, è in condizione di
conoscere il mondo quale è, purché l'umanità
continui ad esistere abbastanza a lungo ed in quanto non siano
posti limiti a questo conoscere negli organi e negli oggetti della
conoscenza, dico qualche cosa che è discretamente banale e
molto discretamente inutile. Infatti il risultato più
valido dovrebbe essere quello di renderci estremamente diffidenti
verso ciò che attualmente conosciamo, perché invero
con ogni probabilità noi siamo pressappoco all'inizio della
storia dell'umanità, e le generazioni che ci correggeranno
saranno probabilmente molto più numerose di quelle la cui
conoscenza noi -assai spesso con troppo disprezzo- siamo in
condizione di correggere.
Dühring stesso dichiara essere una necessità che la
coscienza, e quindi anche il pensare e il conoscere, non si
possano manifestare se non in una serie di esseri individuali. Noi
possiamo attribuire sovranità al pensiero di ciascuno di
questi individui, solo in quanto non conosciamo nessun potere che
sia capace di imporgli con la forza un qualunque pensiero quando
è sano e sveglio. Per quel che concerne il valore sovrano
delle conoscenze di ogni pensiero individuale, noi tutti sappiamo
che non se ne può parlare affatto e che, per quanto ne
sappiamo sinora, esse, senza eccezioni, recano sempre in sé
un numero maggiore di elementi suscettibili di correzione
piuttosto che di elementi non suscettibili di correzione o giusti.
In altre parole: la sovranità del pensiero si realizza in
una serie di uomini che pensano in un modo assolutamente privo di
sovranità; la conoscenza che ha incondizionata pretesa di
verità, si realizza in una serie di relativi errori;
né l'uno né l'altra possono realizzarsi altrimenti
che mediante una durata infinita della vita dell'umanità.
Abbiamo qui la stessa contraddizione che si aveva già
sopra, tra il carattere, rappresentato necessariamente come
assoluto, del pensiero umano ed il suo realizzarsi in singoli
individui il cui pensiero è limitato, contraddizione che
può risolversi solo nel progredire infinito, nella
successione delle generazioni umane che, almeno per noi, è
praticamente infinita. In questo senso il pensiero umano è,
nella stessa misura, sovrano e non sovrano e la sua
capacità conoscitiva è, nella stessa misura,
limitata e illimitata. Sovrano e illimitato per la sua
disposizione, la sua vocazione, la sua possibilità, la sua
meta finale nella storia; non sovrano e limitato nella sua
espressione singola e nella sua realtà di ogni momento.
Lo stesso si ha per le verità eterne. Se mai
l'umanità arrivasse al punto di non operare che su
verità eterne, su risultati del pensiero che posseggano il
valore sovrano e l'incondizionata pretesa di verità, essa
sarebbe pervenuta a quel punto in cui l'infinità del mondo
intellettivo sarebbe esaurita tanto in atto che in potenza, e
sarebbe compiuto il celeberrimo miracolo dell'innumere numerato.
Ma ci sono, ora, verità così saldamente stabilite
che ogni dubbio su esse appaia sinonimo di follia? Due volte due
fanno quattro, i tre angoli di un triangolo sono equivalenti a due
retti, Parigi è in Francia, un uomo senza cibo muore di
fame, ecc.? ci sono quindi verità eterne, verità
definitive di ultima istanza?
Certamente. Noi possiamo, alla vecchia e nota maniera, dividere
tutto il dominio del conoscere in tre grandi sezioni. La prima
comprende tutte le scienze che si occupano della natura non
vivente e sono più o meno suscettibili di una trattazione
matematica: matematica, astronomia, meccanica, fisica, chimica. Se
qualcuno trova gusto ad applicare grandi parole a cose molto
semplici, si può dire che certi risultati di queste scienze
sono verità eterne, verità definitive di ultima
istanza; e per tale ragione queste scienze si sono chiamate anche
esatte: ma non per questo tutti i risultati. Con l'introduzione
delle grandezze variabili e con l'estensione della loro
variabilità fino all'infinitamente piccolo e
l'infinitamente grande, la matematica, altre volte tanto austera,
ha commesso il suo peccato originale; ha mangiato il pomo della
conoscenza che le ha aperto la carriera dei successi più
giganteschi, ma anche quella degli errori. Lo stato verginale
dell'assoluta validità e dell'irrefutabile
dimostrabilità di tutto ciò che è matematico
se ne è andato per sempre; ha fatto irruzione il regno
delle controversie e siamo arrivati al punto che la maggior parte
della gente fa calcoli differenziali e integrali, non
perché intenda ciò che fa, ma per pura fede,
poiché sinora questo è sempre riuscito bene. Con
l'astronomia e la meccanica le cose vanno ancora peggio, nella
fisica e nella chimica ci troviamo in mezzo alle ipotesi come in
mezzo ad uno sciame di api. E non è possibile che la cosa
sia diversa. Nella fisica abbiamo a che fare con il movimento di
molecole, nella chimica con la formazione di molecole da atomi, e
se l'interferenza delle onde luminose non è una favola, noi
non abbiamo nessuna prospettiva di veder mai queste cose
interessanti con i nostri occhi. Col tempo le verità
definitive di ultima istanza diventano in questo campo stranamente
rare.
Ancora peggio siamo nella geologia che, per sua natura, si occupa
principalmente di processi ai quali non solo noi, ma in generale
nessun uomo ha mai assistito. Il bottino di verità eterne
di ultima istanza comporta perciò in questo campo
grandissima fatica e per giunta è straordinariamente
scarso.
La seconda classe di scienze è quella che abbraccia
l'indagine sugli organismi viventi. In questo campo si sviluppa
una tale varietà di relazioni reciproche e di
causalità che non solo ogni questione risolta suscita un
numero infinito di questioni nuove, ma anche ogni nuova questione
può essere risolta per lo più solo parzialmente per
via di una serie di indagini che spesso esigono secoli; e
così il bisogno di una concezione sistematica dei nessi
costringe sempre di nuovo a circondare le verità definitive
di ultima istanza di una fitta siepe di ipotesi. Che lunga serie
di intermediari è stata necessaria da Galeno a Malpighi per
dimostrare una cosa così semplice come la circolazione del
sangue nei mammiferi, quanto poco sappiamo della genesi dei
globuli rossi e quanti anelli intermedi ci mancano oggi per
stabilire, per es., un nesso razionale tra i fenomeni di una
malattia e le sue cause! Inoltre avvengono abbastanza spesso
scoperte, come quella della cellula, che ci costringono a
sottoporre ad una revisione totale tutte le verità
definitive di ultima istanza sin qui stabilite nel campo della
biologia, e ad eliminarne una volta per sempre delle intere
cataste. Quindi chi voglia qui stabilire verità realmente
pure ed immutabili, dovrà accontentarsi di banalità
come: tutti gli uomini devono morire, tutte le femmine di
mammiferi hanno mammelle ecc.; costui non potrà dire
neppure che gli animali superiori digeriscono con lo stomaco e
l'intestino e non con la testa, poiché l'attività
nervosa che ha il suo centro nella testa è indispensabile
per la digestione.
Ma per le verità eterne va ancora peggio nel terzo gruppo
di scienze, le scienze storiche, che indagano le condizioni di
vita degli uomini, i rapporti sociali, le forme giuridiche e
statali con le loro sovrastrutture ideali di filosofia, religione,
arte, ecc., nella loro successione storica e nei loro risultati
attuali. Nella natura organica almeno si ha da fare ancora con una
serie di fenomeni che, per quanto concerne la nostra osservazione
diretta, entro limiti molto vasti, si ripetono con discreta
regolarità. Le specie degli organismi dal tempo di
Aristotele sono rimaste pressappoco le stesse. Nella storia della
società, invece, appena oltrepassiamo lo stato primitivo
dell'umanità, l'età della pietra, le ripetizioni
delle condizioni sono l'eccezione e non la regola; e laddove tali
ripetizioni si presentano, esse non accadono mai precisamente
nelle medesime circostanze. Così per es. accade per il
fenomeno dell'originaria proprietà comune del suolo presso
tutti i popoli civili e per la forma della sua dissoluzione. La
nostra scienza è perciò nel campo della storia umana
di gran lunga più indietro che nel campo della biologia. Ma
c'è di più: se una volta, in via eccezionale, si
riconosce il legame intimo tra forme di esistenza sociali e forma
di esistenza politiche di un periodo storico, questo di regola
succede allorché queste forme hanno già fatto in
parte il loro tempo e vanno incontro alla decadenza. La
conoscenza, quindi, è qui essenzialmente relativa
perché essa si limita a penetrare il nesso e la successione
di certe forme di società e di Stato che vigono solo per
una dato tempo e per dati popoli e che per loro dunque transuenti.
Chi dunque in questo campo dà la caccia a verità
definitive di ultima istanza, a verità pure e in generale
immutabili, poco porterà a casa, tranne banalità e
luoghi comuni della peggior specie, per es. che gli uomini in
generale non possono vivere senza lavorare, che sinora essi si
sono per lo più divisi in dominatori e dominanti, che
Napoleone morì il 5 maggio 1821, ecc.
Ora, è curioso il fatto che proprio questo campo è
quello in cui più spesso ci imbattiamo nelle pretese
verità eterne, nelle verità definitive di ultima
istanza e così via. Che due volte due fanno quattro, che
gli uccelli hanno un becco o cose simili, sono dichiarate
verità eterne solo da chi mira ad arguire, dall'esistenza
di verità eterne, che anche nel campo della storia umana ci
sono verità eterne, una morale eterna, una giustizia eterna
e così via, che esigono una validità e una portata
analoga a quella delle conoscenze e delle applicazioni della
matematica. E allora possiamo aspettarci senz'altro che, alla
prima occasione, questo stesso filantropo ci dichiarerà che
tutti i precedenti fabbricanti di verità eterne, sono stati
più o meno degli asini e dei ciarlatani, che tutti quanti
sono caduti in errore ed hanno sbagliato; ma che il fatto del loro
errore e della loro fallibilità è conforme alle
leggi di natura e prova che in lui esistono la verità e il
giusto e che egli, il profeta che ora è sorto, porta in
tasca bella e pronta la verità definitiva di ultima
istanza, la morale eterna, la giustizia eterna. Tutto questo
è accaduto cento e mille volte, tanto che ci si deve
stupire solo che esistano ancora uomini abbastanza creduloni da
credere tutto questo non di altri, no, ma di se stessi. Eppure
abbiamo qui davanti a noi almeno un altro di siffatti profeti che,
infatti, cade anche lui, come al solito, in un profondo sdegno
morale se altri negano che qualche individuo sia in grado di
fornirci la verità definitiva di ultima istanza. Una tale
negazione, anzi il semplice dubbio, è uno stato di
debolezza, è confusione assoluta, nullità, scepsi
corrosiva, peggiore del semplice nichilismo, confusione caotica e
altre categorie del genere. Come in tutti i profeti, non si indaga
e non si giudica in modo criticamente scientifico, ma senz'altro
si condanna in nome della morale.
Avremmo potuto menzionare sopra anche le scienze che indagano le
leggi del pensiero umano, cioè la logica e la dialettica.
Ma qui per le verità eterne le cose non vanno meglio. La
dialettica propriamente detta, Dühring la dichiara un puro
assurdo, e i molti libri che si sono scritti e ancora si scrivono
sulla logica, dimostrano a sufficienza che anche in questo campo
le verità definitive di ultima istanza sono molto
più rare di quanto più d'uno non creda.
Del resto noi non abbiamo nessun motivo di spaventarci del fatto
che il livello di conoscenza al quale noi oggi siamo, sia tanto
poco definitivo quanto o sono stati tutti i precedenti. Questo
livello abbraccia già un materiale enorme di conoscenze ed
esige una specializzazione molto grande degli studi da parte di
chi voglia familiarizzarsi in qualche specialità. Chi
invece misura col metro di verità pure, immutabili, di
ultima istanza, conoscenze che, per la natura delle cose, restano
relative per lunghe serie di generazioni e debbono essere portate
a compimento a passo a passo, o conoscenze tali che, come nella
cosmogonia, nella geologia, nella storia umana, già per la
deficienza del materiale storico, rimarranno sempre lacunose e
incomplete, costui dimostra in ciò solo la sua ignoranza e
la sua confusione, se anche, come avviene qui, lo sfondo vero e
proprio non sia costituito dalla pretesa all'infallibilità
personale. Verità ed errore, come tutte le determinazioni
del pensiero che si muovono su un piano di opposizioni
antitetiche, hanno validità assoluta solo in campo
estremamente limitato; cosa questa che abbiamo appunto già
veduto e che anche Dühring dovrebbe sapere, se avesse una
qualche familiarità coi primi elementi della dialettica che
trattano precisamente dell'insufficienza di tutte le opposizioni
antitetiche. Non appena applichiamo l'antitesi
verità-errore al di fuori di questo ristretto campo che
abbiamo indicato sopra, essa diventa relativa e conseguentemente
inutilizzabile per l'esatta maniera di esprimersi della scienza; e
se poi cerchiamo di applicarla come assolutamente valida al di
fuori di quel campo, più che mai andiamo incontro al
fallimento; i due termini dell'antitesi si cambiano
rispettivamente nel loro contrario, la verità diventa
errore e l'errore verità. Prendiamo come esempio la nota
legge di Boyle, secondo la quale a temperatura costante il volume
dei gas varia in misura inversamente proporzionale alla pressione
a cui sono sottoposti. Ragnault trovò che questa legge in
certi casi non è giusta. Se fosse stato un filosofo della
realtà si sarebbe sentito in dovere di dire: la legge di
Boyle è soggetta a mutabilità, quindi non è
una verità pura, quindi in generale non è
verità e dunque è un errore. Ma così avrebbe
commesso un errore molto più grande di quello contenuto
nella legge di Boyle; nel mucchio di sabbia dell'errore il suo
granellino di verità sarebbe svanito; egli avrebbe quindi
trasformato il suo risultato originariamente giusto in un errore
di fronte al quale la legge di Boyle con quel po' di errore che vi
è inerente, sarebbe apparsa come verità. Ma
Ragnault, da uomo di scienza, non si abbandonò a tali
puerilità, invece continuò le sue indagini e
trovò che la legge di Boyle è in generale giusta
solo approssimativamente, e in particolare perde la sua
validità in gas che possono essere liquefatti mediante
pressione, e precisamente la pressione si avvicina al punto in cui
sopraggiunge o stato di fluidità. La legge di Boyle si
dimostra così giusta entro limiti determinati. Ma, entro
questi limiti, è poi assolutamente, definitivamente vera?
Nessun fisico lo affermerà. Ma dirà che essa ha
validità entro certi limiti di pressione e di temperatura e
per certi gas; ed entro questi limiti ancora più ristretti
non escluderà la possibilità di una limitazione
ancora più stretta o di una modificazione della
formulazione, determinata da future indagini [*2]. Così
stanno le cose per le verità definitive di ultima istanza,
per es. nella fisica. Lavori effettivamente scientifici evitano
perciò di solito espressioni dogmatiche e morali, quali
errore e verità, che invece incontriamo dappertutto nelle
opere di filosofia della realtà, dove una vuota tiritera ci
si vuole imporre come il più sovrano risultato del pensiero
sovrano.
Ma, potrebbe chiedere un lettore ingenuo, dove dunque Dühring
ha detto espressamente che il contenuto della sua filosofia della
realtà è una verità definitiva, e
precisamente di ultima istanza? Dove? Ebbene, per es., nel
ditirambo del suo sistema (p. 13), che abbiamo riportato
parzialmente nel II capitolo. O allorché, nella
proposizione citata sopra, dice: Le verità morali, nella
misura in cui le si conoscono fin nei loro ultimi fondamenti,
pretendono una validità analoga a quella delle conoscenze
della matematica. E non afferma Dühring che, partendo dal suo
punto di vista veramente critico e per mezzo della sua indagine
che si profonda sino alle radici, egli si è spinto sino a
questi ultimi fondamenti, agli schemi fondamentali, e che quindi
ha conferito alle verità morali una validità
definitiva di ultima istanza? Ovvero, se Dühring non accampa
questa pretesa né per sé né per la sua epoca,
se vuol dire solamente che un giorno, nel nebuloso futuro,
potranno essere stabilite verità definitive di ultima
istanza, se dunque non vuol fare altro che ripetere all'incirca,
soltanto con maggiore confusione, ciò che dicono la "scepsi
corrosiva" e la "assoluta confusione", allora, in questo caso,
perché tutto questo chiasso? Che cosa desidera il signore?
Se già con verità ed errore non siamo andati molto
avanti, allora andremo meno avanti con male e bene. Questa
antitesi si muove esclusivamente sul piano morale e quindi su un
piano apparentemente alla storia umana, qui le verità di
ultima istanza sono estremamente rare. Da popolo a popolo, da
epoca a epoca, le idee di bene e di male si sono cambiate in tal
misura da essere arrivate spesso addirittura a contraddirsi. Ma,
qualcuno obietterà, pure il bene non è male e il
male non è bene; se male e bene vengono confusi insieme,
cessa ogni moralità e ciascuno può fare o non fare
ciò che vuole. Questa, spogliata di tutta la sua forma
oracolare, è anche l'opinione di Dühring. Ma,
tuttavia, la cosa non si spiega così facilmente. Se la cosa
fosse così semplice, non ci sarebbe davvero nessuna disputa
sul bene e sul male, ciascuno saprebbe cosa è il bene e
cosa è il male. Ma come stanno oggi le cose? Quale morale
ci si predica oggi? C'è anzitutto la morale
cristiano-feudale, tramandata dai tempi passati della fede, che, a
sua volta, si divide in cattolica e protestante, e non ci mancano
ancora altre suddivisioni, dalla gesuitica cattolica e dalla
ortodossa protestante sino a una duttile morale illuminata.
Accanto vi figura la morale borghese moderna e a sua volta,
accanto a questa, la morale proletaria dell'avvenire,
cosicché passato, presente e futuro, solo nei paesi
più progrediti d'Europa, offrono tre grandi gruppi di
teorie morali che vigono contemporaneamente e l'una accanto
all'altra. Ora, qual è la vera? Quanto a validità
assoluta, nessuna singolarmente presa; ma certo sarà in
possesso del maggior numero di elementi che permettono di essere
duraturi, quella morale che rappresenta nel presente il
rovesciamento del presente, il futuro, e quindi la morale
proletaria.
Ma ora, se noi vediamo che le tre classi della società
moderna, l'aristocrazia feudale, la borghesia e il proletariato,
hanno ciascuna la propria morale particolare, possiamo trarne la
conclusione che gli uomini, consapevolmente o inconsapevolmente,
in ultima analisi traggono le loro concezioni dai rapporti pratici
sui quali è fondata la loro condizione di classe, dai
rapporti economici in cui producono e scambiano.
Ma nelle tre teorie morali menzionate c'è pure qualcosa di
comune a tutte e tre: non sarebbe almeno questo una parte di
quella morale fissata una volta per sempre? Quelle teorie morali
rappresentano tre diversi gradi dello sviluppo storico, hanno
quindi uno sfondo storico comune, e già per questo hanno
necessariamente molto in comune. Ma c'è di più: dati
dei gradi di sviluppo economico eguali o approssimativamente
eguali, le loro teorie morali necessariamente devono più o
meno concordare tra loro. A partire dal momento in cui si
sviluppò la proprietà privata dei beni mobili, a
tutte le società in cui vigeva questa proprietà
privata dovette essere comune il comandamento morale: Non rubare.
Questo comandamento diventa perciò una legge morale eterna?
Niente affatto. In una società in cui i motivi per rubare
sono eliminati, in cui a lungo andare soltanto i pazzi potrebbero
rubare, quanto si riderebbe del predicatore di morale che
proclamasse solennemente la verità eterna: Non rubare!
Per conseguenza noi respingiamo ogni pretesa di imporci una
qualsiasi morale dogmatica come legge etica eterna, definitiva,
immutabile nell'avvenire, col pretesto che anche il mondo morale
avrebbe i suoi principi permanenti, che stanno al di sopra della
storia e delle differenze tra i popoli. Affermiamo per contro che
ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il
risultato della condizione economica della società di quel
tempo. E come la società si è mossa sinora sul piano
degli antagonismi di classe, così la morale è sempre
stata una morale di classe; o ha giustificato il dominio e gli
interessi della classe dominante, o, diventando la classe
oppressasufficientemente forte, ha rappresentato la rivolta contro
questo dominio e gli interessi futuri degli oppressi. Che
così all'ingrosso si sia avuto un progresso tanto per la
morale quanto per tutti gli altri rami della conoscenza umana,
è cosa su cui non è possibile nessun dubbio. Ma non
abbiamo ancora superato la morale di classe. Una morale che superi
gli antagonismi delle classi e le loro sopravvivenze nel pensiero,
una morale veramente umana è possibile solo a un livello
sociale in cui gli antagonismi delle classi non solo siano
completamente superati, ma siano anche dimenticati per la prassi
della vita. E ora si valuti la presunzione di Dühring che,
dal bel mezzo della vecchia società classista, alla vigilia
di una rivoluzione sociale, pretende di imporre alla futura
società senza classi una morale eterna, indipendente dal
tempo e dai mutamenti della realtà! E questo presupponendo,
ciò che sinora ci è ignoto, che egli conosca, almeno
nelle sue grandi linee, la struttura di questa società
dell'avvenire.
Per finire, ancora una rivelazione "originale sin dalle radici":
per quel che concerne l'origine del male
"il fatto che il tipo del gatto, con la falsità che gli
è propria, si presenti sotto forma di animale che poi
è sullo stesso piano della circostanza che una analoga
configurazione caratteristica si ritrova anche nell'uomo (...) Il
male non è perciò qualche cosa di misterioso, a meno
che non si abbia, diciamo, il gusto di fiutare qualche cosa di
mistico anche nell'esistenza del gatto e in generale dell'animale
da preda".
Il Male è il gatto. Quindi il diavolo non ha coda né
piedi equini, ma artigli e occhi verdi. E Goethe commise un errore
imperdonabile quando presentò Mefistofele come un cane nero
anziché come il gatto suddetto. Il Male è il gatto!
Questa è la morale non solo per tutti i mondi ma anche...
per il gatto! [42]
Abbiamo già imparato a conoscere in parecchie occasioni il
metodo di Dühring. Esso consiste nello scomporre ogni gruppo
di oggetti della conoscenza nei suoi pretesi elementi più
semplici, applicare a questi elementi assiomi altrettanto semplici
e che si pretende siano evidenti per se stessi e continuare ad
operare con i risultati così acquisiti. Anche una questione
appartenente al campo della vita sociale "deve risolversi
assiomaticamente in singole forme fondamentali semplici (...)
forme fondamentali della matematica". E così l'applicazione
del metodo matematico alla storia, alla morale e al diritto deve
procurarci anche qui certezza matematica circa la varietà
dei risultati raggiunti e dar loro il carattere di genuine
verità immutabili.
Questa è solo un'altra versione del vecchio e prediletto
metodo ideologico, altrimenti detto anche aprioristico, che
consiste non già nel conoscere le qualità di un
oggetto traendole dall'oggetto stesso, ma nel dedurle
dimostrativamente dal concetto dell'oggetto. Dapprima ci si fa il
concetto dell'oggetto traendolo dall'oggetto e poi si rovescia la
frittata e si prende come misura dell'oggetto la sua immagine, il
concetto. Non è più dunque il concetto a doversi
conformare all'oggetto, ma l'oggetto al concetto. In Dühring
fungono da concetto gli elementi più semplici, le
astrazioni ultime a cui egli può giungere, il che non
cambia in niente la cosa: questi elementi più semplici
sono, nella migliore delle ipotesi, di natura puramente
concettuale. La filosofia della natura si presenta anche qui
quindi come pura ideologia, deduzione della realtà non da
se stessa, ma dall'idea.
Ora, se un tale ideologo costruisce la morale e il diritto,
traendoli anziché dai reali rapporti sociali degli uomini
che lo circondano, dal concetto o dai cosiddetti elementi
più semplici "della società", quale materiale
è disponibile, in questo caso, per questa costruzione?
Evidentemente materiale di due specie: in primo luogo quel misero
avanzo di contenuto reale che ancora può esistere in quelle
astrazioni da cui egli parte e in secondo luogo il contenuto che
il nostro ideologo vi introduce a sua volta, traendolo dalla sua
propria coscienza. Ma che cosa trova nella sua coscienza? In gran
parte opinioni morali e giuridiche che sono un'espressione
più o meno adeguata -positiva o negativa, di conferma o di
contestazione- delle condizioni sociali e politiche nelle quali
egli vive; inoltre, forse, idee prese a prestito dalla letteratura
sull'argomento; infine, probabilmente, anche capricci personali.
Il nostro ideologo può fare e dire quel che vuole, la
realtà storica, che ha cacciato dalla porta, rientra dalla
finestra, e mentre egli crede di tracciare una dottrina morale e
giuridica valida per tutti i mondi e per tutti i tempi, in effetti
presenta un'immagine delle correnti conservatrici o rivoluzionarie
del suo tempo, contraffatta, perché avulsa dal suo terreno
reale, e capovolta come in uno specchio concavo.
Dühring scompone dunque la società nei suoi elementi
più semplici e trova così che la società
più semplice consta almeno di due uomini. E con questi due
uomini opera assiomaticamente. Ed ecco che spontaneamente si
presenta l'assioma morale fondamentale: "Due volontà umane
sono, come tali, assolutamente eguali tra di loro, e l'una non
può, anzitutto, imporre nulla di positivo all'altra". Con
ciò "è caratterizzata la forma fondamentale della
giustizia morale" e lo è del pari quella della giustizia
giuridica; infatti "per lo sviluppo dei concetti principali del
diritto, a noi occorre soltanto il rapporto assolutamente semplice
ed elementare di due uomini".
Il fatto che due uomini o due volontà umane siano come tali
assolutamente eguali, non solo non è un assioma, ma
è perfino una grande esagerazione. Due uomini possono
anzitutto, anche come tali, essere diseguali per il sesso, e
questo semplice fatto ci porta subito alla constatazione che i
più semplici della società, se per un istante
accettiamo una tale puerilità, non sono due uomini, ma un
maschio e una femmina che fondano una famiglia, la più
semplice e la prima associazione al fine della produzione. Ma
ciò non può in nessun modo convenire a Dühring.
Infatti, da una parte i due fondatori della società debbono
essere resi il più possibile eguali tra di loro e
dall'altra persino Dühring non riuscirebbe a costruirsi,
dalla famiglia primitiva, la parità morale e giuridica tra
uomo e donna. Dunque, una delle due: o la molecola sociale
dühringiana, con la moltiplicazione della quale si deve
costruire tutta la società, è sin dal principio
condannata a rovina, perché tra loro i due uomini non
potrebbero mai mettere al mondo un bambino, o invece dobbiamo
immaginarceli come due capifamiglia. Ma in questo caso tutto lo
schema fondamentale è rovesciato nel suo contrario: invece
dell'uguaglianza degli uomini prova tutt'al più
l'uguaglianza dei capifamiglia, e poiché delle donne non si
fa questione, prova inoltre anche la subordinazione delle donne.
Qui noi dobbiamo fare al lettore la comunicazione spiacevole che
da ora e per molto tempo egli non si libererà mai
più di questi famosi due uomini. Nel campo dei rapporti
sociali essi rappresentano una parte simile a quella rappresentati
sin qui dagli abitanti di altri corpi celesti, con i quali ora
speriamo di essercela cavata. C'è da risolvere una
questione di economia, di politica, ecc.? ecco che si presentano i
due uomini e in un batter d'occhio, "assiomaticamente", liquidano
la cosa. Scoperta eccellente, originale, creatrice di sistema, del
nostro filosofo della realtà: ma disgraziatamente, se
vogliamo rendere onore alla verità, i due uomini non li ha
scoperti lui. Essi sono un fatto comune a tutto il XVIII secolo.
Sono già presenti nel discorso di Rousseau
sull'ineguaglianza [43], del 1754, dove, sia detto di passaggio,
dimostrano assiomaticamente il contrario delle schematizzazioni
dühringiane. Rappresentano una parte di capitale importanza
negli economisti, da Adam Smith a Ricardo, ma qui sono diseguali
almeno nel fatto che ognuno di essi esercita un mestiere diverso,
per lo più quello del cacciatore e quello del pescatore, e
si scambiano vicendevolmente i loro prodotti. Inoltre, in tutto il
secolo XVIII essi servono principalmente come semplice
esemplificazione illustrativa, e l'originalità di
Dühring consiste soltanto nell'elevare questo metodo
esemplificativo a metodo fondamentale di tutta la scienza della
società e a misura di tutte le formazioni storiche. Certo
non ci si potrebbe costruire in modo più facile la
"concezione rigorosamente scientifica delle cose e degli uomini".
Per stabilire l'assioma fondamentale che due uomini e le loro
volontà sono assolutamente eguali tra di loro e nessuno ha
ordini da dare all'altro, non possiamo servirci di due uomini
presi a capriccio. Devono essere due uomini talmente liberati da
ogni realtà, da ogni condizione nazionale, economica,
politica, religiosa esistente sulla terra, e da ogni
caratteristica sessuale e personale, che sia del primo che del
secondo non resta altro che il semplice concetto di uomo, e in tal
caso essi sono di certo "assolutamente eguali". Sono quindi due
autentici fantasmi evocati dallo stesso Dühring che
dappertutto fiuta e denuncia movimenti "spiritistici". Questi due
fantasmi, naturalmente, devono fare tutto quello che il loro
evocatore esige da loro, ed appunto per ciò tutte le loro
produzioni artistiche non hanno assolutamente nessun interesse per
il resto del mondo.
Ma seguiamo ancora un po' l'assiomatica di Dühring. Le due
volontà non possono esigere niente di positivo l'una
dall'altra. Se tuttavia l'una delle due fa questo e impone la sua
pretesa con la forza, sorge uno stato d'ingiustizia; e con questo
schema fondamentale Dühring spiega l'ingiustizia, la
violenza, la servitù, in breve tutta la storia riprovevole
che sin qui si è svolta. Ora, Rousseau, nello scritto
citato sopra, proprio per mezzo di due uomini ha dimostrato, in
modo parimenti assiomatico, il contrario; cioè che, dei
due, A può asservire B con la violenza, ma mettendo B in
una posizione in cui questo non può fare a meno di A; il
che per Dühring rappresenta una concezione già troppo
materialistica. Prendiamo, allora, la cosa in modo un po' diverso.
Due naufraghi sono soli in un'isola e formano una società.
Formalmente le loro volontà sono assolutamente eguali, e
questo fatto è riconosciuto da entrambi. Invece,
materialmente, sussiste una grande disuguaglianza. A è
deciso ed energico, B indeciso, indolente e fiacco; A è
sveglio, B è sciocco. Quanto tempo ci vuole perché A
imponga regolarmente a B la sua volontà, prima con la
persuasione, poi per abitudine, ma sempre sotto la forma del
consenso? Che la forma del consenso sia mantenuta o calpestata, la
servitù resta servitù. L'entrata volontaria nello
stato servile dura per tutto il medioevo in Germania, sin dopo la
guerra dei trent'anni [44]. Quando in Prussia, dopo le sconfitte
del 1806 e del 1807, fu abolita la servitù della gleba e
con essa l'obbligo per i graziosi signori di soccorrere i loro
sudditi in caso di bisogno, malattia e vecchiaia, i contadini
presentarono petizioni al re, per essere lasciati ancora nella
servitù, altrimenti chi li avrebbe soccorsi ancora nella
miseria? Quindi lo schema dei due uomini è tanto "fondato"
sulla disuguaglianza e sulla servitù, quanto
sull'uguaglianza e la sulla mutua assistenza; e poiché
dobbiamo ammettere che i due uomini siano capifamiglia, altrimenti
il genere umano si estinguerebbe, è qui già prevista
anche la servitù ereditaria.
Ma per un momento lasciamo stare tutto ciò. Ammettiamo che
l'assiomatica di Dühring ci abbia persuasi, e che noi siamo
fanatici della completa eguaglianza di diritti delle due
volontà, della "sovranità umana in generale", della
"sovranità dell'individuo", veri fastosi colossi di parole,
di fronte ai quali l'"unico di Stirner [45] con la sua
proprietà resta un pasticcione, per quanto anch'egli
potrebbe reclamarvi la sua modesta parte. Dunque noi siamo oggi
tutti assolutamente eguali e indipendenti. Tutti? No, non tutti.
Ci sono ancora "dipendenze ammissibili" e queste si spiegano "con
ragioni che si devono cercare nell'attività delle due
volontà come tali, ma in una terza sfera, quindi, per es.,
per quel che concerne i bambini, nella deficienza della loro
autodeterminazione".
Infatti! Le ragioni della dipendenza non debbono cercarsi
nell'attività delle due volontà come tali!
Naturalmente no, infatti l'attività di una delle
volontà è anzi proprio ostacolata! Ma invece in una
terza sfera! E che cos'è questa terza sfera? La
determinazione concreta di una volontà sottomessa in quanto
insufficiente! Il nostro filosofo della realtà si è
allontanato a tal punto dalla realtà, che, di fronte al
termine astratto e privo di contenuto "volontà", il
contenuto reale, la determinazione caratteristica di questa
volontà costituisce già per lui una "terza sfera".
Ma comunque ciò sia, dobbiamo constatare che l'eguaglianza
di diritti ha la sua eccezione. Essa non ha validità per
una volontà affetta da una deficienza di
autodeterminazione. Ritirata n° 1.
Andiamo avanti.
"Laddove la bestia e l'uomo sono fusi insieme in una persona, si
può domandare in nome di una seconda persona, completamente
umana, se il loro modo di agire possa essere lo stesso come se
stessero di fronte persone per così dire solamente umane
(...) perciò il nostro presupposto di due persone
moralmente diseguali, una delle quali in un certo senso al
carattere peculiare della bestia, è la forma fondamentale
tipica di tutti i rapporti che, conformemente a questa differenza,
possono presentarsi (...) all'interno dei gruppi umani e tra di
loro."
Ed ora il lettore segua con i suoi occhi la miserevole diatriba
che segue questi impacciati sotterfugi, in cui Dühring si
gira e si rigira come un gesuita per stabilire casisticamente sino
a che punto l'uomo umano possa intervenire contro gli uomini
bestiali, sino a che punto possa usare contro di loro diffidenza,
astuzia guerresca, mezzi di inganno sottili, anzi perfino
terroristici, senza neppure derogare in qualche cosa dalla morale
immutabile.
Quindi se due persone sono "moralmente diseguali", anche
l'eguaglianza cessa. Ma allora non valeva la pena di evocare i due
uomini assolutamente eguali, infatti non esistono due persone che
moralmente siano assolutamente eguali. La disuguaglianza
consisterebbe però nel fatto che una è una persona
umana e l'altra reca in sé qualcosa della bestia. Ma
è già insito nella discendenza dell'uomo dal regno
degli animali il fatto che l'uomo non si libera mai completamente
dalla bestia, cosicché si può trattare sempre di un
più o un meno, di una differenza nel grado della
bestialità o rispettivamente dell'umanità. Una
divisione degli uomini in due gruppi nettamente distinti, in
uomini-umani e in uomini-bestie, in buoni e cattivi, in pecore e
becchi, oltre alla filosofia della realtà la conosce
soltanto il cristianesimo che, in modo del tutto conseguente, ha
anche il suo giudice universale che compie la separazione. Ma
nella filosofia della realtà, chi deve essere il giudice
supremo? Dovrà probabilmente avvenire come nella prassi
cristiana, in cui le pie pecorelle si assumono loro stesse, e
adempiono con noto successo, l'ufficio di giudici universali dei
becchi, loro prossimo profano. La setta dei filosofi della
realtà, se mai verrà al mondo, sotto questo riguardo
certo non la cederà in niente ai Pacifici nel paese [46].
Ma tutto questo può esserci indifferente; ciò che ci
interessa è la confessione che, in conseguenza della
disuguaglianza morale tra gli uomini, ancora una volta
l'eguaglianza si riduce a niente. Ritirata n°2.
Andiamo di nuovo avanti.
"Se uno dei due uomini agisce secondo verità e scienza e
l'altro, invece, secondo superstizione o qualche pregiudizio (...)
di regola devono intervenire mutue interferenze (...) Ad un certo
grado di incapacità, di rozzezza o di cattiva tendenza del
carattere, dovrà in ogni caso avvenire un conflitto (...)
Non sono necessariamente i bambini e i folli quelli nei cui
confronti la violenza è l'ultima risorsa. Il carattere di
interi gruppi naturali e di intere classi di uomini civili
può rendere inevitabilmente necessario sottomettere la loro
volontà, ostile per la sua perversità, al fine di
ricondurre questa stessa volontà ai legami della
comunità. Anche qui la volontà altrui viene
considerata come avente eguali diritti; ma per la
perversità della sua attività aggressiva e ostile ha
provocato un'azione di compenso, e se ora subisce un'azione di
forza, non fa che raccogliere la reazione alla propria
ingiustizia."
Quindi non solo la disuguaglianza morale, ma anche la
disuguaglianza spirituale è sufficiente per eliminare
l'"assoluta eguaglianza" delle due volontà e per istituire
una morale secondo la quale si possono giustificare tutte le
infamie commesse da briganteschi Stati civili contro popoli
arretrati, sino alle atrocità dei russi nel Turkestan [47].
Quando il generale Kaufmann, nell'estate 1873, fece attaccare la
tribù tartara dei Jomudi, bruciare le loro tende,
massacrare le loro donne e i loro bambini "alla buona maniera
caucasica", come diceva il suo ordine, affermava anche lui che era
diventata una necessità ineluttabile sottomettere la
volontà dei Jomudi, ostile per la sua perversità, al
fine di ricondurre questa loro volontà ai legami della
comunità; che i mezzi da lui usati erano i più
appropriati allo scopo e che chi vuole il fine, deve anche volere
i mezzi. Solamente non era così crudele da schernire per
soprammercato i Jomudi dicendo che li massacrava per un'azione di
compenso e che proprio per questo considerava la loro
volontà come avente eguali diritti. E ancora una volta in
questo conflitto sono gli eletti, coloro che pretendono di agire
secondo verità e scienza, quindi in ultima analisi sono i
filosofi della realtà, quelli che hanno da decidere che
cosa sono superstizione, pregiudizio, rozzezza, cattiva tendenza
del carattere, e quando sono necessari la violenza e
l'assoggettamento come azione di compenso. L'eguaglianza è
quindi ora: l'azione di compenso mediante la violenza, e la
seconda volontà viene dalla prima riconosciuta come avente
eguali diritti, mediante l'assoggettamento. Ritirata n°3, che
qui già degenera in fuga ignominiosa.
Di passaggio, la frase che dice come precisamente nell'azione di
compenso mediante la violenza la volontà altrui venga
considerata avente eguali diritti, è solo un'alterazione
della teoria hegeliana secondo la quale la punizione è il
diritto del delinquente: "col fatto che la pena sia considerata
come recante in sé un suo proprio diritto, il delinquente
viene onorato come un essere razionale". ("Filosofia del diritto",
par. 100, nota)
E con questo possiamo troncare. Sarebbe superfluo continuare
ancora a seguire Dühring nella distruzione che compie pezzo
per pezzo della sua eguaglianza, della sua sovranità umana
in generale, poste così assiomaticamente; e osservare come
egli, è vero, viene a capo della società con due
uomini, ma come per costruire lo Stato ne abbisogna di un terzo,
perché, per farla breve, senza questo terzo nessuna
decisione a maggioranza può essere presa, e senza questa, e
quindi senza dominio della maggioranza sulla minoranza, neanche
può sussistere lo Stato; e come poi, a poco a poco, cambia
rotta, passando nelle acque più tranquille della
costruzione del suo futuro Stato socialitario, dove un bel giorno
avremo l'onore di andarlo a trovare. Abbiamo visto a sufficienza
che l'eguaglianza assoluta delle sue volontà sussiste solo
sino a quando queste due volontà non vogliono nulla; che
non appena esse cessano di essere volontà umane in quanto
tali e si trasformano in volontà reali, individuali, nelle
volontà di due uomini reali, l'eguaglianza cessa; che
puerilità, follia, cosiddetta bestialità, presunta
superstizione, asserito pregiudizio, supposta incapacità da
una parte e pretesa umanità, conoscenza della verità
e scienza dall'altra, quindi ogni differenza nella qualità
delle due volontà e in quella dell'intelligenza che le
accompagna, giustifica una disuguaglianza che può spingersi
sino alla sottomissione; che cosa di più vogliamo ancora
dopo che Dühring ha distrutto così radicalmente dalle
fondamenta il proprio edificio dell'eguaglianza?
Ma se anche l'abbiamo fatta finita con la trattazione superficiale
e dilettantesca che Dühring fa dell'idea di eguaglianza, non
perciò l'abbiamo fatta finita con questa idea stessa, in
quanto essa ha un'importante funzione teorica, specialmente,
grazie a Rousseau, pratico-politica durante e dopo la grande
Rivoluzione, e ancora oggi agitatoria nel movimento socialista di
quasi tutti i paesi. La constatazione di quale sia il suo
contenuto scientifico determinerà anche il suo valore per
l'agitazione proletaria.
L'idea che tutti gli uomini in quanto uomini hanno qualche cosa di
comune e che essi sono anche eguali nei limiti di questo elemento
comune, è ovviamente antichissima. Ma assolutamente diversa
da tutto questo è la moderna rivendicazione
dell'eguaglianza; questa consiste invece nel dedurre da quella
proprietà comune dell'essere umano, da quell'eguaglianza
degli uomini in quanto uomini, il diritto ad un eguale valore
politico, ovvero sociale, di tutti gli uomini, o almeno di tutti i
cittadini di uno Stato, o di tutti i membri di una società.
Prima che da quella originaria idea di una eguaglianza relativa si
sia potuto trarre la conclusione di una eguaglianza dei diritti
nello Stato e nella società, prima ancora che questa
conclusione sia potuta apparire come qualche cosa di naturale e
ovvio, dovevano passare millenni, e millenni sono passati. Nelle
comunità più antiche, nelle comunità naturali
poteva parlare di eguaglianza dei diritti tutt'al più tra i
membri della comunità; va da sé che donne, schiavi,
stranieri ne erano esclusi. Fra i greci e fra i romani le
disuguaglianze degli uomini avevano un peso molto maggiore di
qualsiasi eguaglianza. Che greci e barbari, liberi e schiavi,
cittadini e clienti, cittadini romani e sudditi romani (per usare
un termine comprensivo) potessero pretendere parità di
condizioni politiche, agli antichi necessariamente sarebbe parso
pazzesco. Sotto l'impero romano tutte queste differenziazioni a
poco a poco si dissolsero, ad eccezioni di liberi e schiavi, si
originò di conseguenza, almeno per i liberi,
quell'eguaglianza dei privati cittadini sulla cui base si
sviluppò il diritto romano, la più perfetta
costruzione a noi nota del diritto fondato sulla proprietà
privata. Ma sino a quando sussistè la contrapposizione di
liberi e schiavi, non si potè parlare di conclusioni
giuridiche tratte dall'eguaglianza umana in generale; cosa che
anche di recente abbiamo visto negli Stati schiavisti dell'Unione
nordamericana.
Il cristianesimo conobbe solo una eguaglianza di tutti gli uomini,
quella dell'eguale peccaminosità originaria, che era
perfettamente adeguata al suo carattere di religione degli schiavi
e degli oppressi. Oltre a questa tutt'al piùconosceva
l'eguaglianza degli eletti, che però fu accentuata
solamente e unicamente agli inizi. Le tracce della comunione dei
beni che si trovano del pari agli inizi della nuova religione si
possono ricondurre molto più alla solidarietà tra i
perseguitati che a vere idee di eguaglianza. Ma ben presto,
stabilitasi la contrapposizione tra preti e laici, anche questo
inizio di eguaglianza cristiana ebbe fine. L'invasione dell'Europa
occidentale da parte dei germani eliminò per secoli l'idea
di eguaglianza, costruendo a poco a poco una gerarchia sociale e
politica in una forma così complicata quale sino allora mai
era esistita; ma ad un tempo introdusse nel movimento storico
l'Europa occidentale centrale, creò per la prima volta una
compatta zona di civiltà e per la prima volta creò
su questo territorio un sistema di Stati prevalentemente nazionali
che esercitavano l'uno sull'altro una mutua influenza e che
mutuamente si tenevano in scacco. Con questo essa preparò
il terreno sul quale, solo in più tarda età, si
potè parlare di eguaglianza umana e di diritti dell'uomo.
Il medioevo feudale sviluppò inoltre nel suo seno la classe
che era chiamata, nel suo sviluppo ulteriore, a diventare la
depositaria della moderna rivendicazione dell'eguaglianza: la
borghesia. Dapprima ceto feudale essa stessa, la borghesia aveva
sviluppato l'industria prevalentemente artigiana e lo scambio di
prodotti ad un grado relativamente alto entro la società
feudale, quando, alla fine del XV secolo, le grandi scoperte
marinare le apersero una carriera nuova e più vasta. Il
commercio extraeuropeo, sinora esercitato solo tra l'Italia e il
Levante, fu esteso all'America e all'India, e presto
sorpassò in importanza tanto lo scambio dei singoli paesi
europei tra di loro, quanto il traffico interno di ciascun paese
singolo. L'oro e l'argento dell'America inondarono l'Europa e
penetrarono come un elemento disgregatore in tutti i vuoti, le
fessure e i pori della società feudale. L'industria
artigiana non fu più sufficiente per i bisogni crescenti e
nelle industrie principali dei paesi più progrediti fu
sostituita dalla manifattura.
A questo imponente rivoluzionamento delle condizioni economiche di
vita della società, tuttavia, non seguì affatto
immediatamente un cambiamento adeguato della sua organizzazione
politica. L'ordinamento statale rimase feudale, mentre la
società diventò sempre più borghese. Il
commercio su vasta scala, quindi specialmente il commercio
internazionale, e ancor più il commercio su scala mondiale,
esige liberi possessori di merci, non inceppati nei loro
movimenti, che, come tali, siano provvisti di eguali diritti, che
scambiano sulla base di un diritto eguale per tutti loro, almeno
in ogni singolo luogo. Il passaggio dall'artigianato alla
manifattura ha come presupposto l'esistenza di un certo numero di
liberi lavoratori, liberi, da una parte, da vincoli corporativi e,
dall'altra, dai mezzi per utilizzare da se stessi la loro
forza-lavoro, i quali possano contrattare con il fabbricante per
l'affitto della loro forza-lavoro, e quindi essere di fronte a
costui come contraenti aventi eguali diritti. E finalmente
l'eguaglianza e l'egual valore di tutti i lavori umani,
perché ed in quanto sono in generale lavoro umano [48],
trovò la sua espressione più forte, anche se
inconsapevole, nella legge del valore della moderna economia
borghese, secondo la quale legge il valore di una merce viene
misurato mediante il lavoro socialmente necessario in essa
contenuto [*3]. Ma laddove i rapporti economici esigevano
libertà ed eguaglianza di diritti, l'ordinamento politico
opponeva loro, ad ogni passo, vincoli corporativi e privilegi
particolari. Privilegi locali, tariffe doganali differenziate,
leggi eccezionali di tutte le specie colpivano nel commercio non
solo lo straniero o l'abitante delle colonie, ma abbastanza spesso
anche intere categorie degli stessi cittadini dello Stato;
privilegi corporativi sbarravano dappertutto e sempre la strada
allo sviluppo della manifattura. Non c'era luogo dove la strada
fosse libera e le possibilità eguali per i concorrenti
borghesi: eppure questa era la prima e sempre più urgente
rivendicazione.
La rivendicazione della liberazione dai vincoli feudali e
l'instaurazione dell'eguaglianza giuridica mediante l'eliminazione
delle disuguaglianze feudali: questa rivendicazione, non amenza,
fu posta all'ordine del giorno dal progresso economico della
società, assunse ben presto necessariamente dimensioni
sempre maggiori. Ma se essa veniva posta nell'interesse
dell'industria e del commercio, la stessa eguaglianza di diritti
doveva essere rivendicata per la grande massa dei contadini, che
in tutti i gradi della servitù, a partire dalla completa
servitù della gleba, dovevano offrire gratuitamente la
massima parte della loro giornata lavorativa al grazioso signore
feudale ed inoltre pagare a lui e allo Stato anche innumerevoli
tributi. D'altra parte non si poteva fare a meno di esigere che
parimente venissero soppressi i privilegi feudali,
l'immunità dalle imposte della nobiltà e i privilegi
politici dei singoli ceti. E poiché non si viveva
più un impero universale, come era stato l'impero romano,
ma in un sistema di Stati indipendenti, le cui relazioni
reciproche si muovevano su un piede di parità e nei quali
lo sviluppo della borghesia era approssimativamente allo stesso
livello, era naturale che la rivendicazione assunse un carattere
generale che oltrepassava i limiti di singolo Stato e che
libertà ed eguaglianza fossero proclamate diritti
dell'uomo. Così per il carattere specificamente borghese di
questi diritti dell'uomo è indicativo il fatto che la
Costituzione americana, la prima che riconosca i diritti
dell'uomo, confermi nello stesso tempo la schiavitù della
gente di colore esistente in America: i privilegi di classe
vengono banditi, i privilegi di razza santificati.
È noto però che la borghesia, dall'istante in cui,
come farfalla dalla crisalide, vien fuori dallo stadio di
borghesia feudale, dall'istante in cui da ceto medievale diventa
classe moderna, sempre ed inevitabilmente è accompagnata
dalla sua ombra, il proletariato. E parimenti le rivendicazioni
borghesi dell'eguaglianza sono accompagnate dalle rivendicazioni
proletarie dell'eguaglianza. Dall'istante in cui viene posta la
rivendicazione borghese della soppressione dei privilegi di
classe, accanto ad essa si presenta la rivendicazione proletaria
della soppressione delle classi stesse: dapprima in forma
religiosa, ricollegandosi al cristianesimo primitivo, più
tardi poggiandosi sulle stesse teorie borghesi dell'eguaglianza. I
proletari prendono in parola la borghesia: l'eguaglianza
dev'essere attuata non solo apparentemente, non solo sul piano
dello Stato, ma realmente sul piano sociale, economico. E
specialmente da quando la borghesia francese, a partire dalla
grande Rivoluzione, ha messo in primo piano l'eguaglianza civile,
il proletariato francese le ha risposto colpo contro colpo, con la
rivendicazione dell'eguaglianza sociale, economica, e
l'eguaglianza è diventata il grido di guerra in modo
speciale del proletariato francese.
La rivendicazione dell'eguaglianza ha così, sulle labbra
del proletariato, un duplice significato. O, ed è quanto
avviene specialmente nei primi inizi, per es. nella guerra dei
contadini, è la reazione naturale contro le stridenti
disuguaglianze sociali, contro il contrasto di ricchi e poveri, di
signori e servi, di crapuloni e affamati; e come tale è
semplicemente espressione dell'istinto rivoluzionario, e trova la
sua giustificazione in questo contrasto e solamente in esso. O
invece è sorta dalla reazione contro la rivendicazione
borghese dell'eguaglianza e da questa trae esigenze più o
meno giuste che la oltrepassano e serve come mezzo di agitazione
per eccitare i lavoratori contro i capitalisti con le affermazioni
proprie dei capitalisti, ed in questo caso essa si regge e cade
con la stessa eguaglianza borghese. In entrambi i casi l'effettivo
contenuto della rivendicazione proletaria dell'eguaglianza
è la rivendicazione della soppressione delle classi. Ogni
rivendicazione di eguaglianza che esce da questi limiti va
necessariamente a finire nell'assurdo. Ne abbiamo dato esempio e
ne troveremo ancora abbastanza allorché verremo alle
fantasie avveniristiche di Dühring.
Conseguentemente l'idea dell'eguaglianza, tanto nella sua forma
borghese quanto nella sua forma proletaria, è essa stessa
un prodotto storico e per la sua creazione sono state necessarie
condizioni storiche determinate che, a loro volta, presuppongono,
esse stesse, una lunga preparazione storica. È quindi tutto
tranne che una verità eterna. E se oggi per il gran
pubblico essa è chiara per se stessa, nell'uno e nell'altro
dei suoi sensi, se, come dice Marx "ha già la
solidità di un pregiudizio popolare" [49], questo non
è effetto della sua verità assiomatica, ma della
diffusione generale e della perdurante attualità delle idee
del XVIII secolo. Se dunque Dühring si permette così
di far muovere senz'altro i suoi famosi due uomini sul terreno
dell'eguaglianza, ciò deriva dal fatto che questo appare
assolutamente naturale al pregiudizio popolare. E infatti
Dühring chiama naturale la sua filosofia, poiché essa
parte semplicemente da cose che a lui appaiono assolutamente
naturali. Ma perché gli appaiono naturali, è cosa
che, invero, egli non si chiede.
"Nel campo giuridico e politico i principi esposti in questo corso
hanno a loro fondamento gli studi specialistici più
profondi. Si dovrà perciò (...) partire dal fatto
che qui (...) si è tentato di esporre in modo conseguente i
risultati raggiunti nel campo del diritto e della scienza
politica. In origine il mio studio specialistico fu proprio la
giurisprudenza, e vi ho dedicato non soltanto i soliti tre anni di
preparazione universitaria, ma, durante altri tre anni di pratica
legale, anche uno studio continuo indirizzato principalmente
all'approfondimento del loro contenuto scientifico (...) E
sicuramente la critica dei rapporti di diritto privato e delle
relative deficienze giuridiche non avrebbe potuto procedere con
altrettanta sicurezza se non fosse stata conscia di conoscere
dappertutto sia i lati deboli che quelli più forti di
questa materia speciale."
Un uomo che ha motivo di parlare così di se stesso, sin dal
principio deve ben ispirare fiducia, particolarmente di fronte
"agli studi giuridici che il sig. Marx ha fatto nel passato, e per
sua confessione, con trascuratezza". Perciò c'è da
meravigliarsi che la critica dei rapporti di diritto privato, la
quale si presenta con tale sicurezza, si limiti a raccontarci che
"il carattere scientifico della giurisprudenza (...) non è
gran cosa", che il diritto civile positivo è ingiustizia
perché sanziona la proprietà fondata sulla violenza,
e che "la base naturale" del diritto penale è la vendetta:
affermazione nella quale l'unica cosa nuova è, se mai, il
travestimento mistico in "base naturale". I risultati della
scienza politica si limitano alle relazioni fra i noti tre uomini,
l'uno dei quali sinora ha fatto violenza agli altri; e qui
Dühring indaga con tutta serietà se è stato il
secondo o il terzo quello che per primo ha introdotto la violenza
e la servitù.
Seguiamo pertanto ancora un po' gli studi specialistici più
profondi e la serietà scientifica, approfonditasi mediante
una pratica legale triennale, dal nostro giurista così
sicuro di sé.
Di Lassalle Dühring ci racconta che "a causa della
provocazione al tentativo di furto di una cassetta", fu messo in
stato d'accusa, "senza che tuttavia si potesse registrare una
condanna giudiziaria, essendo intervenuta la cosiddetta
assoluzione dall'accusa, che allora era ancora possibile (...)
questa semiassoluzione".
Il processo di Lassalle, del quale qui si parla, fu celebrato
nell'estate 1848 dinanzi alle Assise di Colonia, dove, come quasi
in tutta la provincia renana, era in vigore il diritto penale
francese. Solo per reati e crimini politici era stato introdotto
in via eccezionale il Landrecht [50] prussiano, ma già
nell'aprile del 1848 questo provvedimento eccezionale fu abrogato
dal Camphausen. Il diritto francese non conosce affatto la
categoria vaga, propria del Landrecht prussiano, di "provocazione"
a un crimine, e tanto meno di provocazione al tentativo di un
delitto. Esso conosce solo istigazione al crimine, e questa, per
essere punibile, deve avere luogo "mediante doni, promesse,
minacce, abuso di autorità o di potere, macchinazioni
astute o artifici criminosi" (Code pénal [51] art. 60). Il
pubblico ministero, sprofondando nel Landrecht prussiano, perdette
di vista, precisamente come Dühring, la differenza essenziale
tra le norme nettamente determinate del diritto francese e
l'evanescente indeterminatezza del Landrecht, intentò a
Lassalle un processo tendenzioso e fece clamorosamente fiasco.
Infatti l'affermazione che il processo penale francese conosca
l'assoluzione dall'accusa secondo il Landrecht prussiano, questa
semiassoluzione, può arrischiarla solo chi nel campo del
diritto francese moderno sia un perfetto ignorante; questo diritto
conosce, nel processo penale, solo condanna e assoluzione e nessun
termine intermedio.
Ci troviamo perciò nel caso di dover dire che Dühring
non avrebbe certo potuto applicare con pari sicurezza a Lassalle
questa sua "maniera di delineare la storia in grande stile", se
mai avesse avuto tra le mani il Code Napoléon [52].
Dobbiamo quindi constatare che è completamente ignoto, a
Dühring, l'unico codice borghese moderno che poggia sulle
conquiste sociali della grande Rivoluzione francese e le traduce
in norme giuridiche: il diritto francese moderno.
Altrove, nella critica alle Corti d'assise che decidono a
maggioranza di voti, introdotte in tutto il continente secondo il
modello francese, ci si insegna:
"Si, ci si potrà familiarizzare perfino con l'idea, che del
resto non è affatto priva di esempi storici, che in una
comunità perfetta una condanna con voti contrastanti
sarebbe un'istituzione impossibile (...) Tuttavia questo modo di
concepire serio e profondamente spirituale, come è
già stato accennato sopra, non può non apparire
inadatto alle forme tradizionali, per il fatto che è
eccessivamente buono per esse".
Ancora una volta Dühring ignora che l'unanimità dei
giurati non solamente per le condanne penali, ma anche per i
giudizi in processi civili è assolutamente necessaria per
il diritto comune inglese, cioè il diritto consuetudinario
non scritto in vigore da tempo immemorabile, ossia almeno dal
quattordicesimo secolo. Il modo di concepire serio e profondamente
spirituale che, secondo Dühring, è eccessivamente
buono per il mondo odierno, ha avuto validità di legge in
Inghilterra già nel più passato medioevo, e
dall'Inghilterra è stato trasportato in Irlanda, negli
Stati Uniti d'America e in tutte le colonie inglesi, senza che gli
studi specialistici più profondi ne abbiano fatto trapelare
a Dühring una sola parola! Il campo in cui vige
l'unanimità dei giurati non solo è quindi
infinitamente grande in confronto al ristretto ambito del
Landrecht prussiano, ma è anche più esteso di tutti
i campi, presi insieme, nei quali la maggioranza dei giurati
è decisiva. Dühring non solo ignora totalmente l'unico
diritto moderno, il diritto francese, ma è anche parimente
ignorante in quel che concerne l'unico diritto germanico che ha
continuato a svilupparsi sino all'epoca presente indipendentemente
dall'autorità del diritto romano e che si è esteso a
tutti i continenti: il diritto inglese. E perché no?
Infatti la forma inglese del pensiero giuridico "non potrebbe
tener testa agli studi, eseguiti su suolo tedesco, sui puri
concetti dei giuristi classici romani", dice Dühring, e
più tardi egli dice ancora: "Che cos'è il mondo che
parla inglese, con la sua ibrida lingua di fanciulli di fronte
alla vigorosa forza espressiva della nostra lingua?". Al che
possiamo soltanto rispondere con Spinoza: Ingorantia non est
argumentum, l'ignoranza non è un argomento [53].
Non possiamo quindi che arrivare a questo risultato conclusivo:
gli studi specialistici più profondi di Dühring sono
consistiti nel fatto che egli si è per tre anni sprofondato
nello studio teorico del Corpus juris [54] e per altri tre anni
nello studio pratico del nobile Landrecht prussiano. Questa
certamente è già cosa molto meritoria, e sufficiente
per un rispettabilissimo giudice distrettuale o per un avvocato
della vecchia Prussia. Ma se ci si accinge a costruire una
filosofia del diritto valida per tutti i mondi e per tutti i
tempi, si dovrebbe pure, in qualche modo, essere anche al corrente
dei rapporti giuridici vigenti in nazioni quali la francese,
l'inglese, l'americana, nazioni che nella storia rappresentano ben
altra parte che non l'angolo della Germania in cui è in
fiore il Landrecht prussiano. Ma leggiamo oltre.
"Il miscuglio variopinto di diritti locali, provinciali e
regionali che si incrociano nelle direzioni più diverse in
maniera molto arbitraria, ora come diritto consuetudinario, ora
come legge scritta, spesso dando la veste di prima forma
statutaria alle materie più importanti: questo campionario
di disordine e di contraddizione in cui i casi singoli infirmano i
principi generali e in cui, a loro volta, i principi generali
occasionalmente infirmano i fatti particolari, in verità
non è fatto per (...) rendere possibile (...) a chiunque
una chiara coscienza giuridica".
Ma dove regna questo stato di confusione? ancora una volta dove
regna il Landrecht prussiano, in cui, accanto, sopra e sotto
questo diritto regionale, hanno i più diversi gradi
relativi di validità diritti provinciali, statuti locali, e
qua e là anche diritto comune e altra robaccia e provocano
in tutti i giuristi pratici quel grido d'allarme che Dühring
ripete qui con tanta grazia. Egli non ha bisogno di abbandonare la
sua diletta Prussia, basta che venga sulle rive del Reno per
convincersi che quaggiù da settant'anni non si parla
più di tutto questo; per non dir nulla degli altri paesi
civili dove queste siffatte condizioni invecchiate sono già
state abolite da lungo tempo.
Inoltre:
"L'occultamento della responsabilità naturale individuale
si manifesta in una maniera meno cruda nei giudizi collettivi
segreti e perciò anonimi e nelle azioni collettive di
collegi o di altre istituzioni ufficiali che mascherano la parte
personale di ciascun membro".
E in un altro passo:
"Nell'odierno stato di cose sarebbe un'esigenza sorprendente e
straordinariamente rigorosa il non voler sentire parlare di
nascondere e di coprire collegialmente la responsabilità
del singolo".
Probabilmente sarà per Dühring una comunicazione
sorprendente se gli diciamo che nell'ambito del diritto inglese
ogni membro del collego giudicante deve emettere e motivare
singolarmente il suo giudizio in seduta pubblica e che i collegi
amministrativi, non eletti e che trattano e giudicano non
pubblicamente, sono un'istituzione squisitamente prussiana e
sconosciuta nella massima parte degli altri paesi, e che
perciò la sua esigenza può essere sorprendente e
straordinariamente rigorosa solamente e semplicemente... in
Prussia.
Del pari le sue querimonie sull'ingerenza coattiva delle pratiche
religiose nelle nascite, nei matrimoni, nelle morti e nei
seppellimenti toccano, tra i maggiori paesi civili, solo la
Prussia, e da quando sono stati introdotti i registri di stato
civile, neanche più questa [55]. Ciò che
Dühring realizza solo per mezzo di uno stato di cose
"socialitario" dell'avvenire, perfino Bismarck, nel frattempo, lo
ha sbrigato con una semplice legge. Non diversamente, nella
"querimonia per la deficiente preparazione dei giuristi alla loro
professione", intona una geremiade tipicamente prussiana; e anche
l'odio per gli ebrei spinto sino al ridicolo, di cui Dühring
fa mostra ad ogni occasione, è una qualità se non
tipicamente prussiana, tuttavia tipica di tutti i paesi ad oriente
dell'Elba. Quello stesso filosofo della realtà che ha un
sovrano disprezzo per tutti i pregiudizi e le superstizioni,
è così ingolfato in ubbie personali da chiamare
"giudizio naturale" poggiante su "basi naturali", il pregiudizio
popolare contro gli ebrei, ereditato dalla bigotteria medievale, e
da spingersi a questa fantastica asserzione: "il socialismo
è l'unica forza che possa tener fronte a situazioni
demografiche accompagnate da una commissione ebraica piuttosto
rilevante" (situazioni accompagnate da commissione ebraica! Che
linguaggio tedesco naturale!).
Ce n'è abbastanza. Questo gran millantare la propria
erudizione giuridica, nel migliore dei casi, ha come sfondo le
più comuni conoscenze specialistiche di un comunissimo
giurista della vecchia Prussia. Il campo delle scienze giuridiche
e politiche, i cui risultati Dühring ci espone con logiche
conseguenze, "coincide" con l'ambito in cui vige il Landrecht
prussiano. A prescindere dal diritto romano, oggi più o
meno familiare ad ogni giurista anche in Inghilterra, le sue
conoscenze giuridiche si limitano solamente e unicamente al
Landrecht prussiano, quel codice del dispotismo patriarcale
illuminato, che è scritto in un tedesco tale da far pensare
che Dühring sia andato a scuola lì e che le sue grosse
morali, con la sua imprecisione e con la sua incoerenza giuridica,
e con i suoi colpi di bastone come mezzo di tortura e di penna,
appartiene ancora, nel modo più completo, all'epoca
prerivoluzionaria. Tutto ciò che c'è in più
per Dühring viene dal maligno: tanto il moderno diritto
borghese francese, quanto il diritto inglese, con il suo sviluppo
particolarissimo e le sue guarentigie della libertà
personale sconosciute in tutto il continente. La filosofia che
"non ammette orizzonti meramente apparenti, ma che invece, col suo
moto possentemente rivoluzionario, avvolge tutte le terre e i
cieli della natura esterna ed interna", ha come suo orizzonte
reale i confini delle sei vecchie province orientali della Prussia
[56] e tutt'al più i pochi altri brandelli di terra dove
vige il nobile Landrecht; e al di là di questo orizzonte
non avvolge né cielo né terra, né natura
esterna né natura interna, ma solo il quadro della
più crassa ignoranza di quello che succede nel resto del
mondo.
Non si può parlare bene di morale e di diritto senza
affrontare la questione del cosiddetto libero arbitrio, della
responsabilità dell'uomo, del rapporto di libertà e
necessità. Anche la filosofia della realtà ha per
questa questione, non solo una, ma perfino due soluzioni.
"Al posto di tutte le false teorie sulla libertà bisogna
porre la natura del rapporto sperimentale nel quale la coscienza
razionale, da una parte, e le determinazioni istintive,
dall'altra, si unificano, per così dire, in una forza
intermedia. I fatti basilari di questa specie di dinamica devono
trarsi dall'osservazione, e per dare in anticipo anche la misura
di ciò che ancora non è accaduto, per quanto
è possibile, devono valutarsi, in generale, secondo la loro
specie e la loro grandezza. Perciò le sciocche fantasie
sulla libertà interiore di cui si sono cibare dei millenni,
non solo vengono radicalmente eliminate, ma vengono anche
sostituite da qualche cosa di positivo, che può essere
utilizzato per la organizzazione pratica della vita".
Conseguentemente la libertà consiste nel fatto che l'uomo
è trascinato a destra dalla conoscenza razionale, a
sinistra dagli istinti irrazionali, e in questo parallelogramma
delle forze il movimento reale avviene nella direzione della
diagonale. La libertà sarebbe quindi la media tra
conoscenza e istinto, intelletto e mancanza di intelletto, e io,
suo grado di ogni singolo individuo dovrebbe essere stabilito
sperimentalmente e, per usare un'espressione astronomica [57],
mediante una "equazione personale". Ma poche pagine dopo si dice:
"Noi fondiamo la responsabilità morale sulla
libertà, la quale tuttavia non significa altro per noi che
l'essere accessibili a motivi coscienti, nella misura
dell'intelletto che abbiamo per natura o acquisito. Tutti questi
siffatti motivi, malgrado si percepisca la possibilità del
contrario, agiscono nelle azioni con ineluttabile necessità
naturale; ma noi contiamo precisamente su questa costrizione
inevitabile, allorché facciamo intervenire le leve morali".
Questa seconda determinazione della società che fa
completamente a pugni con la prima non è altro, a sua
volta, che uno straordinario appiattimento della concezione
hegeliana. Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il
rapporto di libertà e necessità. Per lui la
libertà è il riconoscimento della necessità.
"Cieca è la necessità solo nella misura in cui non
viene compresa." [58] La libertà non consiste nel sognare
l'indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di
queste leggi e nella possibilità, legata a questa
conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine
determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della
natura esterna, quanto a quelle che regolano l'esistenza fisica e
spirituale dell'uomo stesso: due classi di leggi che possiamo
separare l'una dall'altra tutt'al più nell'idea, ma non
nella realtà. Libertà del volere non significa altro
perciò che la capacità di poter decidere con
cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il
giudizio dell'uomo per quel che concerne un determinato punto
controverso, tanto maggiore sarà la necessità con
cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio;
mentre l'incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che
tra molte possibilità di decidere, diverse e
contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario,
proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il
suo essere determinato da quell'oggetto che precisamente essa
doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di
noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle
necessità naturali: essa è perciò
necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. I primi uomini
che si separarono dal regno degli animali erano tanto privi di
libertà in tutto quello che è essenziale, quanto gli
stessi animali, ma ogni progresso verso la civiltà era un
passo verso la libertà. Alla soglia della storia
dell'umanità sta la scoperta della trasformazione del
movimento meccanico in calore, la produzione del fuoco per
sfregamento; la conclusione dello sviluppo che si è avuto
sinora sta la scoperta della trasformazione del calore in
movimento meccanico: la macchina a vapore. E malgrado la
gigantesca rivoluzione liberatrice, non ancora compiuta per
metà, che la macchina a vapore opera nel mondo sociale,
è tuttavia fuori dubbio che la produzione del fuoco per
sfregamento ha avuto sul mondo un'azione liberatrice superiore a
quella della macchina a vapore. Infatti la produzione del fuoco
per sfregamento diede all'uomo per la prima volta il dominio di
una forza naturale e con ciò lo separò
definitivamente dal regno degli animali. La macchina a vapore non
farà mai fare allo sviluppo dell'umanità un salto
così imponente, per quanto essa possa anche essere per noi
rappresentativa di tutte quelle poderose forze produttive che si
appoggiano ad essa e solo con l'aiuto delle quali si rende
possibile una situazione sociale in cui non ci siano più
differenze di classi, preoccupazioni per i mezzi di sussistenza
degli individui, e in cui per la prima volta possa parlarsi di
vera libertà umana, di un'esistenza in armonia con le leggi
naturali conosciute. Ma quanto sia ancora giovane la storia
dell'uomo e quanto sarebbe ridicolo il voler attribuire alle
nostre vedute odierne una qualche validità assoluta, appare
dal semplice fatto che tutta la storia passata si può
caratterizzare come storia dell'intervallo di tempo che passa
dalla scoperta pratica della trasformazione del movimento
meccanico in calore e quella del calore in movimento meccanico.
In Dühring la storia è trattata in verità in
altra maniera. In generale essa, come storia degli errori,
dell'ignoranza e della rozzezza, della violenza e
dell'asservimento, è un oggetto che disgusta la filosofia
della realtà; tuttavia in particolare essa si divide in due
grandi sezioni, ossia: 1) dalla situazione in cui la materia
è sempre eguale a se stessa, sino alla Rivoluzione francese
e 2) dalla Rivoluzione francese sino a Dühring; e così
il XIX secolo resta "ancora essenzialmente reazionario, anzi, per
quanto riguarda lo spirito, esso lo è (!) ancor di
più del secolo XVIII", ma, tuttavia, reca nel suo seno il
socialismo e di conseguenza "il germe di un rivolgimento
più possente di quello che fu sognato (!) dai precursori e
dagli eroi della Rivoluzione francese". Il disprezzo della
filosofia della realtà per la storia precedente si
giustifica nella seguente maniera:
"I pochi millenni per i quali i documenti originali rendono
possibile una reminiscenza storica, non possono significare gran
che, con lo sviluppo che essi hanno dato all'umanità sino
ai nostri giorni, se si pensa alla serie dei millenni futuri (...)
Il genere umano, preso come un tutto, è ancora molto
giovane, e se un giorno l'anamnesi storica scientifica
dovrà contare gli anni a decine di migliaia, anziché
a migliaia, l'infanzia spiritualmente immatura delle nostre
istituzioni avrà irrefutabile valore di premessa evidente
sulla nostra epoca, che sarà allora considerata come
antichità primeva".
Senza fermarci più a lungo sulla "forma linguistica"
veramente "originale" di quest'ultima proposizione, notiamo solo
due cose: in primo luogo che questa "antichità primeva" in
ogni caso resterà un periodo storico del più alto
interesse per tutte le generazioni future, poiché
costituisce il fondamento di ogni più alto sviluppo
ulteriore, perché ha come suo punto di partenza lo
svincolarsi dell'uomo dal regno degli animali e come suo contenuto
il superamento di difficoltà quali mai più si
opporranno agli uomini associati dell'avvenire. E in secondo luogo
che la fine di quest'antichità premeva, di fronte alla
quale i futuri periodi storici, che, non più inceppati da
queste difficoltà e da questi ostacoli, promettono ben
altri successi scientifici, tecnici e sociali, è in ogni
caso un momento scelto in un modo assai singolare per dare delle
prescrizioni ai millenni futuri, per mezzo di verità
definitive di ultima istanza, verità immutabili e
concezioni che vanno alle radici delle cose, scoperte sulla base
dell'infanzia spiritualmente immatura del nostro secolo tanto
"arretrato" e tanto "retrogrado". Bisogna essere proprio il
Richard Wagner della filosofia, seppure senza l'ingegno di Wagner,
per non accorgersi che tutte le parole di disprezzo lanciate sullo
sviluppo storico che si è avuto sinora restano parimente
appiccicate a quel che si pretende ultimo risultato dello sviluppo
storico: alla cosiddetta filosofia della realtà.
Uno dei brani più significativi della nuova scienza che va
alle radici delle cose è la sezione sulla
individualizzazione e la valorizzazione della vita. Qui zampilla e
fluisce qual getto sorgivo e incontenibile, per tre interi
capitoli, il luogo comune in tono oracolare. Disgraziatamente noi
dobbiamo limitarci a pochi e brevi saggi.
"L'essenza più profonda di ogni sensazione e di conseguenza
di tutte le forme soggettive della vita poggia sulla differenza di
stati (...) Ma per la vita nella sua pienezza (!) si può
provare anche senz'altro (!) che si incrementa il sentimento
vitale e si eccitano gli stimoli decisivi, non già
attraverso il permanere in una posizione, ma attraverso il passare
da una situazione all'altra della vita (...) Lo stato che resta
approssimativamente uguale a se stesso, per così dire in
una permanenza inerte e, diciamo, in una stessa posizione di
equilibrio stabile, qualunque ne sia la natura, non può
significare gran che per provare l'esistenza (...) L'abituarsi e,
per così dire, il vivere in questo stato, lo trasforma
completamente in qualche cosa di indifferente ed irrilevante che
non si distingue particolarmente dallo stato di morte. Tutt'al
più vi si aggiunge ancora un'altra specie di moto vitale
negativo, il supplizio della noia (...) In una vita stagnante si
spegne per i popoli ogni passione e ogni interesse per
l'esistenza. Ma con la nostra legge della differenza tutti questi
fenomeni divengono spiegabili."
È incredibile la celerità con cui Dühring
stabilisce i suoi risultati originali sin dalle fondamenta. Ecco
appena tradotto nel linguaggio della filosofia della realtà
il luogo comune che l'eccitazione continua di uno stesso nervo o
il perdurare dello stesso stimolo affatica ogni nervo ed ogni
sistema nervoso, che quindi nello stato di normalità devono
aver luogo interruzioni e cambiamenti degli stimoli nervosi: cosa
che da anni si può leggere in ogni manuale di fisiologia e
che ogni filisteo sa per esperienza. Questa vecchissima
banalità è stata appena tradotta nella formula
misteriosa che l'essenza più profonda di ogni sensazione
poggia sulla differenza di stati, ed ecco che si trasforma di
già nella "nostra legge della differenza". E questa legge
della differenza rende "completamente spiegabile" tutta una serie
di fenomeni, che a loro volta sono soltanto illustrazioni ed
esempi della piacevolezza della variazione, i quali anche per
l'intelletto del più comune dei filistei non abbisognano di
spiegazione alcuna, e che col richiamo a questa pretesa legge
della differenza non guadagnano in chiarezza neppure una briciola.
Ma con tutto ciò, la capacità di andare alle radici
propria della "nostra legge della differenza", è ancora
lontana dall'essere esaurita:
"La successione delle età della vita e l'apparire dei
cambiamenti di queste condizioni di vita che ad esse si
ricollegano offre un esempio molto calzante per rendere evidente
il nostro principio della differenza (...) Bambino, ragazzo,
adolescente e uomo maturo esperimentano il vigore del senso vitale
di ciascuno di questi periodi della loro vita, non tanto per mezzo
di quegli stati ormai fissati in cui di volta in volta si trovano,
quanto per mezzo delle epoche di passaggio dall'uno di questi
stati all'altro".
E non è ancora abbastanza:
"La nostra legge della differenza può avere un'applicazione
ancora più lontana se prendiamo in considerazione il fatto
che la ripetizione di ciò che è stato già
provato o compiuto non presenta nessuna attrattiva".
Ed ora il lettore stesso può immaginare le sciocchezze in
stile da oracolo alle quali danno appiglio proposizioni che hanno
una profondità e una capacità di andare alle radici
pari a quelle riportate sopra. E Dühring può bene
esclamare trionfante nella chiusa del suo libro: "La legge della
differenza è diventata, praticamente e teoricamente ad un
tempo, decisiva per la stima e l'incremento del valore della
vita!". E del pari per la stima che Dühring fa del valore
spirituale del suo pubblico: costui deve credere che questo
pubblico sia composto di puri somari o filistei.
Più oltre ci vengono somministrate queste norme di vita
straordinariamente pratiche:
"I mezzi per tener desto tutto quanto l'interesse per la vita" (un
bel compito per i filistei e per quelli che vogliono diventarlo!)
"consistono nel far sì che gli interessi singoli, e per
così dire elementari, di cui è composto l'interesse
nella sua totalità, si sviluppino o si succedano a vicenda
secondo gli intervalli di tempo naturali. Ma nello stesso tempo,
perché si produca il medesimo stato, bisogna utilizzare
anche la successione graduale, in cui gli stimoli più bassi
e più facili a soddisfarsi possano venir sostituiti da
eccitazioni più elevate e costantemente attive: e
ciò al fine che sia impedito il formarsi di vuoti
totalmente privi d'interesse. Ma del resto l'importante
sarà scongiurare che le tensioni che insorgono naturalmente
o in altra guisa nel corso normale dell'esistenza sociale siano
arbitrariamente accumulate, forzate, ovvero, ciò che
è l'assurdità contraria, vengano soddisfatte sin dal
loro più lieve moto, in modo da impedire che con il loro
sviluppo esse diventino un bisogno suscettibile di godimento.
L'osservanza del ritmo naturale è qui, come altrove, la
condizione preliminare del movimento regolare e attraente.
Né ci si dovrà porre il problema insolubile di
prolungare gli stimoli di una situazione qualsiasi al di là
dei limiti imposti loro dalla natura o dalle circostanze, ecc.".
quel galantuomo che vorrà prendere come norma della
"esperienza della vita" queste solenni sentenze oracolari da
filisteo, di una pedanteria che sottilizza sulle più
insulse banalità, non avrà certo da lamentarsi di
"vuoti totalmente privi di interesse". Egli avrà bisogno di
tutto il suo tempo per preparare e ordinare in perfetta regola i
suoi godimenti, cosicché per godere non gli resterà
libero neppure un istante.
Noi dobbiamo far esperienza della vita, di tutta la vita. Solo due
cose Dühring ci proibisce: in primo luogo "la porcheria
dell'uso del tabacco", e in secondo luogo i cibi che "hanno
proprietà disgustosamente eccitanti o in generale
ripugnanti per una sensibilità un po' raffinata". Ma
poiché Dühring nel suo Corso di economia celebra
così ditirambicamente la distillazione dell'acquavite, non
potrà comprendere tra queste bevande la grappa; siamo
perciò costretti a concludere che la sua proibizione si
estende semplicemente al vino e alla birra. Non avrà allora
che da abolire anche la carne ed avrà così portato
la filosofia della realtà allo stesso livello su cui si
muoveva con tanto successo il fu Gusttav Struve: al livello della
puerilità pura e semplice.
Del resto Dühring potrebbe essere un po' più liberale
per quel che concerne le bevande spiritose. Un uomo che, per sua
stessa confessione, ancora non può trovare il ponte di
passaggio dallo statico al dinamico, ha tutte le ragioni di essere
indulgente nel suo giudizio, se un povero diavolo qualche volta
alza un po' il gomito e di conseguenza anche lui cerca invano il
ponte di passaggio dal dinamico allo statico.
Note
*2. Quanto sopra, da quando io lo scrissi, sembra aver già
trovato conferma. Secondo le indagini più recenti condotte
da Mendeleiev e da Boguski con apparecchi più perfezionati
[41], tutti i gas perfetti mostrano un rapporto variabile tra
pressione e volume; nell'idrogeno il coefficiente di dilatazione
è stato positivo per tutte le pressioni sinora applicate
(la diminuzione del volume è stata più lenta
dell'incremento della pressione); nell'aria atmosferica e negli
altri gas sottoposti ad indagine si è trovato per ciascuno
un punto di pressione zero in cui, a pressione più debole,
si ha un coefficiente positivo, e a pressione più forte
negativo. La legge di Boyle, sinora sempre praticamente
utilizzabile, dovrà quindi essere integrata da tutta una
serie di speciali leggi. (Ora, nel 1885, noi sappiamo anche che
non ci sono gas "perfetti". I gas sono stati tutti ridotti allo
stato fluido.)
41. Qui Engels espone il contenuto di una notizia apparsa sulla
rivista "Nature" del 16 novembre 1876. Essa informava sul discorso
tenuto da D. I. Mendeleiev il 3 settembre 1876 al V Congresso
degli scienziati e medici russi, a Varsavia, in cui Mendeleiev
riferiva i risultati degli esperimenti da lui compiuti nel 1875 e
1876, insieme a J. J. Boguski, per verificare la legge
Boyle-Mariotte.
L'ultima frase della nota, chiusa tra parentesi, fu aggiunta da
Engels nella seconda edizione (1885) dell'"Anti-Dühring".
42. "Per il gatto" si dice in tedesco di una cosa perfettamente
inutile.
43. Il "Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza
tra gli uomini" di J-J Rousseau, scritto nel 1754 e pubblicato
l'anno successivo.
44. La guerra dei trent'anni (1618-1648) fu una guerra europea che
cominciò in Boemia con una rivolta contro la monarchia
asburgica e l'avanzare della reazione cattolica. Essa si
sviluppò in un conflitto tra il campo cattolico-feudale (il
papa, gli Asburgo di Spagna e d'Austria, i principi cattolici
tedeschi) e i paesi protestanti (Boemia, Danimarca, Olanda e vari
Stati tedeschi riformati) appoggiati dai re francesi, rivali degli
Asburgo. La Germania fu uno dei teatri principali della guerra,
oggetto di saccheggi e rivendicazioni da parte dei partecipanti.
La pace di Westfalia, del 1648, sancì lo smembramento
politico della Germania.
45. Max Stirner (1806-1856), individualista anarchico, nel suo
libro "L'Unico e la sua proprietà" assumeva atteggiamenti
presuntuosi simili a quelli che Engels rimprovera a Dühring.
La critica di Marx ed Engels a Stirner occupa la maggior parte
dell'"ideologia tedesca" (1845-1846).
46. Pacifici nel paese (Die Stillen im Lande) erano detti i
pietisti, in particolare una setta che si diffuse in Germania nel
XVIII secolo.
47. Si tratta di episodi della conquista dell'Asia centrale da
parte della Russia. Durante la campagna di Chiava (1873) un
reparto di truppe russe comandate dal generale Golovatsciov, che
dipendeva dall'aiutante generale K. P. Kauffmann, nei mesi di
luglio e agosto condusse una crudelissima spedizione punitiva
contro la tribù turkmena dei Jomudi. La fonte principale da
cui Engels ricavò le notizie su questi fatti era
evidentemente l'opera in due volumi del diplomatico americano
Eugene Schuyler "Turkistan. Notes of a journey in Russian
Turkistan, Kokhand, Bukhara andKuldja", Londra, 1876, pp. 356-359.
48. Cfr. K. Marx, "Il Capitale", libro I, Roma, Editori Riuniti,
1974, p. 92.
*3. Questa deduzione delle moderne idee di eguaglianza dalle
condizioni economiche della società borghese è stata
esposta per la prima volta da Marx nel "Capitale".
49. Cfr. K. Marx, "Il Capitale", libro I, Roma, Editori Riuniti,
1974, p. 92. Nell'"Anti-Dühring" Engels cita il primo, libro
del "Capitale" dalla seconda edizione (1872); cita invece dalla
terza edizione (1882) solo nel testo rielaborato nel capitolo X
della seconda sezione.
50. Diritto del Land: gli Stati tedeschi avevano il nome di
Länder, che poi rimase anche dopo la riunificazione della
Germania. Il Landrecht prussiano, risalente al 1794, riuniva il
diritto civile, commerciale, di scambio, marittimo, di
assicurazione, penale, ecclesiastico, pubblico e amministrativo;
esso fissò nella legislazione il carattere retrivo della
Prussia feudale e pareri essenziali di esso restarono in vigore
fino all'introduzione del codice civile del 1900.
51. Il Code pénal francese del 1810 fu introdotto da
Napoleone nelle regioni conquistate della Germania occidentale e
sud-occidentale; nella provincia renana esso restò in
vigore, insieme al code civil, anche dopo la sua annessione alla
Prussia (1815). Il governo prussiano cercava d'introdurre di nuovo
in questa provincia il Landrecht prussiano. Tutta una serie di
leggi, decreti e prescrizioni doveva restaurare nella provincia
renana i privilegi feudali della nobiltà (i maggioraschi) e
il diritto penale, matrimoniale ecc. prussiani. Questi
provvedimenti, che suscitarono una decisa opposizione nella
provincia renana, furono aboliti dopo la rivoluzione di marzo con
le ordinanze del 15 aprile 1848.
52. Il Code Napoléon era il codice civile francese del
1807, nuovamente formulato sulla base del "Code civil des
Français" proclamato nel 1804. Qui Engel parla del Code
Napoléon in senso largo, intendendo tutti i cinque codici
pubblicati sotto Napoleone dal 1804 al 1810: Code civil (1804),
Code de procédure civil (1806), Code de commerci (1807),
Code d'instruction criminelle (1808) e Code pénal (1810).
53. È l'obiezione mossa da Spinoza nell'"Etica" (parte I,
"Su Dio", appendice) contro chi spiega finalisticamente tutti i
fenomeni adducendo come causa la volontà divina e
appellandosi all'ignoranza di altre cause.
54. Il "Corpus juris civilis" è l'insieme dei testi
giuridici raccolti e pubblicati sotto l'imperatore Giustiniano nel
VI secolo.
55. Il registro civile fu introdotto in Prussia, per iniziativa di
Bismarck, con la legge del 9 marzo 1874. Una legge analoga per
tutto l'impero tedesco fu emanata il 6 febbraio 1875. Essa
toglieva alla Chiesa il diritto di compiere le registrazioni di
stato civile e limitava così la sua influenza e le sue
entrate. Questa legge era soprattutto diretta contro la Chiesa
cattolica e costituì un atto essenziale del cosiddetto
Kulturkampf, la "lotta per la civiltà" condotta dal 1871 da
Bismarck contro l'influenza politica e culturale della Chiesa
cattolica.
56. Erano le province di Brandeburgo, Prussia orientale, Prussia
occidentale, Posnania, Pomerania e Slesia, che appartenevano al
regno di Prussia già prima del congresso di Vienna del
1815. La provincia renana, più progredita sotto l'aspetto
economico, politico e culturale, fu unita alla Prussia nel 1815.
57. In astronomia il termine "equazione" indica anche la
correzione che bisogna apportare alle osservazioni fatte: per
stabilire la posizione di un corpo celeste, per esempio, si deve
tener conto del tempo impiegato dalla luce per giungere da esso
all'osservatore. Ma ci sono fattori d'errore puramente soggettivi:
osservatori diversi non concordano nel determinare il momento del
passaggio di un corpo celeste sul meridiano. Così, in
generale (specie in psicologia sperimentale), si chiama "equazione
personale" la diversità di comportamento, dovuta a ragioni
psico-fisiologiche, che porta individui diversi ad apprezzare
diversamente uno stesso fenomeno.
58. Vedi Hegel, "Encyklopädie der philosophischen.
Wissenschaften...", par.147, aggiunta. Il corsivo è di
Engels.
"Il primo e il più importante principio sulle
proprietà logiche fondamentali dell'essere verte
sull'esclusione della contraddizione. La contraddizione è
una categoria che può appartenere solo alla combinazione
delle idee e non alla realtà. Nelle cose non ci sono
contraddizioni o, in altri termini, la contraddizione, posta come
reale, è essa stessa il colmo del controsenso (...)
L'antagonismo di forze che, in opposte direzioni, si misurano a
vicenda, è proprio la forma fondamentale di tutte le azioni
nell'esistenza del mondo e dei suoi esseri. Ma questo contrasto
delle direzioni delle forze degli elementi e degli individui non
coincide minimamente con l'idea di assurdità
contraddittorie (...) Qui noi possiamo esser paghi di aver
dissipato, mediante una chiara rappresentazione della verace
assurdità della contraddizione reale, le nebbie che sorgono
abitualmente dai pretesi misteri della logica, e di aver messo in
evidenza l'inutilità dell'incenso che qua e là si
è prodigato al fantoccio di legno della dialettica della
contraddizione, goffamente scolpito e sostituito alla
schematizzazione antagonistica del mondo."
È questo pressappoco tutto ciò che si dice della
dialettica nel "corso di filosofia". Nella "Storia critica", per
contro, la dialettica della contraddizione, e con essa
specialmente Hegel, viene trattata in un modo completamente
diverso.
"La contraddizione, in effetti, secondo la logica hegeliana, o
piuttosto la dottrina del logos, può cogliersi
obiettivamente e, per così dire, toccare con mano, non
già nel pensiero che, per sua natura, si deve rappresentare
non altrimenti che come soggettivo e consapevole, ma nelle cose e
nei fenomeni stessi, cosicché il controsenso non resta una
combinazione impossibile del pensiero, ma diventa una potenza
effettiva. La realtà dell'assurdo è il primo
articolo di fede dell'unità hegeliana di logico e alogico
(...) Quanto più contraddittorio, tanto più vero o,
con altre parole, quanto più assurdo, tanto più
credibile: questa massima, che non è affatto una nuova
invenzione, ma che è tratta dalla teologia della
rivelazione e delle mistica, è la cruda espressione del
cosiddetto principio dialettico."
Il pensiero contenuto nei due luoghi citati si compendia nella
proposizione la quale dice che contraddizione = controsenso e
perciò non può esserci nel mondo reale. Questa
proposizione, per gente che altrimenti è di sufficiente
buon senso, può avere lo stesso valore di evidenza della
stessa proposizione la quale dice che diritto non può
essere curvo e curvo non può essere dritto. Ma il calcolo
differenziale, malgrado tutte le proteste del buon senso, pone
tuttavia, sotto certe condizioni, l'identità di diritto e
curvo e ottiene così dei risultati che il buon senso, il
quale si ostina a dire assurda l'identità di diritto e
curvo, non potrà mai raggiungere. E, data la parte
importante che la cosiddetta dialettica della contraddizione ha
rappresentato nella filosofia dagli antichissimi greci fino ad
oggi, persino un avversario più forte di Dühring si
sarebbe sentito in dovere di confutarla con ben altri argomenti
che un'unica asserzione e molte ingiurie.
Sino a quando consideriamo le cose in stato di riposo e prive di
vita, ciascuna per sé, l'una accanto all'altra, l'una dopo
l'altra, è certo che in esse non incontreremo nessuna
contraddizione. Vi troviamo certe proprietà che in parte
sono comuni, in parte sono diverse, anzi persino in contraddizione
l'una con l'altra, ma in questo caso esse sono ripartite in cose
diverse e quindi non recano in sé nessuna contraddizione.
Nella misura in cui questo campo di indagine è sufficiente,
ce la caviamo con l'abituale modo di pensare metafisico. Ma
è invece tutt'altra cosa allorché consideriamo le
cose nel loro movimento, nel loro cambiamento, nella loro vita,
nella loro azione reciproca. Qui cadiamo subito in contraddizioni.
Lo stesso movimento è una contraddizione; già
perfino il semplice movimento meccanico locale si può
compiere solamente perché un corpo in un solo e medesimo
istante è in un luogo e nello stesso tempo in un altro
luogo, è in un solo e medesimo luogo e non è in
esso. E il continuo porre e nello stesso tempo risolvere questa
contraddizione è precisamente il movimento.
Qui abbiamo dunque una contraddizione che "può cogliersi
obiettivamente e, per così dire, toccare con mano, nelle
cose e nei fenomeni stessi". E che cosa ne dice Dühring?
Afferma che sino ad oggi non c'è "nella meccanica razionale
nessun ponte di passaggio tra ciò che è
rigorosamente statico e ciò che è dinamico". Ora
finalmente il lettore si accorgerà di quello che si
nasconde dietro a questa frase prediletta di Dühring;
nient'altro che questo: l'intelletto che pensa metafisicamente non
può assolutamente passare dall'idea della quiete a quella
del movimento, perché qui la contraddizione che abbiamo
vista sopra gli sbarra il cammino. Per lui il movimento,
poiché è una contraddizione, è puramente
inconcepibile. E poiché afferma l'inconcepibilità
del movimento, ammette egli stesso, suo malgrado, l'esistenza di
questa contraddizione, e quindi ammette che c'è
obiettivamente nelle cose e nei fenomeni stessi una contraddizione
la quale, per giunta, è una potenza effettiva.
Se già il semplice movimento meccanico locale contiene in
sé una contraddizione, ancor più la contengono
leforme più elevate di movimento della materia e, in modo
assolutamente particolare, la vita organica e il suo sviluppo.
Abbiamo visto sopra che la vita consiste anzitutto precisamente
nel fatto che un essere, in ogni istante, è se stesso ed
è anche un altro. Quindi la vita è del pari una
contraddizione presente nelle cose e nei fenomeni stessi,
contraddizione che continuamente si pone e continuamente si
risolve; e non appena la contraddizione cessa, cessa anche la vita
e sopraggiunge la morte. Abbiamo visto parimente che anche nel
campo del pensiero non possiamo sfuggire alle contraddizioni, e
che per es. la contraddizione tra il potere conoscitivo umano
intimamente illimitato e la sua sussistenza reale in uomini
esteriormente limitati e limitatamente conoscenti, si risolve nel
susseguirsi, per noi praticamente privo di un termine, delle
generazioni: nel progresso all'infinito.
Abbiamo già notato che una delle basi fondamentali della
matematica superiore è la contraddizione che in certe
circostanze la retta e la curva si identificano. La matematica
superiore arriva anche a questa contraddizione: che linee che ai
nostri occhi si intersecano, tuttavia, a distanza di cinque o sei
centimetri dal loro punto di intersezione, devono presentarsi come
parallele, come tali, cioè, che anche prolungate
all'infinito non possono intersecarsi. E tuttavia la matematica
superiore mette capo, con queste contraddizioni e con altre ancora
maggiori, a risultati non soltanto esatti, ma assolutamente
irraggiungibili dalla matematica inferiore.
Ma anche questi ultimi brulicano già in contraddizioni. Per
es. è una contraddizione il fatto che una radice di A debba
essere una potenza di A, eppure A1/2 = radice quadrata di A.
È una contraddizione che una grandezza negativa debba
essere il quadrato di qualche cosa: infatti ogni grandezza
negativa moltiplicata per se stessa, dà un quadrato
positivo. La radice quadrata di meno uno, quindi, non solo
è una contraddizione, ma perfino una contraddizione
assurda, un vero controsenso. E tuttavia è un
risultato in molti casi necessario di operazioni matematiche
esatte; anzi c'è di più: dove sarebbe la matematica,
sia elementare che superiore, se le fosse interdetto di operare
con ?
La stessa matematica con la trattazione delle grandezze variabili
entra nel campo dialettico; ed è significativo il fatto che
sia stato un filosofo dialettico, Descartes, a introdurre nella
matematica un tale progresso. La matematica delle grandezze
variabili sta alla matematica delle grandezze invariabili come in
generale il pensiero dialettico sta al pensiero metafisico. La
qual cosa non impedisce affatto che il maggior numero di
matematici riconosca la dialettica solo nel campo della matematica
e che tra loro ce ne sia un discreto numero che, servendosi dei
metodi acquisiti per via dialettica, continui ad operare
completamente secondo la vecchia e limitata maniera metafisica.
Sarebbe possibile occuparci più da vicino dell'antagonismo
di forze di Dühring e della sua schematizzazione
antagonistica del mondo, solo nel caso che egli ci avesse dato su
questo tema qualche cosa di più che... la semplice frase.
Raggiunto tale risultato, questo antagonismo non ci viene
presentato mai in azione né nella schematizzazione del
mondo né nella filosofia della natura; ed è questa
la migliore confessione che Dühring, con queste "forme
fondamentali di tutte le azioni nell'esistenza del mondo e dei
suoi esseri" non sa assolutamente combinare niente di positivo.
Infatti, se si è abbassata la "dottrina dell'essenza" di
Hegel fino a ridurla alla banalità di forze che si muovono
in opposte direzioni ma non in contraddizione, certo il meglio che
si possa fare è di evitare ogni applicazione di questo
luogo comune.
A Dühring l'altro appiglio per dar libero corso alla sua ira
antidialettica, lo fornisce il "Capitale" di Marx.
"Deficienza di logica naturale e di logica data dall'uso
dell'intelletto, deficienza che contraddistingue questi intrecci
dialettici aggrovigliati e questi arabeschi di idee (...)
già alla parte ormai pubblicata si può applicare il
principio che dice che da un certo punto di vista e anche in
generale (!), secondo un noto pregiudizio filosofico, si deve
ricercare il tutto in ogni singola cosa e ogni singola cosa nel
tutto, e che secondo questa idea confusa e mal concepita, alla
fine tutto è uno."
Questa sua conoscenza del noto pregiudizio filosofico permette
tuttavia a Dühring di predire con sicurezza quale sarà
la "fine" di questo filosofare di Marx sull'economia, e quindi
quale sarà il contenuto dei volumi seguenti del "Capitale",
e ciò appena sette righe dopo aver dichiarato che "tutt'ora
non si può realmente prevedere che cosa, parlando in
termini schietti e chiari, propriamente debba ancora seguire nei
due" (ultimi) "volumi" [59].
Non è questa comunque la prima volta che gli scritti di
Dühring ci appaiono appartenenti a quelle "cose" nelle quali
"la contraddizione si può cogliere obiettivamente e, per
così dire, toccare con mano". Ciò che non gli
impedisce di andare avanti vittoriosamente:
"Pure, la sana logica presumibilmente trionferà della sua
caricatura (...) Queste grandi arie e questa misteriosa robaccia
dialettica non darà a nessuno, che abbia ancora un po' di
giudizio, la tentazione di occuparsi di (...) queste
deformità di pensiero e di stile, con la morte degli ultimi
avanzi di queste follie dialettiche, questo mezzo per turlupinare
(...) perderà la sua influenza ingannatrice e nessuno
crederà più di doversi tormentare per inseguire una
saggezza nella quale il nocciolo di queste cose arruffate, una
volta messo a nudo, mostra, nel migliore dei casi, i tratti di
teorie ovvie, se non di luoghi comuni (...) È assolutamente
impossibile riprodurre gli aggrovigliamenti" (marxiani)
"conformatisi alla dottrina del logos, senza prostituire la sana
logica".
Il metodo di Marx consisterebbe nell'"imbastire miracoli
dialettici per i suoi fedeli", e così via.
Qui non ci dobbiamo ancora affatto occupare dell'esattezza o meno
dei risultati economici dell'indagine marxiana, ma solo del metodo
dialettico applicato da Marx. Ma una cosa è certa: che il
maggior numero dei lettori del "Capitale" solo ora avranno
appreso, grazie a Dühring, che cosa propriamente hanno letto.
E tra essi anche lo stesso Dühring, che nell'anno 1867
("Ergänzungsblätter", III, fasc. 3) era ancora in
condizione di fare un'analisi riassuntiva del libro relativamente
ragionevole per un pensatore del suo calibro, senza essere
obbligato a cominciare col tradurre, cosa che oggi egli dichiara
indispensabile, gli sviluppi marxiani in linguaggio
dühringiano. Se già allora commetteva lo sproposito di
identificare la dialettica marxiana con la dialettica hegeliana,
pure non aveva ancora perduta completamente la capacità di
distinguere tra il metodo e i risultati ottenuti per mezzo di esso
e di comprendere che questi ultimi non vengono confutati in
particolare demolendo in generale il primo.
La comunicazione più stupefacente che fa Dühring in
ogni caso è questa: che dal punto di vista di Marx "in
definitiva tutto è uno", che quindi per Marx, per es.,
capitalisti e salariati, modo di produzione feudale, capitalistico
e socialista "sono tutt'uno", anzi, infine, anche Marx e
Dühring sono senza dubbio "tutt'uno". Per spiegare come sia
possibile questa pazzia pura e semplice non resta che ammettere
che la semplice parola dialettica metta Dühring in uno stato
di irresponsabilità in cui tutto ciò che egli dice e
fa, in seguito ad una certa idea confusa e mal concepita, è
per lui "tutt'uno".
Abbiamo qui un campione di ciò che Dühring chiama la
"mia maniera di delineare la storia in grande stile" ovvero anche
"quel procedimento sommario che tiene conto del genere e del tipo,
ma che non si degna affatto di onorare, rivelandone gli errori
fino ai dettagli micrologici, quella che Hume chiamò la
plebe dei dotti; questo procedimento di stile più elevato e
più nobile è compatibile unicamente con gli
interessi della piena verità e con i doveri che si hanno
verso un pubblico libero da vincoli di corporazione".
Questo modo di delineare la storia in grande stile e questo
sommario tener conto del genere e del tipo è, in
realtà, molto comodo a Dühring, che può
così trascurare tutti i fatti determinati considerandoli
come micrologici, farli eguali a zero, e invece di dimostrare non
ha che da costruire frasi generali, fare delle asserzioni e
semplicemente lanciare le sue condanne. Ma questo metodo ha anche
il vantaggio di non fornire all'avversario nessun appiglio, di non
lasciargli dunque quasi nessun'altra possibilità di
rispondere che non sia il formulare anche da parte sua frasi in
grande stile e sommarie, il diffondersi in espressioni generiche
ed infine il lanciare a sua volta la sua condanna su Dühring,
in breve, come si dice, giocare a botta e risposta, cosa che non
incontra i gusti di tutti. Dobbiamo perciò essere grati a
Dühring, se eccezionalmente abbandona lo stile più
elevato e più nobile per darci almeno due esempi della
riprovevole dottrina marxiana del logos.
"Come è comico per es. il riferirsi alla confusa e nebulosa
idea hegeliana che la quantità si muti nella qualità
e che perciò un'anticipazione di denaro, allorché
raggiunge un certo limite, semplicemente per mezzo di questo
incremento quantitativo diventa capitale."
Certo, presentato in questa forma "purgata" da Dühring, tutto
ciò è abbastanza curioso. Vediamo dunque come si
presenta nell'originale, in Marx. A pag. 313 (della seconda
edizione del "Capitale") Marx, dalle indagini precedenti sul
capitale costante e variabile sul plusvalore, trae la conclusione
che
"non qualsiasi somma di denaro o di valore è trasformabile
in capitale, che anzi una tale trasformazione presuppone un minimo
determinato di denaro o valore di scambio, in mano al singolo
possessore di denaro o di merci" [60].
Marx quindi prende come esempio il fatto che, in qualsiasi ramo di
lavoro, l'operaio lavora giornalmente otto ore per se stesso,
cioè per la produzione del valore del suo salario e le
quattro ore seguenti per il capitalista, per la produzione di un
plusvalore che affluisce in primo luogo nella tasca di costui. Poi
è necessario che uno disponga già di una somma di
valore che gli permetta di rifornire di materia prima, di
strumenti di lavoro e di salario due operai, per intascare
quotidianamente quel tanto di plusvalore da poterci vivere tanto
bene quanto uno dei suoi operai. E poiché la produzione
capitalistica ha come suo fine non il semplice mantenimento, ma
l'accrescimento della ricchezza, il nostro uomo con i suoi due
operai non sarebbe ancora per nulla un capitalista. Ora, per
vivere due volte meglio di un operaio e per ritrasformare in
capitale la metà del plusvalore prodotto, dovrebbe poter
impiegare otto operai, e quindi possedere già il quadruplo
della somma di valore che abbiamo supposto sopra. E solo dopo
questo e nel corso di dimostrazioni ulteriori per dimostrare e
giustificare il fatto che non ogni e qualsiasi piccola somma di
valore è sufficiente per trasformarsi in capitale, ma che
per questo ogni periodo di sviluppo ed ogni ramo di industria
hanno il proprio limite minimo determinato, solo allora Marx nota:
"Qui, come nelle scienze naturali, si rivela la validità
della legge scoperta da Hegel nella sua "Logica", che mutamenti
puramente quantitativi si risolvono a un certo punto in differenze
qualitative" [61].
Ed ora si ammiri il più elevato e nobile stile, in
virtù del quale Dühring attribuisce a Marx il
contrario di ciò che in realtà egli ha detto. Marx
dice: il fatto che una somma di valore possa trasformarsi in
capitale solo allorquando abbia raggiunto una grandezza minima,
diversa a seconda delle circostanze, ma in ogni singolo caso
determinata, questo fatto è una prova dell'esattezza della
legge hegeliana. Dühring gli fa dire: Poiché secondo
la legge hegeliana la quantità si trasforma in
qualità, "perciò un'anticipazione, allorché
raggiunge un limite determinato", diventa "...capitale". Dunque
tutto il contrario.
Il costume di falsare le citazioni nell'"interesse della piena
verità" e per i "doveri che si hanno verso un pubblico
libero da vincoli di corporazione", è cosa che abbiamo
già imparato a conoscere nel processo fatto da Dühring
a Darwin. Esso si rivela sempre più come una
necessità intima della filosofia della realtà, ed
è certamente un "procedimento" molto "sommario". Per tacere
completamente il fatto che Dühring, per di più,
attribuisce a Marx di aver parlato di ogni e possibile
"anticipazione", mentre qui si tratta solo di un'anticipazione che
vien fatta in materie prime, mezzi di lavoro e salario; e che
così riesce a far dire a Marx una pura e semplice
assurdità. E poi ha la faccia tosta di trovar comica
l'assurdità che egli stesso ha ammannito. Come si era
costruito un Darwin fantastico per dar saggio della sua forza
contro di lui, così si costruisce un Marx fantastico.
Davvero una "maniera di concepire la storia in grande stile"!
Abbiamo già visto sopra, a proposito della schematizzazione
del mondo, che riguardo a questa linea nodale dei rapporti di
misura di Hegel, per cui in certi punti del cambiamento
quantitativo interviene improvvisamente un mutamento qualitativo
repentino, Dühring ha subito il piccolo infortunio di averla
riconosciuta ed applicata, egli stesso, in un momento di
debolezza. In quel capitolo abbiamo dato degli esempi più
noti: quello della trasformazione degli stati di aggregazione
dell'acqua, che, a pressione normale, a 0° centigradi passa
dallo stato liquido a quello solido, e a 100° centigradi dallo
stato liquido al gassoso, fenomeno nel quale, in quei due punti
critici, il semplice cambiamento quantitativo della temperatura
causa una modificazione qualitativa dello stato dell'acqua.
Per la dimostrazione di questa legge avremmo potuto citare come
esempio centinaia di fatti simili tratti sia dalla natura che
dalla società. Così per es. nel "Capitale" di Marx,
tutta la quarta sezione, Produzione del plusvalore relativo, nel
campo della Cooperazione, Divisione del lavoro e manifattura,
Macchine e grande industria, tratta di innumerevoli casi in cui un
mutamento quantitativo cambia le qualità e, del pari, un
cambiamento qualitativo cambia la quantità delle cose di
cui si tratta: casi nei quali, per usare l'espressione tanto
odiata da Dühring, la quantità si converte in
qualità e viceversa. Così per es. il fatto che la
cooperazione di molti uomini, la fusione di molte forze in una
forza complessiva, produce, per dirla con Marx, "un nuovo
potenziale di forza" essenzialmente diverso dalla somma delle
singole forze che lo costituiscono [62].
Per di più Marx, nel passo il cui significato è
stato completamente capovolto da Dühring nell'interesse della
piena verità, aveva fatto questa annotazione: "La teoria
molecolare applicata alla chimica moderna, sviluppata
scientificamente per la prima volta da Laurent e Gerhardt, non si
basa su altra legge". Ma che cosa importava tutto questo a
Dühring? Egli sapeva bene che:
"Gli elementi culturali eminentemente moderni del modo di pensare
scientifico sono proprio assenti laddove, come in Marx e nel suo
rivale, il Lassalle, la mezza scienza e un po' di filosofia da
strapazzo costituiscono il misero armamentario di una erudita
prosopopea",
mentre per Dühring le basi sono date "dai principi
fondamentali della scienza esatta dominanti nella meccanica, nella
fisica e nella chimica" ecc.: e abbiamo visto come. Ma
perché anche terze persone siano messe in condizione di
giudicare, dobbiamo considerare un po' più da vicino
l'esempio citato nella nota di Marx.
Qui si tratta cioè delle serie omologhe dei composti del
carbonio, molte delle quali sono già conosciute e ciascuna
ha la sua propria formula algebrica di composizione. Se per es.,
come si fa in chimica, esprimiamo un atomo di carbonio con C, un
atomo di idrogeno con H, un atomo di ossigeno con O, il numero di
atomi di carbonio contenuto in ciascuna combinazione con n,
possiamo rappresentare nel modo seguente la formula molecolare di
qualcuna di queste serie:
CnH2n+2 = serie delle
paraffine normali.
CnH2n+2O = serie degli alcool
primari.
CnH2nO2 = serie
degli acidi grassi monobasici.
Prendiamo come esempio l'ultima di queste serie, e facciamo
successivamente n = 1, n = 2, n = 3 ecc., otterremo i seguenti
risultati (omettendo gli isomeri):
CH2O2
= Acido
formico
- Punto di
ebollizione 110°
Punto di fusione 1°
C2H4O2 =
Acido acetico
-
" 118°
" 17°
C3H6O2 =
Acido propionico -
" 140°
" -
C4H8O2 =
Acido butirrico
-
" 162°
" -
C5H10O2 = Acido
valerianico -
" 175°
" -
e così via sino a C30H60O2, acido melissico, che fonde solo
a 80° centigradi, e che non ha un punto di ebollizione,
perché esso non si volatilizza senza scomporsi.
Qui vediamo dunque tutta una serie di corpi qualitativamente
diversi, formati mediante semplice aggiunta quantitativa di
elementi, e sempre nella stessa proporzione. Questo fatto appare
nella sua forma più pura quando tutti gli elementi della
combinazione cambiano la loro quantità nel medesimo
rapporto, così nelle paraffine normali CnH2n+2, il
più basso è il metano, CH4, un gas; il più
alto che si conosca, l'esadecano, C16H34, è un copro solido
che forma dei cristalli incolori, fonde a 21° gradi e bolle
solo a 278°. In entrambe le serie ogni nuovo membro si forma
mediante l'addizione di CH2, di un atomo di carbonio e di due
atomi di idrogeno, alla forma molecolare del membro precedente, e
questo cambiamento quantitativo della formula molecolare produce
ogni volta un corpo qualitativamente diverso.
Ma quelle serie sono solo un esempio particolarmente tangibile:
quasi dappertutto nella chimica e già nei diversi ossidi
dell'azoto, nei diversi acidi ossigenati del fosforo e dello zolfo
si può vedere come "la quantità si converta in
qualità" e come questa pretesa idea confusa e nebulosa di
Hegel si possa, per così dire, toccar con mano nelle cose e
nei fenomeni, senza che tuttavia nessuno resti confuso e
annebbiato tranne Dühring. E se Marx è stato il primo
ad attirare l'attenzione su questo fatto e se Dühring legge
questa indicazione senza neanche capirla (perché altrimenti
non avrebbe certamente lasciato passare questo delitto inaudito),
ciò è sufficiente per chiarire, anche senza aver
dato uno sguardo retrospettivo alla famosa filosofia della natura
di Dühring, a chi manchino "gli elementi culturali
eminentemente moderni del modo di pensare scientifico", se a Marx
o a Dühring, e a chi manchi la conoscenza dei "principi
fondamentali... della chimica".
Per concludere, vogliamo invocare un altro testimonio a favore
della conversione della quantità in qualità:
Napoleone. Ecco come descrive il combattimento tra la cavalleria
francese che andava male a cavallo ma era ben disciplinata, e i
mamelucchi che nel combattimento individuale erano
incondizionatamente i migliori cavalieri del loro tempo, ma erano
indisciplinati:
"Due mamelucchi erano incondizionatamente superiori a tre
francesi; 100 mamelucchi erano pari a 100 francesi; 300 francesi
erano di solito superiori a 300 mamelucchi, 1.000 francesi
mettevano costantemente in rotta 1.500 mamelucchi" [63].
Proprio come per Marx era necessaria una grandezza minima
determinata, anche se variabile, della somma del valore di scambio
per rendere possibile la sua trasformazione in capitale,
così per Napoleone era necessaria una grandezza minima
determinata di distaccamento di cavalleria per permettere alla
forza della disciplina, insita nella formazione in ordine chiuso e
nell'impiego razionale, di diventare apprezzabile e di accrescersi
sino a raggiungere la superiorità anche su una massa
maggiore di cavalleria irregolare, composta da uomini che
montavano meglio, più agili nel cavalcare e nel combattere
e almeno altrettanto valorosi. Ma che cosa conta tutto questo per
Dühring? Napoleone non soggiacque miseramente nella sua lotta
con l'Europa? Non subì sconfitte su sconfitte? E
perché? Unicamente perché introdusse le idee confuse
e nebulose di Hegel nella tattica della cavalleria!
"Questo schizzo storico" (della genesi della cosiddetta
accumulazione primitiva del capitale in Inghilterra) "è
tutt'ora relativamente la cosa migliore del libro di Marx e
sarebbe ancora migliore se non si fosse puntellato per andare
avanti, oltre che sulle grucce della dottrina, su quelle della
dialettica. Cioè, in mancanza di qualche mezzo migliore e
più chiaro, qui la hegeliana negazione della negazione deve
far da levatrice ed estrarre l'avvenire dal grembo del passato. La
soppressione della proprietà individuale, compiutasi nella
maniera già detta sin dal XVI secolo, è la prima
negazione. Essa sarà seguita da una seconda, caratterizzata
come negazione della negazione e perciò come ristabilimento
della "proprietà individuale", ma in forma più
elevata, basata sul possesso comune del suolo e degli strumenti di
lavoro. Se questa nuova "proprietà individuale" è
stata ad un tempo chiamata da Marx anche "proprietà
sociale", qui si palesa la superiore unità di Hegel, nel
quale la contraddizione deve essere superata, ossia secondo un
gioco di parole, deve essere insieme sorpassata e conservata (...)
Conseguentemente l'espropriazione degli espropriatori è per
così dire il prodotto automatico della realtà
storica nelle sue relazioni materiali esterne (...) Difficilmente
un uomo giudizioso si lascerebbe convincere della necessità
della proprietà comune del suolo e del capitale sul credito
dato alle fandonie di Hegel, una delle quali è la negazione
della negazione (...) L'ibrida formula nebulosa delle idee di Marx
non sorprenderà, del resto, chi sappia che cosa si
può combinare o piuttosto che stravaganze debbono venir
fuori prendendo come base scientifica la dialettica di Hegel. Per
chi sia ignaro di questi artifici bisogna notare espressamente che
la prima negazione hegeliana è il concetto catechistico di
peccato originale, e la seconda è quella di una superiore
unità che porta alla redenzione. Ora, non è
effettivamente possibile fondare la logica dei fatti su questo
giochetto analogico preso a prestito dal campo della religione
(...) Marx resta tranquillamente nel mondo nebuloso della sua
proprietà ad un tempo individuale e sociale e lascia ai
suoi adepti di risolvere questo profondo enigma dialettico."
Quindi Marx non può dimostrare la necessità della
rivoluzione sociale, l'instaurazione della società fondata
sulla proprietà comune della terra e dei mezzi di
produzione creati dal lavoro, altrimenti che invocando la
hegeliana negazione della negazione, e, basando la sua teoria
socialista su questo giochetto analogico preso a prestito dalla
religione, arriva al risultato che nella società
dell'avvenire dominerà una proprietà ad un tempo
individuale e sociale, intesa come unità superiore
hegeliana data dal superamento della contraddizione.
Lasciamo da parte per intanto la negazione della negazione e
guardiamo alla "proprietà ad un tempo individuale e
sociale". Essa viene caratterizzata da Dühring come un "mondo
nebuloso" e, cosa meravigliosa, in ciò egli ha veramente
ragione. Ma disgraziatamente chi si trova in questo mondo nebuloso
non è Marx, ma invece ancora una volta proprio
Dühring. Invero, come già sopra, grazie alla sua
destrezza nel metodo hegeliano del "delirare", poteva stabilire
senza fatica che cosa dovessero contenere i volumi ancora
incompiuti del "Capitale", così anche qui senza fatica
può rettificare hegelianamente Marx, attribuendogli quella
unità superiore della unità di cui Marx non ha detto
neppure una parola.
In Marx leggiamo:
"È la negazione della negazione. Questa ristabilisce la
proprietà individuale, ma fondata sulla conquista dell'era
capitalistica, sulla cooperazione di lavoratori liberi e sul loro
possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti
dal lavoro stesso. La trasformazione della proprietà
privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui
in proprietà capitalistica è naturalmente un
processo incomparabilmente più lungo, più duro e
più difficile della trasformazione della società
capitalistica, che già poggia di fatto sulla direzione
sociale della produzione, in proprietà sociale" [64].
Questo è tutto. Lo stato di cose instaurato mediante
l'espropriazione degli espropriatori viene quindi caratterizzato
come il ristabilimento della proprietà individuale ma sulla
base della proprietà sociale della terra e dei mezzi di
produzione creati dal lavoro stesso. Ciò significa che
chiunque capisca il senso delle parole, che la proprietà
sociale si estende alla terra e agli altri mezzi di produzione e
la proprietà individuale ai prodotti, e quindi agli oggetti
dell'uso. E perché la cosa sia comprensibile anche ad un
bambino di sei anni, Marx suppone, a pag. 56, una
"associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di
produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte
forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale,"
quindi una società organizzata socialisticamente, e dice:
"Il prodotto complessivo dell'associazione è prodotto
sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione.
Rimane sociale. Ma un'altra parte viene consumata come mezzo di
sussistenza dai membri dell'associazione. Quindi deve essere
distribuita fra di essi" [65].
E questa cosa è davvero abbastanza chiara anche per la
testa hegelianizzata di Dühring.
La proprietà ad un tempo individuale e sociale, questa
ibrida forma confusa, questa insulsaggine che risulta
necessariamente dalla dialettica di Hegel, questo mondo nebuloso,
questo profondo enigma dialettico che Marx lascia da risolvere ai
suoi adepti, ancora una volta è una libera creazione ed una
libera immaginazione di Dühring. Marx, come preteso
hegeliano, è tenuto a fornirci, come risultato della
negazione della negazione, una giusta unità superiore, e
poiché non lo fa secondo i gusti di Dühring, costui
ricade necessariamente ancora una volta nel suo stile più
elevato e più nobile, e attribuisce a Marx, nell'interesse
della più piena verità, cose che sono prodotti
assolutamente esclusivi e propri di Dühring. Un uomo che
è così completamente incapace di citare
correttamente, sia pure in via eccezionale, ha davvero di che
indignarsi moralmente di fronte all'"erudizione cinese" di altra
gente che, senza eccezioni, cita correttamente, ma proprio per
questo "mal nasconde la mancanza di una conoscenza che penetri nel
complesso delle idee degli scrittori che di volta in volta cita".
Dühring ha ragione. Evviva la maniera di delineare la storia
in grande stile!
Sinora siamo partiti dal presupposto che l'ostinazione di
Dühring nel falsare le citazioni sia almeno in buona fede e
poggi o su una totale incapacità di intendere che gli
è propria o, invece, su un'abitudine di citare a memoria,
abitudine peculiare alla maniera di delineare la storia in grande
stile, e che altrimenti potrebbe tacciarsi di sciatteria. Ma
sembra che siamo arrivati ad un punto in cui, anche per
Dühring, la quantità si converte in qualità.
Infatti, se consideriamo in primo luogo che il passo di Marx
è in sé completamente chiaro e che per giunta
è anche completato da un altro passo che assolutamente non
lascia adito a nessun fraintendimento; in secondo luogo che questa
mostruosità di "una proprietà al contempo
individuale e sociale", Dühring non l'aveva scoperta
né nella sopraccitata critica al "Capitale" contenuta negli
"Ergänzungsblätter", né in quella contenuta nella
prima edizione della "Storia critica", ma la scopre solo nella
seconda edizione e quindi in terza lettura; e, infine, che in
questa seconda edizione, rielaborata socialisticamente,
Dühring fu costretto a far dire a Marx le più grandi
idiozie possibili sulla futura organizzazione della
società, per poter invece tanto più trionfalmente
presentare, così come fa, "la comunità economica che
io ho tratteggiato nei suoi aspetti economici e giuridici nel mio
"Corso""; se consideriamo tutto questo, siamo costretti a
concludere che qui Dühring ci spinge ad ammettere che egli
abbia apportato premeditatamente alle idee di Marx
un'"amplificazione benefica": benefica per Dühring.
Ma quale funzione ha in Marx la negazione della negazione? A p.
791 e sgg. Egli riassume i risultati conclusivi dell'indagine,
compiuta nelle cinquanta pagine che precedono, sulla cosiddetta
accumulazione originaria del capitale [66]. Prima dell'era
capitalistica esistevano, almeno in Inghilterra, piccole industrie
fondate sulla proprietà privata che il lavoratore aveva dei
suoi mezzi di produzione. La cosiddetta accumulazione originaria
del capitale qui è consistita nell'espropriazione di questi
produttori immediati, cioè nella dissoluzione della
proprietà privata fondata sul lavoro proprio. Questo
fenomeno fu possibile perché la piccola industria, di cui
abbiamo parlato sopra, è compatibile solo con limiti
naturali angusti della produzione e della società e
perciò ad un certo livello crea i mezzi materiali della sua
propria distruzione. Questa distruzione, la trasformazione dei
mezzi di produzione individuali e frazionati in mezzi di
produzione socialmente concentrati, forma la preistoria del
capitale. Appena gli operai si sono trasformati in proletari, i
loro mezzi di lavoro si sono trasformati in capitale, appena il
modo di produzione capitalistico comincia a reggersi in piedi,
l'ulteriore socializzazione del lavoro e l'ulteriore
trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione, e
perciò l'ulteriore espropriazione dei proprietari privati,
prendono una forma nuova.
"Ora, quello che deve essere espropriato non è più
il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il
capitalista che sfrutta molti operai. Questa espropriazione si
compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa
produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei
capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo
con questa centralizzazione ossia con l'espropriazione di molto
capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre
crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la
consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento
metodico collettivo della terra, la trasformazione dei mezzi di
lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, la
economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come
mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato. Con la
diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che
usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di
trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione,
dell'asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma
cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre
più si ingrossa ed è disciplinata, unita e
organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione
capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del
modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto
di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la
socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui divengono
incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene
spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata
capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati." [67]
Ed ora io chiedo al lettore: dove sono gli intrecci dialettici
aggrovigliati e gli arabeschi di idee, quel garbuglio mal
concepito di idee per cui infine tutto è uno, dove i
miracoli dialettici ad uso dei fedeli, dove il gran mistero della
dialettica, dove gli aggrovigliamenti conformi alla dottrina
hegeliana del logos, senza i quali Marx, secondo Dühring,
è incapace di compiere il suo sviluppo? Marx dimostra
semplicemente dal punto di vista storico, e brevemente riassume,
questo concetto: che proprio come una volta la piccola industria
creò necessariamente col suo proprio sviluppo le condizioni
della sua distruzione, cioè dell'espropriazione dei piccoli
proprietari, così ora il modo di produzione capitalistico
ha creato del pari le stesse condizioni materiali che
necessariamente lo distruggono. È questo un processo
storico, e se ad un tempo è un processo dialettico, la
colpa non è di Marx, per quanto ciò possa essere
spiacevole per Dühring.
Solo ora, dopo aver portato a termine la sua dimostrazione
storico-economica, Marx prosegue:
"Il modo di produzione e di appropriazione capitalistico, e quindi
la proprietà privata capitalistica, è la prima
negazione della proprietà privata individuale, fondata sul
lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa
stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la
propria negazione. È la negazione della negazione" ecc.
(come si è citato sopra) [68].
Marx non pensa dunque, caratterizzando questo processo come
negazione della negazione, di dimostrare per questa via che esso
è un processo storicamente necessario. Al contrario: dopo
aver dimostrato storicamente che il processo, in effetti, in parte
si è compiuto e in parte deve ancora compiersi, lo
caratterizza inoltre come un processo che si compie secondo una
legge dialettica determinata. Questo è tutto. Ancora una
volta è quindi una pura insinuazione di Dühring la sua
affermazione che la negazione della negazione debba qui far da
levatrice, estraendo l'avvenire dal grembo del passato, o che Marx
esiga che ci si debba, sul credito accordato alla negazione della
negazione, lasciar convincere della necessità della
proprietà comune del suolo e del capitale (la quale
è proprio una contraddizione dühringiana in carne ed
ossa).
È già mancare totalmente di ogni conoscenza della
natura della dialettica, il ritenerla, come fa Dühring, uno
strumento puramente dimostrativo, come su per giù si
può considerare in un campo più limitato la logica
formale o la matematica elementare. La stessa logica formale
è anzitutto un metodo per scoprire nuovi risultati, per
progredire dal noto all'ignoto, e la stessa cosa, solo in un senso
molto più eminente, è la dialettica, la quale,
poiché infrange l'angusto orizzonte della logica formale,
contiene il germe di una comprensione del mondo più
comprensiva. La stessa situazione si ha nella matematica. La
matematica elementare, la matematica delle grandezze costanti, si
muove, almeno nel suo complesso, entro i limiti della logica
formale; la matematica delle grandezze variabili, di cui il
calcolo infinitesimale costituisce la parte più importante,
essenzialmente non è altro che l'applicazione delle leggi
della dialettica ai rapporti matematici. Qui l'aspetto puramente
dimostrativo passa decisamente in secondo piano di fronte alle
molteplici applicazioni del metodo a nuovi campi d'indagine. Ma
quasi tutte le dimostrazioni della matematica superiore, a partire
dalle prime dimostrazioni del calcolo differenziale, considerate
rigorosamente, dal punto di vista della matematica elementare,
sono false. E non può essere diversamente se, come qui
avviene, si vogliono dimostrare per mezzo della logica formale i
risultati raggiunti in campo dialettico. Voler dimostrare qualche
cosa per mezzo della dialettica, per un crasso metafisico quale
Dühring, sarebbe sprecare la medesima fatica che sprecarono
Leibniz e i suoi discepoli per dimostrare ai matematici del tempo
i principi del calcolo infinitesimale. Il differenziale causava
loro le stesse convulsioni che causa a Dühring la negazione
della negazione, nella quale del resto, come vedremo, esso ha
anche la sua parte. Questi signori infine, se nel frattempo non
erano ancora morti, cedettero borbottando, non perché
fossero convinti, ma perché i risultati che si ottenevano
erano sempre giusti. Dühring, come egli stesso dice, è
solo sui quaranta, e se raggiungerà la tarda età che
gli auguriamo, potrà anche lui fare la stessa esperienza.
Ma che cosa è dunque questa spaventosa negazione della
negazione che rende così amara la vota di Dühring, e
che rappresenta per lui lo stesso delitto imperdonabile
rappresentato nel cristianesimo dal peccato contro lo spirito
santo? Un processo semplicissimo che si compie dappertutto e
giornalmente, che ogni bambino può comprendere, solo che lo
si liberi dal gran mistero sotto il quale lo nascondeva la vecchia
filosofia idealistica e sotto il quale è interesse di
metafisici poco agguerriti dello stampo di Dühring continuare
a nasconderlo. Prendiamo un chicco di orzo. Miliardi di tali
chicchi di orzo vengono macinati, bolliti e usati per fare la
birra, e quindi consumati. Ma se un tale chicco di orzo trova le
condizioni per esso normali, se cade su un terreno favorevole,
sotto l'influsso del calore e dell'umidità subisce
un'alterazione specifica, cioè germina, il chicco come tale
muore, viene negato, e al suo posto spunta la pianta che esso ha
generata, la negazione del chicco. Ma quale è il corso
normale della vita di questa pianta? Essa cresce, fiorisce, viene
fecondata e infine a sua volta produce dei chicchi di orzo e non
appena questi sono maturati, lo stelo muore, viene a sua volta
negato. Come risultato di questa negazione della negazione abbiamo
di nuovo l'originario chicco di orzo, non però semplice, ma
moltiplicato per dieci, per venti, per trenta. Le specie di
cereali si modificano con straordinaria lentezza e così
l'orzo, quale è oggi, è approssimativamente simile a
quello di cent'anni fa. Ma prendiamo invece una pianta ornamentale
che può facilmente essere modificata, per es. una dalia o
un'orchidea; trattiamone il seme e la pianta che da essa è
nata secondo i dettami della floricoltura e otterremo, come
risultato di questa negazione della negazione, non solo una
maggior quantità di semi, ma anche un seme migliorato
qualitativamente, che produce fiori più belli, ed ogni
ripetizione di questo processo, ogni nuova negazione della
negazione fa progredire questo perfezionamento. Questo processo si
compie nella massima parte degli insetti, per es. nelle farfalle,
in un modo analogo a quello in cui si compie nel chicco di orzo.
Gli insetti nascono dall'uovo mediante negazione dell'uovo,
compiono la loro metamorfosi fino a raggiungere la maturità
sessuale, si accoppiano e vengono ancora una volta negati,
poiché muoiono appena si è compiuto il processo di
generazione e la femmina ha deposto le sue numerose uova. Che in
altre piante e in altri animali il fenomeno non si compia con
questa semplicità, che essi, prima di morire, producano
semi, uova o piccoli non una sola, ma più volte, è
cosa che qui non ha importanza per noi; qui dobbiamo dimostrare
solamente che nei due regni del mondo organico la negazione della
negazione ha realmente luogo. Inoltre tutta la geologia è
una serie di negazioni negate, una serie di successivi
sgretolamenti di vecchie formazioni rocciose e di stratificazioni
di nuove formazioni. In un primo tempo la primitiva crosta
terrestre sorta dal raffreddamento della massa fluida sotto
l'azione di agenti oceanici, meteorologici e chimico-atmosferici
si sgretola e queste masse sgretolate si stratificano sul fondo
marino. Sollevamenti locali del fondo marino al di sopra della
superficie delle acque espongono di nuovo parti superiori di
questa prima stratificazione all'azione della pioggia, del calore
variabile a seconda delle stagioni, dell'ossigeno e dell'acido
carbonico atmosferici; a queste stesse azioni soggiacciono le
masse rocciose che, eruttate dall'interno della terra, si sono
fuse aprendosi un varco attraverso i suoi strati e si sono poi
raffreddate. Durante milioni di secoli si formano in questo modo
strati sempre nuovi, sempre di nuovo vengono in gran parte
distrutti e sempre di nuovo impiegati come materiale per la
formazione di nuovi strati. Ma si ha un risultato molto positivo:
la costruzione di un suolo dove si trovano mescolati i più
diversi elementi chimici in uno stato di sgretolamento meccanico
che permette la vegetazione più copiosa e svariata.
Altrettanto accade nella matematica. Prendiamo una qualsiasi
grandezza algebrica, per es. a. Neghiamola e avremo così -a
(meno a), neghiamo questa negazione moltiplicando -a per -a,
avremo così +a2, cioè la primitiva grandezza
positiva, ma ad un grado più elevato, ossia alla seconda
potenza. Anche qui non ha importanza il fatto che possiamo
ottenere lo stesso a2 moltiplicando per se stessa la grandezza
positiva a. Infatti la negazione negata è così fissa
in a2, che tutti i casi a2 ha due radici quadrate, cioè a e
-a, e questa impossibilità di negare la negazione negata,
la radice negativa contenuta nel quadrato, acquista un significato
ancora più tangibile nelle equazioni quadratiche. In modo
ancora più convincente si presenta la negazione della
negazione nell'analisi superiore, in quelle "somme di grandezze
indefinitamente piccole" che lo stesso Dühring dichiara le
più alte operazioni della matematica e che in linguaggio
ordinario si chiamano calcolo differenziale e integrale. Come si
compiono queste specie di calcoli? Io ho, per es., in un problema
determinato due grandezze variabili, x e y, delle quali l'una non
può variare senza che insieme vari l'altra, in un rapporto
determinato dalle circostanze. Io derivo x e y, cioè
suppongo che x e y siano così infinitamente piccole che
scompaiono di fronte ad una grandezza reale, per piccola che essa
sia, e che di x e y non resti che il loro rapporto specifico,
senza però nessuna, per così dire delle circostanze
materiali, un rapporto quantitativo senza quantità dy/dx,
il rapporto delle due derivate di x e di y e dunque = 0/0, ma
posto 0/0 come l'espressione di y/x. Che questo rapporto tra due
grandezze scompare, la fissazione del momento del loro scomparire,
è una contraddizione, è cosa che noto solo di
passaggio; ma ci può turbare tanto poco quanto poco in
generale ha turbato alla matematica da quasi duecento anni. Che
cos'altro ho fatto dunque se non aver negato x e y, ma negato non
in modo da non occuparmene più, come nega la metafisica, ma
in quella maniera che corrisponde alle circostanze. Invece di x e
y io ho, nelle formule o equazioni che mi stanno davanti, la loro
negazione, dx e dy. Ora io continuo a calcolare con queste
formule, tratto dx e dy come grandezze reali, anche se sottoposte
a certe leggi eccezionali, e ad un certo punto nego la negazione,
cioè integro la formula differenziale, al posto di dx e di
dy, ottengo di nuovo le grandezze reali x e y, ma non mi trovo di
nuovo al punto in cui ero al principio: invece ho risolto un
problema sul quale la geometria e l'algebra comuni si sarebbero
forse invano affaticate.
Non altrimenti accade nella storia. Tutti i popoli civili
cominciano con la proprietà comune del suolo. In tutti
ipopoli che oltrepassano un certo grado primitivo, nel corso dello
sviluppo dell'agricoltura, questa proprietà comune del
suolo diventa una catena per la produzione. Essa viene soppressa,
viene negata, viene trasformata, dopo una serie più o meno
lunga di gradi intermedi, in proprietà privata. Ma ad un
più elevato grado di sviluppo dell'agricoltura, prodotto
dalla stessa proprietà privata del suolo, la
proprietà privata diventa, al contrario, una catena per la
produzione, caso che si verifica oggi tanto nel piccolo quanto nel
grande possesso fondiario. Sorge necessariamente l'esigenza che
anch'essa sia negata, riconvertita in bene comune. Ma
quest'esigenza non implica il ristabilimento della vecchia
proprietà comune primitiva, ma l'instaurazione di una forma
molto più elevata, più sviluppata di
proprietà comune che ben lungi dal diventare una catena per
la produzione, la libererà piuttosto dalle sue pastoie e le
permetterà di utilizzare in pieno le moderne scoperte della
chimica e le moderne invenzioni della meccanica.
O ancora: la filosofia antica fu un materialismo primitivo,
spontaneo. Come tale, essa era incapace di venire in chiaro del
rapporto tra pensiero e materia. Ma la necessità di
chiarirsi questo rapporto portò ad una dottrina di un'anima
separabile dal corpo, quindi all'affermazione
dell'immortalità di quest'ultima e finalmente al
monoteismo. L'antico materialismo fu dunque negato con
l'idealismo. Ma nello sviluppo ulteriore della filosofia anche
l'idealismo divenne insostenibile e fu negato col moderno
materialismo. Quest'ultimo, la negazione della negazione, non
è la semplice restaurazione dell'antico materialismo, ma
invece alle durevoli basi di esso aggiunge anche tutto il pensiero
contenuto in un bimillenario sviluppo della filosofia e della
scienza della natura, nonché il pensiero contenuto in
questa stessa storia bimillenaria. Insomma non è più
una filosofia, ma una semplice concezione del mondo che non ha da
trovare la sua riprova e la sua conferma in una scienza della
scienza per sé stante, ma nelle scienze reali. La filosofia
è dunque qui "superata", cioè "insieme sorpassata e
mantenuta", sorpassata quanto alla sua forma, mantenuta quanto al
suo contenuto reale. Perciò, dove Dühring vede solo
"giuochi di parole", si trova, considerando più
attentamente le cose, un contenuto reale.
Finalmente, perfino la dottrina egualitaria rousseauiana, di cui
la dühringiana è solo una cattiva copia falsificata,
non viene alla luce senza che la hegeliana negazione della
negazione debba far da levatrice, e per giunta quasi venti anni
prima della nascita di Hegel [69]. E ben lontana dal sentirne
vergogna, ostenta quasi sfarzosamente nella sua prima
presentazione il marchio della sua origine dialettica. Nello stato
di natura e di selvatichezza gli uomini erano eguali; e
poiché Rousseau vede nel linguaggio già una
falsificazione dello stato di natura, ha completamente ragione
nell'applicare, in tutta la sua estensione, l'eguaglianza degli
animali di una specie determinata anche a questi uomini-animali
che di recente Haeckel ha classificato, in via ipotetica, come
alalì, cioè privi di linguaggio [70]. Ma questi
uomini-animali, eguali tra di loro, avevano una qualità che
li rendeva superori agli altri animali: la perfettibilità,
l'idoneità ad uno sviluppo ulteriore; e fu questa la causa
della disuguaglianza. Nel sorgere della disuguaglianza Rousseau
vede dunque un progresso. Ma questo progresso era antagonistico,
era ad un tempo un regresso.
"Tutti gli ulteriori progressi" (che oltrepassano lo stato
primitivo) "sono stati in apparenza altrettanti passi verso la
perfezione dell'individuo, e in effetti verso la decrepitezza
della specie (...) La metallurgia e l'agricoltura furono le due
arti la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione" (la
trasformazione della foresta vergine in terra coltivata, ma anche
l'introduzione della miseria e della schiavitù per opera
della proprietà). "L'oro e l'argento per il poeta, ma per
il filosofo sono il ferro e il grano che hanno civilizzato gli
uomini e prodotto il genere umano."
Ogni nuovo progresso della civiltà è ad un tempo un
nuovo progresso della disuguaglianza. Tutte le istituzioni che si
dà la società nata con la civiltà si mutano
nel contrario di quello che era il loro fine primitivo.
"È dunque incontestabile, ed è la massima
fondamentale di tutto il diritto politico, che i popoli si son
dati dei capi per difendere la propria libertà e non per
servirli."
E tuttavia questi capi diventano necessariamente gli oppressori
dei popoli e spingono questa oppressione sino al punto in cui la
disuguaglianza, portata al suo culmine, si converte a sua volta
nel suo contrario, diventa causa dell'eguaglianza: davanti al
despota tutti sono uguali, ossia uguali a zero.
"È qui l'ultimo termine dell'ineguaglianza, è il
punto estremo che chiude il cerchio e torna al punto da cui siamo
partiti: ora tutti gli individui ridivengono eguali, perché
non sono niente, e (...) i sudditi" (non hanno) "altra legge che
la volontà del padrone."
Ma il despota è padrone solo finché ha la forza,
perciò quando
"Lo si può cacciare non può reclamare contro la
violenza (...) Solo la forza lo sorreggeva, solo la forza lo
abbatte; tutto avviene in tal modo secondo l'ordine naturale".
E così la disuguaglianza si muta a sua volta in
eguaglianza, non però nell'antica eguaglianza naturale
degli uomini primitivi privi di linguaggio, ma in quella
più elevata del contratto sociale. Gli oppressori vengono
oppressi. È negazione della negazione.
Qui abbiamo dunque, già in Rousseau, non solo un corso di
idee che è perfettamente uguale a quello seguito nel
"Capitale" di Marx, ma, anche nei particolari, tutta una serie di
quegli sviluppi dialettici di cui si serve Marx: processi che per
loro natura sono antagonistici, contengono in sé una
contraddizione, il convertirsi di un estremo nel suo contrario e
finalmente, come nocciolo di tutto, la negazione della negazione.
Se dunque Rousseau nel 1754 non poteva ancora parlare il gergo
hegeliano, tuttavia, sedici anni prima della nascita di Hegel, era
già profondamente corrotto dalla peste hegeliana, dalla
dialettica della contraddizione, dalla dottrina del logos, dal
neologismo, ecc. E se Dühring, rendendo superficiale la
dottrina egualitaria rousseauiana, opera coi suoi vittoriosi due
uomini, è anche lui già su quel piano inclinato sul
quale scivolerà senza scampo tra le braccia della negazione
della negazione. Lo stato di cose in cui fiorisce l'eguaglianza
dei due uomini e che è anche rappresentato come uno stato
ideale, a p. 271 della "Filosofia" viene designato come "stato
primitivo". Questo stato primitivo, secondo la p. 279, viene
però necessariamente soppresso dal "sistema di rapina":
prima negazione. Ma, grazie alla filosofia della realtà,
siamo arrivati ora ad abolire il sistema di rapina e ad introdurre
al suo posto quella comunità economica, poggiante
sull'eguaglianza, che è stata inventata da Dühring:
negazione della negazione, eguaglianza ad un grado più
elevato. Delizioso spettacolo che allarga beneficamente
l'orizzonte, vedere Dühring commettere, con la sua augusta
persona, il delitto capitale della negazione della negazione!
Che cos'è dunque la negazione della negazione? Una legge di
sviluppo estremamente generale della natura, della storia e del
pensiero e che appunto perciò ha un raggio d'azione e
un'importanza estremamente grandi; legge che, come abbiamo visto,
si afferma nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella
matematica, nella storia, nella filosofia, e alla quale, malgrado
ogni lotta e ogni resistenza, anche Dühring, senza saperlo,
è obbligato, in qualche modo, ad obbedire. È
evidente per se stesso che, riguardo al particolare processo di
sviluppo che compie, per es., il chicco di orzo dalla germinazione
sino alla morte della pianta che reca la spiga, io non dico
assolutamente niente dicendo che è negazione della
negazione. Infatti, se affermassi il contrario, poiché il
calcolo integrale egualmente è negazione della negazione,
affermerei solo l'assurdo che il processo biologico di una spiga
di orzo sia calcolo integrale, o anche, ahimè!, socialismo.
Ma questo è ciò che i metafisici continuano, nelle
scuole, ad attribuire alla dialettica. Se di tutti questi processi
io dico che sono negazione della negazione, li comprendo tutti
insieme sotto questa unica legge del movimento e precisamente
trascuro la particolarità di ogni singolo processo
speciale. Ma la dialettica non è niente altro che la
scienza delle leggi generali del movimento e dello sviluppo della
natura, della società umana e del pensiero.
Si può obiettare però che la negazione che qui ha
avuto luogo non è una vera negazione: io nego un chicco
d'orzo anche macinandolo, un insetto anche calpestandolo, la
grandezza positiva a anche cancellandola, ecc. Ovvero, io nego la
proposizione "la rosa è una rosa" dicendo "la rosa non
è una rosa"; ma che risultato si ha negando di nuovo questa
ultima proposizione e dicendo: "ma pure, la rosa è una
rosa"? queste obiezioni sono in effetti gli argomenti principali
dei metafisici contro la dialettica e sono del tutto degni della
loro limitatezza di pensiero. Nella dialettica negare non
significa dir di no, o dichiarare che una cosa non è
sussistente o comunque distruggerla. Già Spinoza dice:
Omnis determinatio est negatio, ogni limitazione o determinazione
è ad un tempo una negazione [71]. E inoltre qui il
carattere specifico della negazione è determinato in primo
luogo dalla natura generale e in secondo luogo dalla natura
particolare del processo. Io devo non soltanto negare, ma anche di
nuovo sopprimere la negazione. Devo quindi costruire la prima
negazione in un modo tale che la seconda resti o diventi
possibile. Come? A seconda della natura particolare di ogni
singolo caso. Macinando un chicco di orzo, calpestando un insetto,
ho certo compiuto il primo atto, ma ho reso impossibile il
secondo. Ogni genere di cose ha una sua maniera peculiare di
essere negata in modo che ne risulti uno sviluppo, e la stessa
cosa si ha per ogni genere di idee e di concetti. Nel calcolo
infinitesimale la negazione avviene in un modo diverso che nella
costruzione di potenze positive per mezzo di radici negative.
È questa una cosa che deve essere appresa come tutte le
altre. Con la semplice cognizione che la spiga di orzo e il
calcolo infinitesimale sono sottoposti alla negazione della
negazione, io non potrò né coltivare con successo
dell'orzo, né derivare o integrare, così come non
saprò senz'altro suonare il violino con le semplici leggi
della determinazione dei toni mediante la dimensione delle corde.
Ma è chiaro che da una negazione della negazione che
consista nell'occupazione puerile di scrivere e cancellare
alternativamente a, o di affermare alternativamente di una rosa
che essa è o non è una rosa, non può
risultare nient'altro che la stupidità di chi si dà
a tali fastidiosi procedimenti. Eppure i metafisici vorrebbero
darci a bere che se mai volessimo compiere la negazione della
negazione, è questa la maniera giusta.
Quindi ancora una volta non altri che Dühring è quello
che ci mistifica, affermando che la negazione della negazione
è un giochetto analogico inventato da Hegel, preso a
prestito dal campo della religione, fondato sulla storia del
peccato originale e della redenzione. Gli uomini hanno pensato
dialetticamente molto tempo prima di sapere che cosa fosse la
dialettica, proprio nello stesso modo che parlavano in prosa molto
tempo prima che esistesse la parola prosa [72]. Alla legge della
negazione della negazione, che opera inconsciamente nella natura e
nella storia, e, sino a quando non venga finalmente riconosciuta,
opera inconsciamente anche nella nostra testa, Hegel ha soltanto
dato per la prima volta una formulazione netta. E se Dühring
vuole anche esercitare la cosa in segreto, ed è solo il
nome ciò che non può sopportare, non ha che da
trovare un nome migliore. Se invece è proprio la cosa che
egli vuol cacciar via dal pensiero, di grazia cominci col
cacciarla via dalla natura e dalla storia e inventi una matematica
in cui -a ¥ -a non dia +a2 e in cui il derivare e l'integrare
siano vietati sotto minaccia di pena.
Con la filosofia siamo ormai alla fine; quel tanto di fantasie
avveniristiche che ancora si trova nel "Corso" ci occuperà
quando avremo occasione di trattare del dühringiano
rivoluzionamento del socialismo. Che cosa ci ha promesso
Dühring? Tutto. E che cosa ha mantenuto? Assolutamente nulla.
"Gli elementi di una filosofia positiva e conseguentemente rivolta
alla realtà della natura e della vita", la "visione del
mondo rigorosamente scientifica", le "idee creatrici di sistema",
e tutte le altre gesta di Dühring, da Dühring
strombazzate in frasi altisonanti, tutte queste cose, ovunque ci
abbiamo messo le mani, si sono rivelate puro imbroglio. La
schematizzazione del mondo che "senza rinunziare in niente alla
profondità del pensiero, ha stabilito saldamente le forme
fondamentali dell'essere" si è rivelata una cattiva copia,
infinitamente superficiale, della logica hegeliana, e di questa
condivide la superstizione che tali "forme fondamentali" o
categorie logiche conducano una misteriosa esistenza in qualche
luogo prima e fuori del mondo, al quale debbono essere
"applicate". La filosofia della natura ci ha offerto una
cosmogonia il cui punto di partenza è "uno stato eguale a
se stesso della materia", stato che si può rappresentare
solo facendo la più disperata confusione sul nesso di
materia e movimento, e inoltre solo ammettendo un dio personale
extramondano, l'uomo che può aiutare questo stato a
raggiungere il movimento. Nel trattare la natura organica, la
filosofia della realtà, dopo aver rigettato la lotta per
l'esistenza e la selezione naturale di Darwin come "un campione di
brutalità diretta contro l'umanità", è
costretta a farle rientrare entrambe per la porta di servizio,
come fattori efficienti della natura, se anche fattori di
second'ordine. La filosofia della realtà, inoltre, ha
trovato modo di dar saggio, nel campo della biologia, di
un'ignoranza che, da quando non si può più sfuggire
alle conferenze scientifiche popolari, bisognerebbe cercare col
lanternino persino tra le ragazze di buona famiglia. Nel campo
della morale e del diritto, la filosofia della realtà non
è stata più felice nel rendere banale Rousseau di
quanto non lo fosse stata prima nel rendere superficiale Hegel e,
anche per quanto riguarda le scienze giuridiche, malgrado ogni
assicurazione in contrario, ha dimostrato un'ignoranza che solo
raramente si potrebbe trovare tra i più comuni giuristi
della vecchia Prussia. La filosofia "che non ammette orizzonti
meramente apparenti" si accontenta, nel campo del diritto, di un
orizzonte reale che coincide col territorio in cui vige il
Landrecht prussiano. Le "stelle e i cieli della natura esterna ed
interna" che questa filosofia ha promesso di dispiegare davanti a
noi nel suo moto possentemente rivoluzionario, li stiamo sempre
aspettando, non meno delle "verità definitive di ultima
istanza" e di "ciò che è assolutamente
fondamentale". Il filosofo la cui maniera di pensare "esclude ogni
velleità di rappresentare il mondo in modo fantastico e
soggettivamente limitato" si rivela soggettivamente limitato non
solo, come si è dimostrato, per l'estrema deficienza delle
sue conoscenze, per la sua maniera di pensare angustamente
metafisica e per la sua istrionesca presunzione, ma persino per le
sue fanciullesche ubbie personali. Costui non può venire a
capo della sua filosofia della realtà senza imporre come
una legge universalmente valida la sua avversione per il tabacco,
i gatti e gli ebrei a tutto il resto dell'umanità, inclusi
gli ebrei. Il suo "punto di vista realmente critico" di fronte
agli altri consiste nell'attribuir loro con insistenza cose che
essi non hanno mai detto e che sono invece prodotti assolutamente
esclusivi e propri di Dühring. Le sue ampie elucubrazioni su
temi piccolo-borghesi, come il valore della vita e la miglior
maniera di goder la vita, sono di un filisteismo che spiega la sua
ira contro il Faust di Goethe. È stato certamente
imperdonabile da parte di Goethe l'aver preso come suo eroe
l'immortale Faust anziché il grave filosofo della
realtà Wagner. In breve la filosofia della realtà,
presa nel suo complesso, si rivela, per dirla con Hegel, il
"più superficiale sottoprodotto illuministico del
superficiale illuminismo tedesco", sottoprodotto la cui
insipidità e i cui trasparenti luoghi comuni sono resi solo
più grossolani e più torbidi dai brani smozzicati di
retorica oracoleggiante che vi sono mescolati. E quando siamo alla
fine del libro, ne sappiamo proprio quanto ne sapevamo prima e
siamo costretti a confessare che la "nuova maniera di pensare",
cioè "i risultati e le vedute originali sin dalle
fondamenta" e le "idee che creano un sistema" ci hanno certo
presentato vari assurdi nuovi ma neanche una riga da cui avremmo
potuto imparare qualche cosa. E quest'uomo che decanta le sue arti
e le sue merci a suon di timpani e di trombe come il più
volgare ciarlatano e dietro alle cui parole non c'è niente,
ma proprio assolutamente niente, quest'uomo si permette di chiamar
ciarlatani uomini come Fichte, Schelling e Hegel, il più
piccolo dei quali è sempre un gigante di fronte a lui.
Ciarlatano in effetti, -ma chi?
Note
59. Nella prefazione (25 luglio 1867) alla prima edizione del
"Capitale" Marx scrisse: "Il secondo volume di questo scritto
tratterà il processo di circolazione del capitale (libro
II), e le formazioni del processo complessivo (libro III); il
volume terzo, conclusivo (libro IV) tratterà la storia
della teoria". Dopo la morte di Marx, Engels pubblicò i
libri II e III come secondo e terzo volume. Egli non arrivò
a pubblicare l'ultimo libro, il IV ("Teorie sul plusvalore").
60. K. Marx "Il Capitale", libro I, trad. it. citata, pag. 346.
61. Ibid., p. 347, il corsivo è di Engels.
62. Ibid., p. 367.
63. Nelle memorie di Napoleone: "Dix-sept notes sur l'ouvrage...",
p. 262.
64. K. Marx "Il Capitale", libro I, trad. it. citata, pag. 826. Il
testo riportato da Engels, al quale qui è conformata la
traduzione, è riportato nella seconda edizione tedesca
(1872) del libro I del "Capitale"; esso è leggermente
diverso da quello della IV edizione (1890), sulla quale è
fatta la traduzione italiana sopra citata.
65. Ibid., p. 110. I corsivi sono di Engels.
66. Ibid., p. 823 e sgg.: si tratta del paragrafo 7 ("Tendenza
storica dell'accumulazione capitalistica"), che conclude il
capitolo 24 ("La cosiddetta accumulazione originaria").
67. Ibid., pp. 825-826. Ma vedi la nota 64.
68. Ibid., p. 826. Ma vedi la nota 64.
69. Rousseau scrisse nel 1754 il "Discours sul l'origine et les
fondements de l'inégalité parmì les hommes",
da cui sono tratti i brani seguenti.
70. Cfr. Hernst Haeckel "Natürliche
Schöpfungsgeschichte...", IV ediz., pp. 590-591. Nella
classificazione di Haeckel, l'alalus rappresenta una fase che
precede immediatamente l'uomo vero e proprio. Gli alalì
sono "uomini primitivi privi della parola", o meglio
uomini-scimmia (pitecantropi). L'ipotesi di Haeckel sull'esistenza
di una forma di passaggio dalla scimmia antropomorfa all'uomo fu
confermata nel 1894, quando lo scienziato landese Eugen Dubois
descrisse il Pithecanthropus erectus, i cui resti fossili egli
aveva scoperto nel 1891 nell'iosa di Giava.
71. La formula "determinatio est negatio" si trova in una lettera
di Spinoza del 2 giugno 1674 a una persona non nominata, dove essa
è usata nel senso: limitazione o determinazione è
negazione. La formula "omnis determinatio est negatio", col valore
di "ogni determinatezza è la negazione", si trova nelle
opere di Hegel, attraverso le quali ebbe larga diffusione.
72. Vedi la commedia di Molière "Il borghese gentiluomo",
atto II, scena 4.
L'economia politica nel senso più lato è la scienza
delle leggi che regolano la produzione e lo scambio dei mezzi
materiali di sussistenza nella società umana. Produzione e
scambio sono due funzioni diverse. Può esserci la
produzione senza lo scambio, non lo scambio -che proprio per sua
essenza è solo scambio di prodotti- senza la produzione.
Ognuna di queste due funzioni sociali sta sotto l'influenza di
azioni esterne, per lo più particolari, e perciò ha,
per lo più, le sue particolari leggi. Ma d'altra parte esse
in ogni momento si condizionano l'un l'altra ed agiscono l'una
sull'altra in tale misura da potersi caratterizzare come l'ascissa
e l'ordinata della curva economica.
Le condizioni, in base alle quali gli uomini producono e
scambiano, mutano di paese in paese, e in ogni paese, a loro
volta, di generazione in generazione. L'economia politica non
può quindi essere la stessa per tutti i paesi e per tutte
le epoche storiche. Dall'arco e dalla freccia, dal coltello di
pietra e dall'atto di scambio, puramente occasionale, del
selvaggio, fino alla macchina a vapore dalla forza di mille
cavalli, al telaio meccanico, alle strade ferrate e alla Banca
d'Inghilterra, c'è una distanza enorme. Gli abitanti della
Terra del Fuoco, come non sono arrivati alla produzione
standardizzata e al commercio su scala mondiale, così non
sono arrivati ai maneggi cambiari e ad un crac di Borsa. Chi
volesse trattare l'economia della Terra del Fuoco secondo le
stesse leggi vigenti nella moderna Inghilterra, evidentemente non
potrebbe arrivare che al luogo comune più banale.
L'economia politica è perciò essenzialmente una
scienza storica. Essa si occupa di una materia che appartiene alla
storia, vale a dire di una materia in continuo cambiamento; indaga
anzitutto le leggi particolari di ogni singola fase di sviluppo
della produzione e dello scambio; e solo alla fine di questa
indagine potrà stabilire le poche leggi assolutamente
generali, valide per la produzione e lo scambio in genere. Con
tutto ciò è evidente per se stesso che le leggi
valide per determinati modi di produzione e per determinate forme
di scambio hanno validità anche per tutti i periodi storici
cui sono comuni quei modi di produzione e quelle forme di scambio.
Così, per es., con l'introduzione della moneta metallica,
entrano in vigore una serie di leggi che continuano ad essere
valide per tutti i paesi e i periodi storici nei quali la moneta
metallica serve da mezzo di scambio.
Con la maniera e la specie di produzione e di scambio di una
società storicamente determinata e con le condizioni
storiche preliminari di questa società, sono dati
contemporaneamente anche la maniera e la specie delladistribuzione
dei prodotti. Nella comunità tribale o di villaggio, con la
proprietà comune del suolo con la quale, o con le cui
sopravvivenze molto ben riconoscibili, tutti i popoli civili hanno
fatto il loro ingresso nella storia, è naturale che si
abbia una distribuzione dei prodotti pressoché eguale;
allorché si presenta una considerevole disuguaglianza
distributiva tra i membri, questa è già un sintomo
dell'incipiente dissoluzione della comunità. Sia la grande
che la piccola agricoltura ammettono, a seconda delle condizioni
storiche preliminari da cui si sono sviluppate, forme molto
diverse di distribuzione. Ma è evidente che la grande
agricoltura determina una distribuzione assolutamente diversa da
quella determinata dalla piccola agricoltura; che la grande
agricoltura presuppone o produce un antagonismo di classe, tra
padroni di schiavi e schiavi, fra signori della terra e servi
della gleba, tra capitalisti e salariati, mentre la piccola
agricoltura non implica affatto una differenza di classi tra gli
individui impiegati nella produzione agricola, anzi, al contrario,
la semplice esistenza di questa differenza di classi indica
l'incipiente decadenza dell'economia parcellare. L'introduzione e
la diffusione della moneta metallica in un paese dove sinora
è stata in vigore esclusivamente o prevalentemente
l'economia naturale, sono sempre legate ad un sovvertimento
più o meno rapido della distribuzione che sino a quel
momento è stata in vigore, e precisamente in guisa che la
disuguaglianza distributiva tra i singoli, e quindi il contrasto
tra ricchi e poveri, si viene sempre più accentuando.
L'industria artigiana locale, corporativa, del medioevo, rendeva
impossibile l'esistenza di grandi capitalisti e di salariati a
vita, così come necessariamente li generano la grande
industri moderna, l'odierno sistema creditizio, e la forma di
scambio adeguata allo sviluppo che l'una o l'altro hanno
raggiunto: la libera concorrenza.
Con le differenze nella distribuzione, appaiono invece le
differenze di classe. La società si divide in classi
privilegiate e diseredate, sfruttatrici e sfruttate, dominanti e
dominate; e lo Stato, al quale raggruppamenti naturali di
comunità dello stesso ceppo erano giunti nel loro
progressivo sviluppo in un primo tempo solo al fine di tutelare i
loro interessi comuni (in Oriente, per esempio, l'irrigazione) e
per proteggersi all'esterno, da ora in poi assume, nella stessa
misura, il fine di mantenere con la forza le condizioni di vita e
di dominio della classe dominante contro la classe dominata.
La distribuzione, però, non è un semplice risultato
passivo della produzione e dello scambio: essa reagisce nella
stessa misura su entrambi. Ogni nuovo modo di produzione o ogni
nuova forma di scambio, in principio vengono inceppati non solo
dalle vecchie forme e dalle istituzioni politiche ad esse
corrispondenti, ma anche dal vecchio modo di distribuzione. Solo
con una lunga lotta essi potranno conquistarsi la forma di
distribuzione loro adeguata. Ma quanto più un dato modo di
produzione e di scambio è mobile, quanto più
è capace di perfezionamento e di sviluppo, tanto più
rapidamente anche la distribuzione raggiunge un grado in cui
supera le condizioni che l'hanno generata, e in cui viene a
conflitto con la forma di produzione e di scambio esistente fino
allora. Le vecchie comunità naturali di cui si è
già parlato, possono esistere per secoli, come oggi ancora
presso gli indù e gli slavi, prima che il traffico col
mondo esterno produca al loro interno quelle differenze di
fortune, in conseguenza delle quali subentra la loro dissoluzione.
Per contro, la moderna produzione capitalistica, che ha appena
trecento anni e che solo dall'introduzione della grande industria,
quindi da cento anni, è diventata dominante, in questo
breve corso di tempo ha dato origine a contrasti nella
distribuzione -da una parte, concentrazione dei capitali nelle
mani di pochi e, dall'altra, concentrazione nelle grandi
città delle masse pauperizzate- contrasti che
necessariamente la conducono alla rovina.
In ogni periodo, il nesso tra la distribuzione e le condizioni
materiali di esistenza di una società è così
insito nella natura delle cose da rispecchiarsi regolarmente
nell'istinto popolare. Sino a quando un modo di produzione si
trova nella fase ascendente della parabola del suo sviluppo,
è salutato con gioia perfino da coloro che nel modo di
distribuzione ad esso corrispondente hanno tutto da perdere. Caso
questo che si è verificato per gli operai inglesi al
sorgere della grande industria. Sino a quando questo modo di
produzione resta socialmente normale si è anche
completamente soddisfatti della distribuzione, e se una protesta
si eleva, essa parte dal seno delle stesse classi dominanti
(Saint-Simon, Fourier, Owen) e da principio non trova nessun
favore tra le masse sfruttate. Solo allorché il modo di
produzione in oggetto ha percorso un buon tratto della sua
parabola discendente, allorché esso per metà
è sopravvissuto a se stesso, allorché le condizioni
della sua esistenza sono in gran parte scomparse e il suo
successore già batte alla porta, solo allora la
distribuzione, che va diventando sempre più diseguale,
appare ingiusta, solo allora le sopravvivenze si appellano alla
cosiddetta giustizia eterna. Questo appello alla morale e alla
giustizia non ci aiuta ad andare avanti di un passo nella scienza,
la scienza economica non può vedere nell'indignazione
morale, per giustificata che essa possa anche essere, un
argomento, ma solo un sintomo. Il suo compito è invece
quello di dimostrare che gli inconvenienti sociali di recente
emersi sono conseguenze necessarie del modo di produzione vigente,
ma che ad un tempo sono anche sintomi del suo imminente
dissolvimento, e di scoprire nella forma del processo economico in
dissolvimento gli elementi della futura nuova organizzazione della
produzione e dello scambio, che eliminerà quegli
inconvenienti. L'indignazione, che fa i poeti [73], è
completamente al suo posto quando descrive questi inconvenienti o
quando attacca gli apologeti dell'armonia che nell'interesse della
classe dominante negano o velano questi inconvenienti; ma quanto
poco essa provi nel caso particolare, risulta già dal fatto
che in ogni epoca della storia che si è svolta sinora si
trova abbastanza materia per essa.
L'economia politica, come scienza delle condizioni e delle forme
nelle quali le diverse società umane hanno prodotto e
scambiato e nelle quali hanno volta per volta distribuito i loro
prodotti in modo conforme a questa produzione e a questo scambio,
l'economia politica in questa estensione così lata, deve
tuttora esser creata. La scienza economica che sinora possediamo
si limita quasi esclusivamente alla genesi e allo sviluppo del
modo di produzione capitalistico: comincia con la critica delle
sopravvivenze delle forme feudali di produzione e di scambio,
dimostra la necessità della loro sostituzione con forme
capitalistiche, sviluppa quindi le leggi del modo di produzione
capitalistico e delle forme di scambio ad esso corrispondenti,
sotto l'aspetto positivo, cioè secondo l'aspetto per cui
esse assecondano i fini generali della società, e conclude
con la critica socialista del modo di produzione capitalistico,
cioè con l'esposizione delle sue leggi sotto l'aspetto
negativo, con la dimostrazione che, mediante il suo peculiare
sviluppo, questo modo di produzione porta al punto in cui esso
stesso si rende impossibile. Questa critica dimostra che le forme
capitalistiche di produzione e di scambio diventano sempre
più un vincolo insopportabile per la stessa produzione, che
il modo di distribuzione, che quelle forme
necessariamentedeterminano, ha prodotto una situazione delle
classi che di giorno in giorno diventa più intollerabile,
quell'antagonismo che diventa ogni giorno più acuto tra
capitalisti, sempre in minor numero ma sempre più ricchi, e
tra salariati pauperizzati sempre in maggior numero e le cui
condizioni nel complesso diventano sempre peggiori; e infine che
quelle abbondanti forze produttive che si sono prodotte in seno al
modo di produzione capitalistico, che da questo non possono
più essere dominate, aspettano solo di essere prese in
possesso da una società organizzata per la cooperazione
secondo un piano, al fine di assicurare a tutti i membri della
società i mezzi di sussistenza e alle loro capacità
il libero sviluppo: e ciò in una misura che precisamente
andrà sempre crescendo.
Per effettuare compiutamente questa critica dell'economia
borghese, non era sufficiente la conoscenza della forma
capitalistica della produzione, dello scambio e della
distribuzione. Si dovevano del pari indagare e raffrontare, almeno
nelle loro grandi linee, le forme che l'hanno preceduta o che
è accaduto ad essa sussistono ancora in paesi meno
sviluppati. Un'indagine e un raffronto siffatti sono stati sinora
compiuti nel loro complesso solo da Marx e perciò dobbiamo
anche quasi esclusivamente alle sue ricerche ciò che sinora
è stato stabilito sulla teoria dell'economia politica
preborghese.
Malgrado sia sorta in alcune menti geniali del secolo XVII,
l'economia politica in senso stretto, nella formulazione fatta dai
fisiocratici e da Adam Smith, è essenzialmente figlia del
secolo XVIII e si allinea alle conquiste dei grandi illuministi
francesi contemporanei, con tutti i pregi e i difetti di
quell'epoca. Ciò che abbiamo detto per gli illuministi vale
anche per gli economisti del tempo. La nuova scienza non era per
loro l'espressione dei rapporti e dei bisogni della loro epoca, ma
l'espressione della ragione eterna; le leggi della produzione e
dello scambio da essa scoperte non erano leggi di una forma
storicamente determinata di quelle attività, ma leggi
naturali eterne; esse venivano dedotte dalla natura dell'uomo. Ma
quest'uomo, esaminato più da vicino, era il borghese medio
del tempo, nella sua fase di transizione al borghese moderno, e la
sua natura consisteva nel produrre e nel commerciare nei rapporti
storicamente determinati di quel tempo.
Dopo avere sufficientemente appreso dalla Filosofia chi sia il
nostro "fondatore critico", Dühring, e che cosa sia il suo
metodo, potremo predire senza difficoltà anche il modo con
cui costui concepirà l'economia politica. Nella Filosofia,
tranne laddove vaneggiava semplicemente (come nella filosofia
della natura), la sua maniera di vedere le cose era una caricatura
di quella del XVIII secolo. Non si trattava di leggi dello
sviluppo storico, ma di leggi di natura, di verità eterne.
Relazioni sociali, quali la morale e il diritto, erano determinate
non in base alle condizioni storicamente presenti in ogni periodo,
ma dai due famosi uomini dei quali l'uno o sottometteva l'altro o
non lo sottometteva, caso, quest'ultimo, che disgraziatamente
sinora non si è mai dato. Ci inganneremo dunque solo di
poco se trarremo la conclusione che Dühring ridurrà
parimenti l'economia a verità definitive di ultima istanza,
a leggi naturali eterne, ad assiomi tautologici di una desolante
mancanza di contenuto, ma che accanto a tutto questo
reintrodurrà di contrabbando, facendolo passare per la
porticina di servizio, tutto il contenuto positivo dell'economia,
sin dove gli è noto; e che non farà sorgere la
distribuzione, come fatto sociale, dalla produzione e dallo
scambio, ma la rinvierà ai suoi famosi due uomini
perché la sbrighino definitivamente. E poiché tutti
questi artifici sono per noi vecchie conoscenze, tanto più
qui potremo essere brevi.
In effetti Dühring ci dichiara già a pagina 2 [74] che
la sua Economia si riferisce a ciò "che è stato
stabilito" nella sua Filosofia e che si "appoggia in certi punti
essenziali a verità di ordine superiore ormai fissate in un
campo più elevato di indagine". Dappertutto lo stesso
importuno autoincensamento. Dappertutto il trionfo di Dühring
su ciò che Dühring ha stabilito e fissato. Fissato in
effetti, l'abbiamo visto in lungo e in largo... ma come si fissa
il coperchio di una bara [75].
Subito dopo abbiamo "le più generali leggi di natura di
tutta l'economia"... avevamo dunque proprio indovinato. Ma queste
leggi di natura non permettono una giusta intelligenza della
storia passata se non allorché
"le si indaghino in quella determinazione più prossima che
i loro risultati hanno subito per opera delle forme politiche
dell'assoggettamento e del raggruppamento. Istituzioni politiche
quali la schiavitù e la servitù salariale, alla
quale si associa, come loro gemella, la proprietà fondata
sulla violenza, devono considerarsi come forme istituzionali
economico-sociali di natura puramente politica: esse formano, nel
mondo quale è sinora, la cornice entro la quale soltanto si
son potuti manifestare gli effetti di leggieconomiche naturali".
Questa frase è la fanfara che come un Leitmotiv [76]
wagneriano ci annuncia l'avvicinarsi dei famosi due uomini. Ma
è ancora di più: il tema fondamentale di tutto il
libro di Dühring. Nel diritto Dühring non ci ha saputo
offrire altro che una cattiva traduzione socialista della teoria
egualitaria di Rousseau, tale che da anni se ne possono sentire di
molto migliori in ogni ritrovo operaio parigino. Qui egli ci
dà una non migliore traduzione socialista delle querimonie
degli economisti sulla falsificazione delle leggi economiche
naturali eterne e dei loro effetti, dovuta all'ingerenza dello
Stato, della violenza. E con ciò egli sta meritatamente del
tutto solo tra i socialisti. Ogni operaio socialista, senza
differenza, qualunque sia la sua nazionalità, sa benissimo
che la violenza non fa che proteggere lo sfruttamento ma non lo
causa; che la base del suo sfruttamento è il rapporto tra
capitale e lavoro salariato e che questo è sorto per via
puramente economica e niente affatto per via di violenza.
Ora ci si dice in tutte lettere che in ogni questione economica
"si potranno distinguere due processi, quello della produzione e
quello della distribuzione"; inoltre che il noto e superficiale J.
B. Say ha aggiunto ancora un terzo processo, quello dell'uso, del
consumo, ma non ha saputo dire niente di sensato, come niente di
sensato ne hanno saputo dire i suoi successori. Ma lo scambio, o
circolazione, sarebbe solo una sottodivisione della produzione,
alla quale appartiene tutto ciò che deve avere luogo
perché i prodotti arrivino agli ultimi ed effettivi
consumatori. Se Dühring confonde i due processi della
produzione e della circolazione, essenzialmente distinti anche se
interdipendenti, e afferma senza scomporsi che evitando quella
confusione può solo "sorger confusione", con ciò
dimostra semplicemente di non conoscere o di non intendere
l'enorme sviluppo che proprio la circolazione ha percorso negli
ultimi cinquanta anni, ciò che del resto è anche
confermato nel seguito del suo libro. Ma non basta. Dopo aver
semplicemente fuso in un tutto unico, come produzione, la
produzione e lo scambio, pone accanto alla produzione la
distribuzione, come un secondo processo completamente esteriore,
che col primo non ha assolutamente niente a che fare. Noi abbiamo
visto che la distribuzione, nelle sue linee decisive, è di
volta in volta il risultato necessario dei rapporti di produzione
e di scambio di una società determinata, nonché
delle condizioni storiche preliminari di questa società, e
precisamente abbiamo esposto il concetto che se conosciamo questi
rapporti e queste condizioni, possiamo con precisione trarre le
conclusioni sul modo di distribuzione vigente in questa
società. Ma vediamo del pari che Dühring, se non vuole
diventare infedele ai principi "stabiliti" nella sua concezione
della morale, del diritto e della storia, deve negare questi fatti
economici elementari, e specialmente deve negarli se gli tocca di
introdurre di contrabbando nell'economia i suoi indispensabili due
uomini. E una volta che la distribuzione si è felicemente
sbarazzata di ogni nesso con la produzione e lo scambio,
può aver luogo il grande evento.
Richiamiamoci per intanto alla memoria come la cosa si è
svolta per la morale e per il diritto. Qui Dühring cominciava
originariamente con un uomo solamente e diceva:
"Un uomo in quanto sia pensato come singolo o, ciò che fa
lo stesso, come fuori di ogni nesso con gli altri, non può
avere doveri. Per lui non c'è un dovere, ma solo un
volere".
Ma che cos'altro è quest'uomo che viene pensato come privo
di doveri, come singolo, se non un fastidioso "ebreo primigenio
Adamo" nel paradiso terrestre, dove è senza peccati
perché non può commetterne? Ma anche su questo Adamo
della filosofia della realtà incombe la caduta nel peccato.
Accanto a questo Adamo compare improvvisamente, non certo un'Eva
dall'ondeggiante chioma ricciuta. Ma un secondo Adamo ancora. E
subito Adamo ha dei doveri e... li respinge. Invece di considerare
suo fratello come pari a lui nei diritti e stringerselo al seno,
lo sottomette al suo dominio, lo asservisce... e delle conseguenze
di questo primo peccato, del peccato originale dell'asservimento,
soffre tutta la storia universale sino al giorno d'oggi, e per
questo per Dühring essa non vale neanche un quattrino.
Se dunque Dühring, diciamolo incidentalmente, ha creduto di
aver sufficientemente abbandonato al disprezzo la "negazione della
negazione", caratterizzandola come brutta copia della vecchia
storia del peccato originale e della redenzione, che cosa dobbiamo
dire allora della sua recentissima edizione della stessa teoria?
(Infatti col tempo "ci approssimeremo", per servirci di
un'espressione da rettili [77], anche alla redenzione.) In ogni
caso è pur certo che noi preferiamo la vecchia leggenda
tribale semitica nella quale per il maschio e per la femmina
valeva pur la pena di uscire dallo stato di innocenza, e che a
Dühring resterà incontestata la gloria di
avercostruito il suo peccato originale con due maschi.
Sentiamo dunque la traduzione del peccato originale in termini
economici:
"All'idea della produzione può in ogni caso dare uno schema
ideale appropriato il rappresentare un Robinson che con le sue
forze sta di fronte alla natura, isolato e non ha niente da
spartire con nessuno (...) Parimente opportuno per rendere
evidente ciò che vi è di più essenziale
nell'idea della distribuzione è lo schema ideale di due
individui le cui forze economiche si combinano e che devono
evidentemente in qualche forma intendersi l'un l'altro per quel
che si riferisce alle loro quote. Non occorre in effetti
più di questo semplice dualismo per rappresentare con ogni
rigore alcuni dei più importanti rapporti distributivi e
per studiare embrionalmente le leggi nella loro necessità
logica (...) Qui si può pensare egualmente tanto alla
cooperazione su un piede di eguaglianza quanto alla combinazione
delle forze mediante l'oppressione completa di una delle parti,
che poi viene costretta a servigi di natura economica come schiava
o semplice strumento, e proprio solo come strumento viene anche
mantenuta (...) Tra lo stato di eguaglianza e di nullità da
una parte e quello di onnipotenza e di partecipazione unilaterale
attiva dall'altra, si trova una serie di casi ad occupare le quali
hanno provveduto con ricca varietà gli eventi della storia
universale. Una visione universale delle diverse istituzioni
storiche della giustizia e dell'ingiustizia è qui il
presupposto essenziale (...)"
e, per concludere, tutta la distribuzione si trasforma in una
"sistemazione giuridica dei rapporti economici della
distribuzione".
Ora finalmente Dühring poggia di nuovo i piedi sulla terra
derma. A braccetto coi suoi due uomini può sfidare il suo
secolo. Ma dietro a questa trinità c'è ancora un
Innamorato.
"Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte
della società possegga il monopolio dei mezzi di
produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al
tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro
eccedente per produrre il sostentamento per il possessore dei
mezzi di produzione, sia questo proprietario caloVcagaouV [bello e
buono, cioè nobile] ateniese, teocrate etrusco, civis
romanus" (cittadino romano), "barone normanno, negriero americano,
boiardo valacco, proprietario agrario moderno o capitalista"
(Marx, "Capitale", I, seconda edizione, pag. 227.) [78].
Dopo avere appreso in questo modo che cosa sia la forma
fondamentale dello sfruttamento comune a tutte le forme di
produzione esistite fino ad oggi, nella misura in cui si muovono
sul piano degli antagonismi di classe, a Dühring restava solo
da applicarvi i suoi due uomini e la base dell'economia della
realtà, che si profonda sino alle radici, sarebbe stata
pronta. Ed egli non ha esitato neppure un momento a dare
esecuzione a questa "idea che crea un sistema". Lavoro senza
contropartita, oltre il tempo di lavoro necessario al mantenimento
dell'operaio: è questo il punto. L'Adamo che qui si chiama
Robinson fa sgobbare senza tregua il suo secondo Adamo,
Venerdì. Ma perché dunque Venerdì sgobba
più di quanto è necessario per il suo mantenimento?
Anche questa questione trova parzialmente la sua risposta in Marx.
Ma questa risposta è troppo lunga per i due uomini. La cosa
viene liquidata in breve: Robinson "opprime" Venerdì, lo
costringe "come schiavo o strumento a servigi economici" e lo
mantiene "anche, solo come strumento". Con questa novissima
"svolta creatrice", Dühring, per così dire, prende due
piccioni con una fava. Anzitutto si risparmia la fatica di
spiegare le diverse forme sinora assunte dalla distribuzione, le
loro differenze e le loro cause: tutte queste insieme non valgono
assolutamente niente, poggiano tutte sull'oppressione, sulla
violenza. Avremo da parlarne tra breve. E in secondo luogo
trasferisce così tutta la teoria della distribuzione dal
campo economico a quello della morale e del diritto, cioè
dal campo dei fatti materiali che sono ben saldi, a quello delle
opinioni e dei sentimenti che più o meno oscillano. Quindi
non ha più bisogno di indagare o di dimostrare, ma solo di
continuare allegramente a declamare senza tregua e può
esigere che la distribuzione dei prodotti del lavoro non si regoli
secondo le sue cause reali, ma secondo ciò che a lui,
Dühring, appare morale e giusto. Ma ciò che a
Dühring appare giusto non è affatto immutabile e
quindi è molto lontano dall'essere una verità
autentica. Infatti queste verità sono proprio, secondo lo
stesso Dühring, "in generale immutabili". Nell'anno 1868
Dühring affermava ("I destini del mio memoriale sociale
ecc.") che è
"nella tendenza di ogni civiltà superiore il dare un
carattere sempre più netto alla proprietà e che qui
e non in una confusione dei diritti e delle sfere della
sovranità risiedono l'essenza e l'avvenire dello sviluppo
moderno". E affermava inoltre che non poteva assolutamente
concepire "come una trasformazione del lavoro salariato in
un'altra forma di guadagno avesse mai a conciliarsi con le leggi
della natura umana e dell'organizzazione per sua natura necessaria
del corpo sociale".
Quindi nel 1868 proprietà privata e lavoro salariato sono
necessari per natura e perciò giusti; nel 1876 [79] sono
entrambi conseguenza della violenza e della "rapina" e quindi
ingiusti. E non possiamo assolutamente sapere che cosa, a distanza
di qualche anno, potrà sembrare morale e giusto ad un genio
così possentemente impetuoso nel suo dire e perciò,
in ogni caso, faremo meglio, nella nostra trattazione della
distribuzione delle ricchezze, ad attenerci alle leggi economiche
reali ed obiettive e non all'idea, momentanea, mutevole,
soggettiva di Dühring, di ciò che è giusto e di
ciò che è ingiusto.
Se dell'imminente rovesciamento dell'odierna distribuzione dei
prodotti del lavoro con i suoi stridenti contrasti di miseria e di
fasto, di fame e di gozzoviglia, non avessimo certezza migliore
della coscienza che questo modo di produzione è ingiusto e
che finalmente il diritto deve pur trionfare un giorno, le nostre
cose andrebbero male e noi potremmo aspettare un pezzo. I mistici
medievali che sognavano del regno millenario che si
avvicinava,avevano già la coscienza dell'ingiustizia degli
antagonismi delle classi. Alle soglie della storia moderna,
trecentocinquanta anni fa, Thomas Münzer lo proclamò
alto nel mondo. Nella rivoluzione borghese inglese come in quella
francese risuona lo stesso grido e... si spegne. E se oggi lo
stesso grido che invoca l'abolizione degli antagonismi e delle
differenze delle classi e che fino al 1830 lasciava fredde le
classi lavoratrici e sofferenti, se oggi questo grido trova un'eco
in milioni di voci, se conquista un paese dopo l'altro e
precisamente nello stesso ordine e con la stessa intensità
con cui nei singoli paesi si sviluppa la grande industria, se nel
tempo di una generazione umana ha conquistato una potenza tale da
potere affrontare tutte le potenze riunite contro di esso ed
essere certo della vittoria in un prossimo futuro: da dove
proviene tutto ciò? Dal fatto che la grande industria
moderna ha creato da una parte un proletariato, una classe che per
la prima volta nella storia può porre l'esigenza
dell'abolizione non di questa o di quella particolare
organizzazione di classe, o di questo o di quel privilegio
particolare di classe, ma delle classi in generale, e che è
messa nella condizione di dovere fare trionfare tale esigenza
sotto pena di sprofondare nella condizione del coolie [facchino]
cinese. E dal fatto che la stessa grande industria, dall'altra
parte, ha creato nella borghesia una classe che possiede il
monopolio di tutti i mezzi di produzione e i mezzi di sussistenza,
ma che, in ogni periodo di ascesa vertiginosa e in ogni crisi che
lo segue, dimostra di essere incapace di dominare ancora in
avvenire le forze produttive che, crescendo, sono sfuggite al suo
potere; una classe sotto la cui guida la società corre
verso la rovina, come una locomotiva il cui macchinista è
troppo debole per aprire le valvole di sicurezza che si sono
bloccate. In altri termini proviene dal fatto che sia le forze
produttive create dal moderno modo di produzione capitalistico,
sia anche il sistema di distribuzione dei beni da esso creato,
sono caduti in flagrante contraddizione con quello stesso modo di
produzione e precisamente in tal modo che, a meno che tutta la
società moderna debba andare in rovina, deve aver luogo un
rivoluzionamento del modo di produzione e di distribuzione che
elimini tutte le differenze di classe. Su questo fatto materiale,
tangibile, che, in una forma più o meno chiara, ma con
necessità irresistibile, si oppone alla mente dei proletari
sfruttati, su questo fatto e non sulle idee che questo o quel
filosofo in pantofole hanno del giusto e dell'ingiusto, si fonda
la certezza di vittoria del socialismo moderno.
"Il rapporto tra la politica generale e le formazioni giuridiche
dell'economia è determinato nel mio sistema in una maniera
così precisa e ad un tempo così originale, che non
sarebbe superfluo, per facilitarne lo studio, un richiamo
particolare a questo punto. La formazione delle relazioni
politiche è il fatto storico fondamentale ed i fatti
economici che ne dipendono sono soltanto un effetto o un caso
speciale e perciò sono sempre fatti di second'ordine.
Alcuni moderni sistemi socialisti prendono come loro principio
direttivo l'idea, in apparenza evidentissima, di un rapporto
assolutamente inverso, facendo nascere e svilupparsi dalle
condizioni economiche le derivazioni politiche. Ora, questi
effetti di second'ordine sono, certo, esistenti in quanto tali e
al presente sono massimamente sensibili; ma il fatto primitivo
è da ricercarsi nella violenza politica immediata e non
solamente in un'indiretta potenza economica."
Parimente in un altro passo in cui Dühring
"parte dal principio che le condizioni politiche siano la causa
decisiva dell'ordine economico e che il rapporto inverso
rappresenti solo una reazione di second'ordine (...) sino a quando
il raggruppamento politico non sia preso per se stesso come punto
di partenza, ma lo si consideri esclusivamente come un mezzo che
ha per fine il procacciarsi da mangiare, per socialisti radicali e
rivoluzionari che si appaia, si sarà sempre in larga misura
dei reazionari travestiti".
Questa è la teoria di Dühring. Essa viene qui e in
molti altri paesi semplicemente enunciata e, per così dire,
decretata. Di un benché minimo tentativo di dimostrazione o
di confutazione del punto di vista opposto, non si fa parola in
nessun luogo di questi tre grossi volumi. Dühring non ci
darebbe un argomento neanche se gli argomenti fossero a buon
mercato come le more [80]. La cosa è già stata ormai
dimostrata dal famoso peccato originale, allorché Robinson
asservì Venerdì. Fu quello un atto di violenza,
quindi un atto politico. E poiché questo asservimento
costituisce il punto di partenza e il fatto fondamentale di tutta
la storia svoltasi sinora e le inocula la colpa ereditaria
dell'ingiustizia, di guisa che questo asservimento nei periodi
seguenti è stato solo attenuato e "trasformato in forme
più indirette di dipendenza economica"; e poiché su
questo asservimento primitivo poggia del pari tutta la
"proprietà privata sulla violenza" rimasta vigente sinora,
è chiaro che tutti i fenomeni economici si devono spiegare
partendo da cause politiche, cioè dalla violenza. E colui
al quale ciò non basta è un reazionario travestito.
Notiamo anzitutto che bisogna essere innamorati di se stessi non
meno di quanto lo sia Dühring, per ritenere "originale"
questa opinione che originale non è affatto. L'idea che i
drammoni politici siano l'elemento decisivo della storia è
antica quanto la stessa storiografia ed è la causa
principale del fatto che tanto poco ci sia stato conservato di
ciò che riguarda lo sviluppo realmente progressivo dei
popoli, che si compie silenziosamente nello sfondo di questa scena
rumorosa. Questa idea ha dominato tutta la passata concezione
della storia e ha ricevuto un primo colpo dagli storici borghesi
della Francia del tempo della Restaurazione [81]; "originale" qui
è soltanto il fatto che, di tutto questo, Dühring
ancora una volta non sappia niente.
Inoltre, se per un istante ammettiamo che Dühring abbia
ragione nel dire che tutta la storia che sinora si è svolta
si possa ridurre all'asservimento dell'uomo da parte dell'uomo,
con ciò siamo ancora molto lontani dall'aver toccato il
fondo della cosa. Ciò che anzitutto ci si chiede è
invece come Robinson sia arrivato ad asservire Venerdì. Per
il semplice piacere di asservirlo? Assolutamente no! Vediamo
invece che Venerdì "come schiavo o semplice strumento viene
costretto a servigi economici e precisamente come strumento viene
anche mantenuto". Robinson ha asservito Venerdì solo
perché Venerdì lavori a profitto di Robinson. E come
può Robinson trarre un profitto per sé dal lavoro di
Venerdì? Solo per il fatto che Venerdì produce col
suo lavoro più mezzi di sussistenza di quanto gliene debba
dare Robinson perché resti atto al lavoro. Robinson quindi,
contrariamente all'esplicita prescrizione di Dühring, "non ha
preso per se stesso come punto di partenza" il "raggruppamento
politico" sorto con l'asservimento di Venerdì, "ma lo ha
considerato esclusivamente come un mezzo che ha per fine il
procacciarsi da mangiare", ed ora veda egli stesso il modo di
sbrigarsela col suo signore e padrone Dühring.
L'esempio puerile che Dühring ha inventato espressamente per
dimostrare che la violenza è il "fatto fondamentale della
storia", dimostra solo che la violenza è solo il mezzo e
che il fine invece è il vantaggio economico. Quanto il fine
è "più fondamentale" del mezzo che si impiega per
raggiungerlo, tanto più fondamentale è nella storia
il fatto economico del rapporto, di fronte al lato politico.
L'esempio prova dunque precisamente il contrario di ciò che
doveva provare. E come per Robinson e Venerdì, così
è per tutti i casi di dominio e servitù che si sono
avuti sinora. Il soggiogamento è stato sempre, per usare
l'elegante modo di esprimersi di Dühring, un "mezzo che ha
per fine il procacciarsi da mangiare" (preso questo procacciarsi
da mangiare nel senso più lato), ma mai e in nessun luogo
un raggruppamento politico instaurato "per amore del
raggruppamento politico stesso". Bisogna essere Dühring per
poter pensare che nello stato le imposte siano solo "effetti di
second'ordine" o che il raggruppamento politico odierno di
borghesia dominante e proletariato dominato esiste "per amore del
raggruppamento politico stesso" e non in vista del "fine di
procurarsi da mangiare" della borghesia dominante, cioè in
vista del profitto e dell'accumulazione del capitale.
Ritorniamo pertanto ancora una volta ai nostri due uomini.
Robinson, "la spada in pugno", ha fatto di Venerdì il suo
schiavo. Ma per riuscire a questo, Robinson ha bisogno di qualche
altra cosa oltre una spada. Non è da tutti possedere uno
schiavo. Per potersene servire bisogna avere a disposizione due
cose: in primo luogo gli strumenti e gli oggetti per il lavoro
dello schiavo ed in secondo luogo i mezzi necessari per il suo
mantenimento. Quindi, prima che la schiavitù diventi
possibile bisogna che sia raggiunto un certo livello nella
produzione e che sia comparso un certo grado di disuguaglianza
nella distribuzione. E perché il lavoro degli schiavi
diventi il modo di produzione dominante di tutta la
società, occorre un incremento ancora maggiore della
produzione, del commercio e dell'accumulazione della ricchezza.
Nelle antiche comunità naturali con proprietà comune
del suolo, la schiavitù o non compare affatto o ha solo una
parte di second'ordine. Così era nella Roma primitiva,
città contadina; quando invece Roma divenne "città
universale", e la proprietà fondiaria degli italici cadde
sempre maggiormente nelle mani di una classe poco numerosa di
proprietari enormemente ricchi, allora la popolazione contadina fu
soppiantata da una popolazione di schiavi. Se al tempo delle
guerre persiane il numero degli schiavi salì a Corinto a
460.000, a Egina a 470.000 e su ogni membro della popolazione
libera c'erano diecischiavi [82], ciò implicava qualche
cosa di più ancora della "violenza"; implicava un'industria
artistica e artigiana altamente sviluppata e un commercio estero.
La schiavitù negli Stati Uniti d'America era fondata molto
meno sulla violenza che sull'industria cotoniera inglese; in quei
distretti in cui non cresceva il cotone o che non esercitavano,
come gli Stati confinanti, l'allevamento di schiavi per gli Stati
cotonieri, la schiavitù si estinse da se stessa senza uso
di violenza, semplicemente perché non era remunerativa.
Se dunque Dühring chiama la proprietà moderna
proprietà fondata sulla violenza e la caratterizza come
"quella forma di dominio che ha a suo fondamento non già
semplicemente un'esclusione del prossimo dall'uso dei mezzi
naturali di sussistenza, ma anche, ciò che è molto
più significativo, il soggiogamento dell'uomo in
servitù",
così facendo rovescia tutto quanto il rapporto. Il
soggiogamento dell'uomo in servitù in tutte le sue forme
presuppone che colui che soggioga disponga dei mezzi di lavoro
mediante i quali soltanto egli può impiegare l'asservito e,
nel caso della schiavitù, che disponga inoltre anche dei
mezzi di sussistenza con i quali solamente può mantenere in
vita lo schiavo. In ogni caso, quindi, presuppone già il
possesso di un certo patrimonio superiore alla media. Come
è sorto questo patrimonio? È certo chiaro in ogni
caso che è possibile che esso sia frutto di rapina e che
quindi poggi sulla violenza, ma ciò non è affatto
necessario. Può essere stato ottenuto col lavoro, col
furto, col commercio, con la frode. Anzi, prima che possa essere
rubato, in generale è necessario che esso sia stato
ottenuto col lavoro.
In generale la proprietà privata non appare affatto nella
storia come risultato della rapina e della violenza. Al contrario.
Essa sussiste già, anche se limitatamente a certi soggetti,
nella comunità primitiva naturale di tutti i popoli civili.
Già entro questa comunità essa si sviluppa, dapprima
nello scambio con stranieri, assumendo la forma di merce. Quanto
più i prodotti della comunità assumono forma di
merci, cioè quanto meno vengono prodotti da essa per l'uso
personale del produttore e quanto più vengono prodotti per
il fine dello scambio, quanto più lo scambio soppianta,
anche all'interno della comunità, la primitiva divisione
naturale del lavoro, tanto più diseguali divengono le
fortune dei singoli membri della comunità, tanto più
profondamente viene minato l'antico possesso comune del suolo,
tanto più rapidamente la comunità si spinge verso la
sua dissoluzione e la sua trasformazione in un villaggio di
contadini parcellari. Per secoli il dispotismo orientale e il
domino mutevole di popoli nomadi conquistatori non poterono
intaccare queste antiche comunità; le porta sempre
più a dissoluzione la distruzione graduale della loro
industria domestica naturale operata dalla concorrenza dei
prodotti della grande industria. Così poco si può
parlare qui di violenza, come se ne può parlare per la
sparizione che avviene anche oggi dei campi posseduti in comune
dalle "Gehöferschaften" [comunità di villaggio] sulla
Mosella o nello Hochwald; i contadini trovano che è
precisamente nel loro interesse che la proprietà privata
del campo subentri alla proprietà comune. Anche la
formazione di un'aristocrazia naturale, quale si ha nei celti, nei
germani e nel Punjab basata sulla proprietà comune del
suolo, in un primo tempo non poggiò affatto sulla violenza,
ma sul consenso e sulla consuetudine. Dovunque si costituisce la
proprietà privata, questo accade in conseguenza di mutati
rapporti di produzione e di scambio, nell'interesse dell'aumento
della produzione e dell'incremento del traffico: quindi per cause
economiche. La violenza qui non ha assolutamente nessuna parte.
È pur chiaro che l'istituto della proprietà privata
deve già sussistere prima che il predone possa appropriarsi
l'altrui bene; che quindi la violenza può certo modificare
lo stato di possesso, ma non produrre la proprietà privata
come tale.
Ma anche per spiegare "il soggiogamento dell'uomo allo stato
servile" nella sua forma più moderna, cioè nel
lavoro salariato, non possiamo servirci né della violenza,
né della proprietà fondata sulla violenza. Abbiamo
già fatto menzione della parte che, nella dissoluzione
delle antiche comunità, e quindi nella generalizzazione
diretta o indiretta della proprietà privata, rappresenta la
trasformazione dei prodotti del lavoro in merci, la loro
produzione non per il consumo proprio, ma per lo scambio. Ma ora
Marx ha provato con evidenza solare nel "Capitale", e Dühring
si guarda bene dal riferirvisi sia pure con una sola sillaba, che
ad un certo grado di sviluppo la produzione di merci si trasforma
in produzione capitalistica, e che in questa fase
"la legge dell'appropriazione poggiante sulla produzione e sulla
circolazione delle merci ossia legge della proprietà
privata si converte direttamente nel proprio diretto opposto, per
la sua propria, intima, inevitabile dialettica. Lo scambio di
equivalenti che pareva essere l'operazione originaria si è
rigirato in modo che ora si fanno scambi solo per l'apparenza in
quanto, in primo luogo, la quota di capitale scambiata con
forza-lavoro è essa stessa solo una parte del prodotto
lavorativo altrui appropriato senza equivalente, e, in secondo
luogo, essa non solo deve essere reintegrata dal suo produttore,
l'operaio, ma deve essere reintegrata come un nuovo
sovrappiù (...) Originariamente il diritto di
proprietà ci si è presentato come fondato sul
rapporto di lavoro (...) Adesso" (alla fine del suo sviluppo dato
da Marx) "la proprietà si presenta, dalla parte del
capitalista come diritto di appropriarsi lavoro altrui non
retribuito ossia il prodotto di esso, e dalla parte dell'operaio
come impossibilità di appropriarsi il proprio prodotto. La
separazione tra proprietà e lavoro diventa conseguenza
necessaria di una legge che in apparenza partiva dalla loro
identità" [83].
In altri termini: anche se escludiamo la possibilità di
ogni rapina, di ogni atto di violenza, di ogni imbroglio, se
ammettiamo che tutta la proprietà privata originariamente
poggia sul lavoro proprio del possessore, e che in tutto il
processo ulteriore vengano scambiati solo valori eguali con valori
eguali, tuttavia, con lo sviluppo progressivo della produzione e
dello scambio, arriviamo necessariamente all'attuale modo di
produzione capitalistico, alla monopolizzazione dei mezzi di
produzione e di sussistenza nelle mani di una sola classe poco
numerosa, alla degradazione dell'altra classe, che costituisce
l'enorme maggioranza, a classe di proletari pauperizzati,
arriviamo al periodico affermarsi di produzione vertiginosa e di
crisi commerciale e a tutta l'odierna anarchia della produzione.
Tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche
senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della
rapina, della violenza, dello Stato, o di qualsiasi interferenza
politica. La "proprietà fondata sulla violenza" si dimostra
qui semplicemente come una frase da spaccone destinata a coprire
la mancanza di intelligenza dello svolgimento reale delle cose.
Questo svolgimento, espresso storicamente, è la storia
dello sviluppo della borghesia. Se le "condizioni politiche sono
la causa decisiva dell'ordine economico", è d'uopo che la
borghesia moderna non si sia sviluppata in lotta col feudalesimo,
ma sia la sua diletta creatura, da esso volontariamente generata.
Ognuno sa che è accaduto il contrario. Originariamente ceto
oppresso, tributario della nobiltà feudale, reclutato tra i
villani e i servi della gleba di ogni genere, la borghesia, con
una lotta incessante contro la nobiltà, le ha strappato un
posto di comando dopo l'altro, e finalmente, nei paesi più
sviluppati, ha preso possesso del potere soppiantandola; in
Francia rovesciandola direttamente, in Inghilterra imborghesendola
sempre più e incorporandosela come suo proprio fastigio
ornamentale. E come è riuscita a far questo? Unicamente
attraverso un cambiamento dell'"ordine economico", cui
seguì, presto o tardi, spontaneamente o mediante la lotta,
un cambiamento delle condizioni politiche. La lotta della
borghesia contro la nobiltà feudale è la lotta della
città contro la campagna, dell'industria contro la
proprietà terriera, dell'economia monetaria contro
l'economia naturale, e in questa lotta l'arma decisiva dei
borghesi fu la loro potenza economica costantemente crescente
mediante lo sviluppo dell'industria, prima artigiana, poi,
progressivamente, manifatturiera, e mediante l'estensione del
commercio. Durante tutta questa lotta la violenza politica stette
dalla parte della nobiltà, ad eccezione di un periodo in
cui il potere regio si servì della borghesia contro la
nobiltà per tenere in scacco un ceto mediante l'altro; ma
dal momento in cui la borghesia, politicamente ancora sempre
impotente, grazie alla sua crescente potenza economica,
cominciò a diventare pericolosa, la monarchia si
legò di nuovo con la nobiltà e così, prima in
Inghilterra e poi in Francia, provocò la rivoluzione della
borghesia. Le "condizioni politiche" in Francia erano rimaste
immutate, mentre l'"ordine economico" nel suo sviluppo le aveva
sorpassate. Quanto alla condizione politica il nobile era tutto e
il borghese nulla; quanto alla condizione sociale, il borghese
rappresentava ora la classe più importante dello Stato,
mentre il nobile aveva perduto tutte le sue funzioni sociali, e
solo nelle sue rendite continuava ad incassare la retribuzione di
queste funzioni scomparse. Ma questo non basta: la borghesia, in
tutta la sua produzione, era rimasta stretta nella morsa delle
forme politiche feudali del medioevo superate da lungo tempo dallo
sviluppo di questa produzione, non solo dalla manifattura, ma
anche dall'artigianato: tutti i mille privilegi corporativi e le
barriere doganali locali e provinciali, diventati, gli uni e le
altre, semplici angherie e ceppi per la produzione. La rivoluzione
della borghesia mise fine a tutto questo. Ma solo perché
essa, secondo il principio di Dühring, adattasse la
situazione dell'economia alle condizioni politiche, cosa che,
invero, nobiltà e monarchia avevano invano tentato per
anni, ma invece perché gettò da una parte il vecchio
e ammuffito ciarpame politico e creò condizioni politiche
nelle quali il nuovo "ordine economico" poteva esistere e
svilupparsi. Ed in questa atmosfera politica e giuridica ad essa
confacente, la borghesia si è sviluppata splendidamente,
tanto splendidamente che ormai non è molto lontana da
quella posizione che la nobiltà occupava nel 1789: essa
diventa sempre più non solo socialmente superflua, ma un
ostacolo sociale; si allontana sempre più
dall'attività produttiva e diventa sempre più, come
ai suoi tempi la nobiltà, una classe che semplicemente
intasca rendite; e questo rovesciamento della sua propria
posizione e la reazione di una nuova classe, il proletariato, essa
lo ha compiuto per via puramente economica, senza nessun
intervento cabalistico della violenza. E c'è di più.
Essa non ha affatto voluto questo risultato del suo operare che,
al contrario, si è affermato con forza irresistibile contro
la volontà e contro l'intenzione della borghesia, le cui
forze produttive si sono sottratte al suo controllo, e spingono,
come se fossero mosse da necessità naturale, tutta la
società borghese alla rovina o al rovesciamento. E se la
borghesia fa ora appello alla violenza per preservare dal crollo
l'"ordine economico" che va in rovina, con ciò prova solo
che essa è schiava della stessa illusione di Dühring,
di potere, con l'"elemento primitivo", con la "violenza politica
immediata", trasformare quelle "cose di second'ordine", quali
l'ordine economico e il suo sviluppo ineluttabile, e quindi a sua
volta cacciar via dal mondo, con i cannoni di Krupp ed i fucili di
Maser, le conseguenze economiche della macchina a vapore e del
meccanismo che essa mette in moto, del commercio mondiale e
dell'odierno sviluppo bancario e creditizio.
Consideriamo però un po' più da vicino questa
onnipotente "violenza" di Dühring. "La spada in pugno",
Robinson asservisce Venerdì. Dove ha preso la spada?
Neanche nelle isole fantastiche delle imprese robinsoniane le
spade sinora crescono sugli alberi, e Dühring resta debitore
di una risposta qualsiasi a questa domanda. A Robinson era tanto
possibile procurarsi una spada quanto è possibile a noi il
supporre che un bel giorno Venerdì gli possa apparire con
un revolver carico in mano, nel qual caso tutto il rapporto di
"violenza" si rovescia: Venerdì comanda e Robinson deve
sgobbare. Chiediamo scusa al lettore se ritorniamo con tutta
questa insistenza alla storia di Robinson e Venerdì, che
propriamente è più al suo posto in un giardino di
infanzia anziché nella scienza, ma che possiamo farci?
Siamo costretti ad applicare coscienziosamente il metodo
assiomatico di Dühring e non è colpa nostra se
così ci muoviamo nell'ambito della puerilità pura e
semplice. Dunque il revolver ha la meglio sulla spada e questo
fatto farà comprendere, malgrado tutto, anche al più
puerile assertore di assiomi che la violenza non è un
semplice atto di volontà, ma che esige per manifestarsi
condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti, di cui
il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto; che questi
strumenti devono inoltre essere prodotti, il che dice ad un tempo
che il produttore di più perfetti strumenti di violenza,
vulgo armi, vince il produttore di strumenti meno perfetti e che,
in una parola, la vittoria della violenza poggia sulla produzione
di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale,
quindi sulla "potenza economica", sull'"ordine economico", sui
mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza.
La violenza, al giorno d'oggi, è rappresentata
dall'esercito e dalla marina da guerra, e l'uno e l'altra costano,
come tutti sappiamo a nostre spese, "una tremenda quantità
di denaro". Ma la violenza non può far denaro, può,
tutt'al più, portar via quello che è già
stato fatto, e anche questo non giova gran che, come abbiamo
sperimentato, anche questa volta a nostre spese, con i miliardi
francesi [84]. In ultima analisi, quindi, il denaro deve pur
essere fornito dalla produzione economica; la violenza dunque
è a sua volta una condizione dell'ordine economico che le
procura i mezzi per allestire e mantenere i suoi strumenti. Ma non
basta ancora. Nulla dipende dalle condizioni economiche
preesistenti quanto precisamente l'esercito e la marina.
Armamento, composizione, organizzazione, tattica, e strategia
dipendono innanzi tutto in ogni epoca dal livello raggiunto dalla
produzione e dalle comunicazioni. Qui hanno agito
rivoluzionarmente non le "libere creazioni dell'intelletto" di
comandanti geniali, ma le invenzioni di armi migliori e la
modificazione del materiale umano; nel migliore dei casi l'azione
esercitata dai comandanti geniali si limita ad adeguare la maniera
di combattere alle nuove armi e ai nuovi combattimenti [85].
All'inizio del secolo XIV venne dagli arabi agli europei
dell'occidente la polvere da sparo e, come ogni scolaretto sa,
rivoluzionò tutta l'arte della guerra. L'introduzione della
polvere da sparo e delle armi da fuoco non fu però in
nessun modo un atto di violenza, ma un progresso industriale e
quindi economico. L'industria rimane sempre industria, o che si
indirizzi alla produzione o che si indirizzi alla distribuzione di
oggetti. E l'introduzione delle armi da fuoco agì
rivoluzionariamente non solo sulla stessa arte della guerra, ma
anche sui rapporti politici di dominio e di servitù. Per
ottenere polvere e armi da fuoco occorrevano industria e denaro e
l'una e l'altro erano in possesso dei borghesi della città.
Da principio le armi da fuoco furono perciò armi delle
città e della monarchia che appoggiandosi alla città
si levava contro la nobiltà feudale. Le mura di pietra dei
castelli nobiliari, sino allora inespugnabili, soggiacquero ai
cannoni dei borghesi, le palle degli archibugi dei borghesi
attraversarono le corazze dei cavalieri. Assieme alle corazze dei
cavalieri della nobiltà cadde anche il dominio della
nobiltà; con lo sviluppo della borghesia, fanteria e
cannone divennero sempre più le armi decisive; costretta
dal cannone, l'arte militare dovette arricchirsi di una nuova
specialità completamente industriale: il genio.
Il perfezionamento delle armi da fuoco avvenne molto lentamente.
Il pezzo d'artiglieria rimase pesante e il moschetto, malgrado
molte invenzioni particolari, rimase rozzo. Passarono più
di trecento anni prima che si creasse un'arma adatta
all'equipaggiamento di tutta la fanteria. Solo sul principio del
XVIII secolo il fucile a pietra con baionetta eliminò
definitivamente la picca dall'equipaggiamento della fanteria. La
fanteria di allora era composta dai mercenari del principe,
marzialmente istruiti, ma assolutamente malfidi e tenuti insieme
dalla disciplina del bastone. Essi venivano reclutati tra gli
elementi più corrotti della società, e spesso tra i
prigionieri di guerra nemici arruolati a forza. La sola forma di
combattimento in cui questi soldati potevano utilizzare la nuova
arma era la tattica di linea che raggiunse il suo più alto
grado di perfezione sotto Federico II. Tutta la fanteria di un
esercito veniva disposta in modo da formare tre lati di un lungo
quadrilatero vuoto al centro e che si muoveva come formazione di
combattimento solo come un tutto: tutt'al più era concesso
ad una delle due ali di portarsi un po' più avanti o un po'
più indietro. Questa massa impacciata poteva muoversi in
formazione solo su un terreno assolutamente piano ed anche qui
solo con un andatura lenta (settantacinque passi al minuto); una
modificazione della formazione di combattimento, mentre l'azione
era in corso, era impossibile e la vittoria o la sconfitta veniva
decisa in breve tempo, in una sola battaglia, non appena la
fanteria veniva impegnata sulla linea del fuoco.
A queste linee impacciate si opposero, nella guerra di
indipendenza americana, le schiere di ribelli che, pur non sapendo
fare gli eserciti, sapevano però tirare meglio con le loro
carabine a canna rigida, che combattevano per i loro più
personali interessi, che quindi non disertavano come le truppe
mercenarie e che non facevano agli inglesi la gentilezza di muover
contro di loro alla stessa maniera, in linea e su un piano aperto,
ma procedevano in gruppi sciolti e rapidamente mobili di franchi
tiratori e al riapro dei boschi. La formazione in linea era qui
inefficiente e soggiaceva agli avversari, invisibili e
inafferrabili. Fu riscoperta la guerriglia, nuovo modo di
combattere dovuto ad un mutamento nel materiale umano.
Ciò che la rivoluzione americana aveva cominciato, fu
completato dalla Rivoluzione francese, anche nel campo militare.
La Rivoluzione francese, al pari dell'americana, non poteva
opporre agli sperimentati eserciti mercenari della coalizione che
masse poco sperimentate ma numerose, la leva di tutta la nazione.
Ma con queste masse si trattava di proteggere Parigi, quindi di
coprire un territorio determinato, e questo non poteva farsi senza
una vittoria in una battaglia campale delle masse. La semplice
guerriglia non era sufficiente, doveva essere trovata un'altra
forma che permettesse l'impiego di masse e questa forma fu trovata
con la colonna. La formazione in colonna permetteva, anche a
truppe poco sperimentate, di muoversi con discreto ordine ed anche
con una maggiore celerità di marcia (cento passi e
più al minuto), permetteva di infrangere le rigide forme
della vecchia formazione in linea, di combattere su ogni terreno e
quindi anche su quello più sfavorevole alla linea, di
raggruppare le truppe in qualsiasi modo fosse opportuno e, in
collegamento col combattimento di tiratori sparpagliati,
arrestare, impegnare, indebolire le linee nemiche sino a quando
sopraggiungeva il momento di sbaragliarle nel punto decisivo dello
schieramento, con le masse tenute in riserva. Questo modo nuovo di
combattere, poggiante sul collegamento di tiratori e di colonne e
sull'inquadramento dell'esercito in divisioni o corpi d'armata
indipendenti, composti di tutte le armi, portati da Napoleone alla
loro più compiuta perfezione sia dal punto di vista tattico
che da quello strategico, era dunque diventato necessario grazie
anzitutto al mutato materiale umano fornito dalla Rivoluzione
francese. Ma esso aveva anche altre due condizioni tecniche
preliminari molto importanti: in primo luogo gli affusti
più leggeri costruiti da Gribeauval per i cannoni da
campagna, che così poterono avere quella maggiore
capacità di movimento che ad essi oggi si richiede, e , in
secondo luogo, l'innovazione del fucile mediante la curvatura del
calcio, il quale sino allora era stato una continuazione della
canna, che così veniva prolungata in linea perfettamente
retta; innovazione che fu introdotta in Francia nel 1777, sul
modello del fucile da caccia, e rese possibile prender di mira un
uomo singolo, senza mandar necessariamente il colpo a vuoto. Ma
senza questo progresso, con la vecchia arma non si sarebbe potuto
condurre la guerriglia.
Il sistema rivoluzionario di armare tutto il popolo fu ridotto ben
presto ad una coscrizione obbligatoria (con la sostituzione, per
gli abbienti, del pagamento in denaro), e adottato in questa forma
dalla maggior parte degli Stati del continente. Solo la Prussia
tentò col suo sistema della Landwehr [86] di sfruttare in
maggior misura l'efficienza bellica del popolo. La Prussia fu
inoltre il primo Stato che, dopo la funzione di breve durata del
fucile militare a bocchetta e a canna rigida perfezionato tra il
1830 e il 1860, dotò tutta la sua fanteria dell'arma
più moderna: il fucile a retrocarica a canna rigata. A
queste due innovazioni essa dovete i suoi successi del 1866 [87].
Nella guerra franco-prussiana si affrontarono per la prima volta
due eserciti che portavano, entrambi, fucili a retromarcia a canna
rigata ed entrambi con formazioni tattiche in sostanza eguali a
quelle del tempo del vecchio fucile a pietra a canna liscia. La
sola differenza era che la Prussia, con l'introduzione della
compagnia incolonnata, aveva fatto il tentativo di trovare una
formazione di combattimento più adeguata al nuovo
armamento. Ma quando, il 18 agosto a Saint-Privat [88], la guardia
prussiana tentò di impiegare seriamente la compagnia
incolonnata, i cinque reggimenti più impegnati perdettero,
in due ore al massimo, i due terzi dei loro effettivi (176
ufficiali e 5.114 uomini di truppa), e da allora la compagnia
incolonnata fu condannata come formazione di combattimento, non
meno che il battaglione incolonnato e la linea; fu abbandonato il
tentativo di esporre ulteriormente una qualsiasi formazione chiusa
di truppe al fuoco dei fucili nemici e, da parte tedesca, il
combattimento fu condotto solo con quei grossi pattuglioni di
tiratori nei quali solo allora si era di regola scomposta
spontaneamente la colonna sotto il grandinare incalzante delle
palle, cosa che però dall'alto era stata condannata come
antiregolamentare; e parimenti il passo di corsa divenne l'unica
forma di movimento sul terreno battuto dal fuoco dei fucili
nemici. Il soldato ancora una volta era stato più
intelligente dell'ufficiale; egli aveva trovato istintivamente
l'unica formazione di combattimento che sinora ha fatto buona
prova sotto il fuoco dei fucili a retrocarica e, malgrado la
resistenza opposta dal comando, la fece adottare con successo.
La guerra franco-prussiana ha segnato una svolta di ben maggior
importanza di tutte le precedenti. In primo luogo le armi hanno
raggiunto un tal punto di perfezione che non è più
possibile un nuovo progresso che abbia un qualche influsso
rivoluzionario. Se si fanno cannoni con i quali si può
colpire un battaglione ad una distanza che permette appena
all'occhio di distinguerlo e fucili che hanno la stessa efficienza
avendo come bersaglio un singolo uomo e nei quali il caricare
prende meno tempo del mirare, ogni progresso ulteriore è
più o meno irrilevante per le operazioni belliche campali.
L'era dello sviluppo è quindi essenzialmente chiusa in
questa direzione. In secondo luogo questa guerra ha però
costretto tutti i grandi Stati del continente ad introdurre il
sistema prussiano del Landwehr intensificato e, conseguentemente,
di caricarsi di gravami militari che necessariamente li
condurranno alla rovina nel corso di pochi anni. L'esercito
è diventato fine precipuo dello Stato e fine a se stesso; i
popoli non esistono più se non nel fornire e nutrire i
soldati. Il militarismo domina e divora l'Europa. Ma questo
militarismo reca in sé anche il germe della sua propria
rovina. La concorrenza reciproca dei singoli Stati li costringe da
una parte ad impiegare ogni anno più denaro per esercito,
marina, cannoni, ecc., e quindi ad affrettare sempre di più
la rovina finanziaria; dall'altra a prendere sempre più sul
serio il servizio militare obbligatorio per tutti e con
ciò, in definitiva, a familiarizzare tutto il popolo con
l'uso delle armi e a renderlo quindi capace di far valere ad un
certo momento la sua volontà di fronte ai signori della
casta militare che esercitano il comando. E questo momento si
presenta non appena la massa del popolo, operai delle campagne e
delle città e contadini, ha una volontà. A questo
punto l'esercito dei principi si muta in un esercito del popolo;
la macchina si rifiuta di servire, il militarismo soggiace alla
dialettica del suo proprio sviluppo. Ciò che non
poté compiere la democrazia borghese del 1848, precisamente
perché era borghese e non proletaria, cioè dare alle
masse lavoratrici una volontà il cui contenuto corrisponda
alla loro condizione di classe: questo sarà infallibilmente
realizzato dal socialismo. E ciò significa far saltare in
aria dall'interno il militarismo e, con esso, tutti gli eserciti
permanenti.
Questa è la prima morale della nostra storia della fanteria
moderna. La seconda morale, che ancora una volta ci riporta a
Dühring, è che tutta l'organizzazione e il modo di
combattere degli eserciti e, conseguentemente, vittoria e
sconfitta, si dimostrano dipendenti da condizioni materiali, vale
a dire economiche, dal materiale-uomo e dal materiale-armi, quindi
dalla qualità e dalla quantità della popolazione e
della tecnica. Solo un popolo di cacciatori, quali gli americani,
poteva riscoprire la guerriglia, ed essi erano cacciatori per
cause puramente economiche, come oggi precisamente per cause
puramente economiche questi stessi yankees dei vecchi Stati si
sono trasformati in agricoltori, in industriali, in navigatori e
in mercanti che non fanno più la guerriglia nelle foreste
vergini, ma per ciò tanto meglio la fanno nel campo della
speculazione, dove sono andati anche molto lontano
nell'utilizzazione delle masse. Solo una rivoluzione quale la
francese, che emancipò economicamente il borghese e
specialmente il contadino, poté ritrovare quegli eserciti
di massa e ad un tempo quelle libere forme di movimento, contro
cui si infransero le vecchie linee impacciate, riflessi militari
di quell'assolutismo per il quale combattevano. E abbiamo visto
caso per caso come i progressi della tecnica, appena divennero
militarmente utilizzabili, e furono anche effettivamente
utilizzati, imposero subito quasi violentemente modificazioni,
anzi rivoluzioni, nel modo di combattere, e per giunta spesso
contro la volontà dei comandi militari. E oggigiorno anche
uno zelante sottufficiale potrebbe spiegare a Dühring a che
punto la condotta della guerra dipenda tra l'altro dalle forze
produttive e dai mezzi di comunicazione, sia del retroterra che
della zona di operazioni di un singolo paese. In breve, dovunque e
sempre sono le condizioni e i mezzi economici che portano la
"forza" alla vittoria, senza la quale questa cessa di essere forza
e chi, seguendo i principi di Dühring, volesse riformare la
guerra da un punto di vista opposto, non raccoglierebbe altro che
bastonate [*4].
Se dalla terraferma passiamo al mare, ci si presenta, a
considerare solo gli ultimi vent'anni, una rivoluzione
incomparabilmente più radicale. La nave da battaglia della
guerra di Crimea [90] era il bastimento di legno a due o tre
ponti, munito di cannoni, il cui numero andava da 60 a 100, mosso
di preferenza ancora da vele e dotato solo sussidiariamente di una
debole macchina a vapore. Portava principalmente pezzi da 32
libbre, con canna del peso di circa 50 quintali e in aggiunta solo
pochi pezzi da 68 libbre, con canna dal peso di 95 quintali. Verso
la fine della guerra comparvero batterie galleggianti con corazze
di ferro, mostri pesanti, che era quasi impossibile spostare, ma
che erano invincibili ai colpi del pezzo di artiglieria del tempo.
Presto la corazzatura di ferro fu applicata anche alle navi da
battaglia; da principio le piastre erano ancora molto sottili: si
riteneva già straordinariamente pesante una corazza di
quattro pollici di spessore. Ma il regresso dell'artiglieria si
lasciò presto indietro la corazzatura; per ogni spessore di
corazzata che successivamente veniva impiegato si trovava un nuovo
pezzo d'artiglieria, più pesante, che lo spezzava con
facilità. Così oggi, da una parte, siamo già
arrivati a corazze di dieci, dodici, quattordici, ventun pollici
di spessore (l'Italia vuol far costruire una nave con una
corazzata di tre piedi di spessore) e, dall'altra, a cannoni
rigati con canna del peso di 25, 35, 80 e anche 100 tonnellate
(tonnellate da 20 quintali) che tirano a distanze inaudite nel
passato proiettili del peso di 300, 400, 1.700 e perfino 2.000
libbre. L'odierna nave da battaglia è un gigantesco vapore
ad elica corazzato, che stazza da 8.000 a 9.000 tonnellate e
sviluppa una potenza da 6.000 a 8.000 cavalli-vapore, con torri
girevoli, e quattro, e al massimo sei, cannoni pesanti, munito di
una prua che sotto la linea di immersione si protende in uno
sperone capace di colare a picco le navi nemiche. È
un'unica macchina colossale nella quale il vapore non solo
effettua un veloce spostamento, ma anche aziona il timone, solleva
le ancore, fa girare le torri, effettua il puntamento e il
caricamento dei cannoni, pompa l'acqua, issa e cala le scialuppe,
in parte azionate anche esse a vapore, ecc. E tanto poco la
concorrenza tra corazza e cannone è giunta alla sua
conclusone, che al giorno d'oggi una nave quasi regolarmente non
risponde più alle esigenze, è già
invecchiata, prima di essere uscita dal cantiere. La moderna nave
da battaglia non solo è un prodotto, ma nello stesso tempo
è un campione della grande industria moderna, un'officina
galleggiante specializzata invero nella produzione di... sperpero
di denaro. Il paese nel quale la grande industria ha raggiunto il
più alto sviluppo ha quasi il monopolio della costruzione
di queste navi. Tutte le corazzate turche, quasi tutte le russe e
la maggior parte delle tedesche sono costruite in Inghilterra;
piastre di corazze per qualsiasi uso vengono fabbricate quasi
esclusivamente a Sheffield; delle tre aziende metallurgiche
d'Europa che sole sono in condizione di fornire i cannoni
più pesanti, due appartengono all'Inghilterra (Woolwich e
Elswick) e la terza (Krupp) alla Germania. Si vede qui con la
più palmare evidenza come la "violenza politica immediata",
che, secondo Dühring, è "la causa decisiva dell'ordine
economico", sia al contrario completamente soggiogata all'ordine
economico; come non soltanto la costruzione, ma anche la manovra
degli strumenti della violenza sul mare, le navi da battaglia,
siano diventate anch'esse un ramo della grande industria moderna.
E non vi è nessuno che sai disturbato da questo stato di
cose quanto la violenza stessa, lo Stato, al quale oggi una nave
costa tanto quanto costava prima un'intera piccola flotta; il
quale deve rassegnarsi al fatto che queste navi, così care,
siano invecchiate e abbiano quindi perduto il loro valore prima
ancora di scendere in mare; e deve sentire lo stesso disgusto di
Dühring di fronte al fatto che l'uomo dell'"ordine
economico", l'ingegnere, a bordo sia oggi più importante
dell'uomo della "violenza immediata", il capitano. Noi invece non
abbiamo nessuna ragione di arrabbiarci se vediamo come in questa
gara tra corazza e cannone la nave da battaglia raggiunga quel
vertice di perfezione che la rende tanto esorbitantemente costosa
quanto inutilizzabile militarmente [*5] e come questa lotta riveli
conseguentemente, anche nel campo della guerra navale, le leggi di
quell'interno moto dialettico per cui il militarismo, come ogni
altro fenomeno storico, sarà condotto alla rovina dalle
conseguenze del suo proprio sviluppo.
Anche qui vediamo quindi con chiarezza perfetta che non è
assolutamente vero che "l'elemento primitivo" debba "essere
cercato nella violenza politica immediata e non solamente in una
potenza economica indiretta". Al contrario! Che cosa appare
precisamente come "l'elemento primitivo" della stessa violenza? La
potenza economica; la disponibilità dei mezzi della grande
industria. La forza politica sul mare, fondata sulle moderne navi
da battaglia, si appalesa non già "immediata", ma
precisamente mediata dalla potenza economica, dall'alto sviluppo
raggiunto dalla metallurgia, dall'avere ai propri ordini tecnici
esperti e ricche miniere di carbone.
Ma frattanto, a che serve tutto questo? Nella prossima guerra
navale si dia a Dühring l'alto comando ed egli semplicemente
mediante la sua "violenza immediata", senza torpedini o altri
artifici, annienterà tutte le flotte corazzate asservite
all'ordine economico.
Note
73. Questa espressione proverbiale arriva da Giovenale, Satira I,
v. 79, "si natura negat, facit indignatio versum" (se la natura
non può, l'indignazione fa i versi).
74. Nella seconda sezione dell'"Anti-Dühring", tranne il
capitolo X, tutti questi riferimenti senza ulteriore indicazione
concernono la seconda edizione (1876) del "Cursus der National -
und Socialökonomie..." di Dühring.
75. Qui Engels fa un gioco di parole intraducibile in italiano.
76. Motivo conduttore, tema ricorrente di un'opera musicale,
collegato per esempio all'apparire di un personaggio.
77. Erano detti "rettili" i giornalisti e gli organi di stampa che
stavano al soldo del governo Bismarck. Questi, in un discorso alla
Camera dei deputati prussiana del 30 gennaio 1869 aveva definito
"rettili" gli avversari del governo. Il termine si diffuse, ma
nella voce popolare cambiò significato, passando a
designare i giornalisti venali sostenitori del governo Bismarck e
pagati dal fondo destinato ad appoggiare la stampa
filogovernativa. Lo stesso Bismarck, parlando al Reichstag il 9
febbraio 1876, fu costretto ad ammettere che il nuovo significato
del termine "rettili" aveva avuto in Germania la più ampia
diffusione.
78. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. Cit., p. 269.
79. Nel 1876 uscì la seconda edizione del "Cursus der
National- und Socialökonomie..." di Dühring.
80. Cfr. Shakespeare, "Enrico VIII", parte I, atto II, scena 4,
dove questa battuta è pronunciata da Falstaff.
81. Riferimento ad Augustin Thierry, Franois Pierre-Guillame
Guizot, Franois-Auguste-Marie Mignet e Louis-Adolphe Thiers.
82. Engels prese probabilmente queste cifre dall'opera dello
storico dell'antichità Wilhelm Wachsmuth ("Antichità
elleniche dal punto di vista dello Stato"), parte II, sezione I,
Halle 1829, p.44 (dell'edizione originale tedesca). Le cifre
riguardanti il numero degli schiavi a Corinto ed Egina al tempo
delle guerre persiane (498-448 a.C.) derivano dallo scrittore
greco del II-III secolo Ateneo di Naucrati, "Deipnosofisti", libro
VI, e sono certamente troppo elevate.
83. K. Marx, "Il capitale", I, trad. it. cit. pp. 639-640
84. In base alle condizioni del trattato di pace, dopo la guerra
del 1870-71, negli anni 1871-73 la Francia dovette versare alla
Germania come spese di guerra cinque miliardi di franchi.
85. Al posto dei sei capoversi che seguono, nel testo originario
si trovava una trattazione più estesa che Engels estrasse
dal manoscritto e conservò a parte, come saggio a sé
stante, sotto il titolo "Tattica della fanteria derivata dalle
cause materiali". (Marx-Engels, Opere, vol. XXV, cit., pp.
619-625)
86. Era il sistema introdotto in base a un progetto di Scharnhorst
del 17 marzo 1813: esso disponeva il richiamo delle leve
più anziane dei congedati. Nella guerra franco-prussiana
del 1870-71 il primo scaglione del Landwehr fu impiegato in
combattimento affianco dell'esercito permanente.
87. Nella guerra austro-prussiana del 1866.
88. Nella battaglia di St. Privat, il 18 agosto 1870, le truppe
tedesche sconfissero, riportando però gravi perdite,
l'esercito francese del Reno. Essa è ricordata come la
battaglia di Gravelotte.
*4. La cosa è già perfettamente nota allo stato
maggiore prussiano "La base della guerra è in primo luogo
la forma economica generale della vita dei popoli"; così
dice in una sua conferenza scientifica Max Jähns, capitano di
stato maggiore ("Kölnische Zeitung", 20 aprile 1876, terza
pagina) [89].
89. La conferenza di Max Jähns "Machiavelli [sic] und der
Gedanke der allgemeinen Wehrpflicht" fu pubblicata nel
"Kölnische Zeitung" , nei numeri 108, 110, 112 e 115, del 18,
20, 22 e 25 aprile 1876.
La "Kölnische Zeitung", quotidiano, uscì a Colonia dal
1802 al 1945; rispettava la politica della borghesia liberale
prussiana.
90. La guerra di Crimea (1853-1856), condotta dalla Russia contro
la Turchia alleata all'Inghilterra, alla Francia e alla Sardegna,
fu provocata dal contrasto d'interessi economici e politici tra
questi paesi nel Vicino Oriente.
*5. Il perfezionamento dell'ultimo prodotto della grande industria
per la guerra navale, la torpedine ad autopropulsione, sembra che
dovrà realizzare quanto diciamo: in effetti la più
piccola torpediniera sarebbe superiore alla più potente
corazzata. (Si ricordi che quanto sopra fu scritto nel 1878) [91].
91. L'ultima frase tra parentesi fu aggiunta da Engels alla terza
edizione (1885) dell'"Anti-Dühring".
"Una circostanza molto importante sta nel fatto che effettivamente
l'assoggettamento della natura ha proceduto in generale (!), solo
per mezzo dell'assoggettamento dell'uomo" (Un assoggettamento che
ha proceduto!). "Lo sfruttamento economico della proprietà
terriera in appezzamenti piuttosto grandi non si è compiuto
mai e in nessun luogo senza che in precedenza l'uomo fosse stato
assoggettato da una qualsiasi forma di prestazioni schiavistiche o
servili. Lo stabilirsi di un dominio economico sulle cose ha avuto
come presupposto il dominio politico, sociale ed economico
dell'uomo sull'uomo. Come si sarebbe potuto pensare ad un grande
proprietario terriero senza nello stesso tempo includere in questo
pensiero il suo dominio su schiavi, servi o su gente
indirettamente priva di libertà? Che cosa mai potrebbe aver
significato e significare per un'agricoltura, condotta su scala
piuttosto vasta, la forza del singolo che si veda provvisto
tutt'al più dell'aiuto delle forze della sua famiglia? Lo
sfruttamento della terra o l'estensione del dominio economico su
di essa in un ambito che oltrepassi le forze naturali del singolo,
nella storia sinora è stato possibile solo per il fatto
che, prima o contemporaneamente allo stabilirsi del dominio sul
suolo, si è compiuto anche il corrispondente asservimento
dell'uomo. Nei periodi posteriori allo sviluppo questo
asservimento è stato mitigato (...) la forma che al
presente esso ha assunto negli Stati di più alta
civiltà è quella di un lavoro salariato più o
meno controllato dal dominio della polizia. Sul lavoro salariato
poggia dunque la pratica possibilità di quella forma
odierna della ricchezza che si presenta nel dominio su zone
piuttosto vaste di terreno e (!) nel più vasto possesso
fondiario. S'intende senz'altro che tutte le altre forme di
distribuzione della ricchezza debbono spiegarsi storicamente in
modo analogo e che la dipendenza indiretta dell'uomo dall'uomo, la
quale costituisce al presente il fatto fondamentale delle
condizioni economicamente più avanzate, non si può
intendere e spiegare da se stessa, ma solo come l'eredità
al quanto modificata di un assoggettamento e di una espropriazione
che nel passato erano diretti."
Così Dühring.
Tesi: La dominazione della natura (per mezzo dell'uomo) presuppone
la dominazione dell'uomo (per mezzo dell'uomo).
Prova: Lo sfruttamento economico della proprietà terriera
in appezzamenti piuttosto grandi non si è compiuto mai e in
nessun luogo altrimenti che per mezzo di servi.
Prova della prova: Come può esserci grande proprietario
terriero senza servi, dato che il grande proprietario terriero con
la sua famiglia, senza servi, non potrebbe coltivare, invero, che
una piccola parte di ciò che possiede?
Dunque: Per provare che l'uomo, per assoggettarsi la natura, ha
dovuto precedentemente asservire l'uomo, Dühring trasforma
senz'altro "la natura" in "proprietà terriera in
appezzamenti piuttosto grandi" e questa proprietà terriera
(non è specificato di chi sia) a sua volta la trasforma
immediatamente nella proprietà di un grande proprietario
terriero, che naturalmente senza servi non può coltivare la
sua terra.
In primo luogo "dominazione della natura" e "sfruttamento
economico" della proprietà non sono affatto la stessa cosa.
La dominazione della natura viene esercitata nell'industria in una
misura ben altrimenti grandiosa che nell'agricoltura, che sino ad
oggi è costretta a lasciarsi dominare dalle condizioni
meteorologiche anziché dominarle.
In secondo luogo, se ci limitiamo allo sfruttamento economico
della proprietà terriera in appezzamenti piuttosto grandi,
l'importante è qui sapere a chi appartiene questa
proprietà terriera. E troviamo allora al principio della
storia di tutti i popoli civili non già il "grande
proprietario terriero", che Dühring fa spuntare qui con la
sua abituale arte di prestigiatore, che lui chiama "dialettica
naturale" [92], ma invece comunità tribali e di villaggio
con possesso comune del suolo. Dall'India sino all'Irlanda lo
sfruttamento economico della proprietà terriera in
appezzamenti piuttosto grandi è avvenuto originariamente
mediante tali comunità tribali e di villaggio e,
precisamente, ora con la coltivazione in comune della terra
arabile per conto della comunità, ora con la distribuzione
per un dato periodo di appezzamenti parcellari operata dalla
comunità, a beneficio delle famiglie, permanendo l'uso
comune del terreno boschivo e prativo. Ancora una volta è
caratteristico per "i più profondi studi specialistici" di
Dühring "nel campo politico e giuridico", il fatto che di
tutte queste cose egli non sappia una parola; che in tutta la sua
opera spiri una totale ignoranza degli scritti di Maurer che fanno
epoca nel campo della costituzione primitiva della marca tedesca,
base di tutto il diritto tedesco, e una totale ignoranza della
letteratura, sempre più vasta, che si richiama a Maurer e
riguarda le prove della primitiva proprietà comune del
suolo nei popoli civili dell'Asia e dell'Europa, l'esposizione
delle forme diverse della sua esistenza e della sua dissoluzione.
Come nel campo del diritto francese e inglese Dühring si era
"guadagnata da se stesso tutta la sua ignoranza", per grande che
fosse, così si guadagna da se stesso la sua ignoranza
ancora maggiore nel campo del diritto tedesco. L'uomo che si adira
così violentemente per la limitatezza di orizzonte dei
professori di università, è ancor oggi, nel campo
del diritto tedesco, tutt'al più al livello cui erano quei
professori vent'anni fa.
È una pura "libera creazione ed immaginazione" di
Dühring la sua affermazione che per lo sfruttamento della
proprietà terriera in appezzamenti piuttosto grandi siano
stati necessari proprietari terrieri e servi. In tutto l'oriente
dove proprietario terriero è la comunità o lo Stato,
manca nelle lingue perfino la parola proprietario terriero e su
questo argomento Dühring può consultare i giuristi
inglesi, che sulla questione "Chi è il proprietario?" si
sono affaticati in India tanto invano quanto già la
buon'anima del principe Enrico LXXII di
Reuss-Greiz-Schleiz-Lobenstein-Eberswalde sulla questione "Chi
è il guardiano notturno?". In oriente solo i turchi hanno
introdotto nelle terre da loro conquistate una forma di
proprietà terriera feudale. La Grecia già
nell'età eroica fa il suo ingresso nella storia con
un'organizzazione in ceti che a sua volta è il prodotto
evidente di una preistoria piuttosto lunga e sconosciuta; ma anche
qui il suolo viene economicamente sfruttato in prevalenza da
contadini indipendenti; le più vaste proprietà dei
notabili e dei capi delle tribù costituiscono l'eccezione e
del resto scompaiono subito dopo. L'Italia fu dissodata
prevalentemente da contadini; quando negli ultimi tempi della
repubblica romana i grandi complessi di fondi rustici, i
latifondi, cacciarono via i contadini parcellari e li sostituirono
con schiavi, nello stesso tempo sostituirono all'agricoltura
l'allevamento del bestiame e, come già sapeva Plinio,
mandarono in rovina l'Italia (latifundia Italiam perdidere) [93].
Nel medioevo predomina in tutta l'Europa (specialmente nel
dissodamento di terre vergini) la coltivazione contadina; e
allora, per la questione che stiamo trattando, è
indifferente se e quali tributi questi contadini avessero da
pagare ad un signore feudale. I coloni della Frisia, della bassa
Sassonia, della Fiandra e del basso Reno, che misero a coltura le
terre ad oriente dell'Elba, strappate agli slavi, lo fecero come
contadini liberi sottoposti a tributi molto favorevoli e non
già assolutamente a "prestazioni feudali di qualsiasi
genere". Nell'America del nord la parte di gran lunga maggiore del
paese fu aperta alla coltura dal lavoro di contadini liberi,
mentre i grandi proprietari terrieri del sud, con i loro schiavi e
con la loro coltura di sfruttamento, esaurirono il suolo al punto
che ormai poteva continuare a dar vita solo ad abeti,
cosicché la coltura del cotone dovette emigrare sempre
più verso occidente. In Australia e nella Nuova Zelanda
tutti i tentativi del governo inglese di istituire artificialmente
un'aristocrazia terriera sono andati a monte. In breve se
eccettuiamo le colonie tropicali e subtropicali, nelle quali il
clima impedisce all'europeo il lavoro dei campi, il grande
proprietario terriero che per mezzo dei suoi schiavi e dei suoi
servi della gleba assoggetta la natura al suo dominio e dissoda il
terreno, appare una pura immagine di fantasia. Al contrario:
laddove nell'antichità il grande proprietario terriero fa
la sua comparsa, come in Italia, esso non dissoda terre
desertiche, ma trasforma in pascoli i terreni arativi dissodati
dai contadini, li spopola e rovina interi paesi. Solo
nell'età moderna, solo dopo che la maggior densità
della popolazione ha fatto salire il valore del suolo, e
specialmente da quando lo sviluppo dell'agronomia ha reso
più utilizzabili anche terreni di cattiva qualità,
solo allora il grande proprietario terriero ha cominciato a
partecipare in misura notevole al dissodamento di terre desertiche
e di prati, e ciò principalmente rubando ai contadini le
terre di proprietà comune, tanto in Inghilterra quanto in
Germania. Ma anche questo non è stato senza contropartita.
Per ogni acro di terra di proprietà comuneche i grandi
proprietari terrieri hanno dissodato in Inghilterra, in Scozia
hanno trasformato almeno tre acri di terra coltivabile in pascolo
per le pecore e infine addirittura in semplice riserva per la
caccia del cervo.
Ma qui abbiamo da fare solamente con l'affermazione di
Dühring che il dissodamento di appezzamenti piuttosto grandi
di terreno e quindi su per giù di tutta la terra coltivata,
"mai e in nessun luogo" è stato compiuto altrimenti che per
mezzo di grandi proprietari terrieri e di servi, affermazione che,
abbiamo visto, ha "come suo presupposto" un'ignoranza veramente
inaudita della storia. Non dobbiamo quindi preoccuparci qui
né della misura in cui, in epoche diverse, appezzamenti di
terre coltivabili siano stati totalmente o in massima parte per
mezzo di schiavi (come avvenne nel periodo in cui fiorì la
Grecia) o per mezzo di servi (come è avvenuto nei fondi
rustici feudali a partire dal medioevo), né di quale sia
stata la funzione dei grandi proprietari terrieri nelle diverse
epoche.
E, dopo averci presentato questo magistrale quadro di fantasia in
cui non si sa se si debba ammirare maggiormente l'arte del
prestigiatore della deduzione o la falsificazione della storia,
Dühring esclama trionfante: "Va da sé che tutte le
altre forme di distribuzione della ricchezza si debbono spiegare
storicamente in maniera analoga!". E così naturalmente si
risparmia la fatica di perdere anche una sola parola in più
sull'origine, per es., del capitale.
Se Dühring con la sua dominazione dell'uomo per mezzo
dell'uomo come condizione preliminare della dominazione della
natura per mezzo dell'uomo, ci vuol dire in generale solamente che
il nostro ordine economico attuale nella sua interezza, il grado
di sviluppo raggiunto oggi dall'agricoltura e dall'industria
è il risultato di una storia della società che si
è sviluppata in antagonismi di classi, in condizioni di
dominio e servitù, dice qualcosa che dopo il "Manifesto
comunista" è da lungo tempo diventato luogo comune. Quel
che importa è spiegare storicamente l'origine delle classi
e dei rapporti di dominio e se a questo fine Dühring ha
solamente e sempre la parola "violenza", con ciò siamo
precisamente al punto di partenza. Il semplice fatto che i
dominati e gli sfruttati in ogni epoca sono molto più
numerosi dei dominatori e degli sfruttatori, e che quindi la forza
reale poggia sui primi, è sufficiente da solo a chiarire
tutta la stoltezza della teoria della violenza. Quindi resta
sempre la questione di spiegare i rapporti di dominio e
servitù.
Questi rapporti sono sorti per due vie.
Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in
senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo
animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della
natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come gli
animali e di poco più produttivi di essi. Domina una certa
eguaglianza delle condizioni di vita, e per i capifamiglia anche
una specie di eguaglianza della condizione sociale: in ogni caso
un'assenza di classi sociali, che perdura ancora nelle
comunità naturali agricole dei popoli civili del periodo
posteriore. In ognuna di tali comunità esistono sin dal
principio certi interessi comuni, la cui salvaguardia deve essere
delegata a singoli, se anche sotto il controllo della
comunità: decisioni di litigi, repressione di prepotenze di
singoli che vanno al di là dei loro diritti, controllo di
acque, particolarmente in paesi caldi e, finalmente, data la loro
primitività, attribuzioni religiose. Siffatti incarichi si
trovano in ogni epoca nelle comunità primitive, per es.,
nelle antichissime marche tedesche e ancor oggi in India. Sono
ovviamente dotati di una certa autonomia di poteri e costituiscono
i primi rudimenti del potere dello Stato. A poco a poco le forze
produttive si accrescono; la maggiore densità crea
interessi, comuni in un luogo, contrastanti in un altro, tra le
singole comunità il cui raggruppamento in complessi
maggiori provoca a sua volta una nuova divisione del lavoro e la
creazione di organi per la salvaguardia degli interessi comuni e
la difesa contro gli interessi contrastanti. Questi organi, che
già come rappresentanti degli interessi comuni di tutto il
gruppo hanno di fronte ad ogni singola comunità una
posizione particolare e, in certe circostanze, perfino
antagonistica, si rendono ben presto ancor più
indipendenti, in parte per quella ereditarietà delle
funzioni ufficiali che si presenta quasi ovviamente in un mondo in
cui tutto procede in modo spontaneo, in parte per la loro
indispensabilità crescente con l'aumento del numero dei
conflitti con altri gruppi. Come questo rendersi indipendente
dalla funzione sociale di fronte alla società abbia potuto
accrescersi col tempo sino ad arrivare al dominio della
società, come l'originario servitore, presentandosi
l'occasione favorevole, a poco a poco si sia trasformato nel
signore, come, a seconda delle circostanze, questo signore si sia
presentato come despota o satrapo orientale, come capotribù
greco, come capo del clan celtico, ecc., in che misura in questa
trasformazione costui si sia servito infine anche della violenza,
come da ultimo anche le singole persone che esercitavano il
dominio si siano riunite in una classe dominante; tutte queste
sono cose nelle quali non abbiamo qui bisogno di addentrarci.
Quello che qui importa stabilire è che dappertutto il
dominio politico ha avuto a suo fondamento l'esercizio di una
funzione sociale, e che il dominio politico ha continuato ad
esistere per lungo tempo solo laddove ha mantenuto l'esercizio di
questa sua funzione sociale. Per quanto numerosi siano stati i
governi dispotici che si sono formati e che sono caduti in Persia
e in India, ognuno di essi sapeva in modo assolutamente preciso di
essere l'imprenditore generale dell'irrigazione delle vallate
fluviali, senza di che laggiù non sarebbe stata possibile
l'agricoltura. Era riservato solo agli illuminati inglesi non
tener conto di ciò in India; essi lasciarono andare in
rovina i canali d'irrigazione e le cateratte e, finalmente, con le
carestie che si ripetono con regolarità, scoprono oggi di
aver trascurato quell'unica attività che poteva legittimare
il loro dominio nell'India almeno nella stessa misura di quello
dei loro predecessori.
Accanto a questo sviluppo delle classi ne procedeva però
anche un altro. La divisione naturale del lavoro in seno alla
famiglia agricola permetteva, ad un certo livello di benessere, di
introdurre una o più forze-lavoro estranee. Questo fatto
avveniva particolarmente in paesi in cui l'antico possesso comune
del suolo era già scomparso o almeno l'antica coltivazione
in comune aveva ceduto il posto alla coltivazione separata di
appezzamenti parcellari del suolo per opera delle rispettive
famiglie. La produzione si era tanto sviluppata che ora la
forza-lavoro dell'uomo poteva produrre di più di quanto era
necessario per il suo semplice mantenimento; i mezzi per mantenere
più forze-lavoro c'erano e del pari quelli per impiegarle;
la forza-lavoro acquistò un valore. Ma la comunità
in sé e l'aggregato di cui essa faceva parte non fornivano
forze-lavoro eccedenti disponibili. Le forniva invece la guerra e
la guerra era antica quanto la coesistenza simultanea di
più gruppi di comunità. Sinora non si sapeva che
fare dei prigionieri di guerra che quindi venivano semplicemente
uccisi e, in un periodo ancora anteriore, mangiati. Ma al livello
raggiunto ora dall'"ordine economico" essi acquistarono un valore,
furono quindi lasciati vivere e si utilizzò il loro lavoro.
E così la violenza, anziché dominare l'ordine
economico, fu costretta invece a servire l'ordine economico. La
schiavitù era stata scoperta. Presto essa diventò la
forma dominante di produzione presso tutti i popoli che si
sviluppavano superando la vecchia comunità, ma in
definitiva divenne anche una delle cause principali della loro
decadenza. Solo la schiavitù rese possibile che la
divisione del lavoro tra agricoltura ed industria raggiungesse un
livello considerevole e con ciò rese possibile il fiore del
mondo antico: la civiltà ellenica. Senza la
schiavitù non sarebbero esistiti né lo Stato,
né l'arte, né la scienza della Grecia; senza
laschiavitù non ci sarebbe stato l'impero romano. Ma senza
le basi della civiltà greca e dell'impero romano non ci
sarebbe stata l'Europa moderna. Non dovremmo mai dimenticare che
tutto il nostro sviluppo economico, politico e intellettuale ha
come suo presupposto una stato di cose in cui la schiavitù
era tanto necessaria quanto generalmente riconosciuta. In questo
senso abbiamo il diritto di dire che senza l'antica
schiavitù non ci sarebbe il moderno socialismo.
È molto facile inveire con frasi generali contro la
schiavitù e cose simili e sfogare un elevato sdegno morale
contro siffatta infamia. Disgraziatamente non si dice niente di
più di ciò che ognuno sa, cioè che queste
antiche istituzioni non sono più adeguate alle condizioni
odierne ed ai nostri sentimenti, che da queste condizioni sono
determinati. Ma così non veniamo a sapere proprio nulla
intorno all'origine di queste istituzioni, alla ragione per le
quali esse sussistettero e alla funzione che ebbero nella storia.
E, se ci addentriamo in questo argomento, dobbiamo dire, per
quanto ciò possa suonare contraddittorio ed eretico, che
l'introduzione della schiavitù nelle circostanze di allora
fu un grosso progresso. Ormai è un fatto che
l'umanità ebbe principio dagli animali e che perciò
ha avuto necessità di mezzi barbarici e quasi bestiali per
trarsi fuori dalla barbarie. Le antiche comunità, dove
hanno continuato a sussistere, dall'India alla Russia,
costituiscono da millenni la base della forma più rozza
diStato, il dispotismo orientale. Solo dove esse si sono dissolte,
i popoli sono diventati padroni di se stessi e il loro ulteriore
progresso è consistito nell'incremento e nel progresso
della produzione per mezzo del lavoro degli schiavi. È
chiaro: sino a quando il lavoro umano era ancora così poco
produttivo da non fornire che una piccola eccedenza oltre ai mezzi
necessari all'esistenza, l'incremento delle forze produttive,
l'estensione del traffico, lo sviluppo di Stato e diritto, la
creazione dell'arte e delle scienze erano possibili solo per mezzo
di un'accresciuta divisione del lavoro che doveva avere, come sua
base, la grande divisione del lavoro tra le masse occupate nel
semplice lavoro manuale e quei pochi privilegiati che esercitavano
la direzione del lavoro, il commercio, gli affari di Stato e
più tardi la professione dell'arte e della scienza. La
forma più semplice, più naturale di questa divisione
del lavoro fu precisamente la schiavitù. Dati i presupposti
storici del mondo antico, e specialmente del mondo ellenico, il
progresso verso una società fondata sugli antagonismi delle
classi si poté compiere solo nella forma della
schiavitù. E questo fu un progresso anche per gli schiavi:
ora i prigionieri di guerra, dai quali si reclutava la massa degli
schiavi, conservarono almeno salva la vita, mentre precedentemente
venivano uccisi e, ancor prima, addirittura arrostiti.
Aggiungiamo a questo punto che tutti gli antagonismi storici
sinora esistiti tra classi sfruttatrici e classi sfruttate, classi
dominanti e classi oppresse, trovano la loro spiegazione nella
stessa produttività, relativamente poco o nulla sviluppata,
del lavoro umano. Sino a quando la popolazione effettivamente
lavoratrice è stata tanto impegnata nel suo lavoro
necessario da non aver tempo di occupasi degli affari comuni della
società, direzione del lavoro, affari di Stato, questioni
giuridiche, arte, scienze, ecc., ha sempre dovuto esistere una
classe dominante che, libera dall'effettivo lavoro, si occupasse
di questi affari; ma così facendo, in effetti, questa
classe non ha mai mancato di addossare alle masse lavoratrici un
fardello di lavoro sempre crescente per il proprio profitto. Solo
l'enorme incremento delle forze produttive, raggiunto mediante la
grande industria, permette di distribuire il lavoro fra tutti i
membri della società senza eccezioni, e perciò di
limitare il tempo di lavoro per ciascuno in tal misura che per
tutti rimanga un tempo libero sufficiente per partecipare, sia
teoricamente che praticamente, agli affari generali della
società. Quindi solo oggi ogni classe dominante e
sfruttatrice è diventata superflua, anzi è diventata
un ostacolo allo sviluppo della società e solo ora essa
sarà anche inesorabilmente eliminata, per quanto possa
essere in possesso della "violenza immediata".
Se quindi Dühring storce il naso di fronte alla
civiltà ellenica perché era fondata sulla
schiavitù, con lo stesso diritto potrà rimproverare
ai greci di non aver avuto la macchina a vapore e il telegrafo
elettrico. E se afferma che il nostro asservimento salariale
moderno è un'eredità alquanto trasformata e mitigata
della schiavitù e che non si può spiegare per esso
(cioè con le leggi economiche della società
moderna), ciò vuol dire solamente che il lavoro salariato,
come la schiavitù, sono forme della servitù e del
dominio di classe, cosa che sanno tutti i bambini, o è
falso. Infatti con lo stesso diritto potremmo dire che il lavoro
salariato deve spiegarsi come la forma attenuata del cannibalismo,
oggi universalmente considerato come la prima forma di impiego dei
nemici vinti.
È chiaro, di conseguenza, quale funzione abbia la violenza
nella storia di fronte allo sviluppo economico. In primo luogo,
ogni forza politica è fondata originariamente su una
funzione economica, sociale e si accresce nella misura in cui, con
la dissoluzione delle comunità primitive, i membri della
società vengono trasformati in produttori privati e quindi
vengono estraniati ancor più da coloro che amministrano le
funzioni sociali comuni. In secondo luogo dopo che la forza
politica si è resa indipendente di fronte alla
società, si è trasformata da serva a padrona, essa
può agire in duplice direzione. O agisce nel senso e nella
direzione del regolare sviluppo economico. In questo caso tra i
due non sussiste alcun conflitto e lo sviluppo economico viene
accelerato. O invece agisce nel senso opposto, e in questo caso,
con poche eccezioni, soggiace regolarmente allo sviluppo
economico. Queste poche eccezioni sono casi isolati di conquista,
in cui i conquistatori, più rozzi, hanno sterminato o
cacciato via la popolazione di un paese e ne hanno guastate o
distrutte le forze produttive di cui non sapevano che fare.
Così fecero i cristiani nella Spagna moresca distruggendo
la massima parte di quelle opere di irrigazione sulle quali
poggiavano l'agricoltura e la floricoltura altamente sviluppate
dei mori. Ogni conquista operata da un popolo più rozzo
turba ovviamente lo sviluppo economico e distrugge numerose forze
produttive. Ma nell'enorme maggioranza dei casi di conquista
durevole il conquistatore più rozzo deve adattarsi
all'"ordine economico" superiore quale risulta dalla conquista, e
viene assimilato dai conquistati e per lo più deve perfino
accettarne il linguaggio. Laddove invece -prescindendo dai casi di
conquista- il potere statale interno di un paese è entrato
in opposizione col suo sviluppo economico, come ad un certo grado
di sviluppo è occorso sinora ogni potere politico, la lotta
ogni volta è finita con la caduta del potere politico.
Senza eccezione ed ineluttabilmente lo sviluppo economico si
è aperta la via; abbiamo già ricordato l'ultimo e
più lampante esempio di questo fenomeno: la grande
Rivoluzione francese. Se l'ordine economico e con esso la
costituzione economica di un determinato paese dipendessero
semplicemente, secondo la dottrina di Dühring, dal potere
politico, non si capirebbe affatto perché Federico
Guglielmo IV dopo il 1848 non potesse riuscire, malgrado il suo
"magnifico esercito" [94], ad innestare le corporazioni medievali
ed altre ubbie romantiche nelle strade ferrate, nelle macchine a
vapore e nella grande industria del suo paese che erano appunto in
fase di sviluppo; o perché lo zar di Russia, che eppure
è ancora molto più potente, non solo non possa
pagare i suoi debiti, ma non possa neppure tenere in piedi la sua
"forza" senza continuamente attingere all'"ordine economico"
dell'Europa occidentale.
Per Dühring la violenza è il male assoluto, il primo
atto di violenza è per lui il peccato originale, tutta la
sua esposizione è una geremiade sul fatto che la violenza,
questa potenza diabolica, ha infettato tutta la storia fino ad ora
con la tabe del peccato originale, ed ha vergognosamente
falsificato tutte le leggi naturali e sociali. Ma che la violenza
abbia nella società ancora un'altra funzione, una funzione
rivoluzionaria, che essa, seguendo le parole di Marx, sia la
levatrice della vecchia società gravida di una nuova [95],
che essa sia lo strumento con cui si compie il movimento della
società, e che infrange forme politiche irrigidite e morte,
di tutto questo in Dühring non si trova neanche una parola.
Solo con sospiri e con gemiti egli ammette la possibilità
che per abbattere l'economia dello sfruttamento sarà forse
necessaria la violenza... purtroppo! Infatti ogni uso di violenza
avvilisce colui che la usa. E questo di fronte all'elevato slancio
morale e intellettuale che è stato il risultato di ogni
rivoluzione vittoriosa! E questo in Germania, dove la violenta
collisione, che potrebbe anche essere imposta al popolo, avrebbe
almeno il vantaggio di estirpare lo spirito servile che, a causa
dell'avvilimento conseguente alla guerra dei trent'anni [44], ha
permeato la coscienza nazionale. E questa mentalità da
predicatore, fiacca, insipida e impotente, ha la pretesa di
imporsi al partito più rivoluzionario che la storia
conosca?
Sono passati circa cento anni da quando a Lipsia apparve un libro
che, sino all'inizio di questo secolo, ha avuto più di
trenta edizioni e che autorità, predicatori e filantropi di
tutte le specie diffusero, distribuirono e prescrissero in
generale come libro di lettura per le scuole elementari in
città e in campagna. Questo libro si chiamava "L'amico dei
fanciulli" di Rochow ed aveva il fine di istruire i giovani
rampolli dei contadini e degli artigiani sulla loro vocazione e
sui loro doveri verso i loro superiori nella società e
nello Stato, e parimente ispirar loro un benefico senso di
appagamento della loro sorte terrena, del pane nero e delle
patate, del servizio feudale, del basso salario, delle paterne
bastonate e delle altre piacevolezze del genere, e tutto
ciò servendosi delle idee illuministiche allora correnti
nel paese. A questo fine si mostrava alla gioventù della
città e della campagna quale saggia istruzione della natura
sia il fatto che l'uomo debba guadagnarsi il suo sostentamento e i
suoi godimenti col lavoro e quanto perciò debbano sentirsi
felici il contadino e l'artigiano del fatto che sia loro permesso
di condire il proprio pasto con aspro lavoro invece di soffrire,
come il grasso crapulone, di dispepsia, di mal di fegato o di
stitichezza e di non poter ingoiare che a malavoglia le più
scelte leccornie. Gli stessi luoghi comuni che il vecchio Rochow
riteneva adatti per i giovani contadini dell'Elettorato di
Sassonia del suo tempo, Dühring, a pag. 14 e seguenti del suo
"Corso", ce li offre come l'"elemento assolutamente fondamentale"
dell'economia politica più recente.
"I bisogni umani hanno come tali le loro leggi naturali che li
regolano e, riguardo al loro incremento, sono racchiusi entro
limiti che solo innaturalmente possono essere violati, per un
certo tempo, sino a che da questa violazione conseguono disgusto,
tedio della vita, decrepitezza, mutilazione sociale e finalmente
salutare annientamento (...) Un giuoco fatto solamente di piaceri,
senza un altro fine serio, porta presto all'apatia o, ciò
che è lo stesso, all'esaurimento di ogni capacità di
sentire. Un lavoro reale in una forma qualsiasi è quindi la
naturale legge sociale di formazioni sane (...) Se gli impulsi e i
bisogni fossero senza una contropartita porterebbero con sé
appena un'esistenza infantile e non già uno sviluppo di una
vita storicamente evoluta. Se fossero soddisfatti e pienamente
senza pena, presto si esaurirebbero e lascerebbero una vita vuota
fatta di intervalli pietosi in attesa del riapparire di quegli
impulsi e di quei bisogni (...) La dipendenza della soddisfazione
degli istinti e delle passioni dal superamento di un ostacolo
economico è quindi, sotto ogni rapporto, una benefica legge
fondamentale della struttura esterna e della costituzione interna
dell'uomo" ecc. ecc.
Come si vede, le più banali banalità del reverendo
Rochow celebrano in Dühring il loro centenario e per giunta
come "fondazione radicale" dell'unico "sistema socialitario"
veramente critico e scientifico.
Poste le basi, Dühring può quindi continuare a
costruire. Applicando il metodo matematico egli ci dà in
primo luogo, secondo l'esempio del vecchio Euclide, una serie di
definizioni. E ciò tanto più comodamente in quanto
può subito stabilire le sue definizioni in modo tale che
ciò che col loro aiuto deve essere dimostrato sia
già in parte contenuto in esse. Così veniamo a
sapere anzitutto che il concetto conduttore di tutta l'economia,
quale sinora si è presentata, si chiama ricchezza e che la
ricchezza, come sinora è stata realmente intesa sul piano
della storia universale, e come ha sviluppato il suo regno,
è la "potenza economica sugli uomini e le cose". Ciò
è doppiamente inesatto. In primo luogo la ricchezza delle
antiche comunità tribali e di villaggio non era affatto un
dominio su uomini. E in secondo luogo, anche nelle società
che si muovono sul piano degli antagonismi di classe, la
ricchezza, nella misura in cui include un dominio su uomini,
include prevalentemente e quasi esclusivamente un dominio su
uomini in virtù e per mezzo del dominio su cose. A partire
dal tempo remotissimo in cui la cattura e lo sfruttamento degli
schiavi divennero rami distinti di attività, gli
sfruttatori di lavoro e di schiavi dovettero comprare gli schiavi,
dovettero acquistare il dominio sugli uomini solo per mezzo del
dominio sulle cose, sul prezzo di acquisto e sui mezzi di
mantenimento e di lavoro dello schiavo. In tutto il medioevo il
grande possesso fondiario è la condizione preliminare
grazie alla quale la nobiltà feudale arriva ad avere
contadini tributari e servi, e al giorno d'oggi finanche un
bambino di sei anni vede che la ricchezza domina sull'uomo
esclusivamente per mezzo delle cose di cui dispone.
Ma perché Dühring è costretto ad ammannire
questa falsa definizione della ricchezza? Perché è
costretto ad infrangere il nesso reale delle cose quale sinora
è stato vigente in tutte le società divise in
classi? Per trascinare la ricchezza dal campo dell'economia a
quello della morale. Il domino sulle cose è assolutamente
buono, invece il dominio sugli uomini è del maligno; e
poiché Dühring si è interdetto di spiegare il
dominio sugli uomini per mezzo del dominio sulle cose, può
fare un'audace colpo di mano e spiegare senz'altro il dominio
sugli uomini per mezzo della sua amata violenza. La ricchezza, in
quanto domina sull'uomo, è la "rapina", e così siamo
arrivati ad una edizione peggiorata del vecchissimo detto di
Proudhon: "La proprietà è il furto" [96].
E con ciò, invero, siamo riusciti felicemente a considerare
la ricchezza dai due punti di vista essenziali della produzione e
della distribuzione: ricchezza come dominio su cose, ricchezza di
produzione, lato buono; ricchezza come dominio su uomini,
ricchezza della distribuzione quale sinora esiste, lato cattivo;
aboliamolo! Applicato alle condizioni odierne ciò vuol
dire: il modo di produzione capitalistico è buono e
può restare, invece il modo di distribuzione capitalistico
non vale niente e deve essere eliminato. A un tale assurdo si
arriva scrivendo di economia senza neppure avere un concetto del
nesso tra produzione e distribuzione.
Dopo la ricchezza, il valore viene definito come segue: "Il valore
è la valutazione che le cose e le prestazioni economiche
trovano nello scambio". Questa valutazione corrisponde "al prezzo
o a qualsiasi altro termine equivalente, per es. al salario". In
altre parole: il valore è il prezzo. O piuttosto, per non
fare torto a Dühring e riprodurre l'assurdo della sua
definizione usando il più possibile i suoi stessi termini:
il valore sono i prezzi. Infatti a p. 19 egli dice: "il valore e i
prezzi che lo esprimono in denaro", facendo quindi, egli stesso,
la constatazione che lo stesso valore ha prezzi differentissimi e
di conseguenza anche altrettanti valori differenti. Se Hegel non
fosse morto da gran tempo, si impiccherebbe. Con tutto il suo
teologismo non avrebbe potuto escogitare questo valore che
è altrettanti valori diversi quanti sono i prezzi che ha.
Ancora una volta si deve proprio possedere la sicurezza di
Dühring per inaugurare una nuova e più radicale
fondazione dell'economia con la dichiarazione che non si conosce
altra differenza tra prezzo e valore, se non che il primo è
espresso in denaro e l'altro no.
Ma con ciò continuiamo sempre ad ignorare che cosa sia il
valore e ancor più come si determina. Dühring è
quindi costretto a tirare fuori ulteriori spiegazioni:
"Parlando assolutamente in generale, la legge fondamentale della
comparazione e dell'apprezzamento su cui poggiano il valore e i
prezzi che lo esprimono in denaro, ha la sua base anzitutto nel
campo della pura produzione, prescindendo dalla distribuzione che
nel concetto di valore porta solo un secondo elemento. Gli
ostacoli maggiori o minori, che la diversità delle
condizioni naturali porta agli sforzi intesi a procurarsi le cose
e che perciò rende necessarie delle erogazioni maggiori o
minori di forza economica, determinano anche (...) il maggiore o
minore valore", e questo viene valutato a seconda della
"resistenza che all'acquisto oppongono la natura e lecondizioni
(...) La misura in cui noi incorporiamo le cose" (nelle cose) "la
nostra propria forza è la causa immediatamente decisiva
dell'esistenza del valore in generale e dell'esistenza di una
particolare grandezza di esso."
Ciò, nella misura in cui ha un senso, significa: il valore
di un prodotto di lavoro è determinato dal tempo di lavoro
necessario per la sua produzione, e questo lo sappiamo da gran
tempo anche senza Dühring. Invece di presentarci il fatto
così semplicemente, bisogna che lo contorca in una formula
oracolare. È semplicemente falso che la misura in cui
ciascuno incorpora in una qualche cosa la sua forza (per attenerci
a questo stile pomposo) sia la causa immediatamente decisiva del
valore e della sua grandezza. In primo luogo ciò che qui
importa è in quale cosa la forza viene incorporata e in
secondo luogo il modo in cui viene incorporata. Se il nostro
qualcuno crea una cosa che per altri non ha nessun valore d'uso,
tutta quanta la sua forza non crea un atomo di valore; e se si
ostina a produrre con le sue mani un oggetto che una macchina
produce venti volte più a buon mercato, i diciannove
ventesimi della forza che egli incorpora non producono né
valore né una particolare grandezza di esso.
Inoltre vuol dire sovvertire completamente l'argomento il
trasformare in un superamento semplicemente negativo di una
resistenza il lavoro produttivo, che crea prodotti positivi.
Dovremmo in questo caso, per riuscire ad avere una camicia,
procedere all'incirca nel modo che segue: in primo luogo superiamo
la resistenza opposta dal seme di cotone ad essere seminato e a
crescere, poi la resistenza opposta dal cotone maturo ad essere
raccolto, imballato e spedito, poi la resistenza opposta dal filo
ad essere tessuto, quella opposta dal tessuto ad essere imbiancato
e cucito e finalmente la resistenza che la camicia pronta oppone
ad essere indossata.
Ma perché queste contorsioni e queste assurdità
infantili? Per venire, per mezzo della "resistenza" e del "valore
di produzione", del valore vero, ma sinora solo ideale, a quel
"valore di distribuzione" falsato dalla violenza e che solo sinora
ha avuto corso nella storia:
"Oltre alla resistenza che oppone la natura (...) c'è
ancora un altro ostacolo puramente sociale (...) Tra l'uomo e la
natura appare una potenza che ostacola e questa è ancora
una volta l'uomo. L'uomo concepito come essere singolo e isolato
è libero di fronte alla natura (...) La situazione si
configura diversamente allorché ne immaginiamo un secondo
che, la spada in pugno, impedisca ogni accesso alla natura e alle
sue risorse e per lasciar passare chieda, in qualsiasi forma, un
prezzo. Questo secondo uomo (...) grava, per così dire, il
primo di tributi e così egli è la ragione per cui il
valore di ciò di cui si aspira finisce per esser maggiore
di quanto potrebbe essere, senza questo ostacolo politico e
sociale all'acquisto o alla produzione dell'oggetto (...)
Svariatissime sono le forme particolari assunte da questa
valutazione artificialmente aumentata delle cose, che naturalmente
ha la sua concomitante contropartita in una corrispondente
diminuzione della valutazione del lavoro (...) è
perciò un'illusione il voler considerare sin dal principio
il valore come un equivalente nel senso proprio della parola,
cioè come qualche cosa che valga egualmente, o come un
rapporto di scambio istituitosi in conformità al principio
dell'eguaglianza di prestazione o controprestazione (...) Al
contrario la caratteristica di una giusta teoria del valore
è che la causa della valutazione, che in questa teoria
viene pensata nel modo più generale, non coincide con la
forma particolare che assume la valutazione fondata sulla
costrizione della distribuzione. Questa forma si muta con la
costituzione sociale, mentre il valore specificamente economico
può essere solo un valore di produzione misurato rispetto
alla natura e perciò si modificherà solo con gli
ostacoli naturali e tecnici che la produzione pura e semplice
incontra".
Il valore che una cosa ha in pratica consta quindi, secondo
Dühring, di due parti: in primo luogo del lavoro in essa
contenuto e in secondo luogo dell'aggiunta di un tributo estorto
"con la spada in pugno". In altri termini il valore oggi valido
è un prezzo di monopolio. Se dunque, secondo questa teoria,
tutte le merci hanno un tale prezzo di monopolio, sono possibili
solo due casi. O ciascuno torna a perdere come compratore quello
che ha guadagnato come venditore; i prezzi si sono modificati in
quanto al nome, ma in realtà, nel loro rapporto specifico,
sono rimasti uguali; e allora tutto resta com'era e il celeberrimo
valore di distribuzione è una mera parvenza. O invece le
pretese aggiunte di tributi rappresentano una reale somma di
valore, ossia quella somma di valore che è prodotta dalla
classe lavoratrice creatrice di valore, ma di cui si appropria la
classe dei monopolisti, e allora questa somma di valore consiste
semplicemente in lavoro non pagato; in questo caso, malgrado
l'uomo con la spada in pugno, e le pretese aggiunte di tributi,
ritorniamo di nuovo alla teoria marxiana del plusvalore.
Consideriamo tuttavia alcuni aspetti del celeberrimo "valore di
distribuzione". A p. 153 e seguenti leggiamo:
"Anche la formazione dei prezzi mediante la concorrenza
individuale deve considerarsi come una forma della distribuzione
economica e della reciproca imposizione di tributi (...) si
immagini che la scorta di una merce necessaria improvvisamente
diminuisca in misura considerevole: sorgerà allora da parte
dei venditori un potere di sfruttamento senza limiti (...) quali
enormi proporzioni possa assumere l'aumento dei prezzi è
mostrato particolarmente da quelle situazioni anormali nelle quali
per una durata considerevole sono troncati i rifornimenti di
articoli necessari, ecc."
Inoltre anche nel corso normale delle cose ci sarebbero monopoli
virtuali che permetterebbero un aumento arbitrario dei prezzi, per
es. nelle strade ferrate, nelle società che riforniscono le
città di acqua, di gas illuminante, ecc. Che tali occasioni
di sfruttamento monopolistico si verifichino, è noto da un
pezzo. Ma che i prezzi di monopolio che così si producano
debbano valere non come eccezioni e come casi speciali, ma
precisamente come esempio classico del processo con cui si
determina oggi il valore, questo è nuovo. Come si
stabiliscono i prezzi dei mezzi di sussistenza? Andate in una
città assediata dove sono troncati i rifornimenti e
informatevi! Così risponde Dühring. Come agisce la
concorrenza nella determinazione dei prezzi di mercato?
Interrogate il monopolio, esso vi darà la risposta.
Del resto anche in questi monopoli non si può scoprire
l'uomo che con la spada in pugno starebbe dietro ad essi. Al
contrario, in città assediate, di solito l'uomo con la
spada in pugno, il comandante, se fa il suo dovere, mette
rapidamente fine al monopolio e requisisce le scorte sottoposte al
monopolio, al fine di un'equa distribuzione, e in quanto al resto,
gli uomini con la spada in pugno, allorché hanno tentato di
fabbricare un "valore di distribuzione", non altro hanno raccolto
che cattivi affari e perdite di denaro. Gli olandesi,
monopolizzando il commercio delle Indie orientali, hanno rovinato
il loro monopolio e il loro commercio. I due governi più
forti che siano mai esistiti, il governo rivoluzionario
nordamericano e la Convenzione nazionale francese, ebbero l'ardire
di volere imporre un calmiere dei prezzi e fallirono miseramente.
Da anni il governo russo lavora per far salire a Londra, per mezzo
di continui acquisti di lettere di credito tratte sulla Russia, il
corso della cartamoneta russa, che esso deprime in Russia con
emissioni del pari continue di biglietti di banca inconvertibili.
Questo piacere gli è costato circa sessanta milioni di
rubli in pochi anni e il rublo vale ora meno di due marchi
anziché più di tre. Se la spada ha la magica potenza
economica che Dühring le attribuisce, perché nessun
governo ha potuto mai effettivamente imporre che una moneta
cattiva avesse alla lunga il "valore di distribuzione" di una
buona, o che degli assegnati avessero il valore di distribuzione
dell'oro? E dove è quella spada che esercita il comando sul
mercato mondiale?
Inoltre c'è ancora un'altra forma principale nella quale il
valore di distribuzione rende possibile l'appropriazione di
prestazioni altrui senza contropartita: la rendita del possesso,
cioè la rendita fondiaria e l'interesse del capitale. Per
il momento ne prendiamo atto solamente per poter dire che questo
è tutto ciò che veniamo a saper sul famoso "valore
di distribuzione". Tutto? Non ancora completamente tutto.
Ascoltiamo:
"Malgrado il duplice punto di vista che emerge dalla conoscenza
dell'esistenza di un valore di produzione e di un valore di
distribuzione, tuttavia resta sempre alla loro base un qualche
cosa di comune, come quell'oggetto di cui constano tutti i valori
e con cui perciò debbono anche misurarsi. La misura
immediata naturale è l'erogazione della forza e la
più semplice unità è la forza umana nel senso
più crudo del termine. Quest'ultima si riporta al tempo di
esistenza in cui il mantenersi con i propri mezzi rappresenta a
sua volta il superamento di una certa soglia di difficoltà
per procacciarsi il cibo e per vivere. Il valore di distribuzione
o valore di appropriazione si trova propriamente ed esclusivamente
là dove c'è il potere di disporre di cose che non si
sono prodotte, o, per dirla in modo più familiare, dove
queste cose stesse vengono scambiate con prestazioni o beni aventi
un reale valore di produzione. L'elemento comune, quale si trova
significato e rappresentato in ogni espressone del valore, e
perciò anche negli elementi costituiti del valore di cui ci
si appropria mediante la distribuzione senza contropartita,
consiste nell'erogazione di forza umana, che si (...) trova
incorporata (...) in ogni merce".
Che cosa dobbiamo dire su questo punto? Se il valore di ogni merce
deve essere misurato con l'erogazione di forza umana incorporata
nelle merci, dove vanno a finire allora il valore di
distribuzione, il sovrapprezzo, l'imposizione di tributi?
Dühring ci dice invero che anche cose che non si sono
prodotte, e che quindi non sono capaci di un valore propriamente
detto, possono acquisire un valore di distribuzione ed essere
scambiate con cose prodotte, aventi un valore. Ma dice nello
stesso tempo che tutti i valori, e quindi anche i valori di
distribuzione puri ed esclusivi, consistono in erogazione di forza
incorporata in essi. Ma con questo disgraziatamente noi non
riusciamo a capire come in una cosa che non è stata
prodotta possa incorporasi una erogazione di forza. In ogni caso
quel tanto che in tutto questo intrecciarsi di valori appare
chiaro, è finalmente che il valore di distribuzione, i
sovrapprezzi imposti alle merci in virtù della posizione
sociale, l'imposizione di tributi per mezzo della spada, ancora
una volta non contano nulla; i valori delle merci sono determinati
unicamente dall'erogazione di forza umana, vulgo lavoro, che si
trova incorporata in essi? Prescindendo dalla rendita fondiaria e
da pochi prezzi di monopolio, Dühring dice quindi, solo
più vagamente e più confusamente, la stessa cosa che
la teoria del valore ricardiano-marxiana, tanto deprecata, aveva
già detto da molto tempo con molta maggiore chiarezza e
precisione?
Lo dice, e nello stesso tempo dice il contrario. Marx, movendo
dalle indagini di Ricardo, dice: il valore delle merci è
determinato dal lavoro genericamente umano e socialmente
necessario che è incorporato in esse e che trova a sua
volta la misura nella sua durata nel tempo. Il lavoro è la
misura di ogni valore, esso stesso però non havalore.
Dühring, dopo avere, nella sua maniera confusa, presentato
anche il lavoro come misura del valore, prosegue: esso " si
riporta al tempo di esistenza in cui il mantenersi con i propri
mezzi rappresenta a sua volta il superamento di una certa soglia
di difficoltà per procacciarsi il cibo e per vivere".
Trascuriamo la confusione, dovuta a puro e semplice amore di
originalità, tra tempo di lavoro, che è la sola cosa
che qui importa, e tempo di esistenza, che sinora non ha mai
creato né misurato valori. Trascuriamo anche la falsa
partenza "socialitaria" che il "mantenersi con i propri mezzi" di
questo tempo di esistenza dovrebbe introdurre; dacché il
mondo è esistito e sino a che esisterà, ognuno deve
mantenere se stesso, nel senso che consuma, egli stesso, i suoi
mezzi di sostentamento. Se ammettiamo che Dühring si sia
espresso in linguaggio economico e con precisione, la frase
riportata o non significa nulla o significa che il valore di una
merce è determinato dal tempo di lavoro incorporato in
essa, e il valore di questo tempo di lavoro è determinato
dai mezzi di sussistenza necessari per il mantenimento del
lavoratore durante questo tempo. E ciò per la
società odierna significa che il valore di una merce
è determinato dal salario in essa contenuto.
Con questo siamo infine arrivati a ciò che propriamente
Dühring vuol dire. Il valore di una merce si determina,
secondo il comune linguaggio economico, mediante i costi di
produzione; per contro Carey "ha messo in rilievo la verità
che non i costi di produzione, ma i costi di riproduzione
determinano il valore" ("Storia critica" p. 401). Che cosa siano
questi costi di produzione o di riproduzione lo vedremo più
tardi; qui ci limitiamo al fatto che essi constano, come è
noto, di salario e di profitto del capitale. Il salario
rappresenta l'"erogazione di forza" incorporata nella merce,
cioè il valore di produzione. Il profitto rappresenta il
tributo o sovrapprezzo che il capitalista impone grazie al suo
monopolio, alla sua spada in pugno, cioè il valore di
distribuzione. E così tutta la contraddittoria confusione
della teoria dühringiana del valore si risolve finalmente
nella più bella e armoniosa chiarezza.
La determinazione del valore delle merci mediante il salario, che
ancora in Adam Smith si intreccia sovente con la determinazione
del valore mediante il tempo di lavoro, dopo Ricardo è
stata bandita dall'economia scientifica e oggigiorno solo
nell'economia volgare continua ancora trascinare la sua esistenza.
Sono precisamente i più banali sicofanti del vigente
ordinamento capitalistico quelli che predicano la determinazione
del valore mediante il salario e che così
contemporaneamente spacciano anche il profitto del capitalista per
una specie superiore del salario, per un salario di astinenza
(dovuto al fatto che il capitalista non ha dissipato nei piaceri
il suo capitale), per un premio del rischio, per un salario di
direzione dell'impresa, ecc. Dühring si distingue da costoro
solo per il fatto che dichiara che il profitto è rapina. In
altri termini Dühring fonda il suo socialismo direttamente
sulle dottrine dell'economia volgare della peggiore specie. Quanto
vale questa economia, tanto vale il suo socialismo. L'una e
l'altro si reggono e cadono insieme.
Comunque questo è chiaro: che ciò che un operaio
produce e ciò che costa sono cose altrettanto diverse
quanto ciò che una macchina produce e ciò che costa.
Il valore che un operaio crea in un tempo di lavoro di dodici ore,
non ha niente in comune con il valore dei mezzi di sussistenza che
consuma in questa giornata di lavoro e nel relativo periodo di
riposo. In questi mezzi di sussistenza può essere
incorporato un tempo di lavoro della durata di tre, quattro, sette
ore, a seconda del grado di sviluppo raggiunto dalla
produttività del lavoro. Supponiamo che per la sua
produzione siano state necessarie sette ore di lavoro; la teoria
del valore dell'economia volgare, accettata da Dühring, dice
che il prodotto di dodici ore di lavoro ha il valore di sette ore
di lavoro, ossia che dodici ore di lavoro sono uguali a sette ore
di lavoro, ossia: 12=7. Per parlare ancora più chiaramente,
un lavoratore agricolo, quali che siano le condizioni generali
della società, produce una certa quantità di
cereali, poniamo venti ettolitri di frumento all'anno. Durante
questo tempo egli consuma una somma di valori che si esprime in
una somma di quindici ettolitri di frumento. In questo caso i
venti ettolitri di frumento hanno lo stesso valore dei quindici, e
ciò nello stesso mercato e circostanze che peraltro restano
esattamente uguali, in altri termini 20 è uguale a 15. E
questa si chiama economia!
Tutto lo sviluppo della società umana, al di là
dello stadio di selvatichezza animalesca, comincia dal giorno
incui il lavoro familiare crea più prodotti di quanti ne
siano necessari al suo mantenimento, dal giorno in cui una parte
del lavoro può essere applicata alla produzione non
più di semplici mezzi di sussistenza, ma di mezzi di
produzione. Un'eccedenza del prodotto del lavoro sui costi del
mantenimento del lavoro e la formazione e l'accrescimento di un
fondo sociale di produzione e di riserva per mezzo di
quest'eccedenza, è stata ed è la base di ogni
progresso sociale, politico ed intellettuale. Nella storia sinora
questo fondo è stato il possesso di una classe
privilegiata, alla quale oltre a questo possesso sono toccati
anche il dominio politico e la direzione sociale. L'imminente
rivoluzione sociale farà per la prima volta di questo fondo
di produzione e di riserva sociale, cioè di tutta la massa
di materie prime, strumenti di produzione e mezzi di sussistenza,
un fondo realmente sociale, togliendone la disponibilità
alla classe privilegiata e trasferendolo come bene comune a tutta
la società.
Una delle due: o il valore delle merci si determina mediante le
spese di mantenimento del lavoro necessario alla loro produzione,
cioè, nella società odierna, mediante il salario.
Allora ogni operaio nel suo salario riceve il valore del prodotto
del suo lavoro, e quindi uno sfruttamento della classe dei
salariati per mezzo della classe dei capitalisti è
impossibile. Poniamo che le spese di mantenimento di un operaio
siano espresse, in una data società, mediante la somma di
tre marchi. Allora il prodotto giornaliero di un operaio, secondo
la teoria dell'economia volgare che abbiamo riportato sopra, ha il
valore di tre marchi. Supponiamo ora che il capitalista che
impiega questo operaio aggiunga a questo prodotto un profitto, un
tributo di un marco e lo venda a quattro marchi. Lo stesso fanno
gli altri capitalisti. Ma allora l'operaio non può far
fronte al suo quotidiano mantenimento con tre marchi, ne abbisogna
invece anch'egli di quattro. Poiché si è supposto
che tutte le altre circostanze restino identiche, il salario
espresso in mezzi di sussistenza deve rimanere lo stesso, il
salario espresso in denaro deve invece aumentare e precisamente da
tre a quattro marchi al giorno. Ciò che i capitalisti
sottraggono alla classe operaia sotto forma di profitto, glielo
debbono restituire sotto forma di salario. Siamo precisamente al
punto di partenza: se il salario determina il valore, non è
possibile sfruttamento alcuno dell'operaio per mezzo del
capitalista. Ma non è possibile neanche la formazione di
un'eccedenza di prodotti; infatti, secondo il nostro presupposto,
gli operai consumano precisamente tanto valore quanto ne
producono. E poiché i capitalisti non producono nessun
valore, non è dato scorgere di che cosa possano vivere. Ma
se una tale eccedenza della produzione sul consumo, un tale fondo
di produzione e di riserva tuttavia esiste, precisamente nelle
mani dei capitalisti, non rimane altra spiegazione se non che gli
operai consumano per il loro mantenimento semplicemente il valore
delle merci, ma le merci stesse le hanno lasciate ai capitalisti
per uso ulteriore.
O invece: se questo fondo di produzione e di riserva esiste
realmente nelle mani della classe capitalistica, se realmente si
è formato mediante accumulazione di profitto (lasciamo per
ora fuori causa la rendita fondiaria), esso consiste
necessariamente nell'eccedenza accumulata del prodotto del lavoro
fornito dalla classe operaia alla classe capitalistica, eccedenza
oltrepassante la somma di salari pagati dalla classe capitalistica
alla classe operaia. Ma allora il valore non viene determinato dal
salario, ma dalla quantità di lavoro, allora la classe
operaia fornisce come prodotto di lavoro alla classe capitalistica
una quantità di valore maggiore di quella che dalla classe
capitalistica le viene pagata come salario e allora il profitto
capitalistico, come tutte le altre forme di appropriazione di
prodotto altrui non pagato, si spiega come semplice elemento
costitutivo di questo plusvalore scoperto da Marx.
Incidentalmente: della grande scoperta con cui Ricardo apre la sua
opera capitale:
"Che il valore di una merce (...) dipende dalla quantità di
lavoro necessario alla sua produzione e non dal compenso
più o meno alto pagato per questo lavoro " [97]
Di questa scoperta che fa epoca, in tutto il "Corso" di economia
non si dice niente in nessun luogo. Nella "Storia critica" essa
viene liquidata con la frase oracolare:
"Non fu tenuto conto" (da Ricardo) "che la misura più o
meno grande in cui il salario può (!) essere un'indicazione
dei bisogni della vita (...) porta necessariamente con sé
anche forme molteplici di valore!".
Frase, questa, con cui il lettore può pensare tutto quello
che vuole e con cui la cosa più sicura sarebbe per lui il
non pensare assolutamente niente.
Ed ora il lettore, delle cinque specie di valore che Dühring
ci fornisce, si cerchi da se stesso quella che più gli
aggrada: o il valore di produzione che viene dalla natura, o il
valore di distribuzione che è stato creato dalla
malvagità degli uomini e che è caratterizzato dal
fatto che è misurato dall'erogazione di forza non contenuta
in esso, o in terzo luogo il valore che è misurato per
mezzo del tempo di lavoro, o in quarto luogo quello che è
misurato per mezzo delle spese di riproduzione o finalmente quello
che è misurato per mezzo del salario. La scelta è
ricca, la confusione completa e a noi non resta altro che
esclamare con Dühring: "La dottrina del valore è la
pietra di paragone della solidità dei sistemi
economici!".
Dühring ha scoperto in Marx una cantonata economica
grossolana, che è degna di un ginnasiale e contiene al
tempo stesso un'eresia socialista pericolosissima. La teoria
marxiana del valore
"non è altro che la solita (...) dottrina che il lavoro
è causa di tutti i valori e che il tempo di lavoro e la
misura di essi. In questo modo resta completamente oscuro quale
idea ci si deve formare del valore specifico del cosiddetto lavoro
qualificato (...) Certo, anche secondo la nostra teoria solo il
tempo di lavoro impiegato può misurare i costi naturali e
conseguentemente il valore assoluto dei beni economici; ma qui il
tempo di lavoro di ciascuno dovrà essere considerato a
priori come assolutamente eguale e dovrà riguardarsi
soltanto il caso in cui le prestazioni più qualificate
(...) per es. nell'uso di uno strumento (...) col tempo di lavoro
individuale del singolo collabori anche quello di altre persone.
Non è dunque vero, come nebulosamente immagina Marx, che il
tempo di lavoro di qualcuno abbia in sé più valore
di quello di un altro, perché qui sarebbe, per così
dire, considerato un maggior tempo di lavoro medio; invece ogni
tempo di lavoro, senza eccezioni e in linea di principio, quindi
senza che se ne debba prendere una media, è di egual
valore, e nelle prestazioni fornite da una persona, così
come in ogni prodotto finito, si dovrà considerare
solamente quanto tempo di lavoro di altre persone possa essere
celato nell'erogazione di un tempo di lavoro in apparenza solo
personale. Per la rigorosa validità della teoria non ha la
minima importanza se sia uno strumento di produzione della mano o
la mano stessa o la testa, ciò che non poteva acquisire la
particolare qualità o capacità di prestazione senza
il tempo di lavoro di altri. Marx, invece, nelle sue elucubrazioni
sul valore non riesce a liberarsi dello spettro, che appare nello
sfondo, di un tempo di lavoro qualificato. Ciò che gli ha
impedito di andare sino in fondo in questa direzione è la
mentalità tradizionale delle classi colte alle quali
necessariamente deve apparire una mostruosità il
riconoscere che dal punto di vista economico il tempo di lavoro
del carrettiere e quello dell'architetto abbaino assolutamente lo
stesso valore".
Il passo di Marx che provoca questa "violenta ira" di Dühring
è molto breve. Marx indaga da che cosa sia determinato il
valore delle merci e risponde: dal lavoro umano contenuto in esse.
Questo, egli prosegue,
"è dispendio di quella semplice forza-lavoro che ogni uomo
comune possiede in media nel suo organismo fisico, senza
particolare sviluppo (...) Un lavoro complesso vale soltanto come
lavoro semplice potenziato o piuttosto moltiplicato,
cosicché una quantità minore di lavoro complesso
è uguale a una quantità maggiore di lavoro semplice.
L'esperienza insegna che questa riduzione avviene costantemente.
Una merce può essere il prodotto del lavoro più
complesso di tutti, ma il suo valore la equipara al prodotto di
lavoro semplice e rappresenta quindi soltanto una determinata
quantità di lavoro semplice. Le varie proporzioni nelle
quali differenti generi di lavoro sono ridotti a lavoro semplice
come loro unità di misura, vengono stabilite mediante un
processo sociale estraneo ai produttori, e quindi appaiono a
questi ultimi date dalla tradizione" [98].
In Marx qui si tratta in primo luogo solo della determinazione del
valore di merci e quindi di oggetti che, in seno ad una
società costituita da produttori privati, vengono prodotti
e mutuamente scambiati da questi produttori privati per conto
privato. Qui dunque non si tratta affatto del "valore assoluto",
sempre che questo possa mai esistere, ma di quel valore che vige
in una forma determinata di società. Questo valore, in
questa determinata accezione storica, si rivela prodotto e
misurato dal lavoro umano incorporato nelle singole merci e questo
lavoro umano si rivela ulteriormente come erogazione di semplice
forza-lavoro. Ma non ogni lavoro è una mera erogazione di
semplice forza-lavoro umana; numerosissimi generi di lavoro
includono in sé abilità o cognizioni acquistate con
fatica e con impiego di tempo e di denaro più o meno
grande. Queste specie di lavoro composto producono nello stesso
intervallo di tempo lo stesso valore di merci del lavoro semplice,
delle erogazioni di forma-lavoro pura e semplice? Evidentemente
no! Il prodotto dell'ora di lavoro composto è una merce di
valore più alto, doppio o triplo, in confronto al prodotto
dell'ora di lavoro semplice. Il valore dei prodotti del lavoro
composto viene espresso, mediante questo confronto, in
quantità determinate di lavoro semplice; ma questa
riduzione del lavoro composto si compie mediante un processo
sociale che si effettua alle spalle dei produttori, mediante un
processo che qui, nello sviluppo della storia del valore,
può essere solo costatato ma non spiegato.
Questo semplice fatto, che nell'attuale società
capitalistica si compie giornalmente sotto ai nostri occhi,
è quello che viene qui constatato da Marx. Questo fatto
è tanto irrefutabile che lo stesso Dühring non osa
contestarlo nel suo "Corso" né nella sua storia
dell'economia, e l'esposizione di Marx è così
semplice e penetrante che nessuno "è lasciato in una
completa oscurità" tranne Dühring. Grazie a questa sua
completa oscurità costui scambia il valore delle merci, di
cui Marx si occupa esclusivamente, con "i costi naturali" che
rendono l'oscurità ancora più completa, e
addirittura con quel "valore assoluto" che sinora nell'economia
che è a nostra conoscenza non ha mai avuto diritto di
cittadinanza. Ma checché intenda Dühring con i suoi
costi naturali, quale che sia quello dei suoi cinque generi di
valore che abbia l'onore di rappresentare il valore assoluto, una
cosa è certa: che in Marx di tutte queste cose non si parla
e si parla invece solo del valore delle merci e che in tutta la
sezione del "Capitale" che tratta del valore non c'è
neanche la più piccola indicazione che ci dica se e in
quali limiti Marx ritenga questa teoria del valore delle merci
applicabile anche ad altre forme di società.
Non è dunque, prosegue Dühring,
"non è dunque vero, come nebulosamente immagina Marx, che
il tempo di lavoro di qualcuno abbia in sé più
valore di quello di un altro, perché qui sarebbe, per
così dire, considerato un maggior tempo di lavoro medio;
invece ogni tempo di lavoro, senza eccezioni e in linea di
principio, quindi senza che se ne debba prendere una media,
è di egual valore".
È una fortuna per Dühring che il destino non ne abbia
fatto un industriale e lo abbia quindi preservato dal fissare il
valore delle sue merci secondo questa nuova regola e con
ciò dall'andare a cadere senza fallo tra le braccia della
bancarotta. E che? Forse qui ci troviamo ancora nella
società degli industriali? Niente affatto. Con i costi
naturali ed il valore assoluto Dühring ci ha fatto fare un
salto, un vero salto mortale [98b] dal cattivo mondo degli
sfruttatori del presente alla sua comunità economica
dell'avvenire, alla pura atmosfera celeste dell'eguaglianza e
della giustizia, e dunque, sia pur prematuramente, noi dobbiamo
già da ora dare un'occhiata a questo mondo nuovo.
È vero che, secondo la teoria di Dühring, anche nella
comunità economica il valore dei beni economici viene
misurato dal tempo di lavoro impiegato, ma con ciò il tempo
di lavoro di ciascuno deve a priori esser considerato di valore
rigorosamente eguale, ogni tempo di lavoro è senza
eccezione e in linea di principio di valore assolutamente eguale e
ciò senza che prima se ne debba prendere una media. E ora
opponete a questo socialismo dell'eguaglianza radicale l'idea
nebulosa di Marx che il tempo di lavoro di qualcuno abbia
più valore del tempo di lavoro di un'altra persona,
perché ci sarebbe condensato più lavoro medio, idea
della quale lo tiene prigioniero la mentalità tradizionale
delle classi colte alla quale necessariamente deve apparire una
mostruosità il riconoscere che dal punto di vista economico
il tempo di lavoro del carrettiere e quello dell'architetto
abbiano assolutamente lo stesso valore!
Disgraziatamente Marx fa seguire nel "Capitale" al passo citato
sopra la seguente piccola annotazione:
"Il lettore deve notare che qui non si parla di salario o valore
che il lavoratore riceve, per es., per una giornata lavorativa, ma
del valore della merce, nel quale si oggettiva la sua giornata
lavorativa" [99].
Marx, che sembra qui abbia presentito il suo Dühring, prende
le sue precauzioni contro il pericolo che i suoi principi sopra
esposti siano applicati sia pure soltanto al salario che nella
società attuale dovrebbe essere pagato per un lavoro
composto. E se Dühring, non contento di farlo egualmente,
spaccia quei principi per i principi fondamentali secondo i quali
Marx vorrebbe veder regolata la distribuzione dei mezzi di
sussistenza nella società organizzata socialisticamente,
ciò costituisce una falsificazione di una spudoratezza che
ha l'eguale solo nei romanzi della malavita.
Ma esaminiamo un po' più da vicino la dottrina della
eguaglianza del valore. Ogni tempo di lavoro ha esattamente lo
stesso valore, sia quello del carrettiere che quello
dell'architetto. Quindi il tempo di lavoro, e conseguentemente il
lavoro stesso, ha un valore. Ma il lavoro è il produttore
di tutti i valori. Solo esso dà ai prodotti che si trovano
in natura un valore in senso economico. Il valore stesso non
è altro che l'espressione del lavoro umano socialmente
necessario oggettivato in una cosa. Il lavoro non può
dunque avere alcun valore. Tanto sarebbe possibile parlare di un
valore del lavoro e volerlo determinare, quanto sarebbe possibile
parlare del valore del valore, o voler determinare il peso non di
un corpo pesante, ma di un peso stesso. Con uomini quali Owen,
Saint-Simon e Fourier, Dühring se la sbriga con l'appellativo
di alchimisti sociali. Ma, sottilizzando sul valore del tempo di
lavoro, cioè del lavoro, dimostra di essere anche
più in basso degli alchimisti veri e propri. Ed ora si
misura l'audacia con cui Dühring imputa a Marx l'affermazione
che il tempo di lavoro di qualcuno abbia in sé più
valore di quello di un'altra persona, come se il tempo di lavoro e
quindi il lavoro avesse un valore... a Marx che per primo ha
spiegato come e perché il lavoro non può avere alcun
valore!
Per il socialismo, che vuole liberare la forza-lavoro umana dalla
sua posizione di merce, è di grande importanza che il
lavoro non ha né può avere un valore. Con questo
riconoscimento cadono tutti i tentativi che Dühring ha
ereditato dal socialismo operaio primitivo, di regolare la futura
distribuzione dei mezzi di sussistenza come una specie di salario
più elevato. Da esso consegue ulteriormente il
riconoscimento che la distribuzione, nella misura in cui viene
dominata da considerazioni puramente economiche, sarà
regolata nell'interesse della produzione e che la produzione viene
favorita al massimo da un modo di distribuzione che permetta a
tutti i membri della società di sviluppare, conservare ed
esercitare le proprie capacità il più che sia
possibile in tutte le direzioni. Alla mentalità delle
classi colte, ereditata da Dühring, deve certamente apparire
una mostruosità che non ci debbano più essere
carrettieri ed architetti di professione e che l'uomo, che in una
mezz'ora ha dato delle istruzioni come architetto, per un certo
tempo possa anche spingere un carro sia a che venga di nuovo
richiesta la sua attività di architetto. Bel socialismo,
che eterna la professione del carrettiere!
Se l'eguaglianza di valore del tempo di lavoro deve avere il
significato che ogni operaio in tempo pari produca pari valore
senza che neppure se ne debba prendere una media, essa è
evidentemente falsa. Dati due operai che esercitino anche lo steso
ramo di attività, il valore che essi producono in un'ora
varia a seconda dell'intensità del lavoro e
dell'abilità; a questo malanno -che tuttavia non è
tale che per della gente à la Dühring- non può
neppure portare rimedio nessuna comunità economica, almeno
sul nostro pianeta. Che cosa resta allora della completa
eguaglianza di valore di ogni e qualsiasi lavoro? Nient'altro che
la pura e semplice frase roboante, che non ha altra base economica
che non l'incapacità di Dühring di distinguere tra
determinazione del valore mediante il lavoro e determinazione del
valore mediante il salario... nient'altro che l'ukas, la legge
fondamentale della nuova comunità economica: a pari tempo
di lavoro, pari salario! Ma allora i vecchi comunisti-operai
francesi e Weitling avevano ragioni molto migliori per sostenere
la loro eguaglianza di salario.
Come si risolve dunque tutta questa importante questione della
corresponsione di un salario più elevato per un lavoro
composto? Nella società dei produttori privati, i privati o
le loro famiglie fanno fronte alle spese per l'istruzione
dell'operaio qualificato; spetta allora anzitutto ai privati il
più alto prezzo della forza-lavoro qualificata: lo schiavo
abile è comprato a più caro prezzo, il salariato
abile ha un salario più alto. Nella società
organizzata socialisticamente queste spese sono affrontate dalla
società, ad essa appartengono perciò anche i frutti,
i valori maggiori che vengono prodotti dal lavoro composto. Lo
stesso operaio non ha maggiori diritti da rivendicare. Da tutto
ciò incidentalmente consegue la morale della favola che la
rivendicazione cara all'operaio "del provento integrale del
lavoro" ha anch'essa qualche volta i suoi punti deboli [100].
Note
92. Dühring definì "naturale" la sua "Dialettica" in
contrapposto alla dialettica hegeliana, per "ricusare
esplicitamente ogni comunanza con le confuse manifestazioni della
parte decaduta della filosofia tedesca", cioè con la
"innaturale" dialettica hegeliana.
93. Gajus Plinius Secundus, "Historiae naturalis libri XXXVII",
lib. XVIII, 35.
94. L'espressione "magnifico esercito" fu usata il 1° gennaio
1849 da Federico Guglielmo IV nel suo messaggio augurale di
capodanno all'esercito prussiano.
95. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 814.
44. La guerra dei trent'anni (1618-1648) fu una guerra europea che
cominciò in Boemia con una rivolta contro la monarchia
asburgica e l'avanzare della reazione cattolica. Essa si
sviluppò in un conflitto tra il campo cattolico-feudale (il
papa, gli Asburgo di Spagna e d'Austria, i principi cattolici
tedeschi) e i paesi protestanti (Boemia, Danimarca, Olanda e vari
Stati tedeschi riformati) appoggiati dai re francesi, rivali degli
Asburgo. La Germania fu uno dei teatri principali della guerra,
oggetto di saccheggi e rivendicazioni da parte dei partecipanti.
La pace di Westfalia, del 1648, sancì lo smembramento
politico della Germania.
96. P-J. Proudhon, "Qu'est-ce que la propriété?...",
p. 2.
97. David Ricardo, "On the principles...", p. 1.
98. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 76-77.
98b. In italiano nel testo.
99. Ibid., p. 76, nota 15.
100. La concezione di Ferdinand Lassalle sul "provento pieno del
lavoro" o "integrale" è criticata a fondo da Marx nella
prima sezione delle "Glosse marginali al programma del Partito
operaio tedesco" ("Critica del programma di Gotha", trad. it.,
Roma, Editori Riuniti, 1976).
"Per cominciare, per quanto riguarda il capitale, Marx non accetta
il concetto universalmente corrente in economia, secondo il quale
il capitale è un mezzo di produzione prodotto esso stesso e
tenta invece di sublimarlo in una più specifica idea
storico-dialettica che si addentra nel giuoco delle metamorfosi
dei concetti e della storia. Secondo lui il capitale nasce dal
denaro, e costituisce una fase storica che comincia col secolo
XVI, cioè con gli inizi di un mercato mondiale, che si
presuppone siano avvenuti in quest'epoca. Ora, è chiaro che
in una tale concezione il rigore dell'analisi economica venga
perduto. In concezioni tanto confuse che vorrebbero essere per
metà storiche e per metà logiche e che invece sono
in realtà soltanto prodotti bastardi di fantasie storiche e
logiche, il potere di distinzione dell'intelletto naufraga insieme
con ogni retto uso dei concetti", e così continua a
chiacchierare per tutta una pagina; "(...) con la
caratterizzazione che Marx ci dà del concetto di capitale
non possono ingenerarsi che confusioni nella dottrina
rigorosamente economica (...) facilonerie che si spacciano per
verità logiche (...) fragilità dei fondamenti" ecc.
Quindi, secondo Marx, il capitale sarebbe nato dal denaro al
principio del XVI secolo. È come se si dicesse che la
moneta metallica ben tremila anni fa è nata dal bestiame,
dato che prima, tra l'altro, il bestiame faceva le funzioni della
moneta. Solo Dühring è capace di esprimersi in un modo
così rozzo e maldestro. In Marx, nell'analisi delle forme
economiche, nel cui seno avviene il processo di circolazione delle
merci, come ultima forma appare il denaro.
"Questo ultimo prodotto della circolazione delle merci è la
prima forma fenomenica del capitale. Dal punto di vista storico,
il capitale si contrappone dappertutto alla proprietà
fondiaria, nella forma di denaro, come patrimonio in denaro,
capitale mercantile e capitale usuraio (...) La stessa storia si
svolge ogni giorno sotto i nostri occhi. Ogni nuovo capitale calca
la scena, cioè il mercato -mercato delle merci, mercato del
lavoro, mercato del denaro- in prima istanza come denaro, ancora e
sempre. Denaro che si dovrà trasformare in capitale
attraverso processi determinati." [101]
Dunque, è ancora una volta un fatto quello che Marx ha
constatato. Incapace di contestarlo, Dühring lo deforma: il
capitale nascerebbe dal denaro!
Marx indaga ora ulteriormente i processi per cui il denaro si
trasforma in capitale e trova innanzitutto che la forma nella
quale il denaro circola come capitale è il rovesciamento di
quella forma nella quale circola come equivalente generale della
merce. Il semplice possessore di merci vende per comprare; vende
ciò di cui non ha bisogno e compra col denaro ricavato
ciò di cui ha bisogno. Ai suoi inizi il capitalista
comincia col comprare ciò di cui non ha bisogno egli
stesso; compra per vendere e precisamente per vender più
caro, per ricevere di ritorno il denaro che originariamente aveva
investito nella compera, accresciuto di un incremento in denaro, e
questo incremento Marx chiama plusvalore.
Da dove si origina questo plusvalore? Non può originarsi
né dal fatto che il compratore abbia comprato le merci al
di sotto del loro valore, né dal fatto che il venditore le
venda al di sopra del loro valore. Infatti in entrambi i casi i
guadagni e le perdite di ciascuno si compensano vicendevolmente
perché ciascuno è alternativamente compratore e
venditore. Non può neanche originarsi da truffa; infatti la
truffa può certo arricchire l'uno alle spese dell'altro, ma
non può aumentare in modo generale la somma totale
posseduta da entrambi e quindi neppure la somma dei valori
circolanti in genere. "L'insieme della classe dei capitalisti di
un paese non può sfruttare se stessa" [102].
Eppure noi troviamo che l'insieme della classe dei capitalisti di
ogni paese si arricchisce continuamente sotto i nostri occhi,
vendendo più caro di quanto ha comprato e appropriandosi
plusvalore. Siamo dunque al punto di partenza: da dove si origina
questo plusvalore? La questione, che deve risolversi, e
precisamente su un piano puramente economico, escludendo ogni
truffa e ogni intromissione di qualsiasi violenza, è
questa: come è possibile vendere costantemente più
caro di quanto si è comprato, presupponendo pure che valori
eguali vengano costantemente scambiati con valori eguali?
La soluzione di questa questione costituisce il merito più
grande dell'opera di Marx. Essa diffonde chiara luce solare su
quel campo dell'economia in cui i socialisti del passato, non meno
degli economisti borghesi, brancolavano nella più profonda
oscurità. Da essa prende inizio, in essa ha il suo centro
il socialismo scientifico.
Ecco questa soluzione. L'incremento di valore del denaro che deve
trasformarsi in capitale non può avere luogo in questo
stesso denaro, né provenire dall'atto della compera
poiché questo denaro costituisce qui solo il prezzo della
merce e questo prezzo, dato il nostro presupposto che si scambiano
valori eguali, non differisce dal valore della merce. Ma per la
stessa ragione l'incremento di valore non può provenire
neppure dalla vendita della merce. Il cambiamento quindi deve aver
luogo nella merce che viene comprata, non però nel suo
valore, poiché essa viene comprata e venduta secondo il suo
valore, ma nel suo valore d'uso come tale; cioè il
cambiamento di valore deve sorgere dall'uso della merce.
"Per estrarre valore dal consumo di una merce, il nostro
possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire
(...) sul mercato, una merce il cui valore d'uso stesso possedesse
la peculiare qualità d'essere fonte di valore; tale dunque
che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di
lavoro, e quindi creazione di valore. Il possessore di denaro
trova sul mercato tale merce specifica: è la
capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro." [103].
Se, come abbiamo visto, il lavoro come tale non può avere
un valore, non avviene affatto così per la forza-lavoro.
Questa acquista un valore non appena diventa merce, quale in
realtà è oggi, e questo valore, "come quello di ogni
altra merce, è determinato dal tempo di lavoro necessario
alla produzione e quindi anche alla riproduzione di questo
articolo specifico" [104], cioè è determinato dal
tempo di lavoro che è necessario per la produzione dei
mezzi di sussistenza di cui abbisogna il lavoratore per mantenersi
in condizione di essere capace di lavorare e per riprodurre la
propria specie. Supponiamo che questi mezzi di sussistenza
rappresentino giornalmente un lavoro di sei ore. Agli inizi, il
nostro capitalista, che per condurre la sua impresa compra
forza-lavoro, cioè prende in affitto un operaio, paga
dunque a questo operaio il pieno valore giornaliero della sua
forza-lavoro se gli corrisponde una somma di denaro che
rappresenta del pari sei ore di lavoro. L'operaio dunque,
allorché ha lavorato sei ore al servizio del futuro
capitalista, ha restituito a costui il suo esborso per il suo
valore giornaliero della forza-lavoro che gli viene pagata. Ma in
questo modo il denaro non si sarebbe trasformato in capitale, non
avrebbe prodotto alcun plusvalore. Il compratore della
forza-lavoro ha perciò una maniera di vedere completamente
diversa sulla natura dell'affare che ha concluso. Il fatto che
siano necessarie sei ore di lavoro per mantenere in vita l'operaio
ventiquattr'ore, non impedisce che egli lavori dodici ore su
ventiquattro. Il valore della forza-lavoro e la sua utilizzazione
nel processo lavorativo sono due grandezze diverse. Il possessore
di denaro ha pagato il valore di un giorno della forza-lavoro, a
lui appartiene quindi anche il suo uso durante il giorno intero,
il lavoro della durata di un giorno. Che il valore creato dal suo
uso durante il giorno sia doppio del suo proprio valore di un
giorno, questo fatto costituisce una particolare fortuna per il
compratore, ma secondo le leggi dello scambio delle merci non
è affatto un torto fatto al venditore. L'operaio dunque,
secondo la nostra ipotesi, costa al possessore di denaro il valore
prodotto da sei ore di lavoro, ma gli fornisce giornalmente il
valore prodotto da dodici ore di lavoro. Differenza a profitto del
possessore di denaro: sei ore di pluslavoro non pagato,
plusprodotto non pagato in cui è incorporato il lavoro di
sei ore. Il giuoco è fatto. È stato prodotto il
plusvalore, il denaro si è trasformato in capitale.
Col mostrare in questo modo come nasce il plusvalore, e come solo
sotto il dominio delle leggi che regolano lo scambio delle merci
il plusvalore possa nascere, Marx ha messo a nudo il meccanismo
dell'attuale modo di produzione capitalistico e del modo di
produzione che su di esso è basato, e ha svelato il nucleo
intorno al quale si è cristallizzato tutto l'odierno
ordinamento della società.
Questa produzione di capitale ha tuttavia una condizione
preliminare essenziale:
"Per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro
deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero
nel duplice senso che disponga della propria forza lavorativa come
propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che,
d'altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed
esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione
della sua forza-lavoro" [105].
Ma questo rapporto tra possessori di denaro o di merci da una
parte e possessori di null'altro che la propria forza-lavoro
dall'altra, non è un rapporto conforme ad alcuna legge di
natura, né comune a tutti i periodi storici,
"esso stesso è evidentemente il risultato di uno
svolgimento storico precedente, il prodotto (...) del tramonto di
tutta una serie di formazioni più antiche della produzione
sociale" [106].
E precisamente questo lavoratore libero ci si presenta in massa
per la prima volta nella storia intorno alla fine del XV e al
principio del XVI secolo, in seguito alla dissoluzione del modo di
produzione feudale. Ma con questo fatto e con la creazione del
commercio mondiale e del mercato mondiale, che risalgono alla
stessa epoca, furono poste le basi sulle quali la massa della
ricchezza mobiliare esistente si doveva sempre più
trasformare in capitale e il modo di produzione capitalistico
indirizzato alla produzione di plusvalore doveva sempre più
diventare il modo esclusivamente dominante.
Sin qui noi abbiamo seguito le "concezioni confuse" di Marx,
questi "prodotti bastardi di fantasie storiche e logiche" nelle
quali "il potere di distinzione dell'intelletto naufraga insieme
con ogni retto uso dei concetti". È tempo ora di opporre a
queste "facilonerie" le "verità logiche profonde" e il
"procedimento definitivo e rigorosamente scientifico nel senso in
cui è inteso dalle scienze esatte", quali ci sono offerti
da Dühring.
Quindi, riguardo al capitale, Marx non accetta "il concetto
universalmente corrente in economia, secondo il quale il capitale
è un mezzo di produzione prodotto esso stesso"; e dice
invece che una somma di valori si trasforma in capitale solo se la
si valorizza formando un plusvalore. e che cosa dice Dühring?
"Il capitale è una sorgente di mezzi economici di potere
per la continuazione della produzione e per la formazione di
partecipazioni ai frutti della forza-lavoro generale."
Per quanto oracolarmente e sciattamente tutto questo ancora una
volta sia espresso, una cosa è sicura: la sorgente di mezzi
economici di potere ha un bel continuare la produzione per
l'eternità, ma, secondo le precise parole di Dühring,
non diventerà mai capitale sino a quando non formerà
"partecipazioni ai frutti della forza-lavoro generale",
cioè sino a quando non forma un plusvalore o almeno un
plusprodotto. La colpa dunque che Dühring rimprovera a Marx,
di non accettare il concetto di capitale universalmente corrente
in economia, non solo la commette egli stesso, ma commette inoltre
un maldestro plagio di Marx, "malamente celato" da un linguaggio
roboante.
A p. 262 questo concetto viene ulteriormente sviluppato:
"Il capitale in senso sociale" (e un capitale in senso non sociale
Dühring ha ancora da scoprirlo) "è cioè
specificatamente diverso dal puro mezzo di produzione; infatti,
mentre quest'ultimo ha solo un carattere tecnico e in ogni
circostanza è necessario, quello è caratterizzato
dalla sua forza sociale di appropriazione e di partecipazione. Il
capitale sociale in gran parte non è altro certamente che
il mezzo di produzione tecnico nella sua funzione sociale; ma
questa funzione è anche precisamente quella che... deve
sparire".
Se riflettiamo che è stato proprio Marx colui che per primo
ha messo in rilievo la "funzione sociale" per mezzo della quale,
soltanto, una somma di valore diventa capitale, dovrà
certamente "ogni attento osservatore del fatto aver la certezza
che con la caratterizzazione data da Marx al concetto di capitale
si creerà soltanto della confusione"... ma non , come pensa
Dühring, nella rigorosa dottrina economica, ma come mostra il
sillogismo, unicamente e solamente nella testa dello stesso
Dühring, che nella "storia critica" ha già dimenticato
in che gran misura abbia usato nel "Corso" il suddetto concetto di
capitale.
Tuttavia Dühring non è pago di prendere in prestito da
Marx, sia pure in forma "purgata", la sua definizione di capitale.
E deve seguirlo anche "nel giuoco delle metamorfosi dei concetti e
della storia" e ciò malgrado la sua migliore convinzione
che da tutto questo non possono risultare altro che "concezioni
confuse", "facilonerie", "fragilità delle basi", ecc. Da
dove si origina questa "funzione sociale" del capitale, che lo
rende atto ad appropriarsi dei frutti del lavoro altrui e per cui
solamente si distingue dal semplice mezzo di produzione? Essa non
è fondata, dice Dühring, "sulla natura dei mezzi di
produzione e sulla loro indispensabilità tecnica". È
dunque sorta storicamente, e Dühring ci ripete a p. 252 solo
ciò che avevamo già udito dieci volte, quando egli
spiega l'origine del capitale mediante la vecchia storiella dei
due uomini, dei quali, agli inizi della storia, l'uno trasforma il
suo mezzo di produzione in capitale facendo violenza sull'altro.
Ma, non contento di attribuire un'origine storica alla funzione
sociale mediante la quale soltanto una somma di valore si
trasforma in capitale, Dühring ne profetizza anche una fine
storica. Questa funzione "è anche precisamente quella che
deve sparire". Un fenomeno che è sortostoricamente e a sua
volta storicamente scompare, di solito, parlando in linguaggio
comune, viene chiamato "una fase storica". Quindi il capitale
è una fase storica non solo per Marx, ma anche per
Dühring e siamo perciò costretti a concludere che qui
ci troviamo tra i gesuiti. Se due uomini fanno la stessa cosa,
questa cosa non è la stessa. Se Marx dice che il capitale
è una fase storica, questa è una concezione confusa,
un prodotto bastardo di fantasie storiche e logiche nelle quali il
potere di distinzione naufraga insieme con ogni corretto uso dei
concetti. Se Dühring dice del pari che il capitale
rappresenta una fase storica, questa è una prova
dell'acutezza dell'analisi economica e del procedimento definitivo
e rigorosamente scientifico nel senso in cui è inteso dalle
scienza esatte.
In che cosa l'idea del capitale di Dühring si distingue da
quella di Marx?
"Il capitale" dice Marx, "non ha inventato il pluslavoro. Ovunque
una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di
produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al
tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro
eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore
dei mezzi di produzione" (Marx, "Capitale", I, seconda edizione,
pag. 227) [107].
Pluslavoro, lavoro eccedente il tempo necessario per il
mantenimento dell'operaio, e appropriazione da parte di altri del
prodotto di questo pluslavoro, sfruttamento del lavoro, è
dunque fenomeno comune a tutte le forme di società esistite
sinora, nella misura in cui queste si sono mosse sul piano degli
antagonismi di classe. Ma solo allorché il prodotto di
questo pluslavoro assume la forma del plusvalore, allorché
il proprietario dei mezzi di produzione trova di fronte a
sé come oggetto dello sfruttamento il lavoratore libero,
libero da vincoli sociali e libero da un possesso proprio, e lo
sfrutta ai fini della produzione di merci, solo allora, secondo
Marx, il mezzo di produzione assume il carattere specifico di
capitale. E questo è accaduto in misura rilevante solo
dalla fine del XV e dal principio del XVI secolo.
Dühring, per contro, dichiara capitale ogni sorta di mezzi di
produzione che "forma partecipazioni ai frutti della forza-lavoro
generale" e che quindi ha per risultato pluslavoro in una forma
qualsiasi. In altri termini Dühring si appropria il
pluslavoro scoperto da Marx per uccidere con esso il plusvalore,
egualmente scoperto da Marx, ma che per il momento non gli
conviene. Per Dühring, dunque, non solo la ricchezza
mobiliare e immobiliare dei cittadini corinzi e ateniesi, con la
loro economia fondata sulla schiavitù, ma anche quella dei
grandi proprietari terrieri romani del periodo imperiale e non
meno quella dei baroni feudali nel medioevo, nella misura in cui
servivano in una maniera qualsiasi alla produzione, tutte, senza
distinzione, sarebbero capitale.
Dühring stesso accetta dunque "riguardo al capitale, non il
concetto comunemente corrente secondo il quale esso sarebbe un
mezzo di produzione prodotto a sua volta", ma invece un concetto
completamente opposto che include perfino i mezzi di produzione
che non sono stati prodotti come la terra e le sue risorse
naturali. Ma l'idea secondo cui il capitale sarebbe semplicemente
un "mezzo di produzione prodotto a sua volta", è un'idea
comunemente corrente nell'economia volgare. Al di fuori di questa
economia volgare tanto cara a Dühring, il "mezzo di
produzione prodotto a sua volta", o in generale una somma di
valore, diventa capitale solo per il fatto che produce profitto o
interesse, cioè si appropria del plusprodotto di lavoro non
pagato nella forma di plusvalore, e precisamente se lo appropria
in queste due determinate sottospecie di plusvalore. Resta
così assolutamente irrilevante il fatto che tutta
l'economia borghese sia prigioniera dell'idea che la
proprietà di produrreprofitto o interesse sia per se stessa
inerente ad ogni somma di valore che in condizioni normali venga
impiegata nella produzione o nello scambio. Capitale e profitto o
capitale e interesse sono nell'economia classica altrettanto
indivisibili, stanno nello stesso rapporto tra loro come causa ed
effetto, padre e figlio, ieri e oggi. Ma la parola capitale si
incontra nel suo moderno significato economico per la prima volta
nell'epoca in cui la cosa stessa fa la sua comparsa, nell'epoca in
cui la ricchezza mobiliare acquista sempre più la funzione
di capitale, sfruttando il pluslavoro di liberi lavoratori per
produrre merci, e precisamente questa parola viene introdotta
dalla prima nazione capitalistica della storia: l'Italia del XV e
XVI secolo. E se Marx per la prima volta ha analizzato sino alle
fondamenta il modo di appropriazione peculiare del capitale
moderno, se ha messo d'accordo il concetto di capitale coi fatti
dai quali in ultima istanza era stato dedotto e ai quali deve la
sua esistenza, se con ciò Marx ha liberato questo concetto
economico da tutte le idee oscure e incerte che vi erano rimaste
attaccate ancora nell'economia classica borghese e tra i
socialisti sino ad ora, è stato dunque precisamente Marx
che ha applicato quel "procedimento scientifico definitivo e
rigoroso" che Dühring ha sempre sulle labbra e di cui con
tanto dolore sentiamo in lui la mancanza.
In effetti le cose vanno per Dühring in modo completamente
diverso. Costui non è contento di aver prima inveito contro
la rappresentazione di capitale come fase storica definendolo un
"prodotto bastardo di fantasie storiche e logiche", e di averla
poi egli stesso presentata come un fase storica. Dichiara anche
che sono, in blocco, capitale anche tutti i mezzi economici di
potere e tutti i mezzi di produzione che si appropriano
"partecipazioni ai frutti della forza-lavoro generale", inclusa
quindi anche la proprietà fondiaria esistente in tutte le
società classiste; la qual cosa però non gli
impedisce affatto di distinguere, nel corso ulteriore
dell'indagine, proprietà terriera e rendita fondiaria nella
maniera in cui tradizionalmente si distinguono capitale e profitto
e di caratterizzare come capitale solo quei mezzi di produzione
che producono profitto o interesse, come più diffusamente
si può vedere a p. 156 e sgg. del "Corso". Con lo stesso
diritto Dühring potrebbe includere immediatamente sotto il
nome di locomotiva anche cavalli, buoi, asini e cani perché
anche con questi mezzi di trasporto si potrebbe far muovere un
veicolo e potrebbe rimproverare agli ingegneri moderni che,
limitando il nome di locomotiva alle moderne vetture a vapore, ne
hanno fatto una fase storica, che hanno usato concezioni confuse,
prodotti bastardi di fantasie storiche e logiche, ecc., e
dichiarare infine che cavalli, asini, buoi e cani sono pure da
escludere dalla denominazione di locomotiva e che questa
denominazione vale solo per le vetture a vapore. E allora siamo
costretti a dire ancora una volta che precisamente la concezione
dühringiana del capitale è quella nella quale va
perduto ogni rigore dell'analisi economica e naufraga il potere di
distinzione insieme con ogni retto uso dei concetti e che le
concezioni confuse, il disorientamento, le facilonerie, che
vengono spacciate per profonde verità logiche, e la
fragilità delle basi sono in piena fioritura precisamente
in Dühring.
Ma tutto questo non ha importanza. A Dühring con ciò
resta pure la gloria di avere scoperto il centro di gravità
intorno al quale si muove sinora tutta l'economia, tutta la
politica e tutta la giurisprudenza, in una parola tutta la storia
che si è svolta sinora. Eccolo:
"Forza e lavoro sono i due fattori principali che entrano in
giuoco nella formazione dei rapporti sociali".
In questa unica frase è racchiusa tutta la costituzione del
mondo economico sinora esistente. Essa è straordinariamente
breve e così suona:
Articolo primo: il lavoro produce.
Articolo secondo: la forza distribuisce.
E con ciò "parlando da uomini e francamente" tutta la
sapienza economica di Dühring è esaurita.
"Secondo il modo di vedere di Marx il salario rappresenta solo il
pagamento di quel tempo di lavoroin cui l'operaio è
effettivamente attivo per rendere possibile la propria esistenza.
Ora per questo è sufficiente un numero di ore alquanto
piccolo; tutto il resto della giornata lavorativa, spesso molto
prolungata, costituisce un'eccedenza nella quale è
contenuto quello che dal nostro autore è chiamato
"plusvalore" o, detto nella lingua comunemente corrente, l'utile
del capitale. Prescindendo dal tempo di lavoro che in ogni grado
della produzione è già contenuto nei mezzi di lavoro
e nelle relative materie prime, quell'eccedenza della giornata
lavorativa rappresenta la parte dell'imprenditore capitalista. Il
prolungamento della giornata lavorativa costituisce perciò
un guadagno di puro sfruttamento a beneficio del capitalista."
Secondo Dühring, quindi, il plusvalore di Marx non sarebbe
altro che ciò che in linguaggio comunemente corrente si
chiama utile del capitale o profitto. Ascoltiamo Marx stesso. A p.
195 del "Capitale" il plusvalore viene spiegato dalle parole che
seguono questo termine in parentesi : "Interesse, profitto,
rendita" [108]. A p. 210 Marx dà un esempio in cui una
somma di plusvalore di 71 scellini appare nelle sue diverse forme
distributive: decime, imposte statali e locali 21 scellini,
rendita fondiaria 28 scellini, profitto e interesse del fittavolo
22 scellini, totale del plusvalore 71 scellini [109]. A p. 542
Marx dichiara che una delle più gravi lacune di Ricardo
è il fatto che neppure lui "ha mai indagato il plusvalore
come tale, ossia indipendentemente dalle sue forme particolari
quali il profitto, la rendita fondiaria, ecc." [110], e che
perciò confonde immediatamente le leggi del saggio sul
plusvalore con le leggi sul saggio del profitto; per contro Marx
annuncia:
"Dimostrerò più avanti, nel libro terzo, che, date
determinate circostanze, uno stesso saggio del plusvalore
può esprimersi in differentissimi saggi del profitto e che
differenti saggi del plusvalore possono esprimersi in uno stesso
saggio del profitto" [111].
A p. 587 si legge:
"Il capitalista che produce il plusvalore, cioè estrae
direttamente dagli operai il lavoro non retribuito e lo fissa in
merci, è si il primo ad appropriarsi questo plusvalore, ma
non è affatto l'ultimo suo proprietario. Deve in un secondo
tempo spartirlo con capitalisti che compiono altre funzioni nel
complesso generale della produzione sociale, con i proprietari
fondiari, ecc. Quindi il plusvalore si scinde in parti differenti.
I suoi frammenti toccano a differenti categorie di persone e
vengono ad avere forme differenti, autonome tra loro, come
profitto, interesse, guadagno commerciale, rendita fondiaria, ecc.
Queste forme trasmutate del plusvalore potranno essere trattate
solo nel libro terzo" [112].
E parimenti in molti altri passi.
Non ci si può esprimere più chiaramente. In ogni
occasione Marx richiama l'attenzione sul fatto che il suo
plusvalore non deve affatto essere scambiato col profitto o utile
del capitale e che quest'ultimo è invece una
formasubordinata e molto spesso perfino solo un frammento del
plusvalore. Se Dühring afferma tuttavia che il plusvalore di
Marx "è detto nel linguaggio comunemente corrente, l'utile
del capitale" e se è un fatto che tutto il libro di Marx si
aggira intorno al plusvalore, solo due casi sono possibili: o non
ne sa di più, e in questo caso deve avere una spudoratezza
senza pari per attaccare un libro di cui ignora il contenuto
essenziale. O ne sa di più, e allora commette una
falsificazione intenzionale.
Proseguendo:
"L'odio velenoso che Marx nutre per questo modo di intendere lo
sfruttamento è fin troppo comprensibile. Ma è
possibile una collera più violenta e un riconoscimento
ancora più pieno del carattere di sfruttamento che ha la
forma economica fondata sul lavoro salariato, senza accettare per
questo quella posizione teorica che si esprime nella teoria
marxiana di un plusvalore".
L'espressione teorica di Marx, ricca di buone intenzioni, ma
errata, gli è causa di un odio velenoso contro lo
sfruttamento; la passione, in sé morale, riveste
un'espressione immorale in conseguenza della "posizione teorica
falsa" e si manifesta in ignobile odio e in bassa
velenosità, mentre il procedimento scientifico definitivo e
rigorosissimo di Dühring si estrinseca in una passione morale
di natura adeguatamente nobile, in una collera che, anche nella
sua collera, è moralmente e inoltre quantitativamente
superiore all'odio velenoso, in una collera violenta. Mentre
Dühring è intento a compiacersi di se stesso, vediamo
da che cosa ha origine questa collera più violenta.
"Sorge in effetti", ci dice in seguito, "la questione del come gli
imprenditori in concorrenza siano in condizione di realizzare
durevolmente il pieno prodotto del lavoro, e con esso il
plusprodotto, ad un valore che supera i costi naturali di
produzione nella misura indicata nella proporzione dell'eccedenza
delle ore di lavoro, cui abbiamo accennato. Una risposta a questa
questione non si può trovare nella dottrina di Marx e
precisamente per la semplice ragione che in questa dottrina non
c'è neppure il posto dove porre la questione. Il carattere
di lusso della produzione fondata sul lavoro assoldato non
è affatto affrontato con serietà e l'ordinamento
sociale, con le sue posizioni di spoliazione, non è stato
riconosciuto in nessun modo come la ragione ultima della
schiavitù bianca. Al contrario l'elemento politico-sociale
ha sempre dovuto essere spiegato partendo dall'elemento
economico."
Ma dai passi citati sopra abbiamo visto che Marx non afferma in
nessun modo che il plusprodotto sia venduto in ogni circostanza e
in media secondo il suo pieno valore dal capitalista industriale
che è il primo ad appropriarselo,come qui suppone
Dühring. Marx dice espressamente che anche l'utile
commerciale costituisce una parte del plusvalore e questo, dati i
presenti presupposti, è possibile solo nel caso il
fabbricante venda al commerciante il suo prodotto al di sotto del
suo valore e gli ceda così una parte del bottino. La
questione come viene qui impostata non potrebbe invero trovar
posto in Marx. Imposta razionalmente essa suona così: Come
il plusvalore si trasforma nelle sue forme subordinate: profitto,
interesse, utile commerciale, rendita fondiaria, ecc.? E questa
questione invero Marx promette di risolverla nel terzo libro. Ma
se Dühring non può aspettare che sia pubblicato il
secondo volume del "Capitale" [59], dovrebbe frattanto cercare un
po' più attentamente nel primo volume. Potrebbe allora,
oltre ai passi già citati, leggere per es. a p. 323 che,
secondo Marx, le leggi immanenti della produzione capitalistica
agiscono nel movimento esterno dei capitali come leggi coercitive
della concorrenza e che in questa forma si presentano alla
coscienza del singolo capitalista come motivi determinanti; e che
quindi un'analisi scientifica della concorrenza è possibile
solo allorché si colga la natura interna del capitale,
precisamente come il movimento apparente dei corpi celesti
è intelligibile solo a colui che conosce il loro movimento
reale, ma non percettibile sensibilmente; quindi Marx mostra con
un esempio come una legge determinata, la legge del valore, si
manifesti ed eserciti la sua forza motrice, in un caso
determinato, nella concorrenza [113]. Dühring poteva
già desumere da questo esempio che la concorrenza esercita
una funzione capitale nella distribuzione del plusvalore, e con un
po' di riflessione queste indicazioni, date nel primo volume, sono
in realtà sufficienti per far conoscere, almeno nelle sue
linee generali, la trasformazione del plusvalore nelle sue forme
subordinate.
Per Dühring è invece proprio la concorrenza l'ostacolo
assoluto alla comprensione di questo fenomeno. Egli non può
comprendere come gli imprenditori in concorrenza possano
realizzare durevolmente il pieno prodotto del lavoro, e con esso
il plusprodotto, ad un valore tanto superiore ai costi naturali di
produzione. Ci si esprime qui con quel naturale "rigore" che in
effetti è trascuratezza. Per Marx, invero, il plusprodotto
come tale non ha assolutamente nessun costo di produzione,
è quella parte del prodotto che al capitalista non costa
nulla. Se dunque gli imprenditori in concorrenza volessero
realizzare il plusprodotto al valore dei costi naturali di
produzione, dovrebbero regalarlo. Ma non fermiamoci a tali
"particolarità micrologiche". In realtà gli
imprenditori in concorrenza non realizzano giornalmente il
prodotto del lavoro ad un valore superiore ai costi naturali di
produzione? Per Dühring i costi naturali di produzione
consistono "in erogazione di lavoro, ossia di forza, la quale
erogazione a sua volta, nelle sue basi ultime, può essere
misurata dalle spese alimentari"; quindi, nella società
attuale, questi costi consistono in spese effettivamente erogate
in materia prima, mezzi di lavoro e salario, a differenza del
"tributo", del profitto, dell'aggiunta estorta con la spada in
pugno. Ora è noto a tutti che nella società in cui
viviamo gli imprenditori in concorrenza non realizzano le lo merci
al valore dei loro costi naturali di produzione, ma vi caricano la
pretesa aggiunta, il profitto, e di regola la ricevono anche. La
questione che, come credeva Dühring, bastava porre per
rovesciare con un soffio tutto l'edificio di Marx, come la
buon'anima di Giosuè [113b] rovesciò le mura di
Gerico, questa questione esiste dunque anche per la teoria
economica di Dühring. Vediamo la sua risposta.
"La proprietà capitalistica", egli dice, "non ha alcun
significato pratico e non si può realizzarne il valore e
non si include in essa, ad un tempo, il potere indiretto sul
materiale umano. Il prodotto di questa forza è il profitto
del capitale e la grandezza di quest'ultimo dipenderà
perciò dall'ambito e dall'intensità dell'esercizio
di questo dominio (...) Il profitto del capitale è
un'istituzione politica e sociale che agisce con più forza
della concorrenza. Gli imprenditori sotto questo rapporto agiscono
come ceto e ognuno singolarmente mantiene la propria posizione.
Una certa misura di profitto del capitale è una
necessità per il genere di economia dominante."
Purtroppo continuiamo ancora a non sapere in che modo gli
imprenditori in concorrenza siano in condizione di valorizzare
durevolmente il prodotto del lavoro al di sopra dei costi naturali
di produzione. È impossibile che Dühring abbia una
così bassa opinione del suo pubblico da pascerlo della
frase che il profitto sia al di sopra della concorrenza come al
suo tempo il re di Prussia era al di sopra della legge. Gli
espedienti con cui il re di Prussia raggiunse la sua posizione al
di sopra della legge ci sono noti; gli espedienti con cui il
profitto del capitale arriva ad essere più forte della
concorrenza, ecco precisamente ciò che Dühring ci deve
spiegare e che ostinatamente si rifiuta di spiegarci. Neanche
può avere qui nessuna importanza il fatto che, come egli
dice, gli imprenditori agiscano sotto questo rapporto come ceto e
che così ognuno singolarmente mantenga la propria
posizione. Dobbiamo forse credergli sulla parola che sia
sufficiente che un certo numero di persone agiscano come ceto,
perché ognuno singolarmente mantenga la propria posizione?
I membri delle corporazioni medievali, i nobili francesi del 1789,
è noto, agivano molto decisamente come ceto, eppure
andarono in rovine. Pure l'esercito prussiano a Jena [29] agiva
come ceto, ma, invece di mantenere la sua posizione, dovette
prendere la fuga e poi, perfino, capitolare a pezzi. Egualmente
non può bastarci l'assicurazione che una certa misura di
profitto del capitale sia una necessità per il genere di
economia dominante: infatti si tratta precisamente di mostrare il
perché di questo fatto. Non ci avviciniamo alla meta
neanche di un passo allorché Dühring ci informa:
"Il dominio del capitale si è sviluppato in connessione col
dominio del suolo. Una parte dei lavoratori agricoli servi si
è trasformata nelle città in lavoratori
dell'industria e finalmente in materiale di fabbrica. Dopo la
rendita fondiaria si è formata, come una seconda forma
della rendita del possesso, il profitto del capitale".
Anche prescindendo dall'insensatezza storica di
quest'affermazione, essa rimane sempre una semplice affermazione e
si limita ad asserire ripetutamente ciò che precisamente
dovrebbe spiegare e dimostrare. Non possiamo quindi venire ad
altra conclusione se non che Dühring è incapace di
rispondere alla sua propria domanda: come gli imprenditori
concorrenti siano in condizione di valorizzare durevolmente il
prodotto del lavoro al di sopra dei costi naturali di produzione;
cioè egli è incapace di spiegare l'origine del
profitto. Altro non gli resta che decretare senza tante storie: il
profitto del capitale è il prodotto della forza, il che
certamente si accorda con l'art. 2 della costituzione
dühringiana della società: la forza distribuisce.
Certo tutto questo è detto molto bene, ma ora "sorge la
questione": la forza distribuisce... che cosa? Deve esserci
qualche cosa da distribuire, altrimenti anche la forza più
onnipotente con la più grande buona volontà non
potrebbe distribuire niente. Il profitto che gli imprenditori
concorrenti si mettono in tasca è qualche cosa di molto
tangibile e di molto concreto, la forza lo può prendere, ma
non lo può produrre. E se Dühring si rifiuta
ostinatamente di spiegarci in che modo la forza prende il profitto
dell'imprenditore, ci offre solo un silenzio di tomba come
risposta alla domanda da dove lo prende. Dove non c'è
niente, l'imperatore, come ogni altro potere, perde il suo
diritto. Da niente non nasce niente e specialmente non nasce
profitto. Se la proprietà capitalistica non ha nessun
significato pratico e non si può valorizzare sino a quando
non vi sia egualmente incluso il potere indiretto sul materiale
umano, immediatamente risorge la questione: in primo luogo come la
ricchezza capitalistica abbia raggiunto questo potere, questione
che non è affatto risolta con le poche asserzioni citate
sopra; in secondo luogo come questo potere si trasformi in
valorizzazione del capitale, del profitto; e in terzo luogo da
dove essa prenda questo profitto.
Da qualunque parte prendiamo l'economia dühringiana non
faremo un passo avanti. Per tutte le cose spiacevoli, profitto,
rendita fondiaria, salari di fame, asservimento del lavoratore,
essa ha una sola parola di spiegazione: la forza e sempre di nuovo
la forza, e la "collera violenta" di Dühring si risolve
egualmente in collera contro la forza. Abbiamo visto in primo
luogo che questo appello alla forza è un vano sotterfugio,
un rinvio dal campo dell'economia a quello della politica, che non
è in grado di spiegare nessun singolo fatto economico; e in
secondo luogo che lascia senza spiegazione l'origine della forza
stessa, e ciò prudentemente perché altrimenti
dovrebbe arrivare al risultato che ogni forza sociale e ogni
potere politico hanno la loro origine in condizioni economiche
preliminari, nei modi di produzione e di scambio, dati dalla
storia della società in ogni periodo.
Vediamo tuttavia se ci sarà possibile strappare
all'inesorabile "profondissimo fondatore" dell'economia qualche
altra ulteriore delucidazione sul profitto. Forse ci
riuscirà se affronteremo la sua trattazione del salario. A
p. 158 ci si dice:
"Il salario è la paga per il mantenimento della
forza-lavoro e deve esser considerato esclusivamente come base
della rendita fondiaria e del profitto del capitale. Per intendere
con assoluta chiarezza i rapporti esistenti in questo campo, si
immagini la rendita fondiaria e ulteriormente anche il profitto
del capitale nella loro prima apparizione nella storia, senza
salario, quindi sulla base della schiavitù e della
servitù (...) Che debba essere mantenuto lo schiavo o il
servo o il lavoratore salariato, ciò determina una
differenza solo nel modo e nella maniera in cui grava sui costi di
produzione. In ogni caso l'utile netto ottenuto mediante
l'utilizzazione della forza-lavoro, costituisce il reddito del
datore di lavoro (...) Si vede dunque che (...) specificamente la
contrapposizione fondamentale mediante la quale da una parte sta
una specie qualsiasi di rendita del possesso e dall'altra il
lavoro assoldato e privo di possesso non può cogliersi
esclusivamente in uno dei membri di questa contrapposizione, ma in
ogni caso solo e sempre in entrambi ad un tempo".
Ma rendita del possesso è, come apprendiamo a p. 188, una
espressione comune per rendita fondiaria e profitto del capitale.
Inoltre a p. 174 ci si dice:
"Il carattere del profitto del capitale è un'appropriazione
della parte principale dell'utile della forza-lavoro. Il profitto
del capitale è impensabile senza il correlativo del lavoro
assoggettato direttamente o indirettamente in una forma
qualsiasi".
E a p. 183:
Il salario "è in ogni caso null'altro che una paga per
mezzo della quale devono essere assicurati in generale il
mantenimento e la possibilità di riproduzione
dell'operaio".
E finalmente a p. 195:
"La porzione spettante alla rendita fondiaria è
necessariamente perduta per il salario e viceversa la porzione del
generale rendimento (!) che tocca al lavoro deve essere sottratta
ai redditi del possesso".
Dühring ci fa passare di sorpresa in sorpresa. Nella teoria
del valore e nei capitoli seguenti sino alla dottrina della
concorrenza inclusa, quindi da p. 1 a p. 155, i prezzi delle merci
o valori si dividevano in primo luogo nei costi naturali di
produzione o valore di produzione, cioè spese in materie
prime, mezzi di lavoro e salario e, in secondo luogo,
nell'aggiunta o valore di distribuzione, i tributi estorti con la
spada in pugno a vantaggio della classe dei monopolisti; aggiunta
che, come abbiamo visto, in realtà non poteva cambiare
niente nella distribuzione della ricchezza, poiché doveva
restituire con una mano quello che prendeva con l'altra e che
inoltre, date le informazioni che Dühring ci fornisce sulla
sua origine e sul suo contenuto, sorgeva dal nulla e perciò
in nulla consisteva. Nei due capitoli seguenti che trattano delle
specie del reddito, quindi da p. 156 a p. 217, non si parla
più di aggiunta. Invece, il valore di ogni prodotto del
lavoro, e quindi di ogni merce, si divide nelle seguenti parti: in
primo luogo, in costi di produzione, in cui è compreso
anche il salario pagato e, in secondo luogo, in "utile netto
ottenuto mediante l'utilizzazione della forza-lavoro" e che
costituisce il reddito del datore di lavoro. E questo utile netto
ha una fisionomia assolutamente nota che nessun tatuaggio e
nessuna verniciatura può nascondere. "Per intendere con
assoluta chiarezza i rapporti esistenti in questo campo" il
lettore immagini che i passi di Dühring or ora citati siano
stampati di fronte a quelli precedentemente citati di Marx,
riguardanti il pluslavoro, il plusprodotto, il plusvalore: trovate
allora che alla sua maniera qui Dühring ha completamente
copiato il "Capitale".
Il pluslavoro in qualsiasi forma, sia esso schiavitù,
servitù o lavoro salariato, viene riconosciuto da
Dühring come fonte di reddito di tutte le classi sinora
dominanti: questo concetto è preso dal passo del
"Capitale", p. 227, più volte riportato: il capitale non ha
inventato il pluslavoro, ecc. [114]. E l'"utile netto", che
costituisce "il reddito del datore di lavoro", che cosa è
se non l'eccedenza del prodotto del lavoro sul salario, il quale
ultimo, anche per Dühring, malgrado il suo superfluo
travestimento in paga, deve assicurare in generale il mantenimento
e la possibilità di riproduzione dell'operaio? Come
può avvenire l'"appropriazione della parte principale
dell'utile della forza-lavoro", se non per il fatto che il
capitalista, come per Marx, spreme dall'operaio più lavoro
di quello che è necessario per la riproduzione dei mezzi di
sussistenza consumati da quest'ultimo, cioè per il fatto
che il capitalista fa lavorare l'operaio più tempo di
quanto non sia necessario per sostituire il valore del salario
pagato all'operaio? Quindi prolungamento della giornata lavorativa
al di là del tempo necessario per la riproduzione della
sussistenza dell'operaio: il pluslavoro di Marx; questo e
nient'altro è ciò che si cela dietro
l'"utilizzazione della forza-lavoro" di Dühring. E il suo
"utile netto", del datore di lavoro, in che cos'altro può
essere rappresentato se non nel plusprodotto e nel plusvalore di
Marx? E che cos'altro se non la sua inesatta formulazione
distingue la rendita del possesso di Dühring dal plusvalore
di Marx? Del resto il nome "rendita del possesso" Dühring lo
ha preso a prestito da Rodbertus, il quale, nella sola espressione
rendita, già aveva riunito la rendita fondiaria e la
rendita del capitale o profitto del capitale, di guisa che
Dühring non ha avuto che da aggiungere la parola: "possesso"
[*6]. E perché non rimanga nessun dubbio sul plagio,
Dühring riassume alla sua maniera le leggi sulle variazioni
di grandezza del prezzo della forza-lavoro e del plusvalore,
esposte da Marx nel XV capitolo (p. 539 e sgg. Del "Capitale")
[115], dicendo che la porzione che tocca alla rendita del possesso
va perduta per il salario e viceversa e riduce così ad una
vuota tautologia le leggi singole, così ricche di
contenuto, formulate da Marx; infatti è evidente per se
stesso che se una grandezza data si divide in due parti, l'una di
queste parti non può crescere senza che l'altra diminuisca.
E così è riuscito a Dühring di appropriarsi le
idee di Marx in una maniera in cui va completamente perduto il
"procedimento scientifico definitivo e rigoroso nel senso in cui
è inteso dalle scienze esatte" che si trova certamente
nell'esposizione di Marx.
Non possiamo quindi fare a meno di ammettere che il terribile
baccano che Dühring fa nella "Storia critica" aproposito del
"Capitale", e specialmente la polvere che solleva con la famosa
questione a cui il plusvalore dà origine e che meglio
avrebbe fatto a non porre, dato che egli stesso non sa rispondere;
che tutte queste cose sono solo astuzie di guerra, abili
espedienti per nascondere il plagio grossolano che delle idee di
Marx egli commette nel suo "Corso". Dühring aveva in effetti
tutte le ragioni di mettere in guardia i suoi lettori
dall'occuparsi "di quel groviglio che Marx chiama capitale", di
metterli in guardia contro i prodotti bastardi di fantasie
storiche e logiche, contro le confuse, nebulose idee e le fandonie
hegeliane, ecc. La Venere contro cui questo fedele Eckart mette in
guardia la gioventù tedesca, era andato egli stesso a
prenderla dalle riserve di Marx e l'aveva silenziosamente portata
al sicuro per proprio uso e consumo. Congratuliamoci con lui per
questo utile netto ottenuto mediante l'utilizzazione della
forza-lavoro di Marx e per la luce particolare che la sua
appropriazione del plusvalore di Marx sotto il nome di rendita del
possesso getta sui motivi della sua falsa affermazione, ostinata
perché ripetuta in due edizioni, che Marx intenda per
plusvalore solo il profitto o utile del capitale.
"Secondo il modo di vedere di" Dühring "il salario
rappresenta solamente il pagamento di quel tempo di lavoro in cui
l'operaio è effettivamente attivo per rendere possibile la
propria esistenza. Ora per questo è sufficiente un numero
di ore alquanto piccolo; tutto il resto della giornata lavorativa,
spesso molto prolungata, fornisce spesso un'eccedenza nella quale
è contenuta quella che dal nostro autore viene chiamata"
rendita del possesso. " Prescindendo dal tempo di lavoro che in
ogni grado della produzione è già contenuto nei
mezzi di lavoro e nelle relative materie prime, quell'eccedenza
della giornata lavorativa rappresenta la parte dell'imprenditore
capitalista. Il prolungamento della giornata lavorativa
costituisce perciò un guadagno di puro sfruttamento a
beneficio del capitalista. L'odio velenoso che" Dühring
"nutre per questo modo di intendere lo sfruttamento è fin
troppo comprensibile...".
Meno comprensibile è invece come egli possa ora arrivare
alla sua "collera più violenta".
IX. Leggi naturali dell'economia. Rendita fondiaria
Sinora con tutta la buona volontà non abbiamo potuto
scoprire se Dühring arrivi "a presentarsi" nel campo
dell'economia "pretendendo di avere apportato un nuovo sistema non
solo adeguato all'epoca, ma di valore decisivo per l'epoca". Ma
ciò che non siamo riusciti a vedere né nella teoria
della violenza né a proposito del valore e del capitale,
forse ci salterà agli occhi con solare evidenza quando
considereremo le "leggi naturali dell'economia" stabilite da
Dühring. Infatti, esprimendosi con quell'originalità e
quell'accuratezza che gli sono abituali, egli dice che
"il trionfo dei più elevati procedimenti scientifici
consiste nel sorpassare le semplici descrizioni e suddivisioni
della materia per così dire in quiete e arrivare alle
conoscenze vive che illuminano la genesi delle cose. La conoscenza
delle leggi è perciò la più perfetta,
perché ci mostra come un fenomeno sia condizione dello
svolgersi di un altro".
Subito, la prima legge naturale di tutta l'economia è stata
scoperta proprio da Dühring.
Adam Smith "stranamente non solo non ha assegnato una funzione
preminente al fattore più importante di ogni sviluppo
economico, ma ha anche del tutto trascurato di darne una
formulazione particolare, abbassando così involontariamente
ad una funzione di secondo piano quella che aveva forza impresso
la sua impronta sul moderno sviluppo dell'Europa".
Questa "legge fondamentale che deve avere una funzione preminente
è quella dell'equipaggiamento tecnico, anzi si potrebbe
dire dell'armamento della forza economica naturale dell'uomo".
Questa "legge fondamentale" scoperta da Dühring è
così formulata:
Legge n° 1: "La produttività dei mezzi economici, delle
risorse della natura e della forza dell'uomo, viene accresciuta da
invenzioni e scoperte."
Siamo sbalorditi. Dühring ci tratta come in Molière
quel celebre capo ameno tratta il neoblasonato cui annunzia la
novità che costui aveva per tutta la vita parlato in prosa
senza saperlo [72]. Che invenzioni e scoperte accrescano in molti
casi la forza produttiva del lavoro (in molti casi però non
lo accrescono affatto, come prova la gran quantità di carta
straccia negli uffici di tutti gli uffici brevetti del mondo) lo
sappiamo da un pezzo; ma che questa vecchissima banalità
sia la legge fondamentale di tutta l'economia, questa luminosa
spiegazione la dobbiamo a Dühring. Se "il trionfo dei
più elevati procedimenti scientifici", nell'economia come
nella filosofia, consiste solo nel dare un nome roboante al primo
luogo comune che capita e strombazzarlo come legge di natura o
addirittura legge fondamentale, allora il "fondare su basi
profonde" e rivoluzionarie la scienza sarà possibile a
chiunque, anche alla redazione della "Volks-Zeitung" di Berlino
[116]. Saremmo allora costretti "con ogni rigore" ad applicare
allo stesso Dühring il giudizio di Dühring su Platone:
"Se questa ha da essere scienza economica, l'autore delle"
fondazioni critiche [117] "la condivide con ogni persona che in
genere abbia occasione di pensare" o anche solo di dire qualcosa
"su ciò che gli capita tra le mani". Se per es. diciamo che
gli animali mangiano, nella nostra innocenza pronunciamo con tutta
calma una grande parola; infatti basta che diciamo che il mangiare
è una legge fondamentale di tutta la vita animale, e
abbiamo rivoluzionato tutta la zoologia.
Legge n° 2. Divisione del lavoro: "La separazione dei rami
professionali e la divisione delle attività eleva la
produttività del lavoro". Nella misura in cui è
esatto, questo principio dopo Adam Smith è ugualmente un
luogo comune. La misura in cui è esatto sarà
mostrata nella terza sezione.
Legge n° 3: "Distanza e trasporto sono le cause principali che
ostacolano o favoriscono la cooperazione delle forze produttive."
Legge n° 4: "Lo Stato industriale ha una capacità di
popolazione incomparabilmente maggiore dello Stato agricolo."
Legge n° 5: "Nell'economia niente accade senza un interesse
materiale."
Ecco le "leggi naturali" sulle quali Dühring fonda la sua
nuova economia. Egli resta fedele al suo metodo già esposto
nella filosofia. Pochi trismi, della più sconsolata
banalità, spesso anche malamente esposti, formano anche
nell'economia gli assiomi che non abbisognano di alcuna
dimostrazione, i principi fondamentali, le leggi naturali. Col
pretesto di sviluppare il contenuto di queste leggi che non hanno
nessun contenuto viene qui sfruttata l'occasione per una lunga
chiacchierata di economia sui diversi temi, i cui nomi appaiono in
queste pretese leggi, quindi su invenzioni, divisione del lavoro,
mezzi di trasporto, popolazione, interesse, concorrenza, ecc.,
chiacchierata la cui piatta trivialità è solo
condita da una magniloquenza degna di un oracolo e qua e là
da un'errata interpretazione o da un pretenzioso sofisticare su
sottigliezze casistiche di tutti i generi. Dopo, arriviamo
finalmente alla rendita fondiaria, al profitto del capitale e al
salario, e poiché in ciò che precede abbiamo
considerato solo queste due ultime forme di appropriazione,
vogliamo ora, a conclusione, indagare brevemente anche la
concezione dühringiana della rendita fondiaria.
Lasceremo da parte tutti quei punti nei quali Dühring non fa
che trascrivere il suo predecessore Carey; non dobbiamo qui
occuparci di Carey, né difendere la concezione ricardiana
della rendita fondiaria dalle distorsioni e dalle stoltezze di
Carey. A noi interessa solo Dühring, e costui definisce la
rendita fondiaria come "quel reddito che il proprietario come tale
trae dal fondo". Dühring senz'altro traduce il concetto di
rendita fondiaria, che egli deve sottoporre a indagine, dal
linguaggio giuridico e in questo modo ne sappiamo quanto prima. Il
nostro profondo fondatore, bene o male, deve degnarsi di darci
perciò ulteriori schiarimenti. Egli confronta l'affitto di
un fondo rustico ad un fittavolo col prestito di un capitale ad un
imprenditore, ma presto trova che questo paragone, come parecchi
altri, zoppica. Infatti, egli dice,
"se si volesse andare oltre nell'analogia, l'utile che resta al
fittavolo, dopo il pagamento della rendita fondiaria, dovrebbe
corrispondere a quel residuo di utile del capitale che tocca
all'imprenditore che usa il capitale, dopo la corresponsione degli
interessi. Ma non si ha l'abitudine di considerare gli utili dei
fittavoli come il reddito principale e la rendita fondiaria come
un residuo (...) Una prova della diversità della concezione
che se ne ha è il fatto che nella dottrina della rendita
fondiaria il caso della conduzione in proprio non è
contrassegnato particolarmente e che non ha un peso speciale la
differenza quantitativa tra la rendita che si produce nella forma
di conduzione ad affittanza e una rendita che viene prodotta nella
forma della conduzione in proprio. Per lo meno non si è
trovato un motivo per pensare che la rendita prodotta dalla
conduzione in proprio sia divisa in modo tale che, per così
dire, un elemento rappresenti l'interesse dell'apprezzamento della
terra e l'altro il profitto supplementare dell'impresa.
Prescindendo dal capitale proprio che il fittavolo apporta sembra
che il suo utile specifico si debba considerare per lo più
come una forma di salario. Pure è pericoloso voler
affermare qualche cosa su questo argomento, perché la
questione non è stata affatto posta con questa precisione.
Dovunque si tratta di aziende piuttosto grandi si potrà
vedere con facilità che non è possibile considerare
come salario l'utile specifico del fittavolo. Questo utile,
cioè, è basato esso stesso sull'antagonismo con la
forza-lavoro agricola, il cui sfruttamento soltanto rende
possibile questa forma di provento. È evidentemente una
porzione di rendita quella che rimane nelle mani del fittavolo e
che decurta la rendita integrale che si sarebbe ottenuta con la
conduzione in proprio".
La teoria della rendita fondiaria è una parte dell'economia
specificamente inglese e non potrebbe non esserlo perché
solo in Inghilterra è esistito il modo di produzione nel
quale la rendita si è separata anche effettivamente dal
profitto e dall'interesse. È noto che in Inghilterra domina
la grande proprietà e la grande coltivazione agricola. I
proprietari terrieri affittano le loro terre in grandi e spesso
grandissimi appezzamenti ad affittuari che sono provvisti di
capitale sufficiente per la loro conduzione e che non lavorano
essi stessi come i nostri contadini, ma, come veri e propri
imprenditori capitalistici, impiegano il lavoro di servi della
fattoria e di giornalieri. Qui abbiamo dunque le tre classi della
società borghese e il reddito peculiare di ciascuna di
esse: il proprietario terriero che percepisce la rendita
fondiaria, il capitalista che percepisce il profitto e l'operaio
che percepisce il salario. Non è mai accaduto ad un
economista inglese di ritenere che, come sembra a Dühring,
l'utile del fittavolo sia una forma di salario; e tanto meno
ancora poteva essere pericoloso per questo economista affermare
che il profitto del fittavolo sia ciò che irrefutabilmente,
evidentemente e concretamente esso è, cioè profitto
del capitale. È addirittura ridicolo il dire qui che la
questione sul che cosa propriamente sia l'utile del fittavolo non
sia mai stata posta con questa precisione. In Inghilterra non
c'è neanche bisogno di porsi questa questione: la questione
così come la sua soluzione esistono già nella
realtà da lungo tempo e dopo Adam Smith non è mai
sorto alcun dubbio in proposito.
Il caso della conduzione in proprio, come dice Dühring, o
piuttosto della conduzione effettuata da amministratori per conto
del proprietario terriero, come in realtà accade in molte
parti della Germania, non modifica affatto la cosa. Se il
proprietario terriero fornisce anche il capitale e fa coltivare
per suo conto, intasca, oltre alla rendita fondiaria, anche il
profitto del capitale, come è ovvio e non può
affatto essere diversamente, dato il modo di produzione odierno. E
se Dühring afferma che sinora non si è trovato il
motivo di pensare di dividere in due parti la rendita proveniente
dalla conduzione in proprio (si dovrebbe dire reddito), questa
affermazione è semplicemente falsa e nel migliore dei casi
dimostra ancora una volta solo la sua ignoranza. Per esempio:
"Il reddito che si ricava dal lavoro si chiama salario, quello che
ricava chi impiega capitale si chiama profitto (...) il reddito
che proviene esclusivamente dal suolo si chiama rendita e
appartiene al proprietario terriero (...) Se queste diverse forme
di reddito toccano a persone diverse, è facile
distinguerle, se invece toccano alla stessa persona, vengono
spesso, almeno nel linguaggio comune, confuse l'una con l'altra.
Un proprietario terriero che conduca in proprio una parte del suo
terreno, sottratte le spese di produzione, dovrebbe ricevere sia
la rendita del proprietario terriero che il profitto del
fittavolo. Invece egli, almeno nel linguaggio comune, è
portato a chiamare profitto tuttoil suo utile, e così a
confondere la rendita con il profitto. La maggior parte dei nostri
piantatori dell'America del nord e dell'India occidentale sono in
questa condizione; i più coltivano i propri possedimenti e
così accade che raramente sentiamo parlare della rendita di
una piantagione, e frequentemente invece del profitto che essa
rende (...) Un giardiniere che coltivi con le sue mani il proprio
giardino, è in una sola persona proprietario terriero,
fittavolo e giornaliero. Il suo prodotto deve pagargli
perciò la rendita del primo, il profitto del secondo e il
salario del terzo. Il tutto però passa abitualmente per il
guadagno del suo lavoro. Rendita e profitto, in questo caso,
vengono confusi col salario".
Questo passo si trova nel capitolo sesto del primo libro di Adam
Smith [118]. Il caso della conduzione in proprio è stato
indagato quindi già da cento anni e i pericoli e le
incertezze che qui suscitano tante preoccupazioni in Dühring
sorgono unicamente dalla sua propria ignoranza.
In ultimo con un colpo ardito si tira fuori dall'impaccio: l'utile
del fittavolo è basato sullo sfruttamento della
"forza-lavoro agricola", ed è perciò evidentemente
una "porzione di rendita" della quale "viene decurtata" la
"rendita integrale" che precisamente doveva fluire nelle tasche
del proprietario terriero. Con ciò veniamo a sapere due
cose. In primo luogo che il fittavolo "decurta" la sua rendita del
proprietario terriero, cosicché per Dühring non
è il fittavolo che come si è pensato sinora, paga la
rendita al proprietario terriero, ma è il proprietario
terriero che la paga al fittavolo... certo un'"idea originale
dalle fondamenta". E in secondo luogo veniamo a sapere finalmente
che cosa secondo Dühring sia la rendita fondiaria; ossia il
plusprodotto totale dell'agricoltura ottenuto mediante lo
sfruttamento del lavoro agricolo. Ma, poiché sinora questo
plusprodotto nell'economia, tranne che in taluni economisti
volgari, si divide in rendita fondiaria e profitto del capitale,
dobbiamo constatare che neanche per la rendita fondiaria
Dühring "accetta il concetto comunemente corrente".
Quindi, rendita fondiaria e profitto del capitale si distinguono
per Dühring solo per il fatto che la prima si realizza
nell'agricoltura e l'altro nell'industria o nel commercio. Ad una
tale concezione acritica e confusa Dühring arriva
necessariamente. Abbiamo visto che egli è partito da quella
"concezione veramente storica" per la quale il dominio sul suolo
si costituisce solo mediante il dominio sull'uomo. Quindi, appena
il suolo viene coltivato per mezzo di una qualche forma di lavoro
servile, sorge un'eccedenza per il proprietario terriero, e questa
eccedenza è precisamene la rendita, come nell'industria
l'eccedenza del prodotto del lavoro sull'utile del lavoro è
il profitto del capitale.
"in primo luogo è chiaro che la rendita fondiaria esiste in
notevole misura sempre e dovunque l'agricoltura sia condotta
mediante una delle forme di assoggettamento del lavoro."
Con questa rappresentazione della rendita come il complesso
dell'intero plusprodotto ottenuto nell'agricoltura, Dühring
urta da una parte contro il profitto del fittavolo inglese e,
dall'altra, contro il concetto tratto da questo, accettato
dall'economia classica, della divisione di quel plusprodotto in
rendita fondiaria e profitto del fittavolo, e quindi contro alla
pura e precisa concezione della rendita. Che cosa fa Dühring?
Si comporta come se non sapesse una sola parola della divisione
del plusprodotto agricolo in profitto del fittavolo e in rendita
fondiaria e quindi tutta la teoria della rendita dell'economia
classica, come se in tutta l'economia la questione di che cosa
puramente sia il profitto del fittavolo non fosse mai stata posta
"con questa precisione", come se si trattasse di un argomento
assolutamente inesplorato di cui non si conoscono che parvenze e
punti oscuri. E fugge dalla fastidiosa Inghilterra dove il
plusprodotto dell'agricoltura, assolutamente senza l'intervento di
qualsiasi scuola teorica, viene così spietatamente diviso
nei suoi elementi costitutivi: rendita fondiaria e profitto del
capitale; fugge verso le contrade care al suo cuore, nelle quali
vige il Landrecht prussiano, nelle quali la conduzione in proprio
è nella sua piena fioritura patriarcale, dove "il
proprietario terriero intende per rendita gli introiti dei suoi
terreni" e dove l'opinione che i signori Junker hanno della
rendita pretende ancora di essere decisiva per la scienza, dove
quindi Dühring può ancora sperare di farsi largo con
le sue idee confuse sulla rendita e il profitto e perfino di
trovar credito per la sua recentissima scoperta che la rendita
fondiaria non viene pagata dal fittavolo al proprietario terriero,
ma dal proprietario terriero al fittavolo.
Note
101. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 179-80.
102. Ibid., p. 196.
103. Ibid., pp. 199-200.
104. Ibid., p. 203
105. Ibid., p. 201.
106. Ibid., p. 202.
107. Ibid., p. 269.
108. Ibid., p. 239, nota 22.
109. Ibid., p. 253.
110. Ibid., p. 572.
111. Ibid.
112. Ibid., pp. 621-622.
59. Nella prefazione (25 luglio 1867) alla prima edizione del
"Capitale" Marx scrisse: "Il secondo volume di questo scritto
tratterà il processo di circolazione del capitale (libro
II), e le formazioni del processo complessivo (libro III); il
volume terzo, conclusivo (libro IV) tratterà la storia
della teoria". Dopo la morte di Marx, Engels pubblicò i
libri II e III come secondo e terzo volume. Egli non arrivò
a pubblicare l'ultimo libro, il IV (òTeorie sul
plusvaloreò).
113. Ibid., pp. 355-356
113b. Giosuè (cui la Bibbia dedica un intero libro) fu
successore di Mosè nella reggenza di Israele attorno al
XIII secolo a.C. Guidò la conquista della Palestina.
"Miracolosa" la sua vittoria a Gerico.
29. Ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, truppe russe e austriache
si scontrarono con le truppe francesi di Napoleone, che
riportò la vittoria. La battaglia di Jena, combattuta il 14
ottobre 1806 tra l'esercito francese di Napoleone e le truppe
prussiane, si concluse con la disfatta di queste ultime e
portò alla capitolazione della Prussia. La battaglia di
Königgrätz, il 3 luglio 1866, decise la vittoria della
Prussia nella guerra austro-prussiana; à ricordata anche
come battaglia di Sedowa. Nella battaglia di Sedan il 1° e il
2 settembre 1870, scontro decisivo della guerra franco-tedesca del
1870-71, le truppe tedesche sconfissero l'esercito francese di
Mac-Mahon e lo costrinsero alla capitolazione.
114. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 269.
*6. E neanche questo. Rodbertus dice ("Lettere sociali", 2a
lettera, p.59): "Secondo questa" (sua) "teoria è rendita
ogni reddito che viene percepito senza lavoro proprio, unicamente
in base ad un possesso".
115. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 567 e sgg.
72. Vedi la commedia di Molière "Il borghese gentiluomo",
atto II, scena 4.
116. La "Volks-Zeitung", quotidiano democratico, uscì a
Berlino a partire dal 1853. Nella sua lettera a Marx del 15
settembre 1860 Engels scrive dei "noiosi pettegolezzi" e della
"idiota seccanteria" di questo giornale.
117. Allusione alla "Kritische Grundelgung der
Wolkswirthschaftslehre" di Dühring, il quale si riferisce a
questo suo scritto nell'introduzione alla seconda edizione della
qui citata "Kritische Geschichte...".
118. Adam Smith, "An inquiry...", volume 1, pp. 63-65, I corsivi
sono di Engels.
X. Dalla "Storia critica"
Diamo infine ancora uno sguardo alla "Storia critica dell'economia
politica", a "questa impresa" di Dühring che, come egli dice,
"assolutamente non ha precedenti". Forse qui finalmente
incontreremo quei procedimenti scientifici definitivi e
rigorosissimi che tante volte ci sono stati promessi.
Dühring dà molta importanza alla scoperta che la
"dottrina dell'economia" è un "fenomeno straordinariamente
moderno" (p. 12).
In effetti Marx nel "Capitale" ci dice: "L'economia politica (...)
solo nel periodo manifatturiero prende piede come scienza
speciale" [119], e in "Per la critica dell'economia politica"
leggiamo a p. 29 che "l'economia classica(...) ha inizio in
Inghilterra con William Petty e in Francia con Boisguillebert e ha
termine in Inghilterra con Ricardo e in Francia con Sismondi"
[120]. Dühring segue questo cammino che gli è stato
tracciato, solo che per lui l'economia superiore comincia solo con
i miserabili aborti che la scienza borghese ha messo al mondo dopo
la fase del suo periodo classico. Per contro, a conclusione della
sua introduzione ha tutto il diritto di proclamare trionfante:
"Ma se questa impresa già nelle sue particolarità
esteriormente percepibili e nella parte più recente del suo
contenuto non ha assolutamente predecessori, è ancora molto
più specificamente mia per i suoi interiori punti di vista
critici e per la sua posizione generale" (p. 9).
Nei fatti egli avrebbe potuto annunziare, sia nell'aspetto interno
che nell'aspetto esterno, la sua "impresa" (l'espressione
industriale non è mal scelta) col titolo: L'unico e la sua
proprietà [45].
Poiché l'economia politica, quale si è presentata
nella storia, in realtà non è altro che la
conoscenza scientifica dell'economia del periodo di produzione
capitalistico, principi e teoremi che ad essa si riferiscono si
possono trovare per es. negli scrittori della società greca
antica solo nella misura in cui certi fenomeni, come produzione di
merci, commercio, denaro, capitale fruttante interessi ecc., sono
comuni alle due società. Nella misura in cui i greci fanno
incursioni occasionali in questo campo, mostrano la stessa
genialità e originalità che mostrano negli altri
campi. Le loro intuizioni costituiscono perciò storicamente
i punti di partenza teorici della scienza moderna. Ascoltiamo ora
Dühring, storiografo universale:
"Conseguentemente non avremmo da riferire nulla di positivo
riguardo specificamente (!) alla teoria scientifica dell'economia
dell'antichità, e il medioevo, completamente privo di ogni
scienza, ci offre per questo" (per questo, cioè per non
riferire nulla!) "appigli ancora molto minori. Ma poiché la
maniera di trattare le cose che vanamente fa mostra di una
parvenza di erudizione (...) ha sfigurato il carattere puro della
scienza moderna, a titolo di informazione si dovranno almeno
portare alcuni esempi".
E Dühring porta allora esempi di una critica che in
realtà è immune anche dalla "parvenza di
erudizione".
Il principio di Aristotele che
"duplice è l'uso di ogni bene, l'uno è proprio della
cosa in quanto tale e l'altro no, così un sandalo
può servire per essere calzato o per essere scambiato;
entrambi sono modi di uso del sandalo, infatti anche colui che
scambia il sandalo con qualche cosa di cui è privo, denaro
o nutrimento, usa il sandalo come sandalo, ma non nel suo modo di
uso naturale, poiché esso non esiste in vista dello
scambio" [121],
questo principio, secondo Dühring, "non solo è
espresso in una maniera veramente triviale e pedantesca", ma
coloro che trovano qui "una distinzione tra valore d'uso e valore
di scambio", cadono inoltre anche nel "ridicolo" di dimenticare
che "nell'epoca più recente" e "nel quadro del sistema
più avanzato" -naturalmente quello di Dühring- valore
d'uso e valore di scambio hanno fatto tutti il loro tempo.
"Negli scritti di Platone sullo Stato si è (...) voluto
trovare anche il capitolo moderno della divisione del lavoro
nell'economia."
questo probabilmente si riferisce al passo del "Capitale", cap.
XII, 5, p. 369 della seconda edizione [122], in cui invece si
dimostra, al contrario, che la concezione dell'antichità
della divisione del lavoro è "rigorosamente antitetica" a
quella moderna. Un gesto di riprovazione e nient'altro merita per
Dühring la presentazione di Platone, geniale per il suo
tempo, della divisione del lavoro [123] come fondamento naturale
della città (che per i greci si identificava con lo Stato),
e ciò precisamente perché egli non fa menzione (ma
la fa il greco Senofonte [124], sig. Dühring!) del
"limite che l'ambito del mercato, volta per volta, pone
all'ulteriore differenziazione professionale e alla divisione
tecnica delle operazioni specifiche: l'idea di questo limite
è quella conoscenza che sola permette che questa idea, che
altrimenti a stento può chiamarsi scientifica, si trasformi
in una verità di grande rilievo economico".
Il "professor" Roscher, tanto disdegnato da Dühring, ha in
effetti tracciato questo "limite", soltanto col quale l'idea della
divisione del lavoro può diventare un'idea "scientifica" e
perciò ha fatto espressamente di Adam Smith lo scopritore
della legge della divisione del lavoro [125]. In una
società in cui la produzione delle merci è il modo
di produzione dominante, il "mercato", per parlare una volta anche
noi alla maniera di Dühring, è un "limite" molto noto
tra gli "uomini d'affari". Ma occorre molto di più che "il
sapere e l'istinto della routine" per vedere che non è
stato il mercato a creare la divisione capitalistica del lavoro,
ma che invece la dissoluzione di nessi sociali precedentemente
esistenti e la divisione del lavoro che ne consegue hanno creato
il mercato (cfr. "Capitale", I, cap. XXIV, 5: Creazione del
mercato interno per il capitale industriale) [126].
"La funzione del denaro è stata in ogni epoca il primo e
principale stimolo delle idee economiche (!). Ma che cosa sapeva
un Aristotele di questa funzione? Evidentemente niente di
più di ciò che è contenuto nell'idea che lo
scambio in denaro ha tenuto dietro allo scambio naturale
primitivo."
Ma se "un" Aristotele si permette di scoprire le due differenti
forme di circolazione del denaro: una in cui questo agisce come
semplice mezzo di circolazione, l'altra in cui agisce come
capitale monetario [127], in questo modo, secondo Dühring,
egli esprime "solo un'antipatia morale". Se "un" Aristotele
ardisce addirittura di voler analizzare il denaro nella sua
"funzione" di misura del valore, e nei fatti pone rettamente
questo problema così decisivo per la dottrina della moneta
[128], "un" Dühring volentieri tace su tutto, e certo per
validi motivi reconditi, di una tale impertinente audacia.
Risultato finale: nel modo in cui si rispecchia
nell'"informazione" dühringiana, l'antichità greca
possiede in realtà solo "idee del tutto comuni" (p.25)
posto che tale "maiserie" [sciocchezza] (p. 19) abbia in generale
qualcosa in comune con delle idee, comuni o non comuni che siano.
Il capitolo di Dühring sul mercantilismo lo si legge meglio
nell'"originale", cioè nel cap. 29 del "Sistema nazionale"
di F. List: "Il sistema industriale detto impropriamente, dalla
scuola, sistema mercantilistico". Con quanta cura anche qui
Dühring sappia evira ogni "parvenza di erudizione" lo mostra,
fra l'altro, quanto segue:
List nel capitolo 28, "Gli economisti italiani", dice:
"L'Italia ha preceduto tutte le nazioni moderne, tanto nella
pratica che nella teoria dell'economia politica"
e ricorda poi
"la prima opera scritta in Italia sull'economia politica in
particolare, lo scritto del napoletano Antonio Serra sui mezzi per
procurare ai regni un abbondante afflusso di denaro (1613)" [129].
Dühring accetta tutto ciò senza esitazione e
conseguentemente può considerare il "Breve trattato" di
Serra "come una specie di iscrizione sulla soglia della preistoria
moderna dell'economia". A tali "complimenti letterali" si limita
in effetti il suo studio del "Breve trattato". Sfortunatamente la
cosa nella realtà è andata in modo diverso e nel
1609, quindi quattro anni prima del "Breve trattato", comparve "A
Discourse of Trade ecc." di Thomas Mun. Il significato speciale di
questo scritto, già nella sua prima edizione, fu di essere
stato diretto contro il primitivo sistema monetario che allora
veniva ancora difeso in Inghilterra come prassi statale:
quest'opera rappresenta quindi la secessione consapevole del
sistema mercantile dal sistema da cui era nato. Già nella
sua prima forma lo scritto ebbe più edizioni ed
esercitò un influsso diretto sulla legislazione.
Nell'edizione del 1664, completamente rielaborata dall'autore e
stampata dopo la sua morte, "England's Treasure ecc.", il libro
rimase per altri cento anni il vangelo del mercantilismo. Se
quindi il mercantilismo ha un'opera che fa epoca "come una specie
di iscrizione sulla soglia", quest'opera è quella di cui
parliamo e proprio perciò essa non esiste affatto per "la
storia" di Dühring "che osserva con molta cura i gradi di
importanza".
Del fondatore dell'economia politica moderna, Petty, Dühring
ci fa saper che egli aveva "una maniera di pensare discretamente
superficiale", inoltre, "assenza di quel senso di distinzione
interna e sottile dei concetti"... una "versatilità che
conosce molto, ma che passa facilmente da una cosa all'altra senza
metter radici in nessuna idea che abbia un carattere di qualche
profondità"... il suo "procedimento riguardo all'economia
è ancora molto rozzo" e "arriva a delle ingenuità,
il cui contrasto (...) può anche occasionalmente divertire
il pensatore serio". Che inapprezzabile degnazione, quindi, che il
"serio pensatore" Dühring si abbassi a prender nota di "un
Petty"! E come ne prende nota?
I principi di Petty "sul lavoro e persino sul tempo di lavoro come
misura del valore, in cui in lui si (...) trovano tracce
imperfette" non vengono mai ulteriormente ricordati tranne che in
questa proposizione tracce imperfette. Nel suo "Tractise on Taxes
and Cöntributions" (prima edizione 1662) Petty dà
un'analisi assolutamente chiara ed esatta della grandezza del
valore delle merci. Illustrando anzitutto questo concetto con la
eguaglianza di valore tra metalli nobili e grano, che costino la
stessa quantità di lavoro, egli pronunzia la parola
"teorica" definitiva sul valore dei metalli nobili. Ma egli
enuncia anche con precisione e con valore universale che i valori
delle merci sono misurati per mezzo di lavoro eguale (equal
labor). Egli applica la sua scoperta alla soluzione di problemi
diversi, e in parte molto intricati e, in diverse occasioni e in
diversi scritti, anche dove questa legge fondamentale non è
ripetuta, trae in certi punti da essa conseguenze importanti. Ma
già nel suo primoscritto egli dice:
"Questa", la valutazione mediante lavoro eguale, "io affermo,
è il fondamento dell'equiparazione e della misurazione dei
valori; tuttavia nella sovrastruttura e nell'applicazione pratica
di essa, lo confesso, c'è molta varietà e molta
complessità" [130].
Petty è dunque consapevole sia dell'importanza della sua
scoperta, sia, e nella stessa misura, della difficoltà
della sua utilizzazione nei particolari. Perciò cerca anche
un'altra via per raggiungere certi fini di dettaglio. Si tratta
cioè di trovare un rapporto di eguaglianza naturale (a
natural Par) tra suolo e lavoro, di guisa che il valore possa
esser espresso a piacere "in ognuno dei due termini, o meglio
ancora in entrambi". Lo stesso errore è geniale.
Dühring fa quest'acuta annotazione alla teoria del valore di
Petty:
"Se egli stesso avesse pensato con più acutezza, non
sarebbe affatto possibile trovare in altri passi tracce di una
concezione opposta, che è stata ricordata precedentemente",
cioè di cui "precedentemente" non è stato ricordato
altro se non che le "tracce" sono "imperfette". È questo un
modo di fare molto caratteristico di Dühring,
"precedentemente" allude a qualche cosa con una frase vuota, per
far credere "posteriormente" al lettore di aver avuto già
"precedentemente" conoscenza dell'essenziale, su cui il predetto
autore, in effetti, sia precedentemente che posteriormente
sorvola.
Ora, in Adam Smith si trovano non solo "tracce" di "concezioni
antitetiche" sul concetto di valore, e non solo due, ma perfino
tre, e rigorosamente, perfino quattro concezioni grossolanamente
antitetiche del valore, che si intrecciano tranquillamente l'una
con l'altra. Ma ciò è naturale nel fondatore
dell'economia politica, il quale necessariamente saggia,
esperimenta, lotta con un caos di idee ancora in formazione,
può sembrare strano in uno scrittore che sintetizza
criticamente più di un secolo e mezzo di indagini, dopo che
i loro risultati, dai libri, sono giàpassati in parte nella
coscienza generale. E, per venire dal grande al piccolo, come
abbiamo visto, lo stesso Dühring ci dà, anche lui,
cinque diverse specie di valore da scegliere a nostro piacere e
con esse altrettante concezioni antitetiche. Certo, "se egli
stesso avesse pensato con più acutezza", non avrebbe
sprecato tanta fatica per ricacciare i suoi lettori, dalla
concezione perfettamente chiara di Petty sul valore, nella
più assoluta confusione.
Un'opera veramente completa di Petty, dalla costruzione unitaria e
armonica, è il suo "Quantulumcumque concernine Money"
pubblicato nel 1682, dieci anni dopo la sua "Anatomy of Ireland"
(che apparve "per la prima volta" nel 1672 e non nel 1691 come
Dühring trascrive "dalle più correnti compilazioni
manualistiche") [131]. Le ultime tracce di idee mercantilistiche
che si trovano in altri suoi scritti, qui sono completamente
scomparse. È un piccolo capolavoro per forma e contenuto e
proprio perciò in Dühring non ne viene mai nominato
neppure il titolo. È assolutamente naturale che, di fronte
al più generale e originale economista, una laboriosa
mediocrità da maestro di scuola possa esprimere solo il suo
ringhioso scontento e possa scandalizzarsi che le scintille
luminose della teoria non si allineino tronfie e pettorute come
"assiomi" bell'e fatti, ma sorgano invece sparpagliate
dall'approfondimento di un "rozzo" materiale pratico, quali per
es. le imposte.
Petty, fondatore dell'"aritmetica politica", vulgo statistica,
è trattato da Dühring nella stessa maniera in cui era
trattato per i suoi lavori specificamente economici. Una
sprezzante alzata di spalle sulla singolarità dei metodi
usati da Petty! Considerando i metodi grotteschi applicati dallo
stesso Lavoiser ancora cento anni più tardi in questo campo
[132], considerando la grande distanza dell'odierna statistica
dalla meta che le aveva tracciato con tratti vigorosi Petty, una
tale aria di superiorità compiaciuta di se stessa, due
secoli post festum, appare in tutta la sua schietta
stupidità.
Le idee più significative di Petty, di cui ben poco si
può notare nell'"impresa" di Dühring, sono per
quest'ultimo solo trovate accidentali, idee fortuite,
manifestazioni occasionali, alle quali solo nella nostra epoca si
attribuisce, grazie a citazioni estratte dal loro contesto, un
significato che esse in sé e per sé non hanno
affatto. Queste idee non hanno quindi funzioni nella storia reale
dell'economia politica, ma solo nei libri moderni, al di sotto del
livello raggiunto dalla critica che va alle radici e dalla
"maniera di delineare la storia in grande stile" di Dühring.
Sembra che nella sua "impresa" egli abbia avuto davanti agli occhi
una schiera di lettori pieni di fede cieca, che non oserebbe mai,
per carità, esigere la prova di ciò che viene
affermato. Ritorneremo presto (a proposito di Locke e di North) su
questo argomento, ma frattanto dobbiamo dare di passaggio uno
sguardo a Boisguillebert e a Law.
Per quel che riguarda il primo segnaliamo l'unica scoperta che
appartenga a Dühring. Egli ha scoperto un nesso prima
ignorato tra Boisguillebert e Law. Boisguillebert afferma
cioè che i metalli nobili potrebbero essere sostituiti,
nella funzione normale che compiono nella circolazione delle
merci, da una moneta fiduciaria (un morceau de papier) [133]. Law
immagina per contro che un arbitrario "accrescimento" di questi
"pezzettini di carta" accresca la ricchezza di una nazione.
Secondo Dühring ne consegue che la "svolta" di Boisguillebert
"celava già in sé una nuova svolta del
mercantilismo"... in altri termini celava in sé già
Law. Tutto ciò è mostrato con solare evidenza nella
maniera seguente:
"Si trattava soltanto di assegnare a questi "semplici pezzettini
di carta" la stessa funzione che avrebbero dovuto avere i metalli
nobili e così veniva compiuta istantaneamente una
metamorfosi del mercantilismo".
Nella stessa maniera può istantaneamente compiersi la
metamorfosi di uno zio in una zia. È vero che Dühring
aggiunge conciliante: "Certo Boisguillebert non aveva una tale
intenzione". Ma in nome del diavolo, come poteva aver l'intenzione
di sostituire alla propria concezione razionalistica della
funzione monetaria dei metalli nobili quella superstiziosa dei
mercantilisti, per il fatto che secondo lui i metalli nobili sono
sostituibili in quella funzione dalla carta? Pure, prosegue
Dühring nella sua seria comicità, "pure, si può
comunque ammettere che il nostro autore è riuscito qua e
là a fare un'osservazione veramente appropriata" (p. 83).
Per quanto riguarda Law, Dühring riesce a fare solo questa
"osservazione veramente appropriata":
"Neanche Law, come è comprensibile, ha mai potuto
completamente eliminare l'ultimo fondamento" (ossia "la base dei
metalli nobili") "ma egli ha spinto l'emissione dei biglietti sino
all'estremo, cioè sino al naufragio del sistema" (p. 94).
In realtà però le farfalle di carta, semplici segni
monetari, dovevano svolazzare tra il pubblico non per "eliminare"
la base di metalli nobili, ma per attrarla dalle tasche del
pubblico nelle disseccate tasche dello Stato [134].
Ma per ritornare a Petty e alla parte insignificante che
Dühring gli fa rappresentare nella storia
dell'economia,sentiamo anzitutto ciò che ci si comunica sui
successori immediati di Petty: Locke e North. Nello stesso anno
1691 apparvero le "Consideration on Lowering of Interest and
raising of money" di Locke e i "Discourses upon Trade" di North.
"Ciò che egli" (Locke) "ha scritto sull'interesse e sulla
moneta non esce dal quadro delle riflessioni che erano correnti,
sotto il dominio del mercantilismo, in relazione agli avvenimenti
della vita politica" (p. 64).
Al lettore di questo "resoconto" deve ora esser chiaro come il
sole perché il "Lowering of Interest" abbia avuto nella
seconda metà del secolo XVIII un influsso così
importante sull'economia francese e italiana e precisamente in un
senso diverso.
"Sulla libertà del saggio d'interesse parecchi uomini
d'affari avevano pensato analogamente" (a Locke) "e anche lo
sviluppo della situazione portò con sé la tendenza a
considerare inefficaci gli ostacoli frapposti all'interesse. In
un'epoca in cui un Dudley North poteva scrivere i suoi "Discourses
upon Trade" nel senso della libertà di commercio, dovevano
già esserci nell'aria, per così dire, cose che non
facevano apparire come qualche cosa di inaudito l'opposizione
teorica alle limitazioni dell'interesse" (p. 64).
Bisognava dunque che Locke facesse sue le idee di questo o
quell'"uomo d'affari" suo contemporaneo a che afferrasse a volo
molto di ciò che al suo tempo "per così dire era
nell'aria" per teorizzare sulla libertà d'interesse e non
dir niente di "inaudito"! Ma in realtà Petty già nel
1662 nel suo "Tractise on Taxes and Contributions", opponeva
l'interesse, inteso come rendita del denaro e chiamato usura (rent
of money which we call usury), alla rendita fondiaria e
immobiliare (rent of land and houses) e dimostrava ai proprietari
di terre, che volevano legalmente comprimere non certo la rendita
fondiaria ma la rendita del denaro, la vanità e la
sterilità di emanare leggi civili positive contro le leggi
della natura (the vanity and fruitlessness of making civil
positive law against the law of nature [135]). Nel suo
"Quantulumcumque" (1682) dichiara perciò che la
regolamentazione legale dell'interesse è stupida quanto una
regolamentazione dell'esportazione dei metalli nobili oppure del
corso del cambio. Nello stesso scritto dice la parola definitiva
una volta per tutte sul raising of money [crescita di valore del
denaro] (il tentativo, per es., di dare 1/2 scellino in nome di
uno scellino coniando l'oncia d'argento in una quantità
doppia di scellini).
Per quel che concerne quest'ultimo punto, esso è stato
quasi solamente copiato da Locke e da North. Per quel che concerne
l'interesse, invece, Locke si ricollega al parallelo di Petty tra
interesse del denaro e rendita fondiaria, mentre North, andando
oltre, contrappone l'interesse, come rendita del capitale (rent of
stock), alla rendita fondiaria e gli stocklords ai landlords
[136]. Però, mentre Locke ammette solo con limitazioni la
libertà d'interesse reclamata da Petty, North l'accetta
assolutamente.
Dühring supera se stesso quando, essendo lui stesso ancora
mercantilista feroce nel senso "più sottile" della parola,
dà il benservito ai "Discourses upon Trade" di Dudley North
con l'osservazione che essi sono scritti "nel senso della
libertà di commercio". È come se si dicesse ad
Harvey che egli ha scritto "nel senso" della circolazione del
sangue. Lo scritto di North, a prescindere dagli altri suoi
meriti, è una spiegazione classica, scritta con
logicità spregiudicata, della dottrina della libertà
di commercio, riguardante lo scambio tanto all'interno quanto con
l'esterno: "cosa inaudita", certamente, nell'anno 1691!
Del resto Dühring informa che North era un "commerciante" e
inoltre un cattivo soggetto e che il suo scritto "non poteva
incontrare alcun successo". Non ci sarebbe mancato altro che un
libro di questo genere, al tempo in cui trionfava definitivamente
in Inghilterra il sistema protezionistico, avesse incontrato
"successo" tra i signori che allora dettavano legge! Questo fatto
non poté tuttavia impedire che la sua immediata efficacia
teorica, dimostrabile in tutta una serie di scritti economici
apparsi in Inghilterra subito dopo di lui, in parte ancora nel
XVII secolo.
Locke e North ci fornirono la prova che le prime ardite brecce
aperte da Petty in quasi tutti i campi dell'economia politica sono
state singolarmente riprese e ulteriormente rielaborate dai suoi
successori inglesi. Le tracce di questo processo nel periodo che
va dal 1691 al 1752 si impongono anche all'osservatore più
superficiale, già per il fatto che tutti gli scrittori
economici di qualche rilievo appartenenti a questo periodo si
ricollegano positivamente o negativamente a Petty. Questo periodo,
pieno di teste originali, è perciò il più
significativo per l'indagine della genesi graduale dell'economia
politica. "La maniera di delineare la storia in grande stile", che
rimprovera a Marx come peccato imperdonabile l'aver dato nel
"Capitale" tanto peso a Petty e agli scrittori di quel periodo, li
cancella semplicemente dalla storia. Da Locke, North,
Boisguillebert e Law essa salta immediatamente ai fisiocratici e
poi all'ingresso del vero tempio dell'economia politica appare...
David Hume. Col permesso di Dühring ristabiliamo l'ordine
cronologico e quindi collochiamo Hume prima dei fisiocratici.
Gli "Essays" economci di Hume apparvero nel 1752 [137]. Nei saggi
compresi in questo volume: "Of Money", "Of the Balance of Trade",
"Of Commerce", Hume segue passo passo, spesso perfino nelle sue
semplici ubbie, il "Money answers all things" di Jacob Vanderlint,
Londra, 1734. Per quanto questo Vanderlint sia rimasto sconosciuto
a Dühring, era ancora preso in considerazione negli scritti
di economia inglesi verso la fine del secolo XVIII, cioè
nel periodo post-smithiano.
Come Vanderlint, Hume considera il denaro come semplice simbolo
del valore; egli copia quasi alla lettera da Vanderlint (e questo
è importante perché la teoria del simbolo del valore
avrebbe potuto trarla da molti altri scritti) le ragioni per cui
la bilancia commerciale non può essere stabilmente
favorevole o sfavorevole per un paese; insegna, come Vanderlint,
che l'equilibrio delle bilance si stabilisce naturalmente in
conformità con la posizione economica dei singoli paesi;
predica, come Vanderlint, la libertà di commercio, solo con
minore ardire e logicità; con Vanderlint, ma solo
più superficialmente mette in rilievo i bisogni come
stimolo della produzione; segue Vanderlint nell'errore di
attribuire alla moneta bancaria e a tutta la carta moneta avente
pubblico conto, un influsso sul prezzo delle merci; con Vanderlint
respinge la moneta fiduciaria; come Vanderlint, fa dipendere il
prezzo delle merci dal tempo del lavoro e quindi dal salario; ne
copia perfino l'ubbia che la tesaurizzazione mantenga basso il
prezzo delle merci ecc. ecc.
Dühring aveva già da gran tempo borbottato in tomo
oracolare che altri avevano frainteso la teoria monetaria di Hume
e, specialmente, aveva fatto delle allusioni minacciose a Marx che
nel "Capitale" aveva segnalato, per giunta in maniera inurbana, le
segrete connessioni di Hume con Vanderlint e con J. Massie, autore
ancora da ricordare [138].
Per quel che concerne questi fraintendimenti i fatti stanno come
segue. Riguardo alla effettiva teoria monetaria di Hume, secondo
la quale il denaro è semplice simbolo del valore e
perciò, rimanendo per il resto eguali le circostanze, i
prezzi delle merci si abbassano nella misura in cui la
quantità di denaro circolante cresce e crescono nella
misura in cui questa decresce, Dühring, con tutta la sua
buona volontà, non può che ripetere, sia pur nella
luminosa maniera che gli è propria, gli errori dei suoi
predecessori. Ma Hume, dopo aver stabilita la predetta teoria,
obietta a se stesso (la stessa cosa aveva già fatto
Montesquieu partendo dagli stessi presupposti [139]) che pure
è "certo" che, dopo la scoperta delle miniere americane,
"l'industria aveva avuto un incremento in tutte le nazioni
d'Europa tranne in quelle che possedevano queste miniere", e che
questo fatto "è dovuto, tra le altre ragioni, anche
all'aumento della quantità d'oro e d'argento". Egli spiega
questo fenomeno col fatto che "l'alto prezzo delle merci, malgrado
sia una conseguenza necessaria dell'aumento, della quantità
d'oro e d'argento, tuttavia non consegue immediatamente a
quest'aumento, ma si richiede un certo tempo perché l'oro
circoli in tutto lo Stato e faccia sentire la sua azione in tutti
gli strati della popolazione". In questo intervallo di tempo
agisce beneficamente sull'industria e il commercio. A conclusione
di questa spiegazione Hume ci dice anche il motivo, sebbene molto
più unilateralmente di molti suoi predecessori e
contemporanei: "È facile seguire il denaro nel suo
progresso attraverso tutta la comunità civile e troveremo
allora che esso necessarimente stimola l'attività di
ciascuno prima di elevare il prezzo del lavoro" [140].
In altri termini: Hume descrive qui l'effetto di una rivoluzione
nel valore dei metalli nobili e precisamente di undeprezzamento,
o, ciò che è lo stesso, di una rivoluzione nella
misura del valore dei metalli nobili. E vi trova giustamente che,
nell'equiparazione del prezzo delle merci che avviene solo
gradualmente, questo deprezzamento soltanto in ultima analisi
"eleva il prezzo del lavoro", vulgo salario; quindi accresce il
profitto dei commercianti e degli industriali a spese degli operai
(il che d'altronde egli trova perfettamente normale) e in questo
modo "stimola l'attività". La questione scientifica vera e
propria invece è questa: se e come un'accresciuta
importazione di metalli nobili, rimanendo invariato il loro
valore, agisca sul prezzo delle merci. Questa questione egli non
se la pone e confonde ogni "accrescimente quantitativo dei metalli
nobili" con il loro deprezzamento. Hume dice proprio esattamente
ciò che Marx ("Per la critica ecc.", p. 173) [141] gli fa
dire. Ritorneremo ancora una volta di passaggio su questo punto,
ma volgiamoci prima sul saggio di Hume sull'"Interest".
L'argomentazione di Hume espressamente indirizzata contro Locke,
che cioè l'interesse non è regolato dalla
quantità di denaro esistente, ma dal saggio di profitto, e
le altre sue spiegazioni sulle cause che determinano l'alto o
basso livello del saggio d'interesse: tutto questo si trova, con
esattezza molto maggiore e con spirito molto minore, in uno
scritto apparso nel 1750, cioè due anni prima dello scritto
di Hume. Questo scritto è intitolato: "An Essay on
Governing Causes of the Natural Rate of Interest, wherein the
sentiments of Sir W. Petty and Mr. Locke, on that head, are
considered". Il suo autore è J. Massie, scrittore dalla
attività multiforme e, come si può vedere dalla
letteratura inglese contemporanea, molto letto. La maniera con cui
Adam Smith ha discusso del saggio d'interesse è più
vicina a Massie che a Hume. Né Massie né Hume sanno
e dicono nulla sulla natura del "profitto" che pure ha una sua
funzione nell'uno e nell'altro.
"In generale", sermoneggia Dühring, "si è preceduto
per lo più con molta prevenzione nel valutare Hume e gli si
sono attribuite idee che egli non accettava affatto." E di questo
"procedere" Dühring stesso ci dà più di un
esempio patente.
Così per es. il saggio di Hume sull'interesse comincia con
queste parole:
"Non c'è segno più certo della floridezza di una
nazione che il basso livello del saggio d'interesse, e con
ragione; per quanto io creda che la causa di questo fatto sia
alquanto diversa da quella che attualmente si ammette" [142].
Quindi già nella prima proposizione Hume cita l'opinione
secondo la quale il basso livello del saggio d'interesse è
il segno più certo della floridezza di un popolo come un
luogo comune, già diventato banale ai suoi giorni. E, in
effetti, questa "idea" dopo Child aveva avuto ben cento anni di
tempo per diventare corrente. Ma invece:
"dalle vedute" (di Hume) "sul saggio d'interesse bisogna mettere
principalmente in rilievo l'idea che esso è il vero
barometro delle condizioni" (di quali?) "e che il suo basso
livello è un segno quasi infallibile della floridezza di un
popolo" (p. 130).
Chi è quest'"essere impersonale" che con "molta
prevenzione" così parla? Nessun altro che Dühring.
Ciò che del resto provoca nel nostro storiografo critico un
ingenuo stupore è il fatto che Hume, a proposito di una
certa idea felice, "neppure se ne proclami l'autore". Questo non
sarebbe accaduto a Dühring.
Abbiamo visto come Hume confonda ogni accrescimento quantitativo
del metallo nobile con quell'accrescimento quantitativo di esso
che è accompagnato da un deprezzamento, da una rivoluzione
nel proprio valore e quindi nella misura del valore delle merci.
Questa confusione era inevitabile in Hume perché egli non
aveva la minima conoscenza delle funzioni dei metalli nobili come
misura del valore. E non poteva averla perché non sapeva
assolutamente nulla del valore stesso. La stessa parola non
comparve forse che una volta nei suoi saggi e precisamente
là dove, credendo di correggere l'errore di Locke che i
metalli nobili avrebbero solo "un valore immaginario", lo aggrava
ulteriormente, dicendo che avrebbero "principalmente un valore
fittizio" [143].
Su questo punto egli è di molto inferiore non solo a Petty,
ma anche a molti suoi contemporanei inglesi. E mostra la stessa
"arretratezza" allorché, sempre fedele alla vecchia moda,
continua ancora ad esaltare il "mercante" come la prima molla che
spinge la produzione. Idea che Petty aveva già sorpassato
di gran lunga. Per quel che si riferisce precisamente
all'assicurazione di Dühring che Hume nei suoi saggi si
sarebbe occupato dei "principali rapporti economici" non si ha che
da confrontare lo scritto di Cantillon citato da Adam Smith
(uscito come i saggi di Hume nel 1752, ma pubblicato molti anni
dopo la morte dell'autore [144]) per stupirsi dell'ambito
ristretto dei lavori economici di Hume. Hume, come si è
detto [145], malgrado il brevetto assegnatogli da Dühring,
resta autorevole anche nel campo dell'economia politica, ma qui
non è per niente un ricercatore originale e tanto meno
è importante. L'azione esercitata dai suoi saggi economici
sugli ambienti economici del suo tempo nasceva non solamente dalla
sua eccellente maniera di esporre, ma molto più ancora dal
fatto che essi erano un'ottimistica esaltazione progressista
dell'industria e del commercio, allora in fiore, in altri termini
della società capitalistica, in quei tempi in rapida ascesa
in Inghilterra, nella quale perciò essi dovevano incontrare
"successo". Basti qui un'indicazione. Tutti sanno con quanta
passione, proprio al tempo di Hume, la massa del popolo inglese
combatté contro il sistema delle imposte indirette,
sistematicamente sfruttato dal famigerato Robert Walpole al fine
dello sgravio fiscale dei proprietari terrieri e dei ricchi in
genere. Nel suo saggio sulle imposte ("Of Taxes"), in cui Hume,
senza nominarlo, polemizza contro l'uomo che rappresentava la sua
fonte in questa materia e che gli era sempre presente, Vanderlint,
il più violento avversario delle imposte indirette,
leggiamo:
"Bisogna che esse" (le imposte di consumo) "siano in realtà
delle imposte molto forti e stabilite molto irrazionalmente, se il
lavoratore non è in grado di pagarle neppure accrescendo la
propria attività e la propria parsimonia, senza elevare il
prezzo del suo lavoro" [146].
Sembra di ascoltare lo stesso Robert Walpole, specialmente se si
aggiunge il passo del saggio sul "debito pubblico" in cui a
proposito della difficoltà di una tassazione dei creditori
dello Stato si dice: "La diminuzione delle loro entrate non
sarebbe mascherata sotto l'apparenza di essere una semplice voce
della gabella o dogana" [147].
Come non si poteva aspettare diversamente da uno scozzese,
l'ammirazione di Hume per l'industriosità borghese non era
affatto puramente platonica. Povero diavolo per nascita,
riuscì a costruirsi un reddito di molte, molte migliaia di
sterline all'anno, la qual cosa, poiché non si tratta di
Petty, Dühring ingegnosamente così esprime:"Partendo
da mezzi molto ristretti, era riuscito, mercé una saggia
economia domestica, a non esser costretto a scrivere per
compiacere qualcuno". Se più avanti Dühring dice:
"Egli non aveva mai fatto la più piccola concessione
all'influenza dei partiti, dei principi o delle
università", si può dire che certo non è noto
che Hume abbia mai fatto affari letterari in società con un
"Wagener" [148], ma che invece è ben noto che fu un
instancabile partigiano dell'oligarchia whig, che onorava "Chiesa
e Stato" e, come ricompensa per questi meriti, ebbe prima il posto
di segretario d'ambasciata a Parigi e più tardi quello,
incomparabilmente più importante e più redditizio,
di sottosegretario di Stato.
"Dal punto di vista politico Hume fu e rimase sempre di sentimenti
conservatori e strettamente monarchici. Per questa ragione, anche
dai partigiani della Chiesa ufficiale non fu maltrattato con
quella severità che si usò contro Gibbon",
dice il vecchio Schlosser [149].
"Questo Hume egoista, questo storico mendace" insulta i monaci
inglesi, grassi, senza sposa e senza famiglia, viventi di questua,
"ma egli stesso non ha mai avuto né una famiglia né
una moglie, ed era, egli stesso, un tipo grasso e grosso,
impinguato considerevolmente di denaro pubblico senza averlo mai
guadagnato con qualche servizio pubblico", dice quel "rozzo"
plebeo di Cobbett [150]. Hume è "nella pratica della vita,
nei lati essenziali, di gran lunga superiore a un Kant",
dice Dühring.
Ma perché nella "Storia critica" viene assegnata a Hume una
posizione così esagerata? Semplicemente perché
questo "pensatore serio e sottile" ha l'onore di rappresentare il
Dühring del XVIII secolo. Come un Hume serve a provocare che
"la creazione di tutto il ramo scientifico" (dell'economia)
"è stato fatto dalla filosofia più illuminata",
così il precedente di Hume offre la migliore garanzia che
questo ramo scientifico troverà, per quanto da ora è
dato prevedere, la sua conclusione in quell'uomo fenomenale che ha
trasformato la filosofia semplicemente "più illuminata"
nell'assolutamente luminosa filosofia della realtà e nel
quale, proprio come un Hume , ciò che "sinora è
senza esempi su suolo tedesco (...) lo studio della filosofia in
senso più stretto, si trova accoppiato con le ricerche
scientifiche di economia". In conseguenza di tutto ciò
troviamo Hume, pur autorevole come economista, gonfiato fino a
farne una stella di prima grandezza in economia, il cui
significato ha potuto sinora essere misconosciuto soltanto da
quella stessa invidia che fino ad oggi uccide con un silenzio
così ostinato anche i servizi "di valore decisivo per
l'epoca" resi da Dühring.
* * *
La scuola fisiocratica, come è noto, ci ha lasciato nel
"Tableau économique" di Quesnay [151] un enigma su cui
invano sinora si sono rotte le corna i critici e gli storici
dell'economia. Questo Tableau, che doveva far comprendere
chiaramente l'idea che i fisiocratici si facevano della produzione
e della circolazione della ricchezza complessiva di un paese,
è rimasto abbastanza oscuro per le generazioni successive
degli economisti. Anche su questo Dühring ci farà
definitivamente luce. Che cosa questo "quadro economico della
produzione e della distribuzione debba significare nello stesso
Quesnay", egli dice, si può vedere solo quando si "siano
precentemente indagati con precisione i suoi peculiari concetti
direttivi". E ciò tanto più, invero, in quanto
questi concetti sino allora erano stati esposti con una
"oscillante imprecisione" e neanche in Adam Smith se ne potevano
"riconoscere i tratti essenziali". A siffatte "ricerche
superficiali" della tradizione, Dühring metterà fine
una volta per sempre. Ed ecco che per cinque intere pagine si
mette a prendere in giro il suo pletore, cinque pagine nelle quali
frasi boriose di tutti i generi, continue ripetizioni e un
disordine calcolato dovrebbero nascondere il fatto spiacevole che,
sui "concetti direttivi" di Quesnay, Dühring può
comunicarci a stento quel tanto che dicono "le più correnti
compilazioni manualistiche", contro le quali egli non si stanca di
mettere in guardia. "Uno dei lati più pericolosi" di questa
introduzione è costituito dal fatto che anche qui si
sentono qua e là tracce del Tableau, sinora noto soltanto
di nome, ma poi ci si perde in "riflessioni", di tutte le specie,
come per es. "la differenza tra sforzo e risultato." Se questa
differenza "invero non si può cogliere completamente
elaborata nell'idea di Quesnay", per contro Dühring ce ne
darà un esempio folgorante non appena arriva, dopo il suo
prolungato "sforzo" introduttivo, al suo "risultato" stranamente
misero, e cioè alla conclusione sul Tableau stesso. Diamo
ora tutto, ma letteralmente tutto ciò che trova opportuno
comunicarci sul Tableau di Quesnay.
Nello "sforzo" Dühring dice:
"A lui" (Quesnay) "appariva evidente per sé che il ricavo"
(Dühring aveva parlato proprio allora del prodotto netto)
"debba essere concepito e considerato come un valore in denaro
(...) egli collegò immediatamente le sue riflessioni (!) ai
valori in denaro, che presupponeva come risultati della vendita di
tutti i prodotti agricoli dal momento che escono dalla mano del
primo possessore. In questa maniera (!) egli opera nelle colonne
del suo Tableau con alcuni miliardi" (cioè con valori in
denaro).
Abbiamo così imparato in tre riprese che Quesnay nel
Tableau opera coi "valori in denaro" dei "prodotti agricoli", ivi
incluso il "prodotto netto" o "provento netto". Andiamo avanti
nella lettura del testo:
"Se Quesnay avesse imboccato la via di una considerazione delle
cose veramente naturale, e si fosse liberato non solo della
preoccupazione dei metalli nobili e della quantità di
denaro, ma anche della preoccupazione dei valori in denaro (...)
ma egli conta invece solo con somme di valore e immaginava (!) che
il prodotto netto sia a priori un valore in denaro".
Quindi per la quarta e la quinta volta: nel Tableau ci sono solo
valori in denaro!
"Egli" (Quesnay) "otteneva la stessa cosa" (il prodotto netto)
"sottraendo le spese e pensando (!) principalmente" (ricerca non
tradizionale, ma in compenso tanto più superficiale) "a
quel valore che spetta come rendita al proprietario terriero".
Non siamo ancora andati avanti di un passo; ma ora sì che
ci siamo:
"D'altra parte, purtuttavia" (questo "purtuttavia" è una
perla!) "il prodotto netto passa nella circolazione come oggetto
naturale e in questo modo diventa un elemento per mezzo del quale
(.) si mantiene (...) la classe indicata come sterile. Qui si
può subito (!) rilevare la confusione che sorge dal fatto
che il corso delle sue idee nell'un caso è determinato dal
valore in denaro e nell'altro dalla cosa stessa".
In generale, è evidente, tutta la circolazione delle merci
soffre di questa "confusione": che le merci vi entrano
contemporaneamente come "oggetto naturale" e come "valore in
denaro". Ma continuiamo ancora a girare sempre intorno ai "valori
in denaro", perché "Quesnay vuole evitare una doppia
applicazione del provento economico".
Con licenza di Dühring, in basso, nell'analisi del Tableau
[152] di Quesnay, le diverse specie di prodotti figurano come
"oggetti naturali" e in alto, nel Tableau stesso, figurano i loro
valori in denaro. Quesnay più tardi ha perfino fatto
scrivere dal suo famulus, l'abate Bandeau, nel Tableau stesso,
anche gli oggetti naturali accanto al loro valore in denaro [153].
Dopo tanto "sforzo" finalmente il "risultato". Udite, udite:
"Pure l'incongruenza" (in riferimento alla funzione assegnata da
Quesnay ai proprietari terrieri) "diventa subito chiara, appena ci
si domanda che cosa avviene nel ciclo economico del prodotto netto
appropriato come rendita. Qui il modo di vedere dei fisiocratici e
il Tableau économique hanno potuto dare solo confusione
arbitraria spinta sino al misticismo".
Tutto è bene quel che finisce bene. Dunque Dühring non
sa "che cosa nel ciclo economico" (che il Tableau rappresenta)
"avviene del prodotto netto appropriato come rendita". Il Tableau
è per lui la "quadratura del circolo". Per propria
confessione egli non sa neanche l'abbiccì della
fisiocrazia. Dopo tutto questo menare il can per l'aia, questo
pestar l'acqua nel mortaio, questi zig-zag, arlecchinate, episodi,
digressioni, ripetizioni e guazzabugli stupefacenti, che
dovrebbero unicamente prepararci alla imponente chiarificazione su
"ciò che il Tableau debba significare per Quesnay stesso";
dopo tutto questo, a conclusione, la pudibonda confessione di
Dühring: che egli stesso non lo sa.
Una volta liberatosi di questo mistero doloroso, di questa atra
Cura [154] oraziana che gli stava in groppa durante la sua
cavalcata per il paese della fisiocrazia, ecco il nostro
"pensatore serio e sottile" soffiare ancora una volta allegramente
nella sua tromba: "Le linee che Quesnay traccia in tutte le
direzioni" (ce ne sono cinque in tutto!) "nel suo Tableau, del
resto abbastanza semplice (!), e che debbono rappresentare la
circolazione del prodotto netto", fanno sorgere il dubbio se "in
queste strane combinazioni di colonne" non si nasconda una
fantasia matematica e ci ricordano che Quesnay si è
occupato della quadratura del circolo, ecc. Dato che queste linee,
malgrado la loro semplicità, per confessione di
Dühring stesso, gli rimangono inintelligibili, egli secondo
la sua maniera prediletta, deve disprezzarle. E ora può
tranquillamente dare al noioso Tableau il colpo di grazia:
"Poiché abbiamo considerato il prodotto netto da questo suo
lato più dubbio" ecc. Ossia, la confessione forzata di non
intendere neanche la prima parola del Tableau économique e
la funzione che in esso ha il prodotto che vi figura: Dühring
la chiama "l'aspetto più dubbio del prodotto netto"! Che
umorismo da condannato a morte!
Ma perchè i nostri lettori, riguardo al Tableau di Quesnay,
non restino nella stessa atroce ignoranza in cui sono
necessariamente coloro che traggono la loro sapienza economica "di
prima mano" da Dühring, diciamo in breve quanto segue:
È noto che per la fisiocrazia la società si divide
in tre classi: 1. la classe produttiva, cioè la classe
realmente attiva nell'agricoltura: fittavoli e lavoratori
agricoli; essi si dicono produttivi perché il loro lavoro
lascia un'eccedenza: la rendita. 2. La classe che si appropria
questa eccedenza, comprendente i proprietari terrieri e il
personale dipendente da essi, il principe e in generale i
funzionari pagati dallo Stato e finalmente anche la Chiesa, nella
sua qualità particolare di ente che si appropria la decima.
Per brevità, d'ora in poi, designeremo la prima classe
semplicemente sotto il nome di "fittavoli" e la seconda sotto il
nome di "proprietari terrieri". 3. La classe industriale o sterile
(improduttiva); sterile perché, secondo il modo di vedere
della fisiocrazia, alle materie prime fornitele dalla classe
produttiva aggiunge solo tanto valore quanti sono i mezzi di
sussistenza che la stessa classe le fornisce e che essa consuma.
Ora, il Tableau di Quesnay serve per rendere evidente come il
prodotto globale annuo di un paese (qui in realtà della
Francia) circola tra queste tre classi e serve alla riproduzione
annua.
Il primo presupposto del Tableau è che il sistema
dell'affittanza, e con esso l'agricoltura esercitata su larga
scala, nel senso che aveva al tempo di Quesnay, sia già
stato generalmente introdotto, e per questo gli valgono da modello
la Normandia, la Piccardia, l'Ile-de-France e alcune altre
province francesi. Il fittavolo appare perciò come
l'elemento veramente dirigente dell'agricoltura, rappresenta nel
Tableau tutta quanta la classe produttiva (agricola) e paga al
proprietario terriero una rendita in denaro. Ai fittavoli nella
loro totalità viene attribuito un capitale investito, o
inventario, di dieci miliardi di livres; un quinto di questa
somma, ossia due miliardi, rappresenta il capitale d'esercizio che
deve essere attualmente sostituito: calcolo, questo, fatto in base
alle fattorie meglio condotte delle province surricordate.
Ulteriori presupposti sono: 1. che si verifichino prezzi costanti
e riproduzione semplice, e ciò per semplificare lo studio;
2. che resti esclusa ogni circolazione che ha luogo all'interno di
una singola classe e che si consideri semplicemente la
circolazione tra classe e classe; 3. che tutte le compre e
rispettivamente le vendite che si verificano tra classe e classe
nel corso dell'anno di esercizio siano raccolte in una somma
totale ultima. Si noti finalmente che al tempo di Quesnay in
Francia, come più o meno in tutta l'Europa, l'industria
casalinga, propriamente detta, della famiglia contadina provvedeva
alla parte di gran lunga più considerevole dei suoi
bisogninon rientranti nella classe dei generi alimentari, e
perciò questa industria casalinga è qui presupposta
come ovvio accessorio dell'agricoltura.
Il punto di partenza del Tableau è il raccolto totale, il
prodotto lordo dei prodotti annui della terra, il quale per questa
ragione figura subito in alto nel Tableau , ossia la "riproduzione
totale" del paese, qui della Francia. La grandezza del valore di
questo prodotto lordo viene valutata secondo i prezzi medi del
prodotto del suolo delle nazioni che praticano il commercio. Esso
comporta cinque miliardi di livres, cifre che, secondo le
valutazioni statistiche allora possibili, rappresenta all'incirca
il valore in denaro del prodotto lordo dell'agricoltura in
Francia. Questa e nessun'altra è la ragione per cui nel suo
Tableau Quesnay "opera con alcuni miliardi", cioè con
cinque miliardi e non con cinque livres tournois [155].
Il prodotto lordo totale, del valore di cinque miliardi, si trova
quindi nelle mani della classe produttiva, cioè anzitutto
dei fittavoli, che lo hanno prodotto mediante l'erogazione di un
capitale annuo di esercizio di due miliardi corrispondente ad un
capitale investito di dieci miliardi. I prodotti agricoli, mezzi
di sussistenza, materie prime, ecc., che sono richiesti per la
sostituzione del capitale d'esercizio, e quindi anche per il
mantenimento di tutto le persone direttamente attive
nell'agricoltura, sono prelevati in natura sul raccolto totale ed
erogati per la nuova produzione agricola. Poiché, come
è stato detto, vengono presupposti prezzi costanti e
riproduzione semplice, ad un livello dato, il valore in denaro di
questa parte del prodotto lordo che è stata prelevata in
precedenza, è uguale a due miliardi di livres. Questa
parte, dunque, non rientra nella circolazione generale. Infatti,
come è già stato notato, la circolazione, in quanto
abbia luogo all'interno dell'ambito di ogni singola classe e non
invece tra le diverse classi, viene esclusa dal Tableau .
Dopo la sostituzione del capitale d'esercizio effettuata sul
prodotto lordo, resta un'eccedenza di tre miliardi, di cui due in
mezzi di sussistenza e uno in materie prime. Ma la rendita che i
fittavoli debbono pagare ai proprietari terrieri ammonta solo a
due terzi di questa somma, pari a due miliardi. Perché solo
questi due miliardi figurino sotto la rubrica "prodotto netto" o
"reddito netto", lo vedremo presto.
Oltre alla "riproduzione" agricola "totale" del valore di cinque
miliardi, di cui tre entrano nella circolazione generale, nelle
mani dei fittavoli si trova però, prima che cominci il
movimento rappresentato nel Tableau , anche tutto il
"pécule" ["peculio", cioè il denaro risparmiato]
della nazione, due miliardi di denaro contante. Ecco come accade
questo fatto.
Poiché il punto di partenza del Tableau è il
raccolto totale, esso costituisce allo stesso tempo il punto
finale di un'annata economica, per es. dell'annata 1758, dopo la
quale comincia una nuova annata economica. Durante questa nuova
annata, 1759, la parte del prodotto lordo destinata alla
circolazione si divide, mediante un certo numero di pagamenti,
compre e vendite, tra le altre due classi. Questi movimenti che si
succedono l'un l'altro frazionati e che si estendono per un'intera
annata (come in ogni caso era inevitabile che avvenisse nel
Tableau ), sono però compendiati in pochi atti
caratteristici, ciascuno dei quali abbraccia tutt'insieme
un'intera annata. In questo modo, in effetti, anche alla fine
dell'annata 1758, alla classe dei fittavoli è riaffluito il
denaro che essi avevano pagato ai proprietari terrieri come
rendita dell'annata 1757 (come ciò accada, lo
mostrerà il Tableau stesso), cioè la somma di due
miliardi, cosicché nel 1759 essi possono rimettere in
circolazione questa somma. Poiché quella somma, come nota
Quesnay, è molto maggiore di quanto richiesto nella
realtà per la circolazione totale del paese (la Francia),
ove i pagamenti si ripetono costantemente in modo frazionato, i
due miliardi di livres che si trovano nelle mani dei fittavoli
rappresentano la somma totale del denaro circolante nella nazione.
La classe dei proprietari terrieri che incassano rendite si
presenta, come del resto casualmente accade ancor oggi, anzitutto
nella veste di riscuotitori di pagamenti. Secondo il presupposto
di Quesnay, i proprietari terrieri propriamente detti ricevono
solo quattro settimi della rendita di due miliardi, due settimi
vanno al governo e un settimo ai riscuotitori di decime. Al tempo
di Quesnay la Chiesa era il maggio proprietario terriero della
Francia e per giunta intascava la decima su ogni altra
proprietà fondiaria.
Il capitale d'esercizio (avances annuelles [anticipi annuali])
erogato durante un'intera annata dalla classe "sterile" consiste
in materie prime del valore di un miliardo: solo materie prime,
perché strumenti, macchine, ecc., contano tra i prodotti di
questa stessa classe. Invece le molteplici funzioni che questi
prodotti hanno nell'esercizio dell'industria di questa classe non
rientrano nel Tableau più di quanto vi rientri la
circolazione di merci e di denaro che ha luogo esclusivamente
all'interno di questa classe. Il salario del lavoro, per mezzo del
quale la classe sterile trasforma la materia prima in merce
manifatturata, è uguale al valore delle merci di
sussistenza che essa riceve in parte direttamente dalla classe
produttiva, in parte indirettamente dai proprietari terrieri.
Malgrado si divida, essa stessa, in capitalisti e salariati, essa,
presa come classe globale, secondo l'idea fondamentale di Quesnay,
sta al soldo della classe produttiva e dei proprietari terrieri.
La produzione industriale totale, e perciò anche la sua
circolazione totale, che si distribuisce nell'annata che segue il
raccolto, vengono egualmente riunite in un tutto unico. si
presuppone perciò che al principio del movimento
rappresentato nel Tableau la produzione annua delle merci della
classe sterile si trovi comletamente nelle sue mani, che quindi
tutto il suo capitale d'esercizio, vale a dire materie prime del
valore di un miliardo, sia stato trasformato in merci del valore
di due miliardi, la metà dei quali rappresenta il prezzo
dei mezzi di sussistenza consumati durante questa trasformazione.
Si potrebbe qui obiettare: ma tuttavia anche la classe sterile usa
prodotti industriali per i suoi bisogni domestici; dove dunque
figurano questi prodotti se il suo proprio prodotto totale passa,
mediante la circolazione, alle altre classi? Ecco la risposta che
riceviamo a questa domanda: la classe sterile non solo consuma
essa stessa una parte delle sue proprie merci, ma cerca inoltre di
trattenerne quanto più le è possibile. Essa quindi
vende le sue merci messe in circolazione al di sopra del loro
valore reale e deve farlo perché noi registriamo queste
merci al valore totale dellaloro produzione. Questo tuttavia non
altera in nulla i dati stabiliti nel Tableau ; infatti le altre
due classi ricevono le merci manifatturate solo al valore della
loro produzione totale.
Adesso dunque conosciamo la posizione economica delle tre diverse
classi, al principio del movimento rappresentato nel Tableau .
La classe produttiva, dopo il rinnovo in natura del suo capitale
d'esercizio, dispone ancora di tre miliardi in prodotti agricoli
lordi e di due miliardi in denaro. La classe dei proprietari
terrieri figura solamente col suo titolo di credito di due
miliard9i di rendita sulla classe produttiva. La classe sterile
dispone di due miliardi di prodotti manifatturati. Una
circolazione che avviene solo tra due di queste tre classi
è detta dai fisiocratici circolazione imperfetta, una
circolazione che avviene tra tute e tre le classi è detta
circolazione perfetta.
Quindi passiamo ora al Tableau économique stesso.
Prima circolazione (imperfetta). I fittavoli pagano ai proprietari
terrieri senza contropartita la rendita loro spettante, con due
miliardi di denaro. Con uno di questi miliardi i proprietari
terrieri comprano mezzi di sussistenza dai fittavoli ai quali
così rifluisce una metà del denaro da loro erogato
in pagamento della rendita.
Nella sua "Analyse du Tableau économique" Quesnay non parla
più dello Stato che riceve due settimi e della Chiesa che
riceve un settimo della rendita fondiaria, perché le loro
funzioni sociali in generale sono note. riguardo ai proprietari
terrieri propriamente detti, dice però che le loro spese,
nelle quali figurano anche quelle di tutti i loro dipendenti, sono
almeno per la massima parte improduttive, ad eccezione di quella
piccola parte che viene impiegata "per il mantenimento e il
miglioramento di loro fondi e per elevare il livello della loro
coltura". Ma secondo il "diritto naturale" la loro specifica
funzione consiste precisammo nel "provvedere alla buona
amministrazione e alle spese per il mantenimento del loro
patrimonio" [156] o, come è spiegato più tardi,
nelle avances foncières,, cioè in spese per
preparare il terreno, e nel provvedere le fattorie di tutti gli
accessori che permettono al fittavolo di dedicare tutto il suo
capitale esclusivamente all'effettiva coltura.
Seconda circolazione (perfetta). Col secondo miliardo, che si
trovano ancora nelle loro mani, i proprietari terrieri comprano
prodotti manifatturati dalla classe sterile, ma questa col denaro
ricavato compra dai fittavoli mezzi di sussistenza per lo stesso
ammontare.
Terza circolazione (imperfetta). I fittavoli comprano dalla classe
sterile con un miliardo in denaro merci fatturate per lo stesso
ammontare; una gran parte di queste merci consiste in strumenti
agricoli ed altri mezzi di produzione necessari all'agricoltura.
La classe sterile restituisce ai fittavoli lo stesso denaro,
comprando con esso materie prime per un miliardo in modo da
sostituire il proprio capitale d'esercizio. Con ciò sono
rifluite nelle tasche dei fittavoli i due miliardi in denaro da
loro erogati in pagamento della rendita e il ciclo è
chiuso. E conseguentemente è risolto anche il grande
enigma: "che cosa nel ciclo economico avvenga del prodotto netto
appropriato sotto forma di rendita".
Abbiamo trovato sopra, al punto di partenza del processo,
un'eccedenza di tre miliardi tra le mani della classe produttiva.
Di essi solo due sono stai pagati ai proprietari terrieri sotto
forma di rendita, come prodotto netto. Il terzo miliardo
d'eccedenza forma l'interesse del capitale totale d'investimento
dei fittavoli, quindi il 10% su dieci miliardi. Essi non ricevono
questo interesse, si noti bene, dalla circolazione; esso si trova
nelle loro mani in natura ed essi lo realizzano solo attraverso la
circolazione, poiché per mezzo di essa lo sostituiscono con
merci manifatturate dello stesso valore.
Senza questo interesse il fittavolo, l'agente principale
dell'agricoltura, non anticiperebbe ad essa il capitale
d'investimento. Già da questo punto di vista, secondo i
fisiocratici, l'appropriazione da parte del fittavolo di questa
parte del plusprodotto agricolo che rappresenta l'interesse
è una condizione della produzione, altrettanto necessaria
quanto la stessa classe dei fittavoli e perciò questo
elemento non può essere contato nella categoria del
"prodotto netto" o "reddito netto" nazionale; infatti quest'ultimo
è caratterizzato precisamente dal fatto che può
consumarsi senza nessun riguardo ai bisogni immediati della
riproduzione nazionale. Ma questo fondo di un miliardo serve,
secondo Quesnay, in gran parte per le riparazioni necessarie
durante l'annata e in pare per il rinnovo del capitale
d'investimento, inoltre come fondo di riserva per imparare ad
infortuni e finalmente, quando è possibile, serve per
arricchire il capitale d'investimento e di esercizio,
nonché per migliorare il terreno ed estendere la coltura.
Tutto questo processo è, in verità, "abbastanza
semplice". Vengono immessi nella circolazione; dai fittavoli, due
miliardi in denaro per il pagamento della rendita e tre miliardi
in prodotti, dei quali due terzi in mezzi di sussistenza e un
terzo in materie prime; dalla classe sterile, merci manifatturate
per due miliardi. Dei mezzi di sussistenza, dell'ammontare di due
miliardi, una metà viene consumata dai proprietari terrieri
con le loro dipendenze, l'altra metà dalla classe sterile
in pagamento del suo lavoro. Le materie prime per un miliardo
sostituiscono il capitale d'esercizio della stessa classe. Delle
merci manifatturate in circolazione per l'ammontare di due
miliardi, una metà spetta ai proprietari terrieri, l'altra
metà ai fittavoli. Per i quali essa è solo una forma
trasformata dell'interesse del loro capitale d'investimento,
interesse ricavato direttamente dalla riproduzione agricola.
Invece il denaro che il fittavolo ha messo in circolazione col
pagamento della rendita, riaffluisce nelle sue mani mediante la
vendita dei suoi prodotti e così nella nuova annata
economica può essere ripercorso lo stesso ciclo.
Ed ora si ammiri l'esposizione "veramente critica" di
Dühring, così infinitamente superiore alle
"superficiali ricerche della tradizione". Dopo averci, per cinque
volte di seguito, rappresentato in modo misterioso con quanto
pericolo Quesnay, nel Tableau , operi con semplici valori in
denaro, il che per giunta si rileva anche falso, finalmente appena
si chiede "che cosa nel ciclo economico avvenga del prodotto netto
appropriato sotto forma di rendita", egli giunge al risultato che
"il Tableau economico" può dare "solo confusione ed
arbitrio spinti sino al misticismo". Abbiamo visto che il Tableau
, questa rappresentazione, tanto semplice quanto geniale per il
suo tempo, del processo annuo di riproduzione, quale si compie per
mezzo della circolazione, risponde in una maniera molto precisa
alla domanda: che cosa nel ciclo economico avvenga del prodotto
netto e con ciòp ancora una volta il "misticismo" e la
"confusione e l'arbitrio" restano unicamente e solamente a
Dühring come il "lato più pericoloso" e l'unico
"prodotto netto" dei suoi studi fisiocratici.
A Dühring l'influenza storica dei fisiocratici è
precisamente tanto familiare quanto la loro teoria. "Con Turgot"
egli con insegna "la fisiocrazia il Francia era arrivata al suo
termine sia in pratica che in teoria." Ma che Mirabeau nelle sue
idee economiche fosse essenzialmente un fisiocratico, che egli
fosse, nell'Assemblea costituente del 1789, la prima
autorità economica, che questa assemblea nelle sue riforme
economiche abbia tradotto dalla teoria alla pratica una gran parte
dei principi fisiocratici e che specialmente abbia colpito con una
forte imposta anche il prodotto netto che il possesso fondiario si
appropriava "senza contropartita", cioè la rendita
fondiaria: tutto questo per "un" Dühring non esiste.
Come il lungo tratto di penna tirato sul periodo che va dal 1691
al 1752 toglieva di mezzo tutti i predecessori di Hume,
così un altro tratto di penna toglie di mezzo sir James
Steuart che sta tra Hume e Adam Smith. Della sua grande opera,
che, prescindendo dalla sua importanza storica, ha durevolmente
arricchito il campo dell'economia politica [157], nell'"impresa"
di Dühring non c'è una sillaba. Ma per contro infligge
allo Steuart la parola più ingiuriosa che c'è nel
suo lessico e dice che u "un professore" del tempo di Adam Smith.
Disgraziatamente questa insinuazione è una pura invenzione.
Steuart in realtà fu un grande proprietario terriero
scozzese che, per una pretesa partecipazione alla congiura degli
Stuart, fu bandito dalla Gran Bretagna e, per via del suo
soggiorno e dei suoi viaggi nel continente, ebbe modo di conoscere
le condizioni economiche di vari paesi.
Per farla breve: secondo la "storia critica" tutti i precedenti
economisti hanno avuto solo il valore o di servire da "rudimenti"
per la profonda fondazione "di valore decisivo" di Dühring o,
con la loro detestabilità, di metterla in particolare
rilievo. Purtuttavia, anche nell'economia ci sono alcuni eroi che
non rappresentano solo "rudimenti" per la "profonda fondazione",
ma "tesi", partendo dalle quali essa, secondo la prescrizione
della Filosofia della natura, non si è "sviluppata", ma
addirittura "composta": cioè l'"incomparabilmente grande ed
eminente" List, che per utilità e vantaggio dei fabbricanti
tedeschi ha gonfiato in "poderose" parole le "sottili" dottrine
mercantilistiche di un Ferrier e di altri; inoltre Carey, che
nella seguente tesi mette a nudo il vero nocciolo della sua
sapienza: "Il sistema di Ricardo è un sistema della
discordia (...) esso finisce col creare l'ostilità tra le
classi (...) il suo scritto è il manuale del demagogo che
aspira al potere mediante la divisione delle terre, la guerra e il
saccheggio" [158] e finalmente, buon ultimo, il Confusio della
City di Londra, Macleod.
Perciò la gente che nel presente e nell'immediato avvenire
vuole studiare la storia dell'economia politica andrà
sempre più sicura se si metterà al corrente dei
"prodotti annacquati", delle "banalità" e delle "prolisse
sbrodolature" delle "più correnti compilazioni
manualistiche", che non affidandosi alla "maniera di delineare la
storia in grande stile" di Dühring.
* * *
Quale è allora il risultato finale della nostra analisi del
"sistema" di economia politica "personalmente creato" da
Dühring? Nient'altro che questo fatto: che con tutte le
grandi parole e le promesse ancora più importanti siamo
stati turlupinati proprio come nella "Filosofia". La teoria del
valore, questa "pietra di paragone della consistenza dei sistemi
di economia", va a finire in questo risultato: che Dühring
intende per valore cinque cose completamente diverse e
diametralmente contraddittorie tra loro e che quindi nel migliore
dei casi non sa neppure quello che vuole. Le "leggi naturali di
tutta l'economia", annunziate con tanta pompa, si appalesano come
banalità della peggior specie, note a tutto il mondo e
spesso neppure comprese rettamente. L'unica spiegazione dei fatti
economici che questo sistema, personalmente creato, può
darci, e che essi sono il risultato della "violenza", espressione
con la quale da millenni i filistei di tutte le nazioni si
consolano di tutto ciò che di spiacevole capita loro e con
la quale noi non sappiamo niente più di prima. Ma invece di
indagare questa violenza nella sua origine e nei suoi effetti,
Dühring ci invita ad esser paghi e grati della semplice
parola "violenza" come causa ultima e spiegazione definitiva di
tutti i fenomeni economici. Costretto a dare maggiori chiarimenti
sullo sfruttamento capitalistico del lavoro, lo rappresenta prima
in generale come fondato sull'imposizione di un tributo e su un
sovrapprezzo, appropriandosi completamente, su questo punto, il
"prelevamento" (prélèvement) proudhoniano; per
spiegarlo poi nei particolari per mezzo della teoria marxiana del
pluslavoro, plusprodotto e plusvalore. Egli riesce quindi a
conciliare felicemente due modi di vedere totalmente
contraddittori, copiandoli tutti e due contemporaneamente. E come
nella filosofia trovava parole abbastanza forti per quello stesso
Hegel che incessantemente sfruttava svuotandolo, così,
nella "Storia critica", le calunnie più prive di fondamento
contro Marx servono solo per coprire il fatto che tutto ciò
che di razionale, sia pur unilateralmente, si trova nel "Corso"
riguardo al capitale e al lavoro è parimenti un plagio che
svuota Marx. L'ignoranza che nel "Corso" gli fa mettere al
principio della "storia dei popoli civili" il "grande proprietario
terriero" e gli fa ignorare completamente la proprietà
comune del suolo delle tribù e dei villaggi dalla quale, in
effetti, ha inizio tutta la storia, questa ignoranza, oggi quasi
inconcepibile, è, direi, anche superata da quella che nella
"Storia critica" mena non poco vanto di essere una "ampiezza
universale dell'orizzonte storico" e di cui abbiamo solo dato
pochi esempi ad deterrendum. In una parola: prima l'enorme
"sforzo" di autoesaltazione, di ciarlatanesche strombazzature e di
promesse che si accavallano l'una sull'altra, e poi il
"risultato"... zero.
Note
119. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit.,408.
120. K. Marx, "Per la critica dell'economia politica", trad. it.,
Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 39.
45. Max Stirner (1806-1856), individualista anarchico, nel suo
libro "L'Unico e la sua proprietà" assumeva atteggiamenti
presuntuosi simili a quelli che Engels rimprovera a Dühring.
La critica di Marx ed Engels a Stirner occupa la maggior parte
dell'"ideologia tedesca" (1845-1846).
121. Aristotele, "Repubblica", libro I, cap. 9. questo passo
è citato anche da Marx nel "Capitale", I, trad. it. cit.,
p. 118, e in "Per la critica dell'economia politica", trad. it.
cit., p. 15.
122. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 408-410.
123. Cfr. Platone, "repubblica", libro II.
124. Senofonte, "Ciropedia", libro VIII, cap. 2.
125. Wilhelm Roscher, "Die Grindlagen der
Nationalökonomie...", p. 86.
126. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 808-812..
127. Aristotele parla delle sue differenti forme della
circolazione del denaro nella "Repubblica", libro I, capp. 8-10.
128. Aristotele, "Etica Nicomachea", libro V, cap. 8. I passi
aristotelici in questione sono citati da Marx in "Per la critica
dell'economia politica", trad. it. cit., pp. 54-55, e nel
"Capitale", I, trad. it. cit., pp. 91-92.
129. Friedrich List, "Das Nationale System...", vol. I, pp. 451 e
456.
130. Dal volume anonimo "A treatise of taxes, and
contributions...", pp. 24 e sgg. Il corsivo è di Marx.
131. Il lavoro "Quantulumcumque concernine money..." fu scritto da
William Petty nel 1682 e pubblicato a Londra nel 1695. Marx usava
l'edizione del 1760. "The political anatomy of Ireland..." fu
scritta da Petty nel 1672 e pubblicata a Londra nel 1691.
132. Marx si riferisce ai lavori economici del chimico francese
Antoine-Laurent Lavoisier, "De la richesse territoriale du royaume
de France" (Parigi, 1791) e "Essai sur la population de la ville
de Paris...", nonché all'"Essai d'arithmétique
politique..." (Parigi, 1791) scritto in collaborazione col
matematico J-L Lagrange. L'edizione di questi lavori usata da Marx
era compresa nei "Mélanges d'économie politique...
par Eugéne Daire et G. de Molinari", t. 1, pp. 575-620.
133. Pierre Boisguillebert, "Dissrtation sur la nature des
richesses...", p. 397.
134. Il banchiere economista inglese Jhon Law cercò di
mettere in pratica la sua idea assurda che lo Stato potesse
aumentare la ricchezza del paese emettendo carta-moneta non
coperta. Nel 1716 egli fondò a Parigi una banca privata che
alla fine del 1718 fu trasformata in banca di Stato. Essa emetteva
carta-moneta in quantità illimitata e intanto incassava
moneta metallica. Ne nacque un enorme imbroglio di Borsa e una
speculazione inaudita, finché nel 1720 la banca e il
"sistema" di Law fecero bancarotta completa. Law fuggì
all'estero.
135. William Petty, "A treatise of taxes, and contributions...",
pp. 28 e sgg.
136. Dudley North, "Discourses upon trade...", p. 4.
137. David Hume, "Essays, moral, and political, and dialogues
concerning natural religion", vol. 4: "Political discourses",
Edimburgo, 1752. Marx usò l'edizione "Essays and
treatises..." del 1777, nella quale I "Political discourses"
formano la seconda parte del primo volume.
138. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 156 nota 79 e
p. 562 nota 7.
139. Riferimento a Montesquieu, "Lo spirito delle leggi", la cui
prima edizione uscì anonima a Ginevra nel 1748.
140. David Hume, " Essays and treatises...", p. 303 sg. Il corsivo
è di Marx.
141. K. Marx, "Per la critica dell'economia politica", trad. it.
cit., p. 142 sgg.
142. David Hume, " Essays and treatises...", p. 313.
143. Ibid. p. 314.
144. la prima edizione dell'"Essai sur la nature du commerce in
général" di Richard Cantillon uscì in
realtà nel 1755, come indica lo stesso Marx nel primo libro
del "Capitale" (trad. it. cit. p. 608). Adam Smith menziona il
libro di Cantillon nel primo volume di "An inquiry into the nature
and causes...".
145. Le parole "come si è detto" si riferiscono al passo
successivo (qui sotto) che comincia "Ma perché nella
"Storia critica"..." e finisce "... resi da Dühring". Nella I
e II edizione questo passo si trovava più indietro. Queste
parole sono state lasciate per svista, quando Engels
riordinò il testo per la III edizione.
146. David Hume, " Essays and treatises...", p. 367. Il corsivo
è di Marx.
147. Ibid. p. 314. Il corsivo è di Marx.
148. Nel 1866 Bismarck, attraverso il so consigliere Wagener,
propose a Dühring di scrivere per il governo prussiano un
memorandum sulla questione operaia. Dühring, propugnatore
dell'armonia tra capitale e lavoro, accolse l'incarico. Ma nel
1867 il lavoro fu pubblicato a sua insaputa dapprima anonimo, poi
sotto il nome di Hermann Wagener. Dühring sporse querela
contro Wagener per violazione del diritto d'autore, e nel 1868
vinse la causa. Nel momento culminante di questa storia
scandalistica Dühring pubblicò "Die Schicksale
meiner...".
149. F. C. Schlosser, "Weltgechichte für dal deutsche
Volk...". P, 76
150. William Cobbett, "A history of the "protestant" reformation,
in England and Ireland...", paragrafi 149, 116 e 130.
151. Il "Tableau économique" di Quesnay fu pubblicato per
la prima volta come opuscoletto a Versailles nel 1758.
152. La "Analyse du Tableau économique" di Quesnay fu
pubblicata per la prima volta nel 1766 sulla rivista dei
fisiocratici "Journale de l'agricolture, commerce, arts et
finances" (che uscì dal 1765 al 1783). Marx la usò
nell'edizione di Eugène Daire: "Physiocrates..." parte I,
pp. 57-66.
153. Marx rimanda agli ultimi paragrafi del lavoro
dell'abbè Bandeau "Explication du Tableau
économique...", che fu pubblicato per la prima volta nel
1767. Cfr. l'edizione di Eugène Daire: "Physiocrates..."
parte II, pp. 864-867.
154. Nera Angoscia; dall'Ode III, I di Orazio: "ma la Paura e la
Minaccia vanno dove va il padrone; né scende dalla trireme
di bronzo, e sede alle spalle del cavaliere, la nera Angoscia".
155. Lira tornese, moneta coniata a Tours fino al 1796 (80 franchi
= 81 tornesi),
156. Cfr. Eugène Daire: "Physiocrates..." parte I, p. 68.
157. Si tratta dell'opera di James Steuart "An inquiry into the
principles of the political oeconomy", in due volumi, pubblicata a
Londra nel 1767.
158. Henry Charles Carey, "The past, the present, and the future",
p. 74 sg.
Abbiamo visto nell'Introduzione [*7] come i filosofi francesi del
XVIII secolo, coloro che prepararono la rivoluzione, si
appellassero alla ragione come unico giudice di tutto ciò
che esiste. Si doveva costruire uno Stato secondo ragione e una
società secondo ragione e tutto ciò che
contraddiceva alla ragione eterna doveva essere eliminato senza
misericordia. Abbiamo visto del pari che questa ragione eterna in
realtà non era altro che l'intelletto idealizzato del
cittadino della classe media che proprio allora andava evolvendosi
nel borghese moderno. Ora, quando la Rivoluzione francese ebbe
realizzato questa società secondo ragione e questo Stato
secondo ragione, le nuove istituzioni, per quanto razionali esse
fossero a paragone del precedente stato di cose, tuttavia non
risultarono affatto assolutamente razionali. Lo Stato secondo
ragione era completamente andato in fumo. Il contratto sociale di
Rousseau aveva trovato la sua realizzazione nel Terrore, uscita
dal quale la borghesia, che aveva perduto la fede nella propria
capacità politica, si era rifugiata prima nella corruzione
del Direttorio, e finalmente sotto la protezione del dispotismo
napoleonico. La pace perpetua che era stata promessa si
trasformò in una guerra di conquista senza fine. La
società secondo ragione non ebbe una sorte migliore. Il
contrasto tra ricchi e poveri, anziché risolversi nel
benessere generale, fu acuito dall'eliminazione dei privilegi
corporativi e di altro genere che lo coprivano e delle istituzioni
benefiche della Chiesa che lo attenuavano [b27]; lo slancio
dell'industria su base capitalistica elevò miseria e
povertà delle masse lavoratrici a condizione di vita per la
società [b28]. Il numero dei delitti crebbe di anno in
anno. Se i vizi feudali, che prima facevano spudoratamente mostra
di sé alla luce del sole, furono, se non soppressi, almeno
temporaneamente confinati in secondo piano, al loro posto tanto
più rigogliosamente fiorirono i vizi borghesi sino allora
coltivati in segreto. Il commercio, sviluppandosi, divenne sempre
più imbroglio. La parola d'ordine rivoluzionaria della
"fratellanza" si realizzò nelle angherie e nelle invidie
della lotta della concorrenza. Al posto dell'oppressione violenta
subentrò la corruzione, al posto della spada, quale leva
principale del potere sociale, subentrò il denaro. Il
diritto della prima notte passò dai signori feudali ai
fabbricanti borghesi. La prostituzione dilagò in misura
sinora inaudita. Il matrimonio stesso rimase, come prima, una
forma giuridicamente riconosciuta, un mantello che ufficialmente
copriva la prostituzione e venne inoltre completato dall'adulterio
praticato su larga scala. Per farla breve, confrontate con le
pompose promesse degli illuministi, le istituzioni sociali e
politiche instaurate con il "trionfo della ragione" si rivelarono
caricature e amare delusioni. Mancavano ancora solo gli uomini che
constatassero questa delusione: e questi uomini vennero all'inizio
del nuovo secolo. Nel 1802 apparvero le "Lettere ginevrine" di
Saint-Simon; nel 1808 apparve la prima opera di Fourier,
quantunque le basi della sua teoria datassero dal 1799; il primo
gennaio del 1800 Robert Owen prese la direzione di New Lanark
[161].
Ma in questo periodo il modo di produzione capitalistico e con
esso l'antagonismo tra borghesia e proletariato era ancora poco o
nulla sviluppato. La grande industria che era appena sorta in
Inghilterra era ancora sconosciuta in Francia. Ma solo la grande
industria sviluppa, da una parte, quei conflitti che rendono
ineluttabilmente necessario un rivoluzionamento del modo di
produzione [b29]: conflitti non solo tra le classi che essa forma,
ma anche tra le stesse forze produttive e le forme di scambio che
essa parimente crea; e dall'altra sviluppa, proprio in queste
gigantesche forze produttive, anche i mezzi per risolvere questi
conflitti. Se quindi intorno al 1800 i conflitti scaturenti dal
nuovo ordinamento sociale erano solo sul nascere, questo vale
ancora molto di più riguardo ai mezzi per la loro
soluzione. Le masse nullatenenti di Parigi durante il Terrore
avevano potuto, per un istante, conquistare il potere [b30], con
questo fatto avevano dimostrato solo che nelle condizioni di
allora questo potere non era possibile. Il proletariato che
cominciava appena a distaccarsi da queste masse nullatenenti, come
ceppo di una nuova classe, ancora assolutamente incapace di una
azione politica indipendente, si presentava come un ceto oppresso,
sofferente, al quale, nella incapacità in cui era di
aiutarsi da se stesso, un aiuto poteva tutt'al più portarsi
dall'esterno, dall'alto.
Questa situazione storica teneva in suo potere anche i fondatori
del socialismo. All'immaturità della produzione
capitalistica, all'immaturità della posizione delle classi,
corrispondevano teorie immature. La soluzione delle questioni
sociali, che restava ancora celata nelle condizioni economiche
poco sviluppate, doveva uscire dal cervello umano. La
società non offriva che inconvenienti: eliminarli era
compito della ragione pensante. Si trattava di inventare un nuovo
e più perfetto sistema di ordinamento sociale e di
elargirlo alla società dall'esterno, con la propaganda e,
dove fosse possibile, con l'esempio di esperimenti modello. Questi
nuovi sistemi sociali erano, sin dal principio, condannati ad
essere utopie: quanto più erano elaborati nei loro
particolari, tanto più dovevano andare a finire nella pura
fantasia.
Una volta stabilito tutto questo, non ci fermeremo neanche un
momento di più su questo lato che oggi appartiene
completamente al passato. Possiamo lasciare a rigattieri della
letteratura à la Dühring il compito di andare in giro
sofisticando solennemente su queste fantasticherie, che oggi ormai
fanno soltanto sorridere, e il far valere di fronte a tali
"follie" la superiorità del loro sobrio modo di pensare.
Noi preferiamo invece rallegrarci dei germi geniali di idee e dei
pensieri che affiorano dovunque sotto questo manto fantastico e
per i quali quei filistei non hanno occhi [b31].
Saint-Simon già nelle sue "lettere ginevrine" stabilisce il
principio che "tutti gli uomini debbono lavorare". Nello stesso
scritto sa già che il dominio del Terrore fu il dominio
delle masse, nullatenenti. "Guardate - grida loro - che cosa
accade in Francia nel periodo in cui vi dominano i vostri
compagni: essi portano la fame." [163] Concepire invece la
Rivoluzione francese come una lotta di classe fra nobiltà,
borghesia e nullatenenti [b32], era per l'anno 1802 una scoperta
genialissima. Nel 1816 egli dichiara che la politica è la
scienza della produzione e predice che la politica si
dissolverà completamente nell'economia [164]. Se il
riconoscimento che la realtà economica è la base
delle istituzioni politiche appare qui soltanto ancora in germe,
tuttavia la trasformazione del governo politico, esercitato su
uomini, in un'amministrazione di cose e in una direzione di
processi produttivi è qui espressa già chiaramente,
e con essa quell'abolizione dello Stato, su cui di recente si
è fatto tanto chiasso. Con pari superiorità sui suoi
contemporanei egli dichiara nel 1814, immediatamente dopo
l'entrata degli alleati a Parigi, e ancora nel 1815 durante la
guerra dei cento giorni, che l'alleanza della Francia con
l'Inghilterra, e secondariamente l'alleanza di tutti e due i paesi
con la Germania, è per l'Europa l'unica garanzia di uno
sviluppo prosperoso e di pace [165]. Per predicare ai francesi del
1815 l'alleanza con i vincitori di Waterloo, ci voleva certo un
po' più di coraggio che per dichiarare una guerra di
chiacchiere ai professori tedeschi [b33] [166].
Mentre in Saint-Simon scorgiamo una geniale larghezza di vedute
grazie alla quale in lui sono contenute in germe quasi tutte le
idee non rigorosamente economiche dei socialisti venuti più
tardi, in Fourier troviamo una critica delle vigenti condizioni
sociali, ricca di uno spirito schiettamente francese, ma non
perciò meno profondamente penetrante. Fourier prende in
parola la borghesia, i suoi ispirati profeti prerivoluzionari e i
suoi interessati apologeti post-rivoluzionari. Egli svela
spietatamente la misère materiale e morale del mondo
borghese e le contrappone tanto le splendide promesse degli
illuministi di una società in cui dominerà la
ragione, di una civiltà che darà ogni
felicità e di una perfettibilità umana illimitata,
quanto l'ipocrita fraseologia degli ideologi borghesi
contemporanei, dimostrando come, dovunque, alla frase più
altisonante corrisponda la realtà più miserevole, e
coprendo di beffe mordaci questo irrimediabile fiasco delle frasi.
Fourier non è solo un critico; la sua natura perennemente
gaia ne fa un satirico e proprio uno dei più grandi
satirici di tutti i tempi. La speculazione e la frode che
fiorirono col tramonto della rivoluzione, nonché la
generale grettezza bottegaia del commercio francese di allora,
vengono descritte da lui con uno spirito pari alla sua maestria.
Ancora più magistrale è la sua critica della forma
borghese dei rapporti sessuali e della posizione della donna nella
società borghese. Egli dichiara per la prima volta che, in
una data società, il grado di emancipazione della donna
è la misura naturale dell'emancipazione generale [167]. Ma
dove Fourier appare più grande è nella sua
concezione della storia della società. Egli divide tutto il
suo corso quale sinora si è svolto, in quattro fasi di
sviluppo: stato selvaggio, stato patriarcale, barbarie,
civiltà, la quale ultima coincide con quella che oggi si
chiama società borghese [b34] e dimostra che l'"ordinamento
civile eleva ognuno di quei vizi, che la barbarie pratica in una
maniera semplice, ad un modo di essere complesso, a doppio senso,
ambiguo e ipocrita", che la civiltà si muove in un "circolo
vizioso", in contraddizioni che continuamente riproduce senza
poterle superare, cosicché essa raggiunge sempre il
contrario di ciò che essa vuol raggiungere o che dà
a vedere di voler raggiungere [168]. Cosicché, per es.,
"nella civiltà la povertà sorge dalla stessa
abbondanza" [169]. Fourier, come si vede, maneggia la dialettica
con la stessa maestria del suo contemporaneo Hegel. Con pari
dialettica egli, di fronte alle chiacchiere sull'infinita
perfettibilità umana, mette in rilievo il fatto che ogni
fase storica ha il suo ramo ascendente, ma ha anche il suo ramo
discendente [170] ed applica questo modo di vedere anche al futuro
di tutta l'umanità. Come Kant introdusse nella scienza
naturale la futura distruzione della Terra, così Fourier
introduce nel pensiero storiografico la futura distruzione
dell'umanità.
Mentre in Francia l'uragano della rivoluzione ripulì il
paese, in Inghilterra avvenne una rivoluzione più
silenziosa, ma non per ciò meno poderosa. Il vapore e le
nuove macchine utensili trasformarono la manifattura nella grande
industria moderna e rivoluzionarono così tutta la base
della società borghese. Il sonnolento processo di sviluppo
del periodo della manifattura si trasformò in un periodo di
vero Sturm und Drang [171] della produzione. Con velocità
sempre crescente si compì la scissione della società
in grandi capitalisti e proletari nullatenenti: tra queste due
classi, invece del ceto medio ben definito di una volta, conduce
oggi un'esistenza malsicura una massa instabile di artigiani e di
piccoli commercianti, la parte più fluttuante della
popolazione. Il nuovo modo di produrre era ancora solo all'inizio
della sua fase ascendente: esso era ancora il modo di produzione
normale e, date le circostanze, l'unico modo possibile. Ma
già allora produceva inconvenienti sociali stridenti:
assembrarsi di una popolazione senza sede nei peggiori quartieri
delle grandi città; dissolversi di tutti i legami
tradizionali, della subordinazione patriarcale, della famiglia;
sopralavoro specialmente delle donne e dei fanciulli in misura
spaventosa, enorme degradazione della classe operaia gettata
improvvisamente a vivere in condizioni del tutto nuove [b35].
Apparve allora come riformatore un industriale ventinovenne, un
uomo dal carattere di fanciullo, semplice sino al sublime e ad un
tempo dirigente nato come pochi. Robert Owen aveva fatta sua la
dottrina dei materialisti dell'illuminismo, secondo la quale il
carattere dell'uomo è, da una parte, il prodotto
dell'organizzazione in cui nasce e, dall'altra, delle circostanze
che lo circondano durante la sua vita e specialmente durante il
periodo del suo sviluppo. Nella rivoluzione industriale la maggior
parte degli uomini della sua classe vedevano solo confusione e
caos, che permettono di pescare nel torbido ed arricchirsi
rapidamente. Egli vide invece in essa l'occasione per applicare il
suo principio favorito e così mettere ordine nel caos. Lo
aveva già tentato con successo a Manchester come dirigente
di una fabbrica di più di cinquecento operai; dal 1800 al
1829 diresse in qualità di condirettore le grandi filande
di New Lanark in Scozia seguendo gli stessi principi, ma solo con
maggiore libertà d'azione e con un successo che gli
procurò rinomanza europea. Una popolazione, che salì
poco a poco a 2.500 unità e che originariamente si
componeva degli elementi più svariati e per la massima
parte fortemente degradati, fu da lui trasformata in una perfetta
colonia modello, nella quale l'ubriachezza, la polizia, il giudice
penale, i processi, l'assistenza ai poveri, il bisogno di
beneficenza erano cose sconosciute. E tutto questo semplicemente
per il fatto che egli mise questa gente in condizioni più
degne dell'uomo e, soprattutto, fece educare adeguatamente la
generazione nuova. Egli fu l'inventore degli asili d'infanzia e li
introdusse qui per la prima volta. A partire dal secondo anno di
vita i bambini venivano a scuola dove tanto si divertivano che a
stento potevano essere ricondotti a casa. Mentre i suoi
concorrenti lavoravano [b36] da tredici a quattordici ore al
giorno, a New Lanark si lavorava solo dieci ore e mezza.
Allorché una crisi cotoniera costrinse a fermare il lavoro
per la durata di quattro mesi, agli operai rimasti disoccupati fu
corrisposto il pieno salario. E, così stando le cose, lo
stabilimento aveva più che raddoppiato il valore e
corrisposto sino all'ultimo ai proprietari un lauto profitto.
Con tutto ciò Owen non era soddisfatto. L'esistenza che
aveva creato per i suoi operai era ancora ai suoi occhi molto
lontana dall'essere un'esistenza degna dell'uomo; "quegli uomini
erano miei schiavi": le condizioni relativamente favorevoli in cui
egli li aveva messi erano ancora molto lontane dal permettere uno
sviluppo generale e razionale del carattere e dell'intelletto e
meno ancora permettevano una libera attività.
"E tuttavia la parte attiva di questi 2.500 uomini produceva per
la società altrettanta ricchezza reale quanto appena un
mezzo secolo prima avrebbe potuto produrne una popolazione di
600.000 uomini. Io mi chiedevo: che cosa avviene della differenza
tra la ricchezza consumata da 2.500 persone e quella che i 600.000
avrebbero dovuto consumare?"
La risposta era chiara. Essa era stata impiegata per versare ai
proprietari dello stabilimento il 5% di interesse sul capitale
investito ed inoltre più di 300.000 lire sterline
(6.000.000 di marchi) di profitto. E ciò che era vero di
New Lanark, lo era, e in misura ancora maggiore, per tutte le
fabbriche inglesi.
"Senza questa nuova ricchezza creata dalle macchine non si
sarebbero potute condurre le guerre per abbattere Napoleone, e per
mantenere i principi aristocratici della società. Eppure
questo nuovo potere era stato creato dalla classe operaia" [b37]
[172]
Ad essa perciò ne appartenevano anche i frutti. Le nuove
potenti forze produttive, che sino allora erano servite solo per
l'arricchimento dei singoli e l'asservimento delle masse,
offrivano a Owen la base per un rinnovamento sociale ed erano
destinate, come proprietà comune, a lavorare solo per il
benessere comune.
In una tale maniera, tipica del mondo degli affari, e , per
così dire, frutto del calcolo commerciale, sorse il
comunismo di Owen. E mantenne sempre lo stesso carattere orientato
verso la pratica. Così nel 1823 Owen propose di alleviare
la miseria irlandese mediante colonie comuniste e allegò ai
progetti calcoli completi sulle spese di impianto, sulle spese
annue e sui redditi prevedibili [173]. E così nel suo piano
definitivo per l'avvenire, l'elaborazione tecnica dei dettagli
[b38] è condotta con tale cognizione di causa che, una
volta ammesso il metodo di riforma sociale proposto da Owen, anche
dal punto di vista di uno specialista ben poco si può dire
contro l'organizzazione particolare.
Il passaggio al comunismo fu il punto critico della vita di Owen.
Sino a quando si era presentato come semplice filantropo non aveva
raccolto altro che ricchezza, plausi, onori e gloria. Era l'uomo
più popolare d'Europa. Non solo uomini del suo ceto, ma
uomini di Stato e principi lo ascoltavano plaudendo. Ma quando si
fece avanti con le sue teorie comuniste, la situazione
cambiò di punto in bianco. Tre grandi ostacoli gli sembrava
che soprattutto sbarrassero la strada alla riforma sociale: la
proprietà privata, la religione e la forma attuale del
matrimonio. Attaccandoli egli sapeva che cosa lo attendeva: il
bando da tutta la sicurtà ufficiale e la perdita di tutta
la sua posizione sociale. Ma non si lasciò distogliere
dall'attaccarli senza riguardi e avvenne quello che aveva
previsto. Messo al bando dalla società ufficiale,
seppellito nel silenzio della stampa, impoverito dal fallimento di
esperimenti comunisti in America ai quali aveva sacrificata tutta
la sua fortuna, si volse direttamente alla classe operaia e rimase
a lavorare nel suo seno per altri trent'anni. Tutti i movimenti
sociali, tutti i veri progressi che in Inghilterra sono stati
realizzati nell'interesse degli operai, sono legati al nome di
Owen. Così nel 1819, dopo una lotta quinquennale,
riuscì a fare approvare la prima legge per la limitazione
del lavoro delle donne e dei fanciulli nelle fabbriche [174].
Così presiedette il primo congresso in cui le Trade Unions
di tutta l'Inghilterra si unirono in un'unica grande
organizzazione sindacale [175]. Così introdusse, come
misure di transizione verso l'organizzazione completamente
comunista della società, da una parte, le società
cooperative (di consumo e di produzione) che da allora hanno per
lo meno fornito la prova pratica che tanto il mercante quanto il
fabbricante sono persone delle quali si può benissimo fare
a meno, dall'altra parte, i magazzini di lavoro, istituzioni per
lo scambio di prodotti del lavoro per mezzo di una carta-moneta
lavoro la cui unità era costituita dall'ora lavorativa
[176]; istituzioni che necessariamente dovevano fallire, ma che
anticipavano in modo perfetto la banca di scambio proudhoniana
[177] di molto posteriore, e se ne distinguevano solo [b39]
perché non volevano rappresentare la panacea di tutti i
mali sociali, ma solo un primo passo per una trasformazione molto
più radicale della società.
Questi sono gli uomini ai quali il sommo Dühring, dall'alto
della sua "verità definitiva di ultima istanza", guarda con
quel disprezzo con cui nell'introduzione abbiamo dato qualche
esempio. E questo disprezzo, sotto un certo rispetto, non è
privo di una sua ragion sufficiente: poggia sostanzialmente su
un'ignoranza veramente spaventosa delle opere dei tre utopisti.
Così di Saint-Simon ci si dice che "la sua idea
fondamentale era sostanzialmente giusta e che, prescindendo da
alcune unilateralità, fornisce anche oggi l'impulso diretto
verso delle riforme effettive". Ma quantunque sembri che
Dühring abbia avuto effettivamente tra le mani alcune delle
opere di Saint-Simon, invano cercheremo nelle ventisette pagine
che vi si riferiscono l'"idea fondamentale" di Saint-Simon,
così come prima invano cercavamo che cosa il Tableau
économique di Quesnay "potesse significareper Quesnay
stesso", e alla fine siamo costretti ad accontentarci di questa
frase:
"l'immaginazione e il sentimento filantropico (...) con
l'esaltazione della fantasia che vi si collega, domina tutta la
cerchia delle idee di Saint-Simon"!
Di Fourier conosce e considera solo le fantasie avveniristiche
dipinte con particolari romanzeschi, ciò che in
verità, per stabilire l'infinita superiorità di
Dühring su Fourier, è "molto più importante"
che non l'indagare come costui "abbia tentato di criticare
occasionalmente l'effettivo stato delle cose". Occasionalmente! Ma
se quasi in ogni pagina sprizzano le scintille della satira e
della critica sulle miserie della tanto esaltata civiltà!
È come se si dicesse che Dühring solo
"occasionalmente" dichiara Dühring il più grande
pensatore di tutti i tempi. Quanto alle dodici pagine dedicate a
Robert Owen, Dühring non ha altra fonte che la misera
biografia del filisteo Sargant che ignorava anche lui gli scritti
più importanti di Owen, quelli sul matrimonio e
sull'organizzazione comunista [178]. Dühring si può
spingere arditamente sino all'affermazione che in Owen non si
può "presupporre alcun comunismo deciso". Certo se
Dühring avesse solo avuto tra le mani il "Book of the New
Moral World" di Owen, vi avrebbe trovato espresso non soltanto il
comunismo più deciso, con pari dovere di lavoro e pari
diritto al prodotto, pari proporzionalmente all'età, come
Owen non manca mai di aggiungere, ma anche l'elaborazione completa
per l'edificio della comunità comunista dell'avvenire con
lo schema, il piano e la veduta complessiva a volo d'uccello. Se
invece si limita lo "studio diretto degli scritti originali dei
rappresentanti delle idee socialiste" alla conoscenza del titolo o
al massimo del motto di pochi di questi scritti, come fa qui
Dühring, certo no rimane altro che una tale asserzione
stupida e inventata di sana pianta. Non solo Owen ha predicato il
"comunismo deciso", ma lo ha praticato per cinque anni (dalla fine
del quarto al principio del quinto decennio del secolo) nella
colonia di Harmony Hall nello Hampshire [179], il cui comunismo,
quanto a decisione, non lascia niente a desiderare. Io stesso ho
conosciuto molti che parteciparono allora a questo esperimento
comunista modello. Ma di tutto questo, come in generale di tutta
l'attività di Owen tra il 1836 e il 1850, Sargant non sa
assolutamente nulla ed ecco perché la "profonda
storiografia" di Dühring rimane nella più buia
ignoranza. Dühring chiama Owen "sotto ogni riguardo un vero
mostro di importuna filantropia". Ma allorché lo stesso
Dühring ci istruisce intorno a libri di cui a stento conosce
titolo e motto, noi non abbiamo assolutamente il diritto di dire
che egli è "sotto ogni riguardo un vero mostro di importuna
ignoranza", perché questo sulle nostre labbra sarebbe
certamente "ingiurioso".
Gli utopisti, abbiamo visto, furono utopisti perché non
potevano essere altro in un'epoca in cui la
produzionecapitalistica era ancora così poco sviluppata.
Essi furono obbligati a costruire gli elementi di una nuova
società traendoli dal proprio cervello, perché nella
vecchia società questi elementi generalmente non erano
ancora chiaramente visibili; per i tratti fondamentali del loro
nuovo edificio essi furono ridotti a fare appello alla ragione,
precisamente perché non potevano ancora fare appello alla
storia del loro tempo. Ma se oggi, quasi ottant'anni dopo la loro
apparizione, Dühring entra in scena con la pretesa di
sviluppare un sistema "di valore decisivo" di un nuovo ordinamento
sociale, traendolo come risultato necessario non già dal
materiale fornito dallo sviluppo storico, ma dal suo sommo
intelletto, dalla sua ragione gravida di verità definitive,
egli, che dovunque fiuta epigoni, proprio egli stesso non è
che l'epigono degli utopisti, l'ultimo utopista. Egli chiama i
grandi utopisti col nome di "alchimisti sociali". Può
darsi. L'alchimia fu necessaria a suo tempo. Ma da quel tempo la
grande industria ha sviluppato le contraddizioni che erano latenti
nel modo di produzione capitalistico, facendole diventare
antagonismi così stridenti, che l'imminente crollo di
questo modo di produzione si può per così dire
toccare con mano; che le stesse nuove forze produttive possono
essere mantenute e ulteriormente sviluppate solo mediante
l'introduzione di un nuovo modo di produzione, adeguato al grado
di sviluppo che al presente hanno raggiunto; che la lotta tra le
due classi prodotte dal modo di produzione sinora vigente, e che
si riproducono sempre in una posizione di inasprito antagonismo,
ha invaso tutti i paesi civili e diventa ogni giorno più
accanita, e che, infine, anche la conoscenza di questo nesso
storico, delle condizioni della trasformazione sociale che esso
rende necessaria e dei tratti essenziali di questa trasformazione
parimente da esso condizionati, è già acquisita. E
se oggi Dühring fabbrica un nuovo ordinamento sociale
utopistico, traendolo dalla sua sublime scatola cranica
anziché dal materiale economico presente, egli non fa
soltanto della semplice "alchimia sociale", ma si comporta
piuttosto come un uomo che, dopo la scoperta e la constatazione
delle leggi della chimica moderna, volesse ristabilire di nuovo la
vecchia alchimia e utilizzare i pesi atomici, le formule
molecolari, le valenze degli atomi, la cristallografia e l'analisi
spettroscopica, unicamente per la scoperta... della pietra
filosofale.
Note
*7. Cfr. Filosofia [159].
159. Engels rimanda all'inizio del primo capitolo
dell'Introduzione. In origine il "Vorwärts" pubblicò i
primi 14 capitoli dell'"Anti-Dühring" sotto il titolo
complessivo "Herrn Eugen Dühring's Umwälzung der
Philosophie". A partire dalla prima edizione del volume, i primi
due capitoli furono distinti dal resto, come introduzione a tutte
e tre le edizioni. Questa nota "Cfr. "Filosofia" I", che era
già nella pubblicazione sul "Vorwärts", fu lasciata da
Engels in tutte le edizioni da lui curate.
160. Thomas Carlyle, "Past and present", pag. 198. Questa
espressione di Carlyle è citata da Engels anche nel suo
articolo "Die Lage Englands. "Past and Present" by Thomas Carlyle"
("La Situazione dell'Inghilterra. "Past and Present" di Thomas
Carlyle"), pubblicato nei "Deutsch-Französische
Jahrbücher", febbraio 1844. (Cfr. Marx-Engels, Opere, vol.
III, Roma, Ed. Riuniti, 1976, pag. 490).
161. Le "Lettres d'un habitant de Genève à ses
contemporains", la prima opera di Saint-Simon, furono scritte nel
1802 a Ginevra e pubblicate nel 1803 a Parigi senza indicazione di
luogo e data di edizione. La data indicata da Engels deriva dal
libro di Nicolas-Gustave Hubbard, "Saint-Simon, sa vie et ses
travaux. Suivi de fragments des plus célèbres
écrits de Saint-Simon", Parigi, 1857, che contiene
inesattezze nella datazione di singole opere di Saint-Simon. La
prima grande opera di Fourier è la "Théorie des
quatre movements et des destinées
générales...", scritta nei primi anni del XIX secolo
e pubblicata a Lione nel 1808. Sul frontespizio è indicata
Lipsia come luogo di Pubblicazione. New Lanark era un cotonificio
nei pressi della città scozzese di Lanark, fondato nel 1784
insieme con un piccolo centro abitato.
162. L'idea di Saint-Simon che il fine della società deve
essere di migliorare la sorte della classe più numerosa e
più povera è espressa nella forma più chiara
nel suo scritto "Nouveau Christianisme. Lettres d'Eugène
Rodrigues. L'éducation du genre humain" ("Nuovo
Cristianesimo. Lettere di Eugène Rodrigues. L'educazione
del genere umano"). La prima edizione di questo libro uscì
anonima del 1825 a Parigi.
163. Queste citazioni sono prese dalla seconda delle "Lettere
ginevrine". Nel libro di Hubbard "Saint-Simon, sa vie et ses
travaux..." questi passi si trovano alle pagine 143 e 145.
164. Il riferimento è all'ottava lettera da: Saint-Simon
"Correspondance politique et philosophique. Letres de H.
Saint-Simon à un Américain", contenuta in un'opera
collettiva pubblicata a Parigi nel 1817 col titolo "L'industrie,
ou discussions politiques, morales et philosophiques, dans
l'intérêt de tous les hommes livrés à
des travaux utiles et indépendans...", vol.II, pp. 83-87.
Nel libro di Hubbard "Saint-Simon, sa vie et ses travaux..."
questa concezione è esposta alle pagine 155-157.
165. Engels si riferisce a due lavori scritti in comune da
Saint-Simon e dal suo allievo Augustin Thierry: "De la
organisation de la société européenne, ou de
la nécessité et des moyens de rassembler les peuples
de l'Europe en un seul corps politique, en conservant a chacun son
indépendance nationale" (Parigi, 1814) e "Opìnion
sur le mesures à prendre contre la coalition de 1815"
(Parigi, 1815). Nel libro di Hubbard "Saint-Simon, sa vie et ses
travaux..." riporta alle pp. 149-154 un estratto del primo scritto
e alle pp.68-76 un'esposizione del contenuto di entrambi.
166. Allusione alle vicende personali di Dühring (vedi nota
7).
167. Questo pensiero fu sviluppato da Fourier già nella sua
"Théorie des quatre movements...", con questa tesi: "I
progressi sociali e i mutamenti del tempo avvengono in ragione del
progresso delle donne verso la libertà, e la decadenza
dell'ordine sociale avviene in ragione della diminuzione della
libertà delle donne". Da ciò Fourier concludeva:
"...l'estensione dei diritti delle donne è il principio
generale di tutti i progressi sociali". Cfr. Fourier, "Oeuvres
complètes", tomo 1, Parigi, 1841, pp. 195-196.
168. Cfr. Fourier, "Théorie de l'unité universelle",
voll. 1 e 4. In "Oeuvres complètes", tomo 2, Parigi, 1843,
pp. 78-79 e tomo 5, Parigi, 1841, pp. 213-214. Sul "circolo
vizioso" in cui si muove la società vedi Fourier, "Le
nouveau monde industriel et sociétaire...", pp. 27-46, 390.
La prima edizione di questo scritto uscì a Parigi nel 1829.
169. Cfr. Fourier, "Oeuvres complètes", tomo 6, Parigi,
1845, p. 35.
170. Cfr. Fourier, "Oeuvres complètes", tomo 1, Parigi,
1841, pp. 50 e seg.
171. Lo Sturm und Drang (Tempesta e Assalto) fu un movimento
culturale innovatore, fiorito in Germania nella seconda
metà del Settecento, che esaltava l'istintività, la
passionalità, la rottura delle convenzioni; ad esso
parteciparono anche i giovani Schiller e Goehte.
172. Il passo citato è a pagina 21-22 del libro indicato da
Engels nella sua nota; alla stessa fonte risalgono le notizie
biografiche su Owen riportate nel capoverso precedente.
173. Robert Owen, "Report of the proceedings at the several public
meetings...", pp. 110 e seg.
174. Nel 1815, in un'assemblea a Glasgow, Owen propose una serie
di misure per alleviare le condizioni di tutti i fanciulli e
adulti che lavoravano nei cotonifici. Il corrispondente progetto
di legge, presentato nel giugno 1815 per iniziativa di Owen, fu
approvato dal Parlamento solo nel 1819, e fortemente mutilato. La
legge, che vigeva per i soli cotonifici, vietava tra l'altro il
divieto di lavoro per i fanciulli minori di 9 anni (nella proposta
di Owen il limite era di 10 anni) e limitava a 12 ore la giornata
lavorativa per i minori di 16 anni. Secondo Owen, invece, il
massimo doveva essere ridotto a 10 ore e mezza per tutti i
lavoratori.
175. Nell'ottobre 1833 si svolse a Londra, sotto la presidenza di
Owen, un congresso delle società cooperative e dei
sindacati (Trade-Unions), nel quale fu formalmente fondata la
Grand national consolidated Trades' Union; programma e statuto
furono approvati nel febbraio 1834. Secondo le intenzioni di Owen
questa associazione doveva prendere in mano la direzione della
produzione e attuare per via pacifica un completo rivolgimento
della società. Questo piano utopistico fallì di
fronte alla forte resistenza della borghesia e dello Stato,
l'associazione si sciolse nell'agosto 1834.
176 I magazzini di lavoro o Equitable Labour Exchange Bazaars
(empori per lo scambio equo dei prodotti del lavoro) furono creati
in varie città dell'Inghilterra da cooperative operaie; il
primo di essi fu creato da Owen nel settembre 1832 a Londra; esso
esistette fino alla metà del 1834.
177. Il 31 gennaio 1849 Proudhon fondò a Parigi la Banque
du peuple (Banca del popolo); essa esistette per circa due mesi, e
solo sulla carta.
178. I principali scritti di Robert Owen riguardanti il matrimonio
e l'organizzazione comunista sono: "The marriage system of the new
moral world..." (Leeds, 1838); "The book of the new moral
world..." in 7 parti (Londra, 1836-1844) e "The revolution in the
mind and practice of the human race..." (Londra, 1849).
179. Harmony Hall era il nome di una colonia comunista, fondata
alla fine del 1839 a Queenwood nello Hampshire da socialisti
utopisti inglesi capeggiati da Owen. Esistette fino al 1845.
Note b (nell'opuscolo "L'evoluzione del socialismo dall'utopia
alla scienza")
b27. [aggiunta] la "libertà della proprietà" dei
ceppi feudali, diventata ora una realtà, si presentava ai
piccoli borghesi e ai piccoli contadini come la libertà di
vendere la loro piccola proprietà, schiacciata dalla
concorrenza preponderante del grande capitale e della grande
proprietà terriera, precisamente a questi grandi signori, e
quindi come libertà di trasformarsi, per i piccoli borghesi
e per i piccoli contadini, nella libertà dalla
proprietà.
b28. [aggiunta] Il pagamento in contanti divenne sempre
più, secondo l'espressione di Carlyle, l'unico elemento di
coesione della società [160].
b29. [aggiunta], una soppressione del suo carattere capitalistico
b30. [aggiunta] e così portare alla vittoria la rivoluzione
borghese anche contro la borghesia.
b31. [aggiunta] Saint-Simon fu un figlio della grande Rivoluzione
francese, al cui scoppio egli non aveva ancora trent'anni. La
rivoluzione fu la vittoria del terzo stato, cioè della gran
massa della popolazione attiva nella produzione e nel commercio,
sugli stati oziosi sino allora privilegiati: la nobiltà e
il clero. Ma la vittoria del terzo stato si era presto rivelata
come la vittoria esclusiva di una piccola parte di questo stato,
come la conquista del potere politico da parte dello strato
sociale privilegiato di esso, la borghesia possidente. E invero,
questa borghesia si era rapidamente sviluppata già durante
la rivoluzione, sia mediante la speculazione sulla
proprietà terriera nobiliare ed ecclesiastica confiscata e
poi venduta, sia mediante la frode compiuta ai danni della nazione
dai fornitori militari. Fu proprio il dominio di questi
imbroglioni che sotto il Direttorio condusse la Francia e la
rivoluzione sull'orlo della rovina e con ciò dette a
Napoleone il pretesto per il suo colpo di Stato. Così nella
testa di Saint-Simon l'antagonismo di terzo stato e stati
privilegiati prese la forma dell'antagonismo tra "lavoratori" ed
"oziosi". Gli oziosi non erano soltanto gli antichi privilegiati,
ma anche tutti coloro che vivevano di rendite senza partecipare
alla produzione e al commercio. E i "lavoratori" non erano
soltanto i salariati, ma anche i fabbricanti, i mercanti e i
banchieri. Che gli oziosi avessero perduta la capacità
della direzione spirituale e del dominio politico era un fatto
compiuto e dalla rivoluzione aveva avuto l'ultimo suggello. Che i
nullatenenti non possedessero questa capacità, questo fatto
appariva a Saint-Simon provato dalle esperienze del Terrore. Ma
chi doveva dirigere e dominare? Secondo Saint-Simon la scienza e
l'industria, entrambe tenute insieme da un nuovo vincolo
religioso, destinato a ristabilire l'unità delle idee
religiose distrutta sin dal tempo della Riforma: un "nuovo
cristianesimo" necessariamente mistico e rigidamente gerarchico.
Ma la scienza erano i professori e l'industria erano in prima
linea i borghesi attivi, fabbricanti, mercanti e banchieri. Questi
borghesi si sarebbero, è vero, dovuti tramutare in una
specie di pubblici ufficiali, di amministratori fiduciari della
società, ma tuttavia avrebbero dovuto occupare di fronte
agli operai una posizione di comando e ancheeconomicamente
privilegiata. I banchieri specialmente avrebbero dovuto essere
chiamati a regolare, mediante una regolamentazione del credito,
tutta la produzione sociale. Questa concezione corrispondeva ad un
periodo in cui in Francia la grande industria e con essa
l'antagonismo tra borghesia e proletariato era proprio solo sul
nascere. Ma ciò che Saint-Simon particolarmente accentua
è questo: che a lui ciò che in primo luogo importa,
dovunque e sempre, è la sorte della "classe più
numerosa e più povera" (la classe la plus nombreuse et la
plus paure) [162].
b32. Concepire invece la Rivoluzione francese come una lotta di
classi, e non solo tra nobiltà e borghesia, ma tra
nobiltà, borghesia e nullatenenti
b33. ci voleva in realtà sia coraggio sia lungimiranza
storica.
b34. [aggiunta], ossia con l'ordinamento sociale introdotto a
partire dal XVI secolo.
b35. [aggiunta] dalla campagna alla città, dall'agricoltura
all'industria, da condizioni stabili a condizioni malsicure e
mutevoli di giorno in giorno.
b36. facevano lavorare
b37. [in nota] Da "Revolution in Mind and Practice", memoriale
rivolto a tutti i "repubblicani rossi, comunisti e socialisti
d'Europa" e inviato al governo provvisorio francese nel 1848 ma
anche "alla regina Vittoria e ai suoi consiglieri responsabili".
b38. [aggiunta] comprendente lo schema, il piano e la veduta
complessiva a volo d'uccello.
b39. e tuttavia se ne distinguevano proprio
La concezione materialistica della storia parte dal principio che
la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti
sono la base di ogni ordinamento sociale, che, in ogni
società che si presenta nella storia, la distribuzione dei
prodotti, e con essa l'articolazione della società in
classi o stati, si modella su ciò che si produce, sul modo
come si produce e sul modo come si scambia ciò che si
produce. Conseguentemente le cause ultime di ogni mutamento
sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate non nella
testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della
verità eterna e dell'eterna giustizia, ma nei mutamenti del
modo di produzione e di scambio; esse vanno ricercate non nella
filosofia, ma nell'economia dell'epoca che si considera. Il
sorgere della conoscenza che le istituzioni sociali vigenti sono
irrazionali ed ingiuste, che la ragione è diventata un
nonsenso, il beneficio un malanno, è solo un segno del
fatto che nei metodi di produzione e nelle forme di scambio si
sono inavvertitamente verificati dei mutamenti per i quali non
è più adeguato quell'ordinamento sociale che si
attagliava a condizioni economiche precedenti. Con ciò
è detto nello stesso tempo che i mezzi per eliminare gli
inconvenienti che sono stati scoperti debbono del pari esistere,
più o meno sviluppati, negli stessi mutati rapporti di
produzione. Questi mezzi non devono, diciamo, essere inventati dal
cervello, ma essere scoperti per mezzo del cervello nei fatti
materiali esistenti della produzione.
Su queste basi, quale è dunque la posizione del socialismo
moderno?
L'ordinamento sociale vigente, ed è questo un fatto ammesso
ora quasi generalmente, è stato creato dalla classe oggi
dominante, la borghesia. Il modo di produzione peculiare della
borghesia, da Marx in poi designato col nome di modo di produzione
capitalistico, era incompatibile con i privilegi locali e di ceto
e con i vincoli reciproci dell'ordinamento feudale; la borghesia
infranse l'ordinamento feudale e sulle sue rovine instaurò
l'ordinamento sociale borghese, il regno della libera concorrenza,
della libertà di domicilio, dell'uguaglianza dei diritti
dei possessori delle merci, insomma tutte quelle che si chiamano
delizie borghesi. Il modo di produzione capitalistico si
poté ora sviluppare liberamente. Le forze produttive
elaborate sotto la direzione della borghesia si svilupparono da
quando il vapore e le nuove macchine utensili trasformarono la
vecchia manifattura nella grande industria con celerità e
proporzioni fino allora inaudite. Ma come al loro tempo la
manifattura e l'artigianato, che sotto la sua azione si era
ulteriormente sviluppato, erano venuti in conflitto con i vincoli
feudali delle corporazioni, così la grande industria,
arrivata al suo più pieno sviluppo, viene in conflitto con
i limiti entro i quali la confina il modo di produzione
capitalistico. Le nuove forze produttive hanno ormai superato la
forma borghese del loro sfruttamento; né questo conflitto
tra forze produttive e modo di produzione è un conflitto
sorto nella testa degli uomini, come press'a poco quello tra il
peccato originale e la giustizia divina, ma esiste nei fatti,
obiettivamente, fuori di noi, indipendentemente dalla
volontà e dalla condotta stessa di quegli uomini che lo
hanno determinato. Il socialismo moderno non è altro che il
riflesso ideale di questo conflitto reale, il suo ideale
rispecchiarsi, in primo luogo nella testa della classe che sotto
di esso direttamente soffre, la classe operaia.
Ora, in che cosa consiste questo conflitto?
Prima della produzione capitalistica, cioè nel medioevo,
sussisteva dappertutto la piccola produzione, fondata sul fatto
che i lavoratori avevano la proprietà privata dei loro
mezzi di produzione: l'agricoltura dei piccoli contadini, liberi o
servi, l'artigianato delle città. I mezzi di lavoro, terra,
attrezzi agricoli, laboratori, utensili, erano mezzi di lavoro
individuali, destinati solo all'uso individuale, quindi
necessariamente modesti, minuscoli, limitati. Ma proprio
perciò essi appartenevano anche, di regola, al produttore
stesso. Concentrare questi mezzi di produzione sparpagliati e
ristretti, estenderli, trasformarli nelle leve potentemente
efficienti della produzione attuale: questa è stata
precisametne la funzione storica del modo di produzione
capitalistico e della classe che lo rappresenta, la borghesia.
Come essa abbia adempiuto questa sua funzione, a partire dal XV
secolo, passando per i tre stadi della cooperazione semplice,
della manifattura e della grande industria, è stato
descritto diffusamente da Marx nella quarta sezione del
"Capitale". Ma la borghesia, come vi è parimente
dimostrato, non poteva trasformare quei mezzi di produzione
limitati in possenti forze produttive, senza trasformarli da mezzi
di produzione individuali in mezzi di produzione sociali che
possono esser usati solo da una collettività di uomini. Al
posto del filatoio, del telaio a mano, del maglio del fabbro,
subentrarono la macchina per filare, il telaio meccanico, il
maglio a vapore; al posto del laboratorio individuale
subentrò la fabbrica, che esige il lavoro associato di
centinaia e migliaia di uomini. E con i mezzi di produzione,
così la produzione stessa si trasformò da una serie
di atti individuali in una serie di atti sociali e i prodotti si
trasformarono da prodotti individuali in prodotti sociali. Il
filo, il tessuto, gli oggetti di metallo che ora uscivano dalla
fabbrica, erano il prodotto comune di molti operai, per le cui
mani essi dovevano passare successivamente prima di essere pronti.
Nessuno di loro può dire individualmente: "Questo l'ho
fatto io, è il mio prodotto".
Ma laddove la divisione naturale del lavoro [b40] in seno alla
società è la forma naturale della produzione, essa
imprime ai prodotti la forma di merci il cui scambio reciproco,
compra e vendita, mette i singoli produttori in condizione di
soddisfare i loro svariati bisogni. Questo avveniva già nel
medioevo. Il contadino, per es., vendeva prodotti agricoli
all'artigiano e a sua volta comprava da esso prodotti artigiani.
In questa società di produttori individuali, di produttori
di merci, si insinuò dunque il nuovo modo di produzione.
Nel bel mezzo della divisione del lavoro naturale, priva di un
piano, quale dominava in tutta la società, questo nuovo
modo di produzione instaurò la divisione del lavoro secondo
un piano, con cui era organizzata nella fabbrica; accanto alla
produzione individuale apparve la produzione sociale. I prodotti
di entrambi venivano venduti allo stesso mercato e quindi a
prezzi, almeno approssimativamente, eguali. Ma l'organizzazione
secondo un piano era più forte della divisione naturale del
lavoro; le fabbriche che lavoravano socialmente producevano i loro
prodotti più a buon mercato che non i piccoli produttori
individuali. La produzione individuale soggiacque successivamente
in tutti i campi, la produzione sociale rivoluzionò tutto
l'antico modo di produzione. Ma questo suo carattere
rivoluzionario fu così poco riconosciuto che, al contrario,
essa fu introdotta come mezzo per accrescere e favorire la
produzione delle merci. Essa sorse ricollegandosi direttamente a
leve determinate e già esistenti della produzione e dello
scambio delle merci: il capitale mercantile, l'artigianato, il
lavoro salariato. Poiché essa stessa si presentava come una
nuova forma della produzione di merci, le forme di appropriazione
della produzione di merci rimasero in pieno vigore anche per essa.
Nella produzione di merci, quale si era sviluppata nel medioevo,
non poteva affatto sorgere la questione a chi dovesse appartenere
il prodotto del lavoro. Il produttore individuale lo aveva, di
regola, confezionato con una materia prima che gli apparteneva e
che spesso era prodotta da lui stesso, con mezzi di lavoro propri
e col lavoro manuale proprio e della sua famiglia. Non c'era
assolutamente nessun bisogno che egli se lo appropriasse, gli
apparteneva in modo assolutamente spontaneo. La proprietà
dei prodotti era quindi fondata sul proprio lavoro. Anche laddove
ci si serviva del lavoro altrui, di regola questo aiuto restava
cosa accessoria e chi lo prestava frequentemente riceveva, oltre
al salario, anche un'alra remunerazione: l'apprendista e il
garzone delle corporazioni lavoravano per avviarsi a diventare
maestri, più che per il vitto e il salario. A questo punto
venne la concentrazione dei mezzi di produzione in grandi officine
e manifatture, la loro trasformazione in mezzi di produzione
effettivamente sociali. Ma i mezzi di produzione e i prodotti
sociali furono trattati come se fossero ancora quali erano prima,
mezzi di produzione e prodotti individuali. Se ancora il
possessore di mezzi di lavoro si era appropriato il prodotto
perché di regola era un prodotto suo proprio, e il lavoro
sussidiario altri era solo l'eccezione, ora il possessore degli
strumenti di lavoro continuò ad appropriarsi il prodotto,
malgrado non fosse più il suo prodotto, ma esclusivamente
il prodotto del lavoro altrui. In questo modo i prodotti, orami
creati socialmente, se li appropriarono non già coloro che
mettevano effettivamente in movimento i mezzi di produzione e che
effettivamente creavano i prodotti, ma il capitalista. I mezzi di
produzione e la produzione sono diventati essenzialmente sociali,
ma sono sottoposti ad una forma di appropriazione che ha come
presupposto la produzione privata individuale, nella quale quindi
ognuno possiede il proprio prodotto e lo porta al mercato. Il modo
di produzione viene sottoposto a questa forma di appropriazione
malgrado ne elimini il presupposto [*8]. In questa contraddizione
che conferisce al nuovo modo di produzione il suo carattere
capitalistico, risiede già in germe tutto il contrasto del
nostro tempo. Quanto più il nuovo modo di produzione
divenne dominante in tutti i campi decisivi della produzione e in
tutti i paesi di importanza economica decisiva, e conseguentemente
soppiantò la produzione individuale sino ai suoi residui
insignificanti, tanto più crudamente doveva apparire anche
l'inconciliabilità della produzione sociale e
dell'appropriazione capitalistica.
I primi capitalisti, come abbiamo detto, trovarono già
esistente la forma del lavoro salariato; ma lavoro salariato come
eccezione, occupazione ausiliaria, accessoria, fase transitoria.
Il lavoratore agricolo che andava temporaneamente a lavorare a
giornata aveva il suo palmo di terra col quale, in mancanza di
meglio, poteva vivere. Gli ordinamenti delle corporazioni si
davano cura che il garzone di oggi diventasse il maestro di
domani. Ma non appena i mezzi di produzione divennero sociali e
furono concentrati nelle mai dei capitalisti, tutto questo
mutò. Il mezzo di produzione, così come il prodotto
del piccolo produttore individuale, perdette sempre più di
valore e a costui no restò altro che andare a salario
presso il capitalista. Il lavoro salariato, prima eccezione e
occupazione sussidiaria, divenne regola e forma fondamentale di
tutta la produzione; prima occupazione accessoria, diventò
ora l'attività esclusiva dell'operaio. Il salariato
temporaneo si trasformò nel salariato a vita. La
quantità dei salariati a vita fu inoltre smisuratamente
accresciuta dal contemporaneo crollo dell'ordinamento feudale,
dalla dispersione del personale dei signori feudali,
dall'espulsione dei contadini dalle loro fattorie, ecc. La
separazione tra i mezzi di produzione concentrati nelle mani dei
capitalisti e i produttori, ridotti a non possedere altro che la
loro forza-lavoro, divenne perfetta. La contraddizione tra
produzione sociale e appropriazione capitalistica si
presentò come antagonismo tra proletariato e borghesia.
Abbiamo visto che il modo di produzione capitalistico si
inserì in una società di produttori di merci, di
produttori individuali, il cui nesso sociale era determinato dallo
scambio dei loro prodotti. Ma ogni società fondata sulla
produzione di merci ha questo di particolare: che in essa i
produttori hanno perduto il dominio sui loro propri rapporti
sociali. Ognuno produce per sé con mezzi di produzione che
casualmente possiede e per il fabbisogno del suo scambio
individuale. Nessuno sa né quale quantità del suo
articolo arriva al mercato, né in generale quale
quantità ne è richiesta; nessuno sa se il suo
prodotto individuale risponde ad un effettivo bisogno, né
se potrà cavarne le spese, né se in generale
potrà vendere. Domina l'anarchia della produzione sociale.
Ma la produzione di merci, come ogni altra forma di produzione, ha
le sue leggi specifiche, immanenti, inseparabili da essa. E queste
leggi si attuano malgrado l'anarchia, in essa e per mezzo di essa.
Esse compaiono nell'unica forma di nesso sociale che continua ad
esistere, nello scambio, e si fanno valere sui prodotti
individuali come leggi coattive della concorrenza. Da principio
esse sono quindi sconosciute a questi stessi produttori e devono
essere scoperte da loro a poco a poco e solo con una lunga
esperienza. Esse dunque si attuano senza i produttori e contro i
produttori, come leggi naturali della loro forma di produzione
agenti ciecamente. Il prodotto domina i produttori.
Nella società medievale, specialmente nei primi secoli, la
produzione era essenzialmente indirizzata al consumo personale.
Essa appagava in prevalenza soltanto i bisogni del produttore e
della sua famiglia. Laddove, come nella campagna, sussistevano
rapporti di dipendenza personale, la produzione contribuiva anche
all'appagamento dei bisogni del signore feudale. Quindi non c'era
scambio e conseguentemente i prodotti non assumevano neppure il
carattere di merci. La famiglia del contadino produceva quasi
tutto quello di cui abbisognava, attrezzi e indumenti
nonché mezzi di sussistenza. Solo allorché venne a
produrre un eccedenza sul proprio fabbisogno e sui versamenti in
natura dovuti al signore feudale, solo allora cominciò a
produrre anche merci; questa eccedenza immessa nello scambio,
offerta in vendita, divenne merce. Gli artigiani cittadini
dovettero, certo, già sin dal principio, produrre per lo
scambio. Ma essi provvedevano col proprio lavoro anche alla
massima parte del loro fabbisogno personale; avevano orti e
piccoli campi; mandavano il loro bestiame nel bosco comunale che
forniva loro inoltre legname da costruzione e legna da ardere; le
donne filavano il lino, la lana, ecc. La produzione per lo
scambio, la produzione di merci, era solo sul nascere. Da qui
scambio limitato, mercato limitato, modo di produzione stabile,
isolamento locale verso l'esterno e unione locale all'interno: la
marca [b41] nella campagna, la corporazione nella città.
Ma con l'estensione della produzione di merci, e specialmente con
l'apparire del modo di produzione capitalistico, entrarono
più apertamente e più prepotentemente in azione le
leggi della produzione di merci sinora latenti. I vecchi vincoli
si allentarono, e vecchie barriere di separazione furono infrante,
i produttori si trasformarono sempre più in produttori di
merci indipendenti e isolati. Apparve l'anarchia della produzione
sociale e sempre più fu spinta al suo estremo. Ma il
principale strumento con cui il modo di produzione capitalistico
accresceva questa anarchia della produzione sociale era
precisamente l'opposto dell'anarchia: era la crescente
organizzazione della produzione, in quanto produzione sociale, in
ogni singola azienda produttiva. Con questa leva, esso mise fine
alla vecchia pacifica stabilità. Laddove veniva introdotto
in un ramo di industria, non tollerava accanto a sé nessun
altro modo di produzione più vecchio. Laddove si
impadroniva di un mestiere ne distruggeva l'antica forma
artigiana. Il campo del lavoro divenne un campo di battaglia. Le
grandi scoperte geografiche e le colonizzazioni che seguirono
moltiplicarono i territori di sbocco e accelerarono la
trasformazione dell'artigianato in manifattura. La lotta non
scoppiò soltanto tra i singoli produttori di una
località; le lotte locali sviluppandosi divennero a loro
volta lotte nazionali; come le guerre commerciali dei secoli XVII
e XVIII [181]. Finalmente la grande industria e la creazione del
mercato mondiale resero universale la lotta e ad un tempo le
conferirono una violenza inaudita. Tra i singoli capitalisti,
così come tra intere industrie e interi paesi, il problema
della loro esistenza viene deciso dalle condizioni più o
meno favorevoli della produzione, che possono essere naturali o
artificiali. Chi soccombe viene eliminato senza nessun riguardo.
È la lotta darwiniana per l'esistenza dell'individuo,
trasportata, con accresciuto furore, dalla natura alla
società. Il punto di vista dell'animale nella natura appare
come l'apice dell'umano sviluppo. La contraddizione tra produzione
sociale e appropriazione capitalistica si riproduce [b42] come
antagonismo tra l'organizzazione della produzione nella singola
fabbrica e l'anarchia della produzione nel complesso della
società.
Il modo di produzione capitalistico si muove entro queste due
forme nelle quali si manifesta quella contraddizione che gli
è immanente per la sua origine e descrive, senza
possibilità di uscirne, quel "circolo vizioso"che
già Fourier vi aveva scoperto. Ciò che Fourier non
poteva invero ancora scorgere ai suoi tempi, è che questo
circolo progressivamente si restringe, che il movimento
rappresenta piuttosto una spirale, e che, come quello dei pianeti,
raggiungerà la sua fine collidendo col centro. È la
forza motrice dell'anarchia sociale della produzione che trasforma
sempre più la grande maggioranza degli uomini in proletari
e, a loro volta, sono le masse proletarie che metteranno termine,
infine, all'anarchia della produzione. È la forza motrice
dell'anarchia sociale della produzione che trasforma l'infinita
perfettibilità delle macchine della grande industria in una
legge coercitiva che impone al singolo capitalista industriale di
perfezionare sempre più le proprie macchine, pena la
rovina. Ma perfezionare le macchine significa render superfluo del
lavoro umano. Se l'introduzione e l'aumento del macchinario
significa soppiantare milioni di operai manuali con pochi operai
addetti alle macchine, il miglioramento del macchinario significa
soppiantare un numero sempre crescente di operai - essi stessi
addetti alle macchine - e in ultima analisi creare una massa di
salariati disponibili superiore alla quantità media di
unità che il capitale ha bisogno di occupare: creare
cioè un vero esercito di riserva industriale, come lo
chiamavo già nel 1845 [*9], disponibile per i tempi in cui
l'industria lavora ad alta pressione, gettato sul lastrico nella
crisi che necessariamente segue, in tutti i tempi palla di piombo
al piede della classe operaia nella sua lotta per l'esistenza col
capitale, regolatore che serve a tenere il salario a quel basso
livello che è adeguato alle esigenze dei capitalisti.
Così avviene che, per dirla con Marx, la macchina diviene
il più potente mezzo di guerra del capitale contro la
classe operaia; che lo strumento di lavoro strappa giornalmente
dalle mani dell'operaio i mezzi di sussistenza; che il prodotto
stesso dell'operaio si trasforma in uno strumento per
l'asservimento dell'operaio. Così accade che l'economizzare
mezzi di lavoro diventa a priori ad un tempo una dilapidazione
senza ritegno della forza-lavoro ed una rapina ai danni dei
normali presupposti della funzione del lavoro; che le macchine,
che sono il mezzo più potente per abbreviare il tempo di
lavoro, si mutano nel mezzo più infallibile per trasformare
tutta la vita dell'operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro
disponibile per la valorizzazione del capitale; così accade
che il sopralavoro degli uni diventa il presupposto della
disoccupazione degli altri, e che la grande industria che
dà la caccia a nuovi consumatori su tutta la superficie
terrestre, in patria riduce il consumo delle masse ad un minimo di
fame e così mina il proprio mercato interno.
"La legge infine che equilibra costantemente sovrappopolazione
relativa, ossia l'esercito industriale diriserva da una parte e
volume ed energia dell'accumulazione dall'altra, incatena
l'operaio al capitale in maniera più salda che i cunei di
Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge determina
un'accumulazione di miseria proporzionata all'accumulazione di
capitale. L'accumulazione di ricchezza all'uno dei poli è
dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di
lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e
degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della
classe che produce il proprio prodotto come capitale"
(Marx, "Il Capitale", pag. 671) [183]
E aspettare dal modo di produzione capitalistico un'altra
distribuzione dei prodotti, significa pretendere che gli elettrodi
di una batteria, stando in collegamento con la batteria, non
debbano scomporre l'acqua e sviluppare ossigeno al polo positivo e
idrogeno al polo negativo.
Abbiamo visto come la perfettibilità della macchina
moderna, spinta al punto più alto, si trasformi, mediante
l'anarchia della produzione nella società, in
un'imposizione che costringe il singolo capitalista industriale a
migliorare necessariamente le proprie macchine, ad elevarne la
forza produttiva. La semplice eventualità effettiva di
estendere l'ambito della sua produzione, si trasforma per lui in
un'imposizione di egual natura. La enorme forza espansiva della
grande industria, di fronte alla quale quella dei gas è un
vero giuoco da bambini, si presenta ora ai nostri occhi come un
bisogno di espansione sia qualitativa che quantitativa che si fa
beffa di ogni pressione contraria. Questa pressione contraria
è formata dal consumo, dallo scambio, dai mercati per i
prodotti della grande industria. Ma la capacità di
estensione dei mercati, sia estensiva che intensiva, è
dominata anzitutto da leggi affatto diverse, che agiscono in modo
molto energico. La espansione dei mercati non può andare
pari passo con quella della produzione. La collisione diviene
inevitabile e poiché non può presentare nessuna
soluzione sino a che non manda a pezzi lo stesso modo di
produzione capitalistico, diventa periodica. La produzione
capitalistica genera un nuovo "circolo vizioso".
In effetti, dal 1825, anno in cui scoppiò la prima crisi
generale, tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione
e lo scambio di tutti i popoli civili e di tutte le loro appendici
più o meno barbariche, si sfasciano una volta ogni dieci
anni circa. Il commercio langue, i mercati sono ingombri, si
accumulano i prodotti tanto numerosi quanto inesitabili, il denaro
contante diviene invisibile, il credito scompare, le fabbriche si
fermano, le masse operaie, per aver prodotto troppi mezzi di
sussistenza, mancano di mezzi di sussistenza; fallimenti e vendite
all'asta si susseguono. La stagnazione dura per anni, forze
produttive e prodotti vengono dilapidati e distrutti in gran
copia, sino a che finalmente le masse di merci accumulate
defluiscono grazie ad una svalutazione più o meno grande e
produzione e scambio a poco a poco riprendono il loro cammino.
Gradualmente la loro andatura si accelera, si mette al trotto, il
trotto dell'industria si trasforma in galoppo e questo si accelera
sino ad assumere l'andatura sfrenata di un vero steeple-chase
[corsa ad ostacoli] industriale, commerciale, creditizio e
speculativo per ricadere finalmente, dopo salti da rompersi il
collo, nel baratro del crac. E così sempre da capo, tutto
questo dal 1825 lo abbiamo sperimentato per ben cinque volte e in
questo momento (1877) lo stiamo sperimentando per la sesta volta.
E il carattere di queste crisi è così nettamente
marcato che Fourier le ha colte tutte quante, allorché
definì la prima come crise pléthorique, crisi di
sovrabbondanza [184].
Nelle crisi la contraddizione tra produzione sociale e
appropriazione capitalistica perviene allo scoppio violento. La
circolazione delle merci è momentaneamente annientata; il
mezzo della circolazione, il denaro, diventa un ostacolo per la
circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione
delle merci vengono sovvertite. La collisione economica raggiunge
il suo culmine. Il modo della produzione si ribella contro il modo
dello scambio, le forze produttive si ribellano contro il modo di
produzione che esse hanno già superato.
Il fatto che l'organizzazione sociale della produzione
nell'interno della fabbrica ha raggiunto il punto in cui diventa
incompatibile con l'anarchia della produzione esistente nella
società accanto ad essa e al di sopra di essa, questo fatto
viene reso tangibile agli stessi capitalisti dalla potente
concentrazione dei capitali che ha luogo durante le crisi,
mediante la rovina di un gran numero di grandi capitalisti e di un
numero ancora maggiore di piccoli capitalisti. Tutto il meccanismo
del modo di produzione capitalistico si arresta sotto la pressione
delle forze produttive che esso stesso produce. Esso non riesce
più a trasformare in capitale tutta questa massa di mezzi
di produzione: essi giacciono inoperosi e, precisamente per questa
ragione, anche l'esercito industriale di riserva è
costretto a restare inoperoso. Mezzi di produzione, mezzi di
sussistenza, operai disponibili, tutti gli elementi della
produzione e della ricchezza generale, esistono in sovrabbondanza.
Ma "la sovrabbondanza diventa fonte di miseria e penuria"
(Fourier) perché è precisamente essa che ostacola la
trasformazione dei mezzi di produzione e di sussistenza in
capitale. Infatti nella società capitalistica i mezzi di
produzione non possono entrare in azione se prima non si sono
trasformati in capitale, in mezzi per lo sfruttamento della
forza-lavoro umana. La necessità che i mezzi di produzione
e di sussistenza assumano il carattere di capitale si erge come
uno spettro tra essi e gli operai. Essa sola impedisce il contatto
tra le leve reali e le leve personali della produzione; essa sola
proibisce ai mezzi di produzione di funzionare e agli operai di
lavorare e di vivere. Da una parte dunque viene conclamata la
incapacità del modo di produzione capitalistico di
continuare a dirigere queste forze produttive. Dall'altra queste
stesse forze produttive spingono con forza sempre crescente alla
soppressione della contraddizione, alla propria emancipazione dal
loro carattere di capitale, all'effettivo riconoscimento del loro
carattere di forze produttive sociali.
È questa reazione al proprio carattere di capitale delle
forze produttive nel loro rigoglioso sviluppo, è questa
progressiva spinta a far riconoscere la propria natura sociale,
ciò che obbliga la stessa classe capitalistica a trattare
sempre più come sociali queste forze produttive, nella
misura in cui è possibile, in generale, sul piano dei
rapporti capitalistici. Tanto il periodo di grande
prosperità nell'industria con la sua illimitata inflazione
creditizia, quanto lo stesso crac con la rovina di grandi imprese
capitalistiche, spingono a quella forma di socializzazione di
masse considerevolmente grandi di mezzi di produzione, che
incontriamo nelle diverse specie di società anonime. Molti
di questi mezzi di produzione e di scambio sono sin dal principio
così enormi da escludere, come ad es. avviene nelle strade
ferrate, ogni altra forma di sfruttamento capitalistico. Ad un
certo grado di sviluppo, neanche questa forma è più
sufficiente [b43]; il rappresentante ufficiale della
società capitalistica, lo Stato, deve assumerne la
direzione [*10]. La necessità della trasformazione in
proprietà statale si manifesta anzitutto nei grandi
organismi di comunicazione: poste, telegrafi, ferrovie.
Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della borghesia a
dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la
trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in
società anonime [b45] e in proprietà statale mostra
che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento
di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono
oggi compiute da impiegati salariati. Il capitalista non ha
più nessuna attività sociale che non sia l'intascar
rendite, il tagliar cedole e il giocare in borsa, dove i capitali
si spogliano a vicenda dei loro capitali. Se il modo di produzione
capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai, oggi esso
soppianta i capitalisti e li relega, precisamente come gli operai,
tra la popolazione superflua, anche se in un primo tempo non li
relega tra l'esercito industriale di riserva.
Ma né la traformazione in società anonime [b45],
né la trasformazione in proprietà statale, sopprime
il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle
società anonime [b45] questo carattere è evidente. E
a sua volta lo Stato moderno è l'organizzazione che la
società capitalistica si dà per mantenere il modo di
produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai
che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la
forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno
Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto
più si appropria le forze collettive, tanto più
diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il
numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei
salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene
soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice,
si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive
non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé
il mezzo formale, la chiave della soluzione.
Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si
riconosca in effetti la natura sociale delle moderne
forzeproduttive e che quindi il modo di produzione, di
appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere
sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo
a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la
società si impadronisca delle forze produttive le quali si
sottraggono ad ogni altra direzione che non sia quella sua.
Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei
prodotti che oggi si volge contro gli stessi produttori, che
sconvolge periodicamente il modo di produzione e di scambio e si
impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge
naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai
produttori e, da causa di turbamento e di sconvolgimento
periodico, si trasforma nella più potente leva della
produzione stessa.
Le forze socialmente attive agiscono in modo assolutamente uguale
alle forze naturali: in maniera cieca, violenta, distruttiva, sino
a quando non le riconosciamo e non facciamo i conti con esse. Ma
una volta che le abbiamo riconosciute, che ne abbiamo compreso il
modo di agire, la direzione e gli effetti, dipende solo da noi il
sottometterle sempre più al nostro volere e per mezzo di
esse raggiungere i nostri fini. E questo vale in modo tutto
particolare per le odierne potenti forze produttive. Fino a quando
ostinatamente ci rifiuteremo di intenderne la natura e il
carattere, e a questa intelligenza si oppongono il modo di
produzione capitalistico e i suoi sostenitori, queste forze
agiranno malgrado noi e contro di noi, e, come abbiamo
diffusamente esposto, ci domineranno. Ma una volta che siano
comprese nella loro natura, esse, nelle mani dei produttori
associati, possono essere trasformate da demoniache dominatrici in
docili serve. È questa la differenza tra la forza
distruttiva dell'elettricità nel lampo nella tempesta e
l'elettricità domata del telegrafo e della lampada ad arco;
la differenza tra l'incendio e il fuoco che agisce al sevizio
dell'uomo. Quando le odierne forze produttive saranno considerate
in questo modo, conformemente alla loro natura finalmente
conosciuta, all'anarchia sociale della produzione
subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata
della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità
che di ogni singolo. Così il modo di appropriazione
capitalistico, in cui il prodotto asservisce anzitutto chi lo
produce, ma poi anche colui che se lo appropria, viene sostituito
dal modo di appropriazione dei prodotti fondato sulla natura
stessa dei moderni mezzi di produzione: da una parte da
un'appropriazione direttamente sociale come mezzo per mantenere ed
allargare la produzione, dall'altra da un'appropriazione
direttamente individuale come mezzo di sussistenza e di godimento.
Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre
crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari,
crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere
questo rivolgimento, spingendo in misura sempre maggiore alla
trasformazione dei grandi mezzi di produzione socializzati in
proprietà statale, essa stessa mostra la via per il
compimento di questo rivolgimento. Il proletariato si impadronisce
del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione
in proprietà dello Stato. Ma così sopprime se stesso
come proletariato, sopprime ogni differenza di classe e ogni
antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato. La
società esistita sinora, smoventesi sul piano degli
antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato,
cioè dell'organizzazione della classe sfruttatrice in ogni
periodo, per conservare le condizioni esterne della sua produzione
e quindi specialmente per tener con la forza la classe sfruttata
nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di
produzione (schiavitù, servitù della gleba,
semiservitù feudale, lavoro salariato). Lo Stato era il
rappresentante ufficiale di tutta la società, la sua
sintesi in un corpo visibile, ma lo era in quanto era lo Stato di
quella classe che per il suo tempo rappresentava, essa stessa,
tutta quanta la società: nell'antichità era lo Stato
dei cittadini padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della
nobiltà feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia.
Ma, diventando alla fine effettivamente il rappresentante di tutta
la società, si rende, esso stesso, superfluo. Non appena
non ci sono più classi sociali da mantenere
nell'oppressione, non appena con l'eliminazione del dominio di
classe e della lotta per l'esistenza individuale fondata
sull'anarchia della produzione sinora esistente, saranno eliminati
anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò,
non ci sarà da reprimere più niente di ciò
che rendeva necessaria una forza repressiva particolare, uno
Stato. Il primo atto con cui lo Stato si presenta realmente come
rappresentante di tutta la società, cioè la presa di
possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della
società, è ad un tempo l'ultimo suo atto
indipendente in quanto Stato. L'intervento di una forza statale
nei rapporti sociali diventa superfluo successivamente in ogni
campo e poi viene meno da se stesso. Al posto del governo sulle
persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei
processi produttivi. Lo stato non viene "abolito": esso si
estingue. Questo è l'apprezzamento che deve farsi della
frase "Stato popolare libero" [186], tanto quindi per la sua
giustificazione temporanea in sede di agitazione, quanto per la
sua definitiva insufficienza in sede scientifica; e questo
è del pari l'apprezzamento che deve farsi dell'esigenza dei
cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere abolito dall'oggi
al domani.
La presa di possesso di tutti i mezzi di produzione da parte della
società, sin dall'apparire del modo di produzione
capitalistico nella storia, è stata spesso assai sognata
più o meno oscuramente sia dai singoli che da intere sette,
come un ideale dell'avvenire. Ma essa poteva diventare possibile,
poteva diventare una necessità storica, solo quando fossero
esistite le condizioni materiali della sua attuazione. Essa, come
ogni altro progresso sociale, diviene realizzabile non già
per mezzo della conoscenza acquisita che l'esistenza delle classi
contraddice alla giustizia, all'eguaglianza, ecc., non già
per la semplice volontà di abolire queste classi, ma per
mezzo di certe nuove condizioni economiche. La divisione della
società in una classe che sfrutta e in una classe che
è sfruttata, in una classe che domina e in una classe che
è oppressa, è stata la conseguenza necessaria del
precedente angusto sviluppo della produzione. Sino a quando il
complessivo lavoro sociale fornisce solo un provento che supera
soltanto di poco ciò che è necessario per
un'esistenza stentata di tutti, sino a quando perciò il
lavoro impegna tutto o quasi tutto il tempo della maggioranza dei
membri della società, necessariamente la società si
divide in classi. Accanto a questa grande maggioranza dedita
esclusivamente al lavoro, si forma una classe emancipata dal
lavoro immediatamente produttivo, la quale cura gli affari comuni
della società: direzione del lavoro, affari di Stato,
giustizia, scienza, arti, ecc. A base della divisione in classi
sta quindi la legge della divisione del lavoro. Ma ciò non
impedisce che questa divisione in classi non si sia effettuata
mediante forza e rapina, astuzia e inganno e che la classe
dominante, una volta in sella, non abbia mai mancato di
consolidare il proprio dominio a spese della classe che lavora e
di trasformare la direzione della società in sfruttamento
[b46] delle masse.
Ma se, di conseguenza, la divisione in classi ha una certa
giustificazione storica, tale giustificazione essa l'ha soltanto
per un determinato intervallo di tempo, per determinate condizioni
sociali. Essa si è fondata sull'insufficienza della
produzione e sarà eliminata dal pieno sviluppo delle
moderne forze produttive. Ed in effetti, l'abolizione delle classi
sociali ha come suo presupposto un grado di sviluppo storico di
cui non solo l'esperienza di questa o di quella determinata classe
dominante, ma in generale l'esistenza di una classe dominante e
quindi della stessa differenza di classe, è diventata un
anacronismo, un vecchiume. Essa ha quindi come suo presupposto un
alto grado di sviluppo della produzione nel quale l'appropriazione
dei mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere
politico, del monopolio della cultura e del potere spirituale da
parte di una particolare classe della società non solo
è diventata superflua, ma è diventata anche
economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo
sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto. Se ormai è
difficile dire che il fallimento politico e intellettuale della
borghesia sia ancora un segreto per essa stessa, il suo fallimento
economico si ripete regolarmente ogni dieci anni. In ogni crisi la
società soffoca sotto il peso delle proprie forze
produttive e dei propri prodotti che essa non può
utilizzare, ed è impotente davanti all'assurda
contraddizione che i produttori non hanno niente da consumare
perché mancano i consumatori. La forza di espansione dei
mezzi di produzione strappa i legami che ad essi sono imposti dal
modo di produzione capitalistico. La loro liberazione da questi
legami è la sola condizione preliminare di uno sviluppo
ininterrotto e costantemente accelerato delle forze produttive, e
quindi di un incremento praticamente illimitato della produzione
stessa. Ma non basta. L'appropriazione sociale dei mezzi di
produzione elimina non solo l'ostacolo artificiale oggi esistente
della produzione, ma anche la vera e propria completa distruzione
di forze produttive e di prodotti, che al presente è
l'immancabile campagna della produzione e che raggiunge il suo
punto culminante nelle crisi. L'appropriazione sociale, eliminando
l'insensato sciupio del lusso delle classi oggi dominanti e dei
loro rappresentanti politici, libera inoltre a vantaggio della
collettività una massa di mezzi di produzione e di
prodotti. La possibilità di assicurare, per mezzo della
produzione sociale, a tutti i membri della collettività
un'esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto
di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma
garantisca loro lo sviluppo e l'esercizio completamente liberi
delle loro facoltà fisiche e spirituali: questa
possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste [*11].
Con la presa di possesso dei mezzi di produzione da parte della
società, viene eliminata la produzione di merci e con
ciò il dominio del prodotto sui produttori. L'anarchia
all'interno della produzione sociale viene sostituita
dall'organizzazione cosciente secondo un piano. La lotta per
l'esistenza individuale cessa. In questo modo, in un certo senso,
l'uomo si separa definitivamente dal regno degli animali e passa
da condizioni di esistenza animali a condizioni di esistenza
effettivamente umane. La cerchia delle condizioni di vita che
circondano gli uomini e che sinora li hanno dominati passa ora
sotto il dominio e il controllo degli uomini, che adesso, per la
prima volta, diventano coscienti ed effettivi padroni della
natura, perché, diventano padroni della loro propria
organizzazione in società. Le leggi della loro
attività sociale che sino allora stavano di fronte a loro
come leggi di natura estranee e che li dominavano, vengono ora
applicate dagli uomini con piena cognizione di causa e quindi
dominate. L'organizzazione in società propria degli uomini,
che sino ad ora stava loro di fronte come una legge elargita dalla
natura e dalla storia, diventa ora la loro propria libera azione.
Le forze obiettive ed estranee che sinora hanno dominato la storia
passano sotto il controllo degli uomini stessi. Solo da questo
momento gli uomini stessi faranno con piena coscienza la loro
storia, solo da questo momento le cause sociali da loro poste in
azione avranno prevalentemente, e in misura sempre crescente,
anche gli effetti che essi hanno voluto. È questo il salto
dell'umanità dal regno della necessità al regno
della libertà [b47].
Compiere quest'azione di liberazione universale è il
compito storico del proletariato moderno. Studiarne a fondo le
condizioni storiche e conseguentemente la natura stessa e dare
così alla classe, oggi oppressa e chiamata in azione, la
coscienza delle condizioni e della natura della sua propria azione
è il compito del socialismo scientifico, espressione
teorica del movimento proletario.
Note
*8. Non occorre spiegare qui che, seppure la forma di
appropriazione rimane la stessa, il carattere dell'appropriazione
viene rivoluzionato, non meno che la produzione, dal processo che
è stato descritto sopra. Che io mi appropri il mio proprio
prodotto o il prodotto altrui, sono naturalmente due specie molto
differenti di appropriazione. Incidentalmente: il lavoro
salariato, in cui è già contenuto in germe tutto il
modo di produzione capitalistico, è molto antico; per
secoli esso è esistito, allo stato sporadico e sparso,
accanto alla schiavitù. Ma il germe poté svilupparsi
sino a raggiungere il modo di produzione capitalistico
allorché si produssero le condizioni storiche preliminari.
180. In questa nota Engles si riferisce al suo scritto "Die Mark"
("La Marca"), del 1882, che fu pubblicato per la prima volta in
appendice all'edizione tedesca (1883) dell'opuscolo "L'evoluzione
del socialismo dall'utopia alla scienza".
181. Nel XVII e nel XVIII secolo i maggiori Stati europei
combatterono tra loro diverse guerre per l'egemonia sul commercio
con le Indie e l'America e per la conquista di mercati coloniali.
Dapprima i principali paesi in concorrenza furono l'Inghilterra e
l'Olanda (tipiche guerre commerciali furono le guerre
anglo-olandesi del 1652-1654, 1664-1667 e del 1672-1674), poi
l'Inghilterra e la Francia. L'Inghilterra ne uscì sempre
vittoriosa; alla fine del XVIII secolo essa concentrò nelle
sue mani quasi tutto il commercio mondiale.
*9. "Lage der arbeitenden Klasse in England", pag. 109 [182]
182. Cfr. F. Engels, "La condizione della classe operaia in
Inghilterra", in K. Marx - F. Engels, Opere, Vol IV, Editori
Riuniti, 1972, pp. 318 e seg.
183. K. Marx, "Il capitale", I, trad. it. Cit., pag. 706.
184. Cfr. Charles Fourier, "Le nouveau monde industriel et...", p.
393 e seg.
*10. Io dico: deve. Infatti, solo nel caso in cui i mezzi di
produzione o di comunicazione si sono effettivamente sottratti al
controllo delle società anonime, in cui quindi la
statizzazione è diventata economicamente inevitabile, solo
in questo caso essa, anche se viene compiuta dallo Stato attuale,
rappresenta un successo economico, il raggiungimento di un nuovo
stadio preliminare nella presa di possesso di tutte le forze
produttive da parte della società. Di recente però,
da quando Bismarck si è dato a statizzare, ha fatto la sua
comparsa un certo socialismo falso, e qua e là perfino
degenerato in una forma di compiaciuto servilismo, che dichiara
senz'altro socialista ogni statizzazione, compresa quella
bismarckiana. In verità se la statizzazione del tabacco
fosse socialista, potremmo annoverare tra i fondatori del
socialismo Napoleone e Metternich. Se lo Stato belga per motivi
politici e finanziari assolutamente correnti ha costruito
direttamente le sue principali strade ferrate, se Bismarck senza
nessuna necessità economica ha statizzato le principali
linee ferroviarie della Prussica, semplicemente per poterle
dirigere e sfruttare meglio in caso di guerra, per trasformare i
ferrovieri in gregge elettorale governativo e principalmente per
procurarsi una nuova fonte di entrate indipendente dalle decisioni
del parlamento: queste non sono state per nulla misure socialiste
né dirette né indirette, né consapevoli
né inconsapevoli. Altrimenti sarebbero istituzioni
socialiste anche la regia Seehandlung [185], la regia manifattura
delle porcellane e perfino i sarti di reggimento [b44].
185. La Prussische Seehandlungsgesellschaft (Società
prussiana di commercio marittimo) fu fondata nel 1772 come
istituto di credito commerciale dotato di importanti privilegi
statali. Essa faceva grossi prestiti al governo, rappresentandolo
di fatto nelle operazioni bancarie e valutarie. Nel 1820 fu
dichiarata istituto finanziario e commerciale dello Stato
prussiano e nel 1904 fu trasformata nella Königliche
Seehandlung (Banca di Stato prussiana).
186. Lo "Stato popolare libero" era una delle principali
rivendicazioni dei socialdemocratici tedeschi degli anni
1870-1880. Questa parola d'ordine fu criticata da Marx nelle
"Glosse marginali al programma del Partito operaio tedesco"
("Critica al programma di Gotha") e da Engels nella sua lettera a
Bebel del 18-28 marzo 1875.
*11. Poche cifre bastano per dare un'idea approssimativa
dell'enorme forza di espansione dei moderni mezzi di produzione
persino sotto la pressione capitalistica. Secondo i più
recenti calcoli di Giffen [187] la ricchezza complessiva di Gran
Bretagna e Irlanda ammonta in cifra tonda a:
1814 2.200 milioni di sterline = 44
milioni di marchi
1865 6.100 milioni di sterline = 122
milioni di marchi
1875 8.500 milioni di sterline = 170
milioni di marchi
Per quanto riguarda la devastazione dei mezzi di produzione e dei
prodotti nelle crisi, la perdita complessiva della sola industria
siderurgica tedesca nell'ultimo crac fu valutata intorno a 445
milioni di marchi, al secondo congressodegli industriali tedeschi,
Berlino, 21 febbraio 1878.
187. Le cifre qui pubblicate sulla somma totale delle ricchezze
della Gran Bretagna e dell'Irlanda sono ricavate dalla conferenza
di Robert Giffen sull'accumulazione di capitale nel regno Unito
("Recent accumulation of capital in the United Kingdom"), tenuta
il 15 gennaio 1878 alla Statistical Society e stampata sul
londinese "Journal of the Statistical Society", marzo 1878.
Note b (nell'opuscolo "L'evoluzione del socialismo dall'utopia
alla scienza")
b40. [aggiunta], sorta gradualmente senza un piano
b41. [in nota] Vedi in Appendice [180]
b42. si presenta ora
b43. [questo periodo è ampliato come segue:] Ad un certo
grado di sviluppo, neanche questa forma è più
sufficiente; i grandi produttori nazionali di uno stesso ramo di
produzione industriale si riuniscono in un "trust", in
un'associazione avente lo scopo di regolare la produzione; essi
determinano la quantità totale da produrre, se la
ripartiscono tra di loro ed impongono così il prezzo di
vendita stabilito in precedenza. Ma poiché tali trust,
quando gli affari cominciano ad andar male, per lo più si
dissolvono, proprio per questa ragione essi spingono ad una forma
ancora più concentrata di socializzazione: tutto il ramo di
industria si trasforma in un'unica società anonima; la
concorrenza nazionale cede il posto al monopolio nazionale di
questa unica società, così accade già nel
1890 con la produzione inglese degli alcali che ora, dopo la
fusione di tutte e 48 le grandi fabbriche, viene esercitata da
un'unica grande società con direzione unica e con un
capitale di 120 milioni di marchi.
Nei trust la libera concorrenza si trasforma in monopolio, la
produzione, priva di un piano, della società capitalista
capitola davanti alla produzione, secondo un piano,
dell'irrompente società socialista. Certo in un primo tempo
questo avviene ancora a tutto vantaggio dei capitalisti. Ma qui lo
sfruttamento diviene così tangibile da dover
necessariamente crollare. Nessun popolo sopporterebbe una
produzione diretta da trust, uno sfruttamento così scoperto
della collettività per opera di una piccola banda di
tagliatori di cedole.
In un modo o nell'altro, con trust o senza trust, una cosa
è certa: che il rappresentante ufficiale della
società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumere la
direzione.
b44. [aggiunta] o magari la nazionalizzazione dei bordelli,
proposta con tutta serietà da un lestofante nel quarto
decennio di questo secolo, sotto Federico Guglielmo III.
b45. società anonime (trusts)
b46. in accresciuto sfruttamento
b47. [nell'opuscolo, prima dell'ultimo capoverso, è
aggiunto il seguente sommario:] Riassumiamo brevemente, per
concludere, il cammino che abbiamo percorso.
I. Società medievale. Piccola produzione individuale. Mezzi
di produzione adattati all'uso individuale, perciò rozzi e
primitivi, minuscoli, di efficacia minima. Produzione per il
consumo immediato sia del produttore stesso che del suo signore
feudale. Solo laddove ha luogo un'eccedenza della produzione su
questo consumo, questa eccedenza viene offerta in vendita e
destinata allo scambio: la produzione mercantile è quindi
solo sul nascere, ma già ora essa contiene in sé, in
germe, l'anarchia nella produzione sociale.
II. Rivoluzione capitalistica. Trasformazione dell'industria in un
primo tempo per opera della cooperazione semplice e della
manifattura. Concentrazione in grandi officine di mezzi di
produzione sin qui sparsi, e quindi loro trasformazione da mezzi
di produzione individuali in mezzi di produzione sociali:
trasformazione che non tocca in complesso la forma dello scambio.
Le vecchie forme di appropriazione rimangono in vigore. Appare il
capitalista: nella sua qualità di proprietario dei mezzi di
produzione si appropria anche i prodotti e li trasforma in merci.
La produzione è diventata un atto sociale; lo scambio e con
esso l'appropriazione rimangono atti individuali, atti del
singolo. Il prodotto sociale se lo appropria il capitalista
singolo. Contraddizione fondamentale da cui sorgono tutte le
contraddizioni tra le quali si muove la società moderna e
che la grande industria mette chiaramente in evidenza.
A. Separazione del produttore dai mezzi di produzione. Condanna
dell'operaio al lavoro salariato vita natural durante. Antagonismo
tra proletariato e borghesia.
B. Crescente rilievo e progredente efficienza delle leggi che
dominano la produzione mercantile. Sfrenata lotta di concorrenza.
Contraddizione tra l'organizzazione sociale della singola fabbrica
e l'anarchia sociale nel complesso della produzione.
C. Da una parte perfezionamento del macchinario diventato per
opera della concorrenza legge coercitiva per ogni singolo
industriale e che equivale ad un sempre crescente licenziamento di
operai: esercito industriale di riserva. Dall'altra parte
estensione illimitata della produzione e del pari legge coercitiva
della concorrenza per ogni singolo industriale. Da una parte e
dall'altra sviluppo inaudito delle forze produttive, eccedenza
dell'offerta sulla domanda, sovrapproduzione, ingorgo dei mercati,
crisi decennali, circolo vizioso: qua eccedenza di mezzi di
produzione e di prodotti, là eccedenza di operai senza
occupazione e senza mezzi di sussistenza; ma queste due leve della
produzione e del benessere sociale non possono andare insieme
perché la forma capitalistica della produzione impedisce
alle forze produttive di agire, ai prodotti di circolare, ove
precedentemente non si siano trasformati in capitale: ciò
che è precisamente impedito dal loro eccesso. La
contraddizione si è sviluppata sino a diventare il
controsenso per cui il modo di produzione si ribella contro la
forma dello scambio. È provato che la borghesia è
incapace di continuare ulteriormente a dirigere le proprie forze
produttive sociali.
D. Parziale riconoscimento del carattere sociale delle forze
produttive, riconoscimento a cui è obbligato lo stesso
capitalista. Appropriazione dei grandi organismi di produzione e
di traffico, prima da parte di società anonime, più
tardi da parte di trust e in ultimo da parte dello Stato. La
borghesia dimostra di essere una classe superflua; tutte le sue
funzioni sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati.
III. Rivoluzione proletaria. Soluzione delle contraddizioni: il
proletariato si impadronisce del potere pubblico e in virtù
di questo potere trasforma i mezzi di produzione sociale che
sfuggono dalle mani della borghesia, in proprietà pubblica.
Con quest'atto il proletariato libera i mezzi di produzione dal
carattere di capitale che sinora essi avevano e dà al loro
carattere sociale la piena libertà di esplicarsi. Ormai
diviene possibile una produzione sociale conforme ad un piano
prestabilito. Lo sviluppo della produzione rende anacronistica
l'ulteriore esistenza di classi sociali distinte. Nella misura in
cui scompare l'anarchia della produzione sociale, vien meno anche
l'autorità politica dello Stato. Gli uomini, finalmente
padroni della forma loro propria di organizzazione sociale,
diventano perciò ad un tempo padroni della natura, padroni
di se stessi, liberi.
Dopo tutto ciò che precede, il lettore non si
meraviglierà di apprendere che lo sviluppo dei principi del
socialismo esposto nell'ultimo capitolo non si accorda affatto con
il modo di vedere di Dühring. Al contrario. Egli dovrà
buttarli nell'abisso in cui giace tutto ciò che è
condannato, a far compagnia agli altri "prodotti bastardi della
fantasia storica e logica", alle "concezioni arruffate", alle
"idee confuse e nebulose" ecc. Per lui il socialismo non è
affatto uno sviluppo necessario dello sviluppo storico, né,
tanto meno, delle condizioni storiche del presente,
grossolanamente materiali e indirizzate al semplice fine di
procacciarsi da mangiare. Dühring ha qualcosa di molto meglio
di questo. Il suo socialismo è una verità definitiva
di ultima istanza: è "il sistema naturale della
società", trova le sue radici in un "principio universale
di giustizia" e se per migliorarlo non può fare a meno
d'informarsi del vigente stato di cose creato dalla storia sinora
peccaminosa, ciò deve piuttosto essere considerato come una
disgrazia per il puro principio della giustizia. Dühring crea
il suo socialismo, come ogni altra cosa, per mezzo dei suoi famosi
due uomini. Queste due marionette, invece di rappresentare, come
hanno fatto sin qui, le parti del padrone e del servo,
rappresentano, tanto per cambiare, la commedia della parità
dei diritti... e le basi del socialismo dühringiano sono
già poste.
È evidente perciò che per Dühring le crisi
industriali periodiche non hanno affatto quel significato storico
che noi abbiamo dovuto attribuire loro. Per lui le crisi sono solo
deviazioni occasionali dalla "normalità" e tutt'al
più provocano "lo sviluppo di un ordinamento più
regolato". La "maniera abituale" di spiegare le crisi per mezzo
della sovrapproduzione non è affatto sufficiente alla sua
"concezione più esatta". Certo una tale spiegazione sarebbe
"ammissibile per crisi speciali in campi particolari". Così
per es. "un ingorgo del mercato librario con edizioni di opere di
cui sia improvvisamente scaduta la proprietà riservata e
che si prestano ad uno smercio in massa". Certo Dühring
può andare a letto con la gradevole convinzione che le sue
opere immortali non procureranno mai al mondo una tale disgrazia.
Ma per le grandi crisi "ciò che rende così
criticamente vasta la voragine tra scorta e smercio" non sarebbe
la sovrapproduzione, ma sarebbero invece "l'inadeguatezza del
consumo popolare (...) il sottoconsumo artificialmente prodotto
(...) l'ostacolo incontrato dal bisogno popolare (!) nella sua
crescita naturale". Ed ha avuto anche la fortuna di trovare un
discepolo per questa sua teoria delle crisi.
Ma disgraziatamente il sottoconsumo delle masse, la limitazione
del consumo delle masse a ciò che è necessario per
il mantenimento e la riproduzione, non è affatto un
fenomeno nuovo. Esso esiste da quando sono esistite classi
sfruttatrici e sfruttate. Si ha sottoconsumo delle masse anche nei
periodi storici in cui, come per es. nel XV secolo in Inghilterra,
la condizione delle masse era particolarmente favorevole. Esse
erano assai lontane dall'avere la disponibilità di tutto il
loro prodotto annuo per il consumo. Or dunque, se il sottoconsumo
è un fenomeno stabile da millenni, mentre l'ingorgo
generale degli sbocchi che scoppia nelle crisi in seguito a
sovrapproduzione si è potuto vedere solo da cinquant'anni,
ci vuole tutta la banalità dell'economia volgare di
Dühring per spiegare la nuova collisione, non già col
fenomeno nuovo della sovrapproduzione, ma col sottoconsumo,
vecchio di millenni. Sarebbe come se in matematica si volesse
spiegare la variazione del rapporto di due grandezze, una costante
ed una variabile, non già col fatto che la variabile varia,
ma col fatto che la costante è rimasta la stessa. Il
sottoconsumo delle masse è una necessità di tutte le
forme sociali poggianti sullo sfruttamento è quindi anche
della forma sociale capitalistica; però solo la forma
capitalistica conduce a delle crisi. Il sottoconsumo delle masse
è dunque anch'esso una condizione preliminare delle crisi
ed in esse rappresenta una parte riconosciuta da molto tempo; ma
tanto poco essa ci dice dell'esistenza attuale delle crisi, quanto
poco ci dice sulle cause della loro assenza nel passato.
Dühring ha in generale strane idee sul mercato mondiale.
Abbiamo visto come egli, da genuino letterato tedesco, cerchi di
spiegare effettive crisi speciali dell'industria ricorrendo a
crisi immaginare del mercato librario di Lipsia, che è come
spiegare la tempesta sul mare con la tempesta in un bicchier
d'acqua. Immagina inoltre che la moderna produzione d'impresa
debba "aggirarsi col suo sbocco prevalentemente nella cerchia
delle classi possidenti", la qual cosa non gli impedisce, solo 16
pagine dopo, di presentare, nella maniera che gli è
familiare, le industrie del ferro e del cotone come industrie
moderne decisive, quindi precisamente i due rami della produzione
i cui prodotti solo per una parte minima sono consumati nella
cerchia delle classi possidenti e sono diretti, più di ogni
altro, al consumo delle masse. Dovunque ci volgiamo, in
Dühring non troviamo altro che chiacchiere vuote e
contraddittorie per dritto e per rovescio. Ma prendiamo un esempio
nell'industria del cotone. Se nella sola, relativamente piccola,
città di Oldham, una delle dodici città intorno a
Manchester, con una popolazione da 50 a 100.000 abitanti, che
esercitano l'industria cotoniera, se in questa sola città
il numero dei fusi che filano solo il numero 32 nei quattro anni
dal 1872 al 1875 è aumentato dai due milioni e mezzo a
cinque milioni, cosicché in una sola città media
dell'Inghilterra filano un solo numero tanti fusi quanti in
generale ne possiede tutta la Germania insieme all'Alsazia, e se
l'espansione delle altre branche e altre località
dell'industria cotoniera dell'Inghilterra e della Scozia ha avuto
luogo in proporzioni approssimativamente eguali, ci vuole una
buona dose di radicale sfrontatezza per spiegare l'odierna
stagnazione totale degli sbocchi dei filati e dei tessuti di
cotone col sottoconsumo delle masse inglesi e non con la
sovrapproduzione dei cotonieri inglesi [*12].
E basta. Non si disputa con gente che in economia è
ignorante quanto basta per considerare il mercato libraio di
Lipsia, in generale, per un mercato nel senso dell'industria
moderna. Constatiamo quindi semplicemente che Dühring non sa
dirci altro sulle crisi, se non che esse sono soltanto "un
semplice giuoco di ipertensione e di rilassamento", che la
superspeculazione "non proviene solamente dall'accumularsi
disordinato di imprese private", ma che "bisogna contare, tra le
cause che originano l'eccesso di offerta, anche la precipitazione
dei singoli imprenditori e la mancanza di circospezione dei
privati". E, a sua volta, che cosa è la "causa che origina"
la precipitazione e la mancanza di circospezione? Proprio quella
stessa mancanza di un piano della produzione capitalistica che
appare nell'accumularsi disordinato delle imprese private. Vedere
nella traduzione di un fatto economico in un rimprovero morale la
scoperta di una nuova causa, è anch'essa "precipitazione".
E con ciò abbandoniamo le crisi. Dopo aver mostrato nel
capitolo precedente il loro necessario prodursi nel modo di
produzione capitalistico e il loro significato come crisi di
questo stesso modo di produzione, come mezzo che spinge alla
rivoluzione sociale, non abbiamo più bisogno di opporre su
questo soggetto una sola parola sulla superficialità di
Dühring. Passiamo alle sue creazioni positive, al "sistema
naturale della società".
Questo sistema costruito su un "principio universale di
giustizia", quindi libero di ogni preoccupazione di fastidiosi
fatti materiali, consiste in una federazione di comunità
economiche tra le quali esiste "libertà di movimento e
accettazione obbligatoria di nuovi membri, secondo leggi e norme
amministrative determinate". La comunità economica stessa
è anzitutto "un ampio schematismo di portata storica e
umana" e molto superiore alle "aberranti mezze misure" per es. di
un certo Marx. Essa significa "una comunità di persone
associate grazie al loro diritto pubblico di disporre di
un'estensione determinata di suolo e di un gruppo di imprese di
produzione, in vista di un'attività comune e di una comune
partecipazione agli introiti". Il diritto pubblico è "un
diritto reale (...) nel senso di un rapporto puramente
pubblicistico verso la natura e verso le istituzioni della
produzione". I futuri giuristi della comunità economica si
rompano pure la testa per saper che cosa ciò voglia
significare, noi rinunziamo ad ogni tentativo. Quanto veniamo a
sapere e che ciò non è affatto tutt'uno con la
"proprietà corporativa di società operaie", le quali
non escluderebbero né la concorrenza reciproca e neppure lo
sfruttamento salariale. Di passaggio viene poi fatta cadere
l'osservazione che l'idea di una "proprietà comune", quale
si trova anche in Marx, sarebbe "per lo meno oscura e dubbia,
poiché questa idea avventuristica ha sempre l'aria di non
poter significare altro che una proprietà corporativa di
gruppi operai". È questo ancora una volta uno dei molti
"vili mezzucci" di insinuazione abituali di Dühring e "al cui
carattere di volgarità" (come egli stesso dice) "si
adatterebbe perfettamente solo il termine volgare di insolente";
è una menzogna tanto campata in aria quanto l'altra
invenzione di Dühring che per Marx la proprietà comune
sia una "proprietà ad un tempo individuale e sociale".
In ogni caso una cosa sola appare chiara, e cioè che il
diritto pubblicistico di una comunità economica sui suoi
strumenti di lavoro è un diritto di proprietà
esclusivo, almeno di fronte ad ogni altra comunità
economica e anche di fronte alla società e allo Stato. Ma
questo diritto non avrebbe il potere "di agire in modo
esclusivistico (...) verso l'esterno, infatti tra le diverse
comunità economiche esiste libertà di movimento e
accettazione obbligatoria di nuovi membri secondo leggi e norme
amministrative determinate (...) analogamente (...) come oggi
l'appartenenza ad una formazione politica e la partecipazione alle
spettanze economiche di una comunità". Ci saranno dunque
comunità economiche ricche e povere e il livellamento ha
luogo mediante l'afflusso di popolazione nelle comunità
ricche e il suo deflusso dalle comunità povere. Mentre
quindi Dühring vuole eliminare mediante l'organizzazione
nazionale del commercio la concorrenza tra le singole
comunità riguardo ai prodotti, lascia sussistere
indisturbata la loro concorrenza riguardo ai produttori. Le cose
si sottraggono alla concorrenza, gli uomini restano sotto il suo
controllo.
Ma ancora noi siamo molto lontani dall'aver chiaro che cosa sia il
"diritto pubblicistico". Due pagine più oltreDühring
ci spiega che la comunità commerciale si estende "anzitutto
a quell'area politico-sociale i cui membri sonoriuniti in un'unica
persona giuridica e in tale qualità hanno la
disponibilità di tutto il suolo, delle abitazioni e delle
istituzioni della produzione". Dunque non è ancora la
singola comunità ad avere questa disponibilità, ma
la nazione tutta quanta. Il "diritto pubblicistico", il "diritto
reale", il "rapporto pubblicistico verso la natura" ecc. non
è quindi semplicemente "almeno oscuro e dubbio", ma
è in contraddizione diretta con se stesso. In effetti,
almeno nella misura in cui ogni singola comunità economica
è del pari una persona giuridica, c'è "una
proprietà ad un tempo individuale e sociale" e quest'ultima
"forma ibrida e nebulosa" si può quindi, ancora una volta,
incontrare solo in Dühring.
In ogni caso la comunità economica dispone dei suoi
strumenti di lavoro al fine della produzione. Come avviene questa
produzione? Dato tutto ciò che Dühring ci dice, tutto
procede alla vecchia maniera, tranne che al posto del capitalista
subentra la comunità. Tutt'al più veniamo a sapere
che per la prima volta la scelta della professione è ora
libera per ciascuno ed esiste pari obbligo di lavoro.
La forma fondamentale di tutta la produzione sinora è la
divisione del lavoro, da una parte all'interno della
società, dall'altra all'interno di ogni singola azienda di
produzione. Come si comporta la "socialità"
dühringiana rispetto alla divisione del lavoro?
La prima grande divisione sociale del lavoro è la
separazione tra città e campagna. Questo antagonismo
è, secondo Dühring, "inevitabile per la stessa natura
delle cose". Ma "in generale è pericoloso (...) immaginare
incolmabile (...) l'abisso tra agricoltura e industria. Infatti in
certa misura c'è già un costante passaggio che
promette di accentuarsi ancora considerevolmente nel futuro".
Nell'agricoltura e nella produzione agricola si sarebbero sin da
ora introdotte due industrie: "in prima linea la distillazione e
in seconda linea la preparazione dello zucchero da barbabietola
(...) la produzione degli alcolici è di significato tale da
essere piuttosto sottovalutata che sopravvalutata". E "se fosse
possibile che in conseguenza di alcune scoperte si costituisse una
notevole cerchia di industrie di tal genere da imporsi la
necessità di localizzarne l'esercizio nelle campagne e di
poggiare immediatamente sulla produzione delle materie prime", si
indebolirebbe perciò l'antagonismo tra città e
campagna e "sarebbero acquisite le basi più larghe per lo
sviluppo della civiltà". Tuttavia
"qualcosa di simile potrebbe pure aversi per una via ancora
diversa. Oltre che sulle necessità tecniche la questione
verte sempre più sui bisogni sociali, e se questi ultimi
sono decisivi per il raggruppamento delle attività umane,
non sarà più possibile trascurare quei vantaggi che
risultano da uno stretto legame sistematico tra le occupazioni
della campagna vera e propria e le operazioni di lavoro tecnico di
trasformazione".
Ora, nella comunità la questione verte precisamente sui
bisogni sociali, e quindi essa non si affretterà forse ad
appropriarsi nella misura più completa dei surricordati
vantaggi della riunione di agricoltura e industria? Dühring
non farà a meno di comunicarci, con l'ampiezza che egli
predilige, le sue "più esatte conclusioni" sulla posizione
che assume la comunità economica riguardo questo problema?
Il lettore che credesse a tutto questo sarebbe deluso. I luoghi
comuni di cui abbiamo parlato sopra, striminziti, impacciati, che
tornano sempre ad aggirarsi nel campo della distillazione
dell'acquavite e dello zucchero di barbabietola, campo in cui vige
il Landrecht prussiano, sono tutto ciò che Dühring sa
dirci dell'antagonismo di città e campagna per il presente
e per l'avvenire.
Passiamo alla divisione del lavoro in particolare. Qui
Dühring è già un po' "più esatto". Egli
parla di "una persona che deve consacrarsi esclusivamente ad un
genere di attività". Se si tratta di introdurre un nuovo
ramo di produzione la questione consiste semplicemente in questo:
se, cioè, si possano, per così dire, creare un certo
numero di esistenze che debbano dedicarsi alla produzione di un
articolo ed insieme al consumo (!) che per essi è
necessario. Un qualsiasi ramo di produzione nella socialità
"non impegnerà una popolazione molto numerosa". Anche nella
socialità ci sono "varietà economiche" di uomini
"che si distinguono l'uno dall'altro per il modo in cui vivono".
Conseguentemente nella sfera della produzione tutto resta
pressappoco nel vecchio ordine. Certo sinora regna nella
società una "falsa divisione del lavoro"; ma quanto a
sapere che cosa questa consista e da che cosa debba essere
sostituita nella comunità economica, apprendiamo solo
questo:
"Per quel che si riferisce alla stessa divisione del lavoro,
abbiamo già detto sopra che essa può considerarsi
risolta non appena si tenga conto delle opportunità
naturali e delle capacità personali diverse".
Accanto alle capacità risalta anche l'inclinazione
personale:
"Lo stimolo ad elevarsi ad attività che mettano in giuoco
migliori capacità e maggiore preparazione poggerebbe
esclusivamente sull'inclinazione che si sente per l'occupazione di
cui si tratta e sulla gioiadell'esercizio precisamente di questa
cosa" (esercizio di una cosa!) "e di nessun'altra".
Ma così nella socialità viene stimolata l'emulazione
e
"la produzione stessa acquisterà un interesse, e quello
stupido sfruttamento che la apprezza solo come mezzo per il
profitto non sarà più l'impronta dominante dello
stato delle cose".
In ogni società nella quale la produzione si sviluppa con
spontaneità naturale, e la società odierna è
di questo genere, non sono i produttori a dominare i mezzi di
produzione, ma i mezzi di produzione a dominare i produttori. In
una società siffatta ogni nuova leva della produzione si
muta necessariamente in un nuovo mezzo per l'asservimento dei
produttori ai mezzi di produzione. Questo vale anzitutto per
quella leva della produzione che sino all'introduzione della
grande industria è stata di gran lunga la più
potente: la divisione del lavoro. La prima grande divisione del
lavoro, la separazione di città e campagna, ha
immediatamente condannato la popolazione rurale all'istupidimento
per migliaia di anni e i cittadini all'asservimento di ogni
individuo al proprio mestiere individuale. Essa ha distrutto le
basi dello sviluppo spirituale degli uni e dello sviluppo fisico
degli altri. Se il contadino si appropria il suolo e il cittadino
si appropria il suo mestiere, nella stessa misura il suolo si
appropria del contadino e il mestiere si appropria l'artigiano.
Essendo diviso il lavoro, anche l'uomo è diviso. Tutte le
altre capacità fisiche e spirituali sono sacrificate alla
formazione di una sola attività. Questa minorazione
dell'uomo cresce nella stessa misura in cui cresce la divisione
del lavoro, che raggiunge il suo più alto sviluppo nella
manifattura. La manifattura scompone il mestiere nelle sue singole
operazioni parziali, assegna ciascuna di queste stesse operazioni
ad ogni singolo operaio come compito della sua vita e così
lo incatena vita natural durante ad una determinata azione
parziale e ad un determinato strumento.
"Storpia l'operaio e ne fa una mostruosità favorendone,
come in una serra, l'abilità di dettaglio, mediante la
soppressione di un mondo intero di impulsi e di disposizioni
produttive (...) L'individuo stesso vien diviso, vien trasformato
in motore automatico di un lavoro parziale" (Marx) [188],
un motore che in molti casi raggiunge la sua perfezione solo
mediante un letterale storpiamento spirituale e fisico
dell'operaio. Il macchinismo della grande industria degrada
l'operaio, da macchina, a semplice accessorio di una macchina.
"Dalla specialità di tutt'una vita, consistente nel
maneggiare uno strumento parziale, si genera la specialità
di tutt'una vita, consistente nel servire una macchina parziale.
Del macchinario si abusa per trasformare l'operaio stesso, fin
dall'infanzia, nella parte di una macchina parziale" (Marx) [189].
E non solo gli operai, ma anche le classi che sfruttano
direttamente o indirettamente gli operai vengono, dalla divisione
del lavoro, asservite allo strumento della loro attività:
il borghese dallo spirito squallido, al proprio capitale e alla
propria avidità di profitto; il giurista alle sue
incartapecorite idee giuridiche che lo dominano come un potere per
sé stante; i "ceti colti" in generale alle molteplici
meschinità o unilateralità del proprio ambiente,
alla loro miopia fisica e spirituale, al loro storpiamento
prodotto dall'educazione impostata secondo una specializzazione e
dall'incatenamento vita natural durante a questa specializzazione
stessa, anche se poi questa specializzazione è il puro far
niente.
Gli utopisti si erano già resi perfettamente conto degli
effetti della divisione del lavoro, della minorazione, da una
parte, dell'operaio e, dall'altra, della stessa attività
lavorativa, che viene ridotta ad una ripetizione che dura tutta la
vita, monotona, meccanica di un solo e medesimo atto. La
soppressione dell'antagonismo di città e campagna è
reclamata, tanto da Fourier quanto da Owen, come la prima e
fondamentale condizione della soppressione della vecchia divisione
del lavoro in generale. Per entrambi la popolazione deve esser
spezzettata, per il paese, in gruppi che vanno da milleseicento a
tremila, ogni gruppo abita, nel centro del proprio distretto, un
palazzo gigantesco con comune amministrazione. È vero che
Fourier parla qua e là di città, ma anche esse
constano, a loro volta, solo di quattro o cinque di tali palazzi,
situati vicini l'uno all'altro. In entrambi ogni membro della
società partecipa tanto all'agricoltura quanto
all'industria; in Fourier nell'industria hanno la parte principale
l'artigianato e la manifattura, in Owen invece questa parte
è rappresentata già dalla grande industria ed in lui
viene già reclamata l'introduzione del vapore e delle
macchine nel lavoro domestico. Ma anche all'interno, sia
dell'agricoltura che dell'industria, entrambi esigono per ciascun
individuo la massima variazione dell'occupazione, e
corrispondentemente l'assuefazione della gioventù ad
un'attività tecnica quanto più possibile
multilaterale. Per entrambi l'uomo deve svilupparsi in tutti i
lati mediante un'attività pratica universale, e il lavoro
deve recuperare quello stimolo dell'attrazione che la divisione
gli ha tolto, anzitutto mediante questa variazione di
attività e la corrispondente breve durata delle "sedute"
dedicate ad ogni singolo lavoro, per servirci di un'espressione di
Fourier [190]. Entrambi hanno di gran lunga sorpassata la
mentalità delle classi sfruttatrici ereditata da
Dühring, la quale ritiene l'antagonismo di città e
campagna inevitabile per la natura stessa delle cose, è
prigioniera di quella veduta limitata per cui un certo numero di
"esistenze" dovrebbero, in ogni caso, essere condannate a produrre
solo un articolo e vorrebbe eternare quelle "varietà
economiche" di uomini che si dividono tra loro per il modo in cui
vivono, gente che ha la propria gioia nell'esercizio precisamente
di questa e di nessun'altra cosa e che quindi è tanto
degradata da gioire del proprio asservimento e del proprio
unilaterale immiserimento. Di fronte alle idee fondamentali
contenute nelle pur stravaganti fantasie di quell'"idiota" di
Fourier, di fronte anche alle più meschine idee del "rozzo,
piatto e meschino" Owen, Dühring, ancora interamente
asservito alla divisione del lavoro, fa la figura di un nano
presuntuoso.
La società, impadronendosi di tutti i mezzi di produzione
per usarli socialmente e secondo un piano, distrugge il precedente
asservimento degli uomini ai loro propri mezzi di produzione.
Evidentemente la società non si può emancipare senza
che ogni singolo sia emancipato. Il vecchio modo di produzione
deve quindi essere rivoluzionato sin dalle fondamenta e
specialmente deve sparire la vecchia divisione del lavoro. Al suo
posto deve subentrare un'organizzazione della produzione in cui,
da una parte nessun singolo può scaricare sulle spalle di
altri la propria partecipazione al lavoro produttivo, fondamento
naturale dell'umana esistenza, in cui, dall'altra, il lavoro
produttivo, anziché mezzo per l'asservimento, diventa mezzo
per l'emancipazione degli uomini, poiché fornisce ad ogni
singolo l'occasione di sviluppare e di mettere in azione tutte
quante le sue capacità sia fisiche che spirituali in tutte
le direzioni: e in cui così il lavoro, da peso
diverrà gioia.
Tutto questo oggi non è più né una fantasia
né un pio desiderio. Con il presente sviluppo delle forze
produttive, l'incremento della produzione determinato dalla
socializzazione delle stesse forze produttive, l'eliminazione
degli ostacoli e dei turbamenti derivanti dal modo di produzione
capitalistico, e l'eliminazione dello sciupio dei prodotti e dei
mezzi di produzione, sono già sufficienti per ridurre,
posta una partecipazione generale al lavoro, il tempo di lavoro ad
una misura che, secondo le idee odierne, è minima.
Né egualmente la soppressione della vecchia divisione del
lavoro è un'esigenza che potrebbe attuarsi solo a spese
della produttività del lavoro. Al contrario. Essa è
diventata una condizione della stessa produzione, mediante la
grande industria.
"Il funzionamento a macchina elimina la necessità di
consolidare questa distribuzione come accadeva per la manifattura,
mediante l'appropriazione permanente dello stesso operaio alla
stessa funzione. Siccome il movimento complessivo della fabbrica
non parte dall'operaio ma dalla macchina, può aver luogo un
continuo cambiamento delle persone senza che ne derivi
un'interruzione del processo lavorativo (...) Infine, la
velocità con la quale il lavoro della macchina viene
appreso nell'età giovanile, elimina anche la
necessità di preparare una particolare classe di operai
esclusivamente al lavoro delle macchine." [191]
Ma mentre il modo con cui il capitalismo impiega il macchinario
perpetua necessariamente la vecchia divisione dellavoro con le sue
specializzazioni fossilizzate, malgrado queste siano diventate
tecnicamente superflue, lo stesso macchinismo si ribella a questo
anacronismo. La base tecnica della grande industria è
rivoluzionaria.
"Con le macchine, con i processi chimici e con altri metodi essa
sovverte costantemente, oltre alla base tecnica della produzione,
le funzioni degli operai e le combinazioni sociali del processo
lavorativo. Così essa rivoluziona con altrettanta costanza
la divisione del lavoro entro la società e getta
incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca
della produzione all'altra. Quindi la natura della grande
industria porta con sé variazione del lavoro,
fluidità delle funzioni, mobilità dell'operaio in
tutti i sensi (...) Si è visto come questa contraddizione
assoluta (...) si sfoghi nell'olocausto ininterrotto della classe
operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie
lavorative e nelle devastazioni derivanti dall'anarchia sociale.
Questo è l'aspetto negativo. Però, se ora la
variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge
naturale e con l'effetto ciecamente distruttivo di una legge
naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria,
con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento
della variazione dei lavori e quindi la maggiore
versatilità possibile dell'operaio come legge sociale
generale della produzione e l'adattamento delle circostanze
all'attuazione normale di tale legge, diventino una questione di
vita o di morte. Per essa diventa una questione di vita o di morte
sostituire a quella mostruosità che è una miserabile
popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il
variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la
disponibilità assoluta dell'uomo per il variare delle
esigenze del lavoro; sostituire all'individuo parziale, mero
veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'individuo
totalmente sviluppato, per il quale differenti funzioni sociali
sono modi di attività che si danno il cambio l'uno con
l'altro" (Marx, "Capitale") [192].
La grande industria, insegnandoci a trasformare il movimento di
molecole, che più o meno si può realizzare dovunque,
in un movimento di masse per fini tecnici, ha in notevole misura
emancipato la produzione dai limiti di luogo. La forza idraulica
era legata ad un luogo, la forza del vapore è libera. Se la
forza idraulica appartiene necessariamente alla campagna, la forza
del vapore non appartiene affatto necessariamente alla
città. È la sua utilizzazione capitalistica a
concentrarla prevalentemente nella città e a trasformare i
villaggi industriali in città industriali. Ma con
ciò essa distrugge ad un tempo le condizioni del suo
proprio sfruttamento. La prima esigenza della macchina a vapore, e
l'esigenza principale di quasi tutti i rami di sfruttamento della
grande industria, è un'acqua relativamente pura. Ma la
città industriale trasforma qualsiasi acqua il fetido
liquido di scolo. Quindi nella misura in cui la concentrazione
urbana è la condizione fondamentale della produzione
capitalistica, nella stessa misura ogni singolo capitalista
industriale tende costantemente ad abbandonare le grandi
città, create dalla produzione capitalistica, per andare ad
esercitare lo sfruttamento industriale in campagna. Questo
processo si può studiare nei suoi particolari nei distretti
dell'industria tessile del Lancashire e dello Yorkshire; la grande
industria capitalistica crea in quei luoghi sempre nuove grandi
città, perché costantemente fugge dalla città
verso la campagna. Lo stesso accade nei distretti dell'industria
metallurgica, dove, talvolta, cause diverse producono gli stessi
effetti.
Ancora una volta, solo la soppressione del carattere capitalistico
dell'industria moderna permette la soppressione di questo nuovo
circolo vizioso, di questa contraddizione costantemente
riproducentesi dell'industria moderna, solo una società che
faccia ingranare, armoniosamente, le une nelle altre le sue forze
produttive, secondo un solo grande piano, può permettere
all'industria di stabilirsi in tutto il paese con quella
dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e
alla sua conservazione, ovvero allo sviluppo, degli altri elementi
della produzione.
Conseguentemente la soppressione dell'antagonismo di città
e campagna non solo è possibile, ma è divenuta una
diretta necessità della stessa produzione industriale,
così come è diventata del pari una necessità
della produzione agricola ed inoltre dell'igiene pubblica. Solo
con la fusione di città e campagna può essere
eliminato l'attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con
questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città
saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti saranno
adoperati per produrre le piante e non le malattie.
L'industria capitalistica si è già resa
relativamente indipendente dai limiti locali dei luoghi di
produzione delle sue materie prime. La sua industria tessile
elabora materie prime importate in gran quantità. Minerali
ferrosi spagnoli vengono lavorati in Inghilterra e in Germania,
minerali di rame spagnoli e sudamericani vengono lavorati in
Inghilterra. Ogni giacimento carbonifero rifornisce di
combustibile molto al di là dei suoi confini un distretto
industriale, che si accresce ogni anno. Su tutte le coste europee
macchine a vapore vengono messe in azione da carbone inglese ed in
parte da carbone tedesco e belga. La società emancipata dai
limiti della produzione capitalistica può andare ancora
molto più avanti. Producendo una generazione di produttori
provvisti di un'educazione sviluppata in tutti i sensi, i quali
intendano le basi scientifiche di tutta la produzione industriale
e ognuno dei quali abbia praticamente percorso da cima a fondo
tutta una serie di rami della produzione, essa crea una nuova
forza produttiva che compensa largamente il lavoro richiesto per
il trasporto a grandi distanze di materie prime e di combustibili.
La soppressione della separazione di città e campagna non
è dunque un'utopia, neanche sotto l'aspetto per cui essa ha
come sua condizione la distribuzione più omogenea possibile
della grande industria in tutto il paese. Laciviltà ci ha
senza dubbio lasciato nelle grandi città un'eredità
la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica. Ma
esse debbono essere e saranno eliminate, anche se questa
eliminazione sarà un processo molto laborioso. Qualunque
sia il destino riservato all'impero tedesco della nazione
prussiana, Bismarck potrà discendere la tomba con la fiera
coscienza che il desiderio del suo cuore, il tramonto delle grandi
città, sarà certamente appagato [193].
Ed ora si veda quanto sia puerile l'idea di Dühring che la
società possa prender possesso della totalità dei
mezzi di produzione senza rivoluzionare dalle fondamenta il
vecchio modo di produrre e, anzitutto, senza abolire la vecchia
divisione del lavoro; che tutto sia apposto non appena "si tenga
conto delle opportunità naturali e delle capacità
personali", mentre poi intere masse di uomini restano come prima
asservite alla produzione di un solo articolo, intere
"popolazioni" vengono impiegate in un singolo ramo di produzione e
l'umanità continua a dividersi come prima in un numero di
differenti "varietà economiche" storpiate, quali, ad es.,
"carrettieri" e "architetti". La società dovrebbe diventare
padrona dei mezzi di produzione in toto, perché ogni
individuo resti schiavo del suo mezzo di produzione. E si veda del
pari come Dühring consideri la separazione di città e
campagna "inevitabile per la stessa natura delle cose" e come
possa scoprire solo un piccolo palliativo nei due rami che insieme
costituiscono un binomio tipicamente prussiano: la distillazione
dell'acquavite e la produzione dello zucchero di barbabietola. Si
veda come egli faccia dipendere la dislocazione dell'industria nel
paese da qualche scoperta futura e dalla necessità di far
poggiare l'industria direttamente sull'estrazione delle materie
prime -delle materie prime che già ora sono usate a
distanza sempre maggiore dal loro luogo d'origine!- e come
finalmente cerchi di coprirsi le spalle con l'assicurazione che i
bisogni sociali imporranno, alla fine, il legame tra l'agricoltura
e l'industria sia pure contro le considerazioni economiche, come
se così si compiesse un sacrificio economico.
Certo, per capire che gli elementi rivoluzionari, i quali
elimineranno la vecchia divisione del lavoro insieme con la
separazione di città e campagna e rivoluzioneranno tutta la
produzione, sono già contenuti in germe nelle condizioni
della produzione della grande industria moderna e che il loro
sviluppo viene ostacolato dall'attuale modo di produzione
capitalistico; per capire questo, bisogna avere un orizzonte un
po' più vasto di quello del dominio in cui vige il
Landrecht prussiano, il paese nel quale grappa e zucchero di
barbabietola sono i prodotti-base dell'industria e le crisi
commerciali si possono studiare sul mercato librario. Per questo
bisogna conoscere la grande industria reale nella sua storia e
nella sua realtà attuale, specialmente in quel paese in cui
solo essa ha la sua patria e in cui solo ha raggiunto il suo
classico sviluppo; e allora non si potrà neppure pensare di
impoverire il socialismo scientifico moderno e di avvilirlo al
livello del socialismo tipicamente prussiano di Dühring.
Note
*12. La spiegazione delle crisi mediante il sottoconsumo deriva da
Sismondi e in lui ha ancora un certo senso. Rodbertus l'ha presa a
prestito da Sismondi e a sua volta Dühring l'ha copiata da
Rodbertus nella abituale maniera che tutto rende banale.
188. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 404.
189. Ibid. p. 466.
190. Charles Fourier, "Le nouveau monde...", capp. II, V, VI.
191. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 465.
192. Ibid. pp. 533-535.
193. Con ogni probabilità Engels allude al discorso
pronunciato il 20 marzo 1852 da Bismarck alla Camera dei deputati
della Dieta prussiana (nella quale era deputato dal 1849).
Bismarck espresse l'odio dei grandi proprietari fondiari prussiani
contro le grandi città, quali centro del movimento
rivoluzionario, dicendo che diffidava di esse città
poiché in esse non viveva il vero popolo prussiano.
"Questo, anzi, se le grandi città dovessero sollevarsi di
nuovo, saprà ridurle all'obbedienza, e dovrebbe cancellarle
dalla faccia della terra."
Abbiamo già visto precedentemente che l'economia politica
dühringiana sbocca nella seguente formulazione: il modo di
produzione capitalistico va bene e può continuare a
esistere, mentre il modo di distribuzione capitalistico è
del maligno e deve sparire. Troviamo ora che la "socialità"
di Dühring non è altro che l'attuazione di questo
principio nella fantasia. In effetti si è visto che
Dühring non ha quasi assolutamente niente da eccepire contro
il modo di produzione, come tale, della società
capitalistica; che egli vuol conservare la vecchia divisione del
lavoro in tutti i rapporti essenziali e che perciò a stento
ha da dire una sola parola anche riguardo alla produzione in seno
alla sua comunità economica. La produzione è certo
un campo in cui si tratta di fatti concreti e in cui perciò
la "fantasia razionale" può dare solo poco spazio al colpo
d'ala della sua anima libera [194], perché il periodo di
fare una figuraccia è troppo vicino. Per contro la
distribuzione, che, secondo il modo di vedere di Dühring, non
ha assolutamente nessun rapporto con la produzione e che, secondo
lui, non è determinata dalla produzione, ma da un puro atto
della volontà, la distribuzione è il campo
predestinato alla sua "alchimia sociale".
All'eguale dovere di produzione corrisponde l'eguale diritto di
consumo, organizzato nella comunità economica e nella
comunità commerciale che comprende un maggior numero di
comunità economiche.
Qui il "lavoro viene scambiato con altro lavoro secondo il
principio dell'eguale valutazione (...) Prestazione e
controprestazione rappresentano qui eguaglianza reale delle
quantità di lavoro".
E precisamente questa "parificazione delle forze umane" vige "se
gli individui hanno potuto produrre più o meno o, per caso,
anche niente"; infatti si può riguardare come prestazione
di lavoro ogni occupazione che esiga tempo e forze e quindi anche
il giocare a birilli e il passeggiare. Ma questo scambio non ha
luogo tra i singoli, perché è la collettività
quella che possiede tutti i mezzi di produzione e quindi anche
tutti i prodotti: esso ha luogo invece da una parte tra ogni
comunità economica e i suoi membri e dall'altra fra le
diverse comunità economiche ecommerciali stesse.
"specialmente le singole comunità economiche entro il
proprio ambito sostituiranno il piccolo commercio con uno smercio
completamente pianificato." Del pari il commercio viene
organizzato all'ingrosso:
"Il sistema della libera società economica (...) resta
dunque una grande istituzione di scambio, le cui operazioni si
compiono per mezzo delle basi fornite dai metalli nobili. La
conoscenza della imprescindibile necessità di questa
qualità fondamentale distingue il nostro schema da tutte
quelle nebulosità cui sono affette anche le forme
più razionali delle idee socialiste oggi correnti".
La comunità economica, in quanto è la prima ad
appropriarsi i prodotti sociali, deve, in vista di questo scambio,
fissare "un prezzo unitario per ogni genere di articoli" secondo i
costi medi di produzione.
"Ciò che ora per il valore e il prezzo (...) significano i
così detti costi naturali di produzione" (nella
socialità) "(...) sarà indicato dal calcolo della
quantità di lavoro da erogare. Questi calcoli che, secondo
il principio dell'eguale diritto di ogni persona, anche nel campo
dell'economia, si possono ridurre in definitiva alla
considerazione del numero delle persone che partecipano al lavoro,
forniranno il rapporto dei prezzi corrispondente ad un tempo alle
condizioni naturali della produzione e al diritto sociale di
valorizzazione. La produzione dei metalli nobili resterà,
come oggi, decisiva per la determinazione del valore del denaro
(...) Si vede da qui che, nella mutata costituzione della
società, la base determinante e, anzitutto, la misura dei
valori e quindi dei rapporti con cui i prodotti si scambiano tra
loro, non solo non vengono perdute, ma per la prima volta prendono
il loro giusto posto."
Il famoso "valore assoluto" è finalmente divenuto
realtà.
Ma ora, d'altra parte, la comunità dovrà anche porre
i singoli in condizione di comprare da essa gli articoli prodotti,
pagando a ciascuno una certa somma giornaliera, settimanale,
mensile, che per ciascuno dovrà essere eguale, come
contropartita per il suo lavoro. "È perciò
indifferente dal punto di vista della socialità il dire che
il salario deve sparire o che deve diventare la forma esclusiva di
reddito economico." Ma eguali salari e eguali prezzi formano
l'"eguaglianza quantitativa, se non qualitativa, del consumo" e
con ciò il "principio universale di giustizia" è
realizzato sul piano dell'economia. Sulla determinazione del tasso
di questo salario dell'avvenire Dühring ci dice solo che
anche qui, come in tutti gli altri casi, si scambia "eguale lavoro
con eguale lavoro". Per un lavoro di sei ore deve essere pagata
una somma di denaro che incorpora in sé parimente sei ore
lavorative.
Tuttavia il "principio universale di giustizia" non si deve in
nessun modo scambiare con quel rozzo livellamento che tanto spesso
fa irritare il borghese contro ogni comunismo e specialmente
contro ogni comunismo spontaneo degli operai. La cosa non è
poi così tremenda come vorrebbe apparire.
"L'eguaglianza di principio delle rivendicazioni
economico-giuridiche non esclude che spontaneamente si aggiunga a
quello che la giustizia esige, anche una espressione di
riconoscimento e di onore particolari (...) La società
onora se stessa, contrassegnando le prestazioni di specie
superiore con una possibilità moderatamente superiore di
consumo."
E anche Dühring onora se stesso allorché, fondendo
l'innocenza della colomba e l'astuzia del serpente, dimostra una
premura così commovente per il moderato sovraconsumo dei
Dühring dell'avvenire.
Con ciò tutto il modo di distribuzione capitalistico
è definitivamente eliminato. Infatti
"posto che, presupponendosi un tale stato di cose, qualcuno avesse
realmente un'eccedenza di mezzi privati a sua disposizione, non
potrebbe per essi trovare il modo di usarli in forma di capitale.
Nessun individuo e nessun gruppo potrebbe acquistare da lui questi
mezzi per la produzione, tranne che per via di scambio o di compra
e non sarebbe mai in condizione di pagargli interessi o profitti".
Di conseguenza è ammissibile "un'ereditarietà
adeguata al principio di eguaglianza". Essa è inevitabile:
infatti "una certa ereditarietà accompagnerà sempre
necessariamente il principio familiare". Neanche il diritto
ereditario potrà "portare ad una accumulazione di fortune
considerevoli, infatti qui la formazione di proprietà (...)
in specie, non potrà mai più avere il fine di creare
mezzi di produzione ed esistenze fondate su pure rendite".
E così la comunità economica sarebbe felicemente
sistemata. Vediamo ora come funziona amministrativamente.
Ammetteremo che tutte le supposizioni di Dühring siano
completamente realizzate; supporremo quindi che la comunità
economica paghi a tutti i suoi membri per un lavoro di sei ore una
somma di denaro nella quale siano del pari incorporate sei ore di
lavoro, mettiamo dodici marchi. Ammetteremo egualmente che i
prezzi corrispondano con esattezza ai valori, e che quindi nei
nostri presupposti abbraccino solo i costi delle materie prime,
l'usura delle macchine, il consumo dei mezzi di lavoro e il
salario pagato. Una comunità economica di cento membri che
lavorano, produce allora generalmente merci per un valore di 1.200
marchi e nell'anno, in 300 giorni lavorativi, merci per 360.000
marchi e paga questa stessa somma ai suoi membri, ciascuno dei
quali fa quello che crede della sua parte di 12 marchi giornalieri
o 3.600 annui. Alla fine dell'anno o alla fine di cento anni la
comunità non è più ricca di quanto era al
principio. Durante questo tempo essa non sarà mai in
condizione di fornire la possibilità moderatamente
superiore di consumo di cui parla Dühring, a meno che non
voglia intaccare il suo fondo di mezzi di produzione.
L'accumulazione è stata totalmente dimenticata. Ma
c'è ancora di peggio: poiché l'accumulazione
è una necessità sociale e nella conservazione del
denaro si ha una comoda forma di accumulazione, l'organizzazione
della comunità economica spinge direttamente i suoi membri
all'accumulazione privata e conseguentemente alla propria
distruzione.
Come ovviare a questo dissidio nella natura della comunità
economica? Essa potrebbe rifugiarsi nel suo diletto "tributo", nel
rialzo dei prezzi e vendere la sua produzione annua anziché
per 360.000 marchi per 480.000 marchi. Ma poiché tutte le
altre comunità economiche sono nella stessa condizione, e
dovrebbero quindi fare la stessa cosa, ciascuna nello scambio con
le altre dovrebbe pagare un "tributo" pari a quello che incassa e
il "tributo" cadrebbe quindi solo sui propri membri.
O invece essa taglia la testa al toro, pagando ad ogni membro per
il lavoro di sei ore il prodotto di meno di sei ore di lavoro,
poniamo di quattro ore di lavoro, quindi invece di 12 marchi solo
8 marchi al giorno, lasciando però sussistere i prezzi
delle merci al vecchio livello. In questo caso fa direttamente e
scopertamente ciò che nel caso precedente faceva
nascostamente e per via indiretta: essa costituisce un plusvalore,
secondo Marx, del valore di 120.000 marchi annui, pagando i suoi
membri in maniera assolutamente capitalistica al di sotto del
valore della loro prestazione e inoltre computando loro le merci
che essi possono comprare solo da essa al pieno valore. La
comunità economica può dunque arrivare ad un fondo
di riserva solo svelandosi quale un truksystem [*13] "nobilitato"
sulla base comunista più larga.
Quindi una delle due: o la comunità economica scambia
"lavoro eguale con lavoro eguale", e allora non essa ma i privati
possono accumulare un fondo per il mantenimento e l'estensione
della produzione. O invece essa forma un tale fondo e allora non
cambia "lavoro eguale con lavoro eguale".
Così nella comunità economica stanno le cose per il
contenuto dello scambio. E come stanno per la forma? Lo scambio si
effettua mediante moneta metallica e Dühring si dà non
poco vanto della "portata storica per l'umanità" di questo
miglioramento. Ma nello scambio tra la comunità e i suoi
membri il denaro non è affatto denaro, non funge affatto da
denaro. Esso serve da puro certificato di lavoro, esso constata,
per dirla con Marx, "soltanto la partecipazione individuale del
produttore al lavoro comune e il suo diritto individuale alla
parte del prodotto comune destinata al consumo", ed in questa
funzione esso "è 'denaro' tanto poco quanto è denaro
per es. uno scontrino per il teatro" [195]. Esso può essere
sostituito da un segno qualsivoglia, come Weitling lo sostituiva
con un "libro di commercio", in cui in una pagina venivano
registrate le ore di lavoro e nell'altra i godimenti che se ne
traggono [196]. In breve il denaro ha nello scambio della
comunità economica con i suoi membri la stessa funzione
dell'oweniana "moneta dell'ora di lavoro", questa "fantasticheria"
che Dühring guardava tanto dall'alto in basso e che tuttavia
è costretto egli stesso ad introdurre nella sua economia
dell'avvenire. Che il buono che indica la natura in cui il "dovere
di produzione" è stato compiuto e il "diritto di consumo"
che con ciò si è acquisito, sia un pezzo di carta,
una moneta di conto o un pezzo d'oro resta assolutamente
indifferente per questo fine. Per altri fini invece, come si
dimostrerà, non lo è affatto.
Se quindi la moneta metallica, già nello scambio tra la
comunità economica e i suoi membri non funge da denaro, ma
da buono di lavoro camuffato, ancora meno adempie la sua funzione
monetaria nello scambio tra le diverse comunità economiche.
Qui, dati i presupposti di Dühring, la moneta metallica
è totalmente superflua. In effetti, basterebbe una semplice
registrazione, che, calcolando con il tempo, misura naturale del
lavoro, l'unità dell'ora lavorativa, compi lo scambio di
prodotti di eguale lavoro con prodotti di eguale lavoro in un modo
molto più semplice che non traducendo prima in denaro le
ore lavorative. Lo scambio è in realtà un semplice
scambio in natura; tutte le richieste in eccedenza sono facilmente
e semplicemente compensabili mediante tratte su altre
comunità. Ma se una comunità dovesse realmente avere
un deficit di fronte ad altre comunità, tutto "l'oro
esistente nel mondo", fosse pure "denaro per natura", non potrebbe
risparmiare a questa comunità la sorte di coprire questo
deficit aumentando il proprio lavoro, a meno che non voglia cadere
in una condizione di dipendenza, a causa di debiti, da altre
comunità. Il lettore del resto abbia sempre ben presente
che noi qui non facciamo affatto delle costruzioni avveniristiche.
Noi accettiamo semplicemente i presupposti di Dühring e ne
tiriamo solo le inevitabili conseguenze.
Quindi né nello scambio tra la comunità economica e
i suoi membri, né in quello tra le diverse comunità,
l'oro, che "per natura è denaro", può arrivare a
realizzare questa sua natura. Tuttavia Dühring gli prescrive
di compiere una funzione monetaria anche "nella socialità".
Dobbiamo quindi cercare un altro campo per questa funzione
monetaria. E questo campo esiste. Dühring, certo, dà a
ciascuno una capacità di "consumo quantitativamente
eguale", ma non può costringervi nessuno. Al contrario,
egli è fiero che nel suo mondo ciascuno possa fare quello
che vuole del suo denaro. Egli non può dunque impedire che
gli uni mettano da parte un piccolopeculio, mentre gli altri non
possono tirare avanti col salario che vien loro pagato. E rende
questo fatto perfino inevitabile, poiché egli riconosce
espressamente nel diritto ereditario la proprietà comune
della famiglia, da cui discende inoltre il dovere dei genitori di
allevare la prole. Ma così il consumo quantitativamente
eguale viene compromesso. Lo scapolo vivrà da signore con i
suoi otto o dodici marchi giornalieri, mentre il vedovo con otto
figli riuscirà a campare con grandi stenti. D'altra parte
la comunità economica, accettando senz'altro il pagamento
in monete, lascia aperta la possibilità che questo denaro
venga guadagnato diversamente che col proprio lavoro. Non olet
[Non puzza] [197]. Essa non sa da dove viene. Ma così sono
poste tutte le condizioni perché la monetametallica, che
sinora ha avuto solo la funzione di buono di lavoro, possa
presentarsi in reale funzione di denaro. Sussistono l'occasione e
il motivo, da una parte, per la tesaurizzazione e, dall'altra, per
l'indebitamento. Il bisognoso prende a prestito dal
tesaurizzatore. Il denaro preso a prestito è accettato
dalla comunità in pagamento per mezzi di sussistenza,
diventa di nuovo ciò che è nella società
odierna: incarnazione sociale del lavoro umano, reale misura del
lavoro, mezzo universale di circolazione. Tutte "le leggi e le
norme amministrative" del mondo sono altrettanto impotenti contro
tutto ciò, quanto contro la tavola pitagorica o la
composizione chimica dell'acqua. E poiché il tesaurizzatore
è in condizione di estorcere interessi al bisognoso, con la
moneta metallica che funge da denaro viene anche ristabilita
l'usura.
Sin qui noi abbiamo considerato solo gli effetti del mantenimento
della moneta metallica all'interno dell'area in cui vige la
comunità economica di Dühring. Ma al di là di
quest'area il resto del maledetto mondo continua frattanto
tranquillamente a camminare come prima. Oro e argento restano sul
mercato mondiale moneta universale, mezzo universale di acquisto e
pagamento, incarnazione assolutamente sociale della ricchezza. E
con questa qualità del metallo nobile appare ai singoli
membri della comunità economica una nuova spinta per la
tesaurizzazione, per l'arricchimento, per l'usura, la spinta per
muoversi liberamente e indipendentemente di fronte alla
comunità al di là dei suoi confini e per sfruttare
sul mercato mondiale la ricchezza individuale accumulata. Gli
usurai si trasformano in uomini che esercitano il commercio col
mezzo di circolazione, in banchieri, in dominatori del mezzo di
circolazione e del denaro che ha corso in tutto il mondo e
conseguentemente in dominatori della produzione e quindi anche dei
mezzi di produzione, anche se questi ancora per anni figurano,
nominalmente, proprietà della comunità economica e
della comunità commerciale. Ma con ciò
teusarizzatori e usurai trasformati in banchieri sono sempre i
padroni della comunità economica e della comunità
commerciale stessa. La "socialità" di Dühring si
distingue in effetti in modo molto sostanziale dalla
"nebulosità" degli altri giornalisti. Essa non ha altro
fine che la rigenerazione dell'alta finanza, sotto il controllo, e
per conto della quale, essa valorosamente si ammazzerà di
lavoro, posto che in generale si costituisca e si mantenga. La
sola salvezza per essa sarebbe che i teusarizzatori preferissero
affrettarsi col loro denaro che ha corso in tutto il mondo a...
fuggirsene dalla comunità.
Data la diffusa ignoranza, dominante in Germania, sul vecchio
socialismo, un innocente giovane potrebbe ora porre la domanda se
anche, per es., i buoni di lavoro oweniani non potrebbero dar
luogo ad un abuso analogo. Sebbene noi non dobbiamo spiegare qui
il significato di questi buoni di lavoro, tuttavia per raffrontare
l'"ampio schematismo" di Dühring con le "idee rozze, piatte e
meschine" di Owen può non essere fuori luogo quanto segue.
Anzitutto per un tale abuso dei buoni di lavoro di Owen sarebbe
necessaria la loro trasformazione in moneta reale, mentre
Dühring presuppone una moneta reale, ma vuole proibirle di
fungere altrimenti che da semplice buono di lavoro. Mentre nel
primo caso avrebbe luogo un reale abuso, nel secondo si realizza
la natura propria della moneta, indipendentemente dalla
volontà umana, e la moneta realizza il suo giusto uso,
quello che le è proprio, di fronte all'abuso che
Dühring vuole imporre, in virtù della sua propria
ignoranza sulla natura della moneta. In secondo luogo in Owen i
buoni di lavoro sono solo una forma di transizione alla
comunità perfetta e alla libera utilizzazione delle risorse
sociali e, accessoriamente, sono tutt'al più anche un mezzo
per rendere accettabile il comunismo anche al pubblico britannico.
Se dunque un qualche abuso dovesse costringere la società
oweniana ad abolire i buoni di lavoro, questa farebbe solo un
altro passo avanti verso il suo fine ed entrerebbe in una fase
più perfetta di sviluppo. Se invece la comunità
economica dühringiana abolisce la moneta, essa distrugge in
un colpo la sua "portata storica per l'umanità", elimina la
sua bellezza più peculiare, cessa di essere comunità
economica dühringiana e affoga in quelle nebulosità
per liberarla dalle quali Dühring ha erogato tanto aspro
lavoro della sua razionale fantasia [*14].
Ma da dove ora sorgono tutti i singolari errori e tutte le
singolari confusioni in cui si aggira la comunità economica
dühringiana? Semplicemente dalla nebulosità che
sviluppano nella testa di Dühring i concetti di valore e di
moneta e che lo conduce finalmente a volere scoprire il valore del
lavoro. Ma poiché Dühring non possiede affatto il
monopolio di tali nebulosità per la Germania, e trova
invece numerosa concorrenza, noi vogliamo "metterci d'impegno per
un momento a sbrogliare la matassa" che egli qui ha combinato.
L'unico valore che l'economia conosca è il valore delle
merci. Che cosa sono le merci? Prodotti creati in
unasocietà di produttori privati più o meno
individuali, quindi anzitutto prodotti privati. Ma questi prodotti
privati diventano merci solo non appena essi vengono prodotti non
per il consumo proprio, ma per il consumo di altri e dunque per il
consumo sociale; essi entrano nel consumo sociale per mezzo dello
scambio. I produttori privati stanno dunque in un nesso sociale,
costituiscono una società. I loro prodotti, sebbene
prodotti privati di ciascun individuo, sono perciò ad un
tempo, ma senza volere e per così dire contro voglia, anche
prodotti sociali. Ma in che cosa consiste il carattere sociale di
questi prodotti privati? Evidentemente in due proprietà: in
primo luogo nel fatto che tutti appagano qualche bisogno umano ed
hanno un valore di uso non solo per i produttori ma anche per gli
altri; e in secondo luogo nel fatto che essi, sebbene prodotti dei
più diversi lavori privati, sono ad un tempo prodotti di
lavoro umano puro e semplice, sono lavoro genericamente umano. In
quanto hanno un valore di uso anche per altri, essi possono in
genere entrare nello scambio; in quanto in tutti è
racchiuso lavoro genericamente umano, semplice erogazione di
forza-lavoro umano, essi possono, secondo la quantità di
questo lavoro che è racchiusa in ciascuno, essere
raffrontati l'uno con l'altro nello scambio, essere posti come
eguali o diseguali. In due prodotti privati eguali, restando
eguali le condizioni sociali, può essere racchiusa una
quantità diseguale di lavoro privato, ma sempre solo una
quantità eguale di lavoro genericamente umano. Un fabbro
incapace può fare cinque ferri da cavallo nello stesso
tempo in cui uno capace ne fa dieci. Ma la società non
attribuisce un valore alla casuale incapacità dell'uno,
essa riconosce come lavoro genericamente umano solo il lavoro che
di volta in volta è fornito da capacità media
normale. Uno dei cinque ferri di cavallo del primo non ha quindi
nello scambio più valore di uno dei dieci forgiati
dall'altro nello stesso tempo. Il lavoro privato contiene lavoro
genericamente umano solo in quanto è socialmente
necessario.
Dicendo che una merce ha questo determinato valore io dico: 1. che
essa è un prodotto socialmente utile; 2. che essa è
prodotta da una persona privata per conto di privati; 3. che essa,
malgrado sia prodotto di lavoro privato, tuttavia, nello stesso
tempo e, per così dire, senza saperlo o volerlo, è
anche un prodotto di lavoro sociale e precisamente di una
quantità determinata di esso, fissata per via sociale,
mediante lo scambio; 4. io esprimo questa quantità non in
lavoro stesso, in tante e tante ore di lavoro, ma in un'altra
merce. Se io dico quindi che questo orologio vale quanto questo
pezzo di stoffa e che ognuno dei due vale cinquanta marchi, dico
che nell'orologio, nella stoffa e nel denaro è racchiuso
altrettanto lavoro sociale. Constato dunque che il tempo di lavoro
sociale rappresentato in essi è stato misurato socialmente
ed è stato trovato eguale. Ma non direttamente,
assolutamente, come altrimenti si misura un tempo di lavoro in ore
o giorni di lavoro ecc., bensì indirettamente, per mezzo
dello scambio, in modo relativo. Io non posso perciò
neanche esprimere questo quantum stabilito di tempo di lavoro in
ore di lavoro, il cui numero mi resta ignoto, ma del pari, solo
indirettamente, in modo relativo, con un'altra merce che
rappresenta il quantum eguale di tempo di lavoro sociale.
L'orologio vale quanto un pezzo di stoffa.
Ma poiché la produzione e lo scambio delle merci
costringono la società basata su di essi a questa via
indiretta, la costringono del pari a raccorciarla il più
possibile. Essi scelgono dalla massa di merci comuni una merce
sovrana, in cui una volta per sempre è esprimibile il
valore di tutte le altre merci, una merce che vale come immediata
incarnazione del lavoro sociale e che perciò diventa
immediatamente e incondizionatamente scambiale con tutte le altre
merci: il denaro. Il denaro è già contenuto in germe
nel concetto di valore, esso è solo il valore sviluppato.
Ma poiché il valore delle merci assume nel denaro
un'esistenza indipendente di fronte alle merci stesse, un nuovo
fattore appare nella società che produce e scambia merci,
un fattore con funzioni ed effetti nuovi. Noi per ora dobbiamo
stabilire solo questo punto senza occuparcene maggiormente.
L'economia della produzione di merci non è affatto l'unica
scienza che deve fare i conti con fattori solo relativamente noti.
Anche nella fisica noi non sappiamo quante singole molecole
gassose sono presenti in un volume determinato di gas, di cui
siano date anche pressione e temperatura. Ma sappiamo che, nei
limiti in cui la legge di Boyle è esatta, un volume
determinato di gas contiene un numero di molecole eguale a quello
che contiene un pari volume di un altro gas qualsivoglia a pari
pressione e temperatura. Noi possiamo perciò paragonare,
quanto al loro contenuto molecolare, i più diversi volumi
dei più diversi gas alle più diverse condizioni di
pressione e di temperatura e se ammettiamo come unità un
litro di gas a 0° centigradi e 760 di pressione, possiamo con
questa unità misurare quel contenuto molecolare. Nella
chimica i pesi atomici assoluti dei singoli elementi ci sono
egualmente ignoti, ma li conosciamo in modo relativo poiché
conosciamo i loro rapporti reciproci. Come quindi la produzione di
merci e la sua economia ottengono un'espressione relativa per le
quantità di lavoro, ad esse sconosciute, racchiuse nelle
singole merci, mettendo a raffronto queste merci sulla base del
lavoro relativamente contenuto in esse, così la chimica si
procura un'espressione relativa per la grandezza dei pesi atomici
ad essa sconosciuti, mettendo a raffronto i singoli elementi sulla
base del loro peso atomico ed esprimendo il peso atomico dell'uno
in multipli e sottomultipli dell'altro (zolfo, ossigeno,
idrogeno). E come la produzione di merci eleva l'oro a merce
assoluta, a universale equivalente delle altre merci, a misura di
tutti i valori, così la chimica eleva l'idrogeno a moneta
della chimica ponendo il suo peso atomico = 1, riducendo i pesi
atomici di tutti gli altri elementi a idrogeno ed esprimendoli in
multipli del peso atomico dell'idrogeno.
Tuttavia la produzione di merci non è affatto la forma
esclusiva di produzione sociale. Nell'antica comunità
indiana, nella comunità familiare degli slavi del sud, i
prodotti non si trasformano in merci. I membri della
comunità sono direttamente riuniti in società per la
produzione, il lavoro viene diviso a seconda della tradizione e
dei bisogni ed egualmente i prodotti, nella misura in cui arrivano
al consumo. La produzione immediatamente sociale, così come
la distribuzione diretta, escludono ogni scambio di merci, quindi
anche la trasformazione dei prodotti in merci (almeno all'interno
della comunità) e conseguentemente escludono anche la loro
trasformazione in valori.
Non appena la società entra in possesso dei mezzi di
produzione e, socializzandoli immediatamente, li usa per la
produzione, il lavoro di ciascuno, per quanto possa essere diverso
il suo carattere specifico di utilità, diventa a priori
direttamente lavoro sociale. La quantità di lavoro sociale
racchiusa in un prodotto non ha bisogno allora di essere fissata
solo indirettamente; l'esperienza giornaliera indica direttamente
quanto lavoro è necessario in media. La società
può semplicemente calcolare quante ore di lavoro sono
contenute in una macchina a vapore, in un ettolitro di frumento
dell'ultimo raccolto, in cento metri quadrati di stoffa di una
qualità determinata. Né potrebbe quindi venirle in
mente di esprimere le quantità di lavoro depositate nei
prodotti e che essa conosce direttamente e assolutamente con una
misura inoltre solo relativa, oscillante, insufficiente,
precedentemente inevitabile come espediente, con un terzo prodotto
e cioè non con la misura naturale adeguata, assoluta, il
tempo. Egualmente non verrebbe in mente alla chimica di esprimere
i pesi atomici ancora in modo relativo, passando per l'atomo di
idrogeno non appena essa fosse in condizione di esprimerli nella
loro misura adeguata, ossia in pesi reali, in bilionesimi o
quadrilionesimi di grammo. Date le premesse sopracitate, la
società non assegna neppure dei valori ai prodotti. Essa
non esprimerà il fatto semplice che i cento metri quadrati
di stoffa hanno richiesto per es. mille ore di lavoro per la loro
produzione, dicendo in una maniera sciocca e assurda che essi
hanno il valore di mille ore di lavoro. Certo anche allora la
società dovrà sapere quanto lavoro richiede ogni
oggetto di uso per la sua produzione. Essa dovrà
organizzare il piano di produzione secondo i mezzi di produzione,
ai quali appartengono, in modo particolare, anche le forze-lavoro.
Il piano, in ultima analisi, sarà determinato dagli effetti
utili dei diversi oggetti di uso considerati in rapporto tra di
loro e in rapporto della quantità di lavoro necessaria alla
loro produzione. Gli uomini sbrigheranno ogni cosa in modo assai
semplice senza l'intervento del famoso "valore" [*15].
Il concetto di valore è l'espressione più generale e
perciò più comprensiva delle condizioni economiche
della produzione di merci. Nel concetto di valore è
perciò contenuto il germe non solo del denaro, ma anche di
tutte le forme più sviluppate della produzione e dello
scambio di merci. Nel fatto che il valore è l'espressione
del lavoro sociale contenuto nei prodotti privati risiede
già la possibilità della differenza tra il lavoro
sociale e il lavoro privato contenuto nel prodotto stesso. Se
dunque un produttore privato continua a produrre alla vecchia
maniera, mentre la produzione sociale progredisce, questa
differenza gli diventa sensibilmente tangibile. Lo stesso accade
non appena la totalità di coloro che producono privatamente
un genere determinato di merci, produce una quantità
eccedente il bisogno sociale. Nel fatto che il valore di una merce
può essere espresso solo con un'altra merce e può
essere realizzato solo nello scambio con essa, risiede la
possibilità che lo scambio in generale non abbia luogo
oppure che non realizzi il giusto valore. Finalmente se appare sul
mercato la merce specifica forza-lavoro, il suo valore si
determina, come quello di ogni altra merce, mediante il tempo di
lavoro socialmente necessario per la sua produzione. Perciò
nella forma di valore che assumono è già racchiusa
tutta quanta la forma di produzione capitalistica, l'antagonismo
di capitalisti e salariati, l'esercito di riserva industriale, le
crisi. Voler sopprimere la forma di produzione capitalistica
mediante la creazione del "vero valore" significa perciò
voler sopprimere il cattolicesimo mediante la creazione del "vero"
papa, o volere creare una società in cui i produttori
finalmente dominano il loro prodotto, dando vita, con ciò
stesso, ad una categoria economica che è l'espressione
più piena dell'asservimento dei produttori mediante il
proprio prodotto.
Quando la società produttrice di merci ha sviluppato
ulteriormente la forma di valore inerente alle merci come tali,
solo a farle raggiungere la forma di denaro, molti dei germi
ancora nascosti nel valore vengono alla luce. L'effetto più
prossimo e più essenziale è la generalizzazione
della forma di merce. Il denaro impone la forma di merce anche
agli oggetti prodotti per il proprio consumo diretto, li trascina
nello scambio. Così la forma di merce e di denaro penetrano
nell'economia interna della comunità associata direttamente
per la produzione, rompono uno dopo l'altro tutti i legami della
comunanza e dissolvono la comunità in una schiera di
produttori privati. Il denaro dapprima, come si può vedere
in India, mette al posto della coltivazione comune del suolo la
coltura individuale; più tardi dissolve la proprietà
comune del suolo coltivabile, che si presenta ancora nelle
ripartizioni periodicamente ripetute, mediante una ripartizione
definitiva (il che per es. è accaduto nelle
Gehöferschaften [comunità di villaggio] della Mosella
e comincia ad accadere anche nella comunità russa); e
infine spinge alla ripartizione del possesso comune, ancora
residuato, dei boschi e dei prati. Quali che siano le altre cause
basate sullo sviluppo della produzione che anche qui collaborano,
il denaro rimane sempre il mezzo più potente della loro
azione sulla comunità. E con la stessa necessità
naturale, a dispetto di tutte "le leggi e le norme
amministrative", il denaro dissolverebbe la comunità
economica dühringiana, se mai essa venisse alla luce.
Abbiamo già visto (Economia, VI) che è una
contraddizione in termini parlare di valore del lavoro.
Poiché il lavoro, in certe condizioni sociali, crea non
solo prodotti, ma anche valore, e questo valore viene, misurato
dal lavoro, tanto poco è possibile che il lavoro abbia un
valore particolare, quanto poco è possibile che la
pesantezza come tale abbia un peso particolare o il calore una
temperatura particolare. Ma è caratteristico di tutta la
confusione socialista che va stillandosi il cervello intorno al
"vero valore", immaginare che l'operaio non riceva nella
società odierna il pieno "valore" del suo lavoro, e che il
socialismo sia chiamato a porvi rimedio. Perciò è
necessario anzitutto che cosa sia il valore del lavoro e lo si
trova tentando di misurare il lavoro non con la misura ad esso
adeguata, il tempo, ma col suo prodotto. L'operaio dovrebbe
ricevere il "provento integrale del lavoro" [100]. Non solo il
prodotto del lavoro, ma il lavoro stesso dovrebbe essere
direttamente scambiabile col prodotto: un'ora di lavoro con il
prodotto di un'altra ora di lavoro. Ma ciò crea subito una
difficoltà molto "seria". Il prodotto totale viene
ripartito. La più importante funzione sociale progressiva
della società, l'accumulazione, viene sottratta alla
società e rimessa nelle mani e all'arbitrio dei singoli. I
singoli possono fare quello che vogliono dei loro "proventi", la
società resta ricca o povera come era prima. Si sarebbero
quindi accentrati nelle mani della società i mezzi di
produzione accumulati nel passato solo perché tutti i mezzi
di produzione che si saranno accumulati nel futuro vengano
sparpagliati di nuovo nelle mani dei singoli. Si fa a pugni con i
propri presupposti e si perviene ad una pura assurdità.
Lavoro fluido, forza-lavoro attiva dovrebbero esser scambiati con
prodotto di lavoro. Allora questa forza-lavoro è una merce
così come il prodotto con cui viene scambiata. Allora il
valore di questa forza-lavoro non viene determinato affatto
secondo il suo prodotto, ma secondo il valore sociale che vi
è incorporato, quindi secondo la legge attuale del lavoro
salariato.
Ma questo è proprio ciò che non deve essere. Il
lavoro fluido, la forza-lavoro deve essere scambiabile col suo
pieno prodotto. Ciò significa che deve essere scambiabile
non col suo valore, ma col suo valore di uso; la legge del valore
dovrebbe esser valida per tutte le altre merci ma essere soppressa
per la forza-lavoro. E questa confusione che distrugge se stessa
è ciò che si nasconde dietro il "valore del lavoro".
Lo "scambio di lavoro con lavoro secondo il principio della
valutazione eguale", nella misura in cui ha un significato, e
quindi la reciproca scambiabilità di prodotti di eguale
lavoro, e quindi la legge del valore, è la legge
fondamentale precisamente della produzione di merci e
perciò anche della forma più alta di essa, la
produzione capitalistica. Essa si afferma nella società
attuale nella stessa maniera in cui unicamente possono realizzarsi
leggi economiche in una società di produttori privati: come
legge naturale insita nelle cose e nelle circostanze, indipendente
dal volere e dall'agire dei produttori, ciecamente operante.
Dühring, elevando questa legge a legge fondamentale della
comunità economica ed esigendo che questa comunità
economica debba attuarla con piena coscienza, fa, della legge
fondamentale della società vigente, la legge fondamentale
della sua società fantastica. Egli vuole la società
vigente, ma senza i suoi inconvenienti. Si muove quindi
completamente sullo stesso terreno di Proudhon. Come lui, egli
vuole eliminare gli inconvenienti che sono sorti dall'evoluzione
della produzione mercantile alla produzione capitalistica, facendo
valere di fronte ad essa la legge fondamentale della produzione di
merci la cui azione ha precisamente prodotto questi inconvenienti.
Come Proudhon egli vuole sopprimere le conseguenze reali della
legge del valore con delle conseguenze fantastiche.
Ma per quanto fieramente il nostro moderno don Chisciotte porta in
groppa la sua nobile Ronzinante, "il principio universale di
giustizia", seguito dal suo valente Sancio Panza, Abraham Enss,
sul suo cammino di cavaliere errante, alla conquista dell'elmo di
Mambrino, il "valore del lavoro", ahimè, temiamo che non
porterà a casa altro che il vecchio, noto catino da
barbiere.
Note
194. Espressione usata da Georg Herwegh nella poesia "Aus den
Bergen" ("Dai monti"), appartenente alla sua raccolta "Poesie di
un uomo vivo", 1841: "... largo, signori, al colpo d'ala / Di
un'anima libera!".
195. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 127, nota 50
196. Il "libro di commercio" è descritto da Wihlelm
Weitling nelle sue "Garntien del Harmonie und Freiheit", Vivis,
1842, sezione II, capitolo 10, p. 155 sgg. Secondo il suo piano
utopistico, nella società futura ogni persona abile al
lavoro è obbligata a lavorare ogni giorno un numero
determinato di ore, per ricevere i prodotti necessari al
sostentamento. Inoltre a ciascuno è data la libertà
di "esercitare anche ore di commercio, oltre al tempo stabilito
per il lavoro", per "godere di questo o di quel bene voluttuario".
Il piano di Weitling prevede che queste ore di commercio e i
"piaceri e i prodotti voluttuari" ricevuti in cambio siano
registrati nel libro di commercio.
*13. Trucksystem si chiama in Inghilterra il sistema ben noto
anche in Germania nel quale gli stessi fabbricanti tengono dei
magazzini e costringono i loro operai a fornirsi di merci da essi.
197. Secondo la tradizione, l'imperatore Vespasiano avrebbe detto
queste parole ("non puzza") al figlio Tito, che lo rimproverava
per una tassa da lui imposta sugli orinatoi, mostrandogli il
denaro ricavatone. L'espressione è passata in proverbio per
dire che riguardo all'origine del denaro guadagnato non bisogna
guardare troppo per il sottile.
*14. Tra parentesi, la funzione che hanno nella società
comunista oweniana i buoni di lavoro è completamente ignota
a Dühring. Egli conosce questi buoni di lavoro da quel che ne
dice Sargant, e cioè solo in quanto figurano nei Labour
Exchange Bazaars [176] che naturalmente furono un fallimento:
tentativo di passare, mediante uno scambio diretto di lavoro,
dalla società vigente alla società comunista.
176. Il 31 gennaio 1849 Proudhon fondò a Parigi la Banque
du peuple (Banca del popolo); essa esistette per circa due mesi, e
solo sulla carta.
*15. Sin dal 1844 io avevo detto ("Deutsch-Französische
Jahrbücher" 198.) che questa valutazione dell'effetto utile e
dell'erogazione di lavoro nelle decisioni concernenti la
produzione è tutto ciò che in una società
comunista rimane del concetto di valore dell'economia politica. Ma
solo il "Capitale" di Marx, come si vede, ha reso possibile
fondare scientificamente questo principio.
100. La concezione di Ferdinand Lassalle sul "provento pieno del
lavoro" o "integrale" è criticata a fondo da Marx nella
prima sezione delle "Glosse marginali al programma del Partito
operaio tedesco" ("Critica del programma di Gotha", trad. it.,
Roma, Editori Riuniti, 1976).
198. Engels rinvia al suo articolo "Lineamenti di una critica
all'economia politica". I "Deutsch-Französische
Jahrbücher" furono pubblicati in tedesco a Parigi sotto la
redazione di Marx e Arnold Ruge. Ne uscì un solo numero
doppio nel febbraio 1844. Vi apparvero "Sulla questione ebraica" e
"Per una critica della filosofia hegeliana del diritto.
introduzione" di Marx, e "La situazione dell'Inghilterra. "Past
and Present" by Thomas Carlyle", oltre all'articolo sopra citato,
di Engels.
Con i due capitoli precedenti avremmo dunque pressappoco esaurito
la "nuova costruzione socialitaria" di Dühring. Al più
ci sarebbe ancora da notare come l'"ampiezza universale
dell'orizzonte storico" non gli impedisca di coltivare i suoi
interessi particolari, anche a prescindere dal noto sovraconsumo
moderato. Poiché nella socialità continua a
sussistere la vecchia divisione del lavoro, la comunità
economica dovrà fare i conti, oltre che con architetti e
carrettieri, anche con letterati di professione, per cui sorge la
questione del come ci si dovrà contenere poi circa i
diritti d'autore. Questa questione occupa Dühring più
di ogni altra. Dovunque, per es. a proposito di Louis Blanc e di
Proudhon, il diritto d'autore capita tra i piedi al lettore per
essere poi diluito per nove pagine nel "Corso" e esser portato
felicemente in salvo nel porto della socialità sotto forma
di una misteriosa "remunerazione del lavoro", non è detto
se con moderato sovraconsumo o senza. Un capitolo sulla posizione
delle pulci nel sistema naturale della società sarebbe
altrettanto appropriato e in ogni caso meno noioso.
Sull'ordinamento statale dell'avvenire la "Filosofia" ci dà
precisazioni particolareggiate. Qui Rousseau, malgrado sia
l'"unico predecessore di rilievo" di Dühring, tuttavia non ha
posto basi abbastanza profonde; il suo più profondo
successore ripara completamente, annacquando nel modo più
straordinario Rousseau e mescolandovi avanzi della filosofia del
diritto hegeliana cotti e stracotti in una misera brodaglia
anch'essa troppo diluita. "La sovranità dell'individuo"
costituisce la base del dühringiano Stato dell'avvenire; essa
non dev'essere soppressa col dominio della maggioranza, ma deve
esserne invece proprio il culmine. Come avviene tutto questo? In
un modo molto semplice:
"Se si presuppongono accordi reciproci fra tutti e in tutti i
sensi, e se questi contratti hanno come oggetto la reciproca
prestazione di aiuto contro ingiuste offese, allora soltanto viene
accresciuta la forza diretta al mantenimento del diritto e nessun
diritto viene dedotto dalla semplice preponderanza della massa sui
singoli o della maggioranza sulla minoranza."
Con siffatta facilità la forza viva dell'abracadabra della
filosofia della realtà sorpassa gli ostacoli più
insormontabili e, se il lettore ritiene di non saperne con
ciò più di prima, Dühring gli risponde di non
prendere la cosa così alla leggera perché "il
più piccolo errore nella concezione della funzione della
volontà collettiva annullerebbe la sovranità
dell'individuo, e soltanto questa sovranità è
ciò (!) che porta a dedurre reali diritti". Dühring,
se prende in giro il suo pubblico, lo tratta proprio come questo
merita. Avrebbe potuto somministrargli perfino delle cose
notevolmente più grosse; gli studiosi della filosofia della
realtà non se ne sarebbero neanche accorti.
La sovranità dell'individuo consiste dunque essenzialmente
nel fatto che "il singolo è sottoposto ad una costrizione
assoluta di fronte allo Stato", ma questa costrizione può
giustificarsi solo nella misura in cui essa "serve veramente alla
giustizia naturale". Per questo fine ci saranno
"un'attività legislativa e un'attività giudiziaria",
ma esse "debbono restare nella collettività"; inoltre ci
sarà una lega difensiva che si estrinseca nell'"essere
riuniti nell'esercizio o in una sezione esecutiva appartenente al
servizio di sicurezza interna", quindi ci saranno anche esercito,
polizia, gendarmi. Invero Dühring ha già spesse volte
provato ad essere un bravo prussiano e qui mostra di essere pari a
quel prussiano modello che, secondo la buonanima del ministro von
Rochow, "porta il suo gendarme nel seno". Questa gendarmeria
dell'avvenire non sarà però pericolosa come gli
odierni "Zarucker" [199]. Qualunque cosa questa gendarmeria possa
fare verso l'individuo sovrano, quest'ultimo avrà sempre
una consolazione: "ciò poi che di giusto o di ingiusto in
ogni circostanza egli sopporta da parte della società
libera, non può mai essere qualche cosa di peggio di
ciò che porterebbe con sé anche lo stato di natura"!
E allora Dühring, dopo averci fatto incappare ancora una
volta nel suo inevitabile diritto d'autore, ci assicura che nel
suo mondo dell'avvenire ci sarà "un'avvocatura
evidentemente del tutto libera e generale". "La società che
oggi ci si immagina libera" diventa sempre più composita.
Architetti, carrettieri, letterati, gendarmi ed ora, per di
più, anche avvocati! Questo "regno ideale solido e critico"
rassomiglia in modo perfetto ai vari paradisi delle varie
religioni, nei quali il fedele ritrova sempre trasfigurate tutte
le dolcezze che gli ha presentate la vita terrena. E Dühring
appartiene a quello Stato in cui "ognuno può salvarsi
l'anima alla sua maniera" [200]. Che cosa vogliamo di più?
Ma ciò che possiamo volere è qui indifferente.
Quello che importa è quel che vuole Dühring. E costui
si distingue da Federico II per il fatto che nel dühringiano
Stato dell'avvenire non avviene affatto che ognuno possa salvarsi
l'anima alla sua maniera. Nella Costituzione di questo Stato
dell'avvenire si legge:
"Nella società libera non ci sarà nessun culto;
infatti ognuno dei suoi membri supera la fanciullesca fantasia
primitiva secondo cui al di là o al di sopra della natura
ci sarebbero degli esseri sui quali si possa influire mediante
sacrifici o preghiere. Un sistema socialitario rettamente inteso
deve perciò (...) abolire tutte le apparecchiature della
magia scolastica e conseguentemente tutti gli elementi essenziali
del culto".
La religione è proibita.
Ma ogni religione non è altro che il fantastico riflesso
nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la
sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene
assumono la forma di potenze sovraterrene. All'inizio della storia
sono anzitutto le potenze della natura quelle che subiscono questo
riflesso e che nello sviluppo ulteriore passano nei vari popoli
per le più svariate e variopinte personificazioni. Questo
primo processo è stato seguito, almeno per i popoli
indoeuropei, dalla mitologia comparata, risalendo sino alla sua
origine nei Veda indiani, e mostrato in particolare nel suo
sviluppo presso gli indiani, i persiani, i greci, i romani, i
germani e, nella misura in cui il materiale è sufficiente,
anche presso i celti, i lituani e gli slavi. Ma presto, accanto
alle forze naturali, entrano in azione anche forze sociali, forze
che si ergono di fronte agli uomini altrettanto estranee e,
all'inizio, altrettanto inspiegabili, e li dominano con la
medesima necessità naturale delle stesse forze della
natura. Le forme fantastiche nelle quali in principio si
riflettevano solo le misteriose forze della natura, acquisiscono
di conseguenza attributi sociali e diventano rappresentanti di
forze storiche [*16]. Ad un grado di sviluppo ancora posteriore
tutti gli attributi naturali e sociali dei molti dei vengono
trasferiti ad un solo dio onnipotente che a sua volta è,
esso stesso, solo il riflesso dell'uomo astratto. Così
sorse il monoteismo, che fu storicamente l'ultimo prodotto della
tarda filosofia volgare greca e trovò la sua incarnazione
in Jahvè, dio esclusivamente nazionale degli ebrei. In
questa forma comoda, palpabile, adattabile a tutto, la religione
può continuare a sussistere come forma immediata,
cioè sensibile, dell'atteggiamento degli uomini verso le
forze naturali e sociali estranee che li dominano sino a quando
gli uomini sono sotto il dominio di tali forze. Ma abbiamo visto
ripetutamente che nella società borghese attuale gli uomini
sono dominati, come da forza estranea, dai rapporti economici
creati da loro stessi e dai mezzi di produzione da loro stessi
prodotti. La base reale dell'azione riflessa della religione
continua dunque a sussistere e con essa lo stesso riflesso
religioso. E anche se l'economia borghese dà adito ad una
certa conoscenza del nesso causale di questo dominio estraneo,
ciò in sostanza non cambia niente. L'economia borghese non
può né in genere impedire le crisi, né
garantire il singolo capitalista da perdite, cattivi debitori e
fallimenti e neppure garantire il singolo operaio dalla
disoccupazione e dalla miseria. Si dice sempre: l'uomo propone e
dio (cioè il dominio estraneo del modo di produzione
capitalistico) dispone. La semplice conoscenza, anche se va molto
più lontano e molto più a fondo di quella
dell'economia borghese, non basta per sottomettere le forze
sociali al dominio della società. Per questo occorre
anzitutto un'azione sociale. E quando quest'azione sarà
compiuta, quando la società, mediante la presa di possesso
e l'uso pianificato di tutti i mezzi di produzione, avrà
liberato se stessa e tutti i suoi membri dall'asservimento in cui
essi sono mantenuti al presente da questi mezzi di produzione
prodotti da loro stessi, ma che si ergono di fronte a loro come
una prepotente forza estranea, quando dunque l'uomo non più
semplicemente proporrà, ma anche disporrà, allora
soltanto sparirà l'ultima forza estranea che ancora oggi ha
il suo riflesso nella religione e conseguentemente sparirà
anche lo stesso riflesso religioso, per la semplice ragione che
non ci sarà più niente da rispecchiare.
Dühring non può aspettare che la religione muoia di
questa morte naturale. Egli procede più radicalmente. Fa il
Bismarck più di Bismarck; decreta leggi di maggio [201]
inasprite non solo contro il cattolicesimo, ma contro tutta la
religione in generale; aizza i suoi gendarmi dell'avvenire e
così l'aiuta ad acquistarsi il martirio e un prolungamento
di esistenza. Dovunque giriamo lo sguardo troviamo socialismo
tipicamente prussiano.
Dopo che così Dühring ha felicemente annientato la
religione, "l'uomo che ora poggia solo su se stesso e sulla natura
ed è maturo per riconoscere le sue forze collettive,
può imboccare arditamente l'intero cammino che gli aprono
il corso delle cose e la sua propria natura". Consideriamo ora,
per cambiare, quale "corso delle cose" può arditamente
imboccare, guidato per mano di Dühring, l'uomo che poggia su
se stesso.
Il primo corso delle cose per cui l'uomo è posto su se
stesso è quello di esser nato. Poi rimane, per il tempo
della sua minorità naturale, affidato alla madre, "naturale
educatrice dei bambini". "Questo periodo può arrivare, come
nell'antico diritto romano, sino alla pubertà, pressappoco
perciò sino al quattordicesimo anno." Solo laddove i
fanciulli più grandicelli non bene educati non rispettino
convenientemente l'autorità della madre, l'aiuto paterno,
ma specialmente le disposizioni educative statali, possono
neutralizzare questa manchevolezza. Con la pubertà il
fanciullo entra sotto la "naturale tutela del padre", se
cioè ne esiste uno "la cui paternità sia realmente
incontestata", altrimenti la comunità nomina un tutore.
Dühring, come prima immaginava che si possa sostituire il
modo di produzione capitalistico con il modo di produzione sociale
senza trasformare la produzione stessa, così ora immagina
che si possa staccare la famiglia borghese moderna da tutta la sua
base economica senza perciò mutare tutta quanta la sua
forma. Questa forma è per lui tanto immutabile che arriva a
rendere decisivo per l'eternità, per ciò che
concerne la famiglia, l'"antico diritto romano", anche se in una
forma alquanto "nobilitata", e a potere immaginare la famiglia
solo come unità "ereditante", cioè come unità
possidente. Su questo punto gli utopisti sono molto più
avanti di Dühring. Per loro, con la libera socializzazione
degli uomini e con la trasformazione del lavoro privato domestico
in un'industria pubblica, era data immediatamente anche la
socializzazione dell'educazione della gioventù e con
ciò un rapporto reciproco realmente libero dei membri della
famiglia. E inoltre già Marx ha dimostrato ("Capitale", p.
515 e sg.) come "la grande industria crea il nuovo fondamento
economico per una forma superiore della famiglia e del rapporto
fra i due sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle
donne, agli adolescenti e ai bambini di ambo i sessi nei processi
di produzione socialmente organizzati al di là della sfera
domestica" [202].
"Ogni sognatore di riforme sociali", dice Dühring,
"naturalmente ha bell'è pronta la pedagogia adeguata alla
sua nuova vita sociale". Prendendo come misura questo principio,
Dühring appare come "un vero mostro" tra i sognatori di
riforme sociali. La scuola dell'avvenire lo occupa almeno quanto
il diritto d'autore e questo vuol dire veramente molto. Non solo
egli ha un piano scolastico e universitario fisso e pronto per
tutto "il futuro che può prevedersi", ma anche per il
periodo di passaggio. Limitiamoci per tanto a ciò che
sarà offerto alla gioventù di ambo i sessi nella
socialità definitiva di ultima istanza.
La scuola elementare per tutti offre "tutto ciò che per se
stesso e in linea di principio può avere un'attrattiva per
gli uomini", quindi specialmente le "basi e i risultati principali
di tutte le scienze che riguardano le conoscenze del mondo e della
vita". Essa insegna quindi anzitutto matematica e precisamente in
modo che venga "interamente percorso" il ciclo di tutti i concetti
e i procedimenti principali, dalla semplice enumerazione e
dall'addizione al calcolo integrale. Ma questo non significa che
in questa scuola si debba veramente derivare e integrare: al
contrario. In essa debbono invece essere insegnati elementi
completamente nuovi della matematica generale che contengono in
sé in germe tanto la solita matematica elementare quanto
anche la matematica superiore. Ora, sebbene Dühring affermi
di sé di avere già "davanti agli occhi
schematicamente, nei suoi tratti essenziali", "il contenuto dei
manuali" di questa scuola dell'avvenire, disgraziatamente sinora
non è neppure riuscito a scoprire questi "elementi della
matematica generale"; ma ciò che egli non può darci,
"bisogna aspettarselo realmente solo dalle forze libere e
accresciute delle nuove condizioni sociali". Ma se per il momento
l'uva della matematica dell'avvenire è ancora molto acerba,
tanto minori difficoltà offriranno l'astronomia, la
meccanica e la fisica dell'avvenire, le quali "forniranno il
nocciolo di ogni cultura", mentre "botanica e zoologia, per la
loro forma e il loro metodo tuttora prevalentemente descrittivi,
malgrado tutte le teorie (...) serviranno piuttosto come una
facile forma di distrazione". Così sta stampato nella
"Filosofia" a p. 417. Dühring sino ad oggi non conosce che
una botanica e una zoologia prevalentemente descrittive. Tutta la
morfologia organica che comprende l'anatomia comparata,
l'embriologia e la paleontologia del mondo organico, gli sono
ignote anche di nome. Mentre dietro alle sue spalle nascono quasi
a dozzine nel campo della biologia scienze completamente nuove, il
suo spirito puerile va tuttora a prendere "gli elementi culturali
eminentemente moderni del modo naturale scientifico" nella "Storia
naturale per fanciulli" di Raff ed elargisce del pari questa
costituzione del mondo organico a tutto "il futuro che può
prevedersi". La chimica, come è sua abitudine, anche qui
è completamente dimenticata.
Per quanto riguarda l'aspetto estetico dell'istruzione,
Dühring doveva rifare tutto da capo. La poesia quale è
stata finora non è utile a questo fine. Laddove la
religione è proibita è chiaro che l'"apparato
mitologico o comunque religioso" abituale nei poeti precedenti,
non può essere tollerato nella scuola. Anche il "misticismo
poetico, nella forma in cui per es. è stato fortemente
coltivato da Goethe", è riprovevole. Dühring stesso
dovrà quindi decidersi a fornirci egli stesso quei
capolavori poetici che "corrispondono alle più elevate
esigenze di una fantasia conciliata con l'intelletto" e
rappresentano quel puro ideale che "significa la perfezione del
mondo". Speriamo che non indugi. La comunità economica
potrà conquistare il mondo solo appena essa avanzerà
al passo di carica dell'alessandrinismo conciliato con
l'intelletto.
L'adolescente cittadino dell'avvenire non sarà tormentato
molto con la filologia, "Le lingue morte sono completamente
soppresse (...) mentre le lingue straniere viventi restano (...)
qualcosa di secondario." Solo dove lo scambio tra i popoli si
estende al movimento delle stesse masse popolari, esse debbono
essere rese facilmente accessibili a ciascuno a seconda delle
esigenze. "L'istruzione linguistica veramente educativa" si
troverà in una specie di grammatica generale e specialmente
nella "materia e nella forma della propria lingua". La limitatezza
nazionale degli uomini di oggi è ancora troppo cosmopolita
per Dühring. Egli vuole abolire le due leve che nel mondo
odierno offrono almeno l'opportunità di elevarsi al di
sopra del limitato punto di vista nazionale: la conoscenza delle
lingue antiche che dischiude, almeno agli uomini di tutte le
nazioni che hanno ricevuto la cultura classica, un più
ampio orizzonte comune, e la conoscenza delle lingue moderne,
unico mezzo con il quale gli uomini delle varie nazioni possono
intendersi tra loro e familiarizzarsi con ciò che accade
fuori dei propri confini. Invece deve essere inculcato a fondo lo
studio della grammatica della lingua nazionale. Ma "materia e
forma della propria lingua" sono intelligibili solo
allorché se ne seguono il nascere e il graduale sviluppo e
questo non è possibile senza tener conto in primo luogo
delle lingue vive e morte dello stesso ceppo. Ma così siamo
tornati di nuovo al campo espressamente vietato. Ma se con
ciò Dühring cancella dal suo piano scolastico tutta la
moderna grammatica storica, per l'insegnamento linguistico non gli
rimane altro che la grammatica tecnica di vecchio stampo,
raffazzonata completamente nello stile della vecchia filologia
classica, con tutte le sue casistiche e le sue
arbitrarietà, fondate sulla mancanza di una base storica.
L'odio verso la filologia classica lo spinge ad elevare il
prodotto deteriore della vecchia filologia a "fulcro di
un'istruzione linguistica veramente educativa". Si vede
chiaramente che abbiamo da fare con un linguista che non ha mai
sentito parlare di tutta un'indagine storica linguistica che da
sessant'anni a questa parte si è sviluppata con tanta
impetuosità e tanto successo, e che perciò non cerca
gli "elementi culturali eminentemente moderni" dell'istruzione
linguistica in Bopp, Grimm e Diez, ma in Heyse e Becker, di felice
memoria.
Ma con tutto ciò il giovane cittadino dell'avvenire sarebbe
ancora molto lontano dal "poggiare su se stesso". Per questo
occorre ancora una volta un fondamento più profondo dato
dalla "assimilazione delle basi ultime della filosofia". "Ma un
tale approfondimento non rimarrà (...) nient'altro, se non
un compito gigantesco", dopo che qui Dühring ha aperto la
strada. In effetti "se il poco sapere rigoroso di cui può
menar vanto la schematizzazione generale dell'essere si purifica
dai falsi ghirigori scolastici e ci si decide ad affermare
dovunque come valida solo la realtà assodata" da
Dühring, si rende assolutamente accessibile la filosofia
elementare anche alla gioventù dell'avvenire. "Ci si
ricordi di quei procedimenti della più grande
semplicità con i quali si è reso possibile ai
concetti di infinità e alla loro critica di raggiungere una
portata sinora sconosciuta"; e allora "non si riesce assolutamente
a capire perché gli elementi della concezione universale di
spazio e tempo, resi così semplici dall'approfondimento e
dalla precisazione attuale, non debbano finalmente passare nel
campo delle cognizioni preliminari (...); i pensieri che vanno
più alle radici" di Dühring "non debbono avere una
funzione secondaria nel sistema universale di educazione della
nuova società". Lo stato eguale a se stesso della materia e
l'innumere numerato sono destinati invece "non solo a permettere"
all'uomo "di poggiare sui suoi piedi, ma anche a fargli
comprendere da se stesso che egli ha sotto i piedi il cosiddetto
assoluto".
La scuola elementare dell'avvenire non è altro, come si
vede, che un liceo prussiano alquanto "nobilitato" nel quale il
greco e il latino sono sostituiti da un po' di matematica, pura e
applicata, e specialmente dagli elementi della filosofia della
realtà, e l'insegnamento del tedesco è di nuovo
ridotto al Becker di felice memoria, cioè all'incirca al
livello della quinta ginnasiale. In effetti "non si riesce
assolutamente a capire" perché le "cognizioni" di
Dühring, che in tutti i campi da lui toccati sono, come
abbiamo ormai dimostrato, assolutamente elementari, o meglio
ciò che in generale resta di esse, dopo la radicale
"purificazione" che ne è stata fatta, "non debbano in
blocco passare infine nel campo delle cognizioni preliminari",
tanto più che esse non hanno in realtà mai
abbandonato questo campo. Certo Dühring ha anche sentito
parlare vagamente del fatto che nella società socialista
lavoro ed educazione devono esser uniti insieme e che con
ciò deve essere assicurata tanto una multiforme istruzione
tecnica quanto una base pratica per l'educazione scientifica:
anche questo punto viene perciòutilizzato per la
socialità nella consueta maniera. Ma poiché, come
abbiamo visto, la vecchia divisione del lavoro continua nella sua
essenza a sussistere tranquillamente nella dühringiana
produzione dell'avvenire, viene tolta a questa istruzione tecnica
ogni futura applicazione pratica e ogni significato per la
produzione stessa; essa ha precisamente e solo un fine scolastico:
deve sostituire la ginnastica, della quale il nostro
rivoluzionario che va alle radici non vuol sentir parlare. Egli
perciò non può offrirci che poche frasi come per
es.: "la gioventù e la maturità lavorano nel vero
significato della parola". Ma veramente miserevoli appaiono queste
chiacchiere insulse e vuote se si confrontano col passo del
"Capitale" da p. 508 a p. 515 [203], in cui Marx sviluppa il
principio che "dal sistema della fabbrica, come si può
seguire nei particolari negli scritti di Robert Owen, è
nato il germe dell'educazione dell'avvenire, che
collegherà, per tutti i bambini di una certa età, il
lavoro produttivo con l'istruzione e la ginnastica, non solo come
metodo per aumentare la produzione sociale, ma anche come unico
metodo per produrre uomini di pieno e armonico sviluppo" [204].
Passiamo all'università dell'avvenire nella quale la
filosofia della realtà formerà il germe di ogni
sapere e nella quale, accanto alla facoltà di medicina,
continua pienamente a fiorire anche la facoltà giuridica;
tralasciamo gli "istituti di specializzazione professionale" dei
quali veniamo a sapere semplicemente che dovranno essercene solo
"per poche materie". Ammettiamo finalmente che il giovane
cittadino dell'avvenire dopo aver terminato tutto il corso di
studi, finalmente "poggi su se stesso" al punto di essere in grado
di cercar moglie. Quale corso delle cose gli apre qui
Dühring?
"In considerazione dell'importanza della procreazione per la
fissazione, l'eliminazione e la mescolanza delle qualità,
come anche per un nuovo sviluppo formativo delle qualità,
bisogna cercare le radici ultime di ciò che è umano
e di ciò che non è umano in gran parte nell'unione e
nella selezione sessuale e, inoltre, nella cura pro o contro un
determinato risultato delle nascite. Il giudizio sulla confusione
e la stupidaggine che dominano in questo campo deve essere
lasciato praticamente ad un'epoca posteriore. Tuttavia, si deve
almeno far comprendere sin dal principio, pur sotto la pressione
dei pregiudizi, che certamente molto più che il numero deve
prendersi in considerazione la qualità delle nascite,
raggiunta con buono o cattivo successo dalla natura o dalla
circospezione umana. Certo, in tutti i tempi e in tutte le
organizzazioni giuridiche, i mostri sono votati all'annientamento,
ma la scala che va dallo stato normale sino alle deformazioni che
non hanno più nulla di umano, ha molti gradi intermedi
(...) Se si previene la nascita di un uomo che non diventerebbe
che un prodotto difettoso, questo fatto, è evidentemente un
vantaggio".
In un altro passo si legge ancora:
"Per la considerazione filosofica non può essere difficile
(...) concepire (...) il diritto del mondo non ancora nato ad una
composizione quanto più buona possibile (...) Il
concepimento e in ogni caso anche la nascita offrono l'occasione
per fare intervenire a questo riguardo una sollecitudine
preventiva e, eccezionalmente, anche selettiva."
E inoltre:
"L'arte greca che idealizzava l'uomo nel marmo non potrà
conservare la stessa importanza storica non appena ci si
sarà assunto il compito, meno artistico e perciò
molto più serio per il destino della vita di milioni di
uomini di perfezionare la formazione di uomini in carne ed ossa.
Questa specie di arte non è semplicemente di pietra e la
sua estetica non riguarda la contemplazione di forme morte" ecc.
Il nostro giovane cittadino dell'avvenire cade dalle nuvole. Che
nel matrimonio non si tratti di un'arte semplicemente di pietra e
neanche della contemplazione di forme morte, questo certamente lo
sapeva anche senza Dühring; ma costui gli aveva pur promesso
che egli avrebbe potuto imboccare ogni via che il corso delle cose
e il suo proprio essere gli schiudono per trovare un cuore di
donna in perfetto accordo col suo, insieme al corpo che ne
è il necessario complemento. Niente affatto! gli urla
addosso la "severa e profonda moralità". Si tratta
anzitutto di eliminare la confusione e la stupidità che
dominano nel campo dell'unione e della selezione sessuale e di
tener conto del diritto dei nuovi nati ad una composizione quanto
più buona possibile. Si tratta per lui in questo momento
solenne di perfezionare la formazione dell'uomo in carne ed ossa e
per così dire di diventare un Fidia in carne ed ossa. Come
porvi mano? Le misteriose conciliazioni di Dühring, qui
riferite, non gli danno a questo proposito la più piccola
guida, malgrado lo stesso Dühring dica che questa è
un'"arte". Avrebbe forse Dühring già "schematicamente
davanti agli occhi" un manuale anche per quest'arte, simile a
quelli così vari che al giorno d'oggi girano per le
librerie tedesche, pudicamente velati? In effetti qui non ci
troviamo più ormai nella socialità, ma nel "Flauto
magico" con la differenza che il corpulento prete massone Sarastro
può sembrare a stento un "prete di seconda classe" di
fronte al nostro profondo e severo moralista. Gli esperimenti che
costui intraprende con la sua coppietta amorosa di adepti sono un
vero giuoco da bambini di fronte alle orribili prove che
Dühring impone ai suoi due individui sovrani prima di
permetter loro di entrare nello stato di "coppia morale elibera".
E così può ben accadere che il nostro Tamino
dell'avvenire che "poggia su se stesso" abbia certo sotto i suoi
piedi il cosiddetto assoluto, ma che uno di questi piedi devii di
pochi gradini dalla normalità e così che delle
cattive lingue lo chiamino piede storto. E anche nel regno del
possibile che la sua dilettissima Pamina dell'avvenire non si
tenga bene in piedi sul predetto assoluto a causa di una lieve
deviazione in favore della spalla destra, che l'invidia potrebbe
perfino spacciare per una piccola gobba. E che allora? Il nostro
più profondo e più severo Sarastro proibirà
loro di praticare l'arte del perfezionamento degli uomini in carne
ed ossa, farà valere la sua "sollecitudine preventiva" per
il "concepimento" o la sua "sollecitudine selettiva" per la
"nascita"? Nove volte su dieci le cose vanno diversamente; la
coppietta amorosa lascia stare Dühring -Sarastro e va
dall'ufficiale di stato civile.
Alt! Esclama Dühring. Non è questo che volevo dire.
Lasciate che vi spieghi:
Nei "motivi elevati schematicamente umani delle unioni sessuali
salutarie (...) la forma umanamente nobilitata dell'attrazione
sessuale, il cui grado superiore si manifesta come amore
spassionato, è nella sua reciprocità la migliore
garanzia per un'unione feconda anche per il suo risultato (...)
è solamente un effetto di second'ordine il fatto che da una
relazione in sé armoniosa risulti anche un prodotto che
porta l'impronta dell'armonia. Da ciò consegue a sua volta
che ogni costrizione deve agire in modo nocivo" ecc.
E così tutto si sbriga nel modo migliore nella migliore
delle socialità. Piede storto e gobbetta si amano tra loro
appassionatamente e offrono nella loro reciprocità la
migliore garanzia per un armonioso "effetto di second'ordine".
Tutto avviene come nel romanzo: si amano, si sposano e tutta la
profonda e severa moralità va a finire, come al solito, in
un'armoniosa banalità.
Quale alto concetto Dühring abbia in generale del sesso
femminile lo si vede nella seguente denuncia contro la
società attuale:
"La prostituzione nella società dell'oppressione fondata
sulla vendita dell'uomo all'uomo ha il valore di un ovvio
completamento del matrimonio coatto a vantaggio dei maschi ed
è una delle cose più comprensibili, ma anche
più significative, il fatto che per le donne non possa
esserci nulla di simile".
Per niente al mondo io vorrei raccogliere le lodi che a
Dühring dovrebbero toccare da parte delle donne per questa
sua galanteria. Ma sarebbe forse completamente ignoto a
Dühring quella specie di reddito dato da prebende ottenute
col favore di qualche gonnella e che oggi non è più
assolutamente eccezionale? Eppure Dühring è stato egli
stesso referendario [uditore giudiziario] e abita a Berlino dove,
già ai miei tempi, trentasei annifa, per non parlare dei
tenentini, Referendarius rimava molto spesso con
Schürzenstipendiarius [colui che fa carriera coll'aiuto di
amicizie femminili].
Ci sia concesso di congedarci dal nostro argomento, che certo
spesso è stato arido e noioso, in forma conciliante e gaia.
Sino a che abbiamo dovuto trattare i singoli punti controversi, il
nostro giudizio è stato legato ai fatti obiettivi e
incontestabili e conformemente a questi fatti ha dovuto essere
spesso tagliente ed anche duro. Ora che ci siamo lasciati alle
spalle filosofia, economia e socialità e che abbiamo
davanti l'immagine complessiva dello scrittore che avevamo da
giudicare nei particolari, ora possono venire in primo piano delle
considerazioni umane; ora ci è concesso ricondurre a cause
personali parecchi errori scientifici e presunzioni altrimenti
inconcepibili e sintetizzare il nostro giudizio sul signor
Dühring nelle seguenti parole: irresponsabilità dovuta
a megalomania.
Note
199. La parola "Zarucker", derivata dal berlinese "zaruck"
(indietro) significa all'incirca retrivo, reazionario. Il
neologismo sarebbe stato ispirato dall'uso dei poliziotti di
gridare "zaruck" per disperdere gli assembramenti.
200. Avendo ricevuto dal ministro di Stato von Brand e dal
presidente concistorale von Reichenbach un rapporto del 22 luglio
1740 in cui si chiedeva se le scuole romano-cattoliche dovessero
continuare ad esistere in Prussia, Federico II vi scrisse in
margine un'annotazione che terminava con le parole: "... qui
ognuno deve salvarsi l'anima alla sua maniera".
*16. Questo ulteriore duplice carattere delle forme della
divinità è un fatto trascurato dalla mitologia
comparata che si è fermata unilateralmente al loro
carattere di riflessi delle forze naturali, fatto che più
tardi ha generato confusione tra le mitologie. Così in
alcune tribù germaniche il dio della guerra era chiamato in
antico nordico Tyr, nell'antico alto tedesco Zio, ciò che
corrisponde al greco Zeus, al latino Jupiter per Diespiter; in
altre tribù Er, Eor, che corrisponde al greco Ares, latino
Mars.
201. Nel maggio 1873 il Reichstag approvò quattro leggi che
istituivano un vero controllo dello Stato sulla Chiesa cattolica,
e con le quali il Kulturkampf (vedi sopra, nota 55) raggiunse il
punto culminante. Esse costituirono il punto più essenziale
di una lunga serie di provvedimenti legislativi presi da Bismarck
contro il clero cattolico negli anni 1872-1875 (il clero cattolico
era il sostegno principale del partito di Centro, che
rappresentava gli interessi separatisti della Germania meridionale
e sud-occidentale). Le persecuzioni poliziesche provocarono la
resistenza accanita dei cattolici, dando loro l'alone del
martirio. Negli anni 1880-1887, per unire tutte le forze della
reazione nella lotta contro il movimento operaio, Bismarck fu
costretto ad attenuare e infine a revocare quasi tutte le leggi
anticattoliche.
202. Cfr. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. Cit., p. 536.
203. Ibid, pp. 529-537.
204. Ibid, p. 530.