Q3 §342
1 Allusione all'articolo di Benito Mussolini, Preludio al
Machiavelli, pubblicato in «Gerarchia», aprile 1924
(anno in, n. 4), ora in Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, cit.,
vol. XX, pp. 251-254. In questo articolo, tra l'altro, Mussolini
scriveva, esaltando «l'acuto pessimismo del Machiavelli nei
confronti della natura umana»: «È anche evidente
che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si
riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani,
italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli
uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne è
passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e
contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare i giudizi di
Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e
non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato
e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che
fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico
scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola
Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il
Principe è lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti
dai loro egoismi, all'atomismo sociale, lo Stato rappresenta una
organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i
tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro - eroi o santi -
che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato [...]. Vi
è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati
confezionati dall'Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau,
di un eccesso incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza
organizzata dello Stato e il frammentarismo dei singoli e dei
gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non
esistono, non esisteranno probabilmente mai».
2 Cfr Giuseppe Rensi, La «belva bionda», in
«Rivista di Milano», 5 marzo 1920, ristampato in
Principi di politica impopolare, Zanichelli, Bologna 1920, pp.
162-74: «Il disordine e la profonda separazione degli spiriti,
dominante nel campo morale, si rispecchia nel campo economico.
È ormai palese a tutti che la scoordinazione nel campo del
lavoro è completa. Agitazioni, scioperi continui, pretese
sempre maggiori e incessanti di cui una nuova regolarmente
s'affaccia non appena una precedente è stata soddisfatta -
questo tumulto convulsivo, con cui è manifesto che la classe
operaia esprime, non più la sua volontà di
miglioramenti economici, ma ormai decisamente la sua volontà
di potenza - paralizzano profondamente l'industria e la produzione.
E quindi si fa anche più palese a tutti che, o scioperi,
agitazioni, pretese, distruggeranno l'impalcatura sociale,
infrangeranno la delicata trama di interdipendenza tra lavori,
bisogni, popolazione, distribuzione di questa, facendo ritornare
l'umanità a una economia primitiva; ovvero occorre anche qui
una autorità che si imponga, che introduca, al bisogno con la
forza, l'ordine, la regolarità, la necessaria disciplina e
subordinazione dell'individuo alla società e ai bisogni di
questo; occorre una forma di coartazione degli impulsi, dei
capricci, dell'esplosione degli interessi individuali; ossia (se si
volesse caricare l'espressione) una forma di schiavitù, in
quanto questa consiste in una pressione che obbliga l'individuo a
disporre del suo tempo e della sua attività non interamente a
suo beneplacito. E si avverta: dopo la cessazione della antica
schiavitù e servitù questa pressione fu quella insita
automaticamente nel sistema del salariato, nel fatto cioè
che, essendo gli operai privi di ogni altro mezzo di sussistenza,
dovevano per vivere fornire un certo lavoro rigorosamente
determinato. Supposto sparito il salariato, gli operai padroni dei
mezzi di produzione e dell'industria, e nel medesimo tempo detentori
d'ogni forma di potere, non si potrà a meno di provvedere a
sostituire la pressione automatica costringente al lavoro regolare
che il sistema del salariato forniva, con qualche altra specie di
pressione che dia il medesimo risultato, di costringere cioè
a quel lavoro regolare, contro cui l'indole di tutti noi uomini, se
non vi è coatta, ineluttabilmente si ribella» (pp.
164-65).
Già in un precedente articolo, Rivoluzioni di schiaveria
(compreso nello stesso volume), Rensi aveva scritto: «Io pongo
la questione generale cosi: l'operaio - l'uomo in quanto lavora -
può essere il padrone? E la risposta negativa non mi par
dubbia. Il lavoratore - e ciò si dice non solo del lavoratore
manuale, quello che si vuole sia l'autentico "proletario", ma dei
lavoratori appartenenti alle professioni liberali e borghesi,
medici, ingegneri, avvocati - il lavoratore, dico, in quanto lavora,
è e non può non essere dipendente, sottoposto, servo
in qualche misura e maniera di colui che gli richiede le sue
funzioni. A costui egli, in quanto lavora, aliena la sua
attività e il suo tempo, cioè la sua vita. Costui gli
può e deve comandare: deve potere, nei limiti del lavoro,
fargli fare ciò che egli vuole, e avere, almeno col
licenziamento, il mezzo per costringerlo sempre nei limiti del
lavoro ad obbedirgli. Aveva perfettamente ragione Aristotele quando
sosteneva la necessità e l'eternità della
schiavitù» (pp. 3-4). Il volume Principi di politica
impopolare era dedicato a Filippo Turati e recava nel frontespizio
la seguente citazione di Machiavelli: «Per lo essempio dei
Consoli romani che riconciliarono insieme gli Ardeati, si nota il
modo come si debbe comporre una città divisa: il quale non
è altro né altrimenti si debbe medicare, che ammazzare
i capi de' tumulti» (Discorsi, libro III, cap. XXVII).