Q1 §44
1 Non si è ritrovata la fonte di questa affermazione
attribuita da Gramsci a Vittorio Emanuele sulla base di un ricordo
del resto piuttosto vago («o qualcosa di simile»)
derivante probabilmente da antiche letture. Si può avanzare
l'ipotesi che si tratti di una reminiscenza, magari indiretta, di
una lettera del 1861, nella quale Vittorio Emanuele II sottolineava
la sua noncuranza per le procedure parlamentari scrivendo: «io
ho tutti i partiti nelle mani, e me ne batto le cuggia».
L'affermazione, riferendosi a tutti i partiti, riguardava
evidentemente anche il Partito d'Azione, che tuttavia non era
esplicitamente menzionato. L'episodio poteva essere noto a Gramsci
attraverso le memorie del generale E. Della Rocca, Autobiografia di
un veterano, Bologna 1897, vol. II, p. 117, o attraverso una
citazione indiretta (cfr ora anche il libro di Denis Mack Smith,
Vittorio Emanuele II, Laterza, Bari 1972, p. 153).
2 Sui romanzi di Eugène Sue Gramsci ritorna più volte
negli altri Quaderni. Anche in un articolo di 'Sotto la Mole' del
1916 (cfr SM, 213) il nome del personaggio di Piccolo mondo antico,
Franco Maironi, è citato inesattamente come Piero, che
è invece il protagonista dei due successivi romanzi della
tetralogia fogazzariana, Piccolo mondo moderno e II santo.
Anche l'episodio menzionato in questo testo dei Quaderni non
è ricordato in modo del tutto esatto: nel romanzo di
Fogazzaro (parte II, cap. v), Franco Maironi riceve i Misteri del
popolo non clandestinamente dalla Svizzera, ma dall'amico professor
Gilar-doni. Per l'atteggiamento di Gramsci nei confronti di
Fogazzaro cfr, oltre l'articolo già citato, anche un altro
articolo di 'Sotto la Mole' del 29 gennaio 1917 (SM, 289).
3 Vi è qui una probabile reminiscenza di una famosa immagine
usata da Lenin per definire l'essenza del metodo
politico-rivoluzionario: «Non basta essere rivoluzionario e
fautore del socialismo o comunista in generale. Bisogna saper
trovare in ogni particolare momento il particolare anello della
catena a cui bisogna aggrapparsi con tutte le forze, per reggere
tutta la catena e preparare un sicuro passaggio all'anello
successivo; e l'ordine degli anelli, la loro forma, il loro
concatenarsi, i tratti che li distinguono l'uno dall'altro nella
catena storica degli avvenimenti, non sono cosi semplici, né
cosi grossolani come in una comune catena forgiata da un
fabbro». Questa definizione di Lenin è nell'opuscolo I
compiti immediati del potere sovietico [Opere complete, Editori
Riuniti, Roma 1967, vol. XXVII, p. 245) che Gramsci conobbe per la
prima volta attraverso il riassunto fattone da MaX Eastman
nell'articolo Uno Statista dell'Ordine Nuovo, pubblicato a puntate
da «L'Ordine Nuovo», ia serie. Cfr in particolare
l'ultima puntata in «L'Ordine Nuovo», 7 giugno 1919
(anno 1, n. 5).
4 Sull'«Avanti!» del 10 ottobre 1920 (4a pagina, ed.
piemontese), in una corrispondenza da Palermo sul movimento dei
contadini siciliani, si dava notizia di un congresso di
«agricoltori siciliani» tenuto in quei giorni. Nella
mozione approvata si diceva tra l'altro che il congresso
«delibera di rendere noto che, ove le autorità non
provvedano in tempo, i proprietari e gli agricoltori si terranno
legittimamente investiti del potere e del diritto di provvedere i
mezzi onde integrare il rispetto della legge e dell'ordine
costituito». Un accenno più esplicito al rapporto tra
reazione agraria e separatismo siciliano è nelle Tesi del
Partito Comunista d'Italia per il lavoro contadino nel Mezzogiorno,
scritte da Ruggiero Grieco e pubblicate prima parzialmente
sull'«Unità» del 21 ottobre 1926, poi
integralmente in «Lo Stato operaio», 1927 (anno 1, n. 2)
(ora in Ruggiero Grieco, Scritti scelti, vol. I, Editori Riuniti,
Roma 1966, pp. 186-213): «Nel 1920, e particolarmente in
occasione della occupazione delle terre, i sicilianisti hanno
chiaramente fatto intendere che ove lo Stato italiano non avesse
adottato tutti i mezzi per reprimere le agitazioni delle masse
rurali, la Sicilia avrebbe pensato da sé alla bisogna,
dandosi un proprio reggimento. E allorquando nel continente la
minaccia della rivoluzione degli operai e dei contadini parve
sopraffare lo Stato borghese italiano, i siciliani avvertivano che
nel caso la rivoluzione proletaria fosse stata vittoriosa essi
avrebbero dichiarata la Sicilia indipendente» (ibid., pp.
194-95).
5 Il caso, qui ricordato, del duca di Bivona, Grande di Spagna e
proprietario di feudi in Sicilia, è da collegare al movimento
contadino siciliano di occupazione delle terre del 1920. Un accenno
a un intervento diplomatico provocato dal duca per sollecitare la
repressione del movimento contadino a Ribera, in provincia di
Agrigento (allora Girgenti), è in una corrispondenza
delll'«Avanti!» dell11 febbraio 1920, La verità
sui fatti di Ribera.
6 Nel quadro delle iniziative e dei provvedimenti adottati dal
regime fascista per «fascistizzare» tutta la stampa
italiana, i fratelli Scarfoglio (Paolo, Carlo, Michele e Salvatore)
furono praticamente estromessi dalla redazione del quotidiano di
Napoli «Il Mattino» fin dal gennaio 1926. La famiglia
Scarfoglio tuttavia continuò ad essere proprietaria
dell'azienda editoriale del «Mattino» fino al 1928,
quando fu costretta, per le pressioni del regime, a vendere le
azioni rimanendo cosi definitivamente estromessa dall'azienda.
Alcuni documenti sulla estromissione degli Scarfoglio dal
«Mattino» sono pubblicati in appendice al volume di
Valerio Castronovo, La stampa italiana dall'Unità al
fascismo, Laterza, Bari 1970, pp. 372-95.
7 Gramsci si riferisce qui alla campagna giornalistica svolta dal
«Mattino» contro il concordato stipulato dalle Cotonerie
Meridionali con i sindacati fascisti grazie all'intervento di
Giovanni Preziosi in qualità di fiduciario della Direzione
del Partito fascista. Poco dopo la stipulazione di questo
concordato, che comportava gravi sacrifici per gli operai delle
Cotonerie Meridionali e per gli interessi del Mezzogiorno, il
Preziosi fu nominato direttore del «Mezzogiorno», di
proprietà delle stesse Cotonerie Meridionali. La campagna del
«Mattino» aveva avuto inizio nel numero del 6-7
settembre 1923 con un articolo intitolato Come si va smembrando una
industria meridionale. Il Concordato Preziosi. Sono in
quest'articolo, dove si ricorda tra l'altro una precedente campagna
in difesa dell'industria meridionale, i riferimenti ai Borboni
menzionati da Gramsci: «I lettori del "Mattino" ricorderanno
la vivace campagna da noi intrapresa nel maggio 1922 per impedire
che la più antica industria tessile d'Italia, industria della
filatura e della tessitura del cotone, che conta centotrent'anni di
vita: che i Borboni protessero e incoraggiarono con quello
intelligente spirito di modernità che ormai nessuno nega
loro: venisse distrutta e annichilita per compiacere gli interessi
del nord». Altro accenno ai Borboni è nel corso dello
stesso articolo, a proposito del trasporto del macchinario al Nord:
«Non ricominceranno più tardi a lavorare in un
cotonificio lombardo, mentre l'industria fondata dalla saviezza
borbonica sarà stata distrutta?» Il giornale si vantava
al tempo stesso di appoggiare gli operai traditi dai sindacati
fascisti: «Perché un giornale conservatore come il
nostro appoggi una rivendicazione operaia conviene che gli operai
abbiano pienamente ragione». Questa campagna del
«Mattino», continuata giornalmente per una settimana,
era stata poi interrotta improvvisamente nel numero del 14-15
settembre con l'annuncio che il governo aveva avocato a sé la
questione. Tuttavia l'episodio del Concordato delle Cotonerie
Meridionali, insieme ad altri scandali in cui era stato implicato il
Preziosi, tornò alla ribalta nel 1925 in occasione di una
polemica giornalistica iniziata dal giornale «Il Mondo»
e seguita poi da un processo per diffamazione e ingiurie tenutosi a
Napoli tra i primi di giugno e i primi di agosto del 1925: cfr Gli
scandali dell'affarismo borghese: Appunti sul processo
«Mondo»-«Mezzogiorno», in
«l'Unità» del 6 agosto 1925.
8 Si tratta di un brevissimo pezzo polemico apparso su
«l'Unità» di Salvemini, non nel 1914-15, ma nel
numero del 29 novembre 1917 (anno vi, n. 48). Dopo un trafiletto
(Una genealogia caratteristica) in cui si allude a possibili
rapporti di «intelligenza col nemico» dello Stato
Maggiore italiano per via di un intreccio di parentele (ma le
allusioni risultano scarsamente intellegibili a causa
dell'intervento della censura), si insinua in un successivo
trafiletto (Un altro filo conduttore) che anche Malatesta, per i
suoi rapporti con Maria Sofia, possa essere stato manovrato nel
giugno 1914 dallo Stato Maggiore austriaco: «Errico Malatesta,
il condottiero della settimana rossa, era amico anche lui di Maria
Sofia di Baviera, ex regina di Napoli. Cominciamo, dunque, a capire
le origini della settimana rossa».
9 Cfr Benedetto Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, serie
II, Laterza, Bari 1927, pp. 406-7: «Poco si sa [...] dei
pensieri e sentimenti e propositi che nutrivano i sovrani spodestati
nei loro ritiri di Francia e di Baviera, perché quelli che
stavano loro accanto hanno serbato il silenzio attorno a questo
punto; e, forse, non avevano nulla da raccontare non potendosi dare
informazione del nulla. La regina Maria Sofia sembra che fosse,
conforme alla sua indole, di volta in volta disposta a folli
speranze e non aliena da intrighi; e, certo, quel tale Insogna,
biografo di Francesco II, era un suo agente, e venne in Italia nel
1904 con lettere dell'anarchico Malatesta a prendere accordi con
anarchici italiani per liberare il Bresci, regicida di Umberto di
Savoia, e fu fatto arrestare da Giolitti, e dipoi espulso,
ottenendosi al tempo stesso, per vie diplomatiche, che tanto
l'imperatore d'Austria, quanto il governo della Repubblica francese
ammonissero Maria Sofia di starsene tranquilla». Lo scritto di
Croce (Gli ultimi borbonici) in cui è compreso questo passo
era già stato pubblicato in una serie di articoli apparsi su
«La Stampa» di Torino (cfr in particolare il numero del
3 giugno 1926); e già allora con ogni probabilità
aveva attirato l'attenzione di Gramsci giacché se ne trova
una eco in un commento pubblicato da «l'Unità»
dell'i 1 giugno 1926, Chi spinse Bresci al regicidio?, a firma di
Ettore Ferrari (ma forse per ispirazione dello stesso Gramsci). Il
commento dell'«Unità», in cui è riprodotto
il passo citato di Croce, sollecitava ulteriori chiarimenti
sull'episodio e concludeva affermando che «se non vi saranno
chiare spiegazioni e del Croce e del Malatesta molta luce fosca
piomberebbe sul gesto dell'anarchico Gaetano Bresci».
Croce tuttavia non ha mai fornito nessuna spiegazione sui lati
oscuri di questa vicenda, né ha indicato la fonte della sua
informazione; ristampando il saggio su Gli ultimi borbonici nel
secondo volume di Uomini e cose della vecchia Italia non si è
nemmeno curato di rettificare l'evidente svista di collocare nel
1904 il presunto tentativo di liberare il Bresci, morto, suicida in
carcere, già nel 1901. All'articolo
dell'«Unità» rispose invece Errico Malatesta, Ver
fatto personale: manovre borboniche e malignità comuniste,
nel quindicinale anarchico di Ginevra, «Il Risveglio»,
ed. italiana, 30 luglio 1926 (anno XXVI, n. 698): «Io,
naturalmente, non so nulla di nulla; e se sapessi qualche cosa non
vorrei raccontarla alla polizia, nemmeno tramite l'On. Enrico
Ferrari. E intanto faccio notare la singolare psicologia di certi
comunisti : sempre pronti a raccogliere qualunque storiella di
lavandaia (si può far da lavandaia anche chiamandosi
Benedetto Croce) se sembri loro che possa servire per dir male degli
anarchici». Di questo articolo di Malatesta Gramsci non ebbe
notizia, come risulta da un accenno aggiunto nel testo C del quarto
paragrafo, dove si afferma che Malatesta non avrebbe mai risposto a
queste accuse. Dopo la pubblicazione della prima edizione dei
Quaderni la polemica su questo episodio è stata ripresa dal
periodico anarchico di Roma «Umanità Nova», 20
marzo 1949 (anno XXiX, n. 12); Una vecchia storiella contro Bresci e
Malatesta nuovamente riferita in una opera di A. Gramsci. Sullo
stesso argomento cfr anche Quaderno 7 (VII), § 100.
10 Cfr. Alcuni temi della quistione meridionale cit. (in CPC, 140):
«È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma
capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del
Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che
impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile
dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri
inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino
naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non
è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa
storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni,
incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con
l'esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le
solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista
fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel
proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo
crisma a tutta la letteratura "meridionalista" della,cricca di
scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i
Niceforo, gli Orano e i minori seguaci, che in articoli, in
bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di
ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una
volta la "scienza" era rivolta a schiacciare i miseri e gli
sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti,
pretendeva essere la scienza del proletariato».
11 La «Rivista popolare di Politica, Lettere e Scienze
sociali» fu diretta da Napoleone Colajanni dal 1895 al 1921.
Attraverso questa rivista, e nello stesso tempo dalla tribuna
parlamentare e in libri e opuscoli, Colajanni condusse per molti
anni una vivace campagna contro l'interpretazione razzistica
dell'inferiorità del Mezzogiorno e contro la teoria delle
«razze inferiori», in polemica con Cesare Lombroso,
Enrico Ferri, Raffaele Garofalo, Alfredo Niceforo e Paolo Orano. Tra
i documenti più significativi di tale polemica, cfr Per la
razza maledetta, Roma 1898 (alcuni stralci in 17 Sud nella storia
d'Italia, antologia della questione meridionale a cura di Rosario
Villari, Laterza, Bari 1966, vol. II, pp. 431-44); Settentrionali e
meridionali, Roma 1898; J7 dissidio tra Nord e Sud - Esortazioni di
un parricida, Palermo 1899; In difesa del Mezzogiorno (discorso alla
Camera dei Deputati dell'i 1 dicembre 1901), Roma 1902; Latini e
Anglosassoni - Razze superiori e razze inferiori, Roma 1903.
12 Anche questo episodio è qui annotato sulla base di un
vecchio ricordo, già utilizzato in diverse occasioni in
articoli di Gramsci o in documenti da lui ispirati. La prima
menzione è in un articolo pubblicato nell'edizione piemontese
deir«Avanti!» del 16 aprile 1919 (ora in Scritti 1915-21
cit., pp. 103-4): «Perché è proibito ricordare
ciò che ha detto, nell'ultimo congresso sardo tenuto a Roma
un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910, lo
Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la
nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori
sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente
italiana non sarda?» Il nome del «generale sardo»
(Rughi), omesso in questo testo, è menzionato invece
esplicitamente, in relazione alla stessa denuncia, in un discorso
parlamentare del deputato comunista Ferrari, ispirato certamente da
Gramsci (cfr il resoconto su «l'Unità» del 19
giugno 1925), e nel saluto della Krestintern al V Congresso del
Partito sardo d'azione (cfr «l'Unità» del 29
settembre 1925). Non è stato tuttavia possibile rintracciare
documenti dell'epoca che confermino l'esattezza di questo ricorrente
riferimento di Gramsci. Nell'articolo del 1919 si parla
dell'«ultimo Congresso sardo tenuto a Roma», ma la data
del 1911 aggiunta nei Quaderni è probabilmente inesatta. Un I
Congresso regionale sardo si tenne a Roma nel 1914, ma dagli Atti
pubblicati non risulta che vi abbia preso la parola, o che sia stato
anche solo presente il generale Rugiu. È possibile che
l'episodio, magari alterato nei particolari, sia rimasto impresso
nella memoria di Gramsci attraverso conversazioni o discorsi
ascoltati negli ambienti sardisti frequentati a Torino nel 1919 (si
veda la rievocazione fattane dallo stesso Gramsci nel saggio sulla
questione meridionale: cfr CPCy 142-43). Il generale Vittorio Rugiu
(1836-1926), nato a Sassari, aveva partecipato alle campagne
militari del 1859 e del 1866, combattendo a Magenta e a San Martino,
e, come capitano di stato maggiore, a Custoza; come comandante di
corpo d'armata, aveva risieduto a Bari dal 1896 al 1898, e ad
Alessandria dal 1898 al 1902. Lasciato il servizio attivo nel 1902,
soggiornò per undici anni a Torino, fino al 1913, quando si
trasferì in Sardegna. Non risulta che si sia mai occupato
attivamente di politicale appare poco probabile che Gramsci lo abbia
conosciuto personalmente.
13 Cfr Alcuni temi della quistione meridionale cit., in CFC, 155,
dove già si sottolinea l'influenza degli intellettuali
meridionali sulle pubblicazioni qui ricordate. I
«borelliani»* sono i gruppi dei «Giovani
Liberali» organizzati da Giovanni Borelli. Il titolo esatto
della rivista milanese, qui ricordata come «Azione
liberale», è «L'Azione» («Rassegna
liberale e nazionale»): fondata nel maggio 1914, ne erano
direttori Paolo Arcari e Alberto Caroncini (nel passo citato del
saggio sulla questione meridionale il titolo di questa rivista
è citato esattamente).
14 Si allude all'articolo pubblicato da Giovanni Ansaldo su
«Il lavoro» di Genova del 1° ottobre 1925, in
occasione della prima edizione del libro di Guido Dorso, La
rivoluzione meridionale, P. Gobetti editore, Torino 1925 (una
seconda edizione di questo libro, curata dall'autore, è del
1950, Einaudi, Torino). In quest'articolo - che è ricordato
da Gramsci anche nel Quaderno 3 (XX), § 40 - Ansaldo polemizza
non solo contro Dorso, ma anchecontro Gramsci, di cui il libro di
Dorso si era occupato ampiamente in termini positivi. A proposito di
ciò che scrive Gramsci sull'«unitarismo
ossessionato» nella polemica di Ansaldo e su una «certa
comicità» nei suoi atteggiamenti, si possono
confrontare alcuni passi dell'articolo citato: «Per un gioco -
ah, lasciatemelo dire! - di schemi ideali, per cercare una soluzione
ad unadialettica contrapposizione di termini, voi perdete cosi di
vista la realtà del Regno d'Italia, la realtà del
Reame di Napoli sempre viva, la realtà delle bande e dei
mazzoni borbonici sempre imminente! [...]. Gramsci! Gramsci che
scopre il nocciolo del proble ma italiano! Ma che nocciolo volete
che scopra, quell'uomo che se li trangugia tutti i noccioli, quelli
delle frutta quando mangia e quelli dei sistemi filosofici quando
ragiona! O che credete, che sia il demiurgo della storia italiana, e
non, press'a poco, un intellettuale come noi e come voi, che domani
a situazione mutata, sarebbe travolto dalle forze di sovvertimento
secolare agenti nel nostro paese, che si evocano si, ma non si
contengono? [...]. E chi vi assicura che d'un tratto, lasciata via
libera ai poveri "cafoni" di fare quello che voi, con lusso di
parole vaghe, chiamate rivoluzione meridionale, non rispunterebbero,
dietro le richieste materiali del 1860, anche i postulati più
strettamente politici? Credete voi che il Gramsci sia davvero
più forte di Fra Diavolo? Forse che nessun pericolo minaccia
più l'unità italiana?» Sul seguito di questa
polemica cfr nota 24 al Quaderno 19 (X), § 24.
15 Cfr Alcuni temi della quistione meridionale cit., in CPC, 158:
«Il proletariato distruggerà il blocco agrario
meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo
partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti,
sempre più *voli masse di contadini poveri; ma
riuscirà in misura più o meno larga in tale suo
compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità
di disgregare il blocco intellettuale che è l'armatura
flessibile ma resistentissima del blocco agrario».
16 Si tratta di una serie di articoli, scritti da Proudhon nel 1862
e pubblicati in parte su un giornale belga, poi raccolti nello
stesso anno in volume, con integrazioni e nuove appendici polemiche:
cfr Pierre-Joseph Proudhon, La Fédération et l'unite
en Italie, E. Dentu, Paris 1862, Sulla tendenza
«democratico-gallicista» e sul «gallicismo»
operaio di Proudhon cfr un altro accenno nel Quaderno 7 (VII),
§ 51.
17 Questo riferimento alla Sacra famiglia, nel senso indicato nel
testo, ricorre frequentemente nei Quaderni e si trova anche in una
lettera di Gramsci del 30 maggio 1932 (cfr LC, 629). Nella
traduzione francese citata della Sacra famiglia, che Gramsci aveva
presente, il passo corrispondente è a p. 67 del tomo II delle
OEuvres philosophiques. Per la traduzione italiana cfr Friedrich
Engels - Karl Marx, La sacra famiglia, a cura di A. Zanardo, Edi
tori Riuniti, Roma 1967, p. 47: «Se il signor Edgar paragona
per un momento la eguaglianza francese con la autocoscienza tedesca,
troverà che il secondo principio esprime in tedesco,
cioè nel pensiero astratto, ciò che il primo dice in
francese, cioè nella lingua della politica e del pensiero
intuitivo».
18 Della letteratura storiografica intorno alla Rivoluzione francese
Gramsci ha utilizzato in particolare il manuale del Mathiez, di cui
però, quando scriveva questo paragrafo, aveva presente solo i
primi due volumi: Albert Mathiez, La Revolution française,
tomo I: La Chute de la Royauté, Colin, Paris 1922 [FG, C.
carc., Turi II]; tomo II: La Gironde et la Montagne, Colin, Paris
1924 [FG, C. carc., Turi II] (cfr LC, 264). Della legge Chapelier,
votata dalla Costituente il 14 giugno 1791, contro le coalizioni
operaie, si parla nel capitolo X del primo volume. Della legge del
maximum (29 settembre 1793), a cui Gramsci accenna in un'aggiunta
posteriore, si parla invece nel capitolo VI del terzo volume,
ordinato da Gramsci nel giugno 1930 (cfr LC, 351): Albert Mathiez,
La Revolution française, tomo III: La Terreur, 2ª ed. Colin,
Paris 1928 [FG, C. carc., Turi II].
19 Cfr Rerum Scriptor [Gaetano Salvemini], Moderati e democratici
milanesi dal 1848 al 1859, in «Critica Sociale», 16
novembre 1899 (anno VIII, n. 19), pp. 297-99; 1° dicembre 1899
(anno VIII, n. 20), pp, 317-19 (è un capitolo del libro
pubblicato poco dopo, sempre sotto lo pseudonimo di Rerum Scriptor,
con il titolo I partiti politici milanesi nel secolo XIX, Biblioteca
dell'«Educazione politica», Milano 1899; ora in
Salvemin;, Scritti sul Risorgimento cit., a cura di Piero Pieri e
Carlo Pischedda, pp. 27-123). Salvemini polemizza qui con Bonfadini,
che aveva difeso anche le debolezze dei moderati: cfr Romualdo
Bonfadini, Mezzo secolo di patriottismo, 2a ed. Treves, Milano 1866.
20 I costituti Confalonieri conservati negli archivi di Vienna
furono ritrovati da Francesco Salata nel 1924, ma l'articolo a cui
Gramsci si riferisce è del 1926: cfr Francesco Salata, I
«Costituti» di Federico Confalonieri rivendicati
all'Italia, in «Corriere della Sera», 15 aprile 1926.
Successivamente questi documenti, consegnati al governo italiano e
affidati all'Archivio di Stato di Milano, furono pubblicati a cura
dell'Istituto Storico Italiano per l'età moderna e
contemporanea: cfr I Costituti di Federico Confalonieri, voll.
I-II-III, a cura di Francesco Salata, Zanichelli, Bologna 1940-41;
vol. IV, a cura di A. Giussani, ivi 1956.
21 Cfr I Costituti del Conte Confalonieri, in «Civiltà
Cattolica», 18 ottobre 1902 (anno lui, serie XVIII, vol.
VIII), pp. 144-57. In polemica con Alessandro D'Ancona, il quale
aveva sostenuto che i Costituti Confalonieri mancavano negli archivi
italiani, l'articolo della «Civiltà Cattolica»
affermava: «I Costituti del Confalonieri non furono distrutti,
come si volle dare ad intendere; furono lasciati nell'archivio del
Tribunale di Milano [...]. Perché dunque nasconderli?
perché non dare alla pubblica opinione il pascolo della
verità e impor fine una volta alle leggende? Forse che si ha
paura che col far conoscere i Costituti di Federico Confalonieri, di
Silvio Pellico, di Pietro Maroncelli... ne debba crollare l'edifizio
dell'Italia una?»
22 Una puntigliosa difesa dell'operato del Salvotti, giudice
inquisitore nel processo Pellico-Maroncelli e nel processo
Confalonieri, con toni di aperta apologia di questa figura di
magistrato zelante al servizio delle autorità austriache,
è nell'ampio saggio di Alessandro Luzio, Antonio Salvotti e i
processi del '21 (compreso in Alessandro Luzio, Studi critici,
Cogliati, Milano 1927, pp. 291-491). Sullo stesso argomento Gramsci
ritorna nel già citato § 53 del Quaderno 19 (X). Un
altro accenno al carattere tendenzioso e acrimonioso della
storiografia del Luzio è nel Quaderno 8 (XXVIII), § 23.
23 Cfr Alfredo Panzini, Vita di Cavour, cap. vi, in «L'Italia
letteraria», 30 giugno 1929 (anno 1, n. 13): «Nello
stesso 1857 l'Imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe, viene a
visitare il suo bel Regno d'Italia: è a Milano, a due passi
da Torino; ma Cavour non gli manda nemmeno la gualdrappa di un
ciambellano a fargli i complimenti d'uso. Ma la stampa di Torino
è piena di scherno contro certi impenitenti signori lombardi
che credono ancora di vivere ai tempi del Sacro Romano Impero, e
sono andati ad inchinare Francesco Giuseppe. (Veramente ci fu una
dama che onorò l'Imperatore in modo atroce: si dovevano
ornare i balconi al passaggio dell'Imperatore. Quella dama
ornò il suo balcone con una pelle di tigre)».
24 Cfr Karl Marx - Friedrich Engels, Indirizzo del Comitato Centrale
della Lega dei Comunisti, in Il Partito e l'Internazionale, Edizioni
Rinascita, Roma 1948, pp. 87-98. Nell'Indirizzo (che è datato
da Londra, marzo 1850) è detto tra l'altro: «Mentre i
piccoli borghesi democratici vogliono portare al più presto
possibile la rivoluzione alla conclusione, e realizzando tutt'al
più le rivendicazioni di cui sopra, è nostro interesse
e nostro compito rendere permanente la rivoluzione sino a che tutte
le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal
potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere
dello Stato, sino a che l'associazione dei proletari, non solo in un
paese, ma in tutti i paesi dominanti del mondo, si sia sviluppata al
punto che venga meno la concorrenza tra i proletari di questi paesi,
e sino a che almeno le forze produttive decisive non siano
concentrate nelle mani dei proletari» (ibid., pp. 91-92); e
nelle conclusioni: «Sebbene gli operai tedeschi non possano
giungere al potere e soddisfare Ì loro interessi di classe
senza attraversare un lungo sviluppo rivoluzionario, essi hanno
però questa volta per lo meno la coscienza che il primo atto
dell'incombente dramma rivoluzionario coinciderà con la
vittoria della loro classe in Francia e perciò il processo
sarà affrettato. Ma essi stessi debbono fare l'essenziale per
la loro vittoria finale chiarendo a se stessi i loro propri
interessi di classe, assumendo il più presto possibile una
posizione indipendente di partito, e non lasciando che le frasi
ipocrite dei piccoli borghesi democratici li sviino nemmeno per un
istante dalla organizzazione indipendente del partito del
proletariato. Il loro grido di battaglia deve essere: La rivoluzione
in permanenza!» [ibid., p. 98).
25 Cfr Engels, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza,
Ed. Rinascita cit., pp. 31-33 (dalla prefazione all'edizione inglese
del 1892): «La borghesia delle città si lanciò
per la prima nel movimento; i contadini medi (yeomanry) dei
distretti rurali lo fecero trionfare. È abbastanza curioso il
fatto che in tutte le tre grandi rivoluzioni della borghesia i
contadini forniscono l'esercito per la lotta, mentre sono la classe
che dopo la vittoria viene immancabilmente rovinata dalle
conseguenze economiche della vittoria stessa. Un secolo dopo
Cromwell, la yeomanry inglese era quasi scomparsa. Eppure fu solo
per la partecipazione di questa yeomanry e dell'elemento plebeo
delle città che la lotta venne combattuta fino alla vittoria
e Carlo I fatto salire sul patibolo. Affinché potessero
venire assicurate almeno quelle conquiste della borghesia che erano
mature e pronte, ad essere mietute, era necessario che la
rivoluzione oltrepassasse di molto il suo scopo, esattamente come in
Francia nel 1793 e in Germania nel 1848. Sembra che questa sia una
delle leggi della evoluzione della società borghese. A questo
eccesso di attività rivoluzionaria succedette in Inghilterra
la inevitabile reazione, là quale a sua volta
oltrepassò di molto lo scopo. Dopò una serie di
oscillazioni il nuovo centro di gravità fini di essere
raggiunto e diventò il punto di partenza della evoluzione
ulteriore. Il grande periodo della storia inglese, che i
filistèi chiamano la "grande ribellione", e le lotte che la
seguirono, ebbero la loro conclusione in un avvenimento
relativamente me-schino del 1689, che gli storici liberali decorano
col titolo di "gloriosa rivoluzione". Il nuovo punto di partenza fu
il compromesso tra la borghesia ascendente e gli antichi grandi
proprietari feudali. Questi ultimi, quantunque si chiamassero come
oggi aristocrazia, erano già da tempo sulla via di diventare
ciò che diventò Luigi Filippo in Francia solo molto
tempo dopo: i primi borghesi della nazione. Fortunatamente per
l'Inghilterra i vecchi signori feudali si erano massacrati
reciprocamente durante le guerre delle due rose. I loro successori,
quantunque generalmente rampolli delle stesse vecchie famiglie,
discendevano da linee collaterali cosi lontane, che costituivano un
corpo completamente nuovo, con abitudini e tendenze ben più
borghesi che feudali. Essi conoscevano perfettamente il valore del
denaro e incominciarono immediatamente ad aumentare le loro rendite
fondiarie, espellendo centinaia di piccoli fittavoli e sostituendoli
con delle pecore. Enrico VIII, dissipando in donazioni e
prodigalità le terre della chiesa, creò una legione di
nuovi grandi proprietari fondiari borghesi. Allo stesso risultato
portarono le ininterrotte confische di grandi domini, che si
cedevano poi a piccoli o grandi nuovi venuti, continuate dopo di lui
sino alla fine del secolo XVII. Per conseguenza, a partire da Enrico
VII 1'"aristocrazia" inglese non pensò affatto a ostacolare
lo sviluppo della produzione industriale, ma cercò anzi di
trarne un beneficio. Allo stesso modo non è mai mancata una
parte dei proprietari fondiari disposta, per ragioni economiche e
politiche, a collaborare coi capi della borghesia industriale e
finanziaria. Il compromesso del 1689 si realizzò dunque
facilmente. Le spolia opima politiche - gli uffici, le sinecure, i
grossi stipendi - furono lasciate alle grandi famiglie nobiliari, a
condizione che esse prestassero sufficiente attenzione agli
interessi economici della borghesia finanziaria, industriale e
mercantile. E questi interessi economici erano già allora
sufficientemente potenti per determinare la politica generale della
nazione. Vi potevano essere disaccordi su questioni singole, ma
l'oligarchia aristocratica comprendeva troppo bene come la sua
propria prosperità economica fosse irrevocabilmente legata a
quella della borghesia industriale e commerciale».
26 Gramsci ricordava qui probabilmente un accenno di Labriola
contenuto nel terzo dei suoi saggi sulla concezione materialistica
della storia: «In Germania, ove per condizioni storiche
speciali, e soprattutto, perché la borghesia non v'è
mai riuscita a spezzare per intero la compagine dell'Ancien Regime
(vedete che quell'imperatore può tenervi impunemente il
linguaggio d'un vicenume, e non è poi in verità che un
Federico Barbarossa fattosi commesso viaggiatore dell'in German
made)...» (cfr Antonio Labriola, Saggi sul materialismo
storico, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200). Il passo è a p.
44 dell'edizione del 1902 conosciuta da Gramsci (non l'aveva
però in carcere): cfr Antonio Labriola, Discorrendo di
socialismo e di filosofia, 2a ed. Loescher, Roma 1902 [FG].
27 Allusione alla vecchia formula di Trockij della
«rivoluzione permanente», rimessa in discussione nelle
polemiche sovietiche del 1924-26. Per la documentazione di queste
polemiche cfr La «rivoluzione permanente» e il
socialismo in un paese solo, scritti di Nikolaj Bucharin, Josip
Stalin, Lev Trockij, Grigorij Zinov'ev, a cura di Giuliano Procacci,
Editori Riuniti, Roma 1963; e Lev Trockij, La rivoluzione
permanente, Einaudi, Torino 1963.