Q1 §44

1 Non si è ritrovata la fonte di questa affermazione attribuita da Gramsci a Vittorio Emanuele sulla base di un ricordo del resto piuttosto vago («o qualcosa di simile») derivante probabilmente da antiche letture. Si può avanzare l'ipotesi che si tratti di una reminiscenza, magari indiretta, di una lettera del 1861, nella quale Vittorio Emanuele II sottolineava la sua noncuranza per le procedure parlamentari scrivendo: «io ho tutti i partiti nelle mani, e me ne batto le cuggia». L'affermazione, riferendosi a tutti i partiti, riguardava evidentemente anche il Partito d'Azione, che tuttavia non era esplicitamente menzionato. L'episodio poteva essere noto a Gramsci attraverso le memorie del generale E. Della Rocca, Autobiografia di un veterano, Bologna 1897, vol. II, p. 117, o attraverso una citazione indiretta (cfr ora anche il libro di Denis Mack Smith, Vittorio Emanuele II, Laterza, Bari 1972, p. 153).

2 Sui romanzi di Eugène Sue Gramsci ritorna più volte negli altri Quaderni. Anche in un articolo di 'Sotto la Mole' del 1916 (cfr SM, 213) il nome del personaggio di Piccolo mondo antico, Franco Maironi, è citato inesattamente come Piero, che è invece il protagonista dei due successivi romanzi della tetralogia fogazzariana, Piccolo mondo moderno e II santo.

Anche l'episodio menzionato in questo testo dei Quaderni non è ricordato in modo del tutto esatto: nel romanzo di Fogazzaro (parte II, cap. v), Franco Maironi riceve i Misteri del popolo non clandestinamente dalla Svizzera, ma dall'amico professor Gilar-doni. Per l'atteggiamento di Gramsci nei confronti di Fogazzaro cfr, oltre l'articolo già citato, anche un altro articolo di 'Sotto la Mole' del 29 gennaio 1917 (SM, 289).

3 Vi è qui una probabile reminiscenza di una famosa immagine usata da Lenin per definire l'essenza del metodo politico-rivoluzionario: «Non basta essere rivoluzionario e fautore del socialismo o comunista in generale. Bisogna saper trovare in ogni particolare momento il particolare anello della catena a cui bisogna aggrapparsi con tutte le forze, per reggere tutta la catena e preparare un sicuro passaggio all'anello successivo; e l'ordine degli anelli, la loro forma, il loro concatenarsi, i tratti che li distinguono l'uno dall'altro nella catena storica degli avvenimenti, non sono cosi semplici, né cosi grossolani come in una comune catena forgiata da un fabbro». Questa definizione di Lenin è nell'opuscolo I compiti immediati del potere sovietico [Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1967, vol. XXVII, p. 245) che Gramsci conobbe per la prima volta attraverso il riassunto fattone da MaX Eastman nell'articolo Uno Statista dell'Ordine Nuovo, pubblicato a puntate da «L'Ordine Nuovo», ia serie. Cfr in particolare l'ultima puntata in «L'Ordine Nuovo», 7 giugno 1919 (anno 1, n. 5).

4 Sull'«Avanti!» del 10 ottobre 1920 (4a pagina, ed. piemontese), in una corrispondenza da Palermo sul movimento dei contadini siciliani, si dava notizia di un congresso di «agricoltori siciliani» tenuto in quei giorni. Nella mozione approvata si diceva tra l'altro che il congresso «delibera di rendere noto che, ove le autorità non provvedano in tempo, i proprietari e gli agricoltori si terranno legittimamente investiti del potere e del diritto di provvedere i mezzi onde integrare il rispetto della legge e dell'ordine costituito». Un accenno più esplicito al rapporto tra reazione agraria e separatismo siciliano è nelle Tesi del Partito Comunista d'Italia per il lavoro contadino nel Mezzogiorno, scritte da Ruggiero Grieco e pubblicate prima parzialmente sull'«Unità» del 21 ottobre 1926, poi integralmente in «Lo Stato operaio», 1927 (anno 1, n. 2) (ora in Ruggiero Grieco, Scritti scelti, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 186-213): «Nel 1920, e particolarmente in occasione della occupazione delle terre, i sicilianisti hanno chiaramente fatto intendere che ove lo Stato italiano non avesse adottato tutti i mezzi per reprimere le agitazioni delle masse rurali, la Sicilia avrebbe pensato da sé alla bisogna, dandosi un proprio reggimento. E allorquando nel continente la minaccia della rivoluzione degli operai e dei contadini parve sopraffare lo Stato borghese italiano, i siciliani avvertivano che nel caso la rivoluzione proletaria fosse stata vittoriosa essi avrebbero dichiarata la Sicilia indipendente» (ibid., pp. 194-95).

5 Il caso, qui ricordato, del duca di Bivona, Grande di Spagna e proprietario di feudi in Sicilia, è da collegare al movimento contadino siciliano di occupazione delle terre del 1920. Un accenno a un intervento diplomatico provocato dal duca per sollecitare la repressione del movimento contadino a Ribera, in provincia di Agrigento (allora Girgenti), è in una corrispondenza delll'«Avanti!» dell11 febbraio 1920, La verità sui fatti di Ribera.

6 Nel quadro delle iniziative e dei provvedimenti adottati dal regime fascista per «fascistizzare» tutta la stampa italiana, i fratelli Scarfoglio (Paolo, Carlo, Michele e Salvatore) furono praticamente estromessi dalla redazione del quotidiano di Napoli «Il Mattino» fin dal gennaio 1926. La famiglia Scarfoglio tuttavia continuò ad essere proprietaria dell'azienda editoriale del «Mattino» fino al 1928, quando fu costretta, per le pressioni del regime, a vendere le azioni rimanendo cosi definitivamente estromessa dall'azienda. Alcuni documenti sulla estromissione degli Scarfoglio dal «Mattino» sono pubblicati in appendice al volume di Valerio Castronovo, La stampa italiana dall'Unità al fascismo, Laterza, Bari 1970, pp. 372-95.

7 Gramsci si riferisce qui alla campagna giornalistica svolta dal «Mattino» contro il concordato stipulato dalle Cotonerie Meridionali con i sindacati fascisti grazie all'intervento di Giovanni Preziosi in qualità di fiduciario della Direzione del Partito fascista. Poco dopo la stipulazione di questo concordato, che comportava gravi sacrifici per gli operai delle Cotonerie Meridionali e per gli interessi del Mezzogiorno, il Preziosi fu nominato direttore del «Mezzogiorno», di proprietà delle stesse Cotonerie Meridionali. La campagna del «Mattino» aveva avuto inizio nel numero del 6-7 settembre 1923 con un articolo intitolato Come si va smembrando una industria meridionale. Il Concordato Preziosi. Sono in quest'articolo, dove si ricorda tra l'altro una precedente campagna in difesa dell'industria meridionale, i riferimenti ai Borboni menzionati da Gramsci: «I lettori del "Mattino" ricorderanno la vivace campagna da noi intrapresa nel maggio 1922 per impedire che la più antica industria tessile d'Italia, industria della filatura e della tessitura del cotone, che conta centotrent'anni di vita: che i Borboni protessero e incoraggiarono con quello intelligente spirito di modernità che ormai nessuno nega loro: venisse distrutta e annichilita per compiacere gli interessi del nord». Altro accenno ai Borboni è nel corso dello stesso articolo, a proposito del trasporto del macchinario al Nord: «Non ricominceranno più tardi a lavorare in un cotonificio lombardo, mentre l'industria fondata dalla saviezza borbonica sarà stata distrutta?» Il giornale si vantava al tempo stesso di appoggiare gli operai traditi dai sindacati fascisti: «Perché un giornale conservatore come il nostro appoggi una rivendicazione operaia conviene che gli operai abbiano pienamente ragione». Questa campagna del «Mattino», continuata giornalmente per una settimana, era stata poi interrotta improvvisamente nel numero del 14-15 settembre con l'annuncio che il governo aveva avocato a sé la questione. Tuttavia l'episodio del Concordato delle Cotonerie Meridionali, insieme ad altri scandali in cui era stato implicato il Preziosi, tornò alla ribalta nel 1925 in occasione di una polemica giornalistica iniziata dal giornale «Il Mondo» e seguita poi da un processo per diffamazione e ingiurie tenutosi a Napoli tra i primi di giugno e i primi di agosto del 1925: cfr Gli scandali dell'affarismo borghese: Appunti sul processo «Mondo»-«Mezzogiorno», in «l'Unità» del 6 agosto 1925.

8 Si tratta di un brevissimo pezzo polemico apparso su «l'Unità» di Salvemini, non nel 1914-15, ma nel numero del 29 novembre 1917 (anno vi, n. 48). Dopo un trafiletto (Una genealogia caratteristica) in cui si allude a possibili rapporti di «intelligenza col nemico» dello Stato Maggiore italiano per via di un intreccio di parentele (ma le allusioni risultano scarsamente intellegibili a causa dell'intervento della censura), si insinua in un successivo trafiletto (Un altro filo conduttore) che anche Malatesta, per i suoi rapporti con Maria Sofia, possa essere stato manovrato nel giugno 1914 dallo Stato Maggiore austriaco: «Errico Malatesta, il condottiero della settimana rossa, era amico anche lui di Maria Sofia di Baviera, ex regina di Napoli. Cominciamo, dunque, a capire le origini della settimana rossa».

9 Cfr Benedetto Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, serie II, Laterza, Bari 1927, pp. 406-7: «Poco si sa [...] dei pensieri e sentimenti e propositi che nutrivano i sovrani spodestati nei loro ritiri di Francia e di Baviera, perché quelli che stavano loro accanto hanno serbato il silenzio attorno a questo punto; e, forse, non avevano nulla da raccontare non potendosi dare informazione del nulla. La regina Maria Sofia sembra che fosse, conforme alla sua indole, di volta in volta disposta a folli speranze e non aliena da intrighi; e, certo, quel tale Insogna, biografo di Francesco II, era un suo agente, e venne in Italia nel 1904 con lettere dell'anarchico Malatesta a prendere accordi con anarchici italiani per liberare il Bresci, regicida di Umberto di Savoia, e fu fatto arrestare da Giolitti, e dipoi espulso, ottenendosi al tempo stesso, per vie diplomatiche, che tanto l'imperatore d'Austria, quanto il governo della Repubblica francese ammonissero Maria Sofia di starsene tranquilla». Lo scritto di Croce (Gli ultimi borbonici) in cui è compreso questo passo era già stato pubblicato in una serie di articoli apparsi su «La Stampa» di Torino (cfr in particolare il numero del 3 giugno 1926); e già allora con ogni probabilità aveva attirato l'attenzione di Gramsci giacché se ne trova una eco in un commento pubblicato da «l'Unità» dell'i 1 giugno 1926, Chi spinse Bresci al regicidio?, a firma di Ettore Ferrari (ma forse per ispirazione dello stesso Gramsci). Il commento dell'«Unità», in cui è riprodotto il passo citato di Croce, sollecitava ulteriori chiarimenti sull'episodio e concludeva affermando che «se non vi saranno chiare spiegazioni e del Croce e del Malatesta molta luce fosca piomberebbe sul gesto dell'anarchico Gaetano Bresci». Croce tuttavia non ha mai fornito nessuna spiegazione sui lati oscuri di questa vicenda, né ha indicato la fonte della sua informazione; ristampando il saggio su Gli ultimi borbonici nel secondo volume di Uomini e cose della vecchia Italia non si è nemmeno curato di rettificare l'evidente svista di collocare nel 1904 il presunto tentativo di liberare il Bresci, morto, suicida in carcere, già nel 1901. All'articolo dell'«Unità» rispose invece Errico Malatesta, Ver fatto personale: manovre borboniche e malignità comuniste, nel quindicinale anarchico di Ginevra, «Il Risveglio», ed. italiana, 30 luglio 1926 (anno XXVI, n. 698): «Io, naturalmente, non so nulla di nulla; e se sapessi qualche cosa non vorrei raccontarla alla polizia, nemmeno tramite l'On. Enrico Ferrari. E intanto faccio notare la singolare psicologia di certi comunisti : sempre pronti a raccogliere qualunque storiella di lavandaia (si può far da lavandaia anche chiamandosi Benedetto Croce) se sembri loro che possa servire per dir male degli anarchici». Di questo articolo di Malatesta Gramsci non ebbe notizia, come risulta da un accenno aggiunto nel testo C del quarto paragrafo, dove si afferma che Malatesta non avrebbe mai risposto a queste accuse. Dopo la pubblicazione della prima edizione dei Quaderni la polemica su questo episodio è stata ripresa dal periodico anarchico di Roma «Umanità Nova», 20 marzo 1949 (anno XXiX, n. 12); Una vecchia storiella contro Bresci e Malatesta nuovamente riferita in una opera di A. Gramsci. Sullo stesso argomento cfr anche Quaderno 7 (VII), § 100.

10 Cfr. Alcuni temi della quistione meridionale cit. (in CPC, 140): «È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l'esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura "meridionalista" della,cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la "scienza" era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato».

11 La «Rivista popolare di Politica, Lettere e Scienze sociali» fu diretta da Napoleone Colajanni dal 1895 al 1921. Attraverso questa rivista, e nello stesso tempo dalla tribuna parlamentare e in libri e opuscoli, Colajanni condusse per molti anni una vivace campagna contro l'interpretazione razzistica dell'inferiorità del Mezzogiorno e contro la teoria delle «razze inferiori», in polemica con Cesare Lombroso, Enrico Ferri, Raffaele Garofalo, Alfredo Niceforo e Paolo Orano. Tra i documenti più significativi di tale polemica, cfr Per la razza maledetta, Roma 1898 (alcuni stralci in 17 Sud nella storia d'Italia, antologia della questione meridionale a cura di Rosario Villari, Laterza, Bari 1966, vol. II, pp. 431-44); Settentrionali e meridionali, Roma 1898; J7 dissidio tra Nord e Sud - Esortazioni di un parricida, Palermo 1899; In difesa del Mezzogiorno (discorso alla Camera dei Deputati dell'i 1 dicembre 1901), Roma 1902; Latini e Anglosassoni - Razze superiori e razze inferiori, Roma 1903.

12 Anche questo episodio è qui annotato sulla base di un vecchio ricordo, già utilizzato in diverse occasioni in articoli di Gramsci o in documenti da lui ispirati. La prima menzione è in un articolo pubblicato nell'edizione piemontese deir«Avanti!» del 16 aprile 1919 (ora in Scritti 1915-21 cit., pp. 103-4): «Perché è proibito ricordare ciò che ha detto, nell'ultimo congresso sardo tenuto a Roma un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910, lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente italiana non sarda?» Il nome del «generale sardo» (Rughi), omesso in questo testo, è menzionato invece esplicitamente, in relazione alla stessa denuncia, in un discorso parlamentare del deputato comunista Ferrari, ispirato certamente da Gramsci (cfr il resoconto su «l'Unità» del 19 giugno 1925), e nel saluto della Krestintern al V Congresso del Partito sardo d'azione (cfr «l'Unità» del 29 settembre 1925). Non è stato tuttavia possibile rintracciare documenti dell'epoca che confermino l'esattezza di questo ricorrente riferimento di Gramsci. Nell'articolo del 1919 si parla dell'«ultimo Congresso sardo tenuto a Roma», ma la data del 1911 aggiunta nei Quaderni è probabilmente inesatta. Un I Congresso regionale sardo si tenne a Roma nel 1914, ma dagli Atti pubblicati non risulta che vi abbia preso la parola, o che sia stato anche solo presente il generale Rugiu. È possibile che l'episodio, magari alterato nei particolari, sia rimasto impresso nella memoria di Gramsci attraverso conversazioni o discorsi ascoltati negli ambienti sardisti frequentati a Torino nel 1919 (si veda la rievocazione fattane dallo stesso Gramsci nel saggio sulla questione meridionale: cfr CPCy 142-43). Il generale Vittorio Rugiu (1836-1926), nato a Sassari, aveva partecipato alle campagne militari del 1859 e del 1866, combattendo a Magenta e a San Martino, e, come capitano di stato maggiore, a Custoza; come comandante di corpo d'armata, aveva risieduto a Bari dal 1896 al 1898, e ad Alessandria dal 1898 al 1902. Lasciato il servizio attivo nel 1902, soggiornò per undici anni a Torino, fino al 1913, quando si trasferì in Sardegna. Non risulta che si sia mai occupato attivamente di politicale appare poco probabile che Gramsci lo abbia conosciuto personalmente.

13 Cfr Alcuni temi della quistione meridionale cit., in CFC, 155, dove già si sottolinea l'influenza degli intellettuali meridionali sulle pubblicazioni qui ricordate. I «borelliani»* sono i gruppi dei «Giovani Liberali» organizzati da Giovanni Borelli. Il titolo esatto della rivista milanese, qui ricordata come «Azione liberale», è «L'Azione» («Rassegna liberale e nazionale»): fondata nel maggio 1914, ne erano direttori Paolo Arcari e Alberto Caroncini (nel passo citato del saggio sulla questione meridionale il titolo di questa rivista è citato esattamente).

14 Si allude all'articolo pubblicato da Giovanni Ansaldo su «Il lavoro» di Genova del 1° ottobre 1925, in occasione della prima edizione del libro di Guido Dorso, La rivoluzione meridionale, P. Gobetti editore, Torino 1925 (una seconda edizione di questo libro, curata dall'autore, è del 1950, Einaudi, Torino). In quest'articolo - che è ricordato da Gramsci anche nel Quaderno 3 (XX), § 40 - Ansaldo polemizza non solo contro Dorso, ma anchecontro Gramsci, di cui il libro di Dorso si era occupato ampiamente in termini positivi. A proposito di ciò che scrive Gramsci sull'«unitarismo ossessionato» nella polemica di Ansaldo e su una «certa comicità» nei suoi atteggiamenti, si possono confrontare alcuni passi dell'articolo citato: «Per un gioco - ah, lasciatemelo dire! - di schemi ideali, per cercare una soluzione ad unadialettica contrapposizione di termini, voi perdete cosi di vista la realtà del Regno d'Italia, la realtà del Reame di Napoli sempre viva, la realtà delle bande e dei mazzoni borbonici sempre imminente! [...]. Gramsci! Gramsci che scopre il nocciolo del proble ma italiano! Ma che nocciolo volete che scopra, quell'uomo che se li trangugia tutti i noccioli, quelli delle frutta quando mangia e quelli dei sistemi filosofici quando ragiona! O che credete, che sia il demiurgo della storia italiana, e non, press'a poco, un intellettuale come noi e come voi, che domani a situazione mutata, sarebbe travolto dalle forze di sovvertimento secolare agenti nel nostro paese, che si evocano si, ma non si contengono? [...]. E chi vi assicura che d'un tratto, lasciata via libera ai poveri "cafoni" di fare quello che voi, con lusso di parole vaghe, chiamate rivoluzione meridionale, non rispunterebbero, dietro le richieste materiali del 1860, anche i postulati più strettamente politici? Credete voi che il Gramsci sia davvero più forte di Fra Diavolo? Forse che nessun pericolo minaccia più l'unità italiana?» Sul seguito di questa polemica cfr nota 24 al Quaderno 19 (X), § 24.

15 Cfr Alcuni temi della quistione meridionale cit., in CPC, 158: «Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti, sempre più *voli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l'armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario».

16 Si tratta di una serie di articoli, scritti da Proudhon nel 1862 e pubblicati in parte su un giornale belga, poi raccolti nello stesso anno in volume, con integrazioni e nuove appendici polemiche: cfr Pierre-Joseph Proudhon, La Fédération et l'unite en Italie, E. Dentu, Paris 1862, Sulla tendenza «democratico-gallicista» e sul «gallicismo» operaio di Proudhon cfr un altro accenno nel Quaderno 7 (VII), § 51.

17 Questo riferimento alla Sacra famiglia, nel senso indicato nel testo, ricorre frequentemente nei Quaderni e si trova anche in una lettera di Gramsci del 30 maggio 1932 (cfr LC, 629). Nella traduzione francese citata della Sacra famiglia, che Gramsci aveva presente, il passo corrispondente è a p. 67 del tomo II delle OEuvres philosophiques. Per la traduzione italiana cfr Friedrich Engels - Karl Marx, La sacra famiglia, a cura di A. Zanardo, Edi tori Riuniti, Roma 1967, p. 47: «Se il signor Edgar paragona per un momento la eguaglianza francese con la autocoscienza tedesca, troverà che il secondo principio esprime in tedesco, cioè nel pensiero astratto, ciò che il primo dice in francese, cioè nella lingua della politica e del pensiero intuitivo».

18 Della letteratura storiografica intorno alla Rivoluzione francese Gramsci ha utilizzato in particolare il manuale del Mathiez, di cui però, quando scriveva questo paragrafo, aveva presente solo i primi due volumi: Albert Mathiez, La Revolution française, tomo I: La Chute de la Royauté, Colin, Paris 1922 [FG, C. carc., Turi II]; tomo II: La Gironde et la Montagne, Colin, Paris 1924 [FG, C. carc., Turi II] (cfr LC, 264). Della legge Chapelier, votata dalla Costituente il 14 giugno 1791, contro le coalizioni operaie, si parla nel capitolo X del primo volume. Della legge del maximum (29 settembre 1793), a cui Gramsci accenna in un'aggiunta posteriore, si parla invece nel capitolo VI del terzo volume, ordinato da Gramsci nel giugno 1930 (cfr LC, 351): Albert Mathiez, La Revolution française, tomo III: La Terreur, 2ª ed. Colin, Paris 1928 [FG, C. carc., Turi II].

19 Cfr Rerum Scriptor [Gaetano Salvemini], Moderati e democratici milanesi dal 1848 al 1859, in «Critica Sociale», 16 novembre 1899 (anno VIII, n. 19), pp. 297-99; 1° dicembre 1899 (anno VIII, n. 20), pp, 317-19 (è un capitolo del libro pubblicato poco dopo, sempre sotto lo pseudonimo di Rerum Scriptor, con il titolo I partiti politici milanesi nel secolo XIX, Biblioteca dell'«Educazione politica», Milano 1899; ora in Salvemin;, Scritti sul Risorgimento cit., a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda, pp. 27-123). Salvemini polemizza qui con Bonfadini, che aveva difeso anche le debolezze dei moderati: cfr Romualdo Bonfadini, Mezzo secolo di patriottismo, 2a ed. Treves, Milano 1866.

20 I costituti Confalonieri conservati negli archivi di Vienna furono ritrovati da Francesco Salata nel 1924, ma l'articolo a cui Gramsci si riferisce è del 1926: cfr Francesco Salata, I «Costituti» di Federico Confalonieri rivendicati all'Italia, in «Corriere della Sera», 15 aprile 1926. Successivamente questi documenti, consegnati al governo italiano e affidati all'Archivio di Stato di Milano, furono pubblicati a cura dell'Istituto Storico Italiano per l'età moderna e contemporanea: cfr I Costituti di Federico Confalonieri, voll. I-II-III, a cura di Francesco Salata, Zanichelli, Bologna 1940-41; vol. IV, a cura di A. Giussani, ivi 1956.

21 Cfr I Costituti del Conte Confalonieri, in «Civiltà Cattolica», 18 ottobre 1902 (anno lui, serie XVIII, vol. VIII), pp. 144-57. In polemica con Alessandro D'Ancona, il quale aveva sostenuto che i Costituti Confalonieri mancavano negli archivi italiani, l'articolo della «Civiltà Cattolica» affermava: «I Costituti del Confalonieri non furono distrutti, come si volle dare ad intendere; furono lasciati nell'archivio del Tribunale di Milano [...]. Perché dunque nasconderli? perché non dare alla pubblica opinione il pascolo della verità e impor fine una volta alle leggende? Forse che si ha paura che col far conoscere i Costituti di Federico Confalonieri, di Silvio Pellico, di Pietro Maroncelli... ne debba crollare l'edifizio dell'Italia una?»

22 Una puntigliosa difesa dell'operato del Salvotti, giudice inquisitore nel processo Pellico-Maroncelli e nel processo Confalonieri, con toni di aperta apologia di questa figura di magistrato zelante al servizio delle autorità austriache, è nell'ampio saggio di Alessandro Luzio, Antonio Salvotti e i processi del '21 (compreso in Alessandro Luzio, Studi critici, Cogliati, Milano 1927, pp. 291-491). Sullo stesso argomento Gramsci ritorna nel già citato § 53 del Quaderno 19 (X). Un altro accenno al carattere tendenzioso e acrimonioso della storiografia del Luzio è nel Quaderno 8 (XXVIII), § 23.

23 Cfr Alfredo Panzini, Vita di Cavour, cap. vi, in «L'Italia letteraria», 30 giugno 1929 (anno 1, n. 13): «Nello stesso 1857 l'Imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe, viene a visitare il suo bel Regno d'Italia: è a Milano, a due passi da Torino; ma Cavour non gli manda nemmeno la gualdrappa di un ciambellano a fargli i complimenti d'uso. Ma la stampa di Torino è piena di scherno contro certi impenitenti signori lombardi che credono ancora di vivere ai tempi del Sacro Romano Impero, e sono andati ad inchinare Francesco Giuseppe. (Veramente ci fu una dama che onorò l'Imperatore in modo atroce: si dovevano ornare i balconi al passaggio dell'Imperatore. Quella dama ornò il suo balcone con una pelle di tigre)».

24 Cfr Karl Marx - Friedrich Engels, Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti, in Il Partito e l'Internazionale, Edizioni Rinascita, Roma 1948, pp. 87-98. Nell'Indirizzo (che è datato da Londra, marzo 1850) è detto tra l'altro: «Mentre i piccoli borghesi democratici vogliono portare al più presto possibile la rivoluzione alla conclusione, e realizzando tutt'al più le rivendicazioni di cui sopra, è nostro interesse e nostro compito rendere permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere dello Stato, sino a che l'associazione dei proletari, non solo in un paese, ma in tutti i paesi dominanti del mondo, si sia sviluppata al punto che venga meno la concorrenza tra i proletari di questi paesi, e sino a che almeno le forze produttive decisive non siano concentrate nelle mani dei proletari» (ibid., pp. 91-92); e nelle conclusioni: «Sebbene gli operai tedeschi non possano giungere al potere e soddisfare Ì loro interessi di classe senza attraversare un lungo sviluppo rivoluzionario, essi hanno però questa volta per lo meno la coscienza che il primo atto dell'incombente dramma rivoluzionario coinciderà con la vittoria della loro classe in Francia e perciò il processo sarà affrettato. Ma essi stessi debbono fare l'essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a se stessi i loro propri interessi di classe, assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito, e non lasciando che le frasi ipocrite dei piccoli borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il loro grido di battaglia deve essere: La rivoluzione in permanenza!» [ibid., p. 98).

25 Cfr Engels, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza, Ed. Rinascita cit., pp. 31-33 (dalla prefazione all'edizione inglese del 1892): «La borghesia delle città si lanciò per la prima nel movimento; i contadini medi (yeomanry) dei distretti rurali lo fecero trionfare. È abbastanza curioso il fatto che in tutte le tre grandi rivoluzioni della borghesia i contadini forniscono l'esercito per la lotta, mentre sono la classe che dopo la vittoria viene immancabilmente rovinata dalle conseguenze economiche della vittoria stessa. Un secolo dopo Cromwell, la yeomanry inglese era quasi scomparsa. Eppure fu solo per la partecipazione di questa yeomanry e dell'elemento plebeo delle città che la lotta venne combattuta fino alla vittoria e Carlo I fatto salire sul patibolo. Affinché potessero venire assicurate almeno quelle conquiste della borghesia che erano mature e pronte, ad essere mietute, era necessario che la rivoluzione oltrepassasse di molto il suo scopo, esattamente come in Francia nel 1793 e in Germania nel 1848. Sembra che questa sia una delle leggi della evoluzione della società borghese. A questo eccesso di attività rivoluzionaria succedette in Inghilterra la inevitabile reazione, là quale a sua volta oltrepassò di molto lo scopo. Dopò una serie di oscillazioni il nuovo centro di gravità fini di essere raggiunto e diventò il punto di partenza della evoluzione ulteriore. Il grande periodo della storia inglese, che i filistèi chiamano la "grande ribellione", e le lotte che la seguirono, ebbero la loro conclusione in un avvenimento relativamente me-schino del 1689, che gli storici liberali decorano col titolo di "gloriosa rivoluzione". Il nuovo punto di partenza fu il compromesso tra la borghesia ascendente e gli antichi grandi proprietari feudali. Questi ultimi, quantunque si chiamassero come oggi aristocrazia, erano già da tempo sulla via di diventare ciò che diventò Luigi Filippo in Francia solo molto tempo dopo: i primi borghesi della nazione. Fortunatamente per l'Inghilterra i vecchi signori feudali si erano massacrati reciprocamente durante le guerre delle due rose. I loro successori, quantunque generalmente rampolli delle stesse vecchie famiglie, discendevano da linee collaterali cosi lontane, che costituivano un corpo completamente nuovo, con abitudini e tendenze ben più borghesi che feudali. Essi conoscevano perfettamente il valore del denaro e incominciarono immediatamente ad aumentare le loro rendite fondiarie, espellendo centinaia di piccoli fittavoli e sostituendoli con delle pecore. Enrico VIII, dissipando in donazioni e prodigalità le terre della chiesa, creò una legione di nuovi grandi proprietari fondiari borghesi. Allo stesso risultato portarono le ininterrotte confische di grandi domini, che si cedevano poi a piccoli o grandi nuovi venuti, continuate dopo di lui sino alla fine del secolo XVII. Per conseguenza, a partire da Enrico VII 1'"aristocrazia" inglese non pensò affatto a ostacolare lo sviluppo della produzione industriale, ma cercò anzi di trarne un beneficio. Allo stesso modo non è mai mancata una parte dei proprietari fondiari disposta, per ragioni economiche e politiche, a collaborare coi capi della borghesia industriale e finanziaria. Il compromesso del 1689 si realizzò dunque facilmente. Le spolia opima politiche - gli uffici, le sinecure, i grossi stipendi - furono lasciate alle grandi famiglie nobiliari, a condizione che esse prestassero sufficiente attenzione agli interessi economici della borghesia finanziaria, industriale e mercantile. E questi interessi economici erano già allora sufficientemente potenti per determinare la politica generale della nazione. Vi potevano essere disaccordi su questioni singole, ma l'oligarchia aristocratica comprendeva troppo bene come la sua propria prosperità economica fosse irrevocabilmente legata a quella della borghesia industriale e commerciale».

26 Gramsci ricordava qui probabilmente un accenno di Labriola contenuto nel terzo dei suoi saggi sulla concezione materialistica della storia: «In Germania, ove per condizioni storiche speciali, e soprattutto, perché la borghesia non v'è mai riuscita a spezzare per intero la compagine dell'Ancien Regime (vedete che quell'imperatore può tenervi impunemente il linguaggio d'un vicenume, e non è poi in verità che un Federico Barbarossa fattosi commesso viaggiatore dell'in German made)...» (cfr Antonio Labriola, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200). Il passo è a p. 44 dell'edizione del 1902 conosciuta da Gramsci (non l'aveva però in carcere): cfr Antonio Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, 2a ed. Loescher, Roma 1902 [FG].

27 Allusione alla vecchia formula di Trockij della «rivoluzione permanente», rimessa in discussione nelle polemiche sovietiche del 1924-26. Per la documentazione di queste polemiche cfr La «rivoluzione permanente» e il socialismo in un paese solo, scritti di Nikolaj Bucharin, Josip Stalin, Lev Trockij, Grigorij Zinov'ev, a cura di Giuliano Procacci, Editori Riuniti, Roma 1963; e Lev Trockij, La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino 1963.