Stratificazioni sociali
    di Talcott Parsons
    
    www.treccani.it
    Enciclopedia delle scienze sociali (1984)
    
    
    Sommario: 1. Introduzione. 2. Teorie sull'origine delle classi
    sociali. 3. Momenti rilevanti nella storia della stratificazione in
    Occidente. 4. Lo sviluppo dello Stato nazionale moderno. 5. La
    ‛democratizzazione' degli strati sociali superiori nella
    società occidentale. 6. Il conflitto tra socialismo e
    capitalismo e le recenti tendenze delle strutture di classe. 7.
    Stratificazione ed eguaglianza delle opportunità. 8. La
    stratificazione tra le nazioni. 9. Conclusione: vi è oggi un
    equivalente funzionale delle aristocrazie tradizionali? □
    Bibliografia.
    
    1. Introduzione
    
    Il termine ‛stratificazione sociale', di cui ‛classe sociale'
    è una sottocategoria, si riferisce, per consenso
    pressoché generale degli studiosi di scienze sociali, alla
    distribuzione differenziale, su scala di superiorità o
    inferiorità relativa, delle unità dei sistemi sociali,
    siano questi società nel loro insieme o varie altre categorie
    sociali (v. Parsons, 1953 e 1970). Queste unità possono
    essere individui considerati in quanto membri della società o
    di gruppi, oppure sottogruppi o sottocollettività di molti
    tipi diversi. Farò uso del concetto di ‛prestigio' relativo,
    come del termine di riferimento più generale per questa
    distribuzione differenziale degli status. Il prestigio può
    essere, a sua volta, rapportato alla stima socialmente diffusa, al
    conseguimento di particolari risultati, a posizioni relative di
    responsabilità e potere nell'organizzazione della
    collettività (in particolare dello Stato), all'appartenenza a
    determinati gruppi culturali (quali il clero e gli altri specialisti
    di cose religiose, gli artisti, gli scienziati e simili), al grado
    di ricchezza, con la relativa possibilità di accedere a certi
    modelli di consumo prestigioso, a opportunità di varia natura
    e simili.
    
    È bene chiarire fin dall'inizio che la stratificazione
    così intesa è soltanto una delle dimensioni della
    differenziazione di status tra le unità dei sistemi sociali.
    Tra le altre, la più importante presumibilmente è la
    differenziazione qualitativa degli status a seconda della loro base:
    in questo senso, particolare rilievo hanno, nelle società
    più altamente differenziate (quelle moderne in special modo),
    le differenze in base alla funzione. Benché le funzioni siano
    di fatto anche oggetto di una valutazione come più o meno
    onorifiche e prestigiose non c'è alcuna ragione di carattere
    generale per ritenere che le persone impegnate principalmente
    nell'esercizio di funzioni politiche nell'ambito governativo, siano
    esse ai massimi vertici o ai gradini più bassi, oppure
    nell'esercizio di funzioni di produzione economica, di creazione
    culturale in campo artistico o intellettuale, stiano, per questo
    solo fatto, in rapporto gerarchico tra loro in una qualsiasi maniera
    definita e generale. Vi sono società nelle quali il sapere e
    l'insegnamento godono di un prestigio particolarmente alto e altre
    in cui sono tenuti in minor conto; lo stesso vale, ad esempio, per
    le attività nel settore economico o in quello politico; non
    sembra tuttavia si possa arrivare ad alcuna generalizzazione
    universalmente valida circa l'esistenza di un ordine intrinseco di
    classificazione nella valutazione di funzioni come queste.
    
    Una completa eguaglianza di status, dal punto di vista del
    prestigio, è ovviamente il caso limite in cui la
    stratificazione, nel senso sopra descritto, scompare; ovvero
    può essere anche considerata come un caso particolarissimo,
    cioè un caso limite della stratificazione stessa. Da un punto
    di vista empirico, non si dà alcun caso di totale assenza di
    stratificazione al livello di una società globalmente
    considerata. Ad esempio, certe società molto primitive, come
    quelle degli aborigeni australiani, non hanno ‛classi sociali' nel
    senso usuale del termine, ma mostrano un'evidentissima
    stratificazione in rapporto all'età e al sesso (v. Warner,
    1958) gli uomini hanno la preminenza, per certi aspetti molto
    generali, nei confronti delle donne, così come, naturalmente,
    ce l'hanno gli adulti nei confronti dei bambini; ma anche nella
    categoria degli adulti, specie tra gli uomini, tende a delinearsi
    una posizione di particolare prestigio a favore dei gruppi di
    età più avanzata, di quelli cioè che vengono
    talvolta chiamati gli ‛anziani' della tribù o del clan (v.
    Evans-Pritchard, 1963; v. Lienhardt, 1954; v. Fortes ed
    Evans-Pritchard, 1940; v. Nadel, 1951).
    
    Certo è comunque che nella cultura occidentale, a partire
    almeno dall'antica Grecia, è stato sempre attribuito un
    grande valore all'eguaglianza e si è guardato con una specie
    di nostalgia a un passato mitico, in cui gli uomini vivevano, se non
    in un'assoluta eguaglianza, almeno in una condizione a essa molto
    più vicina di quella attuale (v. Wilamowitz-Moellendorff,
    1910) I miti dell'età dell'oro hanno di continuo posto
    l'accento sul tema dell'eguaglianza il concetto marxiano e di
    ‛comunismo primitivo' non è il caso meno significativo.
    Movimenti sociali e altre forme di pressione in favore di una
    riduzione delle diseguaglianze, e quindi di una maggiore
    eguaglianza, hanno costituito una rilevante caratteristica
    già presente nella rivoluzione puritana e nelle prime
    tendenze democratiche del Cinque e Seicento, e poi particolarmente
    spiccata a partire dall'illuminismo e dalla Rivoluzione francese
    pressoché di tutte le società moderne (v.
    Halévy, 1901-1904; v. Palmer, 1959-1964). L'epoca
    contemporanea sembra investita da una nuova, più intensa
    ondata di spirito egualitario, che in parte si esprime in programmi
    radicalmente rivoluzionari, ma, in misura assai più ampia, si
    manifesta come generale tendenza a mettere in questione la
    legittimità delle diseguaglianze nella società umana.
    Questo orientamento egualitario sembra essere una caratteristica
    permanente del sistema di valori della cultura occidentale.
    
    2. Teorie sull'origine delle classi sociali
    
    Le più importanti forme di stratificazione, almeno al livello
    della società nel suo insieme, sembrano essere state quelle
    in cui la differenziazione delle popolazioni in strati di prestigio,
    prerogative, privilegi e responsabilità differenti si basava
    sulla continuità intergenerazionale, quelle cioè in
    cui uno status superiore e/o inferiore era, in misura determinante,
    socialmente ereditato attraverso la consanguineità e la
    parentela. Il termine ‛mobilità' è ordinariamente
    usato, da questo punto di vista, per designare i processi di
    cambiamento di status da parte di membri di una generazione nei
    confronti dei genitori e di altri ascendenti. Possiamo usare il
    termine molto generale di ‛differenziazione di classe' per designare
    questo tipo di stratificazione. Il suo insorgere è
    chiaramente connesso con la differenziazione che, come è
    stato rilevato particolarmente da Shils (v., 1970), ma anche da
    altri come Eisenstadt (v., 1961 e 1966), si produce tra il ‛centro'
    e la ‛periferia'. Il centro è legato all'emergere di certi
    elementi differenziati di ‛direzione' nel funzionamento di una
    società (lo stesso discorso può farsi riguardo alle
    sottosocietà). L'emergere di un centro è quasi sempre
    connesso al consolidarsi di un'autorità politica su base
    territoriale e al fatto che l'autorità politica non è
    in genere equamente distribuita nell'insieme della popolazione, ma
    è concentrata nelle mani di minoranze ‛elitarie', le quali
    sono assai spesso aristocrazie ereditarie, ma possono anche, in
    determinate occasioni, configurarsi in modo diverso. Anche nel caso
    paradigmatico della democrazia nella Grecia classica, il principio
    egualitario si applicava soltanto al gruppo dei cittadini maschi
    adulti, cioè a una minoranza rispetto alla popolazione totale
    dell'unità politica per esempio, ad Atene nell'età di
    Pericle si stima vi fossero, compresi le donne e i bambini, solo
    trentamila ‛cittadini' circa, il che rappresentava all'incirca un
    quinto della popolazione totale della polis. Ciò vorrebbe
    dire che la cittadinanza maschile adulta si aggirava intorno alle
    diecimila persone. Atene, a sua volta, aveva una posizione di
    egemonia all'interno di un sistema di città-Stato, le cui
    singole unità erano ben lungi dall'essere completamente
    eguali tra loro. Così, malgrado gli elementi egualitari,
    destinati ad avere - sul terreno della ‛cittadinanza' - profonde
    conseguenze storiche, è ben difficile dire che la
    società della Grecia classica abbia rappresentato un caso di
    ‛egualitarismo puro'.
    
    In aggiunta, e in stretta connessione, allo sviluppo dei centri
    politici, è da rilevare, soprattutto nelle primissime fasi di
    evoluzione societaria, la formazione di centri di autorità e
    prestigio sia nella sfera religiosa che in quella economica, le
    sfere cioè del controllo e della produzione della ricchezza.
    Una società come quella dell'antico Egitto, ad esempio,
    combinava tutte e tre le specie di ‛centri' in un rapporto reciproco
    estremamente stretto la dinastia reale era il fulcro primario sia di
    un'autorità politica fortemente accentrata, sia di
    un'organizzazione religiosa non meno centralizzata (v. Frankfort,
    1948 e 1961); quasi certamente essa aveva un ruolo primario anche
    nel controllo delle risorse economiche e del loro uso, come
    testimoniano particolarmente i palazzi, i templi, le piramidi tutte
    opere strettamente collegate alla dinastia reale (v. Wilson, 1951;
    v. Edgerton, 1947 e 1959).
    
    Nei primi anni del nostro secolo si è sviluppata una vivace
    controversia, in parte motivata da considerazioni ideologiche,
    intorno al problema se la stratificazione si sia sviluppata
    attraverso la differenziazione interna di comunità già
    esistenti, oppure attraverso l'imposizione di una dominazione
    esterna. Uno tra i principali sostenitori di questa seconda ipotesi
    fu il sociologo-economista, più o meno marxista, F.
    Oppenheimer (v., 1919), il quale riteneva, essenzialmente, che i
    più importanti modelli di stratificazione fossero tutti il
    risultato di conquiste o altre forme di coercizione. Un notevole
    esempio storico è certo quello della cosiddetta invasione
    ‛ariana' dell'India; in questo paese, infatti, furono i discendenti
    dei conquistatori ariani a dare origine alle caste più
    elevate, mentre le caste inferiori vennero costituite dalle
    popolazioni indigene, prevalentemente dravidiche (v. Bouglé,
    1908; v. Sénart, 1896). Simili modelli sono stati applicati
    anche alla Grecia antica, dove - si è sostenuto - la classe
    superiore fu formata specialmente dai conquistatori Dori, che
    sottomisero le popolazioni indigene.
    
    Secondo un'altra variante di questa teoria, gli elementi subordinati
    sarebbero stati, per così dire, ‛importati'. Nel mondo
    mediterraneo antico, ad esempio, la schiavitù era un fenomeno
    di massa e la maggiore fonte di schiavi era costituita indubbiamente
    dai prigionieri di guerra. Così M. Weber (v., 1896) nel suo
    ben noto saggio sulla decadenza dell'Impero romano pone soprattutto
    l'accento sulla tesi secondo cui la pacificazione dell'Impero,
    specie nelle relazioni con i popoli confinanti, portò
    all'esaurirsi delle possibilità di rifornimento di nuovi
    schiavi; il che ebbe come risultato, essenzialmente, di rendere non
    più praticabile il vecchio modello dell'economia schiavistica
    e spiega in gran parte la transizione, particolarmente
    nell'organizzazione rurale, alle varie forme di affittanza e infine
    ai modelli medievali. Il fenomeno degli schiavi importati ebbe
    indubbiamente una nuova, notevole ripresa dopo il periodo delle
    grandi scoperte geografiche, con la massiccia immissione nelle
    Americhe - in tutta l'area che va dal Brasile alla parte meridionale
    dei futuri Stati Uniti - di Negri africani, che venivano sradicati
    con la forza dalle loro società di origine per essere, nella
    massima parte dei casi, venduti nel Nuovo Mondo. Questo fenomeno era
    ovviamente legato soprattutto all'economia di piantagione, la quale
    acquistò infatti grande importanza nell'intero arco delle
    aree schiaviste. Certamente, questi due casi sono tutt'altro che
    isolati. In gran parte dell'area della dominazione musulmana, ad
    esempio, vi fu una massiccia riduzione in schiavitù di
    sudditi appartenenti agli strati inferiori della popolazione.
    
    Malgrado la rilevanza storica di casi del genere, possiamo
    però affermare, se non altro, che la stratificazione, in un
    grandissimo numero di casi (di ogni epoca), è l'effetto di
    processi di differenziazione interni e relativamente spontanei.
    Quello che ho chiamato stadio ‛avanzato' di sviluppo delle
    società primitive (v. Parsons, 1966) è caratterizzato
    in modo specifico dall'emergere, attraverso la formazione di centri
    di potere - specialmente politico e religioso - che si differenziano
    rispetto alla gente comune, di una classe superiore ereditaria (v.
    Evans-Pritchard, 1963). Un aspetto particolarmente rilevante di
    questo processo è il seguente: molte delle società piu
    primitive, se considerate dal punto di vista delle relazioni di
    parentela tra stirpi e clan, costituiscono una specie di ‛tessuto
    senza cuciture', in cui tutti i membri della società sono in
    rapporto di parentela con tutti gli altri secondo varie combinazioni
    di legami di discendenza e di affinità. In tali circostanze,
    l'intera società diviene - secondo l'espressione di C. D.
    Ackerman (v., 1965) - un'unica ‟comunità di affini"; il passo
    decisivo verso la stratificazione delle classi è allora la
    rottura di questo ‛tessuto senza cuciture', col risultato che alcuni
    gruppi superiori divengono endogami, si imparentano cioè gli
    uni con gli altri senza mescolarsi, su questo piano, con la gente
    comune. Questo processo di esclusione, ovviamente, si è
    attuato con gradi notevolmente diversi di rigore, ma in quelle che
    noi consideriamo le aristocrazie classiche, soprattutto (ma non
    certo esclusivamente) in Occidente dal Medioevo in poi, esso
    è stato certamente una nota dominante. La proibizione, per i
    figli degli aristocratici, di sposare persone non nobili ha
    costituito, insomma, una caratteristica comune a tutte le
    società aristocratiche.
    
    Tali processi, naturalmente, si sono mostrati inclini ad associarsi
    strettamente alla ricchezza e al potere, frutto - nell'evoluzione
    delle società aristocratiche - della relativa
    monopolizzazione della proprietà terriera. In effetti, nella
    storia europea, per quanto importante possa esser stata, nel periodo
    delle migrazioni di popoli, l'influenza di invasori vittoriosi quali
    le tribù germaniche, questa basilare differenziazione interna
    delle comunità sembra nondimeno esser stata, in generale, il
    processo fondamentale.
    
    Sia pure con molte variazioni, simili processi di differenziazione
    si sono verificati in molti periodi della storia e in molte parti
    del mondo. Così, benché i nuclei etnici che finirono
    per acquistare posizioni dominanti, con la costituzione del popolo
    di Israele in entità distinta, esercitassero molte
    prerogative dei conquistatori, è difficile affermare, in un
    senso preciso, che quella che divenne la classe ‛dominante' della
    nuova entità politica - istituzionalizzatasi specialmente col
    regno di Davide e di Salomone - fosse un gruppo etnicamente
    differenziato governante in seguito a conquista sui gruppi
    subordinati (v. Moore, 1927). Le intricate interrelazioni tra coloro
    che sicuramente appartenevano al gruppo dominante e quelli che non
    vi appartenevano sono analizzate da E. Leach (v., 1969) nel suo
    saggio sulla ‛legittimazione' di Salomone.
    
    Circa l'instaurarsi dei sistemi di stratificazione possiamo dunque
    concludere, generalizzando, che, nonostante l'importanza che in
    molti casi concreti può aver rivestito l'intervento - specie
    sotto forma di conquista - di elementi di potere stranieri, o
    l'importazione di schiavi, o la schiavizzazione delle classi
    inferiori, tuttavia il più generalizzato e importante
    processo di fondo è stato quello consistente nello
    ‛spontaneo' differenziarsi della società stessa in base allo
    sviluppo di distinzioni, in seno alla popolazione, tra gruppi di
    differente prestigio. Questa differenziazione sembra essersi sempre
    associata allo sviluppo di un qualche tipo di ‛centri', nel senso
    proposto da Shils (v., 1970), che possono avere natura
    prevalentemente politica o religioso-culturale, o entrambe,
    intimamente intrecciate tra loro.
    
    Così, nel caso dell'aristocrazia della Roma imperiale,
    cioè in particolare della classe senatoria, il fattore
    principale era chiaramente di natura politica. Nel caso
    dell'induismo classico in India, sembra fosse più di natura
    religioso-culturale che politica (v. Ketkar, 1911; v. Weber,
    1920-1921, vol. II): solo per brevi periodi, infatti, l'India
    classica fu politicamente unita, mentre, se si escludono gli
    intervalli di predominio buddhista, l'egemonia della casta
    bramanica, una volta instauratasi, costituì la base dei
    ‛centri', la base da cui dipendeva l'attribuzione del prestigio (in
    questo caso, prevalentemente secondo criteri di purezza rituale).
    È un modello che si mantenne per parecchi secoli, dando prova
    di straordinaria stabilità; quali che possano essere state,
    in un remoto passato, le relazioni tra stirpi ariane e dravidiche
    dopo la conquista, esse non possono evidentemente spiegare la
    configurazione e la persistenza del sistema castale indiano.
    
    3. Momenti rilevanti nella storia della stratificazione in Occidente
    
    Benché, di fatto, si siano avute sia una dicotomizzazione
    relativamente netta, sia una gradazione istituzionalizzata di
    molteplici livelli, ci sembra lecito sostenere che, nei sistemi di
    stratificazione sul tipo di quelli ora menzionati, si è
    manifestata un'accentuata tendenza dicotomizzante. In altri termini,
    si è avuta tendenzialmente un'aristocrazia, o classe
    superiore, costituente una minoranza (l'appartenenza alla quale era
    soprattutto ereditaria), sovraordinata e contrapposta a una
    maggioranza di ‛gente comune', generalmente impegnata nelle
    attività lavorative di più modesto prestigio:
    contadini, taglialegna, portatori di acqua, la gente insomma
    occupata in mansioni di carattere prevalentemente manuale. Questi
    stessi erano poi i soldati semplici nelle formazioni militari,
    mentre agli aristocratici era per lo più riservato il grado
    di ufficiale.
    
    La stratificazione della società occidentale è stata
    caratterizzata da un peculiare insieme di tratti, dovuto a un
    dualismo, profondamente radicato, dei modelli di relazione
    superiore-inferiore. Ciò risale all'eredità del mondo
    mediterraneo classico, dove - soprattutto nell'area orientale, ma
    anche in quella occidentale, specie in Italia e non limitatamente
    alla sola Roma - acquistò un ruolo predominante la polis,
    l'organizzazione cioè della città-Stato. Per lungo
    tempo dopo che le poleis greche ebbero perso la loro indipendenza
    politica, la città-Stato rimase l'unità fondamentale,
    sebbene priva della piena autonomia politica, della struttura
    sociale. Questo modello si diffuse in tutto l'Impero romano
    improntando lo status delle comunità locali, che i Romani
    chiamavano municipia. Benché le poleis greche e le loro
    discendenti nell'Impero romano non fossero, come già abbiamo
    notato, strutture propriamente egualitarie, esse possedevano
    tuttavia un elemento di ciò che potremmo chiamare
    ‛associazionismo collegiale' la popolazione vi era divisa in ‛corpi'
    - nei quali vigeva una condizione di piena cittadinanza - che
    costituivano una sorta di associazioni di eguali. In altri termini,
    la struttura interna di una polis o di un municipium era ben lungi
    dall'essere semplicemente di tipo gerarchico; consisteva piuttosto
    in una giustapposizione di livelli relativamente distinti, entro i
    quali vigeva una condizione assai vicina all'eguaglianza di status
    (v. Fowler, 1922).
    
    Attraverso complesse vicende questo modello sopravvisse fin
    nell'Europa moderna (v. Weber, 1922). Entro l'area della
    cristianità occidentale esso ebbe per lungo tempo il massimo
    rilievo in Italia, dove il modello feudale, nella sua forma classica
    (v. Bloch, 1939-1940), non raggiunse mai una preminenza paragonabile
    a quella che ebbe a nord delle Alpi. Ma anche in certe regioni
    dell'Europa settentrionale il modello municipale ha avuto un ruolo
    notevole sino all'epoca moderna; ciò vale in particolare per
    quell'area immediatamente a nord delle Alpi, il cui asse principale
    era la valle del Reno, ma che si estendeva dalla Svizzera al Mare
    del Nord e oltre (v. Rokkan, 1967). Per secoli, alcune di queste
    comunità ebbero lo status formale di ‛città libere
    dell'Impero'; inoltre, anche fuori di quest'area, in un paese come
    l'Inghilterra i cosiddetti boroughs, a cominciare dalla stessa
    città di Londra, godettero di una speciale autonomia basata
    su un certo modello egualitario di associazione collegiale (si pensi
    alle gilde, che riunivano sia mercanti che artigiani).
    
    Giustapposto a questo modello ‛municipale' di organizzazione ve
    n'era un altro, predominante nei settori rurali della società
    europea (anche in questo caso, soprattutto a nord delle Alpi). Quivi
    si era consolidata (v. Bloch, 1939-1940) un'aristocrazia che
    esercitava un vasto controllo sugli affari locali del feudo, in
    primo luogo i suoi membri erano insieme proprietari e ‛signori' del
    territorio, vi esercitavano cioè anche il potere politico e
    giudiziario essi avevano inoltre un ruolo preminente
    nell'organizzazione militare.
    
    Questa aristocrazia ‛feudale', caratterizzata dal suo stretto legame
    con la terra, costituì la fonte primaria dell'aristocrazia
    europea. Con il formarsi, specie sotto la guida regia, di più
    vaste e solide strutture politiche, nacque un complicato problema di
    equilibrio tra il potere e l'autorità del sovrano, da un
    lato, e, dall'altro, l'influenza, particolarmente rilevante nella
    sfera economica, delle più o meno libere e autonome
    municipalità. Il nucleo primario della struttura di potere
    dello Stato moderno fu tuttavia il frutto dell'alleanza tra
    l'istituzione monarchica e le aristocrazie legate alla
    proprietà fondiaria. Accadde infatti che, crescendo il
    prestigio delle strutture statali politicamente organizzate,
    l'aristocrazia terriera mise progressivamente in ombra i gruppi
    superiori delle comunità municipali. Questo processo era
    evidentemente legato alla funzione militare, che era assai meno
    rilevante per i gruppi superiori municipali.
    
    Bisogna inoltre tenere presente che, nella struttura e nella
    stratificazione della società europea medievale e
    postmedievale, una ‛terza forza' era rappresentata dalla Chiesa.
    È di importanza cruciale il fatto che la Chiesa cattolica
    occidentale fosse strutturalmente distinta dallo Stato, la cui sfera
    comprendeva virtualmente l'intera società secolare non
    ecclesiastica (v. McIlwain, 1932). Vi fu certamente la tendenza a
    una stretta alleanza tra aristocrazia secolare e alto clero, ma, per
    quanto stretta fosse, essa non fu mai tale da annullare la
    distinzione tra le due organizzazioni. Senza dubbio, la distinzione
    era rafforzata dal celibato del clero (v. Lea, 1907), istituto in
    virtù del quale un vescovo poteva avere bensì figli
    naturali, ma non eredi legittimi, cosicché le cariche
    ecclesiastiche non potevano diventare ereditarie.
    
    Col tempo, e soprattutto in seguito al fiorire della vita economica,
    i ceti superiori delle città cominciarono ad acquistare
    un'importanza relativamente crescente, soprattutto rispetto alle
    aristocrazie terriere. Questo processo si dimostrò ovviamente
    di cruciale importanza nella crisi della Rivoluzione francese, crisi
    che oppose l'aristocrazia alla bourgeoisie (v. Lefebvre, 19572). Il
    termine bourgeoisie è particolarmente significativo
    perché indica soprattutto i gruppi superiori delle
    città in quanto distinti dai gruppi superiori della
    società rurale. Anche se pervennero, nel complesso, a una
    relativa opulenza e, sotto molti aspetti, acquistarono un'influenza
    generalmente rilevante sia nella sfera politica che in altre sfere,
    questi gruppi borghesi non furono però mai inclusi, almeno
    non in maniera massiccia, nella sottosocietà costituita
    dall'aristocrazia titolata. Vi furono a questo proposito, è
    vero, importanti differenze a seconda dei luoghi e delle epoche, ma
    la nostra generalizzazione rimane nondimeno accettabile. É
    infatti noto che la punta di diamante della Rivoluzione francese fu
    costituita precisamente dalla classe borghese intesa in questo
    senso, la quale non era assolutamente un proletariato in senso
    marxiano non si trattava, per dirla in generale, dei poveri, ma del
    gruppo di coloro che, in primo luogo, erano esclusi dal prestigio
    derivante da certi speciali privilegi di cui godeva la vecchia
    aristocrazia. In Francia, la circostanza che ebbe una così
    cruciale importanza non fu soltanto che i ‛borghesi' fossero privi
    di titolo, bensì che fossero in genere esclusi dalla vita,
    fonte d'immenso prestigio, della corte di Versailles. Il succo della
    precedente considerazione è che, dal Medioevo in poi, il
    sistema di stratificazione europeo non può considerarsi come
    semplicemente dicotomico; cionondimeno, la divisione tra
    l'aristocrazia terriera e i gruppi superiori urbani (la borghesia
    per eccellenza) si dimostrò un fattore di cruciale importanza
    per gli sviluppi futuri.
    
    4. Lo sviluppo dello Stato nazionale moderno
    
    Dalla Rivoluzione francese dobbiamo ora risalire al processo di
    sviluppo politico-sociale attraverso cui la ‛società
    secolare' giunse, dalla precaria unità del medievale Sacro
    Romano Impero al sistema, sia pure imperfetto, di quelli che saranno
    in seguito chiamati gli Stati nazionali. È da notare, come
    fatto assai significativo, che Francia e Gran Bretagna, le quali
    furono le antesignane nello sviluppo degli Stati nazionali, non
    riconobbero mai pienamente la propria appartenenza al Sacro Romano
    Impero, non riconobbero cioè in termini più o meno
    feudali la posizione dei loro sovrani come vassalli dell'imperatore.
    Questo loro ruolo di avanguardia nella costruzione dei primi modelli
    della monarchia moderna riposava sulla convinzione che, alla base di
    un'unità politicamente organizzata, ci fosse qualcosa di
    simile a ciò che noi oggi chiameremmo omogeneità
    etnica. Ritengo si possa affermare che tale omogeneità
    consisteva soprattutto nella partecipazione a una tradizione
    culturale comune, la quale era poi una variante del più vasto
    retaggio europeo-occidentale. Almeno a partire dalla Riforma, la
    tradizione comune comprendeva anche la religione, secondo la famosa
    formula della pace di Vestfalia ‛cuius regio eius religio', nella
    quale si esprime una situazione in certo modo analoga a quella della
    krusceviana ‛coesistenza pacifica', con la sua divisione tra
    società capitaliste e società comuniste. Il mondo
    europeo, insomma, si divise in paesi cattolici e paesi protestanti,
    all'interno dei quali, come proclamava la formula di Vestfalia, il
    credo religioso del principe doveva essere anche quello di tutti i
    sudditi. Questa non si dimostrò tuttavia, a lungo andare, una
    soluzione stabile e negli Stati europei si affermò
    progressivamente un maggior pluralismo religioso.
    
    Il moderno concetto di appartenenza etnica non si riferisce solo a
    una certa tradizione nazionale comune, ma pone particolarmente
    l'accento sulla lingua, tanto che il tipo ideale di Stato nazionale
    è quello basato sull'unità di lingua, il che era
    anzitutto in contrasto con l'uso universale del latino da parte
    della Chiesa cattolica. La traduzione tedesca della Bibbia, fatta da
    Lutero, cui presto seguirono altre versioni nelle varie lingue
    volgari, fu un simbolo importantissimo di caratterizzazione etnica.
    Fu in questa fase che le aristocrazie divennero, in maniera
    più o meno definita, aristocrazie nazionali. Questa
    identificazione nazionale fu notevolmente rafforzata dal ruolo
    esercitato dai monarchi nei confronti delle dinastie reali di cui
    erano a capo il monarca era, per definizione, il capo
    dell'aristocrazia, e vi era tutta una gradazione di prestigio
    aristocratico che partiva dalla stessa famiglia reale per scendere,
    attraverso una serie di gradi intermedi, fino al livello della
    piccola nobiltà di provincia. Ciò veniva espresso con
    l'affermazione che il monarca non solo era politicamente il ‛capo
    dello Stato', ma era anche il ‛primo gentiluomo' della nazione.
    
    Il modello sopra delineato, però, non si presentava mai nella
    sua forma ‛pura'. Anche Francia e Inghilterra costituivano delle
    varianti rispetto al tipo puro dello Stato nazionale. L'Inghilterra
    ha sempre avuto la sua ‛frangia celtica' statuti speciali furono
    accordati al Galles (anche dopo la costituzione del Regno Unito),
    alla Scozia e, in misura più rilevante, all'Irlanda. Per
    quanto riguarda la Francia, le sue frontiere etnico-nazionali
    restarono a lungo indefinite: va ricordato che buona parte della
    Francia settentrionale rimase sotto la giurisdizione politica
    inglese fino al XIV secolo. Similmente, le frontiere col mondo
    germanico in Borgogna ad esempio non furono ben chiare per molto
    tempo; questo è anche il caso, nel Sud, e fino a epoche
    più recenti, di aree come la Savoia, in rapporto alla
    nazionalità italiana. Un'altra delle maggiori componenti del
    sistema europeo, quella che si sviluppò gradualmente
    nell'Impero austroungarico, non si costituì mai in Stato
    nazionale nel senso classico, ma rimase un'entità
    multinazionale, la cui origine risaliva, in primo luogo, alla
    politica matrimoniale dell'imperatore Massimiliano, il quale
    unì la corona austriaca a quelle di Boemia e di Ungheria, di
    due paesi cioè etnicamente non germanici. Inoltre, dal tardo
    Medioevo in poi abbiamo quella struttura in certo senso anomala che
    è la Svizzera, una confederazione di piccole unità
    autonome, nella quale la componente predominante è affiancata
    da una componente francese assai rilevante e da una italiana di
    apprezzabile importanza.
    
    Nel corso di questi sviluppi il principale modello di
    stratificazione delle società ‛nazionali' tendeva a ruotare
    intorno all'istituzione dell'aristocrazia. Un fattore latente di
    modificazione era certamente rappresentato dalla borghesia, ma il
    costituirsi degli Stati nazionali rovesciò i locali equilibri
    di potere a favore dell'alleanza, sopra menzionata, tra monarchia e
    aristocrazia fondiaria. Le unità municipali, che pure avevano
    avuto un'estrema importanza storica, erano troppo piccole per
    competere con la spinta all'unificazione dei regni nazionali, spinta
    che costituì, per un periodo considerevole, la tendenza
    dominante. Certo, nell'età immediatamente successiva al
    Medioevo, anche nell'Europa del Nord quelli che talvolta vengono
    chiamati i ‛patriziati' delle comunità urbane si collocavano
    in una posizione quanto meno di eguaglianza, e a volte di
    superiorità, nei confronti della nobiltà fondiaria; ma
    questa situazione cambiò drasticamente nel corso della
    formazione degli Stati nazionali moderni. E in questo quadro che va
    vista la situazione che fece esplodere i conflitti della Rivoluzione
    francese, un quadro caratterizzato, per usare l'odierna terminologia
    delle scienze sociali, da una ‛deprivazione relativa' delle classi
    superiori borghesi nei confronti dell'aristocrazia. Si tratta di un
    conflitto la cui incidenza non fu ovunque uniforme; in Francia esso
    divenne particolarmente acuto a causa dell'esclusione della
    borghesia non tanto, e non completamente, dal potere politico,
    quanto, e in maniera particolarissima, dal prestigio della vita di
    corte. Ebbe un notevole peso, in tale contesto, il fatto che una
    componente particolarmente importante delle strutture superiori
    della società francese fosse rappresentata, nel periodo
    prerivoluzionario, dai ‛parlamenti', i quali non erano, come in
    Inghilterra, corpi prevalentemente legislativi quanto piuttosto
    corpi giudiziari. Il punto cruciale è che ai membri dei
    parlamenti venne formalmente concesso lo status aristocratico: essi
    divennero la ‛nobiltà di toga', che costituiva una specie di
    aristocrazia di second'ordine rispetto alla ‛nobiltà di
    spada', quella cioè con funzioni prevalentemente militari (v.
    Ford, 1953). Un altro importante motivo di malcontento della
    borghesia nei confronti dell'aristocrazia era il regime di esenzioni
    fiscali di cui quest'ultima godeva e che era esteso fino ai gradi
    relativamente bassi della nobiltà, che spesso si erano
    notevolmente impoveriti nel corso del Settecento.
    
    Assai diversa la situazione in Inghilterra (v. Trevelyan, 19372),
    dove esisteva un gruppo sociale analogo alla bourgeoisie francese,
    che aveva avuto accesso, fin dagli inizi, alle assemblee
    parlamentari, accesso che andò allargandosi dopo il Reform
    act del 1832. Ma ciò che differenziava grandemente
    l'Inghilterra era la combinazione di due fattori: un diritto di
    primogenitura molto più rigido che in Francia e la divisione
    di quella che la maggior parte dei sociologi chiamerebbe
    aristocrazia in una nobiltà titolata e in una gentry priva di
    titolo. In effetti, la parola inglese gentleman ha avuto, fin
    dall'inizio dell'età moderna, una connotazione alquanto
    peculiare, in quanto indicava semplicemente una persona di ‛nobili
    natali' (gentle birth). Nella società inglese le linee di
    divisione tra l'aristocrazia titolata e la gentry e tra la gentry e
    la ‛gente comune' erano, soprattutto per quanto riguarda i simboli
    del prestigio sociale, assai meno rigide che in Francia; il che si
    spiega con le maggiori possibilità di ascesa dal livello
    della gente comune a quello della gentry e, per nomina reale, da
    quest'ultimo a quello della nobilità titolata. Il titolo,
    com'è noto, veniva conferito a persone non nobili che
    avessero reso alla Corona speciali servizi di carattere militare o
    nei diversi campi della politica e della finanza. Una carriera
    paradigmatica è quella del grande eroe militare britannico
    della prima metà dell'Ottocento: all'origine, egli era
    semplicemente Arthur Wellesley, un gentleman anglo-irlandese
    (gentleman in senso tecnico); nel corso della sua carriera militare
    divenne il generale sir Arthur Wellesley, per giungere infine al
    titolo di duca di Wellington, cioè a una posizione altissima
    nell'aristocrazia, vicina a quella della stessa famiglia reale.
    Egli, inoltre, terminata la sua carriera militare, svolse
    (nient'affatto gratuitamente) funzioni di primo ministro, in un
    periodo in cui il primo ministro non sedeva ancora alla Camera dei
    Comuni bensì alla Camera dei Lords. Un'altra interessante
    caratteristica del sistema inglese era il conferimento del titolo
    nobiliare sia all'alto clero della Chiesa d'Inghilterra il titolo
    era di Lord Bishop e comportava l'appartenenza alla Camera dei Lords
    sia ai più alti gradi della magistratura, cui spettava il
    titolo di Lord Justice. Questo tipo di nobiltà, tuttavia, non
    era ereditario, anche se nessuna di queste due categorie era
    vincolata al celibato: era cioè uno status nobiliare legato
    alla carica; esso costituì, in un certo senso, il modello per
    quello che sarà in seguito il titolo di ‛pari a vita' (life
    peerage), divenuto comune oggi in Inghilterra.
    
    5. La ‛democratizzazione' degli strati sociali superiori nella
    società occidentale
    
    La Rivoluzione francese fu il grande evento simbolico che
    segnò la fine dell'egemonia aristocratica nella
    società occidentale. La sua influenza non fu ovunque la
    stessa, ma certamente la trasformazione complessiva, verificatasi
    negli ultimi due secoli, è stata molto profonda. Il regime
    rivoluzionario, il regime cioè precedente alla restaurazione
    borbonica, abolì del tutto gli antichi titoli nobiliari, i
    quali - affiancati prima dalla napoleonica noblesse d'Empire e poi
    restaurati sotto Luigi XVIII, Carlo X, Luigi Filippo e Napoleone III
    - non ebbero, nella Francia repubblicana, alcun valore ufficiale (v.
    Pitts, 1963). Non fu però questo il caso della maggior parte
    degli altri paesi europei, nei quali il valore dello status
    nobiliare subì comunque un processo di erosione, che si
    accelerò grandemente con la prima e la seconda guerra
    mondiale, le quali, tra l'altro, ebbero come conseguenza la caduta
    di molte delle più vecchie e tradizionali monarchie: la
    tedesca, la spagnola, l'asburgica, la russa, l'italiana. Le
    monarchie che sopravvissero erano tutte, come usualmente si dice,
    monarchie costituzionali: il caso più notevole è
    quello dell'Inghilterra, ma vanno ricordati anche l'Olanda, il
    Belgio e i paesi scandinavi.
    
    Particolarmente significativo è il caso delle principali
    colonie nordamericane della Gran Bretagna, che conquistarono
    l'indipendenza nell'ultimo quarto del XVIII secolo. Precedendo di
    pochissimi anni la Rivoluzione francese, quella che Lipset chiama
    ‟la prima nazione di tipo nuovo" (v. Lipset, 1963) ripudiò
    del tutto l'istituto dell'aristocrazia, vietando ogni uso ufficiale
    dei titoli. É inoltre da ricordare il fatto, sottolineato da
    Lipset, che, durante il mandato di George Washington come primo
    presidente della nuova repubblica, fu posto seriamente il problema
    se egli intendesse proclamare la monarchia, ovviamente con lui
    stesso come re. Ma benché la cosa fosse politicamente
    fattibile, Washington decise altrimenti, stabilendo che la nuova
    nazione doveva rimanere una repubblica, quale è poi sempre
    stata in seguito.
    
    La Rivoluzione francese non solo portò molto avanti, in
    Francia, la distruzione della particolare posizione di cui godeva
    l'aristocrazia, ma generò anche un movimento in questa
    direzione che, a ondate, si ripercosse profondamente sull'intera
    Europa, Gran Bretagna compresa. Questo processo era, com'è
    ovvio, strettamente associato alle guerre del periodo repubblicano e
    poi dell'era napoleonica. A questo proposito, anche l'apparente
    vittoria conservatrice dopo Waterloo, non durò che una
    generazione: nel 1848 infatti vi fu una nuova esplosione di
    ‛democrazia', di cui un simbolo particolarmente significativo fu la
    caduta di Metternich.
    
    L'orientamento della Rivoluzione francese era in realtà molto
    più avanzato di quanto non consentisse la relativa decadenza
    della vecchia aristocrazia e l'ascesa della borghesia; la
    Rivoluzione introdusse a un livello mai conosciuto prima in Europa e
    realizzato solo parzialmente nel Nord America, la nozione di
    democrazia generalizzata. Anche se la particolare posizione della
    borghesia ebbe un ruolo cruciale, il simbolo chiave della
    Rivoluzione francese fu il citoyen, la categoria ‛cittadino', che
    includeva affatto esplicitamente l'uomo comune, che non aveva da
    vantare alcuno status superiore né in senso aristocratico
    né in senso borghese (v. Lefebvre, 19572). Non dimentichiamo
    che, accanto alla ‛libertà' e alla ‛fraternità',
    l'‛eguaglianza' era una delle tre grandi parole d'ordine della
    Rivoluzione, e che le ripercussioni di quest'idea guida non hanno
    cessato di farsi sentire fino ai giorni nostri. Possiamo dire, anzi,
    che la nostra epoca sta assistendo a una nuova ondata di
    egualitarismo.
    
    La democrazia politica rientra nell'ambito più generale dei
    diritti civili, che il sociologo inglese T. H. Marshall (v., 1965)
    ha così acutamente analizzato per quanto riguarda il caso
    della Gran Bretagna. Essa fu preceduta, particolarmente in
    Inghilterra, da quella che Marshall chiama la fase giuridica,
    connessa specialmente allo sviluppo della common law. La
    fondamentale concezione dei ‛diritti del cittadino inglese' (nei
    confronti soprattutto dell'autorità del governo), che
    incorporava i grandi principi dello Stato di diritto e, per usare la
    terminologia costituzionale americana, dell'‟eguaglianza di tutela
    giuridica", ricevette una base istituzionale abbastanza solida
    già molto prima della Rivoluzione francese. Tale concezione
    si propagò rapidamente alla nuova nazione americana, dopo
    l'indipendenza, e in seguito, anche se non con la stessa
    rapidità, al continente europeo. È ben chiaro,
    infatti, che la democrazia, come fu intesa dalla Rivoluzione
    francese, traeva origine da una base giuridica fortemente
    caratterizzata in senso egualitario (v. Hurst, 1967).
    
    Un punto di cruciale importanza nell'evoluzione dell'aspetto
    politico dei diritti civili è quello rappresentato dal
    diritto di voto. Lo studioso norvegese di sociologia politica S.
    Rokkan (v., 1961) ha persuasivamente dimostrato che, malgrado le
    sfasature temporali e il diverso rilievo nei vari paesi, in tutto il
    mondo occidentale esclusa la sfera a dominazione comunista si
    è sviluppato, con poche eccezioni, un comune modello di
    diritto di voto. Rokkan sottolinea in particolare tre componenti di
    questo sviluppo. La prima è rappresentata
    dall'universalizzazione del diritto di voto, che procedette dalle
    varie limitazioni, basate generalmente sulla proprietà, fino
    al suffragio universale per gli adulti. Un passo decisivo in questa
    direzione fu naturalmente la concessione del voto alle donne, che si
    diffuse largamente nel periodo successivo alla prima guerra mondiale
    ed è oggi quasi universale. La seconda componente sta in quel
    principio che la terminologia giuridica americana indica con
    l'espressione ‟un cittadino, un voto", principio che si è
    venuto affermando attraverso molte vicissitudini, che vanno
    dall'abolizione nel 1918 del discriminatorio sistema prussiano del
    voto per classi, ai cambiamenti, negli Stati Uniti, della
    distribuzione dei seggi parlamentari sotto la pressione di una serie
    di decisioni della Corte Suprema. La terza componente posta in
    rilievo da Rokkan è la segretezza del voto, che riduce in
    maniera sostanziale le pressioni esterne che possono essere
    esercitate sulle decisioni del singolo elettore.
    
    È cosa ormai ben nota che né l'eguaglianza giuridica
    né l'eguaglianza politica in materia di diritti civili - e
    neppure una loro combinazione - garantiscono del tutto
    un'eguaglianza sostanziale. Marshall mette in forte rilievo
    l'importanza che ha avuto, alla fine dell'Ottocento e durante tutto
    il nostro secolo, l'emergere di ciò che egli chiama la
    componente ‛sociale' dei diritti civili. Più recentemente si
    parla a questo proposito di ‛Stato assistenziale'. L'idea basilare
    è che i diritti giuridici e politici del cittadino non
    possono essere efficacemente esercitati da chi è fortemente
    svantaggiato, soprattutto sul piano economico. Il movimento in
    questa direzione ha avuto, com'è noto, un primo e importante
    punto d'avvio con la legislazione promossa da Bismarck in Germania
    nel campo delle assicurazioni sociali; la sua diffusione è
    stata poi amplissima, tanto che si può affermare non vi sia
    alcuna società ‛industriale', comprese naturalmente quelle
    della sfera comunista, che non abbia elaborato un sistema di
    provvidenze statali tale da definire un minimo di benessere
    accessibile alla maggior parte della popolazione. Su questo
    argomento torneremo in seguito.
    
    6. Il conflitto tra socialismo e capitalismo e le recenti tendenze
    delle strutture di classe
    
    Una nuova importante spinta egualitaria e nuovi importanti conflitti
    sul problema dell'eguaglianza emersero, verso la metà
    dell'Ottocento, con la nascita del movimento socialista. È
    chiaro infatti che la Rivoluzione francese, per quanto genuino fosse
    il suo ideale di eguaglianza, non produsse una società
    veramente egualitaria, anche se contribuì certamente in
    maniera notevole, pur tenuto conto delle differenze tra nazione e
    nazione, al generale superamento del vecchio conflitto tra borghesia
    e aristocrazia. Persone di origine borghese cominciarono, in
    disparati contesti, ad accedere a opportunità economiche, a
    cariche e posizioni di potere nell'ambito statale e, soprattutto, ai
    simboli del prestigio, riducendo progressivamente il loro svantaggio
    nei confronti delle persone di origine aristocratica. Venendo
    più o meno fino ai tempi nostri, possiamo dire che
    sopravvivono soltanto alcuni residui, di scarsa importanza, dei
    privilegi aristocratici, legati per lo più alla posizione
    della monarchia costituzionale in quelle società in cui
    l'istituto monarchico non è stato ancora completamente
    abolito. Il movimento socialista, da parte sua, riconsiderò
    il problema della giustizia, contrapponendo alle classi borghesi e
    ai loro alleati (tra cui i residui delle aristocrazie), costituenti
    il vertice della piramide della stratificazione, tutti coloro che
    stavano al di sotto del livello borghese. Per ragioni storiche
    relative alla natura della rivoluzione industriale, l'attenzione si
    concentrò sulla condizione di quella che fu chiamata la
    ‛classe operaia'. Secondo il movimento socialista, la classe operaia
    comprendeva anzitutto prestatori d'opera dell'industria
    manifatturiera, ma la nozione è stata intesa anche in un
    accezione molto più ampia. Per un verso, infatti, si è
    ritenuto che ‛operaio' corrispondesse più o meno a
    ‛svantaggiato' e che ‛operai e contadini' dovesse essere la parola
    d'ordine fondamentale. Anzi, il movimento comunista cinese, sotto la
    direzione di Mao, fece proprio dei contadini la principale base
    politica per la conquista del potere, provocando in tal modo un
    aspro conflitto con il partito comunista russo egemonizzato da
    Stalin (v. Brandt e altri, 1952), conflitto prolungatosi sino ai
    giorni nostri, anche se in forme nuove. Per un altro verso, nei
    paesi comunisti soprattutto, ma anche in ambito più vasto, il
    concetto di ‛classe operaia' si è allargato al di là
    della storica distinzione per usare un'espressione americana tra
    ‛colletti blu' e ‛colletti bianchi' (v. Barber, 1957; v. Kahl,
    1961). Nelle società comuniste, in cui la borghesia ha
    teoricamente cessato di esistere, si tende a considerare come
    appartenenti alla ‛classe operaia' tutti gli elementi socialmente
    accettabili; il concetto, così inteso, viene a comprendere
    anche gran parte di quanti sono dediti a quelle occupazioni che, nel
    mondo della società industriale, sono in genere proprie dei
    ‛colletti bianchi', ed è anzi stato esteso, sia pure in
    termini un po' ambigui, fino a comprendere quella che nell'Unione
    Sovietica è chiamata la intelligencia, cioè non
    semplicemente i lavoratori non manuali, quanto si potrebbe dire i
    lavoratori ‛intellettuali', come gli scienziati e i professionisti
    di formazione scientifica (v. Lipset e son, 1972).
    
    Il punto essenziale delle controversie su socialismo e capitalismo,
    che culminarono verso la metà dell'Ottocento, fu costituito
    dal concetto di ‛classe' in quanto distinto da più antichi
    concetti come quello di ‛stati' (gli Stände tedeschi) (v.
    Weber, 1922). Già ai tempi della pubblicazione del Manifesto
    dei comunisti (1848) la riduzione delle classi, così intese,
    ai due soli termini di borghesia e proletariato costituiva
    chiaramente una grossolana semplificazione rispetto alla concreta
    realtà della struttura sociale dei paesi occidentali. I
    successivi sviluppi, soprattutto quelli iniziati negli ultimi anni
    dell'Ottocento e venuti progressivamente accentuandosi nel corso del
    Novecento, hanno reso questa semplicistica dicotomia sempre meno
    corrispondente alla realtà. Dobbiamo certo riconoscere che,
    nelle società maggiormente industrializzate, il vecchio
    dilemma se i contadini siano o no da includere nella categoria di
    classe operaia accanto alla forza-lavoro dell'industria è
    diventato, con la crescente urbanizzazione, un problema meno
    imbarazzante; in paesi come gli Stati Uniti, ad esempio, i
    braccianti agricoli sono diventati un settore secondario della
    classe operaia, che tuttavia si è dimostrato capace di dar
    vita a formidabili azioni di sciopero. Ma, a livelli più
    alti, i postulati marxisti intorno alla borghesia come classe
    essenzialmente ‛proprietaria', in quanto distinta dal proletariato,
    costituito soprattutto di lavoratori dipendenti, hanno
    progressivamente perduto la loro pregnanza. Il punto cruciale sta in
    quel fenomeno della separazione strutturale fra proprietà e
    controllo, su cui Berle e Means (v., 1933) richiamarono l'attenzione
    con riferimento soprattutto agli Stati Uniti. In tutto l'arco che va
    dal top management di quelle grandi organizzazioni che sono state
    spesso definite, anche se talvolta con qualche nserva,
    ‛burocratiche', giù fino alle funzioni operative ed esecutive
    di minor prestigio, l'accento batte anzitutto sulla ‛gestione'. La
    componente proprietaria, infatti, è attualmente in una
    posizione del tutto diversa da quella che aveva alla fine
    dell'Ottocento. Per la maggior parte degli osservatori sociali, con
    l'esclusione di chi si colloca politicamente sulle posizioni di una
    sinistra piuttosto estrema, la principale caratteristica del sistema
    di stratificazione delle più avanzate società
    industriali del nostro tempo non sembra consistere nel polarizzarsi
    della dicotomia di due gruppi chiaramente distinti, cioè
    secondo la terminologia marxista i proprietari e i lavoratori
    salariati. Questa dicotomia non è in grado di fornire una
    definizione sia pur minimamente adeguata dei principi della
    stratificazione del mondo contemporaneo.
    
    A questo livello, ciò che riscontriamo è piuttosto la
    combinazione di due diversi principi. In primo luogo si ha, sotto
    l'aspetto gerarchico, una gradazione relativamente continua
    dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto - come è il
    caso, ad esempio, di certe scale di prestigio occupazionale (v.
    North e Hatt, 1947; v. Hodge e altri, 1964) - senza nette fratture
    né tra il livello dei colletti bianchi e quello dei colletti
    blu, né tra la componente manageriale e quella esecutiva.
    L'altro fondamentale principio è quello che potremmo chiamare
    ‛pluralizzazione': esso significa essenzialmente che le
    differenziazioni qualitative tra i vari settori della sfera
    occupazionale sono diventate di tali proporzioni da rendere sempre
    meno soddisfacente un'analisi che si limiti alla dimensione
    gerarchica (v. Laumann, 1973). Certe distinzioni tra organizzazione
    industriale e organizzazione statale sono chiare ormai da lungo
    tempo, anche se - va ricordato - uno dei fatti su cui Max Weber
    richiamava maggiormente l'attenzione era lo sviluppo in tempi
    recenti (recenti, s'intende, dal punto di vista del suo tempo) di
    comuni caratteristiche ‛burocratiche' nei due settori.
    
    Un importante processo di modificazione si è avuto, inoltre,
    con la crescente importanza che sono venuti assumendo quelli che
    potremmo definire modelli ‛collegiali' di relazioni strutturali,
    incentrati sul concetto di associazione. In un certo senso, questi
    modelli possono essere considerati come ‛quasi aristocratici'.
    Vogliamo ricordare due esempi particolarmente notevoli. Diversi
    teorici - tra cui, in Italia, G. Mosca (v., 1923) - hanno messo in
    rilievo che la leadership politica nei regimi democratici ha una
    struttura simile a quella di una consorteria. In un certo senso, gli
    uomini politici, ai diversi livelli della struttura di governo,
    tendono a organizzarsi in gruppi di pari. Si tratta di persone che
    hanno affidato le proprie aspirazioni alla carriera politica, con
    tutti i rischi che essa comporta, ma che, tra loro, sanno mantenere
    una certa solidarietà e una certa eguaglianza di status. Vi
    sono indubbiamente, nei particolari, enormi diversità a
    questo riguardo, ma anche Weber sarebbe stato d'accordo nel
    riconoscere che una siffatta strutturazione delle relazioni non
    è fondamentalmente burocratica.
    
    Consideriamo ora le professioni liberali, che sono venute
    conquistando una posizione di crescente rilievo nella struttura
    delle società moderne (v. Parsons, Professions, 1968). Esse
    condividono con la carriera politica certi relativi vantaggi
    derivanti dai modelli di eguaglianza delle opportunita. Nelle
    società ‛democratiche', infatti, non si può
    semplicemente asserire che le persone che arrivano al successo nel
    campo politico discendano da classi privilegiate, anche se si
    registra indubbiamente una certa tendenza in questo senso.
    Ciò è probabilmente ancor meno vero per quanto
    riguarda le moderne professioni, compresa quella accademica, che
    hanno avuto tradizionalmente una prevalente base di classe, ma che,
    come mostrano i fatti, hanno cominciato a perderla progressivamente.
    
    Il più tipico esempio di collegialità è
    probabilmente rappresentato dalla tradizionale facoltà
    universitaria i cui membri, malgrado le inevitabili differenze
    personali, costituiscono per molti riguardi, sotto il profilo dello
    status formale, un'‛associazione di eguali' (v. Parsons, The
    academic..., 1968; v. Parsons e altri, 1973). Ciò è
    reso possibile in parte dal fatto che, secondo il tradizionale
    principio della libertà accademica, ciascuno dei membri della
    facoltà gode di ampia autonomia. Le decisioni collettive sono
    ridotte relativamente al minimo e, soprattutto nelle
    università nordamericane, la struttura egualitaria delle
    facoltà è rafforzata dal fatto che organismi
    strutturati in maniera notevolmente più burocratica, le
    ‛amministrazioni', si fanno carico di molte funzioni decisionali,
    tra cui le più importanti, forse, sono quelle in materia
    finanziaria. D'altra parte, nel campo delle scelte didattiche e
    delle nomine, le facoltà e le loro sottounità, i
    dipartimenti, hanno nei confronti delle amministrazioni una larga
    autonomia.
    
    Un discorso simile si può fare per professionisti quali i
    medici, gli avvocati, gli ingegneri e gli appartenenti a talune
    categorie di più recente formazione. La pratica della
    professione è, in genere, relativamente individualizzata,
    anche se spesso ha luogo nell'ambito di gruppi cooperativi come gli
    studi legali e simili. I medici, soprattutto, sono venuti
    progressivamente organizzandosi negli staff degli ospedali, delle
    cliniche, ecc. Le associazioni professionali, inoltre, hanno assunto
    un ruolo particolarmente importante per quanto riguarda la
    definizione degli standard di preparazione professionale e delle
    condizioni di appartenenza alla professione; mi limito a dire
    ‛particolarmente importante', perché non si tratta certo di
    un ruolo incontestato. In paesi come gli Stati Uniti, ad esempio,
    benché sia richiesta una formale licenza per l'esercizio di
    queste professioni, è chiaro che chi principalmente determina
    gli standard di preparazione non sono certo organizzazioni quali
    l'American Medical Association o l'American Bar Association, e
    neppure le assemblee legislative statali che definiscono i requisiti
    necessari per gli esami di abilitazione; sono le scuole
    universitarie, che costituiscono d'altra parte i principali centri
    sia di formazione dei nuovi professionisti sia di ricerca nelle
    discipline attinenti alle professioni, a esercitare un
    rilevantissimo influsso in questo campo.
    
    Questi gruppi professionali, per lo più, hanno naturalmente
    una collocazione piuttosto elevata nel sistema generale di
    stratificazione. Numerosi studi abbastanza recenti hanno anzi
    dimostrato che il loro grado di prestigio è identico a quello
    delle posizioni più elevate nel campo statale e
    imprenditoriale, e anzi, per certi aspetti, addirittura superiore
    (v. North e Hatt, 1947; v. Hodge e altri, 1964). È una
    scoperta, questa, che contraddice gran parte di ciò che, per
    lungo tempo, si era creduto riguardo, per esempio, agli Stati Uniti,
    dove l'uomo d'affari si supponeva fosse qualcosa di simile a un re.
    Un altro fenomeno molto importante è la penetrazione dei
    professionisti nelle organizzazioni statali e aziendali nella sfera
    statale troviamo soprattutto avvocati, ma anche molti professionisti
    di altro genere; in quella aziendale soprattutto ingegneri, ma anche
    un considerevole numero di avvocati; nell'una e nell'altra, inoltre,
    stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante gli studiosi
    di scienze sociali, specialmente gli economisti. Una conseguenza
    particolarmente importante di questa penetrazione è stato il
    notevole attenuarsi del carattere burocratico dell'organizzazione
    gerarchica o, per meglio dire, della stratificazione gerarchica di
    queste organizzazioni. La ragione di ciò sta nel fatto che,
    quando un'organizzazione comincia a dipendere dalla collaborazione
    di tecnici altamente specializzati in settori professionali, i loro
    superiori generalmente alti dirigenti o politici non sono
    evidentemente in grado di assumere una posizione di ‛comando' nei
    campi in cui questi professionisti svolgono la loro funzione, e
    ciò perché, in genere, non possiedono le competenze
    necessarie per svolgere essi stessi tali funzioni, e spesso neppure
    per valutarle. Per quanto essi possano essere competenti in uno o
    più campi, la varietà dei tipi di competenze richiesti
    da una moderna organizzazione è così grande da rendere
    impensabile che una persona sia competente in tutti i settori.
    Prendiamo l'esempio, particolarmente ovvio, dei presidi delle
    facoltà universitarie, che sono ordinariamente tratti dal
    corpo docente delle facoltà stesse se il preside di una
    facoltà di arti e scienze è, poniamo, uno storico,
    egli non può certo essere pienamente competente in tutte le
    svariate discipline rappresentate, nella sua facoltà, da
    specialisti di alto livello; non può essere allo stesso tempo
    uno storico, un economista, uno storico della letteratura, un
    matematico, o un antropologo. Nella misura in cui le sue decisioni
    investono campi diversi dal suo, non può far altro che
    avvalersi di un sistema di partecipazione consultiva. Il comando
    diretto è del tutto fuori discussione.
    
    Questo tipo di struttura associativa la si riscontra, come è
    noto, in molti sottogruppi all'interno dell'ambito aziendale e di
    quello statale. Così, i consigli direttivi e di
    amministrazione sono corpi collegiali nello stesso senso in cui lo
    sono i corpi legislativi o le corti di giustizia composte da
    più giudici.
    
    Un'importante caratteristica delle professioni connesse con
    l'attività delle aziende e dello Stato è il fatto che,
    per essere ammessi a esercitarle, è quasi universalmente
    richiesta una formazione specialistica di livello universitario.
    Questo fatto non solo ha avuto un'enorme importanza nel favorire
    l'apertura delle professioni all'eguaglianza delle
    opportunità, ma ha anche profondamente influito sulla natura
    della stratificazione, nel senso che lo status va progressivamente
    perdendo il carattere ‛ascrittivo' per divenire sempre più
    frutto di ‛acquisizione'.
    
    7. Stratificazione ed eguaglianza delle opportunità
    
    È cosa ben nota - e tuttavia va detta esplicitamente - che vi
    è un'istituzione la quale pone serie limitazioni ai modelli
    di eguaglianza delle opportunità si tratta della famiglia o,
    più in generale, dell'istituto della parentela che, da un
    certo punto di vista, è analogo alla nazionalità, nel
    senso che l'appartenenza a una determinata unità, familiare o
    nazionale, non può essere interamente volontaria o
    interamente dissociata dai vincoli ascrittivi (v. Parsons, 1970).
    All'interno di questa istituzione vi sono, naturalmente, differenze
    di ruolo a seconda dell'età e del sesso; la loro definizione
    varia nell'ambito delle diverse culture, ma è tuttavia
    riferibile a uno schema abbastanza costante. Per quanto riguarda
    l'età, ad esempio, nessuna società, soprattutto ai piu
    alti livelli occupazionali nei quali più che la mansione,
    conta la carriera assegna le posizioni più elevate a persone
    molto giovani, nemmeno a quei giovani che hanno raggiunto certe
    capacità; queste posizioni vengono normalmente conseguite
    dopo che si è prestato servizio, per un notevole periodo di
    tempo, ai bassi e medi livelli dell'organizzazione di appartenenza.
    Il diffondersi dell'istruzione scolastica, inoltre, ha aumentato, in
    media, l'età in cui ha inizio una piena e autonoma
    partecipazione al mondo del lavoro. Infine, tutte le società
    moderne, sia pure in modi diversi, hanno istituzionalizzato certe
    forme di regolamentazione del pensionamento, per cui le persone
    anziane, quando hanno oltrepassato i limiti di età stabiliti,
    sono private dei vantaggi e sollevate dalle responsabilità
    che caratterizzano le persone di età inferiore.
    
    Più complicata è la serie di problemi riguardanti il
    ruolo dei sessi. Nell'epoca moderna vi è stato un notevole
    incremento della partecipazione femminile al mondo delle
    attività remunerative, esercitate prevalentemente, anche se
    non esclusivamente, al di fuori delle pareti domestiche (v. Parnes,
    1968). Tale partecipazione ha subito brusche fluttuazioni in
    situazioni d'emergenza, come la guerra, ma generalmente non in
    misura tale da essere nportata completamente, passata l'emergenza,
    ai livelli precedenti. Due sembrano essere, fondamentalmente, i
    modelli motivazionali che stanno alla base dell'occupazione
    femminile. Il primo, i cui contorni non sono facilmente definibili,
    riguarda il bisogno, nei gruppi a più basso reddito, di
    aumentare le entrate familiari. Il secondo, che sta probabilmente
    crescendo d'importanza e caratterizza soprattutto le classi medie e
    medio-alte, include, accanto alla motivazione economica ma con un
    rilievo molto maggiore, il desiderio delle donne di fare qualcosa
    d'interessante e utile al di fuori della tradizionale sfera
    dell'educazione dei figli e del governo della casa. Almeno negli
    Stati Uniti, ha assunto proporzioni notevoli questo fenomeno molte
    donne, dopo che i loro figli più piccoli hanno cominciato ad
    andare a scuola, cercano un impiego fuori casa e anzi, non
    infrequentemente, intraprendono studi supplementari in modo da
    rendersi idonee per impieghi più qualificati. Tuttavia, per
    quanto avanti possano spingersi simili tendenze, sembra alquanto
    improbabile che l'asimmetria dei sessi riguardo ai modelli di
    partecipazione alla forza lavoro sia prossima a sparire del tutto. A
    nostro avviso, una simile evenienza sarebbe verosimile soltanto
    quando la famiglia stessa venisse praticamente a perdere il suo
    significato strutturale nella società. Anche se si va sempre
    più diffondendo una relativa libertà di divorzio,
    è tuttavia probabile che il fondamentale modello del
    matrimonio monogamico e l'organizzazione abitativa della famiglia -
    con una singola coppia parentale adulta e i suoi figli,
    relativamente immaturi, residenti sotto lo stesso tetto - siano
    destinati a durare più o meno indefinitamente.
    
    Questa tendenziale preminenza della ‛famiglia nucleare' non è
    legata necessariamente a rigide regole di fedeltà sessuale.
    Ciò che conta è la partecipazione comune alla vita di
    tutti i giorni e alle responsabilità riguardanti i figli e la
    gestione domestica. Una donna che sia, in questo senso, una moglie e
    una madre responsabile difficilmente potrà godere di una
    completa indipendenza ed essere libera di plasmare la propria vita;
    nella misura in cui continuerà a farsi carico della maggior
    parte delle responsabilità domestiche, la sua partecipazione
    al mondo del lavoro ne risulterà in qualche misura limitata.
    In realtà, specialmente nelle classi medie, assai importanti
    nelle società industriali, per le donne coniugate si è
    avuto un notevole progresso verso una maggiore libertà e
    partecipazione alla vita extradomestica. Questo processo ha trovato
    un ostacolo nel forte calo della disponibilità di fidato
    personale di servizio, soprattutto per la cura dei bambini, ma anche
    per i lavori domestici. E comunque ovvia, per questi fenomeni, la
    dipendenza dallo sviluppo degli elettrodomestici nonché dalla
    creazione di centri come i supermercati, che permettono una maggiore
    efficienza nel fare la spesa. La tendenza, oggi in voga, a istituire
    centri di assistenza diurna per i bambini può dare un
    importante contributo a questa evoluzione, ma le possibilità
    che la situazione cambi radicalmente sembrano essere piuttosto
    limitate.
    
    Vi è un'altra importante direzione in cui la famiglia incide
    sulla stratificazione. Anche se vi sono, probabilmente,
    considerevoli variazioni nelle diverse società, sembrano
    avere una notevole importanza, in primo luogo, la maggiore o minore
    solidarietà familiare, poi la sicurezza psicologica
    dell'individuo soprattutto nell'infanzia, infine i livelli di
    istruzione e di cultura. In generale, per quanto riguarda i vantaggi
    che l'ambiente può fornire allo sviluppo del bambino,
    è stato chiarito in maniera abbastanza definitiva, contro
    certe opinioni della passata generazione, che questo tipo di
    vantaggi è in funzione diretta della condizione
    socioeconomica; in particolare si è riscontrata una tendenza
    a ‛lasciare indietro' certi gruppi molto svantaggiati da questo
    punto di vista, quelli che negli Stati Uniti sono comunemente
    chiamati i ‛poveri'. Gli studi sull'argomento tendono generalmente a
    dimostrare che le situazioni domestiche svantaggiate sono, a un
    livello psicologico molto profondo, un fattore primario nel
    costituirsi dell'handicap scolastico dei ragazzi provenienti dalle
    famiglie talvolta definite ‛culturalmente deprivate' (v. Kagan,
    19693; v. Coleman e altri, 1966; v. Mosteller e Moynihan, 1972; v.
    Gordon, 1971). Ciò, a sua volta, è in stretto rapporto
    con le possibilità di successo nel campo del lavoro, data la
    sempre maggiore connessione tra successo scolastico e accesso alle
    migliori opportunità di impiego (v. Jencks e Riesman, 1968).
    A quanto sembra, il problema della ‛povertà' così
    inteso è, in numerose società europee, meno acuto che
    negli Stati Uniti; sembra tuttavia pressoché universale la
    tendenza, ai livelli più bassi della scala socioeconomica,
    all'accumulo di handicaps interdipendenti, che rendono difficile,
    per gli individui che si trovano in queste condizioni, sfuggire a un
    circolo vizioso fatto di bassi redditi e di scarse
    possibilità di guadagno, di frequenti malattie sia fisiche
    che mentali, di handicaps nella capacità di trarre profitto
    dalle opportunità educative, e di numerosi altri fattori.
    Negli Stati Uniti questa situazione è complicata
    dall'importanza dei fattori razziali, responsabili di una presenza
    sproporzionata della popolazione negra nelle classi povere. È
    chiaro, tuttavia, che non si tratta affatto di un problema
    esclusivamente razziale, ma di un problema endemico nel tipo di
    stratificazione, con i suoi aspetti competitivi, proprio della
    società moderna, urbana e industriale. Così negli
    Stati Uniti, tra le persone classificate come povere, la maggioranza
    è nettamente bianca e non negra, anche se in percentuale i
    negri classificati in questa categoria sono più numerosi dei
    bianchi.
    
    È noto come, nei loro aspetti redistributivi, le politiche
    spesso riassunte sotto l'etichetta dello Stato assistenziale, siano
    dirette a mitigare gli svantaggi di questi gruppi inferiori, anche
    se in molti casi vengono applicate in maniera eguale per tutti i
    livelli socioeconomici, com'è il caso, ad esempio, del
    servizio sanitario pubblico in molti paesi. Sembra tuttavia dubbio
    che i tipi più tradizionali di misure assistenziali
    redistributive, dominati come sono da considerazioni economiche,
    siano per se stessi sufficienti a eliminare, o a diminuire in misura
    significativa, l'incidenza degli svantaggi cumulativi sopra
    descritti.
    
    Malgrado le tendenze egualitarie suaccennate, e malgrado le
    politiche dello Stato assistenziale, le società moderne,
    comprese l'Unione Sovietica e le altre del ‛campo socialista',
    presentano pur sempre, relativamente, un'elevata stratificazione,
    anche se le sue basi sono molto cambiate. La democratizzazione al
    livello dell'uguaglianza di fronte alla legge e del diritto di voto
    non ha affatto prodotto una distribuzione egualitaria del potere
    politico, anche se ha indubbiamente attenuato certe tendenze
    monopolistiche da parte dei gruppi politicamente privilegiati (v.
    Riesman e altri, 1950; v. Rose, 1967; v. Keller, 1963; v. Lipset,
    1960); ancor meno è servita a eliminare, o a ridurre
    sensibilmente, le ineguaglianze nella distribuzione della ncchezza e
    del reddito. Ed è d'altronde ben noto che i livelli di
    reddito sono strettamente correlati a certi fattori di vantaggio o
    svantaggio sociale. Si propone quindi continuamente - e ai nostri
    giorni con rinnovata intensità - il problema della giustizia
    dei correnti modelli di distribuzione e dell'efficacia degli
    innumerevoli progetti, attualmente circolanti, per la loro
    trasformazione, progetti che vanno dalla rivoluzione totale fino
    all'istituzione di imposte negative sui redditi. È un fatto
    alquanto interessante che nella maggior parte delle società
    industriali ‛democratiche' il modello di distribuzione non abbia
    subito mutamenti fondamentali per un periodo di tempo notevolmente
    lungo (v. Miller, 1964). Senza dubbio, le misure assistenziali,
    l'imposizione fiscale progressiva e altri fattori del genere hanno
    attenuato le diseguaglianze, soprattutto alle estremità
    dell'arco distributivo. E non è difficile supporre che
    ulteriori, sostanziali attenuazioni in questo senso possano essere
    prodotte da politiche governative sagge e razionalmente fondate. Ma
    gli esempi forniti dalle rivoluzioni comuniste del nostro secolo
    fanno guardare con scetticismo alla possibilità che da una
    rivoluzione violenta scaturisca una utopistica società
    egualitaria, come le ideologie a esse collegate hanno
    persistentemente e insistentemente sostenuto. Se prendiamo il caso
    della Russia, è bensì vero che le vecchie aristocrazie
    ereditarie sono state, in pratica, completamente estirpate e che la
    borghesia proprietaria, se non estirpata, certo è grandemente
    scemata di importanza; ma, per quanto riguarda i principali modelli
    di organizzazione occupazionale, la società sovietica
    è ben lungi dal potersi dire egualitaria ed è assai
    più simile alle democrazie non socialiste del mondo
    occidentale di quanto il movimento rivoluzionario non avesse
    previsto (v. Lane, 1971; v. Parkin, 1969 e 1971). E, anche se
    abbiamo assistito, da qualche tempo a questa parte, a nuove ondate
    di rivoluzionarismo, possiamo mantenerci scettici circa le
    possibilità che eventuali successi di questi movimenti
    rivoluzionari riescano a realizzare l'utopia egualitaria.
    
    Una considerazione pertinente è quella suggerita dai
    risultati di alcune recenti ricerche si è visto cioè
    che l'ideale liberale di una piena eguaglianza delle
    opportunità e di un'equa valutazione delle prestazioni
    conduce generalmente a una stratificazione piramidale molto
    accentuata. Il caso in cui ciò è stato meglio
    verificato è quello del lavoro scientifico (v. Zuckerman,
    1970). Almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, appare molto
    chiaro che quando una persona presenta domanda formale per
    l'ammissione agli studi universitari, si trova di fronte a un
    modello assai sviluppato di eguaglianza delle opportunità e
    di equa valutazione delle attitudini e delle prestazioni, modello
    che si estende poi dall'ammissione fino alla piena acquisizione
    dello status professionale. È stato dimostrato che, in questo
    ambito, anche il problema, su cui si fa tanto chiasso, della
    discriminazione nei confronti delle donne si pone meno
    frequentemente e in termini meno gravi di quanto si è finora
    generalmente pensato. Accade nondimeno, ed è interessante,
    che il modello di stratificazione che emerge in questo contesto
    assuma la forma di una piramide molto ripida. In tutte le discipline
    (v. Zuckerman, 1970) emergono élites relativamente ristrette,
    cioè delle frazioni piuttosto piccole rispetto alla massa,
    poniamo, dei fisici professionalmente qualificati, forniti
    cioè di titoli dottorali. Scarsi sono gli indizi che i membri
    di queste élites raggiungano la propria posizione grazie a
    nepotismo o a qualche altra forma di favoritismo piuttosto che in
    base a un'equa valutazione dei risultati conseguiti. Ad ogni modo,
    il quadro risultante è ben lungi dal presentarsi, per quanto
    riguarda la preminenza professionale, come egualitario, e ciò
    sebbene la struttura accademica sia, come già abbiamo notato,
    abbastanza egualitaria.
    
    Un altro esempio, su scala ridotta, di sviluppo sociale dominato da
    forti ideali egualitari è quello del kibbutz israeliano. Qui
    appare chiaro che il raggiungimento e il mantenimento del grado
    conseguito piuttosto elevato - di egualitarismo si sono resi
    possibili solo attraverso controlli sociali molto rigorosi e non
    già con il venir meno di tali controlli, tanto spesso
    idealizzato nella convinzione che il risultato della massima
    libertà sarebbe stato uno spontaneo modello egualitario. Come
    è stato dimostrato da Talmon-Garber (v., 1959), questo
    processo di controllo sociale è strettamente connesso al
    problema della famiglia e alle misure, relativamente rigorose,
    tendenti a mantenerla in una posizione molto più subordinata,
    all'interno della struttura complessiva, di quella che essa occupa
    nella maggior parte delle società moderne.
    
    Vi sono altri tre aspetti dei moderni sistemi di stratificazione che
    è opportuno discutere brevemente. Vi è in primo luogo,
    come il lettore avrà notato, una stretta analogia tra il
    funzionamento del principio ereditario all'interno dell'aristocrazia
    e il suo funzionamento all'interno dei gruppi etnici o di quelle che
    talvolta sono chiamate ‛nazionalità'. Nel mondo moderno,
    certo, il matrimonio è venuto progressivamente a dipendere
    dalla volontà dei partners, liberandosi dalle pressioni
    esterne, soprattutto dagli accordi tra i genitori, come anche da
    certe regole restrittive riguardanti, ad esempio, la religione o
    l'appartenenza etnica. Ciò nonostante, finché la
    famiglia continua a essere l'agente della riproduzione e della
    socializzazione degli uomini, i fattori di continuità da una
    generazione all'altra e l'incapacità di una piena autonomia
    personale da parte degli individui molto giovani rendono inevitabile
    la sussistenza delle componenti ascrittive nello status all'interno
    della comunità.
    
    La cristianità occidentale stabilì, e mantenne per
    molti secoli, il criterio secondo cui l'appartenenza, almeno
    formale, alla Chiesa Cattolica Romana era una condizione
    fondamentale per l'appartenenza, in qualità di cittadino,
    alla comunità societaria nel suo complesso. Con la Riforma le
    cose cambiarono e la formula cui si giunse, dopo il fallimento del
    tentativo controriformistico di sopprimere il protestantesimo,
    finì col determinare un pluralismo religioso nel mondo
    europeo, anche se, in ciascuna delle unità che lo
    costituivano, venne mantenuto il principio dell'omogeneità
    religiosa. Questa omogeneità, tuttavia, andò
    gradualmente riducendosi in favore della tolleranza religiosa e del
    pluralismo confessionale, e non più soltanto nel rapporto tra
    le varie unità politiche, ma anche all'interno di esse. In un
    certo senso, la conclusione logica di questo processo venne
    raggiunta già con la Costituzione degli Stati Uniti,
    proclamata poco dopo l'indipendenza della nuova repubblica, che
    sanciva la separazione tra Stato e Chiesa; se si eccettuano quei
    paesi in cui, come avviene nel mondo comunista, una specie di
    ‛religione politica' costringe a un tipo di osservanza assai simile
    a quello che era richiesto dalle antiche Chiese di Stato, oggi
    l'unità religiosa delle società politiche è
    diventata sempre più un ricordo del passato (v. Lipset, 1963,
    cap. 4; v. Herberg, 1956).
    
    Si sono fatti notevoli passi avanti, anche per impulso del
    pontificato di Giovanni XXIII, verso l'istituzionalizzazione del
    cosiddetto ‛ecumenismo'. Tuttavia, R. N. Bellah (v., 1967) ha
    dimostrato che, a un altro livello, la comunità nazionale
    continua a essere caratterizzata da un certo tipo di unità
    religiosa, da una specie di ‛religione civile', come egli la chiama,
    o da una pluralità di religioni civili in certi casi di
    integrazione incompleta. Ciò concorda con il punto di vista
    dell'ultimo Durkheim, secondo cui una società, a determinati
    livelli rilevanti, deve costituire ciò che egli chiama una
    ‛comunità morale', la quale comprende una dimensione
    religiosa o, come egli dice, una ‟chiesa" (v. Durkheim, 1912).
    
    In questo contesto va vista, io credo, la stratificazione della
    moderna comunità societaria. Per quanto importante possa
    essere il ruolo del conflitto di interessi, soprattutto a livello
    economico e politico, e per quanto globalmente rilevanti possano
    essere i modi in cui esso si manifesta, tuttavia la principale scala
    di prestigio sottostante ai modelli di stratificazione rimane
    radicata in una cultura normativa, il cui sfondo è in un
    certo senso religioso. È vero che, di tanto in tanto, essa
    viene sconvolta, almeno parzialmente, dall'irrompere dei movimenti
    rivoluzionari; ma come dicevamo poc'anzi, è nostra opinione
    che il rilievo politico assunto dai movimenti comunisti abbia solo
    parzialmente cambiato le cose. Si tratta in fondo di religioni
    ‛secolari', o politiche, in cui criteri come l'appartenenza
    all'organizzazione del partito comunista o l'osservanza della sua
    ideologia hanno preso bensì il posto delle vecchie
    ortodossie, esplicitamente confessionali, del cattolicesimo, del
    protestantesimo o anche dell'ebraismo, ma in cui, in linea di
    principio, i fondamentali criteri di stratificazione si basano
    ancora sulla cultura normativa divenuta dominante. Per di
    più, la società che ne risulta è ben lungi
    dall'essere veramente egualitaria. In un certo senso, i partiti
    comunisti, per quanto laici possano essere dal punto di vista della
    tradizione religiosa, giocano un ruolo in certo senso analogo, per
    alcuni aspetti, a quello che gli ordini religiosi hanno svolto
    all'interno della cristianità cattolica nel corso di gran
    parte della sua storia, ivi compresa la posizione particolarmente
    privilegiata assegnata ai loro membri nel contesto generale della
    stratificazione. E questo, comunque, un principio di stratificazione
    che, per certi riguardi, si interseca con quello che ha la sua base
    nel sistema occupazionale (v. Parsons, 1971). Le linee di
    stratificazione, in questo campo, sono molte e sovrapposte, ma il
    principio mi sembra relativamente chiaro.
    
    La componente esplicitamente religiosa della stratificazione, in
    epoca relativamente moderna, si è strettamente intrecciata
    con la componente etnica, pur rimanendo nel contempo distinguibile
    da essa. Con l'emergere per le unità sociali politicamente
    organizzate dell'ideale di un'omogeneità etnica
    oltreché religiosa, si fece strada la tendenza a dare
    speciale risalto a un elemento etnico relativamente puro, che dava
    il tono alla comunità nazionale; ciò si è
    verificato, più che altrove, in Francia e in Gran Bretagna,
    come già s'è visto. Si può forse dire,
    comunque, che non è stato mai possibile raggiungere una
    stabile purezza etnica per una vasta popolazione nel suo insieme.
    Senza dubbio, l'egemonia di una determinata lingua è stata
    spesso saldamente istituzionalizzata, ma vi sono, anche qui,
    eccezioni molto notevoli: casi rilevanti, in epoca recente, sono
    quelli del Belgio e del Canada. Anche in alcune moderne
    società occidentali hanno avuto rilievo fenomeni analoghi a
    quelli dell'India e di altre società non occidentali, nelle
    quali le classi superiori si sono chiaramente identificate in base a
    un'origine etnica relativamente definita e, di conseguenza,
    l'origine etnica ha assunto il valore di un importante e autonomo
    simbolo di prestigio.
    
    Tutto ciò ha cominciato, tuttavia, a cambiare in maniera
    notevole. Si può affermare che la società che ha
    svolto un ruolo di avanguardia in questo processo di cambiamento
    è stata quella statunitense. Data l'origine della sua
    popolazione, si può facilmente comprendere che la posizione
    predominante nel sistema di stratificazione, e non solo in esso,
    appartenesse, quasi come cosa naturale, a quello che è stato
    recentemente chiamato l'elemento WASP (White Anglo-Saxon Protestant:
    ‛bianco anglosassone protestante'). Fin dai tempi della dominazione
    coloniale vi fu, però, un problema latente circa lo status
    finale cui erano destinati i Negri africani che, come schiavi,
    entravano a far parte della società: problema che si è
    dimostrato una grande fonte di conflitti, esplosi particolarmente
    con la crisi della guerra civile più di un secolo fa e, in
    epoca molto recente, con il movimento per i diritti civili.
    Un'evoluzione diversa, ma non meno significativa, è quella
    relativa al fenomeno della massiccia immigrazione, in un regime
    giuridico di formale tolleranza della diversità, di elementi
    non anglosassoni. Anche se, ancora negli anni venti, un acuto
    osservatore francese, A. Siegfried (v., 1927), poteva parlare di due
    Americhe, l'America WASP e l'America ‛etnica', oggi, a non
    più di mezzo secolo di distanza, un tale giudizio è
    ben lungi dall'apparire plausibile: negli Stati Uniti sembra essersi
    sviluppato un modello di pluralismo etnico che è, sotto molti
    aspetti, parallelo e certamente interconnesso al pluralismo
    religioso (v. Laumann, 1973). Certo, anche prescindendo dal caso un
    po' particolare dei Negri americani (v. Parsons e Clark, 1966; v.
    Pettigrew, 1964), non si può dire che le considerazioni
    razziali non abbiano ancora un peso nella scala di stratificazione
    (v. Franklin, 1968). Tuttavia, la situazione è cambiata in
    modo assai concreto, come dimostra il venir meno di certe barriere e
    la conseguente maggiore importanza sociale per i membri, in
    particolare, del gruppo ebraico e di quello cattolico. Gli Stati
    Uniti non hanno ancora avuto un presidente ebreo, ma, per il resto,
    tutte le altre più importanti posizioni di prestigio nel
    paese sono state raggiunte da numerosi ebrei, compresa quella,
    prestigiosissima, di membro della Corte Suprema. Inoltre, un fatto
    di rottura, di grande valore simbolico, fu rappresentato
    dall'elezione di John F. Kennedy, che era di origine
    cattolico-irlandese e che fu, anche durante il suo mandato
    presidenziale, un cattolico credente e praticante. Il significato
    simbolico di questa rottura fu tragicamente sottolineato
    dall'assassinio di Kennedy e dalla grande emozione popolare che ne
    seguì.
    
    A mio avviso, il pluralismo etnico ha non solo fatto grandi passi
    avanti nella società americana, ma costituisce un fenomeno
    generale delle società moderne, soprattutto di quelle
    occidentali.
    
    Questo fenomeno è, per certi aspetti, un caso particolare di
    un fatto che i teorici della stratificazione sono piuttosto inclini
    a trascurare. Essi tendono a concentrare la loro attenzione sulla
    stratificazione dei singoli membri della società, considerati
    come unità fondamentali, forse con sottintesa polemica verso
    certe vecchie impostazioni che tendevano a trattare le unità
    collettive (aristocrazia, borghesia e simili) come le sole
    unità rilevanti nel sistema di stratificazione. Noi abbiamo
    già sottolineato che la solidarietà fondata sulla
    parentela rimane un fattore di centrale importanza nei moderni
    sistemi di stratificazione, ma ci sembra giusto aggiungere che
    questo non è che un esempio, particolarmente importante, del
    più generale fenomeno della stratificazione di
    collettività in quanto distinta dalla stratificazione degli
    individui che ne fanno parte. Così, nel campo delle moderne
    organizzazioni subsocietarie, vi sono indubbiamente modelli di
    stratificazione assai rilevanti. Due esempi significativi sono
    quello delle imprese e quello degli istituti di istruzione
    superiore. Negli Stati Uniti vi è una specie di
    ‛aristocrazia' delle imprese, quelle che vengono talvolta chiamate
    blue ribbon firms, tra cui banche, aziende manifatturiere, ecc.
    Anche nel mondo accademico vi è un'élite, costituita
    da università e colleges di alto prestigio: in un sistema di
    istruzione superiore come quello americano, il quale comprende
    qualcosa come duemila istituti in grado di fornire corsi
    quadriennali di primo livello (undergraduate), questa élite
    accademica è istituzionalmente costituita da una minoranza
    molto piccola (v. Jencks e Riesman, 1968). Similmente, in Gran
    Bretagna, ad esempio, godono di uno speciale prestigio le
    Università di Oxford e Cambridge e in Francia la Sorbona e
    l'École Normale Supérieure; così in Giappone,
    per uscire dall'orbita occidentale, l'Università di Tokyo si
    trova in una posizione di particolare prestigio.
    
    8. La stratificazione tra le nazioni
    
    Le stesse considerazioni basilari che si applicano a
    collettività interne a una società possono essere
    estese a gruppi di società, più o meno definite dal
    punto di vista nazionale. Sul piano politico emerge, ad esempio, la
    distinzione - quanto al prestigio - tra la posizione delle
    cosiddette ‛grandi potenze' e quella delle entità nazionali
    più piccole. Un'altra distinzione, particolarmente rilevante
    ai giorni nostri, è quella tra paesi ‛sviluppati' e
    ‛sottosviluppati'. Com'è noto, vi sono state appassionate
    discussioni intorno al problema se siano giuste le diseguaglianze
    esistenti tra le varie nazioni (v. Furtado, 1966). È un
    fenomeno, questo, che rientra sicuramente nella competenza della
    teoria della stratificazione sociale.
    
    Nel corso del nostro secolo vi è stata una serie notevole di
    cambiamenti nei rapporti di prestigio e di potere tra i vari paesi.
    Sino alla prima guerra mondiale, ma anche dopo, le ‛grandi potenze'
    erano essenzialmente la Gran Bretagna, la Francia e, anche se
    gravemente scossa dalle sconfitte militari subite durante la guerra,
    la Germania; anche la Russia zarista, gli Stati Uniti e il Giappone
    occupavano una posizione di rilievo. La guerra ebbe come
    conseguenza, tra l'altro, la distruzione del regime zarista in
    Russia e lo smembramento dell'Impero austroungarico.
    
    Si ebbe in seguito l'ascesa, legata soprattutto alla seconda guerra
    mondiale, delle due ‛superpotenze', gli Stati Uniti e l'Unione
    Sovietica. In rapporto a esse, la posizione delle vecchie grandi
    potenze, soprattutto Gran Bretagna, Francia e Germania, andò
    declinando nel corso della guerra e nel dopoguerra. Nel caso della
    Gran Bretagna e della Francia questo declino si accompagnò
    alla perdita dell'impero coloniale, che ebbe come conseguenza la
    creazione di un notevole numero di nuove entità nazionali
    indipendenti, per lo più raggruppate sotto la categoria di
    Terzo Mondo. Per quanto riguarda la Francia, un duro colpo le fu
    certamente inferto dall'occupazione tedesca durante la guerra,
    mentre la Germania finì per subire una seconda sconfitta, che
    condusse, questa volta, non solo a una spartizione, a quanto sembra
    duratura, della vecchia nazione germanica, ma anche all'annessione
    di vaste porzioni dei suoi territori orientali da parte dell'Unione
    Sovietica e della Polonia.
    
    Un fatto molto notevole, comunque, è costituito dallo
    sviluppo di quella che, in senso ampio, possiamo chiamare
    l'unificazione europea (v. Friedrich, 1969; v. Namenwirth, 1963).
    Essa si è inizialmente avviata, per comprensibili ragioni,
    sul terreno economico, a partire dalla Comunità del Carbone e
    dell'Acciaio fino alla creazione della Comunità Economica
    Europea. Accanto a ciò, si è avuta quella che, per
    ironia della storia, non è stata soltanto la ricostruzione
    economica delle principali potenze uscite sconfitte dalla seconda
    guerra mondiale, Germania e Giappone soprattutto, ma la loro ascesa
    al ruolo di giganti nella produttività economica. In tal modo
    la Germania Occidentale, benché amputata rispetto al
    territorio prebellico, è diventata la prima potenza europea a
    occidente dell'Unione Sovietica e, per certi aspetti fondamentali,
    la nazione guida della comunità europea. Il Giappone, a sua
    volta, ha goduto di una fase di sviluppo economico senza precedenti,
    che lo ha già posto nella posizione di terza potenza
    economica mondiale, malgrado l'angustia del suo territorio. Infine,
    la Cina, emersa da un lungo periodo di sommovimenti interni e di
    consolidamento della sua particolare versione della rivoluzione
    comunista, è ormai rientrata nel mondo politico
    internazionale, con una chiara vocazione di grande potenza.
    Così, nel giro di pochi anni, abbiamo assistito a un
    considerevole arretramento della concezione della politica mondiale
    come rapporto tra le due superpotenze, concezione alla quale succede
    l'idea che stia emergendo una costellazione fondamentalmente
    pentapolare che comprende ovviamente gli Stati Uniti e l'Unione
    Sovietica, ma anche la Comunità Europea, di recente
    allargata, che ora può accrescere rapidamente la propria
    importanza politica e, in Asia Orientale, il Giappone e la Cina, da
    poco salita alla ribalta internazionale.
    
    Molto si discute anche riguardo al problema della diseguaglianza tra
    le varie unità ‛nazionali', riguardo specialmente, come
    spesso si dice, alla crescente discrepanza di status, di risorse e
    così via tra l'élite opulenta del sistema di potere
    internazionale e le nazioni cosiddette ‛sottosviluppate' o in via di
    sviluppo (v. Amin, 1970). Questa diseguaglianza, spesso paragonata a
    quella esistente all'interno delle singole società nazionali,
    costituisce certamente un nodo importante nella discussione degli
    affari internazionali.
    
    9. Conclusione: vi è oggi un equivalente funzionale delle
    aristocrazie tradizionali?
    
    Torniamo ora all'ordinamento gerarchico dei singoli come dei gruppi
    all'interno delle società nazionali. Quando abbiamo
    affrontato in termini storici il problema dell'evoluzione della
    stratificazione nel mondo occidentale, abbiamo seguito, quale filo
    conduttore, l'ascesa dell'aristocrazia e le sue vicissitudini a
    partire dal Medioevo, ponendo decisamente l'accento sul fatto che in
    Europa lo status di classe superiore non fu mai monopolio esclusivo
    dell'aristocrazia, ma dovette da essa essere spartito, in maniera
    conflittuale, con la borghesia urbana. In un certo senso, tutte le
    società moderne, soprattutto quelle strutturate secondo il
    modello occidentale (ma certo non solo esse), si sono venute
    caratterizzando come società borghesi o, per usare
    un'espressione più comune in America, come società di
    ‛classi medie'.
    
    È stato sostenuto da più parti che ciò sarebbe
    principalmente una conseguenza dello sviluppo del cosiddetto
    ‛capitalismo'. Non vi è dubbio che il capitalismo abbia
    operato in modo da scalzare progressivamente e dovunque le posizioni
    delle vecchie aristocrazie. Ma un processo in qualche modo parallelo
    si è avuto anche nel mondo socialista: la Rivoluzione russa
    ebbe l'effetto di spazzar via completamente le posizioni di
    prestigio dell'aristocrazia prima da quella che doveva diventare
    l'Unione Sovietica e, in seguito, dai paesi satelliti. Ma la
    ‛dittatura del proletariato' che in questi paesi si è preteso
    di istituire non ha avuto che un valore simbolico, significando in
    realtà la dittatura dei vari partiti comunisti e non di una
    classe sociale nel senso ordinano del termine. In realtà,
    tutte le cosiddette società industriali sono venute
    elaborando, in larga misura attraverso lo sviluppo del ‛sistema
    occupazionale', modelli di stratificazione alquanto simili tra loro,
    nei quali viene dato forte risalto allo status acquisito mentre va
    perdendo d'importanza il principio ereditario (v. Parsons, 1970).
    Devo però confessare, nel fare questa affermazione, di avere
    una conoscenza troppo frammentaria di quanto finora è
    avvenuto nella Cina comunista. Comunque, per quanto riguarda la
    principale potenza del campo comunista, cioè l'Unione
    Sovietica, sembrano esservi scarsi dubbi circa la somiglianza della
    sua gerarchia occupazionale con quella delle nazioni cosiddette
    ‛capitaliste' dell'Occidente.
    
    Si è avuto, inoltre, un altro importante processo di
    mutamento sociale, che non abbiamo ancora trattato in questa sede e
    che ha già profondamente modificato le strutture della
    stratificazione nelle società industriali. Si tratta di un
    fenomeno che mi è sembrato legittimo definire rivoluzionario,
    intendendo però il termine nel senso in cui si usa, poniamo,
    a proposito della rivoluzione industriale piuttosto che di quella
    democratica, data l'assenza dei gravi episodi di violenza che
    solitamente accompagnano il rovesciamento di un regime politico: il
    termine appropriato mi sembra quello di ‛rivoluzione
    dell'istruzione'.
    
    Gli studiosi della società moderna storici, economisti,
    sociologi e simili hanno appena cominciato, io credo, a rendersi
    conto in maniera adeguata della profondità del cambiamento
    che è stato introdotto, in primo luogo, dallo sviluppo della
    scolarità generalizzata e, in secondo luogo, dal costante
    incremento dei livelli di istruzione conseguiti da gruppi sempre
    più larghi delle corrispondenti fasce d'età della
    popolazione. La tendenza alla generalizzazione della
    scolarità, inizialmente limitata all'istruzione elementare,
    è venuta costantemente allargandosi all'istruzione secondaria
    e persino a quella superiore: questo processo è comune a
    tutte le società industriali, ma si è spinto avanti,
    più che in ogni altro luogo, negli Stati Uniti. Qui e, in
    grado leggermente minore, in altri paesi (e tra questi soprattutto,
    forse, il Giappone), dopo la seconda guerra mondiale siamo entrati
    veramente nella fase dell'‛istruzione superiore di massa'. Anche se
    questa tendenza può essersi leggermente attenuata in tempi
    recenti, negli Stati Uniti si è già raggiunto lo
    stadio in cui più della metà di coloro che compietano
    un regolare corso di studi secondari, accede a un qualche tipo di
    istruzione superiore (v. American Council on Education, 1969; v.
    Trow, 1970). È ben noto, tra l'altro, che nel sistema di
    istruzione superiore i settori in più rapida espansione sono
    di gran lunga quelli di secondo livello (post graduate) per la
    specializzazione professionale: è un fatto questo che
    richiederebbe un'accurata interpretazione comparativa nei diversi
    sistemi d'istruzione, soprattutto quello americano e quelli europei.
    Questo fenomeno, inoltre, è stato accompagnato da un
    incredibile sviluppo della dimensione istituzionale e della
    professionalizzazione della ricerca.
    
    Per quanto riguarda la stratificazione, una conseguenza importante
    dell'istruzione superiore di massa è stata quella di
    svincolare l'accesso ai livelli più alti dell'istruzione
    dall'appartenenza a uno strato sociale elevato, composto in
    larghissima parte da elementi alto-borghesi nel tradizionale
    significato di classe del termine. L'istruzione superiore, da un
    lato si è resa più aperta a una competizione
    relativamente indipendente dalle condizioni socioeconomiche
    familiari; d'altro lato, la sua accresciuta diffusione quantitativa
    ha permesso l'inserimento nel sistema di elementi della popolazione
    che, un tempo, non avrebbero preso in considerazione gli studi
    superiori nemmeno come una possibilità. Questi sviluppi hanno
    determinato una situazione che è stata acutamente
    interpretata per la prima volta, a quanto mi risulta, da Jencks e
    Riesman (v., 1968): essi hanno sostenuto, con riferimento
    soprattutto alla società americana (ma il discorso ha una
    portata certamente più ampia), che la linea di divisione
    più importante all'interno del sistema di stratificazione
    è divenuta quella che passa tra coloro che sono entrati nel
    sistema dell'istruzione superiore e coloro che ne sono rimasti al di
    fuori. Attualmente, negli Stati Uniti, come in molti altri paesi,
    sembra essersi iniziata una fase di reazione, da parte dei circoli
    politici, contro il generale programma di espansione dell'istruzione
    superiore e contro i privilegi accordati ai docenti come agli
    studenti. È difficile interpretare questa reazione, ma posso
    azzardare l'ipotesi che difficilmente si potrà invertire una
    tendenza che si è venuta consolidando nel corso di una
    generazione e anche più. Ci si dovrebbe invece attendere che
    l'istruzione superiore mantenga il suo carattere di massa e che
    anche la tendenza all'accrescimento quantitativo non debba
    interrompersi per un periodo piuttosto lungo. Le reazioni politiche,
    cosi come si sono configurate negli Stati Uniti durante gli anni
    settanta, rappresentano probabilmente una fase di un ciclo
    più generale: è presumibile cioè che questa
    reazione provochi a sua volta una controreazione quando gli umori
    attuali si saranno esauriti.
    
    Anche se si tratta di un'affermazione un po' generica, sarei
    propenso ad avanzare l'idea che il ruolo delle persone ‛istruite'
    nelle società moderne - Bell (v., 1971 e 1973) direbbe
    ‟postindustriali" - tenda di fatto, col ridursi al minimo del
    principio ereditario, a presentarsi sempre piu come un nuovo
    equivalente funzionale dell'istituto storico dell'aristocrazia.
    
    Malgrado tutte le discussioni circa il fatto che l'istruzione
    superiore ha provocato un processo di specializzazione
    cumulativamente crescente, che ha considerevolmente abbassato il
    potenziale di reciproca comunicazione tra le persone di alta
    cultura, rimane da fare una considerazione assai importante:
    cioè che questa tendenza alla specializzazione non è
    assolutamente un fatto a sé stante. Il mio punto di vista
    è che, come tante volte è avvenuto nei casi di
    differenziazione e di specializzazione, vi siano concomitanti e
    complementari tendenze verso nuovi livelli di integrazione. Per
    quanto riguarda il presente argomento, ciò vorrebbe dire che
    la nuova classe delle persone di cultura ha, al suo interno, certi
    livelli di integrazione che finora non sono stati in genere
    compresi, e ha acquisito anche se la cosa è assai contestata
    una posizione di generalizzato e diffuso prestigio che non è
    semplicemente in funzione dei risultati specialistici e del
    prestigio di singoli membri o sottogruppi di questa più vasta
    ‛comunità'. In altre parole, mi sembra molto ragionevole
    l'affermazione di Jencks e Riesman (v., 1968) secondo cui coloro che
    si sono sottoposti a una formazione superiore sono destinati a
    diventare generalmente, nelle società postindustriali, un
    gruppo di prestigio superiore.
    
    Questa evoluzione può dimostrarsi instabile da molti punti di
    vista. Il più ovvio fattore di instabilità è
    dato dal fatto che il processo di inclusione, nell'istruzione
    superiore di massa, di porzioni sempre più larghe di
    popolazioni può significare una diluizione del prestigio
    relativo del settore istruito, così da fargli perdere ogni
    significativo carattere di élite. Naturalmente, altri fattori
    di instabilità potrebbero derivare, all'opposto, dal
    diffondersi di profondi sentimenti antintellettualistici che sono il
    frutto, in parte, di un atteggiamento culturale che svaluta
    l'intelligenza in favore della spontaneità emotiva, e in
    parte di un atteggiamento populista che sottolinea il conflitto tra
    i principi di eguaglianza, da un lato, e l'‛elitismo' delle classi
    più istruite dall'altro. Tutto sommato, sembra comunque
    ragionevole prevedere che la speciale importanza, recentemente
    emersa, dei gruppi altamente istruiti si dimostrerà, per una
    generazione o due, il fulcro di una sensibile ristrutturazione del
    sistema tradizionale di stratificazione. (V. anche capitalismo,
    comunismo, socialismo, sociologia, stato).