Razzismo
    di George L. Mosse
    www.treccani.it
    Enciclopedia online
    
    
    Sommario: 1. Introduzione. 2. Le concezioni razzistiche nel
    Settecento e nel primo Ottocento. 3. Maturazione e diffusione
    dell'ideologia razzistica sino alla prima guerra mondiale. 4. Da
    ideologia a movimento di massa. Il razzismo e i fascismi. 5. Dopo la
    seconda guerra mondiale. □ Bibliografia.
    
    1. Introduzione
    
    Il termine ‛razza' ha diversi significati, ancora oggi non
    completamente distinti l'uno dall'altro. È stato usato sin
    dal Rinascimento per denotare tratti caratteristici di gruppi sia
    umani che animali; come è stato usato anche per indicare
    gruppi privi di affinità ereditarie. ‛Razzismo' si riferisce
    a una visione del mondo che riconduce il comportamento e il
    carattere degli uomini alla ‛razza' cui si asserisce che l'individuo
    o il gruppo appartenga. L'influsso del razzismo nell'epoca moderna
    deriva dal fatto che esso è divenuto una sorta di religione
    secolare, basata sulla scienza e sulla storia. Esso avanza diritti
    sui frutti migliori di entrambi i mondi: quello della scienza, che
    ha fornito nuove ‛verità' a partire dal Settecento, e quello
    della storia, che ha istituito un legame con tradizioni che si
    andavano rapidamente dissolvendo nel mondo moderno. Il razzismo
    fornisce una visione totale del mondo che, oltre alla scienza e alla
    storia, comprende anche l'estetica e la morale. (V. anche razza).
    
    Possiamo tracciare l'evoluzione del razzismo attraverso diverse e
    ben definite fasi storiche. I fondamenti teorici furono gettati
    durante il Settecento e la prima metà dell'Ottocento. A
    partire dalla seconda metà dell'Ottocento sino alla fine
    della prima guerra mondiale il razzismo andò crescendo
    d'intensità, assumendo un più netto e definito
    orientamento. Tra la prima e la seconda guerra mondiale
    stabilì collegamenti con i movimenti politici di massa
    europei riuscendo, su buona parte del continente, a tradurre in
    pratica le teorie razziste. Infine, dopo la seconda guerra mondiale
    i razzisti continuarono ad agitarsi, ma furono sopraffatti dalla
    reazione contro i loro stessi crimini.
    
    2. Le concezioni razzistiche nel Settecento e nel primo Ottocento
    
    Il risveglio romantico della storia, quale ebbe luogo nel
    Settecento, fu d'importanza fondamentale per lo sviluppo dell'ideale
    razziale. Furono allora postulate le leggi dello sviluppo organico,
    poi trasferite all'antropologia e alla linguistica, le quali
    dovevano avere entrambe un ruolo decisivo nello sviluppo del
    pensiero razzistico.
    
    Mentre per uomini come il Buffon e il Montesquieu lo sviluppo
    storico era condizionato dai fattori ambientali come il clima e la
    geografia, le differenze tra i popoli essendo variazioni puramente
    casuali, la concezione ‛organica' della storia scavava un abisso
    profondo tra gli uomini e tra le nazioni, abisso che, si diceva, non
    era un prodotto delle umane vicende, ma rivelava un piano divino. Si
    consideri per esempio la concezione elaborata da Herder, che doveva
    avere vasta risonanza in tutta l'Europa. La natura e la storia sono
    le forze creative dell'universo. La spontaneità naturale,
    istintiva, è alla radice delle caratteristiche di ciascun
    popolo nel suo cammino attraverso il tempo. Oltre che nella
    letteratura del passato, il popolo si esprime altrettanto
    schiettamente nella lingua nazionale e nella poesia popolare.
    L'individuo esiste solo come parte di un Volk così concepito.
    Nella concezione herderiana la nazionalità veniva ad assumere
    una dimensione estetica, storica e linguistica che ne faceva
    un'entità separata da qualsiasi forma transitoria di
    organizzazione politica. Il fatto che il Volk ‛organico' avesse la
    prevalenza sullo Stato si dimostrò decisivo per tutto il
    successivo pensiero razzistico. Herder non credeva, tuttavia, nella
    supremazia nazionale, poiché, come uomo dell'illuminismo,
    l'amore per il suo proprio Volk non gli impediva di rispettare tutti
    gli altri.
    
    L'insistenza di Herder sul linguaggio come espressione di un passato
    comune accomunò un'intera generazione di filologi a cavallo
    del Sette e Ottocento, i quali respingevano però in massima
    parte gli interessi umanistici di Herder per concentrarsi invece
    sulla ricerca scientifica delle affinità genetiche tra le
    lingue. Le indagini glottologiche accertarono senza
    possibilità di dubbio la parentela esistente fra il sanscrito
    e l'antico persiano (e le lingue derivate) e molte lingue europee
    antiche e moderne; l'esame comparato di tutte queste lingue
    conduceva cioè a postulare una protolingua comune
    (indoeuropeo o arioeuropeo), importata in Europa dall'Asia all'epoca
    delle migrazioni dei popoli ‛ariani'. È in questo contesto
    che appare per la prima volta la parola ‛ariano'. Senonché la
    ricerca scientifica delle parentele linguistiche indulse assai
    presto alla formulazione di giudizi di valore, venendo così a
    saldarsi con la visione organica della storia tanto popolare tra i
    romantici.
    
    Poiché la lingua esprimeva l'esperienza di un popolo
    attraverso il tempo, si pensava che il passato degli ariani, i quali
    avevano dato all'Europa le sue lingue, riflettesse la supposta
    superiorità dell'Europa contemporanea. Attraverso la
    linguistica i romantici trovarono un legame con la preistoria ariana
    dei popoli germanici. I linguisti descrissero gli ariani come forti
    e virili contadini, dalla sana vita familiare. La scienza
    linguistica dava così origine a un mito storico; la ricerca
    scientifica conduceva ad avanzare pretese di superiorità
    morale: tratto, questo, che resterà costante attraverso tutta
    l'evoluzione del pensiero razzistico. Il conte de Gobineau ripeteva
    un luogo comune della linguistica del suo tempo, quando pretendeva
    che la lingua ‛pura' degli ariani dimostrasse la loro
    capacità di trascendere la dimensione puramente materiale
    della vita.
    
    La lingua divenne un indice della vera spiritualità e della
    continuità con un passato incontaminato. Già durante i
    primi decenni dell'Ottocento si sosteneva che stranieri come gli
    Ebrei erano caratterizzati da una intrinseca incapacità di
    parlare la lingua nazionale del paese ospite. Una simile
    inettitudine svelava la differenza delle origini storiche e una
    natura materialistica, incapace di volgersi a Dio e alla natura.
    Quand'era professore in Inghilterra (1859-1861), Max Müller
    presentava dottrine razzistiche sotto il manto della ricerca
    linguistica. Gli ariani erano stati trascinati nell'Europa
    nordoccidentale (Inghilterra e Germania) da un impulso
    irresistibile. Questa migrazione aveva irrobustito quel senso
    d'indipendenza e quella fiducia nelle proprie forze che erano i
    contrassegni della superiorità ariana. Bisogna sottolineare
    che simili idee di superiorità non erano necessariamente
    associate al nazionalismo, ma potevano essere anche usate per
    sostenere qualità tipicamente liberali, come la fiducia in se
    stessi e l'iniziativa privata.
    
    Comunque la linguistica, combinata con il mito storico della
    superiorità ariana, portava a concludere che gli Anglosassoni
    erano predestinati all'esercizio della libertà attraverso
    libere istituzioni. Così lo storico inglese E. A. Freeman fu
    solo uno tra i molti a ritenere che l'Inghilterra dovesse le sue
    istituzioni parlamentari alle sue radici anglosassoni. Si pensava
    che l'organizzazione delle tribù germaniche (comitatus)
    esemplificasse la pratica democratica. Di conseguenza, le razze che
    non condividevano questo passato mancavano delle qualità
    spirituali necessarie per l'autogoverno. La Germania di Tacito
    forniva prove delle doti speciali e delle istituzioni
    caratteristiche degli antichi Germani, e associava il loro amore per
    la libertà e l'indipendenza alla schiettezza incorrotta delle
    loro qualità morali.
    
    Sia i Tedeschi che i Francesi scavarono nel loro passato alla
    ricerca delle radici nazionali. Poco importava che, secondo lo
    storico Fustel de Coulanges, la predestinazione dei Francesi alla
    libertà risalisse non già al comitatus ma
    all'eredità romana e celtica; e nemmeno importava che simili
    teorie potessero servire di sostegno alle istituzioni liberali,
    oltre che al nazionalismo; il dato essenziale era - si trattasse di
    Germani o di Celti - che le virtù esemplificate negli
    antenati erano precisamente quelle predilette dalle classi medie
    dell' Europa ottocentesca: moralità rigorosa, duro lavoro,
    sete di cultura, vita familiare, tutti valori incalzati da presso
    dalla modernità. Il mito anglosassone rimase particolarmente
    potente negli Stati Uniti, dove, verso la fine dell'Ottocento, J. E.
    Hosmer scrisse che le nazioni europee e il Giappone non avevano
    fatto altro che imitare le vere libertà anglosassoni. Nel suo
    popolare Winning of the West (1889) Th. Roosevelt esaltava la
    ‟crescita della razza potente" venuta dalle foreste tedesche a
    conquistare il continente americano. L'espressione ‟destino
    manifesto" venne usata in questo contesto: la razza anglosassone
    doveva adempiere al proprio destino di diffondere il proprio sistema
    politico in tutto il mondo.
    
    In sé, il concetto di ‛razza' derivava dall'antropologia
    piuttosto che dalla storia o dalla linguistica. Il termine ricevette
    un significato più preciso, e diede il suo contributo al
    razzismo, esattamente nello stesso periodo in cui andava
    dispiegandosi lo sviluppo della storia e della linguistica. Fu
    l'antropologia settecentesca a dare inizio alla classificazione
    delle razze. Linneo e Buffon suddivisero i popoli a seconda del
    colore, delle dimensioni e della forma del corpo. Si asseriva quindi
    che le somiglianze in tal modo scoperte costituivano appunto la
    ‛razza'. Ma anche questa impostazione puramente ‛scientifica'
    conduceva poi a giudizi sul carattere e sul temperamento degli
    uomini; parimenti si supponeva che l'apparenza esteriore e le misure
    fisiche dell'uomo simboleggiassero le qualità spirituali.
    
    L'anatomista olandese P. Camper indagò la tipologia razziale
    mettendo a confronto le misure facciali e cefaliche dei Negri e
    delle scimmie. Tali misure stabilivano una progressione ordinata:
    dalla scultura greca, come forma ideale che si rivelava nelle razze
    europee, fino ai Negri, la più bassa delle specie umane.
    L'associazione di una supposta antropologia scientifica con criteri
    estetici si rivelò fondamentale per lo sviluppo del razzismo
    che, a partire dall'Ottocento, prese a elaborare ‛tipi ideali'. F.
    J. Gall fondò la fenologia sul principio che le
    predisposizioni morali e intellettuali degli uomini potevano essere
    determinate attraverso la configurazione dei loro crani. Le misure
    del cranio divennero essenziali, per la cosiddetta ‛biologia
    razziale', allo scopo di determinare il ‛tipo ideale'; e i nazisti,
    così come i razzisti italiani (per es. J. Evola), dovevano
    farne un grande uso.
    
    Sebbene in un'antropologia siffatta l'osservazione scientifica fosse
    intrecciata con giudizi estetici e morali, durante il Settecento
    rimasero in primo piano i fattori ambientali. Ma quei pensatori che
    si preoccupavano d'esaltare lo sviluppo storico ‛organico' di un
    popolo avevano già negato l'importanza dei fattori
    ambientali. Essi ricevevano ora un potente sostegno da Kant, che si
    servì del concetto antropologico di razza unicamente per
    staccarlo dall'influenza del clima o della geografia. La purezza di
    una razza era essenziale e doveva essere mantenuta nonostante le
    circostanze esterne. Per Kant, i Negri e i Bianchi costituivano
    razze separate dato che non era mai accaduto che si mescolassero nel
    corso della storia. Kant, comunque, non postulò mai la
    superiorità di una razza su tutte le altre: come Herder, egli
    apparteneva all'illuminismo.
    
    Una volta che l'importanza dei fattori ambientali era stata messa in
    dubbio in nome della purezza razziale, gli antropologi cominciarono
    a occuparsi sempre di più dell'origine delle razze. Alcuni
    credevano, seguendo il racconto della Genesi, a un'origine comune di
    tutte le razze (monogenisti), mentre altri ritenevano che le
    differenze fisiche tra gli uomini fossero troppo grandi per essere
    ricomprese in un unica specie: Dio doveva aver creato altre specie
    d'uomo oltre Adamo (poligenismo). Questa concezione fu sostenuta
    dapprima nel Settecento da coloro che volevano sbarazzarsi del
    pensiero religioso e biblico, per diventare poi, nell'Ottocento, un
    mezzo ulteriore cui ricorrere per distinguere una razza pura da
    tutte le altre. Gli antropologi, così come gli storici e i
    linguisti, ipotizzarono la presenza di un'essenza ereditaria,
    manifestantesi nelle peculiarità visibili che contrassegnano
    i membri di una razza.
    
    Queste idee venivano diffuse attraverso una serie di società
    culturali come la Société Ethnologique di Parigi
    (1839), la quale proclamava che le razze dovevano essere distinte
    per ‟organizzazione fisica, carattere morale e intellettuale, e
    tradizioni storiche". La supposta identità di razza e di
    cultura era anche alla base del programma della Ethnological Society
    di Londra (1843) e della American Ethnological Society (1842). Non
    c'era ancora una piena accettazione del razzismo, in quanto la
    società inglese, data la sua preoccupazione per le razze
    indigene dell'impero, riteneva che l'uomo primitivo potesse esser
    ‛migliorato', e condannava quindi la schiavitù. Ma
    antropologi e linguisti avevano già preparato la strada a una
    corrente che, all'opposto, considerava tutte le razze straniere come
    occupanti una qualche posizione intermedia tra gli uomini e le
    scimmie. Dalla metà dell'Ottocento in poi molte
    società scientifiche, come l'Anthropological Society di
    Londra (1863), assunsero atteggiamenti nettamente razzistici verso i
    popoli che erano oggetto delle loro ricerche. Uomini come J. Hunt
    adottarono l'argomento poligenista secondo cui le suture craniche
    del Negro si chiudono prima di quelle dell'uomo bianco, limitando
    così il suo sviluppo mentale. I risultati di tali ‛ricerche'
    furono accolti con riconoscenza negli Stati Uniti, mentre nella
    stessa Inghilterra gli atteggiamenti razzistici non avevano che
    limitate prospettive. Ma anche in Francia, dove non mise profonde
    radici, il razzismo permeava però le ricerche di antropologi,
    storici e linguisti sulle popolazioni coloniali. Nello stesso
    periodo, il razzismo prendeva slancio fra i popoli europei
    radicandosi saldamente in una parte della popolazione colta e
    istruita.
    
    3. Maturazione e diffusione dell'ideologia razzistica sino alla
    prima guerra mondiale
    
    L'Essai sur l'inégalité des races humaines (1853-1855)
    del conte A. de Gobineau è basato sull'antropologia e la
    linguistica quali si erano venute sviluppando verso la metà
    del secolo. Gobineau vi aggiunse un'esplicita accentuazione politica
    e culturale: le sue teorie razziali miravano a spiegare gli
    sconvolgenti fenomeni sociali e politici del suo tempo. Nelle sue
    mani il razzismo divenne una spiegazione della decadenza
    dell'età moderna e, sotto questo aspetto, egli
    preannunciò lo sfruttamento politico che del razzismo si
    sarebbe fatto in tempi successivi. Gobineau temeva da un lato la
    formazione di un governo centralizzato e dall'altro il prepotere del
    volgo. Insieme, questi due fattori stavano distruggendo la vera
    nobiltà e libertà. La chiave per spiegare questo
    sviluppo stava in un mondo costituito da razze superiori e razze
    inferiori.
    
    Gobineau classificò le razze nere, gialle e bianche a seconda
    della struttura sociale e della società che avevano prodotto.
    Le razze gialle si erano dimostrate abili nel commercio e
    nell'industria, ma incapaci di guardare al di là di siffatte
    conquiste materiali. Le razze nere erano incapaci di produrre
    società stabili ed erano sempre bisognose di controllo
    esterno. È evidente che Gobineau proiettava su queste razze
    le caratteristiche moderne, da lui disprezzate: le razze gialle
    erano la borghesia mentre le razze nere erano i ‛sanculotti'.
    Soltanto la razza bianca incarnava tutto ciò che egli
    riteneva nobile: una superiore spiritualità, l'amore per la
    libertà e un codice personale fondato sull'onore. Gobineau si
    servì della classificazione ‛scientifica' delle razze allo
    scopo di delineare un modello per l'epoca sua: la razza bianca o
    ariana rappresentava un'utopia, contrastante con la realtà
    sociale della metà dell'Ottocento.
    
    Ed era senza dubbio un'utopia: Gobineau stesso riteneva che la
    mescolanza razziale fosse inevitabile. Non essendo rimasta pura, la
    razza ariana stava perdendo la sua antica superiorità e stava
    degenerando al livello di altre razze inferiori. La dominazione
    della borghesia, lo Stato moderno e il sorgere della democrazia
    erano tutti dati a sostegno di questa tesi. Le pessimistiche
    conclusioni di Gobineau furono omesse in molte delle successive
    ristampe della sua opera. L'Essai stesso ebbe una popolarità
    limitata e scarsa influenza, ma resta significativo come indicazione
    del successivo orientamento del razzismo nel quale tendevano ormai a
    emergere giudizi e valutazioni di natura esplicitamente non
    scientifica. Così il contemporaneo G. Klemm divise
    l'umanità in razze attive e passive. Le prime erano vigorose
    e mascoline mentre le seconde erano femminili e passive. Questo tema
    venne divulgato più tardi in Geschlecht und Charakter di O.
    Weininger (1903), nel quale si dava a intendere che gli Ebrei erano
    la razza femminile e passiva mentre l'ariano era mascolino e
    creativo. Il libro di Weininger divenne un punto di riferimento
    della successiva letteratura razziale.
    
    Un altro contemporaneo di Gobineau, C. G. Carus, fece progredire
    ulteriormente il pensiero razzista verso la costruzione di una
    mistica razziale. Carus, come P. Camper prima di lui, si
    concentrò sulla ricerca dei tipi razziali ideali, che erano
    determinati dalla forza mistica del sole. Il tipo ariano ideale
    aveva una pigmentazione chiara, mentre i capelli biondi e gli occhi
    azzurri riflettevano la forza vitale simboleggiata dal sole. Nella
    delineazione di un tipo ideale siffatto si accentuavano gli elementi
    estetici presenti nel razzismo, che si erano andati sviluppando
    parallelamente con l'osservazione scientifica. Il concetto della
    bellezza ariana, basato in parte sui modelli greci e in parte sul
    simbolismo solare, ebbe una particolare importanza in Germania.
    
    Idee del genere si dirigevano contro le razze che non partecipavano
    del tipo ideale. Nella seconda metà dell'Ottocento un
    razzismo di questa sorta venne applicato dai Tedeschi nei confronti
    dei Francesi e viceversa, ma fu soprattutto l'antisemitismo ad
    alimentare le idee razzistiche. La ragione di ciò era
    semplice: gli Ebrei sembravano rappresentare una cultura straniera
    nel cuore dell'Europa. Finché gli Ebrei erano stati costretti
    a vivere nei ghetti, pochi autori avevano mostrato un particolare
    interesse per loro, ma, con l'emancipazione ebraica all'inizio
    dell'Ottocento, l'atteggiamento cambiò. L'emancipazione era
    stata concessa sulla base del presupposto che gli Ebrei si sarebbero
    sbarazzati di quelle che l'illuminismo aveva considerato le loro
    qualità negative: la preferenza per l'attività
    commerciale e le superstizioni della loro religione. Essi si
    dovevano liberare dal giudaismo che, nella mente dei Gentili, si
    associava con il ghetto. Ma non appena gli Ebrei ottennero il
    diritto di cittadinanza e cominciarono a competere con successo con
    i Gentili nell'attività economica e nella vita sociale, i
    loro nemici li accusarono di perseverare nelle loro abitudini
    ‛ebraiche' malgrado l'emancipazione.
    
    Per coloro che si opponevano all'emancipazione e si risentivano per
    i successi conseguiti dagli Ebrei nel mondo dei Gentili, il
    persistere di ghetti nell'Europa orientale costituiva la prova che
    mai sarebbe stato possibile superare le differenze esistenti fra gli
    Ebrei e gli altri popoli. Gli Ebrei del ghetto, inurbati e con un
    tenore di vita al limite della sussistenza, sembravano infatti
    offrire un contrasto sorprendente con le virtù e i tipi
    ideali ariani. Sia gli Ebrei del ghetto sia quelli emigrati
    nell'Europa occidentale tendevano a conservare, innanzi tutto, il
    loro abito particolare (caffettano), la barba e i cernecchi. A
    molti, nell'Europa centrale e occidentale, l'aspetto esteriore di
    tali Ebrei appariva strano e misterioso. Il pensiero razzistico
    aveva già posto in rilievo il simbolismo dell'aspetto
    esteriore.
    
    Ma anche gli Ebrei assimilati erano visti come una quinta colonna
    nel mondo dei Gentili. L'accusa secondo cui gli Ebrei erano uno
    Stato nello Stato risale proprio agli inizi dell'emancipazione (a J.
    G. Fichte) e condusse, quasi inevitabilmente, a ritenere che gli
    Ebrei dovessero ancora una volta essere esclusi dalla vita europea.
    Gli Ebrei, si pensava, erano mossi dal desiderio di dominare
    sull'Europa in virtù della loro abilità negli affari,
    basata su un loro presunto inveterato materialismo. Essi avevano
    avuto successo in quel capitalismo finanziario che giuocò un
    ruolo cruciale nell'industrializzazione dell'Europa, e che era loro
    aperto in quanto campo di attività nuovo, non legato a
    vecchie tradizioni che escludessero gli Ebrei. Ma, mentre uomini
    come i Rothschild e i Pereire s'innalzavano a grandi fortune, tutte
    quelle classi della popolazione che temevano il capitalismo
    finanziario vedevano in tale successo la prova di una criminale
    cospirazione ebraica.
    
    L'ondata di odio contro gli Ebrei trovò uno sbocco in
    Germania nelle sommosse antiebraiche del 1819, alle quali
    parteciparono quelle classi che si vedevano duramente incalzate
    dall'industrializzazione. Durante la rivoluzione del 1848 i ceti
    artigiani, prime vittime dell'industrializzazione, richiesero ancora
    una volta l'esclusione degli Ebrei dalla vita europea, sebbene
    l'opposizione all'emancipazione ebraica non fosse unicamente una
    loro prerogativa. I conservatori e i liberali, la classe media e
    l'aristocrazia, cioè tutti coloro che desideravano la
    stabilità economica e sociale, tendevano a biasimare gli
    Ebrei per la frattura ch ‛essi producevano nella vita europea. I
    primi socialisti come Fourier e Proudhon, a loro volta, vedevano gli
    Ebrei come gli sfruttatori della classe lavoratrice.
    
    Un tale sentimento antiebraico non doveva però condurre
    necessariamente al razzismo poiché c'erano coloro che
    continuavano a credere che il ‛buon ebreo' potesse liberarsi dalle
    sue qualità ‛giudaiche'. Coloro invece che credevano nelle
    differenze razziali, e nella realtà di una cospirazione
    ebraica, cominciarono a patrocinare la guerra razziale. Nella
    seconda metà del secolo, il darwinismo dette un fondamento
    scientifico alle idee di guerra e di lotta e, una volta di
    più, gli atteggiamenti irrazionali maturati in precedenza si
    dimostrarono più importanti della teoria scientifica alla
    quale pretendevano di collegarsi. Il darwinismo sociale
    proclamò che la sopravvivenza dei più idonei, insieme
    col diritto della forza, costituiva il principio in base al quale
    governare la vita degli uomini e degli Stati.
    
    La razza doveva dimostrarsi abbastanza ‛idonea' da vincere la lotta,
    e ciò indipendentemente dai fattori ambientali. I libri assai
    popolari del darwinista E. Haeckel propagarono l'idea secondo cui la
    storia biologica di un individuo deve ricapitolare in forma
    abbreviata l'evoluzione biologica dei suoi antenati (legge
    biogenetica). La continuità mitica con gli antenati virili
    del Volk veniva in tal modo integrata in una visione scientifica,
    darwiniana, del mondo. Il principio della sopravvivenza dei
    più idonei aizzava una razza contro l'altra.
    
    In maniera abbastanza tipica, il giornalista tedesco W. Marr
    intitolò il suo libro Der Sieg des Judenthums über das
    Germanenthum (1867): gli Ebrei hanno intrapreso una guerra contro i
    Tedeschi e sono sul punto di riportare la vittoria finale attraverso
    la dominazione economica; è una guerra di razze e pertanto
    nessun compromesso è possibile. In libri influenti come
    Politische Anthropologie (1903) L. Woltmann sosteneva le guerre di
    conquista sul fondamento della necessità di sopravvivenza
    della razza; a ciò associava la tradizionale prova
    linguistica della superiorità ariana. Tali prove di
    superiorità ariana, una volta di più, s'intrecciavano
    con giudizi estetici, poiché solo gli ariani, diceva
    Woltmann, riproducevano le ‟proporzioni assolute della bellezza
    architettonica" secondo il paradigma greco. C'era poco da stupirsi
    se la ‟razza tedesca era stata scelta per dominare la terra".
    
    Questo tema era anche al centro di Die Grundlagen des neunzehnten
    Jahrhunderts (1899) di H. S. Chamberlain: i Tedeschi erano i
    salvatori della storia mondiale e i portatori della cultura
    occidentale; tutte le conquiste culturali dei tempi moderni
    testimoniavano la fiamma del loro spirito, uno spirito temprato
    attraverso una lotta incessante. Gli ariani esistevano in mezzo a
    ‟un caos di razze", ma c'era una razza che era rimasta pura ed era
    la principale antagonista nella lotta senza fine per la
    sopravvivenza. Gli Ebrei simboleggiavano il contrario di tutto
    ciò che agli ariani era caro: erano incapaci di pensiero e di
    cultura superiore, erano caratterizzati da una ferrea volontà
    di potenza che mancava di qualsiasi profondità metafisica. La
    guerra razziale di Chamberlain era una guerra totale, che poteva
    terminare soltanto con lo sterminio o con la vittoria. Gli ariani
    avevano bisogno di un condottiero allo scopo di trionfare sugli
    Ebrei, e verso la fine della propria vita Chamberlain credette di
    averlo trovato in Hitler. Die Grundiagen des neunzehnten
    Jahrhunderts è un classico del pensiero razzistico; esso non
    ebbe solo vasta diffusione ma rappresentò la summa del
    razzismo ottocentesco.
    
    L'importanza attribuita da Chamberlain ai fattori culturali e
    spirituali trasferiva ancora una volta il pensiero razzistico dalla
    scienza al mito.
    
    Anche il popolare Rembrandt als Erzieher (1890) di J. Langbehn
    concorse a favorire l'adozione di una religione razziale. I Tedeschi
    dovevano diventare realmente creativi, il che comportava l'adozione
    di una religione ariana la quale, in questo caso, combinava elementi
    teosofici con lo swedenborgianesimo. Per Langbehn lo spirito vitale
    discendeva dal cosmo al Volk. Il razzismo veniva trasformato in un
    misticismo basato sui movimenti occultistici. Né Langbehn era
    solo, poiché a Monaco, dopo la fine del secolo, un intero
    gruppo di filosofi ‛cosmici' (tra cui L. Klages) formulò idee
    simili. Per loro, il sangue ariano possedeva una particolare
    qualità che l'univa al mondo extrasensibile e gli consentiva
    di riflettere il cosmo.
    
    La concezione della guerra tra le razze come guerra della
    spiritualità contro il materialismo dava slancio, con il suo
    manicheismo, ai voli mistici. Questo tipo di razzismo ebbe maggior
    fortuna nelle regioni protestanti che in quelle cattoliche. La
    teologia cattolica presentava una ben definita visione del mondo
    imposta dalla propria gerarchia. Il protestantesimo aveva invece una
    teologia meno chiaramente definita ed era legato allo Stato
    secolare. Era tuttavia soltanto una questione di grado: ad esempio,
    la maggioranza dei cattolici e dei protestanti si conformarono alla
    fine alla politica razziale del nazionalsocialismo, mentre d'altro
    canto una posizione contraria fu assunta da ecclesiastici eminenti
    di entrambe le confessioni.
    
    Coloro che vennero a contatto con questo razzismo mistico avanti la
    prima guerra mondiale dovevano farsene sostenitori nel dopoguerra.
    Tra questi Adolf Hitler fu certamente il più importante. La
    creazione dell'ariano non venne più discussa, da questi
    razzisti, in termini di poligenismo, ma fu considerata come il
    prodotto di una gestazione divina, una scossa elettrica prodotta
    dalla forza vitale del cosmo. Ci furono, però, altri razzisti
    che tentarono di mantenere il contatto con i fondamenti scientifici
    del razzismo. Il darwinismo sociale favorì l'interesse
    all'eugenetica; la razza pura doveva infatti riprodursi nel modo
    giusto, per assicurarsi la sopravvivenza nella lotta universale
    dell'uomo e della natura.
    
    In Inghilterra Fr. Galton credeva che la natura stessa assicurasse
    la sopravvivenza dei più idonei, e che l'interferenza umana
    per proteggere il debole e l'infermo avrebbe portato al declino
    della razza. Egli usò il termine razza per descrivere le
    caratteristiche ereditarie: una razza che era riuscita a
    sopravvivere e a produrre i portatori di una cultura superiore
    doveva essere protetta e favorita dallo Stato. Galton fu il padre
    dell'eugenetica razziale, poi ulteriormente elaborata dal suo
    discepolo K. Pearson. L'eugenetica di Galton non era però
    esclusivista: coloro che presentavano qualità desiderabili
    erano bene accetti, qualunque fosse la loro origine. G. Vacher de
    Lapouge (L'Aryen. Son rôle sociale, 1890) associò
    l'asserita necessità di un'eugenetica con l'ideale, sostenuto
    da Gobineau, della superiorità ariana. Ma fu soprattutto in
    Germania che una siffatta eugenetica razziale divenne popolare.
    Sistemi mai usati prima furono escogitati per permettere agli ariani
    di riprodursi in condizioni ideali. Il culmine di questo sviluppo si
    ebbe nella Germania nazista, con il tentativo delle SS di assicurare
    la purezza razziale attraverso l'accoppiamento controllato di
    autentici e selezionati partners ariani (Lebensborn).
    
    Programmi del genere prevedevano anche l'eutanasia, che i nazisti
    dovevano praticare in seguito. Divenne un luogo comune
    dell'eugenetica razziale il principio che, nell'interesse della
    sopravvivenza razziale, il malato incurabile, il pazzo o il
    fisicamente deforme dovessero essere sterminati. Costoro
    rappresentavano la degenerazione della razza superiore,
    degenerazione di solito associata con i matrimoni misti. I razzisti
    derivarono il concetto di ‛degenerazione' da psichiatri come B. A.
    Morel e C. Lombroso, i quali credevano che certe deformazioni
    fisiche fossero sintomi di una personalità degenere.
    Attraverso l'eugenetica, lo stereotipo ariano divenne una ‛profezia
    che si autoadempie': se la razza non lo rifletteva, allora le sue
    file dovevano essere purgate finché il tipo ideale non
    predominasse.
    
    Questi sviluppi del razzismo durante la seconda metà
    dell'Ottocento furono importati anche negli Stati Uniti,
    oltreché in Europa. La fine del secolo vide l'arrivo, in
    America, di ondate di immigranti dall'Europa centrale e meridionale.
    Le teorie razziali, che erano già state applicate ai Negri
    americani, furono adesso ampliate per ricomprendervi tutti coloro
    che non erano di discendenza anglosassone. In maniera abbastanza
    tipica, M. Grant scrisse il suo Passing of the great race (1916)
    allo scopo di avvertire i suoi concittadini del fatto che la nazione
    stava perdendo il suo carattere nordico. Questo libro è stato
    considerato come una svolta negli atteggiamenti americani verso la
    razza (v. Gossett, 1965, p. 353) ma, come la maggior parte del
    pensiero razzistico americano, mancava di originalità. Grant
    si servì sia di Gobineau che di Chamberlain per dimostrare la
    sua tesi.
    
    I principi razziali fornivano alcune giustificazioni delle
    restrizioni nei confronti degli immigranti non provenienti da paesi
    dell'Europa settentrionale: la cosa riguardava quindi sia gli
    Asiatici che gli Europei del centro e del sud. Anche a prescindere
    da qualsiasi considerazione razziale, questi immigranti venivano
    comunque considerati - dai sindacati - responsabili di procurare
    manodopera a buon mercato e - dagli uomini d'affari - di rendere
    possibile una concorrenza sleale. Inoltre, gli immigranti dai paesi
    settentrionali erano inclini a sistemarsi all'interno piuttosto che
    nelle popolose città della costa. Il razzismo ispirò,
    dunque, solo certi settori di coloro che dovevano ottenere in un
    primo tempo l'esclusione degli Asiatici dall'immigrazione, e poi,
    con il National origins act (1924), l'istituzione di un sistema di
    quote che discriminava a favore delle nazioni del Nord. È
    comunque significativo che questa legislazione fosse approvata negli
    Stati Uniti nello stesso periodo in cui, in Europa, il razzismo
    diventava un movimento di massa. Le caratteristiche discriminatorie
    del National origins act furono eliminate gradualmente solo dopo il
    1950.
    
    La stessa epoca che assisteva all'agitazione contro l'immigrazione
    di massa, vide anche l'aggravarsi della forzata separazione tra
    Bianchi e Negri nel Sud. La separazione fisica tra le razze era la
    trasformazione più rivoluzionaria occorsa durante la
    ricostruzione dopo la guerra civile (1861-1865); rigorosa nel Sud,
    essa cominciò a interessare anche le città del Nord,
    attraverso restrizioni poste ai Negri in materia di alloggio. Le
    speranze di una completa emancipazione si infransero, giacché
    la frontiera del colore continuava a vivere nelle menti degli
    individui di ciascuna razza.
    
    Dopo di allora un torrente di letteratura fondata su tutti i luoghi
    comuni del razzismo fu rovesciato contro i Negri. Le stesse accuse
    scagliate contro la ‛razza inferiore' ebraica in Europa venivano
    dirette anche contro i Negri. L'aspetto esteriore, le misure del
    cranio e la supposta mancanza di moralità ebbero la loro
    parte. Perfino le differenze di capigliatura e di odore, di cui gli
    antisemiti si servivano talvolta per documentare le differenze
    razziali, furono usate contro i Negri. La paura delle unioni miste
    conduceva al linciaggio dei negri sospetti di aver violentato donne
    bianche, proprio come in Europa i razzisti dovevano accusare gli
    Ebrei di stupro di donne ariane e i nazionalsocialisti tedeschi
    essere ossessionati da una simile ‛vergogna razziale'
    (Rassenschande). Gli Ebrei e i Negri erano dotati di una
    mascolinità aggressiva, che attivava le frustrazioni sessuali
    dei loro nemici. Tali razze inferiori, infatti, non potevano
    innalzarsi fino al vero amore; nel loro materialismo ogni forma di
    amore si trasformava in lussuria. L'appello ai timori e alle
    frustrazioni sessuali fu una delle armi principali di tutta la
    propaganda razzista. Con i loro atteggiamenti verso i Negri, i
    Bianchi nordamericani esemplificarono una politica che era nei
    desideri dei razzisti europei, ma che in Europa dovette attendere il
    proprio momento fino a dopo la prima guerra mondiale.
    
    In Francia il cattolicesimo frappose ostacoli al pieno sviluppo
    delle dottrine razziali, specialmente tra le classi medie e
    superiori. L'antisemitismo era stato un fenomeno di sinistra
    piuttosto che di destra sin dai tempi dei primi socialisti. L'ebreo
    era il simbolo dello sfruttatore della classe lavoratrice, idea che
    doveva perdurare ancora durante l'affare Dreyfus. É. Drumont,
    il cui France juive (1886) rese popolare l'antisemitismo, mise in
    rilievo questo aspetto della supposta cospirazione ebraica per
    dominare la Francia. Egli scriveva sullo sfondo del fallimento della
    Compagnia del Canale di Panama, in cui erano coinvolti degli Ebrei.
    
    
    Gli antidreyfusiani come Drumont e M. Barrès parlarono della
    razza francese come contrapposta alla razza ebraica, ma furono anche
    attenti a rendere verbalmente omaggio alla religione ebraica. Il
    giudaismo non doveva essere toccato, anche se gli Ebrei moderni
    avevano perduto ogni caratteristica religiosa nella loro spinta
    verso il potere economico e politico. Essi sostenevano che l'ebreo
    usava le dottrine marxiste della guerra di classe allo scopo di
    distruggere il tessuto della nazione. Come fautori di un socialismo
    nazionale, essi desideravano un paternalismo che comportasse una
    più equa distribuzione della ricchezza. I lavoratori erano
    l'‛anima della Francia', e il capitalismo finanziario che li
    opprimeva e disuniva faceva parte dell'universale cospirazione
    ebraica. In Germania E. Dühring in Die Judenfrage (1880)
    sostenne idee analoghe e patrocinò un'economia socialista
    basata sul principio dell'autosufficienza nazionale. Ma, abbastanza
    tipicamente, il suo socialismo si combinava con un esplicito
    razzismo, che guardava agli antichi dei germanici, che dovevano
    infondere nei Tedeschi il senso dell'unità nazionale e il
    coraggio per eliminare gli Ebrei. Un simile appello al misticismo
    razziale, di regola, mancava in Francia. In Europa tutti i fautori
    di un socialismo nazionale guardavano ai lavoratori come all'anima
    della nazione o almeno come a una sua parte significativa. I
    lavoratori venivano però considerati nella stessa luce degli
    artigiani medievali, che erano orgogliosi della loro arte e avevano
    le virtù del duro lavoro, della moderazione e della
    fedeltà alla gerarchia. Il concetto di un proletariato
    industriale, si asseriva, era un'invenzione ebraica.
    
    L'operaio veniva incluso nella stessa categoria del contadino, che
    il razzismo aveva già esaltato per aver preservato i propri
    legami con le radici storiche della razza. I contadini avevano
    resistito al mutamento e avevano conservato una presunta purezza;
    adesso, l'operaio doveva fare altrettanto. Un siffatto socialismo
    nazionale era fortissimo in Francia avanti la prima guerra mondiale:
    in Germania e nell'Europa centrale l'epoca del suo trionfo doveva
    venire dopo il 1918.
    
    L'Action française non può essere definita razzista.
    Ch. Maurras, il suo spirito guida, odiava gli Ebrei, i Tedeschi e
    gli Inglesi, ma i soliti argomenti razzisti sono assenti dalla sua
    concezione. La sua Francia ideale era cattolica e monarchica, e non
    concedeva spazio ad alcuna religione secolare. In realtà, il
    principale contributo francese al razzismo durante la seconda
    metà del sec. XIX furono i Protocolli dei savi Anziani di
    Sion, un falso fabbricato nel mezzo dell'affare Dreyfus. Questi
    Protocolli erano spacciati per il verbale di una riunione segreta
    dei capi dell'ebraismo internazionale nel corso della quale si
    sarebbe programmata la conquista del mondo attraverso l'‛astuzia e
    la forza'. L'effettiva fabbricazione dei Protocolli avvenne a Parigi
    per ordine del capo della Ochrana russa. Come membro della destra
    russa, egli aveva accettato in pieno le idee razziste, che dalla
    Germania erano emigrate verso Oriente. La stesura del testo fu
    però dovuta a dei Francesi (v. Cohn, 1967, p. 103).
    
    Questo ‛documento' sembrò confermare le teorie della
    cospirazione, che erano diventate parte integrante del pensiero
    razziale e dovevano poi essere accettate da tutti i razzisti dopo la
    prima guerra mondiale. Negli Stati Uniti, per esempio, l'industriale
    H. Ford si adoperò per la diffusione dei Protocolli a partire
    dal 1920. L'antisemitismo divenne allora una forza significativa in
    quella nazione, sebbene da sempre esso fosse un elemento della lotta
    contro l'immigrazione incontrollata e, come in Europa, servisse a
    dar voce alla sempre maggiore ostilità delle regioni agrarie
    contro la crescita delle città. Negli anni venti gli Ebrei
    finirono per essere esclusi da molti aspetti della vita sociale ed
    economica americana. Questa discriminazione fu liquidata dopo la
    seconda guerra mondiale, e ciò avvenne in modo assai
    più completo di quanto non avvenisse con la discriminazione
    antinegra; in ciò ebbe parte la reazione al genocidio
    nazista, che incise sulla discriminazione antiebraica ma non su
    quella antinegra.
    
    L'Italia costituì un'area di ristagno del pensiero razzista.
    Il cattolicesimo da un canto e il nazionalismo umanistico
    esemplificato da G. Mazzini dall'altro posero forti barriere allo
    sviluppo del razzismo. Certamente, l'antisemitismo cattolico
    esisteva in Italia come in Francia, ma non arrivò a formare
    una tradizione razzista.
    
    La più efficace alleanza tra il razzismo e il nazionalismo si
    realizzò nell'Europa centrale e orientale. In molte nazioni,
    come l'Ungheria, la Romania e la Polonia, gli Ebrei costituivano il
    settore più ‛visibile' della classe media commerciale, e
    tutti i fattori sopra discussi cui si richiamavano i fautori di un
    socialismo nazionale potevano entrare in gioco. La presenza di una
    cultura dei ghetti urbani incoraggiava poi la credenza nelle
    differenze razziali. Per di più, era bruscamente sopravvenuta
    in alcune nazioni, come per esempio in Germania, la rivoluzione
    industriale, e le idee razziste contribuivano a mantenere una
    coesione nazionale che la lotta di classe sembrava sul punto di
    distruggere. Inoltre, tutte queste nazioni avevano territori
    irredenti da rivendicare. Il nazionalismo era una fortezza assediata
    all'interno e all'esterno, e il razzismo poteva essere adoperato per
    giustificare l'esclusività e la superiorità etnica.
    
    Un siffatto nazionalismo si risolveva, in pratica, in continui
    tentativi di annullare l'emancipazione ebraica. In Germania sorse,
    durante i due ultimi decenni dell'Ottocento, tutta una serie di
    gruppi e di partiti politici antisemiti. Alcuni, come il Partito
    cristiano-sociale di A. Stoecker, che ebbe una certa importanza tra
    il 1878 e il 1890, erano conservatori e basavano il proprio
    antisemitismo sull'ortodossia protestante. Ma altri, come la Lega
    contadina dell'Assia (1887-1894) di O. Boeckel e le varie leghe
    antisemite fondate da uomini come l'infaticabile Th. Fritsch, erano
    di orientamento socialnazionale e razzista. Il culmine fu raggiunto
    nel 1893, quando i gruppi uniti dell'antisemitismo raccolsero
    qualcosa come 116.000 voti, dopo di che cominciò il loro
    rapido declino ed essi passarono il proprio tempo a litigare tra
    loro.
    
    Più importante fu l'alleanza del Partito conservatore tedesco
    con le forze antisemite (Programma di Tivoli, 1892). Sebbene i
    conservatori pensassero inizialmente che occorreva escludere gli
    Ebrei perché la Germania era uno Stato cristiano,
    un'influente fazione del partito divenne razzista attraverso i suoi
    legami con il Bund der Landwirte (Associazione dei grandi
    proprietari terrieri), che aveva diffuso il razzismo per molti anni.
    Sino alla prima guerra mondiale i conservatori non fecero appello
    alla violenza; tranne che nella Russia zarista, dove ai pogrom
    faceva ricorso di quando in quando la politica governativa, gli
    appelli alla violenza si limitavano a gruppi periferici.
    
    4. Da ideologia a movimento di massa. Il razzismo e i fascismi
    
    Prima del 1918 il razzismo trovò un terreno favorevole anche
    in diverse piccole sette, che si facevano guerra l'un l'altra.
    Queste sette continuavano la tradizione mistica piuttosto che quella
    ‛scientifica' del razzismo: si interessavano all'ariano come
    creatura del sole, ai suoi legami col cosmo, e traevano il proprio
    tipo ideale da fantasie del genere anziché dall'antropologia
    o dalla linguistica. Lanz von Liebenfels, per esempio,
    destinò la sua rivista, che vendeva per le strade di Vienna,
    espressamente alla razza bionda al titolo ‟Ostara" (dal nome della
    dea germanica della primavera) seguiva infatti la dicitura
    ‟Zeitschrift für Blonde". E a Vienna dovette leggerla anche
    Hitler, il cui razzismo proveniva da fonti di questo tipo. Esso si
    basava sulla paura del misterioso e dell'ignoto; come ci racconta in
    Mein Kampf, Hitler divenne infatti un antisemita dopo aver visto gli
    Ebrei dell'Europa orientale nei loro strani abiti per le strade di
    Vienna. Lo scontro di culture, cui abbiamo accennato sopra, ebbe una
    parte notevole nel fornire all'incolto e ingenuo provinciale una
    visione del mondo. La reazione di Hitler non fu diversa da quella di
    Fritsch o di molti altri uomini della seconda metà
    dell'Ottocento, che si sentivano chiamati dalle differenze
    nell'aspetto esteriore a intraprendere una guerra razziale in nome
    dello spirito tedesco. Hitler entrò in contatto con questo
    tipo di razzismo avanti la prima guerra mondiale e, fino alla morte,
    esso rivestì un'importanza fondamentale nelle sue concezioni.
    
    La fine della prima guerra mondiale vide la realizzazione attiva del
    razzismo in Europa. Sebbene le concezioni razzistiche fossero state
    applicate a popolazioni indigene fuori dell'Europa e avessero dato
    frutti negli Stati Uniti, fu proprio in Europa che il genocidio
    entrò nella storia come elemento della politica statale. Il
    pensiero razzista in se stesso non cambiava, rimaneva statico.
    Quando tra i razzisti sorsero controversie nel periodo tra le due
    guerre, esse si svolsero sempre entro il quadro delle concezioni
    passate. Così H. F. K. Günther, il maggiore teorico
    nazista del razzismo, metteva l'accento, per esempio, sulle
    differenze fisiche tra la razza ariana e quella ebraica, e
    compilò una lista dei gesti e dei tratti tipicamente
    ‛ebraici'. Il suo avversario L. F. Clauss (Die nordische Seele,
    1932) sosteneva invece che non tanto l'aspetto esteriore era
    essenziale quanto le ‛qualità interiori' della razza. Clauss
    tentava di aggirare la difficoltà costituita dal fatto che
    non tutti gli ariani erano biondi, snelli e statuari. Ma questo non
    rappresentò mai un problema, in quanto la maggior parte dei
    razzisti ricorreva al concetto di ‛tipo ideale'. Ciò
    significava che, se tutti gli ariani possedevano alcune
    qualità ideali, non dovevano però presentarle tutte.
    Per contro, gli Ebrei e i Negri presentavano tutte le presunte
    ripugnanti qualità fisiche e mentali della propria razza.
    
    Sebbene il pensiero razzista non mutasse in maniera significativa,
    dopo il 1918 parecchi nuovi fattori contribuirono a fornirgli una
    giustificazione. La psicologia cominciava a porre in risalto le
    differenze razziali: non la psicologia di Freud ma, per esempio,
    quella associata con Jung in Europa e con W. MacDougall negli Stati
    Uniti. MacDougall, per esempio, sosteneva che l'istinto gregario era
    debole nei popoli nordici e forte in quelli mediterranei. Anche
    prescindendo da MacDougall, un'intera scuola di psicologi americani
    impiegava adesso i test d'intelligenza per dimostrare le proprie
    tesi razziste. La psicologia di Jung tendeva a sconfinare in un
    simbolismo mistico; e l'accento posto su archetipi immutabili
    assumeva facilmente connotazioni razziali. Fu Jung ad assumersi la
    direzione del più importante periodico di psicologia sotto il
    regime nazista. Molti scienziati erano inclini a distinguere tra il
    laboratorio, dove rimanevano fedeli al metodo scientifico, e il
    mondo esterno, in cui rendevano omaggio a ogni sorta di concezioni
    irrazionali. La distinzione non poteva funzionare, e
    l'irrazionalismo con cui essi guardavano alla sfera politica e
    sociale portò ben presto a una fisica ariana, a una medicina
    ariana, a una biologia ariana.
    
    Il successo della rivoluzione bolscevica aggiunse un'importante
    dimensione alla dinamica del pensiero razzista. I profughi della
    destra russa diffusero nell'Europa occidentale i Protocolli dei savi
    Anziani di Sion, e il bolscevismo fu considerato come un esempio del
    successo della cospirazione mondiale ebraica. Gli Ebrei erano sempre
    stati accusati di infrangere la stabilità del mondo dei
    Gentili, e adesso la cospirazione ebraico-comunista divenne un luogo
    comune del pensiero razzista.
    
    Tuttavia, tra le novità del razzismo dopo la guerra,
    l'elemento cruciale fu rappresentato dalla sua crescita come
    movimento di massa. La cosa si verificò tanto negli Stati
    Uniti quanto in Europa. Ciò che M. Grant aveva sostenuto a un
    livello accademico, adesso Th. L. Stoddard lo divulgava per tutti
    gli Stati Uniti attraverso qualcosa come 22 libri e numerosi
    articoli. La battaglia per salvare la razza nordica doveva essere
    combattuta. Il Ku Klux Klan, che assunse su di sé questo
    compito, cominciò a progredire rapidamente, e nel 1923 i
    membri della setta venivano calcolati tra i tre e i sei milioni.
    Più importante fu la penetrazione delle idee razziste
    nell'establishment, assediato dai problemi dell'immigrazione e dalla
    pressione degli Stati del Sud. Il National origins act del 1924 fu,
    almeno in parte, il risultato dello slancio preso dal razzismo dopo
    la guerra. Ma, diversamente dall'Europa, non si costituì
    nessuno specifico movimento di massa razzista che tentasse di
    conquistare il potere politico. Il razzismo fu in larga misura
    integrato nella struttura bipartitica, sebbene in ciascun partito
    esistessero oppositori verso concezioni siffatte. Sinora, non
    c'è stato spazio per una politica razziale separata e diretta
    contro l'establishment.
    
    Fu in Europa che il razzismo come movimento di massa tentò
    realmente di conquistare il potere. L'antropologia e la linguistica
    continuarono a svolgere un certo ruolo, ma quello che venne alla
    ribalta fu l'elemento mistico del razzismo. Esso si prestava meglio
    al simbolismo associato con la propaganda e le riunioni di massa.
    Hitler credeva in una ‛scienza segreta' che era la vera conoscenza;
    Himmler, per esempio, credeva nel ‛karma' e pensava d'essere la
    reincarnazione di Enrico il Leone (v. Mosse, 1964, p. 453).
    
    Come movimento di massa il razzismo condivise comuni fondamenti con
    il vecchio socialismo nazionale. Entro la mistica del Volk tutti i
    membri erano uguali. Il liberalismo era disgregatore quanto il
    marxismo, e il parlamento era una forma superata di governo borghese
    (v. Schmitt, 1923). Il razzismo faceva proprio l'ideale, che si era
    sviluppato per tutto l'Ottocento, dell'eroe come condottiero
    politico. Da Th. Carlyle a R. Wagner, tali eroi esemplificavano
    nella propria persona la virilità del loro popolo. Per Wagner
    simili condottieri partecipavano del ‛mito' del Volk che continuava
    nel presente le forze vitali derivanti dal remoto passato germanico.
    Egli ridefinì il concetto di mito, che era stato applicato
    alle leggende degli antichi e ai costumi dei popoli primitivi. Il
    ‛mito' assurse così al rango di principio metastorico,
    nordico ed eterno, che dava all'uomo le sue radici. Wagner
    divulgò questa visione del mondo ponendo i suoi antichi eroi
    germanici, padri della razza, in uno scenario impressionante e
    spettacolare che faceva appello al romanticismo delle classi medie
    tedesche. Fu H. S. Chamberlain che agganciò il ‛mito' alla
    politica della guerra razziale, ma il bisogno di un mito siffatto
    era diffuso specialmente nella Germania degli anni venti. A.
    Rosenberg prese in considerazione diversi titoli prima di chiamare
    il suo libro Der Mythus des 20. Jahrhunderts (1928). Qui il ‛mito'
    diventava fondamentale per quella religione della razza che
    Rosenberg opponeva a un cristianesimo ritardatario. Dal ‛mito' di un
    passato immutabile il razzismo tedesco ricevette una colorazione
    particolare.
    
    La giusta guida della razza si esprimeva in un capo che la
    rappresentasse, riunendo nella sua persona tutte le qualità
    associate col ‛mito' appassionato della superiorità razziale.
    In teoria c'era uguaglianza tra le persone, ma in pratica si
    stabiliva la disuguaglianza, dovuta alla gerachia delle funzioni che
    ciascun membro della razza adempiva su ordine del capo. Il modello
    del confronto di Cesare col popolo, da cui Gobineau era
    ossessionato, divenne l'ideale del pensiero politico razzista. Le
    riunioni di massa naziste (e quelle di tutti i movimenti simili
    nell'Europa orientale e centrale) simboleggiavano questo modello
    politico e divennero in realtà lo scenario di una liturgia
    che alla fine soppiantò le istituzioni del governo
    rappresentativo. Le folle di persone che si muovevano all'unisono
    facevano un netto contrasto con la solitudine del capo la cui figura
    si stagliava contro la fiamma sacra. Il nazionalsocialismo, infine,
    introdusse un ciclo di nuove feste nazionali basate sul mitico
    passato razziale, sul simbolismo solare e sugli eroi caduti. Come
    movimento di massa, il razzismo si appropriò per i suoi scopi
    della tradizionale liturgia cristiana: il responsorio cristiano si
    trasformò negli scambi corali tra la massa e il capo; la
    ‛confessione di fede' razzista era solennemente recitata. Hitler
    stesso faceva dipendere i suoi successi in pace e in guerra dal
    ‛miracolo della Divina Provvidenza'. (v. Mosse, 1974).
    
    Dal canto suo, il paternalismo sociale, come si esplicava ad esempio
    nel movimento Kraft durch Freude, che organizzava il tempo libero
    dei lavoratori, provvedeva a fornire i riti politici. Ciò
    soddisfaceva molti lavoratori e s'intonava con la presunta
    uguaglianza di status che il razzismo concedeva, contribuendo
    così a mascherare la regolamentazione dittatoriale del
    lavoro.
    
    La visione razzistica del mondo aveva anche un altro vantaggio. I
    razzisti credevano che i problemi economici si sarebbero
    automaticamente risolti una volta che la razza fosse giunta al
    potere. Il nazionalsocialismo poteva perciò perseguire una
    politica economica pragmatica, che doveva ben presto tradire gli
    interessi di quelle classi medie le quali avevano dato al movimento
    il proprio appoggio. Un'eccezione, a questo proposito, fu costituita
    dalla politica agraria. La figura del contadino fu, infatti,
    glorificata dal razzismo in opposizione all'urbanesimo e al
    modernismo. Le idee romantiche sulle virtù del lavoro
    agricolo ebbero un ruolo importante nello sviluppo del razzismo.
    Così, Hitler stabilì per legge l'ereditarietà
    dei poderi (Reichserbhofgesetz) e seguì una politica di
    facilitazioni creditizie per consentire agli agricoltori di
    sbarazzarsi dei debiti. Malgrado ciò, la migrazione dei
    contadini verso le città continuò con un ritmo sempre
    più accelerato.
    
    Una volta al potere, la distanza tra la teoria e la pratica poteva
    essere superata attraverso il controllo imposto dalla dittatura e il
    pieno ricorso al paternalismo e alla religione politicizzata. Ma
    prima ancora che i movimenti razzisti conquistassero il potere,
    l'attivismo assunse un'importanza cruciale nel mantenere lo slancio
    iniziale. Che si trattasse del nazionalsocialismo in Germania, o
    delle Guardie di ferro in Romania o degli Ustascia in Croazia, un
    attivismo siffatto significava impegnarsi nella guerra civile.
    Mentre i razzisti dell'Ottocento tendevano a limitarsi alla teoria,
    nel dopoguerra i capi erano impegnati nel vivo della politica del
    proprio tempo. L'attivismo che essi esplicavano contro i loro nemici
    conduceva adesso a un tipo di estremismo dal quale i primi razzisti
    erano per lo più rifuggiti.
    
    I nazisti delle SA cantavano apertamente del sangue ebraico che
    doveva gocciolare dal coltello, e i capi dei movimenti razzisti in
    altre nazioni richiedevano lo sterminio piuttosto che l'esclusione
    degli Ebrei. La ripresa dei pogrom in Romania, nel breve periodo in
    cui le Guardie di ferro parteciparono al potere (1940-1941), ed
    eccessi analoghi praticati dal fascismo razzista in Ungheria e in
    Croazia mostrarono con chiarezza il predominio crescente della
    violenza razzista.
    
    L'intensificarsi della violenza condusse anche a una sempre maggiore
    ‛disumanizzazione' del nemico. La strada era stata preparata dagli
    atteggiamenti razzisti verso le razze primitive, che venivano
    ritenute più vicine alle scimmie che all'uomo. In maniera
    abbastanza tipica D. Eckart, che fu il mentore di Hitler nel periodo
    del suo ingresso nella ‛vita politica dopo la prima guerra mondiale,
    proclamava che nessun popolo della terra avrebbe lasciato gli Ebrei
    in vita se avesse potuto vedere ciò che erano e ciò
    che volevano. Hitler accettò pienamente - e non solo
    retoricamente, come Eckart - questo punto di vista, e
    sentenziò anch'egli che il tipo umano inferiore era
    più vicino alle scimmie che alle razze superiori. Allo scopo
    di incoraggiare i suoi uomini al genocidio, Himmler paragonava gli
    Ebrei a cimici e topi, animali nocivi che dovevano essere
    sterminati. Alla documentazione provvedeva la propaganda di massa,
    che mostrava le ‛tipiche' facce ebraiche accompagnate da didascalie
    indicanti la scarsa rassomiglianza dei volti così ritratti
    con quelli degli esseri umani. La schematizzazione inerente a tutto
    il pensiero razzista giungeva così alle sue estreme
    conseguenze: gli stereotipi prendevano il posto degli uomini e delle
    donne reali.
    
    Svolgimenti analoghi sono rintracciabili, dopo la prima guerra
    mondiale, anche tra molti conservatori, che tentarono di utilizzare
    il razzismo allo scopo di trasformarsi in un partito politico di
    massa. I conservatori però, in Germania come altrove, non
    desideravano la violenza aperta: malgrado tutta la loro, talvolta
    violenta, propaganda antisemitica, essi chiedevano soltanto
    l'esclusione degli Ebrei dalla vita nazionale.
    
    La richiesta di passare alla violenza aperta proveniva in larga
    misura dai movimenti socialisti nazionalisti che attiravano una
    larga parte delle classi inferiori, insieme con altri settori della
    popolazione. La Legione arcangelo Michele di C. Z. Codreanu (1927)
    con le sue Guardie di ferro fu un movimento contadino che attirava
    però anche i lavoratori dell'industria. Come la maggior parte
    dei movimenti simili nell'Europa orientale sottosviluppata,
    anch'esso metteva l'accento sulla natura collettiva di un
    cristianesimo nazionale e mistico, e vi associava la credenza nella
    cospirazione ebraico-comunista. La spietatezza delle Guardie di
    ferro trovò un esatto riscontro in Ungheria nel movimento
    razzista delle Croci frecciate di F. Szàlasy (1937), tra i
    cui membri figurava un gran numero di lavoratori dell'industria
    (43%). Il movimento nazionalistico degli Ustascia, nel breve periodo
    dello Stato croato indipendente (1941-1944), massacrò
    più di mezzo milione di Serbi e di Ebrei nel modo più
    brutale e primitivo. In Slovacchia il partito di A. Hlinka
    promulgò uno dei più severi codici razziali e
    antiebraici. Modesta fu l'opposizione in questo partito, pur
    largamente clericale e cattolico.
    
    Nelle nazioni dell'Europa orientale la presunta minaccia del
    bolscevismo giuocò un ruolo importante nel rafforzamento
    dello slancio razzista. Essa fece presa tra le classi inferiori
    proprio in quella parte dell'Europa in cui non esistevano forti
    partiti socialisti; e anzi nella maggior parte di questi paesi non
    esistevano in generale partiti politici strutturati. Il fascismo
    razzista, quindi, divenne un mezzo di mobilitazione delle classi
    inferiori proprio nel momento in cui per la prima volta esse
    facevano il loro ingresso come forza nella vita politica.
    Nell'Europa centrale, dove esistevano forti partiti socialisti e
    comunisti, il fascismo tendeva a diventare un movimento delle classi
    medie. Cionondimeno, il nazionalsocialismo hitleriano aveva
    guadagnato le sue prime adesioni su larga scala tra i lavoratori
    dell'Austria e della Boemia (v. Bracher, 1969, p. 59). Qui non fu la
    minaccia bolscevica a giuocare un ruolo decisivo, ma la concorrenza
    rappresentata da elementi slavi come i Cechi.
    
    In Germania, dove il nazismo fu un fenomeno delle classi medie e la
    ‛rispettabilità' aveva una grande importanza, il programma
    nazista ufficiale non chiedeva nient'altro che l'esclusione degli
    Ebrei dalla vita nazionale. Tale rispettabilità si associava
    poi in realtà alla guerra civile che le SA combattevano nelle
    strade. La combinazione ebbe successo. Lo slancio fu mantenuto e le
    classi medie che anelavano all'ordine si aggrapparono alla ostentata
    moderazione di Hitler nella speranza che avrebbe alla fine prevalso.
    In realtà, dopo la presa del potere le SA furono eliminate
    come forza autonoma nel movimento (1934). Il nazionalsocialismo pose
    in risalto le virtù della classe media, che il razzismo aveva
    esaltato nell'Ottocento. Ma questa rispettabilità si
    dimostrò soltanto una tattica mirante a suscitare un clima di
    indifferenza o perfino di sostegno a quel programma di genocidio che
    Hitler aveva in mente sin dall'inizio. Una politica di guerra
    razziale totale, se voleva avere successo in un paese permeato di
    valori borghesi, doveva d'altra parte essere attuata da un movimento
    che aspirasse all'appoggio delle classi medie, doveva presentarsi in
    modo diverso dai pogrom delle Guardie di ferro o dai linciaggi
    sporadici degli Stati Uniti. Simili azioni fanatiche, dirette contro
    individui singoli, erano ormai superate. Il nazionalsocialismo
    invece operava una spersonalizzazione del nemico, dopo di che poteva
    dirigere i suoi attacchi non più contro esseri umani, ma
    contro un principio del male che aveva incidentalmente assunto forma
    umana (v. nazionalsocialismo).
    
    Le conseguenze del razzismo si manifestarono pienamente nel modo di
    attuazione del genocidio, modo contraddistinto da una
    sistematicità burocratica che spogliava le vittime di ogni
    loro caratteristica individuale. Inoltre, la tattica di Hitler
    richiedeva un'intensificazione graduale delle pressioni contro gli
    Ebrei ed evitava l'azione drastica e spettacolare. Nel frattempo, la
    propaganda faceva sì che la popolazione si mantenesse
    neutrale, o addirittura appoggiasse misure che confinavano col
    genocidio. La prima azione nazista di violenza su larga scala contro
    gli Ebrei ebbe luogo soltanto il 10 novembre del 1938, cinque anni
    dopo la conquista del potere, con il saccheggio di negozi e di
    sinagoghe. In quell'occasione, il 63% di un piccolo campione di
    membri del partito espresse indignazione; ma nel 1942, cioè
    in piena guerra, soltanto il 26% di un campione analogo
    dimostrò un qualche interesse per gli Ebrei, mentre il 69% si
    professò indifferente (v. Müller-Claudius, 1948, pp.
    162-166).
    
    Le tappe più importanti nella preparazione del genocidio sono
    facilmente individuabili. Essenziali furono le ‛leggi di Norimberga'
    (1935), in quanto non solo legalizzarono la separazione degli Ebrei
    dai Gentili, ma chiarirono in modo esplicito chi dovesse esser
    considerato ebreo, ciò che il pensiero razzista precedente
    non aveva definito con sufficiente precisione giuridica. In base a
    esse chiunque fosse interamente o anche solo per tre quarti di
    discendenza ebraica era ritenuto legalmente ebreo. Chi aveva due
    nonni ebrei veniva considerato ‛mezzo ebreo'. Tali Mischunge, cui
    non era concesso di unirsi né con Ebrei né con ariani,
    erano quindi condannati all'estinzione per mancanza di discendenza.
    Le ‛leggi di Norimberga' rimasero tipiche dell'impostazione
    giuridica del problema ebraico, impostazione che almeno in parte (in
    quanto, cioè, percorreva binari tradizionali) incontrò
    una generale accettazione. Esse definirono anche con chiarezza chi
    dovesse esser considerato ariano: bisognava che fossero di razza
    ariana entrambi i nonni. Per essere ammesso nell'élite
    razziale delle SS era però necessario risalire fino a
    un'epoca precedente all'emancipazione ebraica (1750).
    
    Alla fase giuridica dell'azione contro gli Ebrei seguì
    l'arianizzazione dell'economia e la spinta all'emigrazione. Una
    volta di più, fu la burocrazia a tradurre in pratica questo
    programma. Alle prime violenze massicce si arrivò nel
    novembre del 1938; da allora in poi furono pubblicamente discusse
    misure sempre più dure, e gli Ebrei cominciarono a riempire i
    campi di concentramento. Inoltre, l'annessione dell'Austria (aprile
    1938) con i suoi 200.000 Ebrei rendeva imperativa la
    necessità di risolvere la questione ebraica ‟in un modo o
    nell'altro". Abbastanza ovvia era l'insoddisfazione con cui si
    guardava all'emigrazione: era troppo lenta e non portava abbastanza
    denaro nelle casse del Reich. La guerra, in ogni caso, doveva
    segnarne la fine.
    
    Il programma di eutanasia fu una prova generale del genocidio. Il
    primo settembre del 1939 Hitler ordinò l'uccisione di tutti i
    sofferenti di malattie inguaribili. Erano incluse in quest'ordine le
    persone affette da deficienza mentale o da pazzia incurabile:
    criteri questi che si prestavano ai maggiori abusi. Fino all'agosto
    del 1941 furono così massacrate circa 70.000 persone. Era,
    questa, eugenetica razziale applicata, e godeva dell'appoggio di
    rispettabili medici e psichiatri in nome della sopravvivenza della
    razza. In seguito alla protesta dell'episcopato cattolico e
    all'inquietudine diffusasi nella popolazione (l'eutanasia era
    difficile da tenere segreta), il programma fu ufficialmente
    interrotto nel 1941; in realtà esso continuò, anche se
    su scala molto ridotta.
    
    Lo scoppio della guerra e le vittorie militari naziste fecero
    maturare il momento della ‛soluzione finale' della questione
    ebraica. Essa era stata preparata da lungo tempo; ora la guerra
    forniva uno schermo dietro al quale, si pensava, era possibile
    tradurla in pratica. Inoltre, le vittorie militari avevano portato
    altri milioni di Ebrei sotto il controllo nazista. Il 31luglio del
    1941 H. Goering affidò al Sicherheitsdienst di R. Heydrich la
    preparazione e l'esecuzione del genocidio.
    
    Il primo passo fu ancora una volta l'isolamento degli Ebrei,
    conseguito questa volta non per via giuridica, ma mediante la loro
    concentrazione, nell'Europa orientale, in ghetti di nuova
    istituzione. Nell'Europa occidentale il campo di transito prese
    spesso il posto del ghetto. Da questi luoghi di raccolta gli Ebrei
    venivano deportati nei campi di sterminio.
    
    L'esecuzione stessa dei massacri avveniva nel modo più
    impersonale possibile. Certamente, in principio furono impiegati
    plotoni d'esecuzione ma, ben presto, si fece ricorso al gas, in
    carri mobili appositamente attrezzati (1941). Infine, venne
    istituita la camera a gas (1942), accolta con sollievo da coloro che
    erano coinvolti nella soluzione finale, dato ch'essa evitava ai
    carnefici il contatto diretto con le proprie vittime. Adesso R.
    Hess, il comandante di Auschwitz, poteva controllare il lavoro delle
    camere a gas pensando alla sua confortevole vita di famiglia. Egli
    ci racconta di non aver mai istituito un nesso qualsiasi tra
    l'esistenza della sua famiglia e i milioni di donne e bambini che
    mandava alla morte (v. Hess, 1963, pp. 133-134). Una simile
    schizofrenia morale era la logica conseguenza del razzismo: da un
    lato l'esaltazione della vita della classe media e dall'altro il
    massacro di uomini e donne ormai spogliati della loro
    umanità.
    
    Le vittime erano preparate alla sottomissione dalle guardie, che
    ricorrevano alla guerra psicologica: umiliazione costante,
    incoraggiamento alla rivalità e all'odio tra le vittime
    stesse e mantenimento di un atteggiamento di soggezione mediante la
    concessione di favori che potevano significare la sopravvivenza. I
    nazisti tentarono di ridurre gli Ebrei allo stereotipo
    dell'ideologia razzista. Questa tattica fallì: i costanti
    tentativi di trasformare il razzismo in una profezia che si
    autoadempie non produssero nè un ideale ariano né uno
    stereotipo ebraico. Persino le armi del terrore moderno si
    dimostrarono incapaci di trasformare le chimere in realtà.
    
    I nazisti fecero ogni sforzo per tenere nascosti i massacri in massa
    sia alle vittime che alla popolazione. In ciò non ebbero
    pieno successo, sebbene sia tuttora oggetto di disputa la misura in
    cui riuscirono a raggiungere quest'obiettivo. A quell'epoca Hitler
    pensava che la propaganda razzista non avesse ancora preparato la
    gente ad affrontare le conseguenze finali: il massacro di almeno
    5.100.000 Ebrei (v. Hilberg, 1961, p. 767).
    
    Il genocidio degli Ebrei fu accompagnato dall'applicazione di una
    politica diversa nei confronti dei popoli slavi. Questi ultimi
    dovevano essere mantenuti nel loro stato di primitivismo e
    analfabetismo, sprovvisti di qualsiasi cultura. I Russi e gli altri
    popoli dell'Europa orientale erano destinati a essere gli schiavi
    della razza superiore. Si applicarono a questo riguardo le teorie
    razziste sui popoli primitivi e ancora una volta, attraverso l'uso
    della forza (l'esecuzione capitale di preti e insegnanti), il mito
    tentò di diventare realtà.
    
    I nazisti cercarono appoggi alla loro politica razziale nei governi
    dell'Europa orientale, che (ad eccezione dell'Ungheria) erano saliti
    al potere in seguito alle vittorie tedesche. La Germania insisteva
    sulla deportazione degli Ebrei come capitale prova di
    fedeltà, e le deportazioni continuarono anche quando
    interferivano con le operazioni militari. La guerra razziale aveva
    altrettanta importanza - e per Hitler un'importanza anche maggiore -
    che la guerra militare.
    
    I dittatori conservatori, tuttavia, indietreggiarono o
    tergiversarono di fronte alle richieste naziste di deportazione
    degli Ebrei. In Romania il maresciallo Antonescu dapprima dette
    l'ordine di procedere a massacri e deportazioni, ma poi tornò
    sui suoi passi, cercando di mitigarne gli effetti. L'ammiraglio
    Horthy, in Ungheria, oppose resistenza alla pressione nazista fino a
    quando il suo paese non fu occupato. Allo stesso modo, in Occidente,
    il maresciallo Pétain consegnò ai nazisti gli Ebrei
    stranieri profughi in Francia, ma tentò di proteggere gli
    Ebrei francesi dalla deportazione. Le dittature reazionarie debbono
    essere attentamente distinte dal razzismo fascista anche prima della
    seconda guerra mondiale. A uomini come Dollfuss in Austria o Franco
    in Spagna potevano anche non piacere gli Ebrei; tuttavia per loro,
    come per i loro colleghi saliti al potere durante la guerra, il
    razzismo rappresentava qualcosa ch'era difficile accettare: si
    scontrava col cattolicesimo sul quale in molti casi si basava la
    loro ideologia e, cosa più importante, in quanto movimento
    capace di mobilitare le masse, minacciava i loro regimi
    conservatori.
    
    In Occidente la resistenza fu più netta in quanto il razzismo
    non aveva mai messo radici profonde prima dell'instaurazione del
    predominio nazista su tutti i movimenti fascisti. Fascisti come i
    rexisti belgi e perfino i nazionalsocialisti olandesi erano
    ambivalenti nei confronti della questione ebraica. I razzisti
    francesi non furono mai più che un movimento politico
    periferico, per lo più ristretto a intellettuali come M.
    Rébatet (Les décombres, 1942) e R. Brasillach. Il
    movimento fascista di J. Doriot, il PPF (Parti Populaire
    Français), non solo si astenne, fino allo scoppio della
    guerra, dal proclamare una politica razziale ma, fino alla vittoria
    nazista sulla Francia, per esso era più importante
    l'antibolscevismo. Nell'Europa occidentale il fascismo aveva preso
    come modello l'Italia, e il fascismo italiano non fu razzista fino
    al 1938. Quando Mussolini adottò infine una politica
    razzista, ciò si verificò in parte perché
    cercava di dare nuovo slancio al suo regime ormai logoro, e in parte
    anche per le pressioni dei suoi nuovi alleati nazisti. Ad ogni modo,
    i fascisti italiani dovevano ora andare a cercare una tradizione
    razzista autoctona, di cui non c'erano che scarse tracce. La maggior
    parte degli scrittori razzisti italiani, come per es. G. Preziosi,
    si limitarono semplicemente ad adattare il razzismo straniero al
    passato romano dell'Italia. Dal canto suo Mussolini riscoprì
    Gobineau e restò impressionato dal compendio razzista di J.
    Evola (v., 1941), che tendeva a sostituire l'‛ariano mediterraneo'
    all'‛ariano nordico'. In realtà Evola tentò di
    stabilire una differenza tra un razzismo materialistico e biologico
    da un lato e un ‛razzismo spirituale', vicino a quello di F. L.
    Clauss, dall'altro. La razza per lui era una ‛idea platonica' che
    conduceva a quel tipo di atteggiamento aristocratico già
    lodato dal Gobineau. Anche se Evola non simpatizzava con lo slancio
    popolare del fascismo, per Mussolini un simile concetto di ‛razzismo
    spirituale' aveva il vantaggio della flessibilità, e
    conferiva al contempo una nuova dimensione al ‛nuovo tipo di uomo'
    che, a quanto si asseriva, il fascismo doveva creare. Il razzismo
    dei capi fascisti era frutto di opportunismo, e anche un antisemita
    di lunga data come Farinacci propagandava il pensiero razzista
    probabilmente senza credervi. Quando, anche per opera sua, il
    razzismo divenne una componente della politica del governo, lo
    slogan di Mussolini fu ‟discriminazione piuttosto che persecuzione"
    e, malgrado tutte le avversità che colpirono gli Ebrei
    italiani, la politica del genocidio fu realizzata soltanto sotto
    l'occupazione tedesca. L'opinione pubblica italiana, soprattutto,
    non accettò mai le idee razzistiche.
    
    Comunque, non appena il fascismo italiano divenne il partner
    più debole nell'alleanza dell'Asse e Mussolini stesso ebbe
    adottato una politica razziale, tutto il fascismo europeo divenne
    razzista. A eccezione dell'Italia, i movimenti fascisti durante la
    guerra collaborarono alla ‛soluzione finale', e senza l'ambivalenza
    e le esitazioni dei dittatori reazionari.
    
    Le nazioni che combatterono contro il nazionalsocialismo nella
    seconda guerra mondiale erano unite nel condannare il razzismo.
    L'Inghilterra aveva sempre stornato i propri impulsi razzisti verso
    le popolazioni indigene dell'Impero. In patria, la British Union of
    Fascists (1932-1940) di sir O. Mosley non era mai riuscita a
    sfondare sul piano politico, nonostante avesse adottato il razzismo
    allo scopo di dare dinamica al movimento. In Russia, sebbene il
    vecchio antisemitismo affiorasse ogni tanto durante la guerra, la
    politica sovietica ufficiale lo condannava. Solo negli Stati Uniti
    continuava a sussistere il razzismo antinegro malgrado la condanna
    del razzismo nazista. Ma qui pesavano fortemente i problemi del
    passato.
    
    5. Dopo la seconda guerra mondiale
    
    Il razzismo come elemento della politica di governo cadde largamente
    in discredito dopo la seconda guerra mondiale. Un ‛eccezione
    è stata rappresentata dal Sudafrica, dove il razzismo
    è stato sancito e applicato ufficialmente. Il partito
    nazionalista era stato fondato nel 1914 allo scopo di far risorgere
    le tradizioni boere dell'Afrikanerdom. Durante gli anni venti le
    politiche discriminatorie contro i Negri furono estese all'intera
    nazione. Gli Afrikaner trionfarono sugli orientamenti liberali della
    provincia anglofona di Città del Capo. Nel corso della
    seconda guerra mondiale la separazione tra le razze fu sostenuta
    strenuamente dalla Chiesa protestante olandese del Sudafrica, la
    quale - non diversamente da molti cosiddetti ‛protestanti tedeschi'
    nel periodo nazista - concepiva la diversità di razza come
    frutto di un decreto divino. A partire dal 1948 il Partito
    nazionalista ha fatto approvare una serie di leggi che proibiscono
    ogni sorta di mescolanza razziale, e la popolazione negra è
    stata concentrata in territori separati (apartheid).
    
    Altrove, dopo la seconda guerra mondiale, i propositi razzisti sono
    stati ripudiati (anche se la parola ‛razza' è rimasta d'uso
    frequente). Negli Stati Uniti, sia la Corte suprema che il governo
    stesso hanno affrontato il problema della discriminazione dei Negri.
    Il diritto al voto di tutti i cittadini era stato garantito sin dal
    1870 con un emendamento costituzionale (il quindicesimo), che
    però è stato reso effettivo solo durante gli anni
    sessanta attraverso la legislazione e la campagna nel Sud per la
    registrazione degli aventi diritto al voto. Nello stesso tempo i
    giovani attivisti del movimento per i diritti civili del Nord hanno
    aiutato i Negri del Sud a infrangere le barriere tra Negri e Bianchi
    nei servizi pubblici, nei ristoranti e nei trasporti. L'integrazione
    è diventata la parola d'ordine, anche se, contro un sistema
    inveterato di separazione razziale, si è fatta strada solo
    lentamente.
    
    I Negri hanno cominciato, con una certa impazienza, a organizzarsi
    all'interno delle loro comunità. Questi tentativi compiuti
    negli anni sessanta hanno un precedente in organizzazioni più
    antiche, come la Universal Negro Improvement Association di M.
    Garvey negli anni venti. Garvey pensava che ai fini di un'efficace
    azione di massa i Negri dovessero diventare un gruppo unito e
    fornito di coscienza razziale. Negli anni sessanta sono sorte
    diverse organizzazioni che hanno tentato di dare ai Negri una nuova
    coscienza della loro eredità afroamericana e del colore della
    loro pelle. L'accento posto sull'orgoglio e sul ‛potere nero' da
    leaders come Malcom X, E. Cleaver del Black Panther Party o E.
    Muhammad dei Black Muslims ha forse condotto all'affermazione di
    posizioni razziste? Molti negri hanno rivendicato la propria
    identità come un modo per competere con la società
    bianca e forzarne le barriere. Altri hanno guardato al marxismo come
    fonte d'ispirazione e la maggior parte dei gruppi del ‛potere nero'
    ha aderito incondizionatamente alle lotte sostenute dalle diverse
    razze del Terzo Mondo contro le grandi potenze. Se la violenza del
    linguaggio ha spesso simboleggiato la violenta lotta che è
    stata necessaria per combattere contro il razzismo bianco su tutti i
    fronti, il ‛potere nero' non è stato però concepito
    nei termini di una visione razziale del mondo.
    
    Il pregiudizio sopravvive ancora tra molti bianchi come elemento di
    una lunga tradizione razzista che ai Negri è estranea. I
    ‛rispettabili' White Citizens Councils hanno riaffermato la propria
    opposizione all'integrazione, e gruppi estremisti come il piccolo
    National States Rights Party hanno sfruttato i Protocolli dei savi
    Anziani di Sion contemporaneamente contro gli Ebrei e contro i
    Negri. Uomini come l'ex governatore dell'Alabama G. Wallace hanno
    dato voce, oltreché all'opposizione contro l'integrazione,
    allo scontento del mondo agrario e provinciale contro l'Est
    urbanizzato.
    
    Al grosso problema della sopravvivenza del razzismo non si risponde
    additando l'esistenza di simili esigui gruppetti negli Stati Uniti o
    in Europa. Piuttosto, ci dobbiamo chiedere se il razzismo, anche nei
    casi in cui sia stato ufficialmente ripudiato, non abbia continuato
    a determinare gli atteggiamenti di molti uomini nei loro rapporti
    reciproci. Non manca qualche prova della sopravvivenza di un
    razzismo non limitato a gruppi estremisti. Durante la guerra degli
    Algerini per l'indipendenza, alcuni coloni francesi adottarono
    atteggiamenti razzisti verso gli Arabi. I Rhodesiani, sollecitati
    dalle nazioni bianche e nere a concedere potere politico alla
    propria maggioranza negra, hanno trovato rifugio nelle concezioni
    razziste. Inoltre, l'Egitto di Nasser ha fatto ricorso, nella lotta
    contro Israele, a documenti come i Protocolli dei savi Anziani di
    Sion e a ex propagandisti nazisti. Resta però dubbio che il
    fenomeno abbia messo radici, dato che l'Islàm lascia ben poco
    spazio a concezioni razziste. Anche l'America Latina è stata
    contagiata dal razzismo, specie l'Argentina, che poteva vantare un
    violento movimento antiebraico, basato sui luoghi comuni
    dell'ideologia razzista (Tacuara). Possiamo aggiungere che, tra il
    1945 e il 1964, almeno ventuno nuove edizioni del Mein Kampf di
    Hitler sono apparse negli Stati Uniti, in Francia, Spagna, Messico,
    Grecia, Libano e Giappone (cfr. ‟The Wiener library bulletin", 1965,
    XIX, 2, p. 23). Dopo la seconda guerra mondiale, la letteratura
    razzista ha continuato a trovare editori e lettori.
    
    Cosa resta da dire del razzismo in Europa? I Francesi hanno
    dimostrato la sua sopravvivenza durante la guerra algerina per
    l'indipendenza, quando l'antisemitismo razzista forniva materia per
    una quantità di libelli e scritte murali. Inoltre, nel 1969
    la città di Orlèans fu testimone di un'improvvisa
    sommossa popolare contro i locali commercianti ebraici, sommossa che
    prese lo spunto dalle leggende della contaminazione sessuale e dai
    Protocolli dei savi Anziani di Sion (v. Morin, 1969). Le ansie della
    vita moderna hanno fatto rivivere un'ideologia da molti ritenuta
    morta ma che, in realtà, era solo assopita sotto la
    superficie. Nelle regioni rurali arretrate e nelle piccole
    città della Germania si usa ancora la parola ‛ebreo' nel suo
    vecchio significato, anche se il vecchio razzismo è limitato
    nel complesso a piccoli gruppi periferici. Il Partito nazionale
    tedesco, che registrò alcuni temporanei successi elettorali
    sul finire degli anni sessanta, era conservatore piuttosto che
    razzista. Comunque, nessun movimento razzista di massa è
    emerso dopo la seconda guerra mondiale. È piuttosto la
    sopravvivenza del razzismo come religione secolare e visione del
    mondo, al di fuori di qualsiasi immediata cornice politica, che
    è in discussione.
    
    Non possediamo statistiche attendibili circa la capacità di
    penetrazione degli atteggiamenti razzisti. Là dove il
    razzismo aveva trovato un terreno fertile nei secc. XIX e XX, tali
    atteggiamenti sembravano più diffusi. Tuttavia in Francia,
    che pure non aveva in passato favorito i movimenti razzisti, il
    razzismo è affiorato dopo la guerra. La Germania - la nazione
    che ha portato il razzismo al suo trionfo - non ha visto il suo
    risveglio, sebbene molti dei vecchi atteggiamenti razzisti
    continuino a sussistere, in attesa forse di un'epoca di crisi per
    riemergere. L'Europa orientale, essendo diventata comunista, ha
    represso gli atteggiamenti razzisti (che, peraltro, con molta
    probabilità sopravvivono). Anche l'Italia, che non ha avuto,
    in passato, una vera e propria tradizione razzista, è rimasta
    relativamente immune dal razzismo dopo la seconda guerra mondiale.
    Gli atteggiamenti razzisti si sono rivelati più pronunciati
    in quei paesi che, dopo la guerra, hanno avuto problemi con le
    minoranze.
    
    Negli Stati Uniti il razzismo - ridotto in gran parte dell'Europa a
    un'esistenza sotterranea - ha determinato, seppure a livello
    subconscio, l'atteggiamento di larghi strati della popolazione sia
    al Nord che al Sud. Il Sudafrica e la Rhodesia, come abbiamo visto,
    si sono battuti per mantenere la supremazia bianca. La Gran
    Bretagna, che non aveva una radicata tradizione razzista, ha
    conosciuto un'ondata di razzismo in seguito all'immigrazione
    dall'India occidentale e dal Pakistan. Questo tipo di razzismo trova
    le sue radici nei problemi sociali associati alla concorrenza per
    l'occupazione, gli alloggi e lo status sociale. Cionondimeno,
    è in genere considerato sconveniente esprimere pubblicamente
    opinioni razziste. La moralità della classe media, che era
    stata sua alleata in passato, ha respinto il razzismo dopo
    l'esperienza nazista. Rimane però il fatto che gli
    atteggiamenti umani non mutano tanto rapidamente e che una visione
    del mondo è più facile conservarla anziché
    gettarla nel mucchio dei rifiuti della storia.
    
    Lo stereotipo ha continuato a informare la mentalità di
    molti: è accaduto di nuovo che la struttura corporea e
    l'aspetto esteriore siano associati alla vera moralità e agli
    ideali razziali in campo estetico. Le leggendarie radici ‛storiche'
    hanno continuato a formare una parte vitale del nazionalismo
    moderno. Accade ancora che gli uomini guardino con ansia e timore
    alle differenze esistenti al di fuori della propria comunità
    e cerchino rifugio dalla crisi del modernismo nella sicurezza del
    simbolismo e della superiorità razziali. Un fattore di
    sopravvivenza può essere anche il ricordo di un razzismo che
    era servito a mobilitare le folle come forza politica; il razzismo
    era stato infatti associato a una democrazia che si contrapponeva a
    una presunta artificiosità e angustia del sistema
    parlamentare. La verità è che il razzismo diffuse la
    propria carica di aggressività in un mondo la cui devozione
    agli ideali dell'indipendenza nazionale e dell'autodeterminazione
    era solo apparente.
    
    Il razzismo è definito dalla storia che lo ha prodotto. Dai
    suoi inizi sul terreno scientifico e storiografico nel Settecento
    esso è diventato, verso la metà dell'Ottocento, una
    visione del mondo pienamente sviluppata. I razzisti hanno celebrato
    il proprio trionfo nel periodo tra le due guerre mondiali,
    spacciandosi come difensori dei valori tradizionali. Chi può
    escludere che, ove tali valori (per es. la moralità o la
    nazionalità) siano in pericolo, il razzismo si erga ancora
    una volta a loro protettore? Nè può destare meraviglia
    che neppure gli orrori che il razzismo ha scatenato
    sull'umanità abbiano distrutto gli atteggiamenti da esso
    creati: la verità è che un movimento di tale potenza e
    influenza lascia la sua impronta sulla storia per molte generazioni.
    
    Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
    
    di Imanuel Geiss
    
    Razzismo
    
    Sommario: 1. Definizione ed etimologia del termine. 2. Mito e
    realtà. 3. Elementi distintivi del razzismo. 4. L'idea
    razziale nell'antichità. 5. Le teorie razziali
    nell'età moderna. 6. I primi teorici. 7. L'affermarsi del
    razzismo moderno. 8. La fondazione 'scientifica' delle moderne
    teorie razziali. 9. Il razzismo in Germania. 10. Il razzismo dopo il
    1945. □ Bibliografia.
    
    DEFINIZIONE ED ETIMOLOGIA DEL TERMINE
    
    Nel presente articolo indicheremo con 'razzismo' l'insieme delle
    teorie razziali in quanto distinte sia dalla discriminazione
    razziale intesa come razzismo messo in pratica, sia
    dall'antisemitismo, sebbene spesso tali concetti siano usati come
    equivalenti.'Razzismo' è uno di quei concetti del nostro
    tempo che sfuggono a una definizione precisa e unanimemente
    accettata. Come spesso accade, anche in questo caso può
    essere d'aiuto richiamarsi alla storia del termine, poiché le
    parole non sono frutto di un arbitrio intellettuale, ma rispecchiano
    in forma astratta la realtà stessa dei fenomeni.
    
    Il termine 'razzismo' venne coniato tra le due guerre mondiali
    nell'Occidente democratico come protesta verso teoria e prassi del
    nazionalsocialismo tedesco, che nel Terzo Reich si appellava alla
    propria 'dottrina razziale' intesa in un'accezione positiva,
    rifiutando le connotazioni polemiche insite nel termine razzismo.
    Nel 1945, dopo il crollo del nazismo, 'razzismo' assunse i caratteri
    di una categoria oggettiva, ma nello stesso tempo divenne un termine
    spregiativo usato in senso politico-ideologico per diffamare gli
    avversari.Il razzismo può essere considerato l'edificio
    teorico che fa da complemento alla discriminazione razziale moderna,
    il complesso di dottrine che guida e fonda la prassi razzista. Suo
    assioma fondamentale è la distinzione tra presunte 'razze
    superiori' e 'razze inferiori', in quanto postula la
    superiorità innata, fondata biologicamente, di una
    determinata razza - nella fattispecie, della razza cui appartengono
    coloro che lo propugnano.
    
    Il razzismo in senso proprio nasce solo nell'età moderna, e
    più precisamente a partire dall'illuminismo, allorché
    viene fissato in forma scritta in trattati, saggi, articoli e norme
    legislative. Già in precedenza, peraltro, esistevano pratiche
    e orientamenti analoghi che possiamo definire 'protorazzismi'.
    
    Se il razzismo moderno era l'ideologia con cui i bianchi cercavano
    di legittimare le loro pretese di dominio sul resto del mondo, forme
    di protorazzismo si ritrovano in tutti i luoghi e in tutte le epoche
    storiche in cui è esistita una situazione analoga di
    preminenza di determinati gruppi su altri subordinati. Le ideologie
    protorazziste non ebbero un'esplicita formulazione o
    sistematizzazione teorica; ciò si deve anche al fatto che di
    solito erano sancite sul piano religioso.Sulla definizione del
    concetto di 'razza', com'è noto, non esiste unanimità
    di vedute tra gli studiosi; il numero stesso delle razze è
    oggetto di controversie, come già rilevava ironicamente
    Darwin nell'Origine dell'uomo allorché elencava le ipotesi
    avanzate dai vari autori: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 11, 15, 16, 22,
    60, 63. La definizione delle 'razze' è assolutamente
    arbitraria. In questo caso l'etimologia del termine può
    essere d'aiuto. 'Razza' deriva senza dubbio dalle lingue romanze
    (spagnolo 'raza', portoghese 'raça', francese 'race'), e da
    queste è stato mutuato in seguito dal tedesco e dall'inglese.
    Tutte le altre etimologie restano ipotesi dubbie. La più
    plausibile rimanda all'arabo 'ras', che significa 'capo, testa', ma
    anche 'stirpe', 'discendenza' (nobile o aristocratica): chi 'aveva
    razza' aveva la sua stirpe ('ras') 'nella testa' ('ras'), ossia la
    conosceva a memoria, e poteva elencare un numero pressoché
    sterminato di illustri antenati (di sesso maschile).L'orgoglio per
    la stirpe aristocratica era particolarmente spiccato tra le
    tribù nomadi dei Berberi d'Arabia, che a partire dal 711, a
    seguito della Conquista, si insediarono nella penisola iberica.
    All'incontro/scontro con gli Spagnoli e i Portoghesi si deve forse
    la comparsa del termine 'razza' nelle lingue iberiche. Il vocabolo
    originariamente veniva impiegato sia per gli uomini che per gli
    animali - in particolare per i nobili cavalli 'purosangue' arabi.
    Perlomeno dopo Auschwitz, però, non è più
    lecito parlare di 'razze' in riferimento all'uomo, e per questo
    motivo il termine in tali occorrenze comparirà qui sempre tra
    virgolette. Spesso al concetto di razza era associata l'idea di
    appartenenza a una stirpe superiore alle altre per valore e
    nobiltà. Chi era di 'razza' nel senso originario del termine,
    costituiva una presunta razza 'superiore'.
    
    MITO E REALTÀ
    
    Il concetto di razza denota anche fatti oggettivi, ossia la
    divisione dell'umanità nelle tre principali 'razze' (bianca,
    gialla, nera), che oggi sarebbe peraltro preferibile chiamare
    'grandi gruppi' in contrapposizione a gruppi di minori dimensioni
    difficilmente classificabili. Sarebbe irragionevole chiudere gli
    occhi di fronte a tali differenze, reali quanto basilari, tra gli
    esseri umani. A scanso di equivoci, occorre però precisare
    che alle 'razze' non sono associati particolari valori individuali o
    collettivi tali da determinare una superiorità o
    inferiorità 'innata', 'razziale' in senso biologico e quindi
    permanente dell'uno o dell'altro gruppo. I concetti di 'superiore' e
    'inferiore' rinviano piuttosto alla posizione assunta da alcuni
    grandi gruppi umani ('razze') nel corso della storia, al ruolo che
    essi hanno svolto nel processo di civilizzazione. La
    'superiorità' in questo caso non ha nulla a che vedere con
    fatti biologici, ma è legata invece all'accesso diversificato
    delle varie società o gruppi umani ai principali centri
    dell'evoluzione, ai contatti e alle possibilità di contatto,
    poiché lo sviluppo di una società complessa è
    impossibile o seriamente ostacolato nell'isolamento.
    
    Le differenze di fatto esistenti tra i grandi gruppi umani, e che
    vanno al di là dei semplici caratteri fisici (colore della
    pelle, tipo di capelli, forma degli occhi, ecc.), si possono
    pertanto spiegare in termini di differenze nel livello di sviluppo,
    che determinano un vero e proprio ordinamento gerarchico di rango e
    di 'beccata' tra i popoli: i gruppi e le società che di volta
    in volta si trovano in condizioni di superiorità disprezzano
    quelli subordinati, soprattutto quando questi sono costretti a
    lavorare per i 'superiori' in qualità di schiavi, servi della
    gleba, iloti, ecc. Il razzismo moderno appare dunque come
    un'ideologia intesa a legittimare l'effettiva supremazia mondiale
    degli europei ('bianchi') o dei loro ceti superiori in quanto posti
    al vertice della piramide dello sviluppo nell'età moderna. La
    spiegazione razionale del razzismo rimanda dunque a fenomeni
    socioeconomici, la cui copertura ideologica ha subito un processo di
    autonomizzazione nelle teorie razziali.
    
    ELEMENTI DISTINTIVI DEL RAZZISMO
    
    Auschwitz come simbolo del genocidio perpetrato dal Terzo Reich
    nella seconda guerra mondiale ('Olocausto', 'soluzione finale' della
    questione ebraica) e l'apartheid in Sudafrica possono essere
    considerati, nonostante il diverso grado di impiego della violenza
    che li caratterizza, gli esempi estremi delle due principali forme
    del razzismo, i cui presupposti storici si sono sviluppati in larga
    misura in modo indipendente. In Germania l'antisemitismo e il
    razzismo contro i negri finirono per confluire, nel movimento di
    agitazione politica dei gruppi populisti sin dal 1900, e
    nell'opinione pubblica più ampia verso la fine della prima
    guerra mondiale; tuttavia mentre il razzismo tedesco contro i negri
    rimase in larga misura un fenomeno propagandistico, che esplose nel
    1923 con l'occupazione francese dell'area della Ruhr, attuata anche
    con soldati di colore, l'antisemitismo assurse tra il 1944 e il 1945
    a dottrina ufficiale di Stato del nazismo nel Terzo
    Reich.Nell'antisemitismo nazista e nell'apartheid sudafricano si
    possono cogliere nel modo più chiaro gli elementi centrali
    del razzismo: la xenofobia e l'odio per gli stranieri; l'endogamia
    come rifiuto della commistione con 'razze inferiori'; l'orgoglio
    aristocratico per la presunta 'purezza di sangue'; la creazione di
    un sistema gerarchico di caste superiori e caste inferiori;
    l'etnocentrismo; lo schiavismo; l'atteggiamento di superbia di tutte
    le culture evolute nei confronti dei 'barbari' e dei 'selvaggi', e
    dei 'barbari' nei confronti dei 'selvaggi'; il rifiuto dei diritti
    umani attraverso la negazione della dignità umana; il
    disprezzo per i seguaci di altre religioni. L'idea fissa della
    'purezza di sangue' fa nascere inevitabilmente il problema dei
    'mezzosangue', frutto della mescolanza di gruppi diversi. La
    posizione intermedia che essi hanno tra dominanti e dominati
    concretizza e acuisce la tensione tra la pressione per il
    riconoscimento dell'eguaglianza e la sua negazione che arriva sino
    alla discriminazione e persino alla discriminazione razziale. Nel
    complesso dell'antisemitismo/antigiudaismo, un ruolo analogo
    è assunto dai cosiddetti conversos, gli ebrei convertiti al
    cristianesimo e i loro discendenti, nonché quelli più
    o meno assimilati. Tutti questi elementi - con diverso grado di
    intensità, isolatamente o in combinazioni di volta in volta
    diverse - si ritrovano anche nei protorazzismi di ogni tempo e di
    ogni luogo.
    
    Solo il razzismo moderno tuttavia unificò tutti i singoli
    elementi dei protorazzismi sistematizzandoli in costrutti teorici.
    Un presupposto basilare del razzismo, perlopiù occultato
    ideologicamente, è costituito dalle differenze oggettive di
    sviluppo e di ricchezza, che a livello soggettivo si trasformano in
    meccanismi di disprezzo e di odio, in pretese di superiorità
    e in una compensazione aggressiva di complessi di
    inferiorità. L'antisemitismo/antigiudaismo riguardava
    fondamentalmente i rapporti interni dei 'bianchi', poiché sia
    gli ebrei in quanto semiti che i 'caucasici' appartengono alla
    'razza bianca'. L'antico antigiudaismo nell'Impero romano era stato
    fomentato da una effettiva situazione di competizione socioeconomica
    e culturale nelle città dell'Impero d'Oriente tra due gruppi
    urbanizzati e altamente civilizzati, i Greci e gli Ebrei, ma si
    espresse fondamentalmente sul piano religioso. Le Chiese cristiane,
    sia quella cattolico-latina che quella greco-ortodossa, tramandarono
    i pregiudizi contro gli Ebrei estremizzandoli e dando loro una
    sanzione religiosa. Nel corso dei secoli, se non dei millenni, tali
    pregiudizi subirono un processo di autonomizzazione, cosicché
    in seguito gli esponenti dell'antigiudaismo persero memoria della
    situazione storica originaria da cui erano scaturiti. Per contro
    l'antigiudaismo/antisemitismo cristiano dei secoli successivi fu
    alimentato soprattutto dai complessi di inferiorità in campo
    economico, sociale e culturale delle società prima contadine
    e poi industrializzate nei confronti degli Ebrei. In quanto
    più antico popolo letterato e urbanizzato nella storia
    mondiale, dopo il declino del mondo antico, gli Ebrei
    rappresentarono sempre anche un modello di continuità
    culturale rispetto ai 'popoli ospiti', rimasti per lungo tempo
    analfabeti. Agli occhi degli abitanti delle campagne, di
    conseguenza, gli Ebrei urbanizzati che svolgevano professioni
    intellettuali non erano altro che 'parassiti'.
    
    Il razzismo contro i negri tipico dei 'bianchi' - ma anche dei
    'gialli' (cinesi e giapponesi) - si fonda sulla superiorità
    tecnico-materiale degli europei rispetto a 'razze' di colore
    diverso, e a differenza dell'antisemitismo riguarda i rapporti dei
    'bianchi' con l'esterno. Suo presupposto storico essenziale è
    lo schiavismo; sin dall'antichità infatti l'Africa Nera aveva
    rappresentato una importante riserva di schiavi per il mondo
    occidentale, cosicché in genere al di fuori dell'Africa gli
    africani erano conosciuti solo come schiavi. La tratta dei neri nel
    Nuovo Mondo non fece che riattivare, rafforzare e diffondere
    nell'età moderna tali meccanismi più antichi.
    
    Ad alimentare l'orgoglio razziale dei bianchi contribuì anche
    il 'mito ariano' - gli indoeuropei sarebbero stati gli unici o i
    più antichi creatori e portatori di cultura, e ciò
    solo perché tra alcuni popoli indoeuropei, come gli Indoari,
    i Germani e i Celti, predominava probabilmente il tipo biondo di
    pelle chiara. D'altro canto il sistema castale indiano che si
    andò affermando nel millennio successivo alla conquista
    indoaria dell'India settentrionale (1500 a.C. circa) è il
    primo esempio di apartheid istituzionalizzato praticato in modo
    continuato. Il sistema delle caste poté fare a meno di una
    fondazione teorica fissata in testi scritti poiché era ed
    è tuttora sancito sul piano religioso attraverso la credenza
    nella metempsicosi.
    
    Ogni società antica, qualunque fosse il suo livello di
    sviluppo, considerava solo i propri membri (di sesso maschile) come
    esseri umani a pieno titolo, escludendo dal genere umano le donne, i
    servi, gli schiavi e i gruppi culturalmente inferiori. La negazione
    della dignità umana e quindi dei diritti dell'uomo era
    generalizzata nella prassi irriflessa di tutte le società:
    l'estraneo era identificato senz'altro con il nemico, e in quanto
    isolato e privo di tutela facilmente riducibile in schiavitù.
    Quale forma estrema di lavoro coatto lo schiavismo perpetuava la
    negazione dello status di esseri umani. Dopo l'emancipazione, il
    disprezzo per gli schiavi, considerati esseri subumani, si estese
    anche ai loro discendenti quando questi, come accadeva in America,
    erano fisicamente e quindi 'razzialmente' diversi dal resto della
    popolazione bianca. Il moderno razzismo contro i negri si
    sviluppò dalla problematica degli ex schiavi, che prima della
    emancipazione universale del 1863-1865 erano perlopiù
    meticci. La discriminazione razziale, soprattutto negli Stati Uniti,
    fu una conseguenza immediata dell'emancipazione; analogamente,
    l'emancipazione degli Ebrei portò all'antisemitismo, sebbene
    perlopiù solo dopo secoli di tentata assimilazione.
    
    Per delineare un quadro storico del razzismo è necessario
    istituire un collegamento tra il piano delle teorie e delle idee e
    quello dei fatti storici concreti, perché solo così si
    può evitare che l'esposizione delle dottrine dei vari autori
    nella loro successione cronologica si trasformi in un mero esercizio
    accademico-scolastico fine a se stesso. Le teorie infatti avevano
    una duplice funzione: da un lato sistematizzavano ed esplicitavano
    il sapere dell'epoca, inquadrandolo in edifici concettuali
    preesistenti o creandone di nuovi; dall'altro contenevano
    indicazioni per un'azione politica concreta da attuarsi in un futuro
    imprecisato, influenzando il pensiero delle élites e prima o
    poi anche l'opinione pubblica più ampia. Nel fornire
    direttive politiche alla loro società, i teorici del razzismo
    influenzarono, seppure indirettamente, anche il corso della storia;
    nello stesso tempo le teorie gettano luce sulla realtà
    storica stessa. Esiste dunque una stretta interdipendenza tra
    sviluppi teorici ed eventi storici, cosicché non si possono
    comprendere appieno gli uni senza gli altri.
    
    L'IDEA RAZZIALE NELL'ANTICHITÀ
    
    Solo nell'età moderna emergono singoli autori cui ricondurre
    le teorie razziali. I primi tentativi di spiegare le divisioni
    dell'umanità si mossero dapprima sul terreno dei miti
    collettivi o delle rappresentazioni religiose, e si collocavano
    quindi nel contesto delle concezioni generali relative alle origini
    del mondo (cosmogenesi) e alla sua fine, nonché al posto
    dell'uomo nell'accadere cosmico.Le distinzioni tra 'razze' erano
    estranee alla visione del mondo egizio, poiché dopo la
    conquista della Nubia la popolazione di pelle nera venne integrata
    saldamente nella civiltà dell'antico Egitto. I negri dunque
    non erano conosciuti unicamente come schiavi. Di conseguenza i
    confini tra il gruppo di appartenenza e il mondo esterno - come
    avviene del resto in tutte le grandi civiltà, dalla Cina
    all'antica Grecia - erano concepiti come confini tra civiltà
    e 'caos' della 'barbarie', a prescindere dal colore della pelle di
    quelli che di volta in volta assumevano i ruoli di popoli
    'civilizzati' e di 'barbari'. Successivamente la concezione non
    razzistica propria dell'antico Egitto venne ripresa dai Greci, anche
    se l'orgoglio di questo popolo per la propria civiltà poteva
    assumere connotazioni quasi o protorazzistiche.
    
    La concezione egizio-greca fu soppiantata dal racconto
    mitico-religioso del libro della Genesi dell'Antico Testamento, in
    cui la divisione dell'umanità viene ricondotta alla
    maledizione di Noè: "Maledetto sia Canaan il figlio di Cam!
    Sarà l'infimo servo dei suoi fratelli!" (Genesi, 9, 24-27).
    La tripartizione dell'umanità nei discendenti dei figli di
    Noè: Jafet, Sem e Cam rispecchiava i tre grandi gruppi
    conosciuti all'epoca in Occidente - i bianchi (figli di Jafet), i
    semiti e i figli di Cam, che (in seguito) vennero identificati con i
    neri e già da allora associati perpetuamente, ossia in modo
    intrinseco-strutturale, alla schiavitù. Successivamente, il
    cristianesimo e l'islamismo ripresero e accentuarono questa
    interpretazione, che diverrà l'argomentazione standard di
    tutti gli esponenti del razzismo moderno che si richiamano alla
    Bibbia. Alle latenti implicazioni razzistiche della maledizione di
    Noè si contrapponeva però il superiore principio
    dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio enunciato
    all'inizio della Genesi: "E Iddio creò l'uomo a sua immagine"
    (1, 27). Sarà questo il principio fondamentale cui si
    richiameranno in seguito tutte le argomentazioni non razzistiche o
    antirazzistiche che l'Europa oppose al razzismo da cui fu dominata
    per lungo tempo.
    
    LE TEORIE RAZZIALI NELL'ETÀ MODERNA
    
    Solo l'espansione europea oltreoceano, a partire dalla scoperta di
    Cristoforo Colombo nel 1492 e dal viaggio di Vasco da Gama nelle
    Indie nel 1498, mandò in frantumi la visione eurocentrica del
    mondo e dell'umanità che aveva dominato sino a quel momento,
    portando a conoscenza l'esistenza di gruppi umani che non
    rientravano nella classificazione biblica. Si cercò allora di
    concettualizzare la nuova situazione creando nuove categorie in
    grado di fissare la posizione degli occidentali rispetto a
    un'umanità diversa e sino ad allora sconosciuta. Si trattava
    ancora di invenzioni collettive e anonime, ma la loro comparsa
    è databile con certezza e in sé assai istruttiva: di
    'negri' si comincia a parlare intorno al 1516, ossia quando comincia
    la tratta degli schiavi nelle terre d'oltreoceano; 'mulatto' compare
    verso il 1604; 'casta' e 'meticcio' risalgono al 1615; 'bianchi'
    diventa d'uso corrente nelle colonie inglesi del Nordamerica verso
    il 1689 circa, ossia all'inizio dell'espansione coloniale
    britannica.Nello sviluppo delle dottrine razziali moderne emerge in
    modo particolarmente evidente l'interazione tra la sfera delle idee
    e quella della realtà storica. Allo spostamento dei centri di
    gravità nazionali in Europa nel corso dell'espansione
    oltreoceano fa riscontro un analogo processo sul terreno delle
    dottrine razzistiche. All'inizio l'egemonia in questo campo fu
    detenuta dagli Spagnoli, che dibattevano sul posto da assegnare
    nell'umanità agli Indios trovati in America e ai negri
    importati come schiavi dall'Africa.
    
    Con il declino politico-coloniale della penisola iberica, a partire
    dalla metà del XVII secolo, furono la Francia e la Gran
    Bretagna ad assumere un ruolo di primo piano sia nel campo
    dell'espansione coloniale, sia in quello delle teorie razziali. Da
    allora in poi Francesi e Inglesi fornirono significativi contributi
    alla sistematizzazione teorica delle nuove conoscenze, e ciò
    fu nello stesso tempo un riflesso della loro crescente
    partecipazione alla tratta degli schiavi e alla produzione di
    zucchero basata sul lavoro schiavile nei Caraibi. Solo verso la fine
    del XVIII secolo nel dibattito cominciarono a inserirsi anche autori
    tedeschi - preannunzio, dapprima solo teorico-accademico, della
    futura espansione del nuovo Impero tedesco al principio del
    Novecento, e del ruolo preminente che la Germania avrebbe avuto da
    allora nella teorizzazione, nella prassi e nella propaganda del
    razzismo sino al 1945.
    
    Egualmente degna di nota è la 'divisione del lavoro' tra
    Vecchio e Nuovo Mondo per quanto concerne il razzismo contro i
    negri. Con la scoperta dell'America vennero creati i presupposti
    storici per la nascita di questa forma di razzismo: acquisizione da
    parte dei 'bianchi' europei dello status di padroni degli schiavi
    nelle piantagioni del Nuovo Mondo e del dominio mondiale da un lato,
    riduzione del resto del mondo a riserve di schiavi, colonie, fonti
    di materie prime e mercati di sbocco per gli europei dall'altro. La
    sistematizzazione teorica delle notizie sui paesi e sui popoli dei
    lontani territori d'oltremare che affluivano nelle metropoli degli
    imperi coloniali continuò in Europa sino alle soglie del
    razzismo moderno. Fu comunque nelle colonie del Nuovo Mondo che il
    razzismo esplose per la prima volta e nella sua forma più
    massiccia. Dalla Giamaica, uno dei centri di produzione dello
    zucchero basata sul lavoro schiavile, esso si diffuse a partire dal
    1788, ossia all'inizio del movimento abolizionista e
    dell'emancipazione degli schiavi, anche negli Stati Uniti di recente
    formazione.Nel frattempo nel Vecchio Mondo continuava la tendenza
    razzistica presente già da lunga data, e venne rafforzata dal
    razzismo del Nuovo Mondo, dove prassi (schiavismo, discriminazione
    razziale) e teoria procedevano di pari passo. Se nel Vecchio Mondo
    il razzismo contro i negri era conosciuto in via essenzialmente
    teorica e per sentito dire, nella seconda metà del XIX
    secolo, con il pieno affermarsi dell'industrializzazione e del
    nazionalismo, ebbe uno sviluppo impetuoso la seconda forma di
    razzismo, storicamente più antica, ossia l'antisemitismo.
    
    Sotto un altro aspetto ancora la storia delle dottrine razziali
    può rivestire un interesse particolare che va ben oltre il
    tema specifico. Secondo una interpretazione piuttosto formalistica
    del progresso, quella che di volta in volta si presenta come la
    teoria o la concezione più nuova, e dunque più
    moderna, costituirebbe lo 'stadio più avanzato della ricerca'
    e in quanto tale è considerata automaticamente migliore di
    quelle precedenti. La storia delle teorie razziali dimostra peraltro
    che può essere vero anche il contrario: dacché, a
    partire dal 1774-1785, cominciarono ad argomentare in senso
    razzistico, gli esponenti di tale 'scienza' apparentemente moderna
    per due secoli hanno prodotto conseguenze sempre più
    catastrofiche.Nel quadro dello sviluppo generale del razzismo si
    può citare un esempio che illustra assai bene questo punto.
    Alla fine del XVIII secolo si affermò la teoria poligenetica,
    secondo la quale l'umanità avrebbe avuto un'origine
    molteplice, sarebbe derivata da una varietà di ceppi. Tale
    teoria forniva una risposta apparentemente plausibile alla antiquata
    divisione biblica dell'umanità seguita alla maledizione di
    Noè, e offriva una sistematizzazione 'scientifica' delle
    nuove informazioni sull'esistenza di gruppi umani che non
    rientravano nello schema della Genesi. Il primo illustre esponente
    della teoria poligenetica, l'inglese lord Monboddo, salutò
    addirittura l'Orang-Utan, allora recentemente scoperto, come
    "fratello dell'uomo". Si trattava probabilmente di eccesso di
    entusiasmo per la riscoperta della 'grande catena dell'essere' -
    teorizzata da Aristotele e poi caduta nell'oblio nel mondo
    occidentale - che va dalla materia inerte, inorganica, sino all'uomo
    dotato di piena coscienza (cfr. A. Lovejoy, The great chain of
    being, Cambridge, Mass., 1936). Ma già un anno dopo, in
    Giamaica, Edward Long associò le due idee - l'ipotesi
    poligenetica e l'attribuzione dell'Orang-Utan alla specie umana - e
    attribuì loro una chiara impronta razzistica, in quanto
    interrompeva la 'catena dell'essere' al di sotto degli europei e
    collocava i negri al livello degli Orang-Utan: le teorie più
    nuove non sono sempre automaticamente le migliori, o anche solo
    valide.
    
    I PRIMI TEORICI
    
    L'urgenza di sistematizzare il flusso caotico di nuove conoscenze
    nelle metropoli dell'Europa coloniale segnò l'inizio di una
    serie di teorie razziali formulate individualmente. Nel 1684 il
    medico e viaggiatore francese François Bernier usò per
    la prima volta il concetto chiave di 'razza' in senso moderno per
    indicare le divisioni tra gruppi umani. Il suo trattato, intitolato
    appunto Nouvelle division de la Terre par les différentes
    éspèces ou races d'homme qui l'habitent, rappresenta
    il primo tentativo autonomo e individuale di ordinare le nuove
    conoscenze sulle terre d'oltremare e sui loro abitanti in un sistema
    razionale, non più legato allo schema biblico. La nuova
    categoria della 'razza' non implicava ancora alcun giudizio di
    valore morale, non era 'razzistica' nel senso ristretto, ma aveva un
    carattere quasi scientifico. Per quasi un secolo dominò un
    concetto di 'razza' non razzistico, usato prevalentemente ai fini di
    una classificazione scientifica dell'umanità che le scoperte
    più recenti rendevano una necessità pragmatica. Ma a
    partire dal 1775, allorché l'Europa e il Nordamerica andarono
    consolidando il loro status di potenze mondiali, la categoria
    introdotta da Bernier assunse gradatamente connotazioni prettamente
    razzistiche. Passo dopo passo i vari autori apportarono i singoli
    elementi che successivamente avrebbero formato il razzismo.
    
    Con Bernier hanno inizio le moderne teorie razziali in senso
    più ampio: nello stesso tempo, egli aprì la strada
    alle controversie sul numero (arbitrario) delle 'razze' e sui
    criteri per distinguerle. Lo stesso Bernier non era ben sicuro se le
    razze fossero quattro o cinque: europei (più egiziani e
    indiani); africani; cinesi; giapponesi e lapponi; amerindiani - che
    egli tuttavia assimilava agli europei. Fu ancora un medico, lo
    svedese Carl von Linné (Linneo), a elaborare nel suo Systema
    naturae (1735) il successivo, grande progetto di classificazione.
    Per la prima volta dopo Aristotele, Linneo inseriva nuovamente
    l'uomo nel sistema della natura, considerandolo parte del regno
    animale. Egli fu il primo a utilizzare come criterio distintivo il
    colore della pelle, dividendo i gruppi umani in bianchi, rossi,
    gialli e neri. Così facendo, però, diede inizio anche
    all'associazione di valori morali alle 'razze' - positivi nel caso
    dei bianchi, negativi per i neri.Gli illuministi europei ebbero una
    posizione ambivalente su quello che un secolo più tardi
    diventerà noto come 'problema delle razze'. Ancora in piena
    sintonia con l'antica concezione cristiana non razzistica, il
    francese G. L. L. Buffon asserì la fondamentale unità
    del genere umano, che solo in un secondo tempo si sarebbe
    differenziato in molteplici 'variétés'.
    
    Contro la nuova teoria poligenetica, Buffon si attenne all'antiquata
    ma più umana monogenesi, alla teoria dell'origine unitaria
    dell'uomo che in seguito la scienza moderna ha confermato.
    Coerentemente con questa posizione Buffon, al pari di alcuni
    illuministi tedeschi (tra cui Herder), rifiutò il concetto di
    razza, dando così avvio a quella corrente minoritaria
    fermamente antirazzistica che si affermò soprattutto in
    Francia e in Inghilterra.
    
    Sul versante opposto si colloca invece il filosofo razionalista
    scozzese David Hume, che in una nota per l'edizione del 1754 dei
    suoi Essays (1741) presentò in forma già condensata
    gli argomenti tipici del razzismo moderno: i 'negri' sarebbero per
    natura inferiori, privi di civiltà, e perlomeno in Giamaica
    privi di un ingegno superiore (ingenuity).Fu Immanuel Kant a
    introdurre in Germania il concetto di 'razze' distinguendone
    quattro: bianca, negra, mongolica o calmucca, indù o
    indostanica (Von der verschiedenen Racen der Menschen, 1775), ma
    senza conferirgli ancora alcuna connotazione razzistica.Già
    in bilico verso l'incipiente razzismo fu invece l'antropologo
    tedesco Johann Friedrich Blumenbach, che nel trattato in latino De
    generis humani varietate nativa (1775) riprese la precedente
    suddivisione pragmatica dei gruppi umani - caucasici, mongoli,
    etiopi, americani (Indiani d'America), malesi - introducendo
    però un ordinamento gerarchico delle razze basato su criteri
    estetici, in cui naturalmente il primo posto era assegnato al
    proprio gruppo di appartenenza. Indubbiamente contro la sua
    volontà - poiché va detto che Blumenbach fu uno dei
    principali sostenitori in Germania dell'abolizione dello schiavismo,
    la forma più brutale di razzismo dell'epoca -, le sue teorie
    slittarono fatalmente verso posizioni razzistiche: fu Blumenbach a
    introdurre il concetto della 'razza caucasica', partendo
    dall'ipotesi che il Caucaso fosse la terra d'origine degli europei,
    e fu sempre lui a inventare la categoria della 'razza ebraica'.
    
    In Blumenbach confluiscono quindi sul piano teorico le due
    principali forme del razzismo moderno: l'antigiudaismo/antisemitismo
    e il razzismo contro i negri. Sebbene le sue categorie non fossero
    intese come strumenti di lotta contro determinati gruppi
    identificati come nemici, tuttavia i futuri razzisti poterono
    abusarne utilizzandole come slogan e armi contro le razze
    considerate 'inferiori'.
    
    Al pari di Hume, anche Rousseau e Voltaire sostennero l'intrinseca
    inferiorità dei 'negri' rispetto agli europei. Voltaire
    espresse giudizi improntati prevalentemente al rifiuto e al
    disprezzo degli ebrei, considerati incalliti seguaci di
    superstizioni medievali. La posizione di Voltaire esemplifica nel
    modo più chiaro la dialettica o l'ambivalenza
    dell'illuminismo, che da un lato propugnava l'eguaglianza tra gli
    europei, dall'altro ne rivendicava la superiorità
    manifestando un disprezzo razzistico nei confronti dei negri e
    carico di implicazioni antisemite nei confronti degli ebrei.
    L'emancipazione degli schiavi di cui si fecero sostenitori gli
    illuministi contribuì direttamente all'affermarsi del
    razzismo contro i negri, indirettamente e in modo più sottile
    all'antisemitismo: l'emancipazione degli ebrei infatti era vista con
    favore solo a condizione che essi si adeguassero agli altri popoli
    europei illuminati, il che significava l'annullamento attraverso
    l'assimilazione. Il rifiuto dell'assimilazione da parte degli ebrei,
    o la sua negazione da parte dei 'popoli ospiti', ad esempio
    attraverso una nuova discriminazione, ebbe come inevitabile
    conseguenza l'antisemitismo.
    
    L'AFFERMARSI DEL RAZZISMO MODERNO
    
    Negli stessi anni il razzismo moderno si era già manifestato
    in tutta la sua pienezza nel Nuovo Mondo, per così dire al
    primo posto del 'fronte razziale', come verrà chiamato in
    seguito. In Giamaica - il centro della produzione dello zucchero e
    dello schiavismo britannici nei Caraibi - Edward Long, in un
    capitolo del secondo dei tre volumi della sua History of Jamaica
    (1774) intitolato Negroes, ripropose tutti i vecchi pregiudizi
    contro i negri dando loro una veste pseudoscientifica. Nell'opera di
    Long, che in Giamaica aveva potuto conoscere solo negri ridotti in
    schiavitù, riemerge la secolare equiparazione tra neri e
    schiavi. In base alla sua classificazione delle 'razze', che
    raggiunge livelli di grossolanità sino allora sconosciuti,
    esisterebbero solo tre specie del genere umano: gli europei e i loro
    affini, i negri e gli Orang-Utan (la cui esistenza era nota solo di
    recente in Europa) sino a tutte le scimmie senza coda.
    L'integrazione dell'uomo nel regno animale inaugurata da Linneo
    veniva spinta dunque sino all'assurda conseguenza di collocare i
    neri tra i bianchi e le scimmie antropomorfe. Le idee di Long
    rimasero in auge nelle dottrine dei razzisti per circa un secolo, e
    continuarono a essere riproposte dalla propaganda razzistica di
    minimo livello morale e intellettuale sino al XX secolo.
    
    Long era un sostenitore della nuova teoria poligenetica, che da
    allora in poi riemergerà solo come argomento razzistico. Fu
    Long ad asserire che i mulatti sono sterili (al pari dei muli, da
    cui probabilmente il termine deriva), sebbene egli avesse
    quotidianamente sotto gli occhi la dimostrazione concreta della
    falsità di questa ipotesi. Hitler in Mein Kampf avrebbe
    ripreso e divulgato la favola della infecondità delle razze
    miste, che nel quadro della sua politica razziale e demografica era
    destinata ad avere le più funeste conseguenze. Nel 1788, con
    la ristampa sulla rivista newyorkese "Columbia magazine" del
    capitolo dedicato ai negroes, Long divenne il principale punto di
    riferimento del razzismo nordamericano dopo l'emancipazione degli
    schiavi.A soli undici anni di distanza dall'importante contributo di
    Long, le nuove idee, dopo una lunga preparazione, penetrarono anche
    nel Vecchio Mondo, investendo ora anche la Germania. Sebbene
    all'epoca questa non fosse ancora direttamente coinvolta nella
    politica coloniale, tuttavia beneficiava indirettamente della
    generale ripresa economica che il processo di espansione europea
    nelle terre d'oltreoceano da ormai quasi tre secoli aveva
    contribuito a determinare. I Tedeschi non potevano e non volevano
    restare estranei alle nuove conoscenze e alle nuove dottrine. Gli
    intellettuali che per primi se ne fecero interpreti erano attivi in
    quegli anni in due università, direttamente o indirettamente
    collegate alle nuove correnti: quella di Königsberg e quella di
    Gottinga, fondata come università riformata nel 1734
    nell'elettorato di Hannover, legato all'Inghilterra da un'unione
    personale. A Gottinga venivano coltivate soprattutto le scienze
    naturali, il cui spirito pervadeva peraltro anche le altre
    facoltà. Fu qui che gli storici illuministi istituirono la
    storia come disciplina accademica. Blumenbach vi deteneva la
    cattedra di antropologia.
    
    Il filosofo di Gottinga Christoph Meiners aprì la strada al
    razzismo anche in Europa con il suo Grundriss der Geschichte der
    Menschheit (1785), la prima storia universale in una prospettiva
    razziale. Fu Meiners il primo a sviluppare in forma generalizzata le
    conseguenze razzistiche della tesi poligenetica, postulando
    l'esistenza di una pluralità di "razze umane originariamente
    diverse" con "caratteri ereditari e indelebili", ordinate
    gerarchicamente in base a giudizi di valore: gli Europei (eccettuati
    gli Slavi) sarebbero superiori a tutti gli altri popoli. La
    concezione di Meiners è improntata a un dualismo razzistico
    fondato su criteri estetici (vi sarebbero sostanzialmente solo due
    'razze', una "chiara e bella", l'altra "scura e brutta"), che arriva
    al punto di paventare una mescolanza tra razze nobili e razze vili
    che porterebbe alla degenerazione delle prime. Nelle tesi di Meiners
    si ritrovano già alcuni elementi chiave delle teorie razziali
    di Gobineau. Poiché questi fu fortemente influenzato dalla
    cultura tedesca ed ebbe in Germania la massima risonanza, si
    può affermare che Meiners pose i fondamenti teorici del
    razzismo europeo in senso proprio, inaugurando la serie cumulativa
    degli apporti tedeschi che ebbero Auschwitz come punto terminale.
    
    Per onestà e correttezza intellettuale va detto peraltro che
    Meiners impiegò anche un altro schema categoriale il quale,
    epurato da ogni connotazione peggiorativa o autoglorificante, si
    rivela utile per una analisi razionale dell'evoluzione storica
    dell'umanità.
    
    Secondo tale schema, ai 'selvaggi' (i cacciatori e raccoglitori)
    sarebbero succeduti i 'barbari' (che Meiners identificava solo con i
    pastori nomadi, escludendo il primo stadio di un'agricoltura
    intensiva), e infine la 'civiltà'. Con l'imparzialità
    derivatagli da una formazione classica, Marx usò tali
    categorie in senso oggettivo, come formule abbreviative per
    designare complesse strutture socioeconomiche. Epurato da ogni
    giudizio di valore e inteso come schema categoriale definito con
    precisione e quindi oggettivo, la triade stato
    selvaggio-barbarie-civiltà può risultare (nuovamente)
    valida, poiché coglie effettivamente alcuni aspetti
    essenziali dell'evoluzione dell'umanità. D'altro canto tale
    oggettivazione di concetti altrimenti sospetti aiuta a isolare,
    perlomeno sul piano teorico, il nucleo essenziale del razzismo -
    poiché questo si alimenta sostanzialmente della superbia
    culturale dei popoli 'civilizzati' nei confronti di quelli non
    civilizzati, o che lo sono in misura minore.
    
    Da Meiners in poi continueranno a essere sviluppate senza sosta le
    reali implicazioni del dogma razzistico: gerarchizzazione
    dell'umanità e degradazione delle 'razze' non bianche.
    L'anatomista olandese Peter Camper inventò la craniometria
    per quantificare la bellezza fisica del volto umano, istituendo una
    correlazione tra la maggiore o minore inclinazione dell'angolo che
    misura l'aggetto del bordo alveolare verso l'innanzi (il cosiddetto
    'angolo facciale di Camper') e un ordinamento gerarchico di 'razze'
    superiori e inferiori - dagli europei ai calmucchi sino ai negri e
    alle scimmie.Julien-Joseph Virey nella sua Histoire naturelle du
    genre humain (1801) sviluppò coerentemente le argomentazioni
    di Meiners, contrapponendo le 'razze' 'bianche e belle' a quelle
    'nere e brutte'. Lorenz Oken nobilitò la propria teoria
    razziale combinandola con la dottrina classica degli elementi: la
    razza nera sarebbe 'terrestre' o 'scimmiesca'; quella bianca 'umana'
    e caratterizzata dall'elemento igneo; i mongoli sarebbero associati
    all'aria, gli indiani all'acqua.
    
    Nella sua Anthropologie (1822) in due volumi, Henrik Steffens
    sostituì il termine razza con il neologismo 'lei'. Per il
    resto riprese con poche modifiche le tesi di Oken, sicché
    ogni lei risultava associato a uno dei quattro elementi, in una
    progressione gerarchica crescente articolata nel modo seguente:
    terra (negri), acqua (indiani), aria (asiatici mongolici), luce
    (europei). Analogamente Carl Gustav Carus, nella sua opera Über
    die ungleiche Befähigung der verschiedenen Menschenstämme
    für höhere geistige Entwicklung (1848), distinse quattro
    'razze' - aurorale (gialla), diurna (bianca), crepuscolare (rossa) e
    notturna (nera).
    
    Nel corso del XIX secolo anche il razzismo risentì in vario
    modo dell'influsso di diverse scoperte scientifiche che davano il
    colpo di grazia alla spiegazione del mondo propria del cristianesimo
    ortodosso, già scossa dall'illuminismo. In primo luogo la
    scoperta delle lingue indoeuropee - cui a partire dal 1816 il
    linguista tedesco Franz Bopp diede con le sue ricerche un ampio
    fondamento scientifico- fornì il materiale per il 'mito
    ariano', la falsa credenza che tutte le culture evolute siano
    derivate dagli indoeuropei, identificati con gli ariani (v.
    Poliakov, 1971). Dapprima l'interesse si concentrò in forma
    ancora nebulosamente romantica sull'India, che dalla fine del XVII
    secolo aveva soppiantato la Cina nelle predilezioni esotiche degli
    europei. Nello stesso tempo all'indoeuropeo venne attribuito lo
    status di lingua originaria dell'umanità, detenuto in passato
    dall'ebraico. In seguito la rosa dei popoli che potevano fregiarsi
    del titolo di unici creatori e portatori della civiltà si
    restrinse agli indoeuropei del Nord (gli 'indogermani'), ai Germani,
    ai Celti e agli Slavi (così sosteneva ancora H. S.
    Chamberlain), per ridursi poi in Germania ai soli Germani e ai loro
    discendenti, i Tedeschi: nobiltà e bellezza vennero
    considerati prerogativa esclusiva della razza bionda con la pelle
    chiara e gli occhi azzurri
    
    .A partire dalla Vita di Gesù (1835) di David Strauss lo
    studio scientifico della Bibbia demolì definitivamente
    l'autorità delle Scritture come rivelazione diretta di Dio e
    indebolì la posizione di tutti coloro che, seguendo il
    racconto della Genesi, sostenevano la teoria monogenetica con le sue
    implicazioni antirazzistiche (davanti a Dio tutti gli uomini sono
    eguali). La geologia moderna tolse ogni fondamento alla cronologia
    biblica, estendendo gli spazi temporali entro cui situare l'origine
    della Terra e delle specie animali e vegetali; l'astronomia e
    l'astrofisica moderne fecero lo stesso per quanto riguarda la
    nascita dell'universo. Con la scoperta dell'Uomo di Neanderthal a
    Düsseldorf (1856) furono poste le basi dello studio scientifico
    della preistoria e dell'origine dell'uomo, proiettata sempre
    più indietro nel tempo quanto più 'progrediva' la
    scienza.
    
    LA FONDAZIONE 'SCIENTIFICA' DELLE MODERNE TEORIE RAZZIALI
    
    Nel giro di pochi anni due autori posero le teorie razziali su nuove
    basi 'scientifiche' apparentemente inattaccabili: Gobineau,
    soprattutto attraverso la rielaborazione di teorie precedenti, e
    Darwin con la nuova teoria della selezione naturale. Sebbene Darwin
    non mirasse esplicitamente a costruire una teoria razziale, tuttavia
    la sua opera, che in sé si muoveva sul terreno strettamente
    biologico, ebbe un impatto rivoluzionario che influenzò anche
    il successivo sviluppo delle teorie razziali.Il più
    importante esponente delle teorie razziali prima della svolta
    segnata da Darwin, il francese Joseph-Arthur de Gobineau,
    apportò pochi elementi originali, ma riuscì a
    sistematizzare e a dare una veste organica alle idee sino a quel
    momento disperse e contraddittorie del razzismo ancora in fase di
    sviluppo. Già nel titolo della sua opera principale in due
    volumi, Essai sur l'inégalité des races humaines
    (1854), è preannunciato l'intero suo programma. Sebbene in
    quanto cattolico fosse ancora formalmente legato alla narrazione
    biblica della creazione, Gobineau destituì di ogni
    validità la tesi monogenetica della Genesi postulando
    l'esistenza di un 'uomo primitivo' ('adamitico'), da cui in seguito
    sarebbero derivate le diverse 'razze'. Pur riproponendo l'idea di un
    ordinamento gerarchico tra 'razze' superiori (bianca) e inferiori
    (nera), Gobineau attribuì ai negri e agli ebrei considerevoli
    facoltà; tra i bianchi, veri creatori di cultura e
    civiltà sarebbero gli 'ariani', finché si mantengono
    'puri'. Nuove razze potrebbero nascere da una mescolanza, ma quelle
    superiori dovrebbero preservare il loro nuovo status mantenendosi
    'pure', per scongiurare il pericolo di una degenerazione che
    determinerebbe la loro estinzione, e in ultimo quella
    dell'umanità intera. Il pessimismo misantropico di Gobineau
    in seguito poté essere interpretato in senso attivistico,
    come esortazione alle 'razze superiori' a difendersi da quelle
    inferiori attraverso una 'guerra razziale' all'esterno e,
    all'interno, con la 'selezione', l''eugenetica' e il genocidio.
    
    Come aveva giustamente previsto, con la teoria evoluzionistica
    sviluppata in On the origin of species (1859) Charles Darwin risolse
    la controversia tra poligenesi e monogenesi in favore di
    quest'ultima. Tuttavia anche la teoria monogenetica lasciava ampio
    spazio a conclusioni razzistiche. Con il concetto di 'lotta per
    l'esistenza' introdotto da Herbert Spencer, il socialdarwinismo
    traeva conseguenze razzistiche dal principio dell'evoluzione sociale
    attraverso la selezione: le razze più forti e più
    valide avrebbero dovuto tenere a freno quelle inferiori ma
    numericamente preponderanti. All'epoca dell'imperialismo era chiaro
    a chi ci si riferiva, tanto più che Darwin stesso, in The
    descent of man (1871), aveva parlato di "razze con diversi
    caratteri" - espressione che, avulsa dal contesto, venne ben presto
    interpretata come un riferimento alle cosiddette 'qualità
    razziali'.
    
    Francis Galton, cugino di Darwin, sviluppò ulteriormente il
    socialdarwinismo creando con l''eugenetica' una nuova disciplina che
    si proponeva il miglioramento della specie umana. Al di là
    della preoccupazione moralmente giustificata di migliorare le
    condizioni di salute e di vita delle masse nelle città
    industriali, l'eugenetica, attribuendo un peso maggiore ai fattori
    ereditari rispetto a quelli ambientali, conteneva implicitamente
    l'idea che fosse necessario impedire la riproduzione dei membri
    della società affetti da malattie ereditarie. Da qui al loro
    isolamento e al loro sterminio il passo era breve, come accadde nel
    Terzo Reich con il programma di 'eutanasia'. Anche se Galton era
    inglese, le sue idee, al pari di quelle di Gobineau, ebbero in
    Germania la loro massima risonanza.
    
    Con Spencer, Darwin, Gobineau e Chamberlain il socialdarwinismo
    divenne un movimento di massa talmente diffuso sia in Europa che in
    America, che risulta difficile isolare altri autori. Numerosi
    studiosi con pretese scientifiche - sia biologi (come Ernst
    Häckel) che storici e filosofi - applicarono i principî e
    le idee dell'evoluzionismo al proprio ambito disciplinare. Anche la
    letteratura, sia di alto che di basso livello, contribuì a
    divulgare le nuove dottrine, da cui i movimenti di agitazione
    poterono trarre i loro slogan politici. Come ideologia di
    legittimazione fondata su presunte basi scientifiche
    dell'imperialismo bianco, il socialdarwinismo poteva servire a
    giustificare la lotta contro le 'razze inferiori' all'esterno, e
    all'interno le rivalità nazionali nell'ambito del sistema
    europeo nonché il conflitto tra le classi. Pertanto anche
    l'ideologia del nascente socialismo, che si sentiva autorizzato a
    "gettare la borghesia nel mondezzaio della storia", come si
    espressero in seguito i comunisti, non era altro che un
    socialdarwinismo applicato alla lotta di classe. Anche
    l'antisemitismo trovò dunque accesso in una corrente del
    movimento socialista, soprattutto in Francia e in Russia, mentre
    un'altra corrente lo contrastò in via di principio o in
    generale, soprattutto in Germania.
    
    IL RAZZISMO IN GERMANIA
    
    Fu comunque in Germania, divenuta intorno al Novecento una delle
    maggiori potenze industriali e che aspirava tenacemente al ruolo di
    potenza mondiale, che il socialdarwinismo nelle sue estremizzazioni
    razzistiche ebbe la massima diffusione. L'esaltazione della razza
    tedesca era già cominciata come reazione contro la
    Rivoluzione francese e le imprese napoleoniche - una variante
    tedesca dell'idealizzazione romantica dei popoli nazionali delle
    origini (i Galli per i Francesi, i Britanni per gli Inglesi, i
    Visigoti per gli Spagnoli, ecc.). Con il mito della razza ariana
    cominciò la restrizione quasi razzistica della rosa dei
    popoli superiori ai soli Germani, che escludeva persino altri popoli
    europei, in particolare gli Slavi, dalla comunità dei
    'bianchi' europei ('indogermani'), per arrivare infine sotto Hitler
    alla degradazione degli Slavi a esseri inferiori che meritavano lo
    sterminio. Nell'epoca dell'imperialismo il mito ariano divenne a
    tutti gli effetti l'ideologia di legittimazione dell'ascesa fulminea
    della Germania a massima potenza del continente europeo, che per due
    volte fu sul punto di "afferrare il dominio mondiale" (Fritz
    Fischer). Ai lampi di genio nel campo intellettuale - come
    già aveva predetto con chiaroveggenza Heinrich Heine nella
    sua Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland (1835) -
    i Tedeschi fecero seguire di fatto lampi e tuoni, in due guerre
    mondiali, con tutti i loro misfatti.
    
    Dopo la crisi mondiale (il 'grande crollo') del 1873, le idee di
    Gobineau raggiunsero la massima influenza nel Reich tedesco, dove
    vennero promosse, divulgate e popolarizzate soprattutto da Richard
    Wagner e dalla cerchia di Bayreuth, sino ad arrivare al genero di
    Wagner, Houston Stewart Chamberlain, che può essere
    considerato l'autentico successore di Gobineau. In Germania, sua
    patria d'elezione, Chamberlain poté offrire al suo pubblico
    colto, aggiornato sulle acquisizioni più recenti della
    ricerca scientifica in molti campi, una Weltanschauung affascinante
    anche sul piano letterario, che doveva lusingare le aspirazioni di
    'politica mondiale' dei Tedeschi (v. Chamberlain, 1899). Fu
    Chamberlain ad associare per la prima volta l'antisemitismo con il
    razzismo contro i negri. Tuttavia, se questi sono definiti "una
    razza inferiore e in sé incapace di cultura", il vero e
    proprio nemico è identificato con 'Giuda' (assieme al 'Rom').
    È 'Giuda' che contende ai 'Germani' (ossia ai 'Tedeschi') il
    dominio mondiale che spetta loro di diritto, diventando per
    ciò stesso il nemico mondiale. Il dualismo razziale di
    Chamberlain si spinge sino alla prefigurazione di un conflitto
    finale a livello mondiale tra 'bene' e 'male', tra 'Germani' e
    'Giuda/Rom'. Guglielmo II e Hitler furono tra gli ammiratori di
    Chamberlain, che è altresì considerato dal razzismo
    nazista suo padre fondatore e precursore ideologico.
    
    Sebbene sino alla prima guerra mondiale il razzismo di impronta
    antisemita restasse in Germania una sottocorrente di estremisti,
    tuttavia riuscì a farsi strada sino ai vertici dello Stato.
    La crisi generale seguita alla prima guerra mondiale e la disfatta
    tedesca nel novembre 1918 contro un 'mondo di nemici' contribuirono
    a trasformare il razzismo in una sorta di ideologia di resistenza
    teutonica per la rinascita della Germania come potenza mondiale.
    Data l'assenza di una 'popolazione di colore' in Germania,
    destò particolare scandalo l'occupazione del territorio della
    Ruhr nel 1923 da parte dell'esercito francese, in cui erano
    arruolati tra gli altri anche marocchini e africani (l''oltraggio
    nero').
    
    Progressivamente il razzismo tedesco, che dapprima si era incentrato
    soprattutto sugli Ebrei, cominciò a investire anche gli
    europei 'inferiori' (Slavi e Francesi 'negrizzati'), nonché
    gli Italiani, sia pure in misura minore dopo l'avvento del fascismo.
    La vittoria del nazionalsocialismo diede una sanzione ufficiale alla
    'dottrina razziale' che propugnava la superiorità dell'uomo
    ariano, 'nordico'. Attraverso l'indottrinamento e l'agitazione
    politica essa divenne nel corso della seconda guerra mondiale
    l'ideologia di legittimazione del programma di eutanasia
    all'interno, e della 'soluzione finale' della questione ebraica
    all'esterno, con lo sterminio di milioni di Ebrei e la riduzione in
    schiavitù degli Slavi.
    
    Negli stessi anni il razzismo si affermò anche in Giappone,
    mentre l'Italia fascista, l'altro paese alleato della Germania, non
    sviluppò un proprio razzismo autonomo.
    
    IL RAZZISMO DOPO IL 1945
    
    Dopo la sconfitta delle potenze dell'Asse nel 1945, il fascismo
    sembrò messo al bando in tutto il mondo, e trovò una
    esplicita condanna in vari documenti delle Nazioni Unite e
    dell'UNESCO. L'opposizione al razzismo in Europa, sino ad allora
    sostenuta da una minoranza, divenne sul piano teorico la posizione
    della maggioranza. In pratica, tuttavia, il razzismo continuò
    a sopravvivere in varie forme per legittimare la discriminazione.
    Negli Stati Uniti esso rimase sino al 1965 una tangibile
    realtà politica - nel Sud ufficialmente approvata anche dallo
    Stato - e da allora ha continuato a sussistere in forma latente con
    conseguenze esplosive. Nell'ideologia dell'apartheid in Sudafrica si
    mescola una credenza biblico-calvinistica nella predestinazione, che
    avrebbe attuato la sua 'selezione' per così dire in forma
    concreta, sfociando nella segregazione dei 'neri'. Accanto ai
    parallelismi con il razzismo degli Stati del Sud americani, il
    razzismo dei boeri presenta innegabili affinità e simpatie
    con quello di stampo nazista.
    
    D'altro canto, dopo il processo di decolonizzazione in ampie aree
    del Terzo Mondo sono emerse in modo tangibile forme autoctone di
    protorazzismo che, prive di una controparte teorica sotto forma di
    specifiche dottrine razziali, si configurano principalmente come
    prassi discriminatoria nel quadro di conflitti interni. Esiste un
    contrasto stridente tra la condanna ufficiale del razzismo e la
    discriminazione praticata in varie parti del mondo contemporaneo
    (dopo la caduta del comunismo anche nell'ex blocco orientale), che
    sfocia talvolta in veri e propri pogrom e massacri.Il razzismo
    dunque non è una idea astratta propugnata da singoli
    individui, ma lo spietato risultato di un antichissimo meccanismo
    sociale che ha portato nel corso dei secoli alla costruzione di una
    'teoria razziale' fondata su una corrente della scienza moderna che
    allora si proclamava progressista: l'idea germogliata nella mente di
    un singolo si diffuse diventando l'idea di molti; l'idea di molti
    venne messa poi in pratica da altri. Nel loro aspetto rivolto al
    futuro, le teorie sviluppate per fondare e definire il razzismo
    avevano una funzione analoga a quella della fantascienza moderna: si
    trattava di direttive per l'azione politica coniugate con utopie
    pseudoscientifiche che prefiguravano l'avvento di un presunto 'brave
    new world' migliore di quello attuale. Nelle epoche segnate da gravi
    crisi - la formazione di nuovi Stati nazionali nel XIX e nel XX
    secolo, e attualmente la crisi mondiale dell'industrialismo -
    riaffiorano antiche angosce esistenziali che trovano nelle teorie
    razzistiche una legittimazione pseudoscientifica per una prassi
    discriminatoria e per l'odio verso i rivali nella lotta per
    l'appropriazione di risorse sempre più scarse in questa
    nostra Terra minacciata sul piano ecologico.