Organizzazione sociale
di Giuseppe Bonazzi
www.treccani.it
Enciclopedia online (1996)
sommario: 1. Il doppio significato di 'organizzazione'. 2. La
storicità delle organizzazioni. 3. Le organizzazioni come
entità indipendenti e razionali. 4. Le organizzazioni come
sistemi sociali aperti. 5. Le organizzazioni come strumenti
limitatamente razionali. 6. Le organizzazioni come strutture
contingenti. 7. Le organizzazioni come cultura. 8. Le organizzazioni
come reti stabili di transazioni. 9. Le organizzazioni come
unità di 'popolazioni organizzative'. 10. Le organizzazioni
come espressione di un quadro istituzionale. 11. Prospettive di
ricerca. □ Bibliografia.
1. Il doppio significato di 'organizzazione'
Il termine 'organizzazione' viene generalmente usato in una doppia
accezione. Nella prima esso denota il modo in cui le varie parti o
componenti di un ente sono dinamicamente connesse e coordinate tra
loro. In questa accezione 'organizzazione' possiede un campo
semantico vastissimo. Si parla di organizzazione domestica, della
vita quotidiana, del lavoro, di un viaggio o di una festa. A causa
di questa vasta gamma di significati, il termine organizzazione non
è patrimonio di una specifica branca disciplinare, ma
è usato - oltre che nel linguaggio quotidiano - in
pressoché tutte le scienze sociali nonché in numerose
scienze naturali che, come la biologia e l'etologia, hanno per
oggetto di studio organismi viventi o aggregati di organismi
viventi.
Nella seconda accezione il termine organizzazione viene usato per
denotare una determinata categoria di enti sociali fondati sulla
divisione del lavoro e delle competenze: imprese economiche,
amministrazioni pubbliche, partiti politici, associazioni culturali,
religiose, sportive, ecc. In questa accezione le organizzazioni sono
oggetto di discipline specifiche come la teoria d'impresa, il
comportamento organizzativo e soprattutto la sociologia e la
psicologia delle organizzazioni (con le varie branche
specialistiche, ad esempio organizzazione militare, carceraria,
ospedaliera, scolastica, ecc.).
Le organizzazioni studiate da queste discipline sono state anche
definite formali o complesse. Con il primo termine si intende che
l'aggregazione spontanea dei membri non è una condizione
sufficiente perché una organizzazione sia socialmente
riconosciuta, ma è richiesto un atto costitutivo dotato di
validità legale che stabilisca i fini istituzionali
dell'organizzazione stessa. Il secondo termine sottolinea invece che
un tratto comune a questo tipo di organizzazioni è la
complessità della loro struttura interna, normalmente
ispirata a criteri di divisione del lavoro e delle competenze.
L'espressione 'organizzazione' è quindi usata per indicare
per antonomasia tutti quegli enti sociali in cui il momento
organizzativo è prevalente per capirne il funzionamento, e
con un gioco di parole si potrebbe dire che l'oggetto di analisi
delle discipline sopra indicate è il modo in cui le
organizzazioni sono organizzate. In questa sede noi ci occuperemo
del concetto di organizzazione soltanto nell'accezione accreditata
dalle suddette discipline.
2. La storicità delle organizzazioni
Il modo migliore per comprendere che cosa sono le organizzazioni
è quello di tenere presente la loro storicità. Questa
va intesa in almeno tre sensi. Il primo, abbastanza ovvio, è
che le singole organizzazioni mutano nel corso della loro esistenza.
Mutano perché sono sollecitate ad adattarsi alle
novità dell'ambiente circostante, e mutano anche
perché è la loro stessa crescita a imporre il
passaggio a fasi successive. La transizione per fasi è un
fenomeno così comune da aver suggerito ad alcuni autori dei
modelli evoluzionistici applicati in particolare alle imprese (v.
Greiner, 1972). Oggi tali modelli sono piuttosto desueti a causa
dell'implicito determinismo che li ispira. Ma restano coloro che
sostengono che il modo più efficace per capire le dinamiche
interne alle organizzazioni è un approccio longitudinale o
diacronico, con particolare attenzione ai momenti critici che
caratterizzano la loro storia passata. L'ipotesi di lavoro di questi
studiosi è che il modo in cui le organizzazioni affrontano e
superano le crisi influenza il loro assetto futuro (v. Clark, 1972;
v. Kimberly e Miles, 1980). Naturalmente un'organizzazione
può anche non superare la crisi. In questo caso si apre la
possibilità di ricerche sui motivi dell'insuccesso, che
può provocare la scomparsa dell'organizzazione stessa per
scioglimento o per assorbimento da parte di un'altra organizzazione.
Il secondo modo di intendere la storicità delle
organizzazioni si riferisce al fatto che nel corso del tempo mutano
le stesse specie delle organizzazioni esistenti. Specie
organizzative un tempo fiorenti e diffuse scompaiono o mutano
così radicalmente da divenire irriconoscibili (ad esempio, le
corporazioni medievali di mestiere, vari ordini religiosi). Al
contempo specie organizzative nuove compaiono e si diffondono
caratterizzando un'epoca storica, finché non emergono altre
forme. La comparsa a ritmo accelerato di nuove specie organizzative
è iniziata con la rivoluzione industriale, e Arthur
Stinchcombe (v., 1965) suggerisce che ogni fase
dell'industrializzazione sia stata caratterizzata da una specie
organizzativa dominante: il Settecento fu l'epoca della manifattura
leggera (tessile, vetro), l'Ottocento della manifattura pesante
(ferrovie e miniere), mentre nel Novecento comparvero le industrie
automobilistica, petrolifera, chimica, elettrica, aeronautica e,
nella seconda metà del secolo, l'industria elettronica.
L'idea di Stinchcombe è che ciascuna specie organizzativa
conservi, come se fosse un imprinting, alcuni tratti strutturali
tipici dell'epoca storica in cui è nata. Anche se fondata
oggi, ogni impresa appartenente a un dato settore conserva alcuni
tratti tipici dell'epoca in cui il suo settore è storicamente
comparso.
Oggi la rivoluzione informatica e la globalizzazione produttiva
attenuano la persistenza di questo imprinting. Ma l'intuizione di
Stinchcombe si estende anche a organizzazioni diverse dalle imprese.
Partiti, associazioni volontarie, università, egli afferma,
possono essere studiati risalendo all'epoca storica in cui
comparvero le loro specie. Ad esempio, i partiti politici fondati
nell'Ottocento, quando non esisteva il suffragio universale,
conservano ancora oggi l'organizzazione debole tipica dei partiti di
opinione. Viceversa, i partiti nati tra l'Ottocento e il Novecento,
sull'onda della questione sociale, conservano la struttura
organizzativa del partito di massa, a prescindere dalla fortuna
politica e dalla revisione dei programmi originari. Se si accetta
questa ipotesi, si può sostenere che anche i partiti nati
oggi, nell'epoca dei mass media, conserveranno in futuro i tratti
organizzativi tipici della società contemporanea.
Infine, il terzo modo in cui si può parlare di
storicità riguarda non solo le organizzazioni in quanto
entità oggettive operanti in un dato contesto sociale, ma
anche il modo in cui esse sono concettualizzate da parte delle
comunità scientifiche che le studiano. Da un lato, le
novità nel mondo dell'azione organizzativa sollecitano le
comunità scientifiche a innovare approcci, problematiche e
teorizzazioni. Dall'altro lato, i risultati del dibattito
scientifico influenzano le comunità degli operatori
suggerendo nuove sensibilità, nuovi modelli, nuovi criteri di
azione. La sola esperienza immediata di un'organizzazione non
è sufficiente per la sua conoscenza. Così come per
molti altri fenomeni complessi, la conoscenza di un'organizzazione
richiede una 'cornice di senso' in cui siano presenti
categorizzazioni, sia pure semplificate e rudimentali, che
discendono da una generalizzazione teorica. In altre parole:
chiunque svolga un compito dotato di senso all'interno di una
organizzazione ha bisogno di conoscere - seppure in modo indiretto e
approssimato - i termini del dibattito scientifico sulle
organizzazioni. Questo assunto può anche essere espresso
dicendo che le organizzazioni non possono essere conosciute se non
attraverso ciò che di esse viene detto in sedi accreditate.
Per questa ragione noi proseguiremo ricostruendo le principali fasi
della teoria organizzativa come si è sviluppata a partire dai
primi decenni del XX secolo.
3. Le organizzazioni come entità indipendenti e razionali
Le origini della teoria organizzativa si trovano nell'opera di Max
Weber e di Frederick W. Taylor. Per quanto diversissimi come
formazione culturale e interessi, Weber e Taylor hanno dato
contributi che presentano alcune peculiari similarità nel
concettualizzare le organizzazioni come apparati burocratici - e
pertanto razionali.
Weber studia l'essenza, i presupposti e il funzionamento del potere
burocratico con particolare riferimento alla formazione dello Stato
e delle imprese capitalistiche nelle società moderne. Egli
delinea il tipo ideale della burocrazia come forma pura di potere
legale e razionale, ossia di potere legittimato dalla presunzione
che atti e comandi siano razionalmente orientati al perseguimento
degli scopi per cui l'ufficio è stato istituito. Una
burocrazia comporta un'autorità disciplinata da leggi e
regolamenti amministrativi; l'ordinamento gerarchico degli uffici e
delle competenze; la preparazione specializzata dei funzionari
preposti ai vari compiti; professioni a tempo pieno, regolate come
carriere vitalizie e ricompensate con stipendio monetario fisso;
un'etica di ufficio ispirata a criteri universalistici di
imparzialità e di riservatezza. Per Weber "la precisione, la
rapidità, l'univocità degli atti, la
continuità, la discrezione, la coesione, la rigida
subordinazione, la riduzione dei contrasti [...] danno
all'amministrazione burocratica una indiscutibile superiorità
tecnica su qualunque forma precedente di amministrazione" (v. Weber,
1922; tr. it., vol. II, p. 28). Egli ammonisce che tale
superiorità non è di per sé motivo di
ottimismo. La razionalità rispetto allo scopo, tipica della
burocrazia, è uno strumento neutro che può essere
usato per fini vantaggiosi per l'umanità, ma anche per fini
distruttivi e di dominio, e questa intrinseca ambivalenza
costituisce per Weber uno dei tratti dominanti e tragici della
società moderna.Anche Taylor, con la proposta di introdurre
nelle fabbriche l'organizzazione scientifica del lavoro, fornisce un
contributo determinante per la concettualizzazione delle
organizzazioni produttive come burocrazie. Il taylorismo è
noto soprattutto come strumento per standardizzare e parcellizzare
il lavoro esecutivo, e per questo motivo esso ha conquistato
l'ambigua fama di voler ottenere l'efficienza attraverso la
ripetitività e la costrizione del lavoro. Ma a una lettura
più attenta si comprende che l'organizzazione scientifica del
lavoro non riguarda solo il modo di lavorare in officina, ma
l'intero modo di organizzare e di gestire un'impresa, quindi anche
il modo di comandare. L'idea fondamentale di Taylor è che
l'arbitrio dei capi deve essere sostituito dall'autorità
della legge, e questa si basa sulla valutazione scientifica del modo
migliore di raggiungere il risultato. I capi intermedi sono
legittimati a comandare solo nell'ambito dei ranghi gerarchici
stabiliti dalla direzione e nei ben delimitati campi di competenza a
loro affidati. È su questo punto che Taylor si avvicina a
Weber: allo stesso modo in cui nello Stato moderno i funzionari
nominati in base a criteri di legittimità burocratica
sostituiscono i feudatari nel rappresentare il potere centrale in
periferia, così nella fabbrica gestita con criteri
scientifici i capi intermedi agiscono in quanto rappresentanti
legali della direzione e non più come capi a cui è
stato fiduciariamente delegato un potere senza controllo. Leggere
Taylor alla luce del modello di Weber aiuta a interpretare il
taylorismo come un gigantesco sforzo per rendere trasparente e
calcolabile l'intero processo produttivo, il che presuppone che
l'impresa venga considerata il solo soggetto titolato ad avere un
progetto razionale (Weber vide nella calcolabilità del
capitale il presupposto di un'economia razionale). A sua volta
leggere Weber alla luce della proposta di Taylor aiuta a riconoscere
che la burocratizzazione moderna non si ferma all'amministrazione
statale, ma investe la sfera della produzione. Se il taylorismo va
giudicato come un processo di burocratizzazione che ha investito le
fabbriche, allora gli operai addetti alle mansioni più
ripetitive possono essere considerati come dei 'burocrati' a livello
zero.Weber e Taylor influenzarono grandemente lo studio delle
organizzazioni nella prima metà del XX secolo. Tale influenza
si manifestò soprattutto nello sviluppo della cosiddetta
scuola classica delle teorie manageriali e d'impresa (si ricordano i
nomi di H. Fayol, L. Gulick, L. Urwick). L'intento di questa scuola
era eminentemente prescrittivo, ossia individuare i principî
generali in base ai quali ottimizzare la progettazione organizzativa
delle imprese. Questo intento presuppone almeno tre assunti: a) che
la razionalità delle scelte in merito all'assetto interno e
alle strategie sia il criterio principe con cui misurare
l'efficienza di un'organizzazione; b) che le organizzazioni di
profitto (profit organizations) siano quelle in cui la
razionalità è massimamente valutabile, per il fatto
che il mercato offre diretto e univoco riscontro alla bontà
delle decisioni prese; c) che la razionalità sia una sola, e
che di conseguenza esista uno e un solo criterio ottimale per
organizzare le imprese, qualunque sia la loro attività e
l'ambiente in cui agiscono.
La conseguenza di questi assunti è che l'attenzione si
concentra sullo studio delle strutture formali, dei canali di
comunicazione, delle sfere di competenza, delle procedure per
affrontare routines e situazioni critiche. Il contributo dei singoli
individui vale solo in quanto conforme alla razionalità
organizzativa; per il resto si tratta di residui emozionali e
informali, da trascurare ed emarginare. Solo l'organizzazione (di
profitto) ha per eccellenza un progetto razionale ed è al
tempo stesso strumento razionale per realizzarlo agendo nel e sul
contesto esterno. Di tale contesto - indifferenziato e anonimo - non
è dato conoscere la razionalità, ma si sa che in certa
misura esso è permeabile dalla razionalità
dell'organizzazione stessa.Ma l'organizzazione non è solo
un'entità razionale; essa è anche un'entità
indipendente, nel senso che trova in se stessa i criteri e le
risorse per agire. Poiché si assume che esista un modo unico
e ottimale di affrontare qualsiasi problema, non si considera
l'ipotesi che le organizzazioni possano modificare il loro assetto
in base a contingenze di varia natura, né che siano
influenzabili dall'ambiente esterno, né che possano dare
luogo a coalizioni e a reti di interscambio. L'organizzazione
è una monade razionale e solitaria, e le persone che lavorano
al suo interno non sono che suoi servitori.
4. Le organizzazioni come sistemi sociali aperti
Il modo appena descritto di intendere le organizzazioni non
tardò a suscitare accuse di inadeguatezza nel comprendere la
realtà. La prima critica venne mossa negli anni trenta da
Elton Mayo e dai ricercatori che con lui fondarono la scuola delle
'relazioni umane'. In polemica con lo scientific management,
accusato di considerare i dipendenti come puri erogatori di forza
lavoro, Mayo sottolineò la necessità di pervenire a
una visione più completa del rapporto uomo-organizzazione,
recuperando il cosiddetto 'fattore' umano. Con questa espressione
Mayo intende il complesso dei fattori psicologici, di prevalente
natura emozionale e alogica, che condizionano il comportamento
manifesto dei soggetti. La tesi fondamentale della scuola è
che l'ordine sociale nei luoghi di lavoro (e non solo in quelli) sia
garantito non soltanto dalle norme formali vigenti, ma soprattutto
dal clima che si instaura nella quotidiana interazione dei soggetti.
Una leadership collaborativa e amichevole, che favorisca rapporti
armonici nel gruppo, è la condizione essenziale per
l'efficienza dell'organizzazione. Di qui l'importanza
dell'informalità dei rapporti sociali nei piccoli gruppi. Il
'piccolo mondo' dei soggetti - la famiglia, il gruppo di lavoro, i
ritmi e i riti della quotidianità - è l'idealizzato
referente su cui la scuola delle relazioni umane costruisce la sua
antropologia.
Mayo è consapevole che al di fuori di questi piccoli mondi si
estende una società disordinata e conflittuale, generata da
processi selvaggi di urbanizzazione e industrializzazione. Questo
disordine è per Mayo il male da combattere. Ma non è
possibile - egli sostiene - sognare il ritorno a una società
agreste, ed è altrettanto errato pensare di affidare allo
Stato - dirigista e burocratico - il compito di soddisfare il
bisogno umano di integrazione sociale. Sulla scorta di una rilettura
di Durkheim, che affidava alle istituzioni intermedie il compito
primario dell'integrazione sociale, Mayo sostiene che in una
società industriale tale compito spetta alle organizzazioni
in cui gli uomini trascorrono la maggior parte della loro vita,
quindi in primo luogo alle imprese. Queste non possono limitarsi a
perseguire puri scopi di efficienza e di profitto, ma devono
provvedere ai bisogni sociali dei loro membri. Oltre a fornire
l'assistenza di psicologi aziendali e a instaurare una leadership
amichevole sui luoghi di lavoro, l'azienda deve estendere la sua
iniziativa al di fuori dello stretto rapporto di lavoro: case per i
dipendenti, circoli ricreativi, centri di formazione, servizi
assistenziali sono per Mayo una condizione essenziale per
raggiungere gli obiettivi di ordine, armonia e senso di
identità dei dipendenti.
L'evidente paternalismo di queste proposte non è avvertito da
Mayo come un limite, ma come una garanzia di efficacia. Qui
però ciò che importa non è discutere il sistema
di valori di Mayo, ma sottolineare la sua intuizione secondo cui
è sbagliato concepire le organizzazioni come mere strutture
formali. Esse sono organismi sensibili e adattivi, con fondamentali
compiti di integrazione sociale e di preservazione dell'armonia.
L'idea delle organizzazioni come entità preposte a svolgere
una fondamentale funzione di ordine sociale è ripresa e
compiutamente teorizzata da Talcott Parsons. Rispetto a Mayo,
Parsons aggiunge due elementi importanti: una teoria generale della
società concepita come un sistema sociale, e la conseguente
concettualizzazione delle organizzazioni come sistemi aperti e
comunicanti tra loro. Per quanto riguarda il primo aspetto, ogni
sistema sociale, secondo Parsons, per sopravvivere deve soddisfare
quattro imperativi, che egli chiama 'prerequisiti funzionali': il
reperimento e l'adattamento delle risorse; la determinazione e il
perseguimento degli scopi; il mantenimento dei modelli latenti;
l'integrazione tra le varie parti del sistema. Detto in altri
termini, nessun sistema sociale può sopravvivere se le
risorse non sono sufficienti o non sono sufficientemente
distribuite; se gli scopi non sono ben determinati; se non esistono
modelli latenti per mantenere le motivazioni dei soggetti; e se non
c'è sufficiente integrazione tra le varie componenti del
sistema.
Questi prerequisiti forniscono anche il criterio per distinguere
quattro categorie di subsistemi, a ciascuno dei quali corrisponde un
particolare tipo di organizzazioni. Parsons perviene così a
una tipologia generale delle organizzazioni fondata sulla loro
diversa funzione istituzionale nel più ampio sistema sociale.
Nel primo tipo rientrano le organizzazioni economiche che
reperiscono e collocano le risorse: tipicamente le imprese. Nel
secondo tipo rientrano le organizzazioni che definiscono e
perseguono gli scopi del sistema: tipicamente gli organi del potere
esecutivo e legislativo. Nel terzo tipo rientrano le organizzazioni
impegnate nei processi di educazione e motivazione degli individui:
tipicamente la chiesa, la scuola, le associazioni ricreative e
culturali, ecc. Nel quarto tipo rientrano le organizzazioni che
assolvono funzioni di integrazione sociale mediante la composizione
di conflitti: tipicamente la magistratura, ma Parsons vi include
anche le organizzazioni di rappresentanza degli interessi, dato che,
coerentemente con l'assunto consensualistico della sua teoria, la
funzione di queste organizzazioni non è concepita in chiave
di scontro ma di mediazione tra interessi potenzialmente
conflittuali.
La società teorizzata da Parsons può essere
raffigurata come un sistema a scatole cinesi, nel senso che ogni
organizzazione riproduce al suo interno la stessa ripartizione
funzionale esistente nel più ampio sistema sociale.
Ciò significa che ogni organizzazione deve avere al suo
interno subsistemi che garantiscono le risorse, definiscono gli
scopi, mantengono le motivazioni e garantiscono l'integrazione. Le
organizzazioni sono quindi sistemi altamente articolati e complessi.
Scrive Parsons: "L'organizzazione produttiva, ad esempio una
fabbrica, è un sistema sociale concreto in se stesso. Il suo
scopo è definito dal suo posto nell'economia, ma non è
soltanto un'entità economica. Essa ha un sistema politico con
lealtà e autorità costituite; è soggetta a
esigenze interne integrative come qualsiasi altro sistema, e deve
avere i suoi propri valori istituzionalizzati e una tradizione
culturale" (v. Parsons e Smelser, 1956, p. 45).
Da questo brano traspare la profondità concettuale con cui
Parsons recepisce l'insegnamento di Mayo sulle organizzazioni di
lavoro come sistemi viventi di soggetti che non interagiscono solo
in base a rapporti economici, ma in base a fattori ben più
complessi. Ma questi fattori non sono soltanto psicologici ed
emotivi, come sostiene Mayo, sono anche culturali, sociali,
eminentemente etici.
Si arriva così al secondo aspetto in cui Parsons supera e
integra Mayo: le organizzazioni non sono soltanto sistemi formati da
individui sensibili a motivazioni di varia natura. Esse sono
altresì dei sistemi aperti, che garantiscono e regolano il
continuo interscambio di risorse tra le varie componenti della
società. Questo interscambio ha due valenze. La prima valenza
è funzionale, nel senso che il fine di ogni organizzazione
può essere concepito come un output che da una specifica
organizzazione va all'ambiente esterno e si trasforma in input per i
soggetti (individuali e collettivi) che ne usufruiscono. Nel caso di
un'organizzazione economica, l'output sono beni e servizi e il loro
passaggio ad altre organizzazioni è regolato da contratti. Ma
lo stesso vale per le organizzazioni non economiche: producono
outputs gli organismi parlamentari e governativi (produzione di
leggi e decreti), la magistratura (produzione di sentenze), gli
ospedali (produzione di salute), le forze armate (produzione di
sicurezza), le scuole (produzione di capacità addestrata), i
sindacati (produzione di accordi). Tutti questi outputs sono
recepiti da altre organizzazioni come altrettanti inputs di risorse
e di vincoli da tenere in conto nella loro specifica funzione
sociale. La seconda valenza dell'interscambio tra le organizzazioni
si collega al fatto che le organizzazioni stesse vanno viste come
subsistemi inseriti nel più vasto sistema sociale. Ciò
conduce Parsons a sostenere che esse sono legittimate a funzionare
solo in quanto accettano il modello di valori fornito dal livello
sistemico a loro superiore. Si delinea in tal modo un sistema
coerente nelle sue varie componenti, che si confermano in un
continuo rimando dai livelli più generali a quelli più
particolari e viceversa. Le organizzazioni che non perseguono scopi
conformi al più generale sistema di valori vanno considerate
come devianti.Un sistema così concepito fornisce anche le
basi per spiegare in termini consensuali il rapporto tra individui e
organizzazioni. Quanto più gli individui interiorizzano i
valori generali del sistema attraverso un continuo processo di
socializzazione operata da istituzioni specifiche (scuola, famiglia,
impresa, ecc.), tanto maggiori sono le probabilità di un
rapporto armonico tra le loro aspettative nei confronti del sistema
e le aspettative del sistema circa il modo in cui essi svolgono il
loro ruolo. Anche nel rapporto individui-organizzazioni, tensioni e
conflitti sono segno di scarsa integrazione e quindi di potenziale
devianza.
5. Le organizzazioni come strumenti limitatamente razionali
Il modello di Parsons dedica grande attenzione agli aspetti
istituzionali del contesto in cui sono inserite le organizzazioni,
alle relazioni tra i vari sistemi e subsistemi organizzativi, ai
processi di legittimazione e agli scambi che alimentano e regolano a
ogni livello il funzionamento di tali sistemi. Anche questo modello
tuttavia fu oggetto di numerose critiche, tra le quali è
possibile individuarne tre principali.La prima critica è che
Parsons non presterebbe nessuna attenzione ai concreti rapporti di
potere che si verificano nelle organizzazioni, al formarsi delle
coalizioni, alle dinamiche sociali che danno luogo a crisi,
conflitti e cambiamenti. Una seconda critica riguarda il fatto che
la tipologia proposta da Parsons sarebbe troppo vaga e astratta. Ad
esempio, mettere in un'unica classe partiti, sindacati, ospedali e
carceri perché il loro scopo istituzionale è
l'integrazione sociale, non fornisce nessuna ipotesi utile nel
momento in cui si scende sul terreno concreto per una ricerca
empirica. Infine, una terza critica riguarda il fatto che Parsons
concepirebbe le organizzazioni come entità reificate, ossia
come entità capaci di agire come se fossero singoli soggetti
che danno vita alle organizzazioni stesse.
L'autore che più efficacemente si è distanziato dal
funzionalismo sistemico di Parsons è Herbert Simon. La sua
rivoluzione teorica poggia su tre premesse. La prima è che
l'oggetto dell'analisi organizzativa non sono le organizzazioni in
quanto tali, bensì il comportamento degli esseri umani
all'interno delle organizzazioni. L'oggetto fondamentale di analisi
sono le decisioni umane, o più precisamente i processi
decisionali a cui prendono parte più persone, generalmente
raggruppate in coalizioni. Studiare il comportamento di un gruppo
umano all'interno di una organizzazione significa concepire
l'organizzazione come uno schema che "fornisce a ogni appartenente
al gruppo buona parte dell'informazione, delle premesse, degli
obiettivi e degli atteggiamenti che influenzano le sue decisioni"
(v. Simon, 1945; tr. it., p. 14).
La seconda premessa è che gli esseri umani sono dotati di una
razionalità limitata. Di norma gli uomini non decidono in
base al principio di ottimizzare i risultati, come ritiene
erroneamente l'economia classica, bensì in base al principio
più modesto, ma assai più realistico, di ottenere
risultati sufficienti. Ciò comporta un grado di
complessità estremamente minore di quello che sarebbe
richiesto nell'ipotesi della razionalità perfetta. "Si pensi
- scrive Simon (v. Simon e March, 1958; tr. it., p. 176) - alla
differenza che esiste tra frugare in un mucchio di fieno per trovare
l'ago più aguzzo e frugare nello stesso mucchio di fieno per
trovare un ago aguzzo abbastanza perché ci si possa
cucire".Infine la terza premessa è che gli esseri umani
partecipano alle organizzazioni in base all'equilibrio tra i
contributi che sono tenuti a dare e gli incentivi che si attendono
di ottenere. Questo equilibrio è nel pensiero di Simon un
principio generalissimo che richiede alcune chiarificazioni. In
primo luogo esso non si fonda su criteri 'oggettivi' (come quelli
forniti dalle varie teorie economiche del valore), ma sui criteri
assolutamente soggettivi delle persone coinvolte nello scambio.
Quello tra contributi e incentivi è un equilibrio - o
disequilibrio - percepito in base alla struttura delle preferenze
individuali dei soggetti. A seconda che si dia la priorità al
guadagno economico, alla sicurezza, alla reputazione sociale, alla
crescita professionale o ad altri valori, i soggetti non solo
valutano in modo differente il rapporto tra contributi e incentivi,
ma sviluppano comportamenti differenti rispetto all'organizzazione.
Il rapporto contributi-incentivi non ha quindi il mero valore
utilitaristico dello scambio basato sull'interesse. Specialmente
nelle organizzazioni oblative (umanitarie, assistenziali, ecc.)
è normale che i membri trovino il maggiore incentivo a
partecipare nel significato etico che ai loro occhi assume l'atto
stesso di impegnarsi, talvolta con duri sacrifici personali.
Infine la possibilità che nel rapporto tra contributi e
incentivi gli individui percepiscano uno squilibrio a loro danno non
comporta necessariamente l'abbandono dell'organizzazione. Simon
distingue tra la desiderabilità percepita e la
facilità percepita di lasciare un'organizzazione, e
ciò gli consente di distinguere tra il grado di soddisfazione
e la decisione di rimanere o abbandonare. Tale distinzione è
particolarmente utile per spiegare i comportamenti umani nelle
organizzazioni di lavoro: se le persone soddisfatte in genere
tendono a restare, non è affatto detto che quelle
insoddisfatte decidano di andarsene, se non trovano alternative
valide sul mercato del lavoro. Nascono piuttosto lenti processi di
rassegnazione e di assuefazione, con la ricerca di
microsoddisfazioni sostitutive perché, come nota Simon,
l'obiettivo organizzativo spesso non coincide affatto con gli
obiettivi personali dei partecipanti.
Sulla base di queste premesse, Simon costruisce un modello
estremamente problematico delle organizzazioni e dei comportamenti
umani al loro interno. L'assunto generale è, come si
accennava prima, che le organizzazioni non vanno viste come
entità indipendenti dagli uomini che le formano, ma come
luoghi in cui essi partecipano e decidono. Questo capovolgimento di
ottica porta ad alcune conseguenze importanti. La prima è che
le organizzazioni non hanno fini predeterminati e stabili, ma solo i
fini mutevoli che gli esseri umani decidono di dare loro, spesso
attraverso processi decisionali complessi e compromissori. Inoltre,
l'identificazione delle persone con le organizzazioni di cui fanno
parte non è scontata. Le persone possono entrare e uscire,
adottare comportamenti ritualistici o innovativi, in base
all'equilibrio da loro percepito tra contributi e incentivi.Un'altra
conseguenza è che le organizzazioni non sono che degli
strumenti per raggiungere obiettivi non raggiungibili senza il
coordinamento di più persone. Le organizzazioni vanno quindi
viste essenzialmente come dei correttivi per allargare i limiti
propri della condizione umana, anche se questo allargamento non
potrà mai superare l'ambito e la logica della
razionalità limitata. Da ciò discende che per
raggiungere obiettivi complessi non è sufficiente la
divisione del lavoro. Occorre anche che nelle organizzazioni
esistano delle decisioni già programmate e disponibili, in
modo che le persone non siano costrette a prendere decisioni nuove
per ogni atto che compiono, ma possano ricorrere a procedure
approvate, ovvero a sequenze di decisioni prestabilite in base
all'esperienza e ai calcoli. Le procedure non si limitano a fornire
schemi per eseguire correttamente i lavori previsti, ma servono
anche ad assorbire l'incertezza che può sorgere nel compito
da eseguire. Quando per motivi di tempo o di costi non è
possibile un'esplorazione di tutti i fattori che possono intervenire
in un evento, si ricorre a procedure: ossia si sceglie di decidere
in base ad alcuni indicatori che stanno al posto delle prove certe,
ma ai quali i calcoli e le esperienze pregresse conferiscono un
grado accettabile di probabilità. Le procedure hanno quindi
anche l'importante funzione di tutelare i soggetti preposti a
prendere decisioni. Osserva Simon (v. Simon e March, 1958; tr. it.,
p. 212) che "il comportamento razionale esige modelli semplificati
che includano gli elementi essenziali del problema senza rifletterne
tutta la complessità".
Ma qual è il limite di validità delle procedure? Che
succede quando eventi inattesi richiedono decisioni critiche non di
routine? Esistono assetti ottimali - pur sempre nell'ambito della
razionalità limitata - delle organizzazioni a seconda del
grado di incertezza ambientale in cui esse agiscono? Queste domande
furono impostate per la prima volta grazie al contributo di Simon.
Più in generale l'idea che le organizzazioni sono costrutti
umani imperfetti e mutevoli esercitò una grande influenza
sulla teoria organizzativa della seconda metà del XX secolo.
6. Le organizzazioni come strutture contingenti
Nelle varie scuole di derivazione simoniana la cosiddetta teoria
della contingenza occupò un posto di rilievo negli anni
sessanta e settanta. Questa teoria poggiava su due premesse. La
prima era il rifiuto del postulato che esista un solo modello
universale di organizzazione delle imprese, e la seconda era
l'assunto che le organizzazioni vadano considerate come sistemi
aperti in continua comunicazione con l'ambiente esterno.
La prima premessa portava a domandarsi quali siano i modelli
organizzativi concretamente adottati dalle varie imprese e se
esistano connessioni significative fra tali modelli e una serie di
fattori variabili (contingenti) come le dimensioni, la tecnologia,
il settore di attività, ecc. La seconda premessa acquisiva la
tesi di Parsons secondo cui le organizzazioni sono sistemi
complessi, ma traduceva questo concetto in variabili empiricamente
osservabili. Di conseguenza, da categorie astratte come integrazione
o latenza si passava a fenomeni ben più concreti come livelli
gerarchici, vincoli indotti dalla tecnologia, caratteristiche del
flusso produttivo, ecc.
La prima ricerca empirica su questo terreno fu quella compiuta da
Joan Woodward (v., 1965) su un campione di cento imprese
britanniche. I dati raccolti confermarono l'ipotesi di partenza che
esista una estrema varietà di situazioni organizzative. Di
primo acchito questa varietà appariva del tutto casuale, e
solo a un esame più approfondito si scoprì che
esisteva una connessione tra l'organizzazione delle imprese e la
tecnologia adottata, nel senso che quanto più la tecnologia
è complessa, tanto più i processi di produzione sono
predeterminati. La Woodward pervenne così a una tipologia
fondata su tre principali classi di imprese: a) le imprese addette
alla produzione di singole unità o di piccola serie (dagli
ateliers di moda alla cantieristica navale), caratterizzate da
lavori professionali, compiti variabili, rapporti informali, minimi
controlli gerarchici; b) le imprese addette a produzione di grande
serie (automobili, elettrodomestici, mobilio standard, ecc.),
caratterizzate da lavori ripetitivi, formalità di rapporti,
controlli burocratici; c) le imprese addette a produzioni a ciclo
continuo o 'di processo' (chimica, acciaieria, ecc.), dove gli
impianti incorporano il processo produttivo lasciando all'intervento
umano solo i controlli tecnici, quindi con piccole squadre
qualificate dove è superata l'esigenza di controlli
burocratici.
La ricerca della Woodward segnò una svolta nello studio delle
organizzazioni, perché per la prima volta fu empiricamente
accertato non soltanto che esiste una pluralità di forme
industriali, ma anche che forme particolari di organizzazione sono
più appropriate di altre per far fronte alle diverse
situazioni tecnologiche. Erano così poste le basi per un
vasto programma di ricerca orientato ad approfondire le connessioni
ottimali tra i vari possibili assetti organizzativi e le
attività da svolgere.
La ricerca della Woodward fu sottoposta a una quantità di
critiche e di verifiche. La discussione verteva sulla questione se
la tecnologia fosse veramente il fattore principale per spiegare le
varianze organizzative, e se in questo caso non si ricadesse in una
nuova forma di determinismo organizzativo. Negli anni settanta un
posto di rilievo fu occupato dal cosiddetto gruppo di Aston (D.
Pugh, C. Hining, D. Hickson e altri), che svolse una lunga ricerca
su un esteso e articolato campione di imprese. Il maggiore risultato
da esso raggiunto fu di accertare che quanto più grande
è l'impresa, tanto maggiori tendono a essere la
specializzazione dei compiti, la standardizzazione delle procedure e
la formalizzazione delle comunicazioni interne. Il gruppo di Aston
concluse che, a differenza di quanto sosteneva la Woodward, è
la dimensione dell'impresa e non la tecnologia il fattore più
importante per spiegare le differenze organizzative.Se il gruppo di
Aston sosteneva l'esistenza di una connessione positiva tra il grado
di burocratizzazione e l'ampiezza dell'impresa, altre ricerche
sempre di ispirazione 'contingentista' percorrevano strade
differenti. Vanno ricordati in tal senso i lavori di Burns e Stalker
(v., 1961), Emery e Trist (v., 1965), Miller e Rice (v., 1967).
Tutte queste ricerche individuavano il fattore più efficace
per spiegare i diversi assetti organizzativi nella dimensione
definita dai due estremi tranquillità/turbolenza ambientale.
La tranquillità ambientale equivale a prevedibilità e
ricorrenza degli eventi, e in questi casi il modello organizzativo
più opportuno è quello tradizionale, con una marcata
divisione dei compiti, una gerarchia e procedure stabili. Man mano
che diminuisce la prevedibilità degli eventi e aumenta la
turbolenza ambientale, le imprese sono sollecitate ad adottare
strutture più flessibili. Dal principio di burocrazia
disciplinata esse passeranno al principio di responsabilità
professionale, con la conseguenza che alla tradizionale ridondanza
di mansioni semplici e ripetitive subentrerà una ridondanza
di mansioni complesse e autoregolate, svolte da persone capaci di
atteggiamenti esplorativi e di decidere in situazioni critiche.
Negli anni settanta la connessione tra le dimensioni
prevedibilità-imprevedibilità ambientale e
rigidità-flessibilità organizzativa fu largamente
acquisita. Tale connessione aveva un valore sia cognitivo che
prescrittivo: serviva come ipotesi di ricerca, ma era anche indicata
come un criterio a cui attenersi in sede di progettazione
organizzativa.
Un importante progresso nella conoscenza delle organizzazioni fu
compiuto da Lawrence e Lorsch (v., 1969). Anche questi autori
partono dal presupposto che quanto più l'ambiente esterno
è imprevedibile, tanto meno formalizzata è
l'organizzazione interna delle imprese. Ma la loro novità
consiste nel considerare l'ambiente non come un tutto indistinto,
bensì come composto da aree che possono avere gradi
differenti di prevedibilità. In particolare essi distinguono
tre aree ambientali: tecnica, commerciale e scientifica, alle quali
corrispondono all'interno dell'impresa tre dipartimenti
specializzati: Produzione; Promozione e Vendita; Ricerca e Sviluppo.
L'argomento contingentista di una connessione tra la
prevedibilità dell'ambiente esterno e il grado di
formalità burocratica dell'organizzazione viene così
utilizzato per sostenere l'esistenza di una pluralità di
strutture interne alle organizzazioni. Più in particolare,
dentro un'impresa non esiste una sola e omogenea struttura
organizzativa, ma coesistono più strutture ciascuna delle
quali è dotata di un differente grado di formalizzazione
burocratica.
L'ipotesi fu verificata in una ricerca su sei imprese dove
risultò che: a) il grado di certezza ambientale è
massimo nel settore tecnico, minimo in quello scientifico e
intermedio in quello commerciale; b) pur appartenendo alla stessa
impresa, produzione, uffici commerciali e centri di ricerca e
sviluppo agiscono come mondi separati, governati con criteri
diversissimi. Il mondo della produzione è quello più
burocratico e formale, legato a scadenze ravvicinate e con procedure
ricorrenti; il mondo della ricerca e sviluppo è quello
più flessibile, con minore attenzione ai gradi gerarchici e
più coinvolgimento in piani di lungo periodo; mentre il mondo
commerciale sta in una posizione intermedia. La ricerca inoltre
confermava che queste differenze non sono un handicap, ma un
vantaggio: infatti, quanto più esse sono marcate, tanto
maggiore è il successo economico delle imprese. D'altra
parte, però, spetta alle imprese il compito di sviluppare
efficaci meccanismi di integrazione affinché le varie
componenti interne possano comunicare e collaborare.
Se Lawrence e Lorsch forniscono la prova empirica che in seno alla
stessa organizzazione esiste una pluralità di principî
organizzativi, la più completa teorizzazione di questo nuovo
modo di concepire le organizzazioni si ha nell'opera di James
Thompson (v., 1967). Thompson parte dalla considerazione già
sviluppata da Alvin Gouldner (v., 1959) secondo cui nella teoria
organizzativa si contrappongono due modelli tra loro incompatibili.
Da un lato c'è chi, come Taylor e Weber, concepisce le
organizzazioni come modelli razionali, ossia come sistemi chiusi che
suggeriscono strategie orientate a garantire prestazioni regolari e
costanti. Dall'altro lato c'è chi, come la scuola delle
relazioni umane, vede le organizzazioni come modelli naturali, ossia
come sistemi aperti che suggeriscono strategie di adattamento e di
sopravvivenza. Entrambi i modelli colgono una parte della
verità, ma sono antitetici e non possono essere giustapposti.
Come può essere risolto il problema della loro sintesi?
Thompson risponde con una operazione concettuale analoga a quella
compiuta da Lawrence e Lorsch. L'organizzazione, egli dice,
può essere vista come composta da tre distinti livelli
analitici: uno interno, uno intermedio e uno esterno. All'interno vi
è il nucleo tecnico che ha il compito di fornire prestazioni
regolari e costanti e che funziona come un sistema chiuso, secondo
la logica della massima razionalità in condizioni di
certezza. All'esterno, al confine con l'ambiente circostante, vi
è il livello istituzionale, dove l'organizzazione si
confronta con le sfide esterne e sviluppa strategie di sopravvivenza
e di adattamento flessibile alle incertezze ambientali. In una
posizione intermedia si colloca il livello manageriale, a cui spetta
il compito di garantire una continua mediazione tra il nucleo
tecnico e il livello istituzionale. Thompson perviene così a
un modello originale, dove l'essenza dell'azione organizzativa
consiste nel costante e reciproco adattamento tra razionalità
tecnica e razionalità adattiva. La prima è chiusa e
procede secondo criteri di massima regolarità e certezza,
mentre la seconda è aperta e procede secondo criteri che
possono essere anche molto lontani dai principî canonici della
razionalità.
Con questo modello Thompson affina notevolmente il principio
simoniano della razionalità limitata. Questo è un
principio universale, argomenta Thompson, ma la sua cogenza è
diversa a seconda dell'ambito organizzativo. In alcuni settori, in
particolare quelli ingegneristici e tecnici, si procede secondo
l'ideale della massima razionalità possibile, pur sapendo che
è limitata. In altri settori, quelli di marketing e di
elaborazione strategica in rapporto all'ambiente esterno, si
dà invece per scontato che le decisioni sono sempre opinabili
e ci si affida maggiormente all'imitazione, al compromesso e
all'intuito.
7. Le organizzazioni come cultura
I contributi di Lawrence e Lorsch e di Thompson rappresentano la
massima sofisticazione intellettuale a cui è giunta la scuola
delle contingenze, ma segnano anche gli invalicabili limiti teorici
di tale scuola. Nel momento in cui si ammette che un'organizzazione
può avere al suo interno più modelli organizzativi e
quindi modi differenti di agire, di decidere, di ragionare, si
annuncia di fatto l'opportunità di abbandonare il livello
dell'analisi strutturale per passare a quello dell'analisi
culturale: assai più della pura struttura di una
organizzazione è rilevante il modo in cui i soggetti agiscono
e interagiscono. Ma la teoria delle contingenze non aveva questi
strumenti di indagine e doveva lasciare il campo ad altri
paradigmi.Sul finire degli anni settanta la teoria delle contingenze
fu di fatto sottoposta a crescenti contestazioni. In particolare si
criticò la pretesa di conoscere le organizzazioni in base a
un approccio esclusivamente strutturale, come se un insieme di
variabili quantitativamente misurabili (tecnologia, ambiente,
dimensioni, ecc.) fosse in grado di spiegare che cosa è
un'organizzazione, definita anch'essa come un insieme di semplici
variabili quantitative (livelli gerarchici, ampiezza dei campi di
controllo, formalizzazione, ecc.).
Queste critiche rispecchiavano il mutamento generale di indirizzo
negli studi organizzativi. La politica delle massime imprese volte a
creare un forte spirito di identità tra i dipendenti e la
comparsa delle imprese giapponesi avvertivano gli osservatori che le
differenze più significative stavano non già nelle
strutture, ma nell''atmosfera' dei rapporti sociali e nel
significato che i soggetti conferiscono alle proprie azioni.
Pretendere di conoscere la differenza tra le organizzazioni in base
alla loro struttura e non in base al senso che gli individui
conferiscono al proprio agire appariva un poco come la pretesa di
conoscere la differenza tra le persone in base alle loro differenze
anatomiche piuttosto che in base a ciò che sanno e ciò
che pensano.
Si svilupparono così vari filoni di pensiero volti a studiare
le organizzazioni come fenomeni culturali. Ma nel comune intento
culturalista si possono scorgere almeno due modi differenti di
intendere le organizzazioni come cultura. Il primo modo concepisce
le organizzazioni come 'giacimenti culturali' e ha ispirato approcci
di tipo antropologico volti a studiare le caratteristiche di tali
giacimenti. Il secondo modo concepisce invece le organizzazioni come
soggetti attivi di cultura e di apprendimento, e ha ispirato
approcci cognitivistici volti a esaminare le condizioni e le
dinamiche di tale apprendimento.Tra le scuole che hanno sviluppato
il primo approccio, una delle più importanti è quella
del simbolismo organizzativo. Questa scuola prende il nome dal fatto
che il suo oggetto specifico di analisi sono i riti, le cerimonie, i
miti, le leggende, le drammaturgie che formano il patrimonio
simbolico ed emozionale delle organizzazioni. Questi elementi,
considerati dagli approcci classici come semplice e trascurabile
folklore, sono invece indicati dai simbolisti come elementi
fondamentali per comprendere i meccanismi che generano
identità collettive, senso di appartenenza e significati
condivisi. Questa scelta tematica conduce sovente a sviluppare un
approccio diacronico che mette in luce le tappe più rilevanti
nella storia di un'organizzazione. L'ipotesi di fondo è che
in quegli avvenimenti critici si trovi la chiave di lettura
più efficace per comprendere le scelte e le condotte attuali.
Un altro modo di utilizzare il patrimonio simbolico di
un'organizzazione è quello proposto da Pfeffer (v., 1981),
che traccia una distinzione tra le risorse materiali e quelle
simboliche. Poiché i dirigenti di una organizzazione hanno
spesso scarse risorse materiali da investire e da redistribuire,
essi fanno ricorso al patrimonio delle risorse simboliche per dare
un senso ai sacrifici richiesti ai membri e ottenere il loro
consenso.Il secondo filone culturalista sottolinea invece i processi
cognitivi di apprendimento che si innescano all'interno delle
organizzazioni: queste sono viste come 'strutture di apprendimento'
(learning organizations). Non è sufficiente dire che le
organizzazioni hanno cultura, sostiene Linda Smircich (v., 1983).
Esse sono cultura, perché sono "sistemi umani che manifestano
modelli complessi di attività culturale". Ciò equivale
a dire che né il modello razionalista, che si esprime nella
metafora dell'organizzazione come macchina, né il modello
naturalista, che si esprime nella metafora dell'organizzazione come
organismo, sono adatti a raffigurare le organizzazioni. Piuttosto,
la metafora suggerita da questa corrente è quella del
cervello. La proprietà del cervello è, secondo Gareth
Morgan (v., 1986), quella di avere una struttura olografica, ossia
ogni sua parte contiene potenzialmente le funzioni dell'intero
organo. In tal modo se un trauma impedisce ad alcune parti del
cervello di funzionare, altre parti potranno subentrare per svolgere
le funzioni prima svolte da quelle lesionate. La metafora del
cervello suggerisce l'idea che le risorse umane presenti in
un'organizzazione abbiano la capacità potenziale di
sostituzioni indefinite. Naturalmente non tutte le organizzazioni
hanno queste potenzialità in pari grado. Sono avvantaggiate
quelle che, non avendo rigide divisioni del lavoro, favoriscono
processi di apprendimento tra i loro membri. La metafora del
cervello suggerisce una rappresentazione delle organizzazioni vicina
a quella di Argyris e Schön (v., 1978), che concepiscono
l'organizzazione come un "costrutto cognitivo", ossia come una
struttura in cui i soggetti non sono soltanto produttori di azione,
ma anche di cambiamento organizzativo. L'apprendimento si afferma
come un atteggiamento generalizzato e continuativo: si apprende ad
apprendere, in modo che la scoperta e la correzione di un errore
divengano oggetto di apprendimento collettivo con la conseguente
modifica della memoria e della mappa cognitiva utilizzata
dall'organizzazione. In questo senso Argyris e Schön propongono
il termine di learning organizations.
8. Le organizzazioni come reti stabili di transazioni
Le teorie fin qui esaminate hanno acquisito che non esiste un
modello organizzativo universale; che le organizzazioni seguono
modelli mutevoli e contingenti; che al loro interno possono
coesistere più identità e più criteri di
azione; che sono giacimenti di cultura e produttrici di cultura. Ma
tutte queste acquisizioni continuano a innestarsi su un assunto che
non è ancora stato messo in discussione, ossia che l'oggetto
dell'analisi organizzativa sono sempre e soltanto singole
organizzazioni, concepite come entità dotate di confini
precisi che le distinguono dal mondo circostante. Inoltre, sebbene
si sia diffusa la consapevolezza che la struttura burocratica
può essere più o meno rigida e sviluppata, permane
l'implicito assunto di origine weberiana (e tayloriana) di una
sostanziale equivalenza tra organizzazione e burocrazia.
Queste assunzioni vengono messe in crisi sul finire degli anni
settanta. La prima sfida proviene dalla cosiddetta teoria dei costi
di transazione, che ha il suo maggiore esponente in Oliver
Williamson (v., 1975; Economic organization..., 1986; The economic
institutions..., 1986). Le imprese, sostiene questa scuola, non
devono più essere viste come una funzione della produzione,
ma piuttosto come strutture di governo (governance). Mentre nella
teoria tradizionale dell'impresa il problema centrale è
l'utilizzazione ottimale delle tecnologie disponibili, nella teoria
dei costi di transazione il problema fondamentale diventa quello di
stipulare contratti (transazioni) convenienti sotto il profilo del
costo e della affidabilità. Di conseguenza, l'unità di
analisi non è più il bene prodotto, come avveniva
nella scuola economica classica, ma diventa la transazione, ossia
qualsiasi forma di contratto che abbia una rilevanza economica per
l'impresa: contratti di lavoro con i dipendenti, contratti con i
fornitori esterni, e anche contratti ibridi che legano stabilmente i
contraenti all'impresa senza trasformarli in dipendenti. L'assetto
interno dell'impresa risulta così definito dall'insieme dei
contratti che essa stipula e dalle conseguenti strutture di governo
per controllarne l'esecuzione.
Queste premesse portano a individuare nell'opzione 'produrre o
comprare' (to make-to buy) il dilemma fondamentale di qualsiasi
impresa economica: conviene di più produrre al proprio
interno un bene o un servizio, oppure conviene di più
acquistarlo già pronto all'esterno? Nel primo caso l'impresa
assume personale da impiegare in base a contratti che prevedono
remunerazione stabile e controllo gerarchico del lavoro svolto. Nel
secondo caso l'impresa acquista beni e servizi sul mercato in base a
criteri di prezzo e di qualità e avrà di conseguenza
un personale interno ridotto. Vi possono però essere anche
soluzioni intermedie, con formule come il franchising o la joint
venture, dove due o più contraenti stipulano contratti
durevoli nel tempo pur rimanendo formalmente indipendenti.
Tutta l'economia dei costi di transazione ruota intorno ai criteri
che stabiliscono la convenienza di una formula piuttosto che di
un'altra. Tale convenienza dipende non solo dai costi di produzione,
ma anche dai costi di transazione, ovvero dai costi richiesti per
far rispettare il contratto. In linea di principio la teoria
stabilisce che in caso di transazioni occasionali, che richiedono
tecnologie generiche e nessuna particolare salvaguardia, la
soluzione ottimale è quella del mercato. Nel caso di
transazioni continuative, che richiedono tecnologie specifiche e
particolari salvaguardie per il rispetto dei contratti, la scelta
ottimale è invece quella di produrre all'interno assumendo
personale. In questo caso al principio della contrattazione sul
mercato si sostituisce il principio della disciplina accettata in
base al contratto di impiego. Infine, nel caso di transazioni
ricorrenti che richiedono alta flessibilità e prestazioni
specifiche, la scelta ottimale è quella dei contratti ibridi,
che danno luogo a reti di contraenti formalmente indipendenti, ma
funzionalmente interconnessi.
La teoria dei costi di transazione si riferisce a un solo tipo di
organizzazioni, quello delle imprese economiche sia private che
pubbliche. Ma le sue innovazioni teoriche hanno conseguenze
importanti per tutta la teoria organizzativa. In primo luogo il
nuovo approccio sancisce il definitivo superamento dell'equivalenza
tra organizzazione e burocrazia. Il concetto di organizzazione
diventa molto più ampio di quello di burocrazia perché
viene a denotare qualsiasi livello stabile di transazione tra
soggetti, individuali o collettivi. Da un lato l'organizzazione non
riguarda più una sola impresa, ma i rapporti tra due o
più imprese (ovvero: anche il mercato per funzionare deve
essere organizzato). Dall'altro lato le imprese stabiliscono al loro
interno degli assetti che non sono soltanto gerarchici ma di
mercato, come ad esempio quando una subunità dell'impresa
vende i suoi prodotti o i suoi servizi ad altre subunità
secondo criteri di concorrenza, con beni e servizi offerti
dall'esterno (ipotesi del mercato interno all'organizzazione). Tutte
queste scelte possono essere ricondotte a un solo modello teorico,
perché il concetto di organizzazione è ridefinito come
una dimensione dotata di due estremi contrapposti, che sono il
mercato e la gerarchia, con tante possibilità intermedie.Una
seconda conseguenza che deriva dalla teoria dei costi di transazione
è l'ingresso nel patrimonio teorico dell'analisi
organizzativa di termini e concetti come 'fiducia' e 'rete'. La
fiducia appare come il prerequisito indispensabile per qualsiasi
tipo di relazione sociale, non solo di natura contrattuale. Con un
ritorno a tematiche simmeliane, l'attenzione viene portata ai
fattori che possono favorire o scoraggiare la crescita della fiducia
in un determinato contesto organizzativo. Ci può essere una
fiducia minima garantita da pure clausole legali, come all'opposto
ci può essere una fiducia massima costruita sulla buona
volontà dei contraenti di fornire il massimo delle loro
prestazioni. Nei rapporti di fiducia il tempo assume un'importanza
determinante: più il tempo scorre in relazioni di mutua
soddisfazione e più la fiducia reciproca tende a crescere (v.
Granovetter, 1985).
A sua volta la rete non è solo l'interconnessione tra
più contraenti, ad esempio un'impresa madre con i suoi
fornitori. Per funzionare una rete richiede il passaggio di
informazioni e strategie collaborative, e queste a loro volta
presuppongono rapporti di fiducia che si sviluppano nel tempo. Di
qui il passo è breve per connettere i problemi della
creazione di fiducia agli stili di leadership adottati nelle
organizzazioni e/o nelle reti di organizzazioni. In linea di
principio, quanto più la leadership è democratica e
partecipativa, tanto più favorevoli sono le condizioni per
far crescere i rapporti di fiducia tra i vari membri.Uno sviluppo
originale delle tematiche connesse ai concetti di fiducia e di rete
organizzativa si ha con William Ouchi (v., 1980), che integra il
modello di Williamson aggiungendo alla gerarchia e al mercato la
forma del clan. Il clan è per Ouchi un modo di governare le
transazioni particolarmente complesso perché presuppone
l'esistenza di valori, credenze e tradizioni comuni, che integrano
le norme di reciprocità richieste dal mercato e dalla
gerarchia. Il clan appare particolarmente idoneo a governare le
transazioni di lungo periodo: la profonda socializzazione comune che
lega tra di loro le varie persone fornisce la necessaria fiducia
reciproca affinché le transazioni che sul breve periodo sono
squilibrate a vantaggio di una parte possano venire riequilibrate in
circostanze successive.
9. Le organizzazioni come unità di 'popolazioni
organizzative'
Negli stessi anni in cui si afferma la teoria dei costi di
transazione, si sviluppa anche un altro approccio profondamente
innovativo nello studio delle organizzazioni, quello rappresentato
dalla cosiddetta 'teoria ecologica' (intendendo per 'ecologico' il
rapporto tra una data popolazione e la nicchia ambientale da cui
detta popolazione trae le risorse per sopravvivere) o delle
'popolazioni organizzative'. Precursore di tale approccio è
Stinchcombe (v. cap. 2), con un articolo scritto negli anni
sessanta. La novità di Stinchcombe consiste nell'assumere
come oggetto di analisi non le singole organizzazioni bensì
intere 'popolazioni' omogenee di organizzazioni, come ad esempio un
insieme di imprese, di scuole, di giornali, di ristoranti e
così via, selezionate in base al fatto di condividere alcuni
tratti essenziali come il tipo di bene o di servizio offerto, il
tipo di pubblico, ecc. (naturalmente i criteri
dell'omogeneità sono stabiliti dal ricercatore in base alle
sue ipotesi di ricerca).
Un approccio di questo genere offre diversi vantaggi. Un primo
vantaggio è che l'analisi non si limita alle unità
esistenti di una data popolazione, ma si estende alle unità
scomparse. A guardar bene, le unità esistenti non sono altro
che quelle sopravvissute a una selezione più o meno ardua,
che colpisce le organizzazioni soprattutto nella fase iniziale della
loro vita. In opposizione all'idea comune secondo cui le
organizzazioni giovani sono quelle più vitali, Stinchcombe
argomenta che proprio su di esse pesa l''onere della novità'.
Fondare nuove organizzazioni è un processo rischioso, che
oltre a tentare vie inesplorate può rompere equilibri e
interessi costituiti e quindi andare incontro a forti opposizioni.
L'approccio ecologico pone quindi un problema nuovo alla ricerca:
quali sono i tratti caratteristici delle organizzazioni che sono
riuscite a sopravvivere rispetto a quelle che hanno dovuto
soccombere?
Un secondo problema che nasce in seno all'approccio ecologico alle
organizzazioni riguarda il rapporto tra società e diffusione
delle organizzazioni: quali sono le società che maggiormente
favoriscono la nascita di nuove organizzazioni e di nuove forme
organizzative? Stinchcombe risponde che la propensione a fondare
nuove organizzazioni si associa in genere ai processi di
modernizzazione, che introducono articolazioni e differenziazioni
nel tessuto sociale. Stinchcombe sottolinea in particolare
l'importanza delle organizzazioni che generano altre organizzazioni,
come ad esempio le grandi imprese, ma anche i vari partiti politici
che svolgono un ruolo egemonico nel processo di modernizzazione di
un dato paese.
Infine è possibile porre in modo nuovo anche il problema
della stratificazione sociale. Questa non riguarda solo gli
individui, ma anche le organizzazioni: ci sono organizzazioni
più o meno prestigiose (si pensi alle scuole e alle
università negli Stati Uniti, e più in generale a
qualsiasi organizzazione in un ambiente competitivo) e di
conseguenza il prestigio e il reddito dei singoli individui non
dipendono solo dalle loro qualità personali, ma anche dal
ranking delle organizzazioni a cui essi appartengono o sono
appartenuti (tipicamente, l'essersi laureato in una
università piuttosto che in un'altra).
Il contributo di Stinchcombe fu estremamente fecondo e favorì
l'affermarsi nella teoria organizzativa di una sorta di
neodarwinismo metodologico. Con questa espressione si intende il
fatto di riconoscere che il mutamento delle organizzazioni non
avviene soltanto mediante l'adattamento delle singole unità
al nuovo che incombe, ma mediante il processo di selezione, che
porta le unità più adatte a sopravvivere, altre a
scomparire e altre ancora a nascere. L'unità di analisi che
consente di cogliere il cambiamento, sostiene la scuola ecologica,
non si trova a livello delle singole unità, ma a livello
delle popolazioni organizzative. Viene così posto l'accento
su tre caratteri delle organizzazioni moderne: esse sono
differenziate, isomorfe ed effimere. Sono differenziate
perché, come nell'evoluzione naturale studiata da Darwin,
ogni popolazione organizzativa deve trovare la nicchia ambientale
più adatta per sopravvivere. Poiché in ogni nicchia le
risorse sono limitate, la differenziazione dalle altre specie
diventa una condizione di sopravvivenza. Allo stesso tempo,
all'interno delle varie nicchie si sviluppano processi di crescente
rassomiglianza (isomorfismo). Poiché sopravvivono solo gli
individui che hanno le caratteristiche più adatte
all'ambiente, il risultato è che i sopravvissuti di una data
specie finiscono selettivamente con l'avere caratteristiche molto
simili. L'isomorfismo che caratterizza tanti aspetti della
società contemporanea viene così visto dai teorici
delle popolazioni organizzative non come un processo di adattamento
passivo delle singole unità, ma come il risultato complessivo
della competizione presente in una società competitiva e
aperta. I più adatti a competere in un ambiente - siano essi
organizzazioni o individui - finiranno inesorabilmente con
l'assomigliarsi.Infine le organizzazioni sono effimere perché
continuamente nascono e muoiono. Uno dei temi che più attrae
gli autori che si ispirano a questa scuola è proprio
l'incessante avvicendamento di nuove forme organizzative che
appaiono e scompaiono (una famosa ricerca di ispirazione ecologista
è stata quella condotta da Hannan e Freeman - v., 1977 - su
oltre mille ristoranti a San Francisco. La domanda di fondo era:
perché la 'natalità-mortalità' dei ristoranti
ha un tasso nettamente più alto di qualsiasi altro tipo di
imprese?). Quello ecologico è un approccio particolarmente
adatto a cogliere il fluire continuo della società
capitalistica moderna - in particolare quella americana - con le sue
mode repentine, la competizione aggressiva, la continua e quasi
spasmodica ricerca del nuovo come mezzo per imporsi, ma anche con
l'immediata imitazione del nuovo che ha successo fino al momento in
cui, intervenendo una precoce saturazione, comincia a perdere
convenienza. Spesso, avverte la teoria ecologica, è
più vantaggioso avviare nuove iniziative in campi del tutto
diversi, piuttosto che cercare di difendere la vecchia iniziativa
ormai in declino.Infine, un altro aspetto della scuola ecologica
è che con essa si torna all'analisi puramente quantitativa
dei flussi di popolazioni, prescindendo dalle intenzioni dei singoli
attori. Ma a differenza delle scuole precedenti, i ricercatori della
scuola ecologica sono consapevoli che il loro è un approccio
non esaustivo, bensì integrativo di quelli centrati
sull'analisi del senso dell'azione.
10. Le organizzazioni come espressione di un quadro istituzionale
Una rassegna dei principali modi di concepire le organizzazioni non
può considerarsi completa se non dedica la dovuta attenzione
alla scuola neoistituzionale. Anche questa scuola - affermatasi
negli anni ottanta e in pieno rigoglio sul finire del secolo -
contribuisce, come la teoria dei costi di transazione e la scuola
ecologica, a una riconsiderazione radicale del modo di vedere le
organizzazioni. La scuola si definisce 'neoistituzionale' in quanto
si rifà all'approccio weberiano che esamina l'influenza che
le grandi istituzioni sociali come lo Stato, la burocrazia, il
capitalismo, esercitano sulle singole istituzioni e sulla condotta
individuale. Tipico oggetto di analisi della scuola neoistituzionale
sono i processi di istituzionalizzazione, vale a dire il sorgere e
l'operare sul lunghissimo periodo di attività socialmente
legittimate e persistenti che caratterizzano l'organizzazione della
vita civile: non singole scuole, ospedali o banche, ma l'evoluzione
nell'arco di alcuni decenni dei sistemi scolastico, sanitario,
bancario e così via; sono alcuni dei temi su cui gli autori
che si riconoscono in questa scuola hanno svolto le loro ricerche.
Questa esemplificazione aiuta a chiarire che un tratto distintivo
della scuola neoistituzionale è quello di assumere come
oggetto di analisi temi che la teoria organizzativa tradizionale non
solo non affrontava, ma non era nemmeno in grado di riconoscere come
possibile campo di ricerca. Mentre infatti gli approcci tradizionali
ponevano in primo piano le singole organizzazioni e lasciavano il
contesto sullo sfondo, l'approccio neoistituzionale capovolge questa
prospettiva, perché pone in primo piano il contesto e
considera le singole organizzazioni come semplici effetti di quel
contesto.
Una conseguenza di questo allargamento del campo d'indagine è
che l'approccio organizzativo tradizionalmente inteso finisce con il
perdere la sua specificità: poiché l'oggetto di
analisi non sono più le singole organizzazioni, ma interi
settori sociali dotati di una capacità organizzativa diffusa,
ne consegue che lo studio delle organizzazioni tende a confluire nel
più generale esame del modo in cui la vita sociale di uno o
più paesi è complessivamente organizzata.
In uno scritto del 1991 Powell e Di Maggio - due dei più noti
autori neoistituzionali - illustrano le ragioni di questa scelta. La
loro tesi è che la società capitalistica ha subito un
profondo cambiamento negli ultimi decenni. Mentre nel passato
l'iniziativa apparteneva ai singoli soggetti, i quali operavano in
un contesto relativamente privo di enti regolativi, oggi si è
sviluppata una società densamente popolata da istituzioni
pubbliche e private, come le agenzie di governo centrale e locale,
le reti di mass media, i centri di diffusione del sapere come scuole
specializzate e società di consulenza, gli organismi di
rappresentanza e di tutela degli interessi e così via. Nel
loro insieme questi enti formano un campo organizzativo, ovvero
un'area riconosciuta di vita istituzionale che svolge
un'ininterrotta opera di normazione e controllo sull'attività
delle singole organizzazioni. La conseguenza è che le
organizzazioni oggi operano in un fitto tessuto di vincoli e di
sostegni, sicché per comprendere le loro scelte di azione
è necessario conoscere innanzitutto il contesto istituzionale
in cui operano. Questo insieme di vincoli e di sostegni attiva
rilevanti processi di isomorfismo. Abbiamo visto che anche la scuola
ecologica ricorre al concetto di isomorfismo, ma il termine viene
usato nelle due scuole in modo sostanzialmente differente. Mentre
per la scuola ecologica l'isomorfismo è il risultato di un
processo di selezione dei più adatti a sopravvivere in un
mondo di risorse scarse, per la scuola neoistituzionale
l'isomorfismo è il risultato delle pressioni a uniformarsi
esercitate sulle singole organizzazioni dall'insieme degli agenti
istituzionali. A differenza della scuola ecologica, che concepisce
l'isomorfismo come il risultato non intenzionale della competizione,
la scuola neoistituzionale vede l'isomorfismo come il risultato
dettato dalla preoccupazione di ottenere legittimazione sociale e
appoggi politici (isomorfismo da adattamento). L'importanza dei
processi di isomorfismo fu messa in luce per la prima volta da John
W. Meyer e Bryan Rowan (v., 1977) in un saggio che si può
considerare come il manifesto della scuola neoistituzionale. Il
punto di partenza è la critica al presupposto della scuola
organizzativa classica secondo cui la struttura formale di una
organizzazione è il modo più efficace di coordinare e
controllare il complesso delle attività che si svolgono al
suo interno. Spesso non sono le singole organizzazioni a darsi
l'assetto che reputano più idoneo, sostengono Meyer e Rowan,
ma sono i contesti istituzionali a definire i criteri di
razionalità a cui le organizzazioni devono attenersi. Questo
assunto conduce a scenari di ricerca totalmente nuovi sulle
pressioni alla conformità che il contesto istituzionale
esercita sulle organizzazioni, nonché sui conflitti che
possono sorgere tra i criteri dettati dall'esterno e i criteri
interni suggeriti dalle specificità dell'organizzazione.
Meyer e Rowan definiscono le pressioni che le potenti istituzioni
esterne esercitano sulle organizzazioni come 'miti razionali',
legittimati dal presupposto di essere razionalmente efficaci per
raggiungere dei fini giudicati auspicabili. Sono ad esempio
istituzioni esterne alla scuola a indicare i criteri e i valori a
cui deve ispirarsi un insegnamento per essere efficace, così
come sono agenti esterni alle imprese quelli che definiscono i
criteri ottimali per organizzare il lavoro. E le scuole, così
come le imprese di beni e di servizi, si adeguano ai criteri diffusi
nella società per ottenere legittimazione e consenso, ma
anche vantaggi tangibili. Un'impresa che abbia adottato le ultime
prescrizioni delle scuole di management, a prescindere dalla reale
efficacia di tali prescrizioni, ha molte più
probabilità di essere avvantaggiata nella concessione di un
prestito bancario rispetto a un'altra impresa meno sensibile ai
dettami della moda.Meyer e Rowan sono consapevoli che l'approccio
neoistituzionale può portare a concepire le organizzazioni
non come entità autonome rispetto all'ambiente, ma come
semplici conseguenze di miti istituzionalizzati che prevalgono nella
società. Essi evitano tuttavia di formulare una conclusione
così radicale perché distinguono tra due tipi di
organizzazioni: il primo tipo non possiede criteri autonomi di
efficienza mentre il secondo li possiede. Mentre le organizzazioni
del primo tipo sopravvivono soprattutto grazie alla capacità
di adeguarsi alle pressioni esterne, quelle del secondo tipo
sopravvivono soprattutto grazie alla capacità di mediare tra
le pressioni esterne alla conformità e la propria esigenza di
autonomia funzionale. Secondo Meyer e Rowan, la tensione tra questi
due criteri costituisce uno dei più interessanti problemi
teorici aperti alla ricerca organizzativa di questi anni.
11. Prospettive di ricerca
Quali ulteriori sviluppi si possono ragionevolmente prevedere nel
campo degli studi organizzativi? Per rispondere a questa domanda
bisogna innanzi tutto prendere atto della svolta avvenuta negli anni
settanta. Fino ad allora esisteva una sostanziale omogeneità
nell'indirizzo degli studi, nel senso che il dibattito che
portò al commiato dal paradigma funzionalista e all'approdo
alla scuola decisionalistica di Simon fino alla teoria delle
contingenze era un dibattito che attraversava l'intera
comunità scientifica. Ma a partire da quegli anni questa
unitarietà si perde. Le diverse scuole di pensiero a cui
abbiamo dedicato l'ultima parte di questo articolo testimoniano che
nel campo degli studi organizzativi è in atto una crescente
differenziazione di interessi e di paradigmi interpretativi, e
ciò porta alla proliferazione di comunità e
sub-comunità scientifiche sempre meno comunicanti tra loro. A
differenza della fase classica degli studi organizzativi, questa
differenziazione non nasce dai differenti tipi di organizzazioni
studiate (ad esempio imprese, ospedali, scuole, ecc.), ma dai
differenti approcci e punti di vista rivolti alla medesima
realtà empirica: ad esempio chi studia con metodo etnografico
i processi cognitivi in atto nei transplants europei di una
multinazionale giapponese ha ben poco da comunicare con chi studia
quei medesimi transplants adottando l'approccio 'ecologico' alle
popolazioni organizzative, e viceversa. La prima risposta alla
domanda sulle prospettive degli studi organizzativi è dunque
quella di una marcata pluralità di interessi di ricerca e di
oggetti di analisi.
Preso atto di questa pluralità, è possibile tuttavia
individuare alcuni temi dotati di una potenzialità
sufficiente per alimentare dibattiti in più di una
comunità scientifica. Uno di questi temi nasce dal fatto che
l'attuale fase di sviluppo del capitalismo nel mondo si presta a due
interpretazioni contrastanti: la prima mette in luce le tendenze
omogeneizzanti dello sviluppo, la seconda insiste sul ruolo
diversificante degli Stati nazionali.
La prima interpretazione è sostenuta dalla corrente di
pensiero che mette a fuoco la novità delle imprese
multinazionali e i conseguenti processi di globalizzazione
produttiva. Ohmae (v., 1990) e Bartlett e Ghoshal (v., 1989) sono
tra i rappresentanti più noti di questa corrente: la loro
tesi fondamentale è che lo sviluppo capitalistico è
entrato in una fase in cui i confini nazionali contano sempre meno,
perché spetta alle imprese multinazionali sia definire il
flusso delle merci e delle risorse a livello mondiale, sia trovare
un equilibrio tra il senso di appartenenza all'impresa e
l'adattamento alle situazioni locali.
L'altra corrente di pensiero mette invece a fuoco la
diversità nazionale dei vari capitalismi e il ruolo che le
istituzioni e le politiche locali svolgono nel formare le
attività economiche. L'approccio neoistituzionale (v. cap.
10) è l'espressione più importante di questa corrente
(v. Whitley, 1991; v. Orrù e altri, 1991), ma non va
trascurato l'importante contributo di Porter (v., 1989) nel pensare
il ruolo delle condizioni nazionali nello sviluppo economico.
Finora la connessione tra le due correnti di pensiero non è
stata tentata. Eppure un collegamento tra i due approcci sarebbe
auspicabile per concettualizzare il rapporto tra imprese
multinazionali e Stati. Come sono organizzate le imprese
multinazionali? Come si ottiene un sufficiente coordinamento tra la
sede centrale e le varie branche autonome? In che misura pesano i
fattori locali e il ruolo dello Stato? Come sottolinea Westney (v.,
1993), la letteratura organizzativa su questi punti è ancora
singolarmente scarsa. È verosimile presumere che, data
l'importanza crescente delle imprese multinazionali nel mondo, si
assista nei prossimi anni a una fioritura di studi su questi temi.