Operai
di Aris Accornero
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1996)
Sommario: 1. Alle origini. 2. Le fasi di una evoluzione. 3.
L'eterogeneità. a) Mobilità. b) Disciplinamento. c)
Condizionamento. d) La classe. 4. L'uniformazione. a) Lavoro. b)
Culture. c) Identità. d) Immagini. 5. La diversificazione. □
Bibliografia.
1. Alle origini
Gli operai, insieme agli industriali, sono i protagonisti del
processo di industrializzazione e costituiscono pertanto uno dei
gruppi fondativi della società industriale. I due soggetti,
espressi dalla coppia 'capitale-lavoro', sono assurti a emblema
delle classi sociali dopo che K. Marx ha descritto quella operaia
come 'tipo ideale' di classe modernamente intesa, anche se non ne ha
dato una definizione compiuta (v. Ossowski, 1963; tr. it., p. 83).
Gli operai sono stati "la prima figura sociale nella storia che non
possedesse uno status definito" (v. Gallino, 1978, p. 486), dal
momento che erano connotati dalla mancanza piuttosto che dalla
presenza di un mestiere. In ciò si distinguevano dai
lavoranti che operavano alle dipendenze della protoindustria, come
minatori, tintori, vetrai o setaioli, e ancor più dai
lavoratori con posizione o professionalità artigiana, come
carpentieri, cappellai, armaioli, fabbri e, naturalmente, tessitori
a mano. Un vocabolo specifico per denominare l'operaio -
nell'Ottocento, 'operajo' - esiste soltanto nelle lingue latine e
viene da operare (dal suo contrario, exoperare, viene in italiano la
parola scioperare) mentre in inglese, in russo e in tedesco si usa
il termine 'lavoratore': worker (nell'Ottocento, labourer), rabocij,
Arbeiter.
La comparsa degli operai si può datare al primissimo
Ottocento. Difficile stabilire la provenienza del nuovo strato il
quale ha poco in comune con il lavorante a domicilio e nulla con il
garzone artigiano. Condizione cruciale, per la sua nascita, fu il
repentino estendersi in Inghilterra e Scozia "dell'organizzazione
razionale capitalistica del lavoro (formalmente) libero" (v. Weber,
1920-1921, p. 96), cioè di forza lavoro salariata, reperita
sul mercato e adibita alle macchine in un factory system che si
allargava a macchia d'olio. Questo processo cominciò con lo
sporadico impiego di individui espulsi dalle campagne dopo la
recinzione dei pascoli, continuò e si rafforzò grazie
all'abolizione (1814) dell'antica norma che garantiva agli
apprendisti la promozione entro la carriera professionale e si
concluse con il massiccio assorbimento dei poveri che, dopo
l'abolizione (1834) della 'legislazione di Speenhamland' (1795),
erano stati privati del sussidio. Secondo tale legislazione,
infatti, gli indigenti avevano diritto a un modesto sussidio, che
veniva erogato dalle parrocchie e periodicamente adeguato al prezzo
del grano; se avessero continuato a percepire tale sostegno, ben
pochi si sarebbero offerti per l'ingrato e pesante lavoro in quei
satanic mills che erano allora le fabbriche.K. Polanyi ci offre un
vivido quadro del processo che rimosse i vincoli alla compravendita
della forza lavoro: la distruzione di un'economia del sussidio e la
costruzione di un'economia di mercato non peggiorarono, a suo
parere, le condizioni della popolazione, proprio perché i
sussidi avevano a lungo mantenuto i salari al livello più
basso. Il passaggio a un'economia di mercato rappresentò
comunque un "urto brutale, una operazione lacerante, una catastrofe
culturale", e al tempo stesso una liberazione. "La classe operaia e
l'economia di mercato apparvero insieme nella storia" (v. Polanyi,
1944; tr. it., pp. 155 e 129). Tale genesi, che consentì la
formazione di una massa di operai e di operaie per la 'grande
industria' (come la chiama Marx nel Capitale), provocò
infatti effetti traumatici sugli assetti delle famiglie e delle
comunità. La ricerca di N.J. Smelser (v., 1959)
sull'industria del cotone nel Lancashire mostra come le famiglie
stesse diventassero i protagonisti di una mobilitazione senza
precedenti, di cui la paga in moneta anziché in natura e
l'impiego di bambini d'ambo i sessi rappresentavano le novità
più dirompenti. Ma anche gli studi di T.K. Hareven (v., 1982)
sul maggior stabilimento tessile del mondo, nel New Hampshire,
confermano che la gestione dell'offerta di lavoro da parte della
famiglia, oltre ad anticipare la socializzazione industriale dei
minori e a facilitare quella degli immigrati, adattò anche i
costumi domestici e i modi di vita alle scansioni temporali e ai
costumi lavorativi dell'industria.
La divisione del lavoro e l'introduzione di macchine resero gli
operai diversi dai lavoranti di manifattura e diversissimi da quelli
a domicilio: mentre questi, secondo Marx, si servono dello
strumento, gli operai sono al servizio della macchina e la
facilità del loro lavoro non li libera da quest'ultimo, ma
sottrae loro il suo contenuto. Questo è il focus di ogni
denuncia sulla spoliazione professionale operata dall'industria
(denunce fra le quali spicca tuttora, nonostante le critiche di vari
storici, quella avanzata dai coniugi J.L. e B. Hammond: v., 1919).
Sembrava logico vederne una prova nelle rivolte 'luddiste' dei
frame-breakers, vale a dire di quegli skilled-labourers che a
più riprese si opposero all'introduzione dei telai meccanici,
giacché questi ultimi invalidavano il mestiere o abbattevano
i guadagni (questa è l'origine, peraltro, delle ricorrenti
accuse di 'resistenza al cambiamento'). Dal momento però che
la maggioranza degli operai non era qualificata - "most of whom are
children", notava nel 1832 un famoso rapporto alla Camera dei Comuni
- le lagnanze sul mestiere perduto diventavano meno efficaci e anche
oggi colpiscono raramente nel segno (v. per tutti Bauman,
1982).Più penetrante ed efficace la denuncia di A. de
Tocqueville (preceduta, del resto, da quella dello stesso A. Smith,
di cui resta paradigmatica la descrizione de
lla lavorazione degli spilli): l'operaio che si specializza
fabbricando un solo pezzo "diventa ogni giorno più abile e
meno capace, e si può dire che in lui l'uomo si degrada via
via che l'operaio si perfeziona" (v. Tocqueville, 1835-1840, p.
573). Da qui vengono i concetti di degradazione e di alienazione.Per
R. Owen, che cercava di umanizzare il lavoro negli stabilimenti di
New Lanark, l'eccessiva divisione del lavoro si traduceva in uno
spreco. Per H. Spencer, il confronto con l'artigiano mostrava che lo
sviluppo industriale era estremamente dannoso per l'operaio. Ma
l'operaio - ha scritto H. De Man (v., 1927; tr. it., pp. 258 ss.) -
non può essere confrontato "con il maestro-artigiano del
Medioevo" né con "il fabbro ferraio del villaggio".Tuttavia
il maggior effetto dell'estrema divisione del lavoro non era questo.
Se la realtà di fabbrica ha tuttora alti costi umani (1056
operai sono morti e 898 mila si sono infortunati nell'industria
italiana durante l'anno 1991: 500 per ogni ora lavorata; cfr. ISTAT,
Annuario statistico, Roma 1993), agli inizi essa era durissima. Non
vi erano mai stati così tanti lavoratori e così tanto
lavoro in così poco spazio, e le officine erano giustamente
chiamate sweat shop. Impressionanti furono le descrizioni che fecero
tre medici - E. Buret, L.R. Villermé e P. Gaskell - e F.
Engels (v., 1845) nella famosa inchiesta sui tessili inglesi; anche
Marx stese nel 1880 un questionario per studiare questi aspetti
sociali. Su questo quadro della condizione operaia si formò
tutto il pensiero socialista e a partire da esso si levarono denunce
che portarono alle prime leggi protettive, per limitare a 10 le ore
di lavoro dei minori.
2. Le fasi di una evoluzione
Gli operai non si sono formati ovunque ricalcando il modello
britannico: l'industrializzazione dell'Estremo Oriente (le newly
industrialized economies), ad esempio, attinge a strati sociali
diversi, anche se con una netta prevalenza di quelli agricoli.
Diverso è il reclutamento anche quando nello stesso paese
l'industria si diffonde in epoche successive a quelle della prima
industrializzazione: le basi sociali rimangono esogene, ma non si
attinge più a strati sottoproletari (per l'Italia v.
Pizzorno, 1960; v. Leonardi, 1964; v. Bagnasco e Trigilia, 1984 e
1985). Quando l'industria si è affermata, il turn-over viene
coperto con l'afflusso di operai reclutati ormai per vie endogene;
quando invece l'occupazione industriale si arresta e, in seguito,
inizia a decrescere, si reclutano sempre meno operai, in genere per
via esogena. (Si consideri in ogni modo che la quota di occupati
nell'industria non è mai arrivata a superare il 40% del
totale: il massimo è stato toccato nell'URSS nel 1960, con il
46,7%; questa quota ha superato invece il 60% in agricoltura e lo
sta superando nei servizi, perché in questi settori si
ottiene maggior produzione soltanto con più occupati).
Nell'evoluzione storica degli operai possono essere distinte tre
fasi principali. Nella prima, che potremmo definire fase
dell'eterogeneità, figure assai disparate per posizione e
provenienza vengono amalgamandosi nel loro ruolo produttivo,
finché si profilano e poi si formano come soggetto sociale,
dando fisionomia al mondo operaio; nella seconda, che potremmo
chiamare fase dell'uniformazione, il gruppo, che si è ormai
definito come 'classe operaia' ed è stato compattato nella
grande fabbrica con la produzione di massa, adotta comportamenti
visibili e riconoscibili; nell'ultima, che potremmo denominare fase
della diversificazione, la fabbrica, ormai 'snella', disperde i
soggetti e de-massifica il processo lavorativo, dando vita a
mansioni più cooperative e skills più personalizzate,
le quali riducono considerevolmente la presenza dei tradizionali
profili professionali, incentrati su mansioni manuali ed esecutive.
3. L'eterogeneità
Il profilo sociale degli operai stentò a emergere dalla
congerie di figure entrate nelle fabbriche dell'Ottocento. Mercati
fluttuanti e approvvigionamenti irregolari rendevano insicuro il
lavoro e instabile il posto. Le nuove produzioni moltiplicavano le
aziende, i settori e le località coinvolti. La diffusione di
officine spostava manodopera mescolando provenienze etniche e
confessioni religiose. Le macchine rendevano il lavoro così
facile che poteva essere eseguito anche da ragazzini d'ambo i sessi,
le cui mani erano infatti considerate insostituibili negli opifici
tessili. Tanti operai tornavano contadini non appena il lavoro
veniva a mancare, restando quasi estranei all'industria (v. Piva,
1991) e difendendo in tal modo le abitudini precedenti (v. Gutman,
1966), mentre altri sentivano il bisogno di una identità
basata sulla 'dignità del lavoro'. Chi aveva un suo mestiere
era già 'rispettabile' (ma non necessariamente 'deferente';
v. Berta, 1983, p. 41), poiché deteneva un potere di mercato;
la categoria cui apparteneva diventava allora una 'aristocrazia
operaia', come era accaduto nel caso dei tipografi. In una
situazione siffatta risultava difficile collocare gli operai in un
unico gruppo: perciò si parlava ancora di 'proletariato',
valendosi quindi di un concetto avulso dalla posizione lavorativa. I
risultati della ricerca svolta in tutta Europa da F. Le Play (1855)
elencano ben sette tipi di 'operai', ma nessuno di loro somiglia al
salariato che vende la propria forza lavoro non disponendo di altre
risorse. Senza la nozione di 'classe operaia', difficilmente gli
operai si sarebbero potuti sentire un soggetto munito di
identità durevole e di un proprio destino.
a) Mobilità
Le file operaie furono alimentate da una mobilità sociale e
territoriale che comportò vari fenomeni di sradicamento. Se
per i più fortunati l'impiego in fabbrica rappresentava
un'ascesa rispetto a una condizione di indigenza, per contadini e
artigiani poveri (a volte buttati sul lastrico proprio
dall'industria) costituiva invece un peggioramento sociale. E se
l'insicurezza rendeva meno pesante quel lavoro per coloro i quali lo
consideravano transitorio, essa lo rendeva ancora più gravoso
per coloro i quali contavano soltanto sul salario (v. Kuczynski,
1967). L'industria richiese inoltre una diffusa mobilità
territoriale.
C'era chi si spostava da un comune all'altro, chi lasciava la
campagna per inurbarsi o per avvicinarsi alle periferie industriali
(orari lunghi e trasporti lenti ostacolavano le trasferte
quotidiane) e chi, infine, migrava all'interno dei confini nazionali
o perfino oltreoceano; gli Stati Uniti si sono industrializzati
grazie a migrazioni così imponenti da far ritenere a Marx
già nel 1852 e a W. Sombart nel 1906 che l'estraneità
alle idee socialiste dipendesse dall'elevata mobilità degli
operai e dai flussi sociali che ne derivavano. Più fortunata
la sorte di chi lavorava in villaggi operai, o 'città del
lavoro', edificati dal paternalismo di industriali illuminati come
R. Owen o A. Rossi.
b) Disciplinamento
Le abitudini di vita degli operai sono state plasmate dal modo di
produzione, il quale era basato sull'intensificazione del lavoro,
dal momento che soltanto così il proprietario dei mezzi di
produzione poteva incrementare il rendimento di quella particolare
merce acquistata 'a tempo' che è la forza lavoro. A tal
proposito vale la pena di ricordare che gli stessi studiosi - i
quali, basandosi sul calo della mortalità e sulla
lievitazione dei redditi, hanno criticato certe drammatiche
descrizioni della condizione operaia (sulla controversia v. ora
Landes, 1993) - non contestano tuttavia le veementi denunce
dell'epoca sull'intensificazione del lavoro. Si afferma in
Industrialism and industrial man: "È tipico
dell'industrializzazione di riconfigurare e di rimodellare la
materia prima umana, qualunque ne sia la fonte"; di conseguenza, "lo
sviluppo di una forza lavoro industriale coinvolge fatalmente la
distruzione dei vecchi modi di vita e di lavoro, nonché
l'adesione ai nuovi imperativi del luogo di lavoro e della
comunità di lavoro industriale". Per cui, "anche se alla fine
la forza lavoro si rivela malleabile, la metamorfosi comporta
generalmente rilevanti conflitti, tensioni, e perfino violenza" (v.
Kerr e altri, 1960; tr. it., p. 242). Sebbene gli effetti possano
essere modulati, il segno che l'industria lascia è forte: "La
moderna officina, con la sua gerarchia amministrativa, la sua
disciplina, il suo incatenare gli operai alla macchina, il suo
immane apparato calcolatore che si estende fino alla più
elementare operazione compiuta dall'operaio, esercita sugli uomini e
sul loro stile di vita degli effetti di vasta portata" (v. Weber,
1908-1909, pp. 118-119). Questo ordine della moderna industria
deriva: I) dalle macchine; II) dalle modalità; III) dai
tempi; IV) dalle regole.
I) Con il macchinismo si ottiene "che gli uomini rinunzino alle loro
disordinate abitudini di lavoro e si identifichino con l'uniforme
regolarità dell'automa composto da varie persone" (v. Ure,
1832; tr. it., p. 68). Nota Marx in proposito (v., 1867-1894; tr.
it., p. 130): «La subordinazione tecnica dell'operaio
all'andamento uniforme di prezzi di lavoro e la peculiare
composizione del corpo lavorativo, fatto di individui d'ambo i sessi
e di diversissimi gradi di età, creano una disciplina da
caserma».
II) La divisione del lavoro ridisegna i movimenti e rimodella il
gesto del lavoratore con movenze o posture così 'impersonali'
che "il lavoratore perde perfino il dominio della sua
fisicità" (v. Briefs, 1931; tr. it., p. 95). Taluni organi e
facoltà vengono sollecitati mentre altri restano
sottoutilizzati, con il pericolo di atrofie e di distrofie; le
operaie rischiano deformità per i figli. Tutti effetti che
sono molto gravi se manca un'ergonomia delle macchine e dei posti di
lavoro, un'attenzione per lo sforzo psicofisico (negli stabilimenti
giapponesi tali effetti, per esempio, vengono contrastati con
esercizi di ginnastica durante le pause).
III) I tempi delle comunità sono scanditi da sistemi orari
che sincronizzano il calendario, svincolano la notte dal giorno
mediante turni avvicendati, ed esigono una puntualità senza
precedenti il cui simbolo è la scheda timbrata all'inizio del
lavoro. Questa regolarità diventa un imperativo che liquida
discontinuità stagionali e festività consuetudinarie
tipiche della società preindustriale (ad esempio,
l'abitudine, rimasta a lungo inestirpata, di celebrare San
Lunedì; v. Thompson, 1963).
IV) I regolamenti di fabbrica impongono una disciplina rigorosa
mediante norme che prevedono tipologie di infrazioni (ritardi,
scarti, assenze, danneggiamenti, conciliaboli, ubriachezze,
insubordinazioni, ecc.) e di sanzioni - multa, sospensione e
licenziamento - tuttora presenti nei contratti di lavoro: "il
sistema di fabbrica tendeva ad aumentare la tensione e la disciplina
nello svolgimento del lavoro" (v. Ware, 1924, p. 106). Queste
costrizioni pesano maggiormente ove mancano le abitudini lavorative
che l'industria rende 'naturali': basta paragonare il Giappone agli
altri paesi emergenti dell'Asia.
c) Condizionamento
Inculcare nelle abitudini degli operai la laboriosità
richiese sforzi di persuasione lungo tutto l'Ottocento: era arduo
fondare un costume operaio che fosse il corrispettivo delle
virtù puritane (v. Leroy, 1911). La morale
dell'operosità fu insegnata nelle scuole serali come
requisito per il mestiere e propagandata attraverso diversi
'canali': dai sermoni domenicali in chiesa agli esempi edificanti
sulle gazzette, dalle fiabe dei cantastorie alle massime popolari
sugli almanacchi, sino a una serie di proverbi (emblematico quello
sulla cicala e la formica). Formidabile divulgatore, in questo
ambito, fu B. Franklin. Si sviluppò una letteratura
agiografica sul buon padrone e sul bravo lavoratore: il Portafoglio
dell'operaio di C. Cantù lodava nel 1873 l'attitudine al
risparmio perché ... la parsimonia produce capitale. Ma
l'esempio veniva da S. Smiles, il cui Vangelo del lavoro venne
imitato ovunque. Agli operai si raccomandava di fare il proprio
dovere e di stare al proprio posto, ma non mancava l'incitamento a
fare da sé: un libro di M. Lessona aveva per titolo Volere
è potere. Non mancavano neppure richiami alla continenza
intrisi di umori vittoriani e malthusiani.
d) La classe
Il concetto di classe operaia, che Marx fa derivare dai rapporti di
proprietà, ebbe un effetto socialmente e politicamente
accomunante: a questo soggetto il Manifesto dei comunisti affidava
infatti un compito storico inscritto nelle 'leggi' stesse della
società capitalistica, in virtù delle quali si poteva
prevedere un suo impoverimento sia relativo che assoluto, data la
subordinazione, lo sfruttamento e l'estraniazione in cui esso si
trovava (di 'alienazione' Marx parla soltanto nei manoscritti
giovanili). Una profezia invero fatale, visto che le conquiste
stesse degli operai potevano contrastare tale esito e perfino
capovolgerlo, pur non intaccando il rapporto salariale
capitalistico. D'altro canto, riposava su una siffatta previsione la
certezza che gli operai, spinti dai meccanismi stessi del sistema e
affrancandosi dalle rivendicazioni meramente economiche, avrebbero
liberato l'umanità insieme a se stessi espropriando in tal
modo gli 'espropriatori'. Gli operai crearono abbastanza presto
forme associative per tutelare i propri interessi e affermare la
propria identità; i primi sodalizi, in Italia, furono le
'casse di resistenza' e le società di mutuo soccorso (in
altri paesi unions o Bund) basate sul settore, sul mestiere o sulla
comunità. Di solito si trattava di constituencies nate per
protestare contro i tagli alle paghe o per gestire i posti sul
mercato, ma soprattutto di forme di solidarietà primaria. Si
voleva ridurre il senso di insicurezza, sia nei confronti del lavoro
che del domani; la stabilità del posto e sul posto era la
certezza sociale cui si mirava, così importante che S.
Perlman fa risalire lo spirito del sindacalismo a quella coscienza
del posto (job consciousness) nella quale si esprimerebbe la
'psicologia della scarsità' caratteristica dell'operaio.
È appunto il sindacato ("organizzazione operaia per
eccellenza": v. Halbwachs, 1938; tr. it., p. 98) che dopo la
metà dell'Ottocento, ancor prima di avere ottenuto un
riconoscimento statuale, cominciò a farsi portavoce delle
rivendicazioni del lavoro operaio, mettendo radici ovunque
sorgessero industrie, mediante forme di rappresentanza,
modalità associative e pratiche di tutela tali da attrarre
simpatie e da suscitare preoccupazioni (v. Baglioni, 1967). Un
impulso considerevole venne nel 1864 dalla fondazione
dell'Associazione internazionale degli operai la quale si proponeva
di unire quest'ultimi come classe 'generale', capace di guardare
oltre le frontiere ed emancipare il lavoro.
Altre organizzazioni operaie (come il Partito operaio, nato a Milano
nel 1880) si formarono con una impronta più marcatamente
politica, anche per reclamare leggi sociali a favore del lavoro. La
rivendicazione della giornata di 8 ore, avanzata ufficialmente nel
1866, e la festa del Primo maggio, celebrata sanguinosamente a
Chicago nel 1886, diventarono i simboli di quello che in seguito
verrà definito 'movimento operaio'. Ma allo scoppio della
prima guerra mondiale il richiamo della nazione risulterà
più forte di quello della classe, come ha dimostrato B. Moore
confrontando il comportamento dei siderurgici e dei minatori
tedeschi. I rapporti fra organizzazioni sindacali e politiche
seguirono schemi diversi: secondo i socialdemocratici tedeschi,
l'azione economica era elementare e pertanto doveva essere
subordinata a quella politica, più matura; i laburisti
inglesi, viceversa, erano stati semplicemente partoriti dal
sindacato, visto che la working class aveva bisogno di una sponda in
parlamento. L'azione organizzata si svolse quasi tutta attraverso
questa coppia di strumenti; chi preferì l''azione diretta'
scelse forme di sindacalismo 'rivoluzionario', oppure 'puro e
semplice' (v. Dolléans, 1936). Ma con lo svilupparsi di tali
fenomeni siamo oltre la fase dell'eterogeneità ed entriamo
ormai in quella dell'uniformazione.
4. L'uniformazione
Con il Novecento gli operai cominciano ad acquisire un profilo che
li rende una componente cospicua nella struttura sociale
occidentale. La loro importanza cresce con lo sforzo bellico della
prima guerra mondiale, che segna l'ingresso in fabbrica di molte
donne. La massa degli operai è stratificata su 4 o 5 livelli
di qualifica ed è previsto un rito di passaggio - la prova
del 'capolavoro' - per la promozione ai livelli più alti. Per
gli apprendisti vi sono corsi interni. Gli operai sono muniti di un
libretto di lavoro, assicurati sia contro gli infortuni e le
malattie professionali che contro la disoccupazione, domiciliati nei
quartieri operai e associati in sindacati industriali; alcuni
vengono da scuole professionali o sono iscritti a corsi serali.
Questo insieme di conquiste furono il frutto di lotte sociali a
volte acute: tutti indossano ormai il vestito da lavoro che
diventerà via via la tuta blu. L'identità operaia
comincia quindi a divenire oggetto d'indagine. Weber progetta una
ricerca sulla grande industria, al fine di determinare: a) quale
influenza esercita "sull'indole personale, il destino professionale
e lo 'stile di vita' extra-professionale dei propri operai"; b)
"quali qualità fisiche e psichiche sviluppa in loro, e come
queste qualità si manifestano nella condotta di vita globale
dei lavoratori"; c) quali "qualità 'caratteriologiche' della
classe operaia" potranno emergerne (v. Weber, 1908-1909, pp. 67 e
78; la psico-tecnica era invero ancora rudimentale). Nel resoconto
dell'inchiesta, svolta in un'officina tessile, Weber mette in luce
come il lavoro possa plasmare capacità e atteggiamenti e
sottolinea altresì come gli operai sappiano valutare
l'entità delle prestazioni richieste e reagire, quando le
ritengono eccessive, con il cosiddetto 'frenaggio' (la restriction
of output o rallentamento per autodifesa sarà appunto un
Leitmotiv di Taylor).
Anche T. Veblen si chiede quale sia "l'effetto disciplinante" della
spinta "verso la standardizzazione e l'uniformità meccanica",
ma non ritiene che essa abbassi l'intelligenza dell'operaio: "Senza
dubbio è più vero il contrario", afferma Veblen, dal
momento che l'intelligenza "richiesta e inculcata dall'industria
meccanizzata" esige "una disciplina severa e insistente, ed una cura
attenta e costante", che si estrinsecano "in termini uniformi di
precisione quantitativa" e di "abituale ricorso a termini misurabili
di causa ed effetto". Tenendo conto inoltre che "la macchina rifiuta
gli abiti mentali antropomorfici", nell'operaio non possono
allignare la mentalità 'consuetudinaria' o il fideismo delle
plebi, né può venirne un "deterioramento od
obnubilamento della sua intelligenza" (v. Veblen, 1904, pp.
239-243). Il lavoro meccanico instilla anzi esattezza e logica:
è per questo motivo che l'industria si è imposta
all'immaginazione e che molti nuclei operai ne risentono la
dominanza culturale (secondo F.W. Taylor, ciò ha delle
ripercussioni positive, peraltro, sulla famiglia e sulle altre
attività).
È un'antropologia positiva che lo stesso G. Friedmann (v.,
1968, pp. 38-41) condivide scrivendo che l'attività dell'uomo
"ne risulta modificata talmente in profondità che non ci
sorprende se i suoi modi di sentire e di pensare risultano
altrettanto mutati": si passa "dal vitale al razionale". È la
tesi del lavoro industriale come 'geometria' e non più come
'labor', quale lo vedeva S. Weil prima dell'esperienza di fabbrica;
e della fabbrica come 'cemento per la ribellione', quale la videro
P. Gobetti e A. Gramsci ispirandosi agli operai torinesi.
a) Lavoro
Nel noto schema tecnico-professionale di A. Touraine, il lavoro
operaio segue l'evoluzione delle macchine operatrici: fase A,
universali e multiuso; fase B, specializzate e monouso; fase C,
automatizzate o transfer. Ma le novità destinate a
influenzare profondamente l'erogazione di lavoro nel Novecento non
provengono dal macchinario. Il punto di partenza sta
nell'osservazione fatta da Taylor durante il suo tirocinio
d'officina: chi lavora a mano fa a modo suo, non perché sia
così abile da imprimere il proprio 'tocco' al lavoro svolto,
ma perché nessuno gli dice come fare; qualche raro consiglio
lo danno i capi, ma ogni capo dà i propri consigli, e
così ci sono tantissime maniere di eseguire la medesima
operazione. Occorre invece che la direzione analizzi in modo
scientifico tempi e movimenti di tutte le operazioni, insegnando poi
a ogni singolo operaio come deve procedere, visto che per ognuna vi
è un solo metodo ottimale: the one best way. Questo
intervento sul lavoro mediante lo scientific management è una
rivoluzione in fabbrica (v. Nelson, 1975) perché determina
con esattezza quanto si può pretendere da quegli operai che
non sono vincolati alla velocità della macchina, per cui li
si può soltanto spronare ad andare più in fretta
(speed as a skill, si diceva). A complemento di questa rivoluzione
c'è il passo compiuto da H. Ford (v., 1923; tr. it., p. 96):
i tempi degli assemblaggi manuali sono segnati da apparati di
convogliamento che portano "il lavoro agli operai, e non gli operai
al lavoro". Ford supera e invera Taylor. Analizza il lavoro, ma non
per insegnare a ciascun operaio il metodo migliore, bensì per
mettere tutti in condizione di rendere al massimo: "imparano la loro
bisogna in poche ore o in pochi giorni" (ibid., p. 95). La
necessità di pensare viene ridotta, i movimenti superflui
evitati: lo scopo ultimo è che l'operaio faccia una cosa sola
con un solo movimento. Vengono così resi adatti alla
produzione di serie gli operai non qualificati e gli immigrati, ai
quali viene insegnato l'inglese nel cortile. Il controllo e la
saturazione del lavoro fanno un salto qualitativo, ed è
appunto questo aspetto che C. Chaplin ha messo in luce in Tempi
moderni: l'esito intrinsecamente autoritario del lavoro industriale
standardizzato. Ma per molti operai "il lavoro non è contro
natura, né hanno l'impressione di una violenza all'umana
natura" (v. Halbwachs, 1938; tr. it., p. 89): molte denunce dei
'regimi di fabbrica' si riferiscono infatti a oppressioni
antisindacali o a discriminazioni politiche.
Dopo la grande crisi del '29, che crea milioni di disoccupati, il
modello 'taylor-fordista' - produzione di massa mediante prestazioni
standardizzate - diventa dominante. Anche se gli addetti ai montaggi
sono una minoranza rispetto agli addetti alle macchine (e nonostante
l'alta professionalità degli addetti ad aggiustaggi e
manutenzioni) quei requisiti improntano tutto il secolo.
Sicché è il lavoro comune che viene studiato. Fatica,
stress e 'problemi umani' dell'industria, quali monotonia e
assenteismo, sono oggetto di ricerche fin dagli anni venti, anche
perché frenano la produttività (v. Mayo, 1933; v.
Friedmann, 1947). Osservando l'operaio alla catena di montaggio,
C.R. Walker e R.H. Guest mostrano come ci si adatta alla
ripetitività nelle mansioni che richiedono soltanto
un'attenzione mentale in superficie, mentre A.W. Kornhauser (v.,
1965) rileva i nessi fra lavoro di serie e 'salute mentale'. Si
studiano anche motivazioni e soddisfazione nel lavoro (v. Herzberg,
1968). Ben scarsa attenzione vien data ai problemi delle operaie,
salvo nei settori tessile e alimentare, dove la loro presenza
è elevata: il taylor-fordismo sembra aver 'mascolinizzato' il
lavoro.Il rendimento è spronato dai sistemi di cottimo che
provocano a volte forme di resistenza (famosa, in questo ambito una
lotta alla Renault), perché legano il guadagno allo sforzo
mediante congegni che incentivano la competizione fra operai, tale
da minarne anche la solidarietà. Gli addetti al controllo
cronometrico del rendimento vengono pertanto detestati e non poche
astuzie vengono escogitate per impedire loro di 'tagliare' i tempi
(non a caso il fascismo, in cerca di popolarità, fece
sospendere alla FIAT l'odiato cottimo Bedaux). I sindacati cercano
di rendere più trasparenti e meno iugulatori i meccanismi
delle 'tariffe' e, in genere, frenano le spinte a divaricare i
differenziali salariali, spinte che vengono dagli operai più
qualificati, mentre gli operai comuni e i manovali vorrebbero
appiattirli. Si creano mercati del lavoro diversi: mentre gli operai
comuni sono assunti in blocchi, quelli provetti sono selezionati in
base alle referenze. Ogni paese cerca con la formazione
professionale di adeguare le skills presenti sul mercato del lavoro
a quelle 'domandate' dal sistema produttivo, anche attraverso
l'istituto del collocamento pubblico.
b) Culture
Il potenziale uniformante dell'industria non è tale da
rendere uguali gli operai, ma piuttosto da amalgamarli entro
specifiche 'culture del lavoro', determinate essenzialmente da
quattro fattori: il prodotto, la cui merceologia e la cui scala
determinano il tipo di lavoro; le tecnologie, che definiscono
l'organizzazione e l'intensità del lavoro; l'impresa, dalla
cui conduzione e dalla cui forza dipende il rapporto con i
lavoratori; la località, che influenza il grado di
solidarietà e di integrazione comunitaria. Lavorare nel ramo
chimico o edile; con macchine automatiche, o con attrezzature a
mano, oppure al terminale; in una fabbrica di piccole dimensioni
oppure alla Chrysler; in una metropoli terziaria emergente o in una
cittadina industriale tradizionale: tutto ciò lascia tracce
sui valori e sulle tradizioni. Si formano comunità
occupazionali che influenzano la struttura della famiglia, sia
socializzando al lavoro i componenti, sia contribuendo alla
formazione delle reti parentali attraverso i matrimoni (v. Pahl,
1984; v. Gribaudi, 1987). Dentro città-fabbrica come sono
state Detroit-Ford, Essen-Krupp, Eindhoven-Philips, Zlin-Bat'a e
Torino-FIAT, o fortezze operaie tipo Renault e Pirelli, o periferie
industriali come quelle di Genova e di Milano, si formano subculture
professionali che funzionano da modelli cognitivi, e che mantengono
un'elevata cogenza dove vi sono monoculture industriali, come nella
cosiddetta 'terza Italia' (scarponi, calze, pistole, fisarmoniche,
piastrelle, posate, salotti, occhiali, ecc.). Nei quartieri operai,
queste culture rendono più forte l'omogeneità ma anche
l'isolamento; se poi si tratta di quartieri connotati etnicamente,
allora l'isolamento tende a trasformarsi in una condizione di
separatezza (v. Gans, 1962; v. Shostak e Gomberg, 1964; v. Kornblum,
1974).
Le culture del lavoro si basano sulla consapevolezza di svolgere un
lavoro produttivo: è questa caratteristica che dà
valore ai messaggi emancipativi di tipo socialista. Dal momento che
per Marx è produttivo solamente il lavoro che produce
capitale, da un lato "è una gran disgrazia essere un
lavoratore produttivo", perché si produce ricchezza per altri
(v. Marx, 1956; tr. it., p. 367), ma dall'altro lato è un
motivo di fierezza. Essere produttivi è legittimante come per
gli industriali essere operosi (v. Bendix, 1956). Gobetti e Gramsci
si riferiscono appunto alla dignità, alla coscienza e alla
morale del 'produttore'. De Man (v. 1927; tr. it., p. 278) fa notare
che "l'operaio vuole rimanere produttore, perché sarebbe
troppo infelice se fosse soltanto venditore di forza lavoro". Questa
natura produttiva ha innervato l'ideologia e l'etica del lavoro del
movimento operaio, ha sostenuto l'epopea costruttivista nell'URSS
(il cui Annuario statistico separava gli addetti alla produzione da
quelli dei comparti 'non produttivi'), è stata usata per la
militarizzazione del lavoro in Germania e del dopolavoro in Italia.
La sua simbologia, esibita nelle sfilate, attingeva a quella
corporativa del craft e faceva diventare un segno di distinzione sia
la manualità che le mani sporche: così la gerarchia
sociale era rovesciata. Infatti la barriera più invisa era
quella che proteggeva il lavoro e il colletto puliti dell'impiegato
mediante l'ingresso separato, la mensa riservata e lo stipendio
fisso. Occasioni per riaffermare l'orgoglio del produttore furono in
Italia le occupazioni di fabbrica 'per la produzione', come nei casi
delle Reggiane e dell'ILVA, e il 'piano del lavoro' della CGIL (v.
Melossi e altri, 1977; v. Micheli, 1981).
Si è così alimentata una cultura operaia che ha
fornito le basi morali alla solidarietà di classe (specie
nelle più antiche comunità industriali, quelle
minerarie: v. Dennis e altri, 1956; v. Seidman e altri, 1958),
grazie a relazioni informali stabili di tipo primario e a una sia
pur scarsa partecipazione associativa esterna, che privilegia
l'attività sportiva e ricreativa, a volte quella sindacale,
più raramente quella politica. Lo racconta
autobiograficamente R. Hoggart (v., 1959), con chiaroscuri
tipicamente britannici. Per quanto variegata, la cultura operaia
è connotata da un netto sentimento di alterità sociale
che, espresso dalla dicotomia 'noi-voi', rende più acutamente
percepibile la deprivazione e l'ingiustizia (v. Runciman, 1966; v.
Bulmer, 1975), anche se talvolta può accompagnarsi a
comportamenti elettorali 'incoerenti' (v. Nordlinger, 1967; v.
Urbani e Weber, 1984). Cruciale è la sensazione di dipendenza
da cui viene l'originaria minorità del soggetto operaio
rispetto alle ruling classes e rispetto al partner, ossia
all'industriale. Gli intellettuali che, come i coniugi Webb, si
schieravano con gli operai, fornivano appunto strumenti capaci di
instaurare rapporti meno squilibrati con la controparte e la
società. Il making degli operai come classe, da quando nel
1848 l'ouvrier A. Corbon parla all'Assemblea nazionale francese a
quando nel 1919 i bolscevichi instaurano in Russia la 'dittatura del
proletariato', è il tentativo di superare la disparità
che vi è fra uguaglianza legale sul mercato e dipendenza
tecnica sul lavoro. È questo che fa alternare l'antagonismo e
la deferenza, la sufficienza e la subalternità, e che
mantiene sempre viva la competizione con l'avversario. Si potrebbe
forse affermare che la 'minorità' della classe operaia viene
'compensata', psicologicamente, considerando le organizzazioni
operaie e le loro teorie superiori a quelle dell'avversario.
È una sorta di 'complesso di Davide' che ha ovviamente
nuociuto alla determinazione realistica delle prospettive della
classe operaia, illudendola attraverso strategie basate
sull'autosufficienza (consiliare od operaista, alla K. Korsch o alla
A. Pannekoek). L'esperienza sovietica mostra che gli operai non sono
riusciti a essere una ruling class pur costituendo un modello
sociale alternativo.Questa cultura ha influenzato, fino ai limiti
del mito, tutto un costume operaio, ma è progressivamente
erosa via via che il baricentro dell'esistenza si sposta, anche per
la riduzione degli orari di lavoro, dalla 'fabbrica' alla
'società'. La realtà operaia assume nuove fisionomie
(che aprono, peraltro, inediti campi di ricerca): in primo luogo, il
lavoro produttivo non costituisce più un interesse centrale
di vita (v. Dubin, 1956); in secondo luogo, per l'operaio il 'sogno
americano' difficilmente diviene realtà (v. Chinoy, 1955).
Appare quindi sempre più opportuno affrontare la tematica
della vita operaia 'fuori dal lavoro' (v. Gordon e Klopov, 1976). Le
testimonianze sul lavoro quotidiano diventano molto più
polemiche di quelle del passato (v. Vallini, 1957; v. Hamper, 1992).
A un certo punto il rapporto di influenza tra cultura operaia e
società si inverte a favore di quest'ultima e si assiste alla
progressiva trasformazione del costume operaio, sia negli aspetti
più esteriori, come quello dell'abbigliamento, sia negli
aspetti più sostanziali, come l'interesse verso la politica
(v. Mantelli e Revelli, 1975). In un quadro siffatto la
fedeltà a taluni stereotipi tradizionali viene a volte pagata
con sconfitte 'eroiche' (v. Golden, 1989).
c) Identità
Perché in fabbrica la cooperazione si rompe e di quando in
quando gli operai passano al conflitto entrando in sciopero? Marx,
Briefs e Dahrendorf sottolineano come la cooperazione e il conflitto
non possano che convivere; del resto, nel quotidiano, danno consenso
alla produzione anche quegli operai che in talune occasioni
rifiutano il sistema. La cooperazione è più stabile,
ovviamente, se vi è consenso. Quest'ultimo può essere
di tre tipi: a) quello 'manifatturiero', che M. Burawoy, dopo
un'esperienza operaia, descrive come un "gioco della produzione" in
cui l'operaio si autocoinvolge nel meccanismo della produzione e
sfida se stesso sull'output; b) quello 'aziendalistico', che
proviene da una dedizione al lavoro alimentata dall'ésprit de
corp interclassista, di cui sono esempio la grande fabbrica
giapponese e la piccola fabbrica non autoritaria; c) quello
'comunitario', che industriali illuminati ottengono quando radicano
sul territorio le proprie politiche sociali, o distribuiscono azioni
gratuite ai dipendenti. In assenza di queste condizioni, l'intreccio
di ruoli professionali e gerarchici, di lavoro e di dominio, sul
quale si regge la cooperazione produttiva quotidiana nel sistema
sociale dell'impresa, può dare luogo a discontinuità
che a volte generano scioperi. Lo mostrano i due casi, ormai
classici, di Yankee City e di Oscar Center. Nel primo il cambiamento
tecnologico aveva diviso il lavoro, abbassandone la qualificazione e
aumentando la supervisione e la subordinazione, il che danneggiava
quegli operai che "portavano camicia e cravatta sotto i grembiuli"
(v. Lloyd Warner e Low, 1947, p. 133), appiattendone le retribuzioni
e facendo crollare il loro status. Nel secondo, il cambiamento di
ben tre direttori aveva burocratizzato i rapporti con gli operai,
mettendo fine a quell'uso indulgente e a quell'applicazione elastica
delle norme da cui veniva la loro collaborazione: nacque così
lo sciopero a gatto selvaggio, cioè a sorpresa (v. Gouldner,
1954; tr. it., p. 216). In ambedue i casi un equilibrio sociale era
saltato e il conflitto originava da una protesta ben prima che da
una rivendicazione.
Lo sciopero è probabilmente la più tipica forma
espressiva degli operai. Le modalità, le motivazioni e le
propensioni alla lotta hanno costituito, specie dopo il 1968-1969,
oggetto di studio e di ricerca. Lo sciopero è un
comportamento dal quale l'orientamento di classe può essere
desunto forse meglio che dall'analisi degli atteggiamenti (v.
Pizzorno e altri, 1978), ma può anche essere una mera
manifestazione di 'protesta operaia'. Per sapere come e
perché gli operai si fanno una certa idea della
società, si è preferito pertanto partire dal lavoro
che essi svolgono. Studiando le relazioni fra lavoro e
identità, si è tentato anche di spiegare come si forma
la coscienza di classe, cioè quell'insieme di convinzioni e
di aspirazioni che rendono coeso un gruppo sociale, il quale
è già accomunato dalle condizioni economico-sociali.
L'intenso progresso tecnologico degli anni cinquanta ha stimolato
ricerche tese a capire come ciò influenzasse la
professionalità degli operai e, per questa via, i loro
atteggiamenti (secondo Touraine - v., 1966; tr. it., p. 29 - "gli
atteggiamenti nel lavoro sono attributi del sistema sociale
più che degli individui"). Ma facendo dipendere la
professionalità dalla tecnologia e gli atteggiamenti dalla
professionalità, si rischia di far dipendere dalla tecnologia
anche la coscienza di classe. E se non porta a nulla - dice Touraine
- "affermare che la coscienza di classe è naturalmente
presente nello spirito di ogni operaio" (ibid., p. 365), attribuire
alla tecnologia un peso esplicativo soverchiante (il determinismo
tecnologico) comporta tali rischi che Pizzorno propone di scartare
tutte quelle spiegazioni "che implicano lo sviluppo tecnologico
inteso unilinearmente" (v. Pizzorno e altri, 1978, p. 11). I rischi
sono ben illustrati da quel che P. Naville e S. Mallet ricavarono da
uno studio approfondito circa le conseguenze professionali del
progresso tecnologico nei processi a ciclo continuo, dove pareva
incipiente la nascita di una "nuova classe operaia". Secondo
Naville, la maggiore professionalità avrebbe reso gli operai
più conflittuali e il conflitto più radicale; secondo
Mallet, la maggiore professionalità li avrebbe viceversa
spinti a chiedere una partecipazione attiva alle scelte gestionali,
sia in consonanza sia in alternativa a quelle dell'imprenditore. A
parità di effetti, le tecnologie avrebbero mutato insomma i
comportamenti operai in senso diametralmente opposto. Dello stesso
periodo è la ricerca di R. Blauner (v., 1964; tr. it., p.
231) sui livelli di alienazione in quattro industrie, la più
avanzata delle quali (quella chimica) avrebbe creato
l'operatore-conduttore, la cui figura era "assimilata a quella della
nuova classe media". Ma ci si chiese anche se era possibile che il
progresso tecnico modificasse quel che Geiger (v., 1949; tr. it., p.
136) ha chiamato "il lato psichico del rapporto di classe", e venne
suggerito di individuare nel frattempo le "fonti di variazione delle
immagini di classe" (v. Paci, 1969).
Una ricerca-pilota fu effettuata in Germania da H. Popitz, H.P.
Bahrdt, E.A. Jures e H. Kesting partendo dall'ipotesi che il
progresso tecnologico potesse attenuare fra gli operai la
tradizionale visione dicotomica delle classi. Risultò invece
che essa persisteva, derivando da immagini dell'ordine sociale
riconducibili alla consapevolezza: 1) della prestazione
(identificarsi attraverso il lavoro); 2) del comune destino
(appartenere a un gruppo solidale); 3) dell'antagonismo (opporsi a
chi sta dall'altra parte). I tre ingredienti costitutivi connotavano
la coscienza del produttore, quella collettiva e quella dicotomica.
Il grosso degli operai vedeva la divisione delle classi come una
realtà che esiste e che va contrattata, oppure come un
destino collettivo ineluttabile. Una visione aperta quindi al
compromesso sociale e un'altra segnata da intransigenza e
rassegnazione, ambedue ereditate dalla tradizione proletaria (v.
Przeworski, 1985).Touraine (v., 1966, p. 67) studiò "le
trasformazioni della coscienza operaia legate alla trasformazione
del lavoro" con una ricerca su sette industrie tecnologicamente
diverse, pur avvertendo che "non è bene spingere troppo
avanti il parallelismo fra l'evoluzione professionale e l'evoluzione
della coscienza operaia", individuata come "il tipo di analisi
sociale con cui, definendo se stesso come sfruttato da parte del
capitalista, [l'operaio] afferma che la società è
dominata da questo antagonismo fondamentale" (pp. 365368).
Costitutivi sarebbero i principî di identità,
opposizione e totalità, rispettivamente basati su un'immagine
dell'operaio come: 1) individuo produttore; 2) attore sociale in
rapporto con l'altro da sé; 3) soggetto storico conscio del
sistema sociale e dei rapporti di potere. Il modello fa poi risalire
a tali principî i diversi aspetti che segnano le fasi della
coscienza: quella tradizionalmente proletaria, al principio di
identità dato dal lavoro; quella di classe, politicizzata, al
principio di opposizione, o di antagonismo; e quella operaia,
matura, al principio di totalità, cioè a una visione
globale dei rapporti sociali. Così che, "se l'edile possiede
un principio di identità più che un principio di
opposizione, il minatore si trova nella situazione opposta" (p. 88).
Pur ripetendo che "gli atteggiamenti operai non sono direttamente
determinati dalle situazioni di lavoro", Touraine istituisce una
connessione fra fase A e principio di identità, fase B e
principio di opposizione , fase C e principio di totalità.
Non senza qualche risultato ambiguo, la ricerca mostra uno "sviluppo
diseguale della coscienza antagonistica", come nota B. Manghi
nell'Introduzione al volume di Touraine (p. 17).
Gli approcci 'tecnologici', sia alla coscienza di classe che al
radicalismo operaio, passarono poi al severo vaglio delle due
ricerche comparate condotte da D. Gallie (v., 1978 e 1983), il quale
evidenziò quanti fraintendimenti venissero dal trascurare il
contesto locale o nazionale, specie per quanto riguarda le
subculture sociopolitiche e le forme dell'organizzazione operaia.
Del resto, sono proprio queste le variabili che possono dar conto
dei differenziali di conflittualità fra paesi diversi, i
quali non possono venire spiegati a sufficienza nei termini della
strike propensity di settore (v. Kornhauser e altri, 1954).In un
vasto studio svolto nel 1980, le preferenze degli operai e degli
impiegati FIAT verso tre modelli di relazioni fra lavoratori e
imprenditore - collaborative, conflittuali e antagonistiche -
mostrarono dei 'tipi' sociali nettamente diversi e con un'alta
coerenza interna, ben correlati a significative variabili di
condizione e di opinione, e distribuiti in proporzioni tali da
sfatare le letture ideologiche sulle fonti di variazione della
coscienza di classe (v. Accornero e altri, 1985). Utile anche il
procedimento usato in una estesa ricerca sui lavoratori
dell'industria (v. De Masi e altri, 1985) che 'descriveva' la
coscienza operaia filtrandola mediante una sequenza coerente di
atteggiamenti e di comportamenti.
Altri studi furono dedicati agli effetti del benessere, che pareva
provocare "un affievolimento della coscienza di classe" degli operai
(v. Geiger, 1949; tr. it., p. 154) e fare declinare "il senso di
appartenenza alla propria classe" (v. Zweig, 1960, p. 170). Oltre
alla lievitazione del tenore di vita e dei modelli di consumo,
c'erano l'urbanizzazione e l'esposizione ai mass media e, nelle
fabbriche, l'alleviamento della fatica e le human relations, che
tendevano a depotenziare i conflitti. Le conquiste stesse degli
operai, migliorandone la posizione sociale, favorivano la loro
integrazione e ne riducevano la separatezza, con la conseguenza di
modificarne gli atteggiamenti sociopolitici (v. Bell, 1956). Che
fosse in atto un qualche imborghesimento pareva confermato dalle
ripetute disfatte elettorali dei laburisti inglesi. Perciò
J.H. Goldthorpe, D. Lockwood, F. Bechofer e J. Platt si misero alla
ricerca dell'affluent worker e scelsero un centro industriale con
manodopera giovane, immigrata da poco, ben pagata da imprese con
tecnologie e con relazioni sindacali avanzate, coniugata, munita di
comforts domestici e quasi priva di tradizioni operaie. Furono usati
anche questionari per le famiglie e per i colletti bianchi.
L'ipotesi era che gli stili operai cambiassero, non perché
stessero cambiando il livello del reddito o la situazione di lavoro,
ma perché stavano cambiando gli orientamenti verso il lavoro
e verso.l'occupazione. Si notò che gli operai, specie i meno
qualificati, tendevano a vedere nel lavoro niente più di uno
strumento "in vista di finalità che sono estrinseche alla
situazione di lavoro" (v. Goldthorpe e altri, 1968-1969; tr. it., p.
57). Del tutto inedito era il profilo di un operaio 'strumentale' e
con mentalità pecuniaria - il privatized worker - non ancora
emerso dagli studi sul lavoro nella produzione di massa, sebbene
fosse un tipo sociale in crescita. Con la definizione di
'strumentale' si intendeva qualificare un atteggiamento
caratterizzato da un familismo pronunciato (che include anche
elevate aspirazioni per i figli), da un certo 'uso' del sindacato e
dalla ricerca di soddisfazioni economiche. Era un operaio senza
interessi per la limitazione delle nascite o per la partecipazione a
clubs, che mandava i figli negli istituti tecnici restando diverso
dall'impiegato ed esibendo il tipico tradizionalismo operaio,
tant'è che continuava a votare per i laburisti. E questo suo
strumentalismo presentava relazioni lineari con la qualifica. La
tabella mostra la distribuzione percentuale degli interpellati
secondo la collocazione professionale (discendente verso destra) e
il livello di 'strumentalismo'.
d) Immagini
Rispetto a tante figure di industriali celebri, gli operai hanno
avuto ben pochi esponenti famosi, che quasi sempre debbono la
propria ascesa sociale alla militanza sindacale o politica. In
questa "leadership di origine proletaria" - come l'ha definita R.
Michels - spiccano sindacalisti come S. Gompers, fondatore e per 40
anni capo dell'AFL americana, K. Legien che diresse la potente ADGB
tedesca firmando l'accordo del 1919 sulla 'comunità di
lavoro' e M.P. Tomskij, primo autorevole segretario dei sindacati
sovietici. Fra i dirigenti politici si possono citare A. Bebel,
massimo esponente della socialdemocrazia tedesca, e M. Thorez,
segretario del Partito Comunista Francese. Alcuni operai sono
diventati deputati: il primo di quella che sarà una lunga
serie fu il minatore K. Hardie, eletto in Gran Bretagna nel 1894.
Ebbero notorietà personaggi come l'infaticabile e patriottica
agitatrice sindacale americana M. (Mother) Jones; come l'italiano G.
Parodi, che guidò l'occupazione degli stabilimenti FIAT nel
1920; o come il sovietico A. Stachanov, che inventò una
specie di taylorismo dal basso. Dirigenti d'estrazione operaia come
l'italiano G. Germanetto o il britannico W. Gallagher diedero, nelle
loro autobiografie, testimonianze genuine sulle lotte e sulla
classe.Il fatto è che la posizione sociale degli operai
è rimasta per lungo tempo marginale, perfino misconosciuta
(v. Halbwachs, 1938; v. Meacham, 1977; v. Gennaro, 1977),
finché non cominciò quella lenta ascesa che con il
Novecento li condusse dapprima a un riconoscimento, quindi a una
legittimazione e infine a una vera e propria cittadinanza, dovuta
soprattutto all'azione del sindacato. L'unica cospicua eccezione fu
l'esperienza sovietica: un sistema basato sull'ideologia del
comunismo che in 70 anni costruì una scala sociale la quale
accordava un netto privilegio materiale, oltre che simbolico, al
lavoro manual-industriale (v. Di Leo, 1973 e 1977; v. Fitzpatrick,
1992). Una retorica delle 'mani callose' con tratti antiborghesi e
antintellettuali fu usata anche dal regime fascista e da quello
nazista, ma nell'ambito di politiche sociali ben altrimenti
orientate (v. Mason, 1977; v. Sapelli, 1979-1980). In Italia,
l'affermazione piena degli operai come classe si è avuta solo
negli anni settanta, al culmine di un ciclo di lotte che ne rese
massima la visibilità: si parlò infatti, a sinistra,
di 'centralità operaia'. Nell'ambito della satira figurativa
nacquero anche personaggi che divennero ben presto emblematici, come
Gasparazzo e come Cipputi, il cui precedente è Andy Capp,
esponente del proletariato inglese "dei finali di coppa e delle
friggitorie", antiretorico e scansafatiche (v. Hobsbawm, 1984, pp.
203 ss.).
L'immagine degli operai come classe si è definita meglio dove
l'impegno politico-sindacale delle avanguardie
politico-professionali ha fatto emergere una coscienza di classe che
ripagava le aspettative degli intellettuali; ma si è formata
anche là dove gli operai non hanno esibito atteggiamenti e
comportamenti conformi al modello della classe 'per sé', come
negli Stati Uniti (v. Balbo, 1967; v. Fagiolo, 1980). Il
compattamento ideale degli operai è risultato meno agevole di
quanto socialisti, comunisti e intellettuali simpatizzanti
prevedessero, anche perché il movimento operaio si
interrogava raramente su cosa gli operai pensassero; da qui talune
sorprese quando il miglioramento nel tenore e negli stili di vita
indebolirono la forza di certe tradizioni come i cortei del Primo
maggio. L'immagine degli operai come soggetto si è invece
definita attraverso l'equivalenza fra il loro lavoro e quello
manuale tout court, soprattutto da quando la tuta diventò 'il
vestito da lavoro' (tipica l'immagine americana dell'hard hat, che
simboleggia gli operai perché quel copricapo anti-infortuni
denota ogni tipo di lavoro manuale). Si ha pertanto l'impressione
che, con il calo degli operai, cali tutto il lavoro manuale, mentre
invece continua la crescita del lavoro nei servizi. L'immagine
impallidisce anche per la marginalizzazione della fabbrica
tradizionale (che diventa oggetto di archeologia industriale o
scenario per altri usi, anche artistici) ormai sostituita da anonimi
parallelepipedi colorati.L'operaio come personaggio è
comparso fin dal primo Ottocento nel romanzo sociale (C. Dickens, T.
Hardy, E. Zola, V. Hugo, E. Hauptmann), come pure nella letteratura
edificante (C. Elizabeth, H. Martineau, F. Trollope); lo stesso B.
Disraeli schizzò nell'operaia Sybil la protagonista
(moderata) di una delle due classi, ovvero two nations. Più
degli operai di fabbrica, hanno attratto l'attenzione i minatori:
oltre allo Zola di Germinale, si possono ricordare A. Seghers, A.
Llewellyn e J.A. Cronin, ma anche G. Orwell e D.H. Lawrence. Alcuni
scrittori sono stati essi stessi operai: H. Swados, A. Sillitoe, L.
Davì, M. van Der Grun, A. Hailey. Testimonianze preziose
sugli operai si debbono a intellettuali che hanno voluto fare
un'esperienza di fabbrica: S. Weil, G. Navel, D. Mothé, D.
Linhart, M. Haradtzy, H. Braverman.Nella letteratura vi è una
evoluzione di profili. Spariscono del tutto figure come Metello - il
personaggio di V. Pratolini che portava il berretto, la giacca corta
e un fagottello con il cibo -, o come quelle tratteggiate da C.
Bernari in Tre operai. Sono ormai superati gli operai di produzione
di Sillitoe, Sabato sera domenica mattina, di Davì,
Gimkana-cross, e di O. Ottieri, Tempi stretti, mentre stanno
invecchiando gli addetti ai montaggi descritti da Swados, Alla
catena, e da P. Volponi, Memoriale. Dimenticati infine i
protagonisti negativi comparsi con l'operaio-massa e contrapposti ai
ritratti a tutto tondo (si confronti Vogliamo tutto di N. Balestrini
con Una vita operaia di G. Manzini). Ormai l'operaio sfila perfino
nei cortei sindacali con tute che hanno vari colori e fogge, mangia
alla mensa e porta un casco giallo, anche se non sempre riesce a
unire il know-how individuale e l'alta tecnologia, come ci riesce
Faussone in La chiave a stella di P. Levi; capita anzi che si
interroghi proprio sull'essere operaio, come fa A. Pennacchi in
Mammuth. Immagini genuine del lavorare in fabbrica sono nel volume
giornalistico di R. Balzer (v., 1976), mentre una bella
ricostruzione fotografica sugli operai italiani è stata
curata da U. Lucas e altri (v. AA.VV., 1981).
5. La diversificazione
Giunto al culmine con gli anni settanta, il modello taylor-fordista
entra in crisi. Lo shock petrolifero del 1973, che sembra mettere a
repentaglio l'approvvigionamento energetico mondiale, ha l'inatteso
effetto di evidenziare debolezze prima mai emerse nella struttura
produttiva e nel sistema industriale dell'Occidente, a cominciare
dalle diseconomie e dalle rigidità tipiche delle grandi
dimensioni. Le maggiori imprese scoprono che il perseguimento
accanito delle 'economie di scala' e la rigida separazione fra chi
dirige e chi esegue comportano ormai cospicui sovraccosti, dovuti
alla eccessiva centralizzazione e burocratizzazione; il sovraccarico
gerarchico fa diminuire i vantaggi stessi della divisione del
lavoro. Molte aziende europee e statunitensi impiegano troppo tempo
a rinnovare i prodotti, ad apportare modifiche alle lavorazioni,
perfino a reagire ai mercati. La loro manodopera, in prevalenza
dequalificata, deresponsabilizzata e demotivata, diventa sempre meno
governabile. Riprende forza pertanto la teoria della 'degradazione',
con la tesi di un deskilling ormai generalizzato (v. Braverman,
1974; v. Coriat, 1979; v. Wood, 1982). Sta di fatto che molti operai
della 'catena' si rivoltano, il che spinge il governo degli Stati
Uniti a promuovere l'inchiesta Work in America.
Dal momento che di questi mali non sembrano soffrire le imprese
giapponesi, la crisi del modello taylorfordista viene inizialmente
affrontata come un confronto competitivo con il 'toyotismo', che
pare aver conciliato, da un lato, mass production e prodotti
diversificati, e dall'altro tecnologie 'frugali' e coinvolgimento
operaio. Senonché è proprio dall'Occidente - in
ispecie da zone diventate famose come la Silicon Valley, il
Baden-Württenberg, il Rhône-Alpes e, non ultimo, il
Nord-Est dell'Italia - che emergono poi modelli di produzione i
quali paiono suscettibili di superare il taylor-fordismo:
l'organizzazione 'a rete', la 'specializzazione flessibile', il
lavoro 'per team'. Le imprese si decentrano, diventando snelle e
acquistando un'elasticità operativa che consente a ognuna di
trovare soluzioni appropriate (non c'è più soltanto
one best way), così da affrontare immediatamente le
discontinuità nel flusso produttivo, anziché
tamponarle con le scorte e con organici ridondanti. Per gli operai
queste innovazioni non sono prive di ambiguità: da un lato le
mansioni vengono demassificate e ricomposte, mentre il lavoro vivo
viene frequentemente sostituito con lavoro morto; dall'altro
l'impresa chiede una cooperazione che sembra andare al di là
della prestazione (v. Sabel, 1982; v. Kern e Schumann, 1984; v.
Tolliday e Zeitlin, 1986; v. Wood, 1989).
Intanto la percentuale degli operai sugli occupati diminuisce per
effetto della 'terziarizzazione', e la loro dispersione spaziale
pare dissolverli, anche se ciò è dovuto al ridursi
delle dimensioni aziendali. Le grandi città dell'industria
non sono più viste come tali, mentre nelle zone di declino
industriale vi è malessere e perdita di radici. Si riduce la
visibilità sociale della fabbrica e degli operai, nelle cui
lotte s'incuneano modalità inusuali, caratteristiche del
'terziario'. Nelle fabbriche, le funzioni di servizio diventano
ormai più importanti delle funzioni di produzione e il ruolo
dell'industria si fa meno centrale, pur restando il perno della
competizione economica. Mentre nel Lontano Oriente le fabbriche e
gli operai stanno diventando portanti per economie come quella
cinese, ci si chiede se per l'Occidente industrializzato si profila
un futuro post- o neo-industriale.Si accorcia la permanenza media in
azienda, e diventa raro il 'mestiere a vita', cosicché
itinerari e percorsi individuali si fanno variegati. Il destino
operaio cessa quasi del tutto di diventare un vettore di promozione
sociale. Mentre i genitori operai desiderano che i figli non seguano
la loro strada, questi hanno nuove opportunità perché
non c'è più un tragitto professionale predestinato;
d'altra parte, questa mancanza di vincoli li costringe a trovare
personalmente una via al mestiere e al futuro. Le famiglie operaie
possono scegliere il futuro dei figli, ma soffrono di doverlo
scegliere, perché talvolta ciò comporta un'uscita
dalla classe.Linotypisti, minatori, portuali e navalmeccanici,
insieme alle loro comunità di mestiere, sono stati resi
obsoleti, ma occupazioni nuove sono state create in settori come la
telematica, la robotica, l'energia, la logistica, l'ambiente, la
stampa stessa. Si affacciano figure inedite di operaio:
l'integratore di sistemi, l'operatore di processo. Parecchi non
intervengono se non per controllare o guidare, e i loro linguaggi si
tecnicizzano a spese degli idiomi di mestiere: anche se molte
mansioni tradizionali persistono, sembra sul punto di inverarsi il
mito dell''operaio in camice bianco'. Con le tecnologie
informatiche, diminuiscono le mansioni manuali e performative,
mentre crescono quelle di tipo cognitivo e relazionale. E mentre in
tutta l'industria cresce il lavoro non manuale rispetto a quello
manuale, quest'ultimo cresce nei servizi, specie nei trasporti, dove
si moltiplicano le figure di tipo operaio. Inoltre, la fatica nel
lavoro viene progressivamente abbattuta al punto da far ritenere
possibile un aumento del consenso in fabbrica (v. Bonazzi, 1993).
Il lavoro torna ad avere statuti diversificati rispetto a quando la
prestazione era temporalmente definita e il rapporto temporalmente
indefinito, e i sistemi di garanzia riducevano l'insicurezza per via
contrattual-legislativa. Agli operai gli imprenditori chiedono
qualità e partecipazione, cioè una cooperazione
intelligente. È una rivoluzione che può modificare le
relazioni sociali nell'impresa e che 'pluralizza' le forme e i
significati del lavoro. Sorgono teorie che, pronosticando la fine
degli operai, danno un 'addio' alla classe (v. Gorz, 1980; v.
Antoniazzi, 1984; v. Lerner, 1988; v. Revelli, 1989). E tuttavia il
miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita che ha reso meno
acuti i contrasti e i conflitti, non pare aver dissolto
completamente l'antagonismo né annullato i motivi di
alterità.