Norme e sanzioni sociali
di Vincenzo Ferrari
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1996)
Sommario: 1. Norme, sanzioni e azione sociale: a) definizione
generale di 'norma' o 'regola'; b) 'normalità' e
'regolarità'; c) autonomia ed eteronomia; d) norme non
vincolanti e vincolanti; e) il rinforzo sanzionatorio delle norme;
f) i riferimenti normativi dell'azione e dell'interazione sociale;
g) l'azione sociale come fatto comunicativo: le norme come messaggi;
h) univocità ed equivocità delle norme; i) il problema
dell'autoreferenzialità e dell'autoproduzione dei sistemi
normativi. 2. Classificazioni delle norme: a) norme vincolanti e non
vincolanti: ulteriori precisazioni; b) norme costitutive e norme
regolative; c) norme di uso, di costume, della moda, della morale,
della tecnica, del diritto; d) norme consuetudinarie e norme
statuite; e) norme scritte e norme non scritte; f) norme generali e
norme individuali; g) norme 'di condotta' e norme 'di competenza'.
3. Classificazioni delle sanzioni: a) sanzioni negative e sanzioni
positive; b) sanzioni repressive e sanzioni restitutive; c) sanzioni
istituzionali e sanzioni non istituzionali; d) sanzioni escludenti e
sanzioni includenti; e) sanzioni individuali e sanzioni collettive;
f) sanzioni applicate centralmente e sanzioni applicate
perifericamente. 4. I sistemi normativi: a) sistemi normativi
statici e sistemi normativi dinamici; b) sistemi normativi totali e
sistemi normativi parziali; c) il sistema giuridico. 5. L'efficacia
delle norme e delle sanzioni: a) relatività del concetto di
efficacia delle norme; b) efficacia variabile anche delle norme
più chiare; c) la 'curva della prevenzione'; d) norme e
legittimazione dell'azione; e) norme e controllo sociale. □
Bibliografia.
1. Norme, sanzioni e azione sociale
a) Definizione generale di 'norma' o 'regola'
La parola italiana norma (corrispondente all'omonima parola latina),
come i suoi corrispondenti in altre lingue indoeuropee (il francese
norme, l'inglese norm, il tedesco Norm, lo spagnolo norma e via
dicendo), non ha un significato univoco. Ad esempio, il Dictionnaire
encyclopédique de théorie et de sociologie du droit
dedica al termine norme quattro voci, rispettivamente generale,
antropologico-giuridica, sociologico-giuridica e teorico-giuridica.
Nella voce generale, poi, il termine viene ricondotto a quattro
diversi campi semantici, e così definito da Michel Troper e
Danielle Loschak (v., 1993², p. 399): "1. Enunciato imperativo
o prescrittivo appartenente a un ordine o sistema normativo, e
obbligatorio entro questo sistema; 2. Significato prescrittivo di un
enunciato, di qualunque forma sia, e in generale di qualsiasi azione
umana, riferito a un certo ordine o sistema normativo; 3. Strumento
di misura concernente lo svolgersi del corso delle cose, di
carattere puramente psichico (Amselek); 4. Modello o standard, non
sempre obbligatorio, cui ci si può conformare nella
realizzazione di un'operazione tecnica (per esempio: le norme
predisposte dalle associazioni professionali per la produzione o la
presentazione di un prodotto)".
Benché diverse, le accezioni correnti di 'norma' hanno
tuttavia qualcosa in comune.
Analizzando, per esempio, i quattro significati appena riportati si
può osservare che la distinzione fra il primo e il secondo,
corretta sul piano semiotico e ben consolidata (v. Orestano, 1988),
può essere ricondotta a unità: in entrambi i casi
siamo di fronte a un enunciato prescrittivo o interpretabile in
senso prescrittivo. Nel quarto significato si perde il carattere
dell'obbligatorietà, esplicito nel primo e implicito nel
secondo, ma si mantiene quello, lato sensu, della
prescrittività. Un modello che può essere seguito
è pur sempre una guida di un corso di azioni: ovvero non
descrive, ma, senza imporre, pur sempre raccomanda o consiglia quel
corso di azioni. Il terzo (prescindendo, per semplicità, dal
riferimento al 'carattere psichico' della misurazione, tratto da
Amselek e registrato nella definizione sopra riportata) è
apparentemente lontano dagli altri, ma in realtà ricalca
l'origine etimologica comune a tutti. Infatti il significato
originario di norma, in latino, è 'squadra' cioè uno
strumento di misura. Ebbene, anche se ciò che viene misurato
non è un oggetto inanimato o un evento meccanico, ma
un'azione umana, la misura di quell'azione si connette al suo
modello: il metronomo del pianista è al contempo misura
quantitativa e guida o modello - cioè norma - del ritmo entro
cui il suono è prodotto.
Una parentela semantica, sebbene non etimologica in senso stretto,
si riscontra fra la parola di origine latina norma e la parola greca
νόμοϚ, che designa non soltanto la legge o l'uso, ma anche -
corrispondendo al verbo νέμω, 'ripartire regolarmente' - la 'retta
distribuzione' secondo una predeterminata misura distributiva. In
effetti le due parole, latina e greca, con i relativi derivati, sono
penetrate con significati pressoché simili nel vocabolario
tecnico delle scienze umane, in particolare giuridiche, proprio
delle lingue moderne: si pensi alla corrispondenza fra le parole
italiane 'anormale' e 'anomalo'.
In tutti i casi, pertanto, le varie accezioni di 'norma' fanno
riferimento all'idea della corrispondenza fra un oggetto, o evento,
o azione, e un modello predefinito. Se si tratta di un'azione (o
comportamento) - com'è il caso nel presente articolo - per
'norma' si può dunque intendere la guida dell'azione (v.
Scarpelli, 1985²), ovvero il modello predefinito cui l'azione
a) di fatto si uniforma, ovvero b) può, ovvero c) deve
uniformarsi. Naturalmente va segnalata la differenza che pur sempre
sussiste fra queste tre variazioni definitorie: nel caso sub a) il
concetto di norma viene usato nel contesto di espressioni
enunciative; nel caso sub b), a seconda che 'può' esprima
possibilità o opportunità, viene usato nel contesto di
proposizioni modali o di proposizioni deontiche; nel caso sub c),
pur nella varietà di accezioni dell'espressione 'deve', viene
usato comunque nel contesto di proposizioni deontiche (v. Di
Bernardo, 1972). L'uso di 'norma' in funzione deontica nel senso
ampio del termine (che va dall'opportunità alla
doverosità) è quello più ricorrente, ma non
l'unico, nel campo delle scienze sociali.In quanto modello
dell'azione, la norma non ne è solo una guida, ma ne è
altresì uno schema interpretativo in base al quale l'azione
stessa viene definita, sia da chi agisce, sia, eventualmente, da chi
vi partecipa o vi assiste. Essa quindi orienta l'azione e al
contempo le conferisce un senso, che può essere più o
meno condiviso e oggettivo (v. Di Bernardo, 1983). Come osserva
Kelsen, il fatto che alcune persone presenti in un'aula restino in
piedi e altre rimangano sedute acquista un senso in relazione alla
norma (giuridica) che stabilisce che attraverso quei gesti una legge
viene votata in quel consesso, a sua volta denominato 'parlamento'
normativamente (v. Kelsen, 1934; tr. it., p. 26).
Come la norma orienta e conferisce senso, così la mancanza di
riferimenti normativi, o anomia, concetto centrale in sociologia (v.
Durkheim, 1897; v. Merton, 1949), dis-orienta e rende l'azione priva
di senso.
Talora la parola 'norma' viene usata quale sinonimo di regola,
anch'essa di origine latina (regula, corrispondente al verbo
regere); talaltra, soprattutto nel linguaggio filosofico, ne viene
distinta: per esempio la regola viene ritenuta il genus e la norma
la species (così nel secondo significato individuato nella
voce Règle del Dictionnaire citato: v. Wróblewski,
1993²); ovvero si adotta la norma come genus e la regola come
species (v. von Wright, 1963). Problemi nascono anche dalla
difficile trasposizione dei termini da una lingua all'altra: la
parola italiana 'norma', nel suo significato più strettamente
giuridico, viene meglio tradotta in inglese con rule, letteralmente
regola, che non con norm. Tuttavia, quanto meno nelle scienze
sociali, appare raccomandabile adottare i due termini quali
sinonimi, come avviene non solo nel linguaggio comune (da cui la
scienza deve bensì distaccarsi, ma non troppo), ma anche,
spesso, nel linguaggio filosofico-giuridico e sociologico-giuridico
(ad esempio v. Bobbio, 1993; v. Pocar, 1988; v. Wróblewski,
1993²).
b) 'Normalità' e 'regolarità'
Le due parole 'norma' e 'regola' rinviano ai concetti di
norma-lità e regola-rità, di grande rilievo nelle
scienze umane e, tuttavia, alquanto ambigui.
Per 'normalità comportamentale' s'intende a volte 'un
comportamento ideale' cui è auspicabile si rapportino i
comportamenti concreti; altre volte, e più spesso, "il
comportamento che si osserva con maggior frequenza in una
popolazione esposta a una data situazione" (v. Gallino, 1983²,
p. 478). Conseguentemente, e simmetricamente, viene definito
'anormale', a seconda dei due significati, il comportamento che non
si uniforma all'ideale, ovvero il comportamento che non si uniforma
a quello tenuto da una maggioranza statisticamente individuabile. Il
riferimento a una o più norme, in entrambi i significati
dell'espressione, benché implicito, è relegato sullo
sfondo e talvolta sfuma.Per 'regolarità comportamentale'
s'intende a volte il comportamento che si uniforma a regole, altre
volte il comportamento che si ripete uniformemente e prevedibilmente
nel tempo. Conseguentemente, e simmetricamente, viene definito
'irregolare', a seconda dei due significati, il comportamento che
trasgredisce a regole, ovvero il comportamento che mantiene un
andamento incostante e imprevedibile. Il richiamo alle regole
è qui evidente nel primo caso, molto meno nel secondo.
Dalla varietà di accezioni in cui compaiono le parole in
questione nascono non solo discorsi (comuni o specializzati) di
diversa natura, ma altresì equivoci, che vanno messi in
rilievo.
Per esempio, al concetto di 'normalità' viene spesso
contrapposto il concetto, centrale in sociologia del diritto e in
criminologia, di 'devianza', senza precisare se con tale termine si
intenda designare il distacco comportamentale da una norma
individuabile, ovvero dalla 'normalità ideale' (suggerita da
un codice normativo), ovvero ancora dalla 'normalità
statistica'. Conseguentemente, le teorie della devianza sono spesso
incorse in ambiguità e, soprattutto, si sono opposte
artificiosamente l'una all'altra perché adottavano,
più o meno inconsapevolmente, significati diversi di
'normalità' e di 'devianza' nello stesso contesto o
significati uguali in contesti diversi.Riguardo al concetto di
regolarità, la confusione fra comportamento regolare in
quanto aderente a regole (cioè 'regolato') e comportamento
regolare in quanto costantemente e uniformemente osservato
può portare a fraintendimenti nell'osservazione di
interazioni sociali concrete. È noto l'esempio di Alf Ross
che, per preparare la strada alla definizione di 'diritto valido',
sottolinea che se un osservatore esterno naïf volesse desumere
le regole degli scacchi dalla mera osservazione di due giocatori
all'opera, sarebbe indotto a confondere le regole del gioco, che lo
rendono non solo possibile ma pensabile, con le regole della
tattica, cui i giocatori si attengono 'regolarmente' per vincere la
partita: per esempio sarebbe indotto a pensare che "è contro
le regole aprire [di] torre" (v. Ross, 1958; tr. it., p. 16).
Tali pericoli di confusione semantica vanno denunciati, peraltro,
non già per eliminare questi termini dal linguaggio delle
scienze sociali, ma al contrario per rafforzarne, mediante
chiarimenti analitici, la potenzialità euristica. Il titolo
La maggioranza deviante (v. Basaglia e Basaglia Ongaro, 1971),
palesemente un ossimoro se per 'devianza' si intenda lo scostamento
dal comportamento della maggioranza statistica, acquista una sua
esplicatività (e una notevole forza icastica) ove si
specifichi che per 'devianza' si intende qui lo scostamento dai
parametri normativi imposti da una minoranza dominante. Il concetto
di regolarità comportamentale, anche nel senso di ripetizione
uniforme di condotte, può rivelarsi molto utile per la
ricostruzione empirica di un sistema normativo. In una
società che non produca norme scritte - come rilevano gli
antropologi - le norme socialmente rispettate non possono che
indursi dall'osservazione di certe uniformità
comportamentali: ma solo un chiarimento definitorio preliminare,
linguistico e teorico, può permettere di individuare il punto
di passaggio, talvolta quasi impercettibile, fra le regole seguite
per abitudine e quelle seguite perché ritenute obbligatorie.
c) Autonomia ed eteronomia
'Autonomia' significa facoltà di darsi delle norme cui
uniformare i propri comportamenti; 'eteronomia' significa ricevere
tali norme dall'esterno, in particolare da soggetti che detengano, o
ritengano di detenere, potere normativo.È questa una
distinzione classica e molto importante. In filosofia morale e
giuridica il binomio autonomia-eteronomia è stato spesso
adottato come criterio decisivo per distinguere fra morale e
diritto: secondo Kant la norma morale promana dalla coscienza di
ognuno e possiede un motivo assoluto e categorico (il dovere per il
dovere), mentre la norma giuridica promana dall'esterno e possiede
un motivo empirico nonché ipotetico e strumentale (il mezzo
per il fine: v. Kant, 1785 e 1797). In filosofia politica, e in
scienza politica, un concetto centrale è quello di
autodeterminazione, cioè di autonomia normativa appartenente
di fatto o di diritto a popolazioni identificabili, che sono libere
da interferenze esterne o rivendicano tale libertà.Anche su
questi concetti è opportuno compiere precisazioni analitiche.
Nella sociologia, specialmente di ispirazione marxista, è
stato messo sovente in luce il carattere sociale, 'appreso' o
'imposto', quindi non autonomo, della morale, o quanto meno di
particolari sistemi o precetti morali. In filosofia del diritto,
anche autori di ispirazione kantiana, come Hans Kelsen (v., 1934),
mettono in discussione la possibilità di adottare la
distinzione fra autonomia ed eteronomia come criterio per
distinguere fra diritto e morale, osservando per esempio che
esistono forme di diritto autonomo, come il negozio giuridico e in
particolare il contratto. Il concetto di autodeterminazione,
cioè di autonomia normativa di un popolo, può apparire
contraddittorio con l'idea che il diritto di quel popolo sia, nella
prospettiva kantiana, per natura eteronomo, cioè imposto
dall'esterno, per esempio da un legislatore.Ancora una volta
è evidente che le stesse parole vengono usate per designare
concetti diversi o rapportandosi a contesti diversi. Il fatto che la
morale di un popolo consti di norme nate da bisogni concreti
avvertiti dalla generalità o da gruppi specifici, trasmesse
socialmente e mutevoli nel tempo, può condurre a definirla
eteronoma se si considera il processo formativo e, soprattutto,
interpretativo e comunicativo di tali norme; ma non impedisce che
sia definita autonoma, se ci si concentra invece sul processo di
interiorizzazione, accettazione e obbedienza 'convinta' dei membri
di quel popolo. Il contratto è una forma di autonomia
normativa se si considerano i contraenti insieme, come un unicum; se
invece si considerano i contraenti separatamente e si analizza
l'interazione contrattuale, ipotizzando, ad esempio in chiave
utilitaristica, che ciascuno tenda a massimizzare il proprio
interesse, si può ritenere che esso sia il frutto di
reciproche opposizioni e concessioni, cioè eteronomo.
Altrettanto dicasi per l'autodeterminazione di un popolo: si
tratterà di autonomia se si considererà quel popolo
come un'unità in contrapposizione ad altri popoli e, invece,
di eteronomia se si considererà quel popolo nelle sue
articolazioni e le sue norme appariranno come frutto di un negoziato
fra i suoi singoli membri o di imposizione.
d) Norme non vincolanti e vincolanti
Come accennato all'inizio, al concetto di norma si associa
frequentemente, benché non necessariamente, quello di
vincolatività o di obbligatorietà. Da un punto di
vista sociologico va sottolineato che questo carattere è
essenzialmente oggetto di convenzioni sociali e anche di percezioni
soggettive del singolo individuo che è chiamato a conformarsi
alla norma, ovvero di coloro che detengono, o ritengono di detenere,
potere normativo. Pertanto l'opinione circa il carattere vincolante
delle norme può non essere condivisa ed essere, anzi, oggetto
di discussione. Frequentemente accade che taluno si senta libero di
non conformarsi a norme che altri, e perfino intere
generalità, ritengono vincolanti: è questo il caso,
notissimo, dell'obiezione di coscienza contro norme ritenute
ingiuste. Così pure, simmetricamente, accade che taluno si
senta obbligato a seguire norme che altri, o una intera
generalità, ritengono facoltative o addirittura non
riconoscono: si pensi al credente che, in regime di libertà
civile di divorzio, si ritiene obbligato a osservare il principio di
indissolubilità del vincolo matrimoniale.
Il carattere vincolante o non vincolante di singole norme non
è necessariamente il tratto distintivo di particolari sistemi
normativi, anche se essi si presentino, nel loro complesso, come
cogenti. Ogni sistema normativo, anche il sistema giuridico, che
è ritenuto cogente per intere comunità, contiene tanto
norme vincolanti quanto norme non vincolanti. Inoltre, ogni sistema
normativo, nel definire ciò che deve, può e non
può essere fatto, lascia degli spazi entro i quali le scelte
sono esclusivamente libere: una norma che vieti un comportamento
implica che ogni comportamento diverso è libero sulla base di
quella norma (naturalmente può essere vietato da un'altra
norma).
In breve, il carattere di vincolatività delle norme, dal
punto di vista della sociologia, che è essenzialmente
descrittivo, si fonda sulla credenza da parte dei destinatari di
tali norme che esse effettivamente vincolino, perché valide
in se stesse oppure perché sorrette dall'autorità e/o,
eventualmente, dalla forza di chi le pone o applica (v. Weber,
1922). Ciò non toglie che detto carattere sia, invece,
imposto dal punto di vista di altri discorsi, che abbiano, come la
scienza giuridica o la morale, natura essenzialmente prescrittiva.
e) Il rinforzo sanzionatorio delle norme
Al carattere della vincolatività è comunemente
associato, per certi tipi di norme, quello della
sanzionabilità. Vi sono cioè norme la cui osservanza
è rinforzata dalla presenza di una sanzione collegata
funzionalmente al comportamento che la norma impone, ammette o
vieta. Il vincolo fra comportamento e sanzione viene sovente
espresso attraverso la prospettazione della norma in forma di
giudizio ipotetico: Se A [↔(allora)] B. Mentre la premessa A esprime
un fatto, la conseguenza B esprime un dovere: al verificarsi del
fatto-comportamento, inteso come condizione, deve seguire, come
conseguenza, l'applicazione della sanzione. È importante
quindi sottolinea"e che il rapporto fra la premessa e la conseguenza
di cui si parla non è di deduzione logica, cosa questa che
contraddirebbe il principio metodologico secondo cui non possono
derivarsi conseguenze prescrittive da premesse descrittive e
viceversa. Vale in proposito la definizione di Hans Kelsen, secondo
cui il rapporto in questione è di imputazione; alla premessa
A deve essere imputata la conseguenza B, e viceversa.Va precisato
che il carattere del rinforzo sanzionatorio si attaglia a ogni tipo
di norma sociale, non soltanto a quelle giuridiche, con caratteri
diversi a seconda dei contesti. Consideriamo alcuni esempi.
L'enunciato normativo 'o la borsa o la vita', che sia espresso
contingentemente da un rapinatore senza riferimento a un sistema
normativo che lo ricomprenda fra le proprie disposizioni (come
potrebbe teoricamente avvenire), si presenta in apparenza nella
stessa forma ipotetica appena ricordata. La norma che impone di
cedere il posto a una persona anziana sull'autobus non conferisce di
solito a questa persona un 'diritto', nel senso soggettivo della
parola, ma la sua osservanza o la sua trasgressione suscitano spesso
reazioni sanzionatorie di lode o di biasimo da parte dei passeggeri
che, in quanto accomunati dall'uso dello stesso mezzo di trasporto,
costituiscono (contingentemente) un gruppo sociale. Andando ancora
oltre, il comportamento screanzato di una persona che frequenti un
ambiente - per esempio mangi la pastasciutta con le mani -
può condurre gli altri frequentatori a escluderla da
quell'ambiente. Infine, il capriccio del bambino viene punito dai
genitori secondo modalità che tendono a ripetersi sia per
abitudine, sia per l'opportunità di insegnare al bambino
stesso come dovrà comportarsi, condizionandolo con la paura
della punizione.
Le diverse situazioni appena descritte presentano tutte la ricordata
correlazione 'imputativa' fra comportamento e sanzione, pur non
essendo (secondo le comuni definizioni del diritto) giuridiche. Sono
peraltro ordinate in scala secondo un ordine crescente di
complessità e di istituzionalità. Nel primo caso tanto
la norma quanto la sanzione sono contingenti e si esauriscono nel
singolo episodio. Nel secondo la sanzione è contingente, ma
non lo è la norma: infatti è in base a quella norma,
comune ai viaggiatori, che verrà lodato o biasimato il
comportamento del passeggero. Nel terzo la norma può o meno
preesistere alla sanzione, ma questa sarà durevole e
strutturerà diversamente una relazione sociale complessa, ma
instabile. Nel quarto caso la previsione della sanzione è
funzionalmente collegata a priori alla conoscenza della norma,
anch'essa preesistente al comportamento: lo schema
normativo-ipotetico è cioè usato come tecnica di
condizionamento preventivo e durevole di una relazione sociale
complessa e stabile, ai limiti se non addirittura nell'ambito della
normatività giuridica (v. Ehrlich, 1913).
Come le sanzioni non sono necessariamente associate al carattere
giuridico delle norme sociali, così esse non promanano
necessariamente ed esclusivamente dall'esterno rispetto all'autore
del comportamento considerato. In particolare, la punizione
può essere anche autoinflitta dal soggetto agente, sia in
base a un sistema normativo alla cui osservanza egli si ritenga
tenuto, sia contingentemente, senza riferimenti ad alcun sistema
normativo e per ragioni varie, che possono andare dal senso di colpa
sino alla rappresentazione pubblica - più o meno sincera -
della propria afflizione. Il caso estremo di autosanzionamento
è naturalmente il suicidio: la decisione di darsi la morte
può bensì derivare da smarrimento normativo,
cioè da anomia (v. Durkheim, 1897), ma può
altresì derivare, e spesso deriva, dall'applicazione di una
norma, sia essa socialmente condivisa (come nel caso del disonore) o
vissuta nel proprio intimo.
f) I riferimenti normativi dell'azione e dell'interazione sociale
La sociologia contemporanea, soprattutto da Max Weber in poi, si
configura essenzialmente come studio dell'azione sociale e
dell'interazione sociale.Per azione sociale si può intendere
una "sequenza intenzionale di atti forniti di senso che un soggetto
individuale o collettivo [...] compie scegliendo tra varie
alternative possibili, sulla base di un progetto concepito in
precedenza ma che può evolversi nel corso dell'azione stessa,
al fine di conseguire uno scopo, ovvero di trasformare uno stato di
cose esistente in altro a esso più gradito, in presenza di
una determinata situazione [...] della quale il soggetto tiene
coscientemente conto nella misura in cui dispone a suo riguardo di
informazioni e conoscenze" (v. Gallino, 1983², p. 69); per
interazione sociale si può intendere la "relazione tra due o
più soggetti individuali o collettivi, di breve o lunga
durata, nel corso della quale ciascun soggetto modifica
reiteratamente il suo comportamento o azione sociale in vista del
comportamento o dell'azione dell'altro, sia dopo che questa si
è svolta, sia anticipando o immaginando [...] quale potrebbe
essere l'azione che l'altro compirà in risposta alla propria
o per altri motivi" (ibid., p. 396). Nelle rappresentazioni
più astratte, nella linea che da Talcott Parsons arriva sino
a Niklas Luhmann, la società stessa viene intesa non
già in modo antropomorfico, come aggregato di individui uniti
da vincoli interattivi più o meno stabili, ma in modo
simbolico, come reticolo di azioni e di interazioni influenzate
dalle aspettative comportamentali dei soggetti che entrano in
relazione e dotate di un senso più o meno - a seconda delle
versioni - oggettivo e socialmente condiviso (v. Donati,
1994³).Riformulando nel modo indicato il proprio oggetto, la
sociologia ha integrato, modificandolo, il tradizionale modello
positivistico, volto a scoprire i fattori che determinano
'naturalisticamente' i comportamenti, con il modello ermeneutico,
che mira alla 'comprensione' degli obiettivi, delle motivazioni e
dei significati delle azioni. Così facendo, si è
potuto altresì istituire un collegamento fra le concezioni
macrosociologiche, in particolare lo struttural-funzionalismo, e le
concezioni microsociologiche, in particolare l'interazionismo
simbolico.
Che l'azione umana sia fortemente condizionata da norme o valori che
trascendono l'individuo influenzandone le decisioni è, in
verità, un elemento centrale già nella sociologia
classica di Durkheim o di Weber. Così pure l'elemento
normativo entra in gioco, più o meno decisivamente, in tutte
le teorizzazioni più recenti dell'azione sociale (v. Turner,
1988). Alcune di esse, in particolare quelle di ispirazione
struttural-funzionalistica, posseggono carattere spiccatamente
normativo. È questo il caso della teoria di Parsons (v., 1937
e 1951), secondo cui i comportamenti di ruolo e le relazioni di
scambio sono guidati da norme e, in posizione retrostante, da valori
condivisi; ed è anche il caso della teoria di Luhmann (v.,
1981), secondo cui i sistemi normativi (il diritto in particolare)
conferiscono sicurezza e stabilità alle aspettative e
compiono la funzione di 'ridurre la complessità', cioè
di permettere una decisione fra varie alternative. Queste teorie
possono essere criticate - e lo sono state - in quanto tendenti a
ravvisare nelle norme il fattore primario della struttura sociale e,
soprattutto, a ritenerle "consensualmente accettate e prive di
ambiguità" per usare le parole di Turner (v., 1988, p. 157).
Ma, come lo stesso Turner opportunamente ricorda, tali critiche
hanno a volte "buttato via il bambino con l'acqua sporca". Invero la
rilevanza delle norme nella formazione dei processi decisionali
umani e nella strutturazione delle azioni può essere sfumata
e relativizzata, riconoscendo - come fa per esempio Anthony Giddens
(v., 1984) - che le norme, con tutto il loro spazio di incertezza,
fanno pur sempre parte del corredo di informazioni di cui dispongono
i soggetti, in tal modo "generando comprensione" e facilitando i
loro corsi d'azione.
L'influenza delle norme sull'azione e sull'interazione sociale
risulta immediatamente evidente sulla base di una duplice
considerazione.In primo luogo l'azione dei soggetti, individuali o
collettivi, si orienta secondo aspettative di comportamento in un
complesso gioco che presenta caratteri di riflessività,
poiché le aspettative di Tizio sono influenzate non solo
dalle aspettative di Caio, ma dall'opinione che Tizio e Caio hanno
delle reciproche aspettative (v. Luhmann, Normen..., 1969). Ora,
è prassi comune distinguere le aspettative in 'cognitive', se
chi le nutre è disposto ad abbandonarle in caso di delusione,
e, per l'appunto, 'normative', se chi le nutre le mantiene ferme
nonostante la delusione: le aspettative normative sono,
precisamente, riferite a norme comportamentali che i soggetti
ritengono comuni ai loro interlocutori o per loro vincolanti. In
secondo luogo, e per conseguenza, l'interazione sociale acquista un
senso (relativamente) condiviso dai soggetti interagenti grazie
all'esistenza di strutture di significato, che si presumono comuni
ai soggetti stessi e rendono possibile la reciproca comprensione.
Fra tali strutture, quelle aventi carattere normativo, tanto
più se ritenute cogenti, posseggono un'importanza primaria:
l'interazione fra Tizio e Caio che, sovvenendo a reciproche esigenze
economiche, scambiano un oggetto con una somma di denaro, acquista
significato in quanto riferibile a una struttura normativa che la
definisce come un contratto di compravendita, e forza persuasiva
dall'esistenza di norme che stabiliscono che il contratto ha forza
di legge fra le parti e dispongono che all'inadempimento del
contratto debbano conseguire la sua 'risoluzione' e il 'risarcimento
del danno' - altre parole dotate di significato reperibile (con i
limiti che si diranno in seguito) nella struttura stessa.
Vi è dunque una stretta correlazione fra aspettative
normative e norme, al punto che, sociologicamente parlando, si
possono definire le norme stesse come aspettative comportamentali
(normative) stabilizzate nell'ambito di un gruppo sociale (v. Pocar,
1988).
g) L'azione sociale come fatto comunicativo: le norme come messaggi
Un ulteriore e più recente passo della teoria sociologica
è consistito nel tradurre l'azione sociale, e
conseguentemente l'interazione sociale, in un fatto essenzialmente,
o quanto meno primariamente, comunicativo. Su questa conclusione
convergono autori per molti versi differenti, come Niklas Luhmann e
Jürgen Habermas. Luhmann, che seguendo e perfezionando Parsons
definisce la società come 'sistema sociale globale', composto
di sistemi parziali dotati di senso specifico e di capacità
autoriproduttiva, individua nella comunicazione l'operazione
sistemica fondamentale (v. Luhmann 1984; v. Luhmann e De Giorgi,
1992). Habermas (v., 1981) pone al centro della sua teoria
interattiva la comunicazione, poiché soltanto la
comunicazione permette l'intersoggettività. Non molto lontana
è la posizione di Michel Foucault (v., 1969), secondo cui la
realtà stessa è il risultato di una costruzione
comunicativa. Naturalmente le opinioni di questi e altri autori
divergono su molti punti importanti, per esempio sul fatto che la
comunicazione sia o meno riferibile nel contenuto a elementi esterni
all'atto del comunicare, come gli interessi o il potere dei soggetti
comunicanti. Ma tutti condividono l'idea della centralità del
processo comunicativo come caratteristica propria dell'azione
sociale, quindi della società in se stessa.
Nel processo comunicativo le norme sociali compaiono in vario modo.
Un singolo atto comunicativo può essere motivato da un
riferimento normativo, ovvero concretarsi nella proiezione di una
norma, ovvero ancora risolversi nella formazione di una norma, non
necessariamente stabile nel tempo. Un atto di disobbedienza civile
è usualmente motivato dall'adesione a un modello normativo
alternativo che può essere, o non essere, esibito
comunicativamente. La notizia fornita da un giornale, che una norma
è stata proposta o approvata da un organo dotato di poteri
appositi, convoglia informazione e conoscenza su quella norma. Un
parlamento 'comunica' nel momento stesso in cui emana una norma
destinata a durare nel tempo; ma anche due alpinisti che si trovino
a percorrere una stretta cresta nevosa che non permette a entrambi
di passare simultaneamente, non avendo un codice normativo di
riferimento e dovendo, al tempo stesso, minimizzare il pericolo,
produrranno e si comunicheranno una norma, contingente ed effimera,
capace di regolare sul momento l'imbarazzante situazione: uno
potrà retrocedere fino a un punto più largo, ovvero
sporgersi fuori dalla cresta, debitamente assicurato alla montagna.
Se si rappresenta l'interazione sociale in senso comunicativo, le
norme compaiono - se non addirittura appaiono - come messaggi,
cioè come entità semiotiche composte di segni o di
simboli che vengono trasmessi e circolano in ambienti di varia
ampiezza e complessità (v. Eco, 1987¹⁰; v. Jackson,
1985): dalla semplice relazione diadica dei due alpinisti appena
citati, riportabile con qualche libertà ai modelli resi
celebri da Goffman (v., 1971), alla relazione plurima di una
moltitudine di persone che, ricevendo notizie sulla produzione di
una norma, le interpretano e, a loro volta, se le scambiano
vicendevolmente o le comunicano al di fuori della cerchia degli
uditori originari.
È importante sottolineare che la trasmissione dei messaggi
normativi può avvenire per segni verbali o non verbali: un
semaforo convoglia informazione normativa attraverso l'emissione di
segni costituiti da segnali luminosi; la comunicazione normativa fra
i due alpinisti, che supponiamo parlino lingue diverse, può
avvenire per segni gestuali interpretabili secondo la comune
esperienza di scalate; una norma giuridica può essere
comunicata per iscritto sin dal momento della sua creazione, ovvero
comunicata mediante atti significativi, prevalentemente ma non
esclusivamente di natura verbale.
La funzione o l'effetto essenziale della comunicazione di messaggi
normativi è, in senso lato, di influenzare dati
comportamenti: anche la semplice informazione non ufficiale
sull'esistenza di una norma implica l'informazione che attraverso
quella norma taluno, diverso dall'informatore, mira a influenzare
dati comportamenti e date aspettative comportamentali. Ma non
è certo che i messaggi vengano intesi, ed è anzi
possibile che la situazione sociale che li concerne sia
caratterizzata da incomunicabilità.
h) Univocità ed equivocità delle norme
In quanto messaggi iterati nell'ambito di uno spazio discorsivo
passando attraverso media di varia natura, individuali o di massa,
le norme, intese come enunciati, non mantengono necessariamente
inalterato il loro significato nel tempo e nello spazio.Sul
significato delle norme, come di ogni altro messaggio, incidono
infatti diversi fattori.
In primo luogo, tale significato può essere reso più
chiaro, o più oscuro, dalla formulazione stessa del
messaggio, all'origine (se ha un'origine individuabile) e nelle
varie tappe della sua iterazione. Innanzitutto, chi parla può
avere interesse a farsi capire, ma anche a non farsi capire, per
esempio al fine di estendere al massimo il proprio spazio di
discrezionalità, che può trarre vantaggio dalla
vaghezza delle espressioni normative. Inoltre, chi parla può
conoscere il significato socialmente condiviso dei segni -
specialmente delle parole - che usa, o equivocarlo per ignoranza
generale o specifica di un codice linguistico: si pensi al fatto che
i più importanti gestori dei media, i giornalisti, in quanto
specialisti della tecnica informativa, non sono partecipi di nessun
altro milieu semiotico specializzato e, quindi, non sono usualmente
esperti 'dall'interno' di nessun altro codice specifico
(fisico-meccanico, medico, biologico, giuridico e via dicendo). E
infine il processo comunicativo, soprattutto di massa, implica
sempre una selezione e, quindi, una manipolazione del messaggio.In
secondo luogo, il significato è influenzato dal trascorrere
del tempo, che modifica il senso socialmente condiviso degli
elementi della comunicazione, in particolare la connotazione e
perfino la denotazione delle parole. Il fenomeno è noto
soprattutto ai giuristi: non solo espressioni vaghe come 'il comune
sentimento del pudore' o 'la diligenza del buon padre di famiglia',
ma anche espressioni più tecniche, come 'dolo' o 'interesse
ad agire', acquistano significati diversi in tempi diversi, spesso
per effetto di apporti dottrinali o giurisprudenziali
differenziati.In terzo luogo, e non meno importante, va ricordata
l'influenza dello spazio discorsivo sui significati.
Ad esempio, ancora nel linguaggio giuridico, l'espressione "modica
quantità di sostanze stupefacenti", usata in un testo di
legge, dava adito a interpretazioni assolutamente difformi da luogo
a luogo nello stesso paese, cioè l'Italia. Problemi ancora
più seri sono posti dalla traduzione delle norme da una
lingua all'altra: il termine italiano proprietà non coincide
semanticamente con le parole straniere property,
propriété ed Eigentum (v. Candian e altri, 1992);
molte parole del lessico giuridico inglese (lien, discovery,
estoppel, ecc.) sono pressoché intraducibili nel lessico
giuridico continentale.In quarto luogo, i significati delle parole
possono cambiare da lessico a lessico, pur essendovi fra diversi
lessici numerosi scambi. Per esempio il lessico giuridico,
nell'adottare espressioni tratte da altri lessici ('nesso di
causalità', dal lessico epistemologico;
'pericolosità', dal lessico fisico o da quello sociologico;
'vita' e 'morte', dal lessico biologico), come può rifarsi al
significato che esse assumono nel lessico di provenienza,
così può anche imporre un significato artificiale:
prescrivere, per paradosso, che la parola 'morte' sia da intendere
anche come 'morte dell'anima' (v. Cordero, 1981, p. 245), sì
che il corruttore divenga passibile dell'accusa di omicidio.
In quinto luogo, gioca un ruolo fondamentale l'attività
interpretativa che viene svolta, consapevolmente o meno, da ogni
attore che interviene nel processo comunicativo. Soprattutto quando
concerne parole, l'interpretazione non può essere svolta se
non attraverso l'uso di altre parole, secondo un processo semiotico
che è, teoricamente parlando, illimitato (v. Eco,
1987¹⁰). Poiché ogni messaggio, nel momento in cui viene
trasmesso e recepito, deve anche necessariamente essere
interpretato, appare evidente che a ogni passaggio interpretativo
esso può cambiare, talvolta sensibilmente, di significato: il
che equivale a cambiare di contenuto. È per questa ragione
che l'attività dell'interprete, anche di norme il cui
significato è considerato vincolante, come quelle giuridiche,
è stata considerata 'creativa', cioè modificativa del
senso originario, non solo da studiosi di ispirazione giusrealistica
(v. Tarello, 1980), ma anche da studiosi di ispirazione
giuspositivistica, come Kelsen (v., 1934) e Hart (v., 1961).
Tutto ciò non deve condurre a un totale scetticismo circa la
possibilità degli esseri umani di comunicare, in particolar
modo attraverso norme (in realtà nella vita comune si cerca
prevalentemente di intendersi e non di ingannarsi, anche quando si
trasmettono modelli comportamentali); semplicemente, vale a
segnalare che la comunicazione sociale è rapportabile a un
gioco interattivo nel quale le regole che si costituiscono e si
praticano fra i giocatori sono più aperte e contingenti delle
regole fisse di un gioco codificato, come può essere il gioco
degli scacchi (v. van de Kerchove e Ost, 1992).
i) Il problema dell'autoreferenzialità e dell'autoproduzione
dei sistemi normativi
Come ogni altro messaggio che acquisti stabilità e divenga
istituzionale, anche le norme possono organizzarsi o essere
organizzate in sistemi, cioè, secondo l'accezione più
lata, in "complessi di elementi interagenti" (v. von Bertalanffy,
1969, p. 97). L'organizzazione delle norme in sistemi, teoricamente
parlando, è indipendente dalla rappresentazione della
società stessa in termini sistemici, che è il portato
specifico della sociologia. All'opera di sistematizzazione di
elementi, o di conoscenze su fenomeni, ci si è accinti
continuamente nella storia del pensiero, ben prima della nascita
ufficiale della sociologia: tralasciando le scienze matematiche e
fisiche, basti pensare alla continua costruzione e ricostruzione di
sistemi giuridici, da parte della dommatica giuridica non meno che
dei legislatori (v. Losano, 1968; v. Cappellini, 1984-1985, vol. I).
Con la rappresentazione della società in termini sistemici,
peraltro, la sistematica normativa viene a integrarsi in una visione
più ampia: i sistemi di norme vengono visti non più
isolatamente, ma nell'interazione con altri sistemi, concorrenti a
formare la società intesa, a sua volta, come sistema sociale
globale.
Come i singoli sistemi, così anche la rappresentazione
sistemica della società può possedere caratteri di
maggiore o minore chiusura. Nella tradizione microsociologica
interazionistica le azioni umane, quindi anche le norme, sono state
viste in forme aperte, determinate bensì da aspettative
interdipendenti ma anche da opzioni soggettive, soprattutto di
significato, essenzialmente libere. Nella tradizione
macrosociologica struttural-funzionalistica l'integrazione fra le
azioni viene rappresentata in forme più chiuse, sino alla
completa esclusione dal quadro interpretativo delle opzioni
soggettive e degli stessi soggetti, che si attua con Niklas Luhmann:
questi rappresenta i sistemi, e con essi i sistemi normativi, come
mere strutture significative 'autopoietiche' e 'autoreferenziali',
capaci cioè di autoriprodursi e dotate ciascuna di un proprio
autonomo principio di significazione da cui promanano catene di
significati (v. Luhmann, 1984; per opportune distinzioni v. anche
Teubner, 1988).
Ciò premesso, vanno fatte alcune considerazioni sui sistemi
normativi, con specifico riferimento ai significati degli elementi
che li compongono.
Si può ritenere, e si ritiene comunemente, che
l'organizzazione sistemica di complessi di norme conferisca a queste
significati socialmente stabili e affidabili, soprattutto entro
circoli semiotici ben delimitati e caratterizzati da forte coesione
sociolinguistica. Ciò dipende dal fatto che i processi di
significazione - come detto - appaiono interni a ciascun sistema e i
singoli significati appaiono fra loro concatenati logicamente a
partire dal principio generale di significazione proprio di ciascun
sistema: nella versione di Luhmann, per esempio, il sistema
giuridico, composto di comunicazioni orientate secondo aspettative
normative stabili, permette scelte di significazione organizzate
secondo il codice binario Recht-Unrecht (conforme o non conforme a
diritto), che funge da principio primo.
L'esempio del sistema giuridico è particolarmente utile
perché permette di scorgere, assieme ai pregi, anche i limiti
di questo tipo di teorizzazioni. In effetti i sistemi giuridici,
specialmente quelli di diritto codificato di origine
europea-continentale, sono stati spesso rappresentati come chiusi o
autonomi (come si preferisce dire nella cultura di common law) e, in
quanto tali, 'attributivi di significati'. Questa visione si
è imposta soprattutto durante la stagione ottocentesca del
positivismo statalistico, in cui i significati delle norme
giuridiche sono stati rappresentati come 'certi', nel senso
scientifico della parola: donde il principio - non solo
ideologico-politico, ma cognitivo-dogmatico - della 'certezza del
diritto'. Principio che, da prospettive antiformalistiche e anche
formalistiche aperte, come quella di Kelsen, è stato poi
criticato e presentato come un mito o un'utopia.
La teoria sociologica dei sistemi normativi si differenzia dalla
tradizionale visione della scienza giuridica formalistica.
L'autoreferenzialità di tali sistemi è rappresentata,
in questa chiave, come un fatto soprattutto operativo e, solo in
dipendenza di ciò, semantico: i sistemi ricevono
'informazioni' dall'ambiente esterno (per esempio da altri sistemi)
e le elaborano automaticamente secondo la loro logica specifica.
Ciò nonostante, tali concezioni rischiano di cadere in aporie
o in contraddizioni di fronte a fenomeni sociali di grande
importanza. In primo luogo, rimuovendo dalla scena i soggetti e le
loro opzioni interpretative, trascurano il fatto - già
accennato - che l'interazione sociale può essere
caratterizzata da incomunicabilità, allorché i
soggetti riferiscano le loro azioni a sistemi di diverso tipo
(conferiscano per esempio a un'azione un significato 'giuridico' e
un significato 'politico'), ovvero riferiscano le loro azioni a
sistemi diversi dello stesso tipo (il sistema giuridico dello Stato
o quello della Chiesa). In secondo luogo, le concezioni in questione
trascurano o lasciano in ombra le molte possibilità
intermedie che esistono nell'ambito compreso fra le secche
alternative teoriche poste dal principio di significazione: fra
'diritto' e 'non diritto' vi è in effetti una gamma di figure
intermedie (la 'potestà', l''onere', la 'facoltà',
ecc.), nonché di situazioni identificabili in senso
qualitativo-modale ('l'azione è lecita se...') o quantitativo
('l'azione è lecita entro i limiti...'), o addirittura
ambigue ('l'azione è parzialmente lecita'). Secondo la felice
espressione di van de Kerchove e Ost (v., 1992), si ignora in questi
casi il cosiddetto entre-deux, lo spazio ideale, continuamente
mutevole, in cui si svolge il 'gioco sociale'. In terzo luogo, le
concezioni in questione non danno adeguata spiegazione dei fenomeni
di trasmigrazione dei significati da un sistema all'altro, per
esempio dei prestiti lessicali cui abbiamo accennato. Tali fenomeni
sono spiegati da Luhmann (v., 1984) con il concetto di
'accoppiamento strutturale' fra sistemi: concetto metaforico che non
riesce a occultare la contraddizione sussistente tra il fatto, da un
lato, che una significazione possa essere 'delegata' da un sistema a
un sistema diverso e, dall'altro, il principio stesso
dell'autoreferenzialità sistemica.
2. Classificazioni delle norme
I concetti sin qui esaminati sono stati e sono continuamente oggetto
di distinzioni analitiche e di conseguenti classificazioni. Tali
operazioni concettuali sono utili e sono quindi comunemente adottate
ai fini delle esigenze di specifici discorsi scientifici. Nel
presente contesto ci riferiremo esclusivamente a quelle
classificazioni che presentano maggiore rilevanza nell'ambito della
teoria sociologica. Esamineremo sotto questa prospettiva,
consecutivamente, le norme, le sanzioni e i sistemi normativi.
a) Norme vincolanti e non vincolanti: ulteriori precisazioni
Questa distinzione è stata già proposta (v. § 1d)
in quanto essenziale per la comprensione del concetto generale di
norma. Non occorre qui riprenderla se non per insistere sul fatto
che, in termini sociologici, la nozione di vincolatività
è anch'essa un fatto interattivo-comunicativo e, quindi, va
rapportata alle aspettative dei soggetti interagenti. Questi possono
bensì concordare sulla vincolatività di una norma, ma
possono anche non concordare sul fatto che una norma richiamata da
uno di essi per legittimare la propria azione: a) esista; b)
appartenga a un sistema normativo comune e, specificamente,
vincolante nel caso di specie; c) conferisca degli obblighi; d)
riguardi il comportamento specifico cui ci si riferisce; e) sia
interpretabile in un certo modo. La credenza, in breve, circa la
vincolatività della norma può non essere condivisa,
dando origine a una disputa, cioè a un conflitto
caratterizzato dalla contrapposizione di pretese normative
incompatibili (v. Abel, 1974; v. Ferrari, 1987).
b) Norme costitutive e norme regolative
La distinzione tra norme costitutive e regolative è divenuta
comune in filosofia e teoria del diritto dopo il saggio di John
Searle (v., 1969), che per primo l'ha proposta in questi termini al
fine di distinguere le regole che 'definiscono fatti', cioè
creano una pratica, dalle regole che 'riassumono fatti', cioè
disciplinano pratiche già esistenti (v. Ferrari, 1982, p.
58).
Sul concetto di norma, o regola, regolativa non è necessario
soffermarsi in questa sede: il precetto di costume per cui bisogna
togliersi il cappello quando si saluta, il precetto religioso per
cui gli Ebrei maschi devono coprirsi il capo con la kippa quando
entrano nel Tempio, il precetto giuridico secondo cui si deve
adempiere all'obbligazione pecuniaria consegnando il denaro al
domicilio del creditore, sono tutte regole regolative. La loro
importanza nell'interazione sociale è intuitivamente
evidente.Il concetto di norma, o regola, costitutiva, è meno
familiare agli studiosi di scienze sociali, ma non può
esserne trascurato. Le norme o regole costitutive sono ovvero
pongono la "condizione di ciò di cui esse stesse sono la
norma", o regola: nel primo caso sono denominate
eidetico-costitutive, nel secondo anankastico-costitutive (v. Conte,
1986). Esempio del primo caso, il gioco regolato (in inglese game):
il gioco degli scacchi non esiste "anteriormente alle regole che lo
pongono" e non è pensabile al di fuori di quelle regole;
esempio del secondo caso, le regole giuridiche che pongono
condizioni di validità: "il testamento olografo deve essere
[...] scritto di mano del testatore" (Codice civile italiano, art.
602, comma 1; v. Conte, 1986).L'importanza di questa distinzione ai
fini della sociologia non può sfuggire se si considera che
l'interazione umana, che si svolge "in un mondo di norme" (v.
Bobbio, 1993, p. 3), è stata spesso paragonata - appunto - a
un gioco regolato o autoregolantesi (v. Huizinga, 1939). L'omologia
in questione, criticabile se proposta in forme rigide (v. Giddens,
1976; tr. it., pp. 173-174), è ricorrente anche per la
spiegazione sociologica, in senso lato, del rapporto regole-azione:
un rapporto posto recentemente in termini problematici, come gioco
dalle regole mutevoli e generatrici di paradossi logicamente non
risolvibili (v. van de Kerchove e Ost, 1992).
c) Norme di uso, di costume, della moda, della morale, della
tecnica, del diritto
La distinzione tra norme di uso, di costume, della moda, della
morale, della tecnica e del diritto, che si basa soprattutto (ma non
solo) sul contenuto delle norme riferito a diversi contesti sociali,
è classica tanto in sociologia quanto nella scienza
giuridica, anche se le due scienze tendono a proporla in termini
differenti. In sociologia è frequente osservare questi
diversi tipi di norme "lungo un continuum di
centralità/perifericità rispetto alle strutture
sociali e culturali dominanti in una società" (v. Gallino,
1983², p. 479). Nella scienza giuridica si tende piuttosto a
stabilire delle differenze qualitative: in particolare, si individua
un 'salto' fra le norme non giuridiche e le norme giuridiche,
secondo criteri che differiscono da un autore all'altro: le norme
giuridiche vengono distinte nettamente dalle altre, a volta a volta,
per il carattere 'ipotetico', o 'eteronomo', o 'istituzionale' (in
particolare statale), già ricordati, ovvero ancora per la
cosiddetta opinio iuris vel necessitatis, cioè la convinzione
sociale che "la norma sia vincolante ed esclusiva" (v. Fazzalari,
1984, pp. 18 ss.).
Una nota distinzione in argomento è quella, proposta da
William Graham Sumner (v., 1906), tra folkways e mores. I primi sono
modalità costanti con cui i gruppi agiscono o risolvono
problemi; i secondi sono nient'altro che folkways rafforzati dalla
convinzione consolidata e razionale che essi giovino al benessere
generale. Il diritto, a sua volta, scaturisce dai mores e se ne
distingue per essere assistito dall'uso della forza statale (v.
anche Cotterrell, 1992², pp. 18-20).
La distinzione fra questi vari tipi di norme può apparire
facile nella vita quotidiana, ma non lo è affatto né
in astratto né nell'osservazione sociologica o antropologica:
la regola che impone di lavarsi è ritenuta comunemente d'uso,
di costume o anche di moda, ma può bensì ritenersi
regola morale o giuridica se, per esempio, sia anche prevista da un
testo normativo (si pensi alla regolamentazione delle abluzioni nel
Corano, fonte primaria del diritto islamico, o alla regolamentazione
igienica di un ospedale). Riferita alle mani di un medico è,
altresì, regola 'tecnica', volta a disciplinare un corso
d'azione in vista del suo naturale risultato.
Quanto sopra vale soprattutto a segnalare la relatività dei
canoni distintivi, che sono - in realtà - oggetto di scelte
teorico-linguistiche a priori, sia pure suggerite dalla comune
esperienza, ed entro certi limiti, quindi, arbitrari. Come è
stato detto a proposito del diritto (v. Williams, 1945), i concetti
in questione sono anzitutto parole con cui si designano eventi o
azioni. Il significato di tali parole è oggetto di continue
convenzioni e in effetti può variare da un discorso
scientifico all'altro.
Alle diverse scelte linguistiche si ricollegano naturalmente diverse
teorie concernenti i rapporti fra i vari tipi di norme in questione,
fra cui spicca soprattutto, per la sua problematicità, il
rapporto fra norme morali e norme giuridiche. Mentre nelle scienze
giuridiche si cade spesso nella tentazione del pangiuridicismo,
arrivando anche a far coincidere l'ordine normativo di una
società con il suo diritto, nelle scienze sociali si tende
piuttosto a segnalare, spesso, il primato della morale, sia che
questa venga vista come elemento acquisito emotivamente attraverso i
processi di socializzazione (v. Westermarck, 1912), sia che venga
vista come elemento primigenio, esplicante una funzione integratrice
fondamentale (v. Durkheim, 1898-1900) e 'trascendentale' rispetto
all'ordine globale di una società (v. Parsons, 1978), anche
se diverso nei contenuti a seconda dei tempi e dei luoghi (v.
Ginsberg, 1956).
d) Norme consuetudinarie e norme statuite
La distinzione tra norme consuetudinarie e norme statuite si basa
sulle diverse modalità di formazione delle norme e ha grande
importanza nel campo giuridico, sebbene non solo in quello.Il
criterio di distinzione teorico è ben chiaro: la norma
consuetudinaria si sviluppa spontaneamente e s'impone come canone
comportamentale per effetto di un uso prolungato, eventualmente
sorretta dall'opinio iuris vel necessitatis, nel qual caso -
convenzionalmente - si ritiene 'giuridica'; la norma statuita
è l'effetto di un fiat individuabile, promanante da un
soggetto cui si riconosce potere di normazione. In giurisprudenza si
distingue con dommatica chiarezza fra il diritto consuetudinario,
'comune' per tradizione nell'ambito di una popolazione (ad esempio
la common law inglese), e il diritto legislativo, frutto della
volontà di un legislatore individuale o collettivo.
Un accostamento 'esterno' al diritto, filosofico o sociologico,
presenta il problema in termini molto più complicati.
È possibile osservare infatti che le norme proclamate, in
realtà, non fanno che enunciare precetti già esistenti
nella consuetudine: la statuizione, pur se proveniente da
un'autorità riconosciuta o capace comunque di imporsi, non
è in questi casi 'creativa' della norma, ma ne costituisce
semplicemente un riconoscimento e un rafforzamento a livello
sociale. Ciò è stato messo in luce sovente, in
giurisprudenza, dai critici dell'idea illuministica della
legislazione, a partire dal famoso saggio di Friedrich C. von
Savigny (v., 1814), ma può essere ripetuto, e non solo da
posizioni agnostiche, anche per i testi normativi sacri come le
Tavole della legge di Mosè, i Vangeli o il Corano.Inoltre
è talvolta difficile riconoscere, sul piano critico, se
socialmente sia rilevante il contenuto sostanziale di una norma
ritenuta consuetudinaria, ovvero la sua formulazione scritta. Il
diritto consuetudinario inglese è conoscibile attraverso i
precedents dei giudici, che posseggono entro certi limiti valore
vincolante; il diritto consuetudinario romano era conoscibile
soprattutto attraverso i responsa dei giurisperiti, come quelli
raccolti nel Digesto di Giustiniano. Le raccolte di precedents o di
responsa sono, tecnicamente parlando, 'fonti di cognizione' delle
norme: ma quando si forma una nuova opinione giurisprudenziale o
dottrinale circa l'esistenza o il significato o l'estensione di una
norma consuetudinaria, si può sostenere che essa abbia
creato, proclamandola, una nuova norma.
e) Norme scritte e norme non scritte
Alla distinzione appena discussa si ricollega, in parte, quella fra
norme scritte e norme non scritte. L'enunciazione di una norma
attraverso segni e simboli linguistici scritti - cosa possibile
nelle sole società letterate - ne facilita la ricerca e il
reperimento, orientando più decisivamente, in teoria, il
giudizio su di essa: il fatto di ritrovare la norma in una raccolta
di leggi vigenti ne comprova l'esistenza (salvo il caso, spesso
incerto, dell'abrogazione tacita) e ne segnala la natura giuridica;
il fatto di ritrovarla in una circolare interpretativa indica che,
sempre in teoria, altre interpretazioni sono possibili, anche se
quella proposta dalla circolare avrà più
probabilità di essere seguita.
Tuttavia la scrittura, proprio perché composta di simboli
linguistici, presta il fianco alla variabilità di
interpretazioni già ricordata: la sua apparente
fissità è più ingannevole di quanto appaia. Per
contro, può apparire meno ingannevole di quanto sembri a
prima vista la norma enunciata oralmente, soprattutto se
accompagnata da gesti rituali ricorrenti e condivisi in una
società: si pensi al 'canto', con cui alcune popolazioni
Inuit usano 'trattare' una disputa (v. Hoebel, 1954). È stato
anzi sostenuto, in antropologia giuridica, che "la scrittura
favorisce l'astrazione e la perdita del controllo del diritto da
parte dell'individuo" e che "[l]'interpretazione di un testo scritto
è in effetti più difficile che quella della parola e
favorisce le manipolazioni: al contrario della comunicazione orale,
in cui è sempre possibile interrogare l'interlocutore, il
testo non può rispondere di se stesso" (v. Rouland, 1988; tr.
it., p. 195).
f) Norme generali e norme individuali
Nell'ampia pubblicistica sulle norme è stato spesso trattato
il problema dei loro destinatari, cioè dell'individuazione di
coloro cui le norme stesse sarebbero rivolte. Questo è un
problema tradizionalmente controverso. In teoria del diritto, per
esempio, si contrappongono coloro che ritengono che le norme
giuridiche si rivolgano indistintamente al pubblico, o settore di
pubblico, le cui azioni sono da esse disciplinate, e coloro che
ritengono che esse siano rivolte ai soggetti cui spetta metterle in
esecuzione: per esempio i burocrati o i giudici (v. Ross, 1958).
Dal punto di vista sociologico è importante soprattutto
distinguere fra le norme che si rivolgono a generalità di
persone e quelle che, invece, si rivolgono a destinatari individuati
singolarmente, siano essi persone o enti collettivi: la legge
appartiene al primo tipo, la sentenza del giudice (che, per
convinzione quasi unanime in teoria del diritto, è in se
stessa una norma, non l'applicazione di una norma) appartiene al
secondo tipo. L'importanza della distinzione va colta soprattutto
sul piano semiotico. Non soltanto la norma generale può dar
adito a equivoci su chi ne sia destinatario, cosa che non accade con
la norma individuale; non solo la prima è formulata in modo
più generico e ambiguo della seconda, ma, altresì, la
norma generale passa attraverso il filtro di più media che
non la norma individuale, cosa che moltiplica le occasioni di
equivoco sulla sua esistenza, sulla sua estensione e sul suo
significato.
g) Norme 'di condotta' e norme 'di competenza'
Una distinzione classica in teoria del diritto (v. Hart, 1961)
è quella tra la norma 'di condotta', che regola
comportamenti, e la norma 'di competenza', che attribuisce poteri,
per esempio di giudicare se le norme di condotta siano state, o
meno, adeguatamente rispettate.Della simmetricità di questa
distinzione si può dubitare: per esempio Alf Ross (v., 1958;
tr. it., p. 49) definisce le norme di competenza come "norme di
condotta formulate indirettamente", implicando che, rispetto alle
prime, esse costituiscano una species rispetto a un genus.
Anche di questa distinzione non deve sfuggire la rilevanza
sociologica. Infatti, la presenza in un sistema di norme indirizzate
ad attribuire poteri di decisione vertenti su altre norme, ne indica
un particolare livello di complessità. Essa può
rappresentare un criterio di differenziazione fra sistemi normativi
o nell'ambito di sistemi normativi, con particolare riferimento al
sistema giuridico (v. Bobbio, 1970). Non solo, ma è di
fondamentale importanza notare come, con il processo di
differenziazione sociale, le norme di competenza, e fra queste
specificamente le norme procedurali, abbiano acquisito
progressivamente maggiore importanza rispetto alle norme di
condotta. Echeggiando il principio liberale per cui 'il mezzo
giustifica i fini', la legittimazione politica nelle società
contemporanee è venuta configurandosi soprattutto, e sempre
più, come un fatto di modalità procedurali (v.
Luhmann, Legitimation..., 1969); e recenti teorie mettono in luce la
tendenza dei sistemi e subsistemi sociali (si pensi alla normazione
deontologica dei gruppi professionali) ad autorganizzarsi
'riflessivamente', rispettando però canoni procedurali
esterni posti come garanzia dei valori generali di una
società (v. Teubner, 1987).
La presenza di norme di competenza in un sistema coinvolge poi
direttamente un elemento centrale nella scienza sociale, quello del
potere, con riferimento non solo al potere di creare o applicare
norme, ma anche al potere di influenzare dall'esterno le fattezze
dei sistemi normativi.
3. Classificazioni delle sanzioni
a) Sanzioni negative e sanzioni positive
Nella vita sociale i comportamenti hanno sempre suscitato biasimo o
lode e sollecitato l'inflizione di svantaggi o la concessione di
vantaggi. Tuttavia è solo in tempi relativamente recenti -
nonostante qualche illustre precedente, come Jeremy Bentham (v.
Facchi, 1995) - che queste modalità di reazione sociale sono
state collocate in posizione simmetrica e concettualizzate sotto
l'unico termine 'sanzioni', tradizionalmente riservato soltanto agli
svantaggi.
Di sanzioni 'positive', accanto alle sanzioni 'negative', si
può parlare per ogni tipo di norma sociale, dalla meno alla
più istituzionale: dalle parole di elogio di un genitore per
il buon comportamento del figlio alla concessione di una medaglia al
valor civile.
L'interesse per le sanzioni positive istituzionali, derivanti
dall'applicazione di norme consolidate e individuabili, è
cresciuto negli ultimi decenni in quanto l'adozione di tali misure -
soprattutto preventive, come gli incentivi - è apparsa come
una tecnica di condizionamento sociale tipica del Welfare State
rispetto allo Stato liberale (v. Aubert, 1983; v. Bobbio, 1977).
Tale tecnica non si è limitata al campo dei comportamenti
desiderati, ma si è estesa al campo dei comportamenti
riprovevoli, quali le condotte criminose, attraverso la concessione
di benefici a coloro che vi rinuncino e, soprattutto, agevolino
attraverso delazioni l'attività repressiva delle
autorità statali o sovrastatali (v. Resta, 1983).
b) Sanzioni repressive e sanzioni restitutive
La classica dicotomia tra sanzioni repressive e sanzioni restitutive
si riferisce soltanto alle sanzioni negative, ed è entrata
nel lessico sociologico in posizione preminente attraverso la famosa
teorizzazione di Émile Durkheim, che l'ha collegata alla non
meno classica dicotomia solidarietà
meccanica-solidarietà organica, vista come il canone
fondamentale distintivo di aggregati sociali caratterizzati da un
diverso grado di differenziazione e di divisione del lavoro (v.
Durkheim, 1893). In questa prospettiva le sanzioni repressive e
restitutive, proprie di due tipi corrispondenti di
normatività giuridica, sono funzionalmente dirette a
rinsaldare i vincoli di solidarietà pregiudicati dalla
trasgressione: le prime, consistendo nell'afflizione,
nell'espulsione o nella soppressione del trasgressore, operano sul
piano simbolico, le seconde, consistendo nella ricostituzione della
situazione anteriore alla trasgressione, operano sul piano
materiale. Con la crescente differenziazione sociale, secondo
Durkheim, l'uso delle sanzioni restitutive cresce a discapito delle
sanzioni repressive.
L'ipotesi durkheimiana è ancor oggi fonte di riflessioni. Vi
è chi la critica osservando la crescita incontrollata, negli
ultimi decenni, delle misure di diritto penale e di polizia (v.
Resta, 1977); ma si osserva anche, parallelamente, una crescente
tendenza degli Stati a negoziare con i trasgressori
l'impunità penale, attraverso misure di carattere restitutivo
in senso lato, come nel caso dei condoni tributari ricorrenti in
Italia (v. Sgubbi, 1990).
c) Sanzioni istituzionali e sanzioni non istituzionali
Il concetto di istituzione (intesa come risultato e non come azione
dell'istituire) è stato utilizzato nella letteratura
sociologica e in quella giuridica con una varietà di
significati, oscillando anch'esso dal piano antropomorfico -
l'istituzione come associazione di persone o, più in
generale, come 'corpo sociale' (v. Romano, 1918, ed. 1977, p. 35) -
a quello simbolico: l'istituzione come complesso di valori, norme,
pratiche sociali stabilizzate e funzionalizzate al perseguimento di
obiettivi (v. Olgiati, 1993², p. 301). Tuttavia, proprio
l'analisi del concetto di 'sanzione istituzionale' dimostra che si
tratta di significati comparabili: con tale espressione, infatti, si
può designare l'atto con cui, nell'ambito di un gruppo
sociale individuabile, si reagisce a comportamenti che sollecitano i
sentimenti consacrati in valori o norme o pratiche stabili, e a
comportamenti che agevolano o minacciano il conseguimento degli
obiettivi di quel gruppo.
Proprio per questo carattere, la sanzione istituzionale non soltanto
si imputa a regole comportamentali consolidate, che vengono
osservate o violate, ma spesso si applica, altresì,
attraverso regole che disciplinano tanto l'accertamento dei
comportamenti da sanzionare, quanto l'adozione materiale della
sanzione. Tali regole, che possono essere denominate processuali nel
senso stretto (ma non necessariamente giuridico) della parola,
possono essere distinte secondo vari criteri: in primo luogo, a
seconda del maggiore o minore ritualismo; in secondo luogo, a
seconda della maggiore o minore pubblicità. Nell'inflizione
delle pene, per esempio, la società umana è
recentemente passata da una fase caratterizzata da segretezza e
(relativa) irritualità nell'accertamento, nonché da
pubblicità e 'splendore' rituale nell'inflizione, a una fase
caratterizzata, all'inverso, da pubblicità e ritualità
nell'accertamento, nonché da riservatezza e (relativa)
irritualità nell'applicazione (v. Foucault, 1975; v.
Friedman, 1993).
d) Sanzioni escludenti e sanzioni includenti
Le sanzioni possono consistere nell'esclusione del singolo,
individuo o gruppo, dall'aggregato sociale o da una sua pratica
riconosciuta e ricorrente: in una parola, dal gioco interattivo.
Esse possono, al contrario, mirare all'integrazione del singolo,
individuo o gruppo, in tale gioco. Questa alternativa si applica a
qualsiasi tipo di norma sociale, purché relativamente
stabile, sino alle norme giuridiche, non soltanto penali, ma anche
civili (v. ad esempio Arnaud, 1974).
Fra le sanzioni escludenti annoveriamo pratiche come la pena di
morte, la proscrizione, l'esilio, l'espulsione da un paese o da
un'associazione, l'interdizione perpetua o temporanea da una
professione o dall'esercizio di facoltà (il voto, la patria
potestà, il testamento), l'isolamento sociale.
Fra le sanzioni includenti annoveriamo soprattutto, naturalmente, le
sanzioni positive, che hanno precipuamente lo scopo di coinvolgere
più fortemente il singolo nella pratica sociale interessata.
Ma anche le sanzioni negative possono essere indirizzate in senso
includente. Il principio costituzionale riconosciuto in molti Stati
moderni, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del reo,
punta precisamente in questa direzione: anche se, come nel caso del
carcere, esclude temporaneamente, mira (senza peraltro riuscirci) a
una successiva inclusione del trasgressore rieducato nel tessuto
sociale.
e) Sanzioni individuali e sanzioni collettive
La sanzione può essere individuale o collettiva secondo che
sia indirizzata verso il singolo o il gruppo che, con il suo
comportamento, si è posto in diretta relazione con la norma
interessata, ovvero, indifferenziatamente, verso collettività
più o meno vaste, la cui relazione con la norma interessata
è soltanto indiretta e mediata.
Nella teorizzazione giuridica classica, le sanzioni collettive sono
proprie del diritto internazionale. L'embargo, l'assedio, la
rappresaglia e, infine, la guerra sono tutte sanzioni negative che
colpiscono una popolazione come conseguenza di decisioni assunte dai
suoi rappresentanti, talvolta contro la volontà dei cittadini
oppure sfruttandone l'inerzia o l'impotenza. Anche nella pratica
sociale comune, tuttavia, si assiste a sanzioni collettive applicate
nei confronti di gruppi sociali, comunemente contro il diritto e per
effetto, ad esempio, di pregiudizi religiosi o razziali.La sanzione
collettiva può avere uno scopo strumentale: la rappresaglia
di un esercito invasore può essere provocata artificialmente,
con atti di ostilità programmati, per rafforzare i sentimenti
di avversione contro il nemico; la distruzione bellica può
essere indirizzata a 'persuadere' le popolazioni colpite della
necessità di rovesciare i loro governanti.
f) Sanzioni applicate centralmente e sanzioni applicate
perifericamente
L'applicazione delle sanzioni sociali può essere delegata a
organi appositamente creati, come pure essere curata dai soggetti o
gruppi coinvolti dal comportamento cui la sanzione consegue.La
distinzione in questione ha una notevole importanza in sociologia e
antropologia del diritto, poiché riflette un canone
distintivo classico fra le società che un tempo si definivano
'primitive' e le società evolute, in particolare quelle
organizzate politicamente secondo il modello statale o secondo
modelli comparabili (come le Chiese).
Il 'decentramento' può investire l'intero processo
sanzionatorio, dall'accertamento delle condotte sino
all'applicazione materiale della sanzione: così avviene, per
esempio, nel linciaggio, con cui si realizza la reazione immediata e
irrazionale di una folla che si sente direttamente colpita nei suoi
sentimenti da un fatto ritenuto trasgressivo. Esso può,
altresì, investire la sola fase applicativa, come avviene nel
caso in cui sul fatto e sulla doverosità della sanzione sia
chiamato a pronunciarsi un organo, sovente collettivo (un consiglio
di famiglia, un consesso di anziani o di guerrieri), e l'attuazione
materiale della sanzione sia lasciata al soggetto offeso,
individuale o collettivo, ovvero a suoi emissari: così
avviene, spesso, con le faide nei sistemi sociali basati sulla
vendetta (v. Pigliaru, 1959).
4. I sistemi normativi
a) Sistemi normativi statici e sistemi normativi dinamici
La distinzione fra sistemi normativi statici e dinamici è
divenuta classica nella teoria del diritto dopo la teorizzazione che
ne ha fatto Hans Kelsen. Secondo questo autore, "un sistema di
norme, il fondamento del cui contenuto e della cui validità
è dedotto da una norma presupposta come fondamentale,
è un sistema normativo statico"; e per converso, "il sistema
normativo di tipo dinamico è caratterizzato dal fatto che la
norma fondamentale presupposta non contiene altro che l'istituzione
di una fattispecie produttiva di norme, l'autorizzazione di
un'autorità legiferante o, cosa che è poi eguale, una
regola che determina come si devono produrre le norme generali e
individuali dell'ordinamento riposante su questa norma fondamentale"
(v. Kelsen, 1960; tr. it., pp. 220-221).
Sulla base di questa distinzione, appartiene al primo tipo il
sistema normativo morale, composto di precetti derivabili l'uno
dall'altro in base al contenuto: "dalla norma che prescrive di amare
il prossimo si possono dedurre le norme secondo cui non bisogna
arrecare alcun male al prossimo, in particolare non bisogna uccidere
né danneggiare gli altri né fisicamente né
moralmente e bisogna assisterli quando sono bisognosi d'aiuto"
(ibid., p. 219); appartiene al secondo tipo il sistema normativo
giuridico, la cui norma fondamentale "si limita [...] a istituire
una regola in base alla quale si devono produrre le norme di questo
sistema" (ibid., p. 221), ponendo le basi di una concatenazione
produttiva di norme: dalla costituzione alla legge, dalla legge alla
sentenza.Sul significato e i limiti di questa distinzione si
è discusso e si continua a discutere (v. ad esempio
Gianformaggio, 1991). In questa sede è necessario, peraltro,
solo segnalare che la sua rilevanza trascende i limiti della teoria
normativa per invadere quelli della sociologia. Infatti la
"pressione normativa" (v. von Wright, 1963) esercitata dai due tipi
di sistemi ha diversa natura: essenzialmente psicologica nel caso
dei sistemi statici, essenzialmente strumentale, attraverso la
prospettazione del rapporto comportamento-sanzione, nel caso dei
sistemi dinamici. Si tratta, nei due casi, di tecniche distinte di
condizionamento sociale, cui si ricollegano diversi tipi di
legittimazione delle azioni.
b) Sistemi normativi totali e sistemi normativi parziali
Un sistema normativo può dirsi totale quando, nella coscienza
di coloro che vi si ritengono coinvolti, regola esplicitamente o
implicitamente qualsiasi relazione sociale nell'ambito del gruppo
interessato; può dirsi parziale quando, sempre nella
prospettiva di coloro che vi si ritengono coinvolti, regola
esclusivamente alcuni tipi di rapporti, lasciando tutti gli altri
alla regolamentazione di un altro sistema normativo. I sistemi
parziali possono essere, o ritenersi, inclusi in un sistema totale,
come nel caso delle associazioni disciplinate dalle norme di un
sistema giuridico cui esso riconosce poteri di autonomia normativa
nel loro ambito specifico (v. Cesarini Sforza, 1929). Essi possono
altresì essere, o ritenersi, parzialmente esterni rispetto a
un sistema normativo generale (v. Romano, 1918). Un'associazione
può reclamare obbedienza assoluta dai suoi aderenti e
infliggere sanzioni istituzionali collegate alle proprie norme
interne, ma al tempo stesso accettare l'applicazione di norme e
sanzioni da parte del sistema totale: è il caso di
istituzioni che gli Stati considerano lecite, come le Chiese, ma
anche di istituzioni che essi considerano illecite, come la mafia,
la cui strategia prevede, fra l'altro, proprio l'utilizzo
strumentale di norme e sanzioni dell'apparato statale.La distinzione
in questione è fondamentale in sociologia e in antropologia,
perché rappresenta uno dei canoni più ricorrenti per
individuare, fra i sistemi normativi, il sistema giuridico. A questo
si riconoscono spesso, infatti, caratteri di totalità o,
quanto meno, di completezza, non nel senso che esso risolva con
certezza, attraverso una norma positiva, qualsiasi problema di
rapporti sociali, ma nel senso che qualsiasi problema siffatto deve
poter essere risolto nel suo ambito attraverso l'intervento di
autorità apposite (l'elemento della cosiddetta
giustiziabilità delle norme giuridiche: v. Carbonnier, 1972)
e l'applicazione di apposite modalità decisionali (v. ad
esempio Bobbio, 1993, pp. 238 ss.).
c) Il sistema giuridico
Quanto appena detto ha condotto naturalmente a isolare, fra gli
altri sistemi normativi, il sistema giuridico, la cui rilevanza, fra
le tecniche di condizionamento sociale, è evidente. Tuttavia,
poiché all'argomento sono dedicati altri articoli di questa
opera, le osservazioni potranno essere ridotte al minimo.In
particolare va ricordato che 'diritto' è una parola
denotativamente complessa e ambigua: si pensi soprattutto alla
distinzione fra il suo significato oggettivo - complesso di norme- e
il suo significato soggettivo - di pretesa giuridicamente fondata o
di potestà di agire - differenziati lessicalmente, fra le
lingue europee, soltanto in inglese (law e right), peraltro con
sfumature di significato che normalmente non si segnalano. La
parola, inoltre, possiede una forte connotazione positiva che deriva
sia dal suo etimo (si pensi all'aggettivo 'diritto', contrapposto a
'storto' o a 'rovescio'), sia dal suo uso comune, spesso confuso o
combinato con i concetti di 'giusto' e di 'giustizia'. Va poi
ricordato che le società umane organizzate sono così
profondamente diverse (si pensi alle società semplici e a
quelle complesse, a quelle letterate e a quelle non letterate) e
così variamente interrelate (si pensi alle relazioni fra
Stati e, oggi, alle relazioni transnazionali) che appare opera vana
raccogliere in un'unica definizione tutte le forme apparenti di
normatività 'giuridica'.
Da quanto sopra detto deriva che alla definizione di 'diritto' si
può pervenire esclusivamente sul piano prescrittivo, non
soltanto dal punto di vista della scienza giuridica, ma anche da
quello delle scienze sociali, sia pure nel senso più lato del
termine 'prescrittivo': la definizione di 'diritto', in breve,
presenterà sempre un elemento di convenzionalità, la
cui funzione è peraltro quella di consentire una più
chiara comunicazione fra gli studiosi di una stessa disciplina.
Altrove, aderendo a posizioni normativiste 'aperte' (v. Scarpelli,
1965) e raccogliendo l'invito di chi raccomanda la scelta di
definizioni analitiche che, però, non si distacchino troppo
dagli usi comuni (v. Jori, 1976), chi scrive ha ritenuto di proporre
ai sociologi del diritto una definizione del diritto come complesso
di messaggi normativi eteronomi, ipotetici, istituzionali e
giustiziabili, collegati strettamente all'esercizio del potere (v.
Ferrari, 1987): definizione che traspare anche da molte delle
considerazioni precedenti e che ambisce, peraltro, a coprire una
realtà sociale troppo multiforme, presentando quindi limiti
non meno evidenti di quelli di molte altre definizioni correnti.
5. L'efficacia delle norme e delle sanzioni
a) Relatività del concetto di efficacia delle norme
Si è spesso ritenuto che la sociologia dei fenomeni
normativi, in particolare la sociologia del diritto, trovi la sua
raison d'être soprattutto nello studio dell'efficacia delle
norme. Ciò è senz'altro vero, ma bisogna sottolineare
che l'efficacia delle norme, e specialmente delle norme giuridiche,
è di per sé un concetto relativo. Per efficacia di una
norma si intende infatti la realizzazione degli effetti che le sono
propri: effetti che, quando si tratti di norma scritta (legislativa,
regolamentare, contrattuale), coincidono con gli effetti desiderati
da colui, o coloro, che hanno posto quella norma o potrebbero,
volendo, cambiarla (v. Friedman, 1975). Peraltro le norme sono, come
si è visto, essenzialmente messaggi comunicativi soggetti a
interpretazioni variabili. Massimamente variabili, e difficili da
interpretare, sono le intenzioni di chi dispone istituzionalmente
delle norme: soprattutto quando si tratti di soggetti collettivi,
come i parlamenti moderni, in cui convergono, si scontrano e si
combinano volontà, finalità e strategie differenti,
con la conseguente produzione, tipica degli Stati contemporanei, di
norme vaghe, ambigue, spesso vuote (v. Bettini, 1984). Non essendo
univoco il messaggio, e men che meno le intenzioni di chi l'ha
emesso, ne deriva che il concetto di efficacia va relativizzato a
ciascuna interpretazione possibile dell'uno e delle altre: a diversi
osservatori la stessa norma può apparire efficace o non
efficace.
Come è relativo il concetto di efficacia del diritto,
così lo sono le etichette di 'conformità' e di
'devianza' che nell'interazione sociale si attribuiscono alle azioni
e, conseguentemente, agli attori. La teoria della devianza ha da
tempo segnalato il carattere contingente di tali etichette, che
dipendono essenzialmente da relazioni asimmetriche di potere: il
potere di 'definire', attraverso la normazione generale e
particolare. Tale contingenza appare in tutta la sua estensione se
si considera che, preliminare o collaterale rispetto al potere di
definire, vi è quello di interpretare: principî
generali e bisogni sociali nel caso della normazione generale, norme
generali nel caso della normazione particolare. Alle incertezze che
derivano dal variabile, e spesso volubile, esercizio di tali poteri,
va aggiunta quella derivante dalla mancata corrispondenza, che
spesso si riscontra nell'esercizio della normazione, fra
volontà effettive e dichiarazioni giustificative.
Da tutto ciò risulta ben chiaro che le norme forniscono agli
attori sociali un orientamento che è soltanto eventuale:
possono, cioè, facilmente orientare in modo difforme diversi
attori sociali. Sarebbe oggi un errore, in sociologia, ritenere che
quanto più le norme sono formalizzate, tanto più esse
sono chiare; e che pertanto le norme più chiare e affidabili
sono quelle dei sistemi giuridici, soprattutto quelli "formali e
razionali", nella terminologia di Max Weber (v., 1922). Se le norme
giuridiche fossero chiare e univoche, non esisterebbero intere
biblioteche di opinioni dottrinali e di precedenti
giurisprudenziali, che si differenziano fra loro, precisamente, per
il fatto di raccomandare o di imporre significati diversi delle
stesse disposizioni: problema, questo, già ben noto nel
secolo scorso, malgrado il dominante principio della certezza del
diritto, e resosi particolarmente acuto prima con la legislazione,
molto articolata, del Welfare State, poi con quella, non meno
complicata e spesso assai fumosa, che ha caratterizzato la crisi di
questo modello politico e la società cosiddetta 'postmoderna'
(v. Sousa Santos, 1990).
La questione va posta, quanto meno, in relazione a un complesso di
variabili storiche e politiche. Per quanto riguarda il sistema
giuridico, è assodato che esso oscilla "fra ordine e
disordine" (v. van de Kerchove e Ost, 1988) e che a periodi di
riordino seguono periodi di 'disordinamento', determinati dal
mutamento sociale che spesso travolge, per la sua velocità, i
valori su cui si fondano le norme; ordine e disordine, a loro volta,
dipendono dalla maggiore o minore unità sociale attorno a
principî e valori consolidati.
b) Efficacia variabile anche delle norme più chiare
Messo in luce il carattere contingente del concetto di efficacia
normativa, si deve ora insistere sul fatto che le norme
apparentemente più chiare, su cui non vi siano incertezze
interpretative, possono rivelarsi inefficaci per varie ragioni.
La prima causa di inefficacia normativa è la più
ovvia, cioè la trasgressione o disobbedienza. Questa
può riguardare qualsiasi attore sociale che sia coinvolto
nell'applicazione di una norma: nel caso delle norme giuridiche,
può essere disobbediente tanto il cittadino che rifiuta di
aderire, quanto il burocrate o il giudice che evitano, o frustrano,
o ritardano il compimento di atti specifici conseguenti alla norma
stessa. La disobbedienza può investire tanto quella norma
specifica, quanto l'intero sistema normativo di cui essa fa parte.
Può, inoltre, essere motivata - secondo la tipologia di Max
Weber - da valori, interessi, tradizione e affetti. Si può
disobbedire per far salvo un principio superiore di quel sistema o
di un altro sistema, o perché non si ritiene legittima
l'autorità che ha emanato la norma; ovvero perché non
conviene economicamente, in quanto i costi dell'obbedienza appaiono
superiori ai benefici; ovvero ancora perché la norma urta
contro abitudini consolidate; infine, perché il rispetto
della norma potrebbe coinvolgere dannosamente persone che si
vogliono tutelare.
Una seconda causa di inefficacia dipende dall'impossibilità
o, quanto meno, eccessiva difficoltà di applicazione.
Ciò avviene, ancora, sia per le norme generali sia per quelle
particolari. Una tipica causa di disapplicazione è la
mancanza di mezzi, strutture o tecnologie applicative: la crisi
endemica dei sistemi giudiziari è in massima parte dovuta a
ragioni di questo tipo. Non meno tipica la norma 'tecnica'
(eventualmente posta come obbligatoria) che contenga un errore, per
esempio scientifico. Va sottolineato che, soprattutto in diritto,
per la grande potenzialità 'convincente' e 'persuasiva' che
si ritiene esso presenti, molte norme, soprattutto generali, vengono
emanate malgrado la consapevolezza che non potranno essere
applicate, all'esclusivo fine di generare consenso sociale su chi le
emana ed eventualmente convogliare dissenso su chi dovrà
rispettarle o applicarle. Ove conseguano questi effetti le norme non
sono, sociologicamente parlando, inefficaci, ma sono efficaci
rispetto a finalità non palesate attraverso di esse.
Un caso particolare di disapplicazione per impossibilità si
ha, per un noto paradosso, quando l'applicazione conduce alla
frustrazione della norma. Vi sono norme che, applicate alla lettera,
producono effetti paralizzanti: invero l'applicazione letterale di
siffatte norme è un efficace strumento di lotta
politico-sindacale (lo 'sciopero bianco' italiano o il work-torule
inglese). Siano o non siano applicate, tali norme risultano in ogni
caso inefficaci.
Una terza causa di inefficacia è rappresentata dalla rinuncia
all'applicazione da parte di chi potrebbe, o dovrebbe, provvedervi.
Nel campo delle norme generali, si pensi a provvedimenti come
l'amnistia o il condono. Nel campo delle norme individuali, si pensi
al patteggiamento nel processo penale, con cui accusa e difesa
'scambiano' rispettivamente la rinuncia ad agire, o a proseguire
l'azione, contro l'accettazione volontaria di una pena più
lieve.
Un'ultima, ma non meno importante causa di inefficacia è
rappresentata dalla mancata conoscenza delle norme da parte dei
destinatari. Mentre nelle società semplici e poco
differenziate le norme, di carattere consuetudinario, sconfinano
nella pura abitudine comportamentale e sono conosciute, anche se non
a livello razionale, nelle società complesse e differenziate
esse non solo provengono sempre più da soggetti dotati di
poteri normativi, ma soprattutto si moltiplicano sino a divenire,
letteralmente, una foresta di precetti. Quando si tratta di norme
giuridiche, la loro conoscenza è entro certi limiti presunta:
ma gli effetti di questa fictio iuris possono essere talmente
perversi che la sua portata è soggetta a eccezioni sempre
più frequenti, persino nei settori in cui le norme sono, o
dovrebbero essere, più cogenti, come il diritto penale.
c) La 'curva della prevenzione'
Si è ricordato sopra che le norme sociali sono spesso
accompagnate da un rinforzo sanzionatorio, consistente in una
minaccia o in una promessa conseguenti alla loro trasgressione o
alla loro osservanza. Tali norme operano, o si ritiene debbano
operare, soprattutto attraverso il meccanismo preventivo della
persuasione, che sollecita all'obbedienza per timore o per desiderio
della sanzione, negativa o positiva.
L'efficacia di tali norme può naturalmente dipendere da altri
fattori. Esse, come ogni tipo di norma, possono infatti incorporare
valori o principî che i destinatari condividono; possono anche
sollecitare obbedienza, sebbene non condivise, per rispetto
dell'autorità o del sistema normativo di cui fanno parte. Ma
ove tali fattori non operino e giochi decisivamente il meccanismo
persuasivo - come avviene per esempio con le molte norme penali che
vietano comportamenti socialmente non riprovati (v. Sgubbi, 1990; v.
Delmas-Marty, 1986) - l'efficacia di tali norme dipende,
com'è noto, dal rapporto fra comportamenti e sanzioni: se
queste sono palesemente sproporzionate, per eccesso o per difetto,
rispetto al comportamento preso in considerazione, la persuasione
non opera.
Affrontando questo argomento, Lawrence Friedman osserva esattamente
che "non v'è una relazione semplice e lineare tra le sanzioni
e il comportamento sanzionato" (v. Friedman, 1975; tr. it., p. 145)
e prosegue notando che all'aumento della minaccia di sanzione non
corrisponde certamente un eguale aumento dell'efficacia delle norme:
"la minaccia di vent'anni di galera non è, probabilmente,
dotata di efficacia doppia della minaccia di dieci anni di galera"
(ibid.). Vi sono casi in cui, anzi, la "curva della prevenzione"
tende all'appiattimento e addirittura a zero: nei confronti di
ergastolani, la minaccia di un'ulteriore condanna all'ergastolo non
è particolarmente efficace; e per contro, come osserva ancora
lo studioso americano, un indurimento indiscriminato delle pene
può indurre alla resistenza, come avviene spesso nella storia
delle società totalitarie. Conseguentemente, "ogni atto
normativo ha la sua propria curva di capacità deterrente e di
prevenzione; e forse non vi sono al mondo due curve di prevenzione
perfettamente uguali" (ibid., p. 147).
d) Norme e legittimazione dell'azione
Le norme fungono - anche - da strumento di legittimazione delle
azioni: nell'interazione sociale, infatti, esse vengono comunemente
addotte dagli attori sociali come argomento presso interlocutori
diretti o indiretti al fine di acquisirne il consenso. L'efficacia
legittimativa delle norme, tuttavia, dipende (non soltanto, ma
anche) dal fatto che gli interlocutori, di cui viene sollecitato il
consenso, ritengano le norme stesse, a loro volta, legittime. Per
paradosso, colui che esibisce una norma come strumento di
legittimazione può non credere alla norma stessa e usarla
soltanto a fini di propaganda; ma la sua azione risulterà
tanto più efficace se gli interlocutori crederanno in quella
norma e saranno disposti a rispettarla.
Riveste quindi grande importanza, per qualsiasi autorità che
disponga di poteri normativi, presentare le norme stesse nel modo
più acconcio ai futuri destinatari. In questo senso
può convenire sia presentare la norma nella sua forma
più immediata e senza veli, sia presentarla con l'ausilio di
artifizi retorici che ne occultino il reale significato; così
come può convenire non presentarla affatto e nasconderla
nell'ambito, per esempio, di contesti normativi più ampi,
orientati a realizzare effetti ben diversi, oppure nell'ambito di
notizie tendenti a rassicurare o stimolare il pubblico che si vuole
raggiungere.
Non solo le norme, ma anche le tecniche di presentazione degli
strumenti normativi vanno collegate ai diversi tipi di
legittimazione. Un'interessante classificazione, offerta da Adam
Podgórecki, individua otto diversi tipi di legittimazione,
cui conducono, nelle varie articolazioni, diverse tecniche di
argomentazione normativa. Queste tecniche possono far leva sul
'diritto intuitivo' - concetto che l'autore riprende da Leon
Petrażycki e che, lato sensu, può corrispondere al sentimento
di giustizia - come pure sul 'diritto ufficiale' o su una
commistione fra i due: ne scaturiranno forme di legittimazione che
spaziano dai tipi weberiani - tradizionale, carismatico e
razionale-legale - a tipi spuri, basati sulla falsa coscienza o su
altre forme di coercizione fisica o psichica (v. Podgórecki,
1991).
e) Norme e controllo sociale
Se per 'controllo sociale' si intende, estensivamente,
"quell'insieme di processi e di istituzioni sociali con i quali il
sistema sociale e i gruppi che ne fanno parte influenzano o
costringono la condotta dei soggetti individuali o collettivi verso
la conformità alle norme o alle regole dominanti della
collettività" (v. Tomeo, 1985, pp. 150-151), si constata che
le norme sono al tempo stesso strumento e obiettivo del controllo.
Al rispetto delle norme si viene indotti, cioè, dalle stesse
o da altre norme.
La questione da porsi non è, dunque, 'se' le norme abbiano un
riflesso sul controllo sociale, ma piuttosto 'come' esse ottengano
osservanza e rispetto generalizzati.
Una risposta a questo quesito varia non solo al variare delle
condizioni storiche, ma anche a seconda dei diversi canoni analitici
cui si ricorre per distinguere fra società e
società.Un canone distintivo importante, che da Durkheim
scende sino a Parsons, conduce a rappresentare le società
come unità complesse, differenziate al loro interno per ruoli
funzionali e solidaristici. Si tratta di un canone tradizionale e
certamente fertile. Esso ha permesso, per esempio, di
concettualizzare il progressivo spostamento delle norme dal campo
delle sanzioni repressive a quello delle sanzioni restitutive e,
soprattutto, delle sanzioni positive; ha messo in luce
altresì la progressiva rilevanza delle norme di competenza,
procedurali, rispetto a quelle di condotta, sostanziali (v. Luhmann,
Legitimation..., 1969; v. Teubner, 1987); ha infine indotto a
pensare alla società contemporanea come a una società
che moltiplica opportunità e diritti, e nella quale le
pretese tendono a incanalarsi nella via del diritto, inteso come
strumento pacifico di bilanciamento di interessi, piuttosto che in
quella della violenza (v. Parsons, 1962; v. Friedman, 1985 e 1990).
Le teorie menzionate, pur diverse l'una dall'altra, si
caratterizzano tutte per il loro carattere integrazionistico. Esse
tendono in effetti a presentare le norme, in particolare le norme
giuridiche, come uno strumento di integrazione sociale, atto a
depotenziare i conflitti e, come disse Parsons, a "lubrificare i
meccanismi della vita sociale". Il controllo sociale, secondo queste
teorie, avviene in certo modo spontaneamente, per accettazione dei
vincoli che le norme pongono. Le norme evitano l'uso della forza.
A conclusioni diverse conduce un altro canone analitico, che
distingue le società non per ruoli funzionali, ma per
posizioni di potere, economico o politico, formale o informale,
nella prospettiva conflittualistica che da Marx, attraverso Weber,
arriva sino a Wright Mills e a Dahrendorf. In questa visione la
società appare non unitaria, ma segmentata e stratificata in
ruoli asimmetrici e competitivi. Le norme, soprattutto le norme
giuridiche, appaiono come uno strumento di dominio o, comunque, di
condizionamento esterno dei comportamenti. Il controllo sociale
avviene in modo forzoso; i vincoli normativi sono imposti,
giacché le norme regolano l'uso della forza indirizzandola
secondo evenienze dettate dalle relazioni di potere. Nelle versioni
più radicali, come quella marxista, esse giustificano l'uso
della forza diffondendo falsa coscienza.Le acquisizioni teoriche
sopra citate, in base a questa teorizzazione, non vengono messe in
discussione, ma appaiono in una luce diversa e più
articolata. Per esempio, la crescente importanza delle norme
procedurali rispetto a quelle sostanziali rivela, da un lato, la
progressiva liberazione dai vincoli comportamentali e l'esaltazione
delle autonomie dei singoli e dei gruppi entro un quadro generale di
rispetto delle regole del gioco, ma dall'altro lato può
stimolare il conflitto fra gruppi (v. Corsale, 1995) e, inoltre, fa
sorgere il sospetto che entro le autonomie dei gruppi i singoli
possano trovarsi oppressi e privi della protezione che può
scaturire da complessi normativi vincolanti per tutta una
comunità e gestiti in modo impersonale (v. Treves, 1987).Fra
le due prospettive esiste peraltro una possibile conciliazione,
poiché l'uomo è portato a socializzare così
come a massimizzare la propria utilità (v. Pocar, 1993), e in
conseguenza le norme, soprattutto giuridiche, riflettono sia valori
condivisi, sia volontà oppressive (v. Resta, 1992).