Norme e sanzioni sociali

di Vincenzo Ferrari



www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1996)


Sommario: 1. Norme, sanzioni e azione sociale: a) definizione generale di 'norma' o 'regola'; b) 'normalità' e 'regolarità'; c) autonomia ed eteronomia; d) norme non vincolanti e vincolanti; e) il rinforzo sanzionatorio delle norme; f) i riferimenti normativi dell'azione e dell'interazione sociale; g) l'azione sociale come fatto comunicativo: le norme come messaggi; h) univocità ed equivocità delle norme; i) il problema dell'autoreferenzialità e dell'autoproduzione dei sistemi normativi. 2. Classificazioni delle norme: a) norme vincolanti e non vincolanti: ulteriori precisazioni; b) norme costitutive e norme regolative; c) norme di uso, di costume, della moda, della morale, della tecnica, del diritto; d) norme consuetudinarie e norme statuite; e) norme scritte e norme non scritte; f) norme generali e norme individuali; g) norme 'di condotta' e norme 'di competenza'. 3. Classificazioni delle sanzioni: a) sanzioni negative e sanzioni positive; b) sanzioni repressive e sanzioni restitutive; c) sanzioni istituzionali e sanzioni non istituzionali; d) sanzioni escludenti e sanzioni includenti; e) sanzioni individuali e sanzioni collettive; f) sanzioni applicate centralmente e sanzioni applicate perifericamente. 4. I sistemi normativi: a) sistemi normativi statici e sistemi normativi dinamici; b) sistemi normativi totali e sistemi normativi parziali; c) il sistema giuridico. 5. L'efficacia delle norme e delle sanzioni: a) relatività del concetto di efficacia delle norme; b) efficacia variabile anche delle norme più chiare; c) la 'curva della prevenzione'; d) norme e legittimazione dell'azione; e) norme e controllo sociale. □ Bibliografia.

1. Norme, sanzioni e azione sociale

a) Definizione generale di 'norma' o 'regola'
La parola italiana norma (corrispondente all'omonima parola latina), come i suoi corrispondenti in altre lingue indoeuropee (il francese norme, l'inglese norm, il tedesco Norm, lo spagnolo norma e via dicendo), non ha un significato univoco. Ad esempio, il Dictionnaire encyclopédique de théorie et de sociologie du droit dedica al termine norme quattro voci, rispettivamente generale, antropologico-giuridica, sociologico-giuridica e teorico-giuridica. Nella voce generale, poi, il termine viene ricondotto a quattro diversi campi semantici, e così definito da Michel Troper e Danielle Loschak (v., 1993², p. 399): "1. Enunciato imperativo o prescrittivo appartenente a un ordine o sistema normativo, e obbligatorio entro questo sistema; 2. Significato prescrittivo di un enunciato, di qualunque forma sia, e in generale di qualsiasi azione umana, riferito a un certo ordine o sistema normativo; 3. Strumento di misura concernente lo svolgersi del corso delle cose, di carattere puramente psichico (Amselek); 4. Modello o standard, non sempre obbligatorio, cui ci si può conformare nella realizzazione di un'operazione tecnica (per esempio: le norme predisposte dalle associazioni professionali per la produzione o la presentazione di un prodotto)".

Benché diverse, le accezioni correnti di 'norma' hanno tuttavia qualcosa in comune.

Analizzando, per esempio, i quattro significati appena riportati si può osservare che la distinzione fra il primo e il secondo, corretta sul piano semiotico e ben consolidata (v. Orestano, 1988), può essere ricondotta a unità: in entrambi i casi siamo di fronte a un enunciato prescrittivo o interpretabile in senso prescrittivo. Nel quarto significato si perde il carattere dell'obbligatorietà, esplicito nel primo e implicito nel secondo, ma si mantiene quello, lato sensu, della prescrittività. Un modello che può essere seguito è pur sempre una guida di un corso di azioni: ovvero non descrive, ma, senza imporre, pur sempre raccomanda o consiglia quel corso di azioni. Il terzo (prescindendo, per semplicità, dal riferimento al 'carattere psichico' della misurazione, tratto da Amselek e registrato nella definizione sopra riportata) è apparentemente lontano dagli altri, ma in realtà ricalca l'origine etimologica comune a tutti. Infatti il significato originario di norma, in latino, è 'squadra' cioè uno strumento di misura. Ebbene, anche se ciò che viene misurato non è un oggetto inanimato o un evento meccanico, ma un'azione umana, la misura di quell'azione si connette al suo modello: il metronomo del pianista è al contempo misura quantitativa e guida o modello - cioè norma - del ritmo entro cui il suono è prodotto.

Una parentela semantica, sebbene non etimologica in senso stretto, si riscontra fra la parola di origine latina norma e la parola greca νόμοϚ, che designa non soltanto la legge o l'uso, ma anche - corrispondendo al verbo νέμω, 'ripartire regolarmente' - la 'retta distribuzione' secondo una predeterminata misura distributiva. In effetti le due parole, latina e greca, con i relativi derivati, sono penetrate con significati pressoché simili nel vocabolario tecnico delle scienze umane, in particolare giuridiche, proprio delle lingue moderne: si pensi alla corrispondenza fra le parole italiane 'anormale' e 'anomalo'.

In tutti i casi, pertanto, le varie accezioni di 'norma' fanno riferimento all'idea della corrispondenza fra un oggetto, o evento, o azione, e un modello predefinito. Se si tratta di un'azione (o comportamento) - com'è il caso nel presente articolo - per 'norma' si può dunque intendere la guida dell'azione (v. Scarpelli, 1985²), ovvero il modello predefinito cui l'azione a) di fatto si uniforma, ovvero b) può, ovvero c) deve uniformarsi. Naturalmente va segnalata la differenza che pur sempre sussiste fra queste tre variazioni definitorie: nel caso sub a) il concetto di norma viene usato nel contesto di espressioni enunciative; nel caso sub b), a seconda che 'può' esprima possibilità o opportunità, viene usato nel contesto di proposizioni modali o di proposizioni deontiche; nel caso sub c), pur nella varietà di accezioni dell'espressione 'deve', viene usato comunque nel contesto di proposizioni deontiche (v. Di Bernardo, 1972). L'uso di 'norma' in funzione deontica nel senso ampio del termine (che va dall'opportunità alla doverosità) è quello più ricorrente, ma non l'unico, nel campo delle scienze sociali.In quanto modello dell'azione, la norma non ne è solo una guida, ma ne è altresì uno schema interpretativo in base al quale l'azione stessa viene definita, sia da chi agisce, sia, eventualmente, da chi vi partecipa o vi assiste. Essa quindi orienta l'azione e al contempo le conferisce un senso, che può essere più o meno condiviso e oggettivo (v. Di Bernardo, 1983). Come osserva Kelsen, il fatto che alcune persone presenti in un'aula restino in piedi e altre rimangano sedute acquista un senso in relazione alla norma (giuridica) che stabilisce che attraverso quei gesti una legge viene votata in quel consesso, a sua volta denominato 'parlamento' normativamente (v. Kelsen, 1934; tr. it., p. 26).

Come la norma orienta e conferisce senso, così la mancanza di riferimenti normativi, o anomia, concetto centrale in sociologia (v. Durkheim, 1897; v. Merton, 1949), dis-orienta e rende l'azione priva di senso.

Talora la parola 'norma' viene usata quale sinonimo di regola, anch'essa di origine latina (regula, corrispondente al verbo regere); talaltra, soprattutto nel linguaggio filosofico, ne viene distinta: per esempio la regola viene ritenuta il genus e la norma la species (così nel secondo significato individuato nella voce Règle del Dictionnaire citato: v. Wróblewski, 1993²); ovvero si adotta la norma come genus e la regola come species (v. von Wright, 1963). Problemi nascono anche dalla difficile trasposizione dei termini da una lingua all'altra: la parola italiana 'norma', nel suo significato più strettamente giuridico, viene meglio tradotta in inglese con rule, letteralmente regola, che non con norm. Tuttavia, quanto meno nelle scienze sociali, appare raccomandabile adottare i due termini quali sinonimi, come avviene non solo nel linguaggio comune (da cui la scienza deve bensì distaccarsi, ma non troppo), ma anche, spesso, nel linguaggio filosofico-giuridico e sociologico-giuridico (ad esempio v. Bobbio, 1993; v. Pocar, 1988; v. Wróblewski, 1993²).

b) 'Normalità' e 'regolarità'

Le due parole 'norma' e 'regola' rinviano ai concetti di norma-lità e regola-rità, di grande rilievo nelle scienze umane e, tuttavia, alquanto ambigui.

Per 'normalità comportamentale' s'intende a volte 'un comportamento ideale' cui è auspicabile si rapportino i comportamenti concreti; altre volte, e più spesso, "il comportamento che si osserva con maggior frequenza in una popolazione esposta a una data situazione" (v. Gallino, 1983², p. 478). Conseguentemente, e simmetricamente, viene definito 'anormale', a seconda dei due significati, il comportamento che non si uniforma all'ideale, ovvero il comportamento che non si uniforma a quello tenuto da una maggioranza statisticamente individuabile. Il riferimento a una o più norme, in entrambi i significati dell'espressione, benché implicito, è relegato sullo sfondo e talvolta sfuma.Per 'regolarità comportamentale' s'intende a volte il comportamento che si uniforma a regole, altre volte il comportamento che si ripete uniformemente e prevedibilmente nel tempo. Conseguentemente, e simmetricamente, viene definito 'irregolare', a seconda dei due significati, il comportamento che trasgredisce a regole, ovvero il comportamento che mantiene un andamento incostante e imprevedibile. Il richiamo alle regole è qui evidente nel primo caso, molto meno nel secondo.

Dalla varietà di accezioni in cui compaiono le parole in questione nascono non solo discorsi (comuni o specializzati) di diversa natura, ma altresì equivoci, che vanno messi in rilievo.

Per esempio, al concetto di 'normalità' viene spesso contrapposto il concetto, centrale in sociologia del diritto e in criminologia, di 'devianza', senza precisare se con tale termine si intenda designare il distacco comportamentale da una norma individuabile, ovvero dalla 'normalità ideale' (suggerita da un codice normativo), ovvero ancora dalla 'normalità statistica'. Conseguentemente, le teorie della devianza sono spesso incorse in ambiguità e, soprattutto, si sono opposte artificiosamente l'una all'altra perché adottavano, più o meno inconsapevolmente, significati diversi di 'normalità' e di 'devianza' nello stesso contesto o significati uguali in contesti diversi.Riguardo al concetto di regolarità, la confusione fra comportamento regolare in quanto aderente a regole (cioè 'regolato') e comportamento regolare in quanto costantemente e uniformemente osservato può portare a fraintendimenti nell'osservazione di interazioni sociali concrete. È noto l'esempio di Alf Ross che, per preparare la strada alla definizione di 'diritto valido', sottolinea che se un osservatore esterno naïf volesse desumere le regole degli scacchi dalla mera osservazione di due giocatori all'opera, sarebbe indotto a confondere le regole del gioco, che lo rendono non solo possibile ma pensabile, con le regole della tattica, cui i giocatori si attengono 'regolarmente' per vincere la partita: per esempio sarebbe indotto a pensare che "è contro le regole aprire [di] torre" (v. Ross, 1958; tr. it., p. 16).

Tali pericoli di confusione semantica vanno denunciati, peraltro, non già per eliminare questi termini dal linguaggio delle scienze sociali, ma al contrario per rafforzarne, mediante chiarimenti analitici, la potenzialità euristica. Il titolo La maggioranza deviante (v. Basaglia e Basaglia Ongaro, 1971), palesemente un ossimoro se per 'devianza' si intenda lo scostamento dal comportamento della maggioranza statistica, acquista una sua esplicatività (e una notevole forza icastica) ove si specifichi che per 'devianza' si intende qui lo scostamento dai parametri normativi imposti da una minoranza dominante. Il concetto di regolarità comportamentale, anche nel senso di ripetizione uniforme di condotte, può rivelarsi molto utile per la ricostruzione empirica di un sistema normativo. In una società che non produca norme scritte - come rilevano gli antropologi - le norme socialmente rispettate non possono che indursi dall'osservazione di certe uniformità comportamentali: ma solo un chiarimento definitorio preliminare, linguistico e teorico, può permettere di individuare il punto di passaggio, talvolta quasi impercettibile, fra le regole seguite per abitudine e quelle seguite perché ritenute obbligatorie.

c) Autonomia ed eteronomia

'Autonomia' significa facoltà di darsi delle norme cui uniformare i propri comportamenti; 'eteronomia' significa ricevere tali norme dall'esterno, in particolare da soggetti che detengano, o ritengano di detenere, potere normativo.È questa una distinzione classica e molto importante. In filosofia morale e giuridica il binomio autonomia-eteronomia è stato spesso adottato come criterio decisivo per distinguere fra morale e diritto: secondo Kant la norma morale promana dalla coscienza di ognuno e possiede un motivo assoluto e categorico (il dovere per il dovere), mentre la norma giuridica promana dall'esterno e possiede un motivo empirico nonché ipotetico e strumentale (il mezzo per il fine: v. Kant, 1785 e 1797). In filosofia politica, e in scienza politica, un concetto centrale è quello di autodeterminazione, cioè di autonomia normativa appartenente di fatto o di diritto a popolazioni identificabili, che sono libere da interferenze esterne o rivendicano tale libertà.Anche su questi concetti è opportuno compiere precisazioni analitiche.

Nella sociologia, specialmente di ispirazione marxista, è stato messo sovente in luce il carattere sociale, 'appreso' o 'imposto', quindi non autonomo, della morale, o quanto meno di particolari sistemi o precetti morali. In filosofia del diritto, anche autori di ispirazione kantiana, come Hans Kelsen (v., 1934), mettono in discussione la possibilità di adottare la distinzione fra autonomia ed eteronomia come criterio per distinguere fra diritto e morale, osservando per esempio che esistono forme di diritto autonomo, come il negozio giuridico e in particolare il contratto. Il concetto di autodeterminazione, cioè di autonomia normativa di un popolo, può apparire contraddittorio con l'idea che il diritto di quel popolo sia, nella prospettiva kantiana, per natura eteronomo, cioè imposto dall'esterno, per esempio da un legislatore.Ancora una volta è evidente che le stesse parole vengono usate per designare concetti diversi o rapportandosi a contesti diversi. Il fatto che la morale di un popolo consti di norme nate da bisogni concreti avvertiti dalla generalità o da gruppi specifici, trasmesse socialmente e mutevoli nel tempo, può condurre a definirla eteronoma se si considera il processo formativo e, soprattutto, interpretativo e comunicativo di tali norme; ma non impedisce che sia definita autonoma, se ci si concentra invece sul processo di interiorizzazione, accettazione e obbedienza 'convinta' dei membri di quel popolo. Il contratto è una forma di autonomia normativa se si considerano i contraenti insieme, come un unicum; se invece si considerano i contraenti separatamente e si analizza l'interazione contrattuale, ipotizzando, ad esempio in chiave utilitaristica, che ciascuno tenda a massimizzare il proprio interesse, si può ritenere che esso sia il frutto di reciproche opposizioni e concessioni, cioè eteronomo. Altrettanto dicasi per l'autodeterminazione di un popolo: si tratterà di autonomia se si considererà quel popolo come un'unità in contrapposizione ad altri popoli e, invece, di eteronomia se si considererà quel popolo nelle sue articolazioni e le sue norme appariranno come frutto di un negoziato fra i suoi singoli membri o di imposizione.

d) Norme non vincolanti e vincolanti

Come accennato all'inizio, al concetto di norma si associa frequentemente, benché non necessariamente, quello di vincolatività o di obbligatorietà. Da un punto di vista sociologico va sottolineato che questo carattere è essenzialmente oggetto di convenzioni sociali e anche di percezioni soggettive del singolo individuo che è chiamato a conformarsi alla norma, ovvero di coloro che detengono, o ritengono di detenere, potere normativo. Pertanto l'opinione circa il carattere vincolante delle norme può non essere condivisa ed essere, anzi, oggetto di discussione. Frequentemente accade che taluno si senta libero di non conformarsi a norme che altri, e perfino intere generalità, ritengono vincolanti: è questo il caso, notissimo, dell'obiezione di coscienza contro norme ritenute ingiuste. Così pure, simmetricamente, accade che taluno si senta obbligato a seguire norme che altri, o una intera generalità, ritengono facoltative o addirittura non riconoscono: si pensi al credente che, in regime di libertà civile di divorzio, si ritiene obbligato a osservare il principio di indissolubilità del vincolo matrimoniale.

Il carattere vincolante o non vincolante di singole norme non è necessariamente il tratto distintivo di particolari sistemi normativi, anche se essi si presentino, nel loro complesso, come cogenti. Ogni sistema normativo, anche il sistema giuridico, che è ritenuto cogente per intere comunità, contiene tanto norme vincolanti quanto norme non vincolanti. Inoltre, ogni sistema normativo, nel definire ciò che deve, può e non può essere fatto, lascia degli spazi entro i quali le scelte sono esclusivamente libere: una norma che vieti un comportamento implica che ogni comportamento diverso è libero sulla base di quella norma (naturalmente può essere vietato da un'altra norma).

In breve, il carattere di vincolatività delle norme, dal punto di vista della sociologia, che è essenzialmente descrittivo, si fonda sulla credenza da parte dei destinatari di tali norme che esse effettivamente vincolino, perché valide in se stesse oppure perché sorrette dall'autorità e/o, eventualmente, dalla forza di chi le pone o applica (v. Weber, 1922). Ciò non toglie che detto carattere sia, invece, imposto dal punto di vista di altri discorsi, che abbiano, come la scienza giuridica o la morale, natura essenzialmente prescrittiva.

e) Il rinforzo sanzionatorio delle norme

Al carattere della vincolatività è comunemente associato, per certi tipi di norme, quello della sanzionabilità. Vi sono cioè norme la cui osservanza è rinforzata dalla presenza di una sanzione collegata funzionalmente al comportamento che la norma impone, ammette o vieta. Il vincolo fra comportamento e sanzione viene sovente espresso attraverso la prospettazione della norma in forma di giudizio ipotetico: Se A [↔(allora)] B. Mentre la premessa A esprime un fatto, la conseguenza B esprime un dovere: al verificarsi del fatto-comportamento, inteso come condizione, deve seguire, come conseguenza, l'applicazione della sanzione. È importante quindi sottolinea"e che il rapporto fra la premessa e la conseguenza di cui si parla non è di deduzione logica, cosa questa che contraddirebbe il principio metodologico secondo cui non possono derivarsi conseguenze prescrittive da premesse descrittive e viceversa. Vale in proposito la definizione di Hans Kelsen, secondo cui il rapporto in questione è di imputazione; alla premessa A deve essere imputata la conseguenza B, e viceversa.Va precisato che il carattere del rinforzo sanzionatorio si attaglia a ogni tipo di norma sociale, non soltanto a quelle giuridiche, con caratteri diversi a seconda dei contesti. Consideriamo alcuni esempi.

L'enunciato normativo 'o la borsa o la vita', che sia espresso contingentemente da un rapinatore senza riferimento a un sistema normativo che lo ricomprenda fra le proprie disposizioni (come potrebbe teoricamente avvenire), si presenta in apparenza nella stessa forma ipotetica appena ricordata. La norma che impone di cedere il posto a una persona anziana sull'autobus non conferisce di solito a questa persona un 'diritto', nel senso soggettivo della parola, ma la sua osservanza o la sua trasgressione suscitano spesso reazioni sanzionatorie di lode o di biasimo da parte dei passeggeri che, in quanto accomunati dall'uso dello stesso mezzo di trasporto, costituiscono (contingentemente) un gruppo sociale. Andando ancora oltre, il comportamento screanzato di una persona che frequenti un ambiente - per esempio mangi la pastasciutta con le mani - può condurre gli altri frequentatori a escluderla da quell'ambiente. Infine, il capriccio del bambino viene punito dai genitori secondo modalità che tendono a ripetersi sia per abitudine, sia per l'opportunità di insegnare al bambino stesso come dovrà comportarsi, condizionandolo con la paura della punizione.

Le diverse situazioni appena descritte presentano tutte la ricordata correlazione 'imputativa' fra comportamento e sanzione, pur non essendo (secondo le comuni definizioni del diritto) giuridiche. Sono peraltro ordinate in scala secondo un ordine crescente di complessità e di istituzionalità. Nel primo caso tanto la norma quanto la sanzione sono contingenti e si esauriscono nel singolo episodio. Nel secondo la sanzione è contingente, ma non lo è la norma: infatti è in base a quella norma, comune ai viaggiatori, che verrà lodato o biasimato il comportamento del passeggero. Nel terzo la norma può o meno preesistere alla sanzione, ma questa sarà durevole e strutturerà diversamente una relazione sociale complessa, ma instabile. Nel quarto caso la previsione della sanzione è funzionalmente collegata a priori alla conoscenza della norma, anch'essa preesistente al comportamento: lo schema normativo-ipotetico è cioè usato come tecnica di condizionamento preventivo e durevole di una relazione sociale complessa e stabile, ai limiti se non addirittura nell'ambito della normatività giuridica (v. Ehrlich, 1913).

Come le sanzioni non sono necessariamente associate al carattere giuridico delle norme sociali, così esse non promanano necessariamente ed esclusivamente dall'esterno rispetto all'autore del comportamento considerato. In particolare, la punizione può essere anche autoinflitta dal soggetto agente, sia in base a un sistema normativo alla cui osservanza egli si ritenga tenuto, sia contingentemente, senza riferimenti ad alcun sistema normativo e per ragioni varie, che possono andare dal senso di colpa sino alla rappresentazione pubblica - più o meno sincera - della propria afflizione. Il caso estremo di autosanzionamento è naturalmente il suicidio: la decisione di darsi la morte può bensì derivare da smarrimento normativo, cioè da anomia (v. Durkheim, 1897), ma può altresì derivare, e spesso deriva, dall'applicazione di una norma, sia essa socialmente condivisa (come nel caso del disonore) o vissuta nel proprio intimo.

f) I riferimenti normativi dell'azione e dell'interazione sociale

La sociologia contemporanea, soprattutto da Max Weber in poi, si configura essenzialmente come studio dell'azione sociale e dell'interazione sociale.Per azione sociale si può intendere una "sequenza intenzionale di atti forniti di senso che un soggetto individuale o collettivo [...] compie scegliendo tra varie alternative possibili, sulla base di un progetto concepito in precedenza ma che può evolversi nel corso dell'azione stessa, al fine di conseguire uno scopo, ovvero di trasformare uno stato di cose esistente in altro a esso più gradito, in presenza di una determinata situazione [...] della quale il soggetto tiene coscientemente conto nella misura in cui dispone a suo riguardo di informazioni e conoscenze" (v. Gallino, 1983², p. 69); per interazione sociale si può intendere la "relazione tra due o più soggetti individuali o collettivi, di breve o lunga durata, nel corso della quale ciascun soggetto modifica reiteratamente il suo comportamento o azione sociale in vista del comportamento o dell'azione dell'altro, sia dopo che questa si è svolta, sia anticipando o immaginando [...] quale potrebbe essere l'azione che l'altro compirà in risposta alla propria o per altri motivi" (ibid., p. 396). Nelle rappresentazioni più astratte, nella linea che da Talcott Parsons arriva sino a Niklas Luhmann, la società stessa viene intesa non già in modo antropomorfico, come aggregato di individui uniti da vincoli interattivi più o meno stabili, ma in modo simbolico, come reticolo di azioni e di interazioni influenzate dalle aspettative comportamentali dei soggetti che entrano in relazione e dotate di un senso più o meno - a seconda delle versioni - oggettivo e socialmente condiviso (v. Donati, 1994³).Riformulando nel modo indicato il proprio oggetto, la sociologia ha integrato, modificandolo, il tradizionale modello positivistico, volto a scoprire i fattori che determinano 'naturalisticamente' i comportamenti, con il modello ermeneutico, che mira alla 'comprensione' degli obiettivi, delle motivazioni e dei significati delle azioni. Così facendo, si è potuto altresì istituire un collegamento fra le concezioni macrosociologiche, in particolare lo struttural-funzionalismo, e le concezioni microsociologiche, in particolare l'interazionismo simbolico.

Che l'azione umana sia fortemente condizionata da norme o valori che trascendono l'individuo influenzandone le decisioni è, in verità, un elemento centrale già nella sociologia classica di Durkheim o di Weber. Così pure l'elemento normativo entra in gioco, più o meno decisivamente, in tutte le teorizzazioni più recenti dell'azione sociale (v. Turner, 1988). Alcune di esse, in particolare quelle di ispirazione struttural-funzionalistica, posseggono carattere spiccatamente normativo. È questo il caso della teoria di Parsons (v., 1937 e 1951), secondo cui i comportamenti di ruolo e le relazioni di scambio sono guidati da norme e, in posizione retrostante, da valori condivisi; ed è anche il caso della teoria di Luhmann (v., 1981), secondo cui i sistemi normativi (il diritto in particolare) conferiscono sicurezza e stabilità alle aspettative e compiono la funzione di 'ridurre la complessità', cioè di permettere una decisione fra varie alternative. Queste teorie possono essere criticate - e lo sono state - in quanto tendenti a ravvisare nelle norme il fattore primario della struttura sociale e, soprattutto, a ritenerle "consensualmente accettate e prive di ambiguità" per usare le parole di Turner (v., 1988, p. 157).

Ma, come lo stesso Turner opportunamente ricorda, tali critiche hanno a volte "buttato via il bambino con l'acqua sporca". Invero la rilevanza delle norme nella formazione dei processi decisionali umani e nella strutturazione delle azioni può essere sfumata e relativizzata, riconoscendo - come fa per esempio Anthony Giddens (v., 1984) - che le norme, con tutto il loro spazio di incertezza, fanno pur sempre parte del corredo di informazioni di cui dispongono i soggetti, in tal modo "generando comprensione" e facilitando i loro corsi d'azione.

L'influenza delle norme sull'azione e sull'interazione sociale risulta immediatamente evidente sulla base di una duplice considerazione.In primo luogo l'azione dei soggetti, individuali o collettivi, si orienta secondo aspettative di comportamento in un complesso gioco che presenta caratteri di riflessività, poiché le aspettative di Tizio sono influenzate non solo dalle aspettative di Caio, ma dall'opinione che Tizio e Caio hanno delle reciproche aspettative (v. Luhmann, Normen..., 1969). Ora, è prassi comune distinguere le aspettative in 'cognitive', se chi le nutre è disposto ad abbandonarle in caso di delusione, e, per l'appunto, 'normative', se chi le nutre le mantiene ferme nonostante la delusione: le aspettative normative sono, precisamente, riferite a norme comportamentali che i soggetti ritengono comuni ai loro interlocutori o per loro vincolanti. In secondo luogo, e per conseguenza, l'interazione sociale acquista un senso (relativamente) condiviso dai soggetti interagenti grazie all'esistenza di strutture di significato, che si presumono comuni ai soggetti stessi e rendono possibile la reciproca comprensione.

Fra tali strutture, quelle aventi carattere normativo, tanto più se ritenute cogenti, posseggono un'importanza primaria: l'interazione fra Tizio e Caio che, sovvenendo a reciproche esigenze economiche, scambiano un oggetto con una somma di denaro, acquista significato in quanto riferibile a una struttura normativa che la definisce come un contratto di compravendita, e forza persuasiva dall'esistenza di norme che stabiliscono che il contratto ha forza di legge fra le parti e dispongono che all'inadempimento del contratto debbano conseguire la sua 'risoluzione' e il 'risarcimento del danno' - altre parole dotate di significato reperibile (con i limiti che si diranno in seguito) nella struttura stessa.

Vi è dunque una stretta correlazione fra aspettative normative e norme, al punto che, sociologicamente parlando, si possono definire le norme stesse come aspettative comportamentali (normative) stabilizzate nell'ambito di un gruppo sociale (v. Pocar, 1988).

g) L'azione sociale come fatto comunicativo: le norme come messaggi

Un ulteriore e più recente passo della teoria sociologica è consistito nel tradurre l'azione sociale, e conseguentemente l'interazione sociale, in un fatto essenzialmente, o quanto meno primariamente, comunicativo. Su questa conclusione convergono autori per molti versi differenti, come Niklas Luhmann e Jürgen Habermas. Luhmann, che seguendo e perfezionando Parsons definisce la società come 'sistema sociale globale', composto di sistemi parziali dotati di senso specifico e di capacità autoriproduttiva, individua nella comunicazione l'operazione sistemica fondamentale (v. Luhmann 1984; v. Luhmann e De Giorgi, 1992). Habermas (v., 1981) pone al centro della sua teoria interattiva la comunicazione, poiché soltanto la comunicazione permette l'intersoggettività. Non molto lontana è la posizione di Michel Foucault (v., 1969), secondo cui la realtà stessa è il risultato di una costruzione comunicativa. Naturalmente le opinioni di questi e altri autori divergono su molti punti importanti, per esempio sul fatto che la comunicazione sia o meno riferibile nel contenuto a elementi esterni all'atto del comunicare, come gli interessi o il potere dei soggetti comunicanti. Ma tutti condividono l'idea della centralità del processo comunicativo come caratteristica propria dell'azione sociale, quindi della società in se stessa.

Nel processo comunicativo le norme sociali compaiono in vario modo. Un singolo atto comunicativo può essere motivato da un riferimento normativo, ovvero concretarsi nella proiezione di una norma, ovvero ancora risolversi nella formazione di una norma, non necessariamente stabile nel tempo. Un atto di disobbedienza civile è usualmente motivato dall'adesione a un modello normativo alternativo che può essere, o non essere, esibito comunicativamente. La notizia fornita da un giornale, che una norma è stata proposta o approvata da un organo dotato di poteri appositi, convoglia informazione e conoscenza su quella norma. Un parlamento 'comunica' nel momento stesso in cui emana una norma destinata a durare nel tempo; ma anche due alpinisti che si trovino a percorrere una stretta cresta nevosa che non permette a entrambi di passare simultaneamente, non avendo un codice normativo di riferimento e dovendo, al tempo stesso, minimizzare il pericolo, produrranno e si comunicheranno una norma, contingente ed effimera, capace di regolare sul momento l'imbarazzante situazione: uno potrà retrocedere fino a un punto più largo, ovvero sporgersi fuori dalla cresta, debitamente assicurato alla montagna.

Se si rappresenta l'interazione sociale in senso comunicativo, le norme compaiono - se non addirittura appaiono - come messaggi, cioè come entità semiotiche composte di segni o di simboli che vengono trasmessi e circolano in ambienti di varia ampiezza e complessità (v. Eco, 1987¹⁰; v. Jackson, 1985): dalla semplice relazione diadica dei due alpinisti appena citati, riportabile con qualche libertà ai modelli resi celebri da Goffman (v., 1971), alla relazione plurima di una moltitudine di persone che, ricevendo notizie sulla produzione di una norma, le interpretano e, a loro volta, se le scambiano vicendevolmente o le comunicano al di fuori della cerchia degli uditori originari.

È importante sottolineare che la trasmissione dei messaggi normativi può avvenire per segni verbali o non verbali: un semaforo convoglia informazione normativa attraverso l'emissione di segni costituiti da segnali luminosi; la comunicazione normativa fra i due alpinisti, che supponiamo parlino lingue diverse, può avvenire per segni gestuali interpretabili secondo la comune esperienza di scalate; una norma giuridica può essere comunicata per iscritto sin dal momento della sua creazione, ovvero comunicata mediante atti significativi, prevalentemente ma non esclusivamente di natura verbale.

La funzione o l'effetto essenziale della comunicazione di messaggi normativi è, in senso lato, di influenzare dati comportamenti: anche la semplice informazione non ufficiale sull'esistenza di una norma implica l'informazione che attraverso quella norma taluno, diverso dall'informatore, mira a influenzare dati comportamenti e date aspettative comportamentali. Ma non è certo che i messaggi vengano intesi, ed è anzi possibile che la situazione sociale che li concerne sia caratterizzata da incomunicabilità.

h) Univocità ed equivocità delle norme

In quanto messaggi iterati nell'ambito di uno spazio discorsivo passando attraverso media di varia natura, individuali o di massa, le norme, intese come enunciati, non mantengono necessariamente inalterato il loro significato nel tempo e nello spazio.Sul significato delle norme, come di ogni altro messaggio, incidono infatti diversi fattori.

In primo luogo, tale significato può essere reso più chiaro, o più oscuro, dalla formulazione stessa del messaggio, all'origine (se ha un'origine individuabile) e nelle varie tappe della sua iterazione. Innanzitutto, chi parla può avere interesse a farsi capire, ma anche a non farsi capire, per esempio al fine di estendere al massimo il proprio spazio di discrezionalità, che può trarre vantaggio dalla vaghezza delle espressioni normative. Inoltre, chi parla può conoscere il significato socialmente condiviso dei segni - specialmente delle parole - che usa, o equivocarlo per ignoranza generale o specifica di un codice linguistico: si pensi al fatto che i più importanti gestori dei media, i giornalisti, in quanto specialisti della tecnica informativa, non sono partecipi di nessun altro milieu semiotico specializzato e, quindi, non sono usualmente esperti 'dall'interno' di nessun altro codice specifico (fisico-meccanico, medico, biologico, giuridico e via dicendo). E infine il processo comunicativo, soprattutto di massa, implica sempre una selezione e, quindi, una manipolazione del messaggio.In secondo luogo, il significato è influenzato dal trascorrere del tempo, che modifica il senso socialmente condiviso degli elementi della comunicazione, in particolare la connotazione e perfino la denotazione delle parole. Il fenomeno è noto soprattutto ai giuristi: non solo espressioni vaghe come 'il comune sentimento del pudore' o 'la diligenza del buon padre di famiglia', ma anche espressioni più tecniche, come 'dolo' o 'interesse ad agire', acquistano significati diversi in tempi diversi, spesso per effetto di apporti dottrinali o giurisprudenziali differenziati.In terzo luogo, e non meno importante, va ricordata l'influenza dello spazio discorsivo sui significati.

Ad esempio, ancora nel linguaggio giuridico, l'espressione "modica quantità di sostanze stupefacenti", usata in un testo di legge, dava adito a interpretazioni assolutamente difformi da luogo a luogo nello stesso paese, cioè l'Italia. Problemi ancora più seri sono posti dalla traduzione delle norme da una lingua all'altra: il termine italiano proprietà non coincide semanticamente con le parole straniere property, propriété ed Eigentum (v. Candian e altri, 1992); molte parole del lessico giuridico inglese (lien, discovery, estoppel, ecc.) sono pressoché intraducibili nel lessico giuridico continentale.In quarto luogo, i significati delle parole possono cambiare da lessico a lessico, pur essendovi fra diversi lessici numerosi scambi. Per esempio il lessico giuridico, nell'adottare espressioni tratte da altri lessici ('nesso di causalità', dal lessico epistemologico; 'pericolosità', dal lessico fisico o da quello sociologico; 'vita' e 'morte', dal lessico biologico), come può rifarsi al significato che esse assumono nel lessico di provenienza, così può anche imporre un significato artificiale: prescrivere, per paradosso, che la parola 'morte' sia da intendere anche come 'morte dell'anima' (v. Cordero, 1981, p. 245), sì che il corruttore divenga passibile dell'accusa di omicidio.

In quinto luogo, gioca un ruolo fondamentale l'attività interpretativa che viene svolta, consapevolmente o meno, da ogni attore che interviene nel processo comunicativo. Soprattutto quando concerne parole, l'interpretazione non può essere svolta se non attraverso l'uso di altre parole, secondo un processo semiotico che è, teoricamente parlando, illimitato (v. Eco, 1987¹⁰). Poiché ogni messaggio, nel momento in cui viene trasmesso e recepito, deve anche necessariamente essere interpretato, appare evidente che a ogni passaggio interpretativo esso può cambiare, talvolta sensibilmente, di significato: il che equivale a cambiare di contenuto. È per questa ragione che l'attività dell'interprete, anche di norme il cui significato è considerato vincolante, come quelle giuridiche, è stata considerata 'creativa', cioè modificativa del senso originario, non solo da studiosi di ispirazione giusrealistica (v. Tarello, 1980), ma anche da studiosi di ispirazione giuspositivistica, come Kelsen (v., 1934) e Hart (v., 1961).

Tutto ciò non deve condurre a un totale scetticismo circa la possibilità degli esseri umani di comunicare, in particolar modo attraverso norme (in realtà nella vita comune si cerca prevalentemente di intendersi e non di ingannarsi, anche quando si trasmettono modelli comportamentali); semplicemente, vale a segnalare che la comunicazione sociale è rapportabile a un gioco interattivo nel quale le regole che si costituiscono e si praticano fra i giocatori sono più aperte e contingenti delle regole fisse di un gioco codificato, come può essere il gioco degli scacchi (v. van de Kerchove e Ost, 1992).

i) Il problema dell'autoreferenzialità e dell'autoproduzione dei sistemi normativi

Come ogni altro messaggio che acquisti stabilità e divenga istituzionale, anche le norme possono organizzarsi o essere organizzate in sistemi, cioè, secondo l'accezione più lata, in "complessi di elementi interagenti" (v. von Bertalanffy, 1969, p. 97). L'organizzazione delle norme in sistemi, teoricamente parlando, è indipendente dalla rappresentazione della società stessa in termini sistemici, che è il portato specifico della sociologia. All'opera di sistematizzazione di elementi, o di conoscenze su fenomeni, ci si è accinti continuamente nella storia del pensiero, ben prima della nascita ufficiale della sociologia: tralasciando le scienze matematiche e fisiche, basti pensare alla continua costruzione e ricostruzione di sistemi giuridici, da parte della dommatica giuridica non meno che dei legislatori (v. Losano, 1968; v. Cappellini, 1984-1985, vol. I). Con la rappresentazione della società in termini sistemici, peraltro, la sistematica normativa viene a integrarsi in una visione più ampia: i sistemi di norme vengono visti non più isolatamente, ma nell'interazione con altri sistemi, concorrenti a formare la società intesa, a sua volta, come sistema sociale globale.

Come i singoli sistemi, così anche la rappresentazione sistemica della società può possedere caratteri di maggiore o minore chiusura. Nella tradizione microsociologica interazionistica le azioni umane, quindi anche le norme, sono state viste in forme aperte, determinate bensì da aspettative interdipendenti ma anche da opzioni soggettive, soprattutto di significato, essenzialmente libere. Nella tradizione macrosociologica struttural-funzionalistica l'integrazione fra le azioni viene rappresentata in forme più chiuse, sino alla completa esclusione dal quadro interpretativo delle opzioni soggettive e degli stessi soggetti, che si attua con Niklas Luhmann: questi rappresenta i sistemi, e con essi i sistemi normativi, come mere strutture significative 'autopoietiche' e 'autoreferenziali', capaci cioè di autoriprodursi e dotate ciascuna di un proprio autonomo principio di significazione da cui promanano catene di significati (v. Luhmann, 1984; per opportune distinzioni v. anche Teubner, 1988).

Ciò premesso, vanno fatte alcune considerazioni sui sistemi normativi, con specifico riferimento ai significati degli elementi che li compongono.

Si può ritenere, e si ritiene comunemente, che l'organizzazione sistemica di complessi di norme conferisca a queste significati socialmente stabili e affidabili, soprattutto entro circoli semiotici ben delimitati e caratterizzati da forte coesione sociolinguistica. Ciò dipende dal fatto che i processi di significazione - come detto - appaiono interni a ciascun sistema e i singoli significati appaiono fra loro concatenati logicamente a partire dal principio generale di significazione proprio di ciascun sistema: nella versione di Luhmann, per esempio, il sistema giuridico, composto di comunicazioni orientate secondo aspettative normative stabili, permette scelte di significazione organizzate secondo il codice binario Recht-Unrecht (conforme o non conforme a diritto), che funge da principio primo.

L'esempio del sistema giuridico è particolarmente utile perché permette di scorgere, assieme ai pregi, anche i limiti di questo tipo di teorizzazioni. In effetti i sistemi giuridici, specialmente quelli di diritto codificato di origine europea-continentale, sono stati spesso rappresentati come chiusi o autonomi (come si preferisce dire nella cultura di common law) e, in quanto tali, 'attributivi di significati'. Questa visione si è imposta soprattutto durante la stagione ottocentesca del positivismo statalistico, in cui i significati delle norme giuridiche sono stati rappresentati come 'certi', nel senso scientifico della parola: donde il principio - non solo ideologico-politico, ma cognitivo-dogmatico - della 'certezza del diritto'. Principio che, da prospettive antiformalistiche e anche formalistiche aperte, come quella di Kelsen, è stato poi criticato e presentato come un mito o un'utopia.

La teoria sociologica dei sistemi normativi si differenzia dalla tradizionale visione della scienza giuridica formalistica. L'autoreferenzialità di tali sistemi è rappresentata, in questa chiave, come un fatto soprattutto operativo e, solo in dipendenza di ciò, semantico: i sistemi ricevono 'informazioni' dall'ambiente esterno (per esempio da altri sistemi) e le elaborano automaticamente secondo la loro logica specifica. Ciò nonostante, tali concezioni rischiano di cadere in aporie o in contraddizioni di fronte a fenomeni sociali di grande importanza. In primo luogo, rimuovendo dalla scena i soggetti e le loro opzioni interpretative, trascurano il fatto - già accennato - che l'interazione sociale può essere caratterizzata da incomunicabilità, allorché i soggetti riferiscano le loro azioni a sistemi di diverso tipo (conferiscano per esempio a un'azione un significato 'giuridico' e un significato 'politico'), ovvero riferiscano le loro azioni a sistemi diversi dello stesso tipo (il sistema giuridico dello Stato o quello della Chiesa). In secondo luogo, le concezioni in questione trascurano o lasciano in ombra le molte possibilità intermedie che esistono nell'ambito compreso fra le secche alternative teoriche poste dal principio di significazione: fra 'diritto' e 'non diritto' vi è in effetti una gamma di figure intermedie (la 'potestà', l''onere', la 'facoltà', ecc.), nonché di situazioni identificabili in senso qualitativo-modale ('l'azione è lecita se...') o quantitativo ('l'azione è lecita entro i limiti...'), o addirittura ambigue ('l'azione è parzialmente lecita'). Secondo la felice espressione di van de Kerchove e Ost (v., 1992), si ignora in questi casi il cosiddetto entre-deux, lo spazio ideale, continuamente mutevole, in cui si svolge il 'gioco sociale'. In terzo luogo, le concezioni in questione non danno adeguata spiegazione dei fenomeni di trasmigrazione dei significati da un sistema all'altro, per esempio dei prestiti lessicali cui abbiamo accennato. Tali fenomeni sono spiegati da Luhmann (v., 1984) con il concetto di 'accoppiamento strutturale' fra sistemi: concetto metaforico che non riesce a occultare la contraddizione sussistente tra il fatto, da un lato, che una significazione possa essere 'delegata' da un sistema a un sistema diverso e, dall'altro, il principio stesso dell'autoreferenzialità sistemica.

2. Classificazioni delle norme

I concetti sin qui esaminati sono stati e sono continuamente oggetto di distinzioni analitiche e di conseguenti classificazioni. Tali operazioni concettuali sono utili e sono quindi comunemente adottate ai fini delle esigenze di specifici discorsi scientifici. Nel presente contesto ci riferiremo esclusivamente a quelle classificazioni che presentano maggiore rilevanza nell'ambito della teoria sociologica. Esamineremo sotto questa prospettiva, consecutivamente, le norme, le sanzioni e i sistemi normativi.

a) Norme vincolanti e non vincolanti: ulteriori precisazioni

Questa distinzione è stata già proposta (v. § 1d) in quanto essenziale per la comprensione del concetto generale di norma. Non occorre qui riprenderla se non per insistere sul fatto che, in termini sociologici, la nozione di vincolatività è anch'essa un fatto interattivo-comunicativo e, quindi, va rapportata alle aspettative dei soggetti interagenti. Questi possono bensì concordare sulla vincolatività di una norma, ma possono anche non concordare sul fatto che una norma richiamata da uno di essi per legittimare la propria azione: a) esista; b) appartenga a un sistema normativo comune e, specificamente, vincolante nel caso di specie; c) conferisca degli obblighi; d) riguardi il comportamento specifico cui ci si riferisce; e) sia interpretabile in un certo modo. La credenza, in breve, circa la vincolatività della norma può non essere condivisa, dando origine a una disputa, cioè a un conflitto caratterizzato dalla contrapposizione di pretese normative incompatibili (v. Abel, 1974; v. Ferrari, 1987).

b) Norme costitutive e norme regolative

La distinzione tra norme costitutive e regolative è divenuta comune in filosofia e teoria del diritto dopo il saggio di John Searle (v., 1969), che per primo l'ha proposta in questi termini al fine di distinguere le regole che 'definiscono fatti', cioè creano una pratica, dalle regole che 'riassumono fatti', cioè disciplinano pratiche già esistenti (v. Ferrari, 1982, p. 58).

Sul concetto di norma, o regola, regolativa non è necessario soffermarsi in questa sede: il precetto di costume per cui bisogna togliersi il cappello quando si saluta, il precetto religioso per cui gli Ebrei maschi devono coprirsi il capo con la kippa quando entrano nel Tempio, il precetto giuridico secondo cui si deve adempiere all'obbligazione pecuniaria consegnando il denaro al domicilio del creditore, sono tutte regole regolative. La loro importanza nell'interazione sociale è intuitivamente evidente.Il concetto di norma, o regola, costitutiva, è meno familiare agli studiosi di scienze sociali, ma non può esserne trascurato. Le norme o regole costitutive sono ovvero pongono la "condizione di ciò di cui esse stesse sono la norma", o regola: nel primo caso sono denominate eidetico-costitutive, nel secondo anankastico-costitutive (v. Conte, 1986). Esempio del primo caso, il gioco regolato (in inglese game): il gioco degli scacchi non esiste "anteriormente alle regole che lo pongono" e non è pensabile al di fuori di quelle regole; esempio del secondo caso, le regole giuridiche che pongono condizioni di validità: "il testamento olografo deve essere [...] scritto di mano del testatore" (Codice civile italiano, art. 602, comma 1; v. Conte, 1986).L'importanza di questa distinzione ai fini della sociologia non può sfuggire se si considera che l'interazione umana, che si svolge "in un mondo di norme" (v. Bobbio, 1993, p. 3), è stata spesso paragonata - appunto - a un gioco regolato o autoregolantesi (v. Huizinga, 1939). L'omologia in questione, criticabile se proposta in forme rigide (v. Giddens, 1976; tr. it., pp. 173-174), è ricorrente anche per la spiegazione sociologica, in senso lato, del rapporto regole-azione: un rapporto posto recentemente in termini problematici, come gioco dalle regole mutevoli e generatrici di paradossi logicamente non risolvibili (v. van de Kerchove e Ost, 1992).

c) Norme di uso, di costume, della moda, della morale, della tecnica, del diritto

La distinzione tra norme di uso, di costume, della moda, della morale, della tecnica e del diritto, che si basa soprattutto (ma non solo) sul contenuto delle norme riferito a diversi contesti sociali, è classica tanto in sociologia quanto nella scienza giuridica, anche se le due scienze tendono a proporla in termini differenti. In sociologia è frequente osservare questi diversi tipi di norme "lungo un continuum di centralità/perifericità rispetto alle strutture sociali e culturali dominanti in una società" (v. Gallino, 1983², p. 479). Nella scienza giuridica si tende piuttosto a stabilire delle differenze qualitative: in particolare, si individua un 'salto' fra le norme non giuridiche e le norme giuridiche, secondo criteri che differiscono da un autore all'altro: le norme giuridiche vengono distinte nettamente dalle altre, a volta a volta, per il carattere 'ipotetico', o 'eteronomo', o 'istituzionale' (in particolare statale), già ricordati, ovvero ancora per la cosiddetta opinio iuris vel necessitatis, cioè la convinzione sociale che "la norma sia vincolante ed esclusiva" (v. Fazzalari, 1984, pp. 18 ss.).

Una nota distinzione in argomento è quella, proposta da William Graham Sumner (v., 1906), tra folkways e mores. I primi sono modalità costanti con cui i gruppi agiscono o risolvono problemi; i secondi sono nient'altro che folkways rafforzati dalla convinzione consolidata e razionale che essi giovino al benessere generale. Il diritto, a sua volta, scaturisce dai mores e se ne distingue per essere assistito dall'uso della forza statale (v. anche Cotterrell, 1992², pp. 18-20).

La distinzione fra questi vari tipi di norme può apparire facile nella vita quotidiana, ma non lo è affatto né in astratto né nell'osservazione sociologica o antropologica: la regola che impone di lavarsi è ritenuta comunemente d'uso, di costume o anche di moda, ma può bensì ritenersi regola morale o giuridica se, per esempio, sia anche prevista da un testo normativo (si pensi alla regolamentazione delle abluzioni nel Corano, fonte primaria del diritto islamico, o alla regolamentazione igienica di un ospedale). Riferita alle mani di un medico è, altresì, regola 'tecnica', volta a disciplinare un corso d'azione in vista del suo naturale risultato.

Quanto sopra vale soprattutto a segnalare la relatività dei canoni distintivi, che sono - in realtà - oggetto di scelte teorico-linguistiche a priori, sia pure suggerite dalla comune esperienza, ed entro certi limiti, quindi, arbitrari. Come è stato detto a proposito del diritto (v. Williams, 1945), i concetti in questione sono anzitutto parole con cui si designano eventi o azioni. Il significato di tali parole è oggetto di continue convenzioni e in effetti può variare da un discorso scientifico all'altro.

Alle diverse scelte linguistiche si ricollegano naturalmente diverse teorie concernenti i rapporti fra i vari tipi di norme in questione, fra cui spicca soprattutto, per la sua problematicità, il rapporto fra norme morali e norme giuridiche. Mentre nelle scienze giuridiche si cade spesso nella tentazione del pangiuridicismo, arrivando anche a far coincidere l'ordine normativo di una società con il suo diritto, nelle scienze sociali si tende piuttosto a segnalare, spesso, il primato della morale, sia che questa venga vista come elemento acquisito emotivamente attraverso i processi di socializzazione (v. Westermarck, 1912), sia che venga vista come elemento primigenio, esplicante una funzione integratrice fondamentale (v. Durkheim, 1898-1900) e 'trascendentale' rispetto all'ordine globale di una società (v. Parsons, 1978), anche se diverso nei contenuti a seconda dei tempi e dei luoghi (v. Ginsberg, 1956).

d) Norme consuetudinarie e norme statuite

La distinzione tra norme consuetudinarie e norme statuite si basa sulle diverse modalità di formazione delle norme e ha grande importanza nel campo giuridico, sebbene non solo in quello.Il criterio di distinzione teorico è ben chiaro: la norma consuetudinaria si sviluppa spontaneamente e s'impone come canone comportamentale per effetto di un uso prolungato, eventualmente sorretta dall'opinio iuris vel necessitatis, nel qual caso - convenzionalmente - si ritiene 'giuridica'; la norma statuita è l'effetto di un fiat individuabile, promanante da un soggetto cui si riconosce potere di normazione. In giurisprudenza si distingue con dommatica chiarezza fra il diritto consuetudinario, 'comune' per tradizione nell'ambito di una popolazione (ad esempio la common law inglese), e il diritto legislativo, frutto della volontà di un legislatore individuale o collettivo.

Un accostamento 'esterno' al diritto, filosofico o sociologico, presenta il problema in termini molto più complicati.

È possibile osservare infatti che le norme proclamate, in realtà, non fanno che enunciare precetti già esistenti nella consuetudine: la statuizione, pur se proveniente da un'autorità riconosciuta o capace comunque di imporsi, non è in questi casi 'creativa' della norma, ma ne costituisce semplicemente un riconoscimento e un rafforzamento a livello sociale. Ciò è stato messo in luce sovente, in giurisprudenza, dai critici dell'idea illuministica della legislazione, a partire dal famoso saggio di Friedrich C. von Savigny (v., 1814), ma può essere ripetuto, e non solo da posizioni agnostiche, anche per i testi normativi sacri come le Tavole della legge di Mosè, i Vangeli o il Corano.Inoltre è talvolta difficile riconoscere, sul piano critico, se socialmente sia rilevante il contenuto sostanziale di una norma ritenuta consuetudinaria, ovvero la sua formulazione scritta. Il diritto consuetudinario inglese è conoscibile attraverso i precedents dei giudici, che posseggono entro certi limiti valore vincolante; il diritto consuetudinario romano era conoscibile soprattutto attraverso i responsa dei giurisperiti, come quelli raccolti nel Digesto di Giustiniano. Le raccolte di precedents o di responsa sono, tecnicamente parlando, 'fonti di cognizione' delle norme: ma quando si forma una nuova opinione giurisprudenziale o dottrinale circa l'esistenza o il significato o l'estensione di una norma consuetudinaria, si può sostenere che essa abbia creato, proclamandola, una nuova norma.

e) Norme scritte e norme non scritte

Alla distinzione appena discussa si ricollega, in parte, quella fra norme scritte e norme non scritte. L'enunciazione di una norma attraverso segni e simboli linguistici scritti - cosa possibile nelle sole società letterate - ne facilita la ricerca e il reperimento, orientando più decisivamente, in teoria, il giudizio su di essa: il fatto di ritrovare la norma in una raccolta di leggi vigenti ne comprova l'esistenza (salvo il caso, spesso incerto, dell'abrogazione tacita) e ne segnala la natura giuridica; il fatto di ritrovarla in una circolare interpretativa indica che, sempre in teoria, altre interpretazioni sono possibili, anche se quella proposta dalla circolare avrà più probabilità di essere seguita.

Tuttavia la scrittura, proprio perché composta di simboli linguistici, presta il fianco alla variabilità di interpretazioni già ricordata: la sua apparente fissità è più ingannevole di quanto appaia. Per contro, può apparire meno ingannevole di quanto sembri a prima vista la norma enunciata oralmente, soprattutto se accompagnata da gesti rituali ricorrenti e condivisi in una società: si pensi al 'canto', con cui alcune popolazioni Inuit usano 'trattare' una disputa (v. Hoebel, 1954). È stato anzi sostenuto, in antropologia giuridica, che "la scrittura favorisce l'astrazione e la perdita del controllo del diritto da parte dell'individuo" e che "[l]'interpretazione di un testo scritto è in effetti più difficile che quella della parola e favorisce le manipolazioni: al contrario della comunicazione orale, in cui è sempre possibile interrogare l'interlocutore, il testo non può rispondere di se stesso" (v. Rouland, 1988; tr. it., p. 195).

f) Norme generali e norme individuali

Nell'ampia pubblicistica sulle norme è stato spesso trattato il problema dei loro destinatari, cioè dell'individuazione di coloro cui le norme stesse sarebbero rivolte. Questo è un problema tradizionalmente controverso. In teoria del diritto, per esempio, si contrappongono coloro che ritengono che le norme giuridiche si rivolgano indistintamente al pubblico, o settore di pubblico, le cui azioni sono da esse disciplinate, e coloro che ritengono che esse siano rivolte ai soggetti cui spetta metterle in esecuzione: per esempio i burocrati o i giudici (v. Ross, 1958).

Dal punto di vista sociologico è importante soprattutto distinguere fra le norme che si rivolgono a generalità di persone e quelle che, invece, si rivolgono a destinatari individuati singolarmente, siano essi persone o enti collettivi: la legge appartiene al primo tipo, la sentenza del giudice (che, per convinzione quasi unanime in teoria del diritto, è in se stessa una norma, non l'applicazione di una norma) appartiene al secondo tipo. L'importanza della distinzione va colta soprattutto sul piano semiotico. Non soltanto la norma generale può dar adito a equivoci su chi ne sia destinatario, cosa che non accade con la norma individuale; non solo la prima è formulata in modo più generico e ambiguo della seconda, ma, altresì, la norma generale passa attraverso il filtro di più media che non la norma individuale, cosa che moltiplica le occasioni di equivoco sulla sua esistenza, sulla sua estensione e sul suo significato.

g) Norme 'di condotta' e norme 'di competenza'

Una distinzione classica in teoria del diritto (v. Hart, 1961) è quella tra la norma 'di condotta', che regola comportamenti, e la norma 'di competenza', che attribuisce poteri, per esempio di giudicare se le norme di condotta siano state, o meno, adeguatamente rispettate.Della simmetricità di questa distinzione si può dubitare: per esempio Alf Ross (v., 1958; tr. it., p. 49) definisce le norme di competenza come "norme di condotta formulate indirettamente", implicando che, rispetto alle prime, esse costituiscano una species rispetto a un genus.

Anche di questa distinzione non deve sfuggire la rilevanza sociologica. Infatti, la presenza in un sistema di norme indirizzate ad attribuire poteri di decisione vertenti su altre norme, ne indica un particolare livello di complessità. Essa può rappresentare un criterio di differenziazione fra sistemi normativi o nell'ambito di sistemi normativi, con particolare riferimento al sistema giuridico (v. Bobbio, 1970). Non solo, ma è di fondamentale importanza notare come, con il processo di differenziazione sociale, le norme di competenza, e fra queste specificamente le norme procedurali, abbiano acquisito progressivamente maggiore importanza rispetto alle norme di condotta. Echeggiando il principio liberale per cui 'il mezzo giustifica i fini', la legittimazione politica nelle società contemporanee è venuta configurandosi soprattutto, e sempre più, come un fatto di modalità procedurali (v. Luhmann, Legitimation..., 1969); e recenti teorie mettono in luce la tendenza dei sistemi e subsistemi sociali (si pensi alla normazione deontologica dei gruppi professionali) ad autorganizzarsi 'riflessivamente', rispettando però canoni procedurali esterni posti come garanzia dei valori generali di una società (v. Teubner, 1987).

La presenza di norme di competenza in un sistema coinvolge poi direttamente un elemento centrale nella scienza sociale, quello del potere, con riferimento non solo al potere di creare o applicare norme, ma anche al potere di influenzare dall'esterno le fattezze dei sistemi normativi.

3. Classificazioni delle sanzioni

a) Sanzioni negative e sanzioni positive

Nella vita sociale i comportamenti hanno sempre suscitato biasimo o lode e sollecitato l'inflizione di svantaggi o la concessione di vantaggi. Tuttavia è solo in tempi relativamente recenti - nonostante qualche illustre precedente, come Jeremy Bentham (v. Facchi, 1995) - che queste modalità di reazione sociale sono state collocate in posizione simmetrica e concettualizzate sotto l'unico termine 'sanzioni', tradizionalmente riservato soltanto agli svantaggi.

Di sanzioni 'positive', accanto alle sanzioni 'negative', si può parlare per ogni tipo di norma sociale, dalla meno alla più istituzionale: dalle parole di elogio di un genitore per il buon comportamento del figlio alla concessione di una medaglia al valor civile.

L'interesse per le sanzioni positive istituzionali, derivanti dall'applicazione di norme consolidate e individuabili, è cresciuto negli ultimi decenni in quanto l'adozione di tali misure - soprattutto preventive, come gli incentivi - è apparsa come una tecnica di condizionamento sociale tipica del Welfare State rispetto allo Stato liberale (v. Aubert, 1983; v. Bobbio, 1977). Tale tecnica non si è limitata al campo dei comportamenti desiderati, ma si è estesa al campo dei comportamenti riprovevoli, quali le condotte criminose, attraverso la concessione di benefici a coloro che vi rinuncino e, soprattutto, agevolino attraverso delazioni l'attività repressiva delle autorità statali o sovrastatali (v. Resta, 1983).

b) Sanzioni repressive e sanzioni restitutive

La classica dicotomia tra sanzioni repressive e sanzioni restitutive si riferisce soltanto alle sanzioni negative, ed è entrata nel lessico sociologico in posizione preminente attraverso la famosa teorizzazione di Émile Durkheim, che l'ha collegata alla non meno classica dicotomia solidarietà meccanica-solidarietà organica, vista come il canone fondamentale distintivo di aggregati sociali caratterizzati da un diverso grado di differenziazione e di divisione del lavoro (v. Durkheim, 1893). In questa prospettiva le sanzioni repressive e restitutive, proprie di due tipi corrispondenti di normatività giuridica, sono funzionalmente dirette a rinsaldare i vincoli di solidarietà pregiudicati dalla trasgressione: le prime, consistendo nell'afflizione, nell'espulsione o nella soppressione del trasgressore, operano sul piano simbolico, le seconde, consistendo nella ricostituzione della situazione anteriore alla trasgressione, operano sul piano materiale. Con la crescente differenziazione sociale, secondo Durkheim, l'uso delle sanzioni restitutive cresce a discapito delle sanzioni repressive.

L'ipotesi durkheimiana è ancor oggi fonte di riflessioni. Vi è chi la critica osservando la crescita incontrollata, negli ultimi decenni, delle misure di diritto penale e di polizia (v. Resta, 1977); ma si osserva anche, parallelamente, una crescente tendenza degli Stati a negoziare con i trasgressori l'impunità penale, attraverso misure di carattere restitutivo in senso lato, come nel caso dei condoni tributari ricorrenti in Italia (v. Sgubbi, 1990).

c) Sanzioni istituzionali e sanzioni non istituzionali

Il concetto di istituzione (intesa come risultato e non come azione dell'istituire) è stato utilizzato nella letteratura sociologica e in quella giuridica con una varietà di significati, oscillando anch'esso dal piano antropomorfico - l'istituzione come associazione di persone o, più in generale, come 'corpo sociale' (v. Romano, 1918, ed. 1977, p. 35) - a quello simbolico: l'istituzione come complesso di valori, norme, pratiche sociali stabilizzate e funzionalizzate al perseguimento di obiettivi (v. Olgiati, 1993², p. 301). Tuttavia, proprio l'analisi del concetto di 'sanzione istituzionale' dimostra che si tratta di significati comparabili: con tale espressione, infatti, si può designare l'atto con cui, nell'ambito di un gruppo sociale individuabile, si reagisce a comportamenti che sollecitano i sentimenti consacrati in valori o norme o pratiche stabili, e a comportamenti che agevolano o minacciano il conseguimento degli obiettivi di quel gruppo.

Proprio per questo carattere, la sanzione istituzionale non soltanto si imputa a regole comportamentali consolidate, che vengono osservate o violate, ma spesso si applica, altresì, attraverso regole che disciplinano tanto l'accertamento dei comportamenti da sanzionare, quanto l'adozione materiale della sanzione. Tali regole, che possono essere denominate processuali nel senso stretto (ma non necessariamente giuridico) della parola, possono essere distinte secondo vari criteri: in primo luogo, a seconda del maggiore o minore ritualismo; in secondo luogo, a seconda della maggiore o minore pubblicità. Nell'inflizione delle pene, per esempio, la società umana è recentemente passata da una fase caratterizzata da segretezza e (relativa) irritualità nell'accertamento, nonché da pubblicità e 'splendore' rituale nell'inflizione, a una fase caratterizzata, all'inverso, da pubblicità e ritualità nell'accertamento, nonché da riservatezza e (relativa) irritualità nell'applicazione (v. Foucault, 1975; v. Friedman, 1993).

d) Sanzioni escludenti e sanzioni includenti

Le sanzioni possono consistere nell'esclusione del singolo, individuo o gruppo, dall'aggregato sociale o da una sua pratica riconosciuta e ricorrente: in una parola, dal gioco interattivo. Esse possono, al contrario, mirare all'integrazione del singolo, individuo o gruppo, in tale gioco. Questa alternativa si applica a qualsiasi tipo di norma sociale, purché relativamente stabile, sino alle norme giuridiche, non soltanto penali, ma anche civili (v. ad esempio Arnaud, 1974).

Fra le sanzioni escludenti annoveriamo pratiche come la pena di morte, la proscrizione, l'esilio, l'espulsione da un paese o da un'associazione, l'interdizione perpetua o temporanea da una professione o dall'esercizio di facoltà (il voto, la patria potestà, il testamento), l'isolamento sociale.

Fra le sanzioni includenti annoveriamo soprattutto, naturalmente, le sanzioni positive, che hanno precipuamente lo scopo di coinvolgere più fortemente il singolo nella pratica sociale interessata. Ma anche le sanzioni negative possono essere indirizzate in senso includente. Il principio costituzionale riconosciuto in molti Stati moderni, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del reo, punta precisamente in questa direzione: anche se, come nel caso del carcere, esclude temporaneamente, mira (senza peraltro riuscirci) a una successiva inclusione del trasgressore rieducato nel tessuto sociale.

e) Sanzioni individuali e sanzioni collettive

La sanzione può essere individuale o collettiva secondo che sia indirizzata verso il singolo o il gruppo che, con il suo comportamento, si è posto in diretta relazione con la norma interessata, ovvero, indifferenziatamente, verso collettività più o meno vaste, la cui relazione con la norma interessata è soltanto indiretta e mediata.

Nella teorizzazione giuridica classica, le sanzioni collettive sono proprie del diritto internazionale. L'embargo, l'assedio, la rappresaglia e, infine, la guerra sono tutte sanzioni negative che colpiscono una popolazione come conseguenza di decisioni assunte dai suoi rappresentanti, talvolta contro la volontà dei cittadini oppure sfruttandone l'inerzia o l'impotenza. Anche nella pratica sociale comune, tuttavia, si assiste a sanzioni collettive applicate nei confronti di gruppi sociali, comunemente contro il diritto e per effetto, ad esempio, di pregiudizi religiosi o razziali.La sanzione collettiva può avere uno scopo strumentale: la rappresaglia di un esercito invasore può essere provocata artificialmente, con atti di ostilità programmati, per rafforzare i sentimenti di avversione contro il nemico; la distruzione bellica può essere indirizzata a 'persuadere' le popolazioni colpite della necessità di rovesciare i loro governanti.

f) Sanzioni applicate centralmente e sanzioni applicate perifericamente

L'applicazione delle sanzioni sociali può essere delegata a organi appositamente creati, come pure essere curata dai soggetti o gruppi coinvolti dal comportamento cui la sanzione consegue.La distinzione in questione ha una notevole importanza in sociologia e antropologia del diritto, poiché riflette un canone distintivo classico fra le società che un tempo si definivano 'primitive' e le società evolute, in particolare quelle organizzate politicamente secondo il modello statale o secondo modelli comparabili (come le Chiese).

Il 'decentramento' può investire l'intero processo sanzionatorio, dall'accertamento delle condotte sino all'applicazione materiale della sanzione: così avviene, per esempio, nel linciaggio, con cui si realizza la reazione immediata e irrazionale di una folla che si sente direttamente colpita nei suoi sentimenti da un fatto ritenuto trasgressivo. Esso può, altresì, investire la sola fase applicativa, come avviene nel caso in cui sul fatto e sulla doverosità della sanzione sia chiamato a pronunciarsi un organo, sovente collettivo (un consiglio di famiglia, un consesso di anziani o di guerrieri), e l'attuazione materiale della sanzione sia lasciata al soggetto offeso, individuale o collettivo, ovvero a suoi emissari: così avviene, spesso, con le faide nei sistemi sociali basati sulla vendetta (v. Pigliaru, 1959).

4. I sistemi normativi

a) Sistemi normativi statici e sistemi normativi dinamici

La distinzione fra sistemi normativi statici e dinamici è divenuta classica nella teoria del diritto dopo la teorizzazione che ne ha fatto Hans Kelsen. Secondo questo autore, "un sistema di norme, il fondamento del cui contenuto e della cui validità è dedotto da una norma presupposta come fondamentale, è un sistema normativo statico"; e per converso, "il sistema normativo di tipo dinamico è caratterizzato dal fatto che la norma fondamentale presupposta non contiene altro che l'istituzione di una fattispecie produttiva di norme, l'autorizzazione di un'autorità legiferante o, cosa che è poi eguale, una regola che determina come si devono produrre le norme generali e individuali dell'ordinamento riposante su questa norma fondamentale" (v. Kelsen, 1960; tr. it., pp. 220-221).

Sulla base di questa distinzione, appartiene al primo tipo il sistema normativo morale, composto di precetti derivabili l'uno dall'altro in base al contenuto: "dalla norma che prescrive di amare il prossimo si possono dedurre le norme secondo cui non bisogna arrecare alcun male al prossimo, in particolare non bisogna uccidere né danneggiare gli altri né fisicamente né moralmente e bisogna assisterli quando sono bisognosi d'aiuto" (ibid., p. 219); appartiene al secondo tipo il sistema normativo giuridico, la cui norma fondamentale "si limita [...] a istituire una regola in base alla quale si devono produrre le norme di questo sistema" (ibid., p. 221), ponendo le basi di una concatenazione produttiva di norme: dalla costituzione alla legge, dalla legge alla sentenza.Sul significato e i limiti di questa distinzione si è discusso e si continua a discutere (v. ad esempio Gianformaggio, 1991). In questa sede è necessario, peraltro, solo segnalare che la sua rilevanza trascende i limiti della teoria normativa per invadere quelli della sociologia. Infatti la "pressione normativa" (v. von Wright, 1963) esercitata dai due tipi di sistemi ha diversa natura: essenzialmente psicologica nel caso dei sistemi statici, essenzialmente strumentale, attraverso la prospettazione del rapporto comportamento-sanzione, nel caso dei sistemi dinamici. Si tratta, nei due casi, di tecniche distinte di condizionamento sociale, cui si ricollegano diversi tipi di legittimazione delle azioni.

b) Sistemi normativi totali e sistemi normativi parziali

Un sistema normativo può dirsi totale quando, nella coscienza di coloro che vi si ritengono coinvolti, regola esplicitamente o implicitamente qualsiasi relazione sociale nell'ambito del gruppo interessato; può dirsi parziale quando, sempre nella prospettiva di coloro che vi si ritengono coinvolti, regola esclusivamente alcuni tipi di rapporti, lasciando tutti gli altri alla regolamentazione di un altro sistema normativo. I sistemi parziali possono essere, o ritenersi, inclusi in un sistema totale, come nel caso delle associazioni disciplinate dalle norme di un sistema giuridico cui esso riconosce poteri di autonomia normativa nel loro ambito specifico (v. Cesarini Sforza, 1929). Essi possono altresì essere, o ritenersi, parzialmente esterni rispetto a un sistema normativo generale (v. Romano, 1918). Un'associazione può reclamare obbedienza assoluta dai suoi aderenti e infliggere sanzioni istituzionali collegate alle proprie norme interne, ma al tempo stesso accettare l'applicazione di norme e sanzioni da parte del sistema totale: è il caso di istituzioni che gli Stati considerano lecite, come le Chiese, ma anche di istituzioni che essi considerano illecite, come la mafia, la cui strategia prevede, fra l'altro, proprio l'utilizzo strumentale di norme e sanzioni dell'apparato statale.La distinzione in questione è fondamentale in sociologia e in antropologia, perché rappresenta uno dei canoni più ricorrenti per individuare, fra i sistemi normativi, il sistema giuridico. A questo si riconoscono spesso, infatti, caratteri di totalità o, quanto meno, di completezza, non nel senso che esso risolva con certezza, attraverso una norma positiva, qualsiasi problema di rapporti sociali, ma nel senso che qualsiasi problema siffatto deve poter essere risolto nel suo ambito attraverso l'intervento di autorità apposite (l'elemento della cosiddetta giustiziabilità delle norme giuridiche: v. Carbonnier, 1972) e l'applicazione di apposite modalità decisionali (v. ad esempio Bobbio, 1993, pp. 238 ss.).

c) Il sistema giuridico

Quanto appena detto ha condotto naturalmente a isolare, fra gli altri sistemi normativi, il sistema giuridico, la cui rilevanza, fra le tecniche di condizionamento sociale, è evidente. Tuttavia, poiché all'argomento sono dedicati altri articoli di questa opera, le osservazioni potranno essere ridotte al minimo.In particolare va ricordato che 'diritto' è una parola denotativamente complessa e ambigua: si pensi soprattutto alla distinzione fra il suo significato oggettivo - complesso di norme- e il suo significato soggettivo - di pretesa giuridicamente fondata o di potestà di agire - differenziati lessicalmente, fra le lingue europee, soltanto in inglese (law e right), peraltro con sfumature di significato che normalmente non si segnalano. La parola, inoltre, possiede una forte connotazione positiva che deriva sia dal suo etimo (si pensi all'aggettivo 'diritto', contrapposto a 'storto' o a 'rovescio'), sia dal suo uso comune, spesso confuso o combinato con i concetti di 'giusto' e di 'giustizia'. Va poi ricordato che le società umane organizzate sono così profondamente diverse (si pensi alle società semplici e a quelle complesse, a quelle letterate e a quelle non letterate) e così variamente interrelate (si pensi alle relazioni fra Stati e, oggi, alle relazioni transnazionali) che appare opera vana raccogliere in un'unica definizione tutte le forme apparenti di normatività 'giuridica'.

Da quanto sopra detto deriva che alla definizione di 'diritto' si può pervenire esclusivamente sul piano prescrittivo, non soltanto dal punto di vista della scienza giuridica, ma anche da quello delle scienze sociali, sia pure nel senso più lato del termine 'prescrittivo': la definizione di 'diritto', in breve, presenterà sempre un elemento di convenzionalità, la cui funzione è peraltro quella di consentire una più chiara comunicazione fra gli studiosi di una stessa disciplina.

Altrove, aderendo a posizioni normativiste 'aperte' (v. Scarpelli, 1965) e raccogliendo l'invito di chi raccomanda la scelta di definizioni analitiche che, però, non si distacchino troppo dagli usi comuni (v. Jori, 1976), chi scrive ha ritenuto di proporre ai sociologi del diritto una definizione del diritto come complesso di messaggi normativi eteronomi, ipotetici, istituzionali e giustiziabili, collegati strettamente all'esercizio del potere (v. Ferrari, 1987): definizione che traspare anche da molte delle considerazioni precedenti e che ambisce, peraltro, a coprire una realtà sociale troppo multiforme, presentando quindi limiti non meno evidenti di quelli di molte altre definizioni correnti.

5. L'efficacia delle norme e delle sanzioni

a) Relatività del concetto di efficacia delle norme

Si è spesso ritenuto che la sociologia dei fenomeni normativi, in particolare la sociologia del diritto, trovi la sua raison d'être soprattutto nello studio dell'efficacia delle norme. Ciò è senz'altro vero, ma bisogna sottolineare che l'efficacia delle norme, e specialmente delle norme giuridiche, è di per sé un concetto relativo. Per efficacia di una norma si intende infatti la realizzazione degli effetti che le sono propri: effetti che, quando si tratti di norma scritta (legislativa, regolamentare, contrattuale), coincidono con gli effetti desiderati da colui, o coloro, che hanno posto quella norma o potrebbero, volendo, cambiarla (v. Friedman, 1975). Peraltro le norme sono, come si è visto, essenzialmente messaggi comunicativi soggetti a interpretazioni variabili. Massimamente variabili, e difficili da interpretare, sono le intenzioni di chi dispone istituzionalmente delle norme: soprattutto quando si tratti di soggetti collettivi, come i parlamenti moderni, in cui convergono, si scontrano e si combinano volontà, finalità e strategie differenti, con la conseguente produzione, tipica degli Stati contemporanei, di norme vaghe, ambigue, spesso vuote (v. Bettini, 1984). Non essendo univoco il messaggio, e men che meno le intenzioni di chi l'ha emesso, ne deriva che il concetto di efficacia va relativizzato a ciascuna interpretazione possibile dell'uno e delle altre: a diversi osservatori la stessa norma può apparire efficace o non efficace.

Come è relativo il concetto di efficacia del diritto, così lo sono le etichette di 'conformità' e di 'devianza' che nell'interazione sociale si attribuiscono alle azioni e, conseguentemente, agli attori. La teoria della devianza ha da tempo segnalato il carattere contingente di tali etichette, che dipendono essenzialmente da relazioni asimmetriche di potere: il potere di 'definire', attraverso la normazione generale e particolare. Tale contingenza appare in tutta la sua estensione se si considera che, preliminare o collaterale rispetto al potere di definire, vi è quello di interpretare: principî generali e bisogni sociali nel caso della normazione generale, norme generali nel caso della normazione particolare. Alle incertezze che derivano dal variabile, e spesso volubile, esercizio di tali poteri, va aggiunta quella derivante dalla mancata corrispondenza, che spesso si riscontra nell'esercizio della normazione, fra volontà effettive e dichiarazioni giustificative.

Da tutto ciò risulta ben chiaro che le norme forniscono agli attori sociali un orientamento che è soltanto eventuale: possono, cioè, facilmente orientare in modo difforme diversi attori sociali. Sarebbe oggi un errore, in sociologia, ritenere che quanto più le norme sono formalizzate, tanto più esse sono chiare; e che pertanto le norme più chiare e affidabili sono quelle dei sistemi giuridici, soprattutto quelli "formali e razionali", nella terminologia di Max Weber (v., 1922). Se le norme giuridiche fossero chiare e univoche, non esisterebbero intere biblioteche di opinioni dottrinali e di precedenti giurisprudenziali, che si differenziano fra loro, precisamente, per il fatto di raccomandare o di imporre significati diversi delle stesse disposizioni: problema, questo, già ben noto nel secolo scorso, malgrado il dominante principio della certezza del diritto, e resosi particolarmente acuto prima con la legislazione, molto articolata, del Welfare State, poi con quella, non meno complicata e spesso assai fumosa, che ha caratterizzato la crisi di questo modello politico e la società cosiddetta 'postmoderna' (v. Sousa Santos, 1990).

La questione va posta, quanto meno, in relazione a un complesso di variabili storiche e politiche. Per quanto riguarda il sistema giuridico, è assodato che esso oscilla "fra ordine e disordine" (v. van de Kerchove e Ost, 1988) e che a periodi di riordino seguono periodi di 'disordinamento', determinati dal mutamento sociale che spesso travolge, per la sua velocità, i valori su cui si fondano le norme; ordine e disordine, a loro volta, dipendono dalla maggiore o minore unità sociale attorno a principî e valori consolidati.

b) Efficacia variabile anche delle norme più chiare

Messo in luce il carattere contingente del concetto di efficacia normativa, si deve ora insistere sul fatto che le norme apparentemente più chiare, su cui non vi siano incertezze interpretative, possono rivelarsi inefficaci per varie ragioni.

La prima causa di inefficacia normativa è la più ovvia, cioè la trasgressione o disobbedienza. Questa può riguardare qualsiasi attore sociale che sia coinvolto nell'applicazione di una norma: nel caso delle norme giuridiche, può essere disobbediente tanto il cittadino che rifiuta di aderire, quanto il burocrate o il giudice che evitano, o frustrano, o ritardano il compimento di atti specifici conseguenti alla norma stessa. La disobbedienza può investire tanto quella norma specifica, quanto l'intero sistema normativo di cui essa fa parte. Può, inoltre, essere motivata - secondo la tipologia di Max Weber - da valori, interessi, tradizione e affetti. Si può disobbedire per far salvo un principio superiore di quel sistema o di un altro sistema, o perché non si ritiene legittima l'autorità che ha emanato la norma; ovvero perché non conviene economicamente, in quanto i costi dell'obbedienza appaiono superiori ai benefici; ovvero ancora perché la norma urta contro abitudini consolidate; infine, perché il rispetto della norma potrebbe coinvolgere dannosamente persone che si vogliono tutelare.

Una seconda causa di inefficacia dipende dall'impossibilità o, quanto meno, eccessiva difficoltà di applicazione. Ciò avviene, ancora, sia per le norme generali sia per quelle particolari. Una tipica causa di disapplicazione è la mancanza di mezzi, strutture o tecnologie applicative: la crisi endemica dei sistemi giudiziari è in massima parte dovuta a ragioni di questo tipo. Non meno tipica la norma 'tecnica' (eventualmente posta come obbligatoria) che contenga un errore, per esempio scientifico. Va sottolineato che, soprattutto in diritto, per la grande potenzialità 'convincente' e 'persuasiva' che si ritiene esso presenti, molte norme, soprattutto generali, vengono emanate malgrado la consapevolezza che non potranno essere applicate, all'esclusivo fine di generare consenso sociale su chi le emana ed eventualmente convogliare dissenso su chi dovrà rispettarle o applicarle. Ove conseguano questi effetti le norme non sono, sociologicamente parlando, inefficaci, ma sono efficaci rispetto a finalità non palesate attraverso di esse.

Un caso particolare di disapplicazione per impossibilità si ha, per un noto paradosso, quando l'applicazione conduce alla frustrazione della norma. Vi sono norme che, applicate alla lettera, producono effetti paralizzanti: invero l'applicazione letterale di siffatte norme è un efficace strumento di lotta politico-sindacale (lo 'sciopero bianco' italiano o il work-torule inglese). Siano o non siano applicate, tali norme risultano in ogni caso inefficaci.

Una terza causa di inefficacia è rappresentata dalla rinuncia all'applicazione da parte di chi potrebbe, o dovrebbe, provvedervi. Nel campo delle norme generali, si pensi a provvedimenti come l'amnistia o il condono. Nel campo delle norme individuali, si pensi al patteggiamento nel processo penale, con cui accusa e difesa 'scambiano' rispettivamente la rinuncia ad agire, o a proseguire l'azione, contro l'accettazione volontaria di una pena più lieve.

Un'ultima, ma non meno importante causa di inefficacia è rappresentata dalla mancata conoscenza delle norme da parte dei destinatari. Mentre nelle società semplici e poco differenziate le norme, di carattere consuetudinario, sconfinano nella pura abitudine comportamentale e sono conosciute, anche se non a livello razionale, nelle società complesse e differenziate esse non solo provengono sempre più da soggetti dotati di poteri normativi, ma soprattutto si moltiplicano sino a divenire, letteralmente, una foresta di precetti. Quando si tratta di norme giuridiche, la loro conoscenza è entro certi limiti presunta: ma gli effetti di questa fictio iuris possono essere talmente perversi che la sua portata è soggetta a eccezioni sempre più frequenti, persino nei settori in cui le norme sono, o dovrebbero essere, più cogenti, come il diritto penale.

c) La 'curva della prevenzione'

Si è ricordato sopra che le norme sociali sono spesso accompagnate da un rinforzo sanzionatorio, consistente in una minaccia o in una promessa conseguenti alla loro trasgressione o alla loro osservanza. Tali norme operano, o si ritiene debbano operare, soprattutto attraverso il meccanismo preventivo della persuasione, che sollecita all'obbedienza per timore o per desiderio della sanzione, negativa o positiva.

L'efficacia di tali norme può naturalmente dipendere da altri fattori. Esse, come ogni tipo di norma, possono infatti incorporare valori o principî che i destinatari condividono; possono anche sollecitare obbedienza, sebbene non condivise, per rispetto dell'autorità o del sistema normativo di cui fanno parte. Ma ove tali fattori non operino e giochi decisivamente il meccanismo persuasivo - come avviene per esempio con le molte norme penali che vietano comportamenti socialmente non riprovati (v. Sgubbi, 1990; v. Delmas-Marty, 1986) - l'efficacia di tali norme dipende, com'è noto, dal rapporto fra comportamenti e sanzioni: se queste sono palesemente sproporzionate, per eccesso o per difetto, rispetto al comportamento preso in considerazione, la persuasione non opera.

Affrontando questo argomento, Lawrence Friedman osserva esattamente che "non v'è una relazione semplice e lineare tra le sanzioni e il comportamento sanzionato" (v. Friedman, 1975; tr. it., p. 145) e prosegue notando che all'aumento della minaccia di sanzione non corrisponde certamente un eguale aumento dell'efficacia delle norme: "la minaccia di vent'anni di galera non è, probabilmente, dotata di efficacia doppia della minaccia di dieci anni di galera" (ibid.). Vi sono casi in cui, anzi, la "curva della prevenzione" tende all'appiattimento e addirittura a zero: nei confronti di ergastolani, la minaccia di un'ulteriore condanna all'ergastolo non è particolarmente efficace; e per contro, come osserva ancora lo studioso americano, un indurimento indiscriminato delle pene può indurre alla resistenza, come avviene spesso nella storia delle società totalitarie. Conseguentemente, "ogni atto normativo ha la sua propria curva di capacità deterrente e di prevenzione; e forse non vi sono al mondo due curve di prevenzione perfettamente uguali" (ibid., p. 147).

d) Norme e legittimazione dell'azione

Le norme fungono - anche - da strumento di legittimazione delle azioni: nell'interazione sociale, infatti, esse vengono comunemente addotte dagli attori sociali come argomento presso interlocutori diretti o indiretti al fine di acquisirne il consenso. L'efficacia legittimativa delle norme, tuttavia, dipende (non soltanto, ma anche) dal fatto che gli interlocutori, di cui viene sollecitato il consenso, ritengano le norme stesse, a loro volta, legittime. Per paradosso, colui che esibisce una norma come strumento di legittimazione può non credere alla norma stessa e usarla soltanto a fini di propaganda; ma la sua azione risulterà tanto più efficace se gli interlocutori crederanno in quella norma e saranno disposti a rispettarla.

Riveste quindi grande importanza, per qualsiasi autorità che disponga di poteri normativi, presentare le norme stesse nel modo più acconcio ai futuri destinatari. In questo senso può convenire sia presentare la norma nella sua forma più immediata e senza veli, sia presentarla con l'ausilio di artifizi retorici che ne occultino il reale significato; così come può convenire non presentarla affatto e nasconderla nell'ambito, per esempio, di contesti normativi più ampi, orientati a realizzare effetti ben diversi, oppure nell'ambito di notizie tendenti a rassicurare o stimolare il pubblico che si vuole raggiungere.

Non solo le norme, ma anche le tecniche di presentazione degli strumenti normativi vanno collegate ai diversi tipi di legittimazione. Un'interessante classificazione, offerta da Adam Podgórecki, individua otto diversi tipi di legittimazione, cui conducono, nelle varie articolazioni, diverse tecniche di argomentazione normativa. Queste tecniche possono far leva sul 'diritto intuitivo' - concetto che l'autore riprende da Leon Petrażycki e che, lato sensu, può corrispondere al sentimento di giustizia - come pure sul 'diritto ufficiale' o su una commistione fra i due: ne scaturiranno forme di legittimazione che spaziano dai tipi weberiani - tradizionale, carismatico e razionale-legale - a tipi spuri, basati sulla falsa coscienza o su altre forme di coercizione fisica o psichica (v. Podgórecki, 1991).

e) Norme e controllo sociale

Se per 'controllo sociale' si intende, estensivamente, "quell'insieme di processi e di istituzioni sociali con i quali il sistema sociale e i gruppi che ne fanno parte influenzano o costringono la condotta dei soggetti individuali o collettivi verso la conformità alle norme o alle regole dominanti della collettività" (v. Tomeo, 1985, pp. 150-151), si constata che le norme sono al tempo stesso strumento e obiettivo del controllo. Al rispetto delle norme si viene indotti, cioè, dalle stesse o da altre norme.

La questione da porsi non è, dunque, 'se' le norme abbiano un riflesso sul controllo sociale, ma piuttosto 'come' esse ottengano osservanza e rispetto generalizzati.

Una risposta a questo quesito varia non solo al variare delle condizioni storiche, ma anche a seconda dei diversi canoni analitici cui si ricorre per distinguere fra società e società.Un canone distintivo importante, che da Durkheim scende sino a Parsons, conduce a rappresentare le società come unità complesse, differenziate al loro interno per ruoli funzionali e solidaristici. Si tratta di un canone tradizionale e certamente fertile. Esso ha permesso, per esempio, di concettualizzare il progressivo spostamento delle norme dal campo delle sanzioni repressive a quello delle sanzioni restitutive e, soprattutto, delle sanzioni positive; ha messo in luce altresì la progressiva rilevanza delle norme di competenza, procedurali, rispetto a quelle di condotta, sostanziali (v. Luhmann, Legitimation..., 1969; v. Teubner, 1987); ha infine indotto a pensare alla società contemporanea come a una società che moltiplica opportunità e diritti, e nella quale le pretese tendono a incanalarsi nella via del diritto, inteso come strumento pacifico di bilanciamento di interessi, piuttosto che in quella della violenza (v. Parsons, 1962; v. Friedman, 1985 e 1990).

Le teorie menzionate, pur diverse l'una dall'altra, si caratterizzano tutte per il loro carattere integrazionistico. Esse tendono in effetti a presentare le norme, in particolare le norme giuridiche, come uno strumento di integrazione sociale, atto a depotenziare i conflitti e, come disse Parsons, a "lubrificare i meccanismi della vita sociale". Il controllo sociale, secondo queste teorie, avviene in certo modo spontaneamente, per accettazione dei vincoli che le norme pongono. Le norme evitano l'uso della forza.

A conclusioni diverse conduce un altro canone analitico, che distingue le società non per ruoli funzionali, ma per posizioni di potere, economico o politico, formale o informale, nella prospettiva conflittualistica che da Marx, attraverso Weber, arriva sino a Wright Mills e a Dahrendorf. In questa visione la società appare non unitaria, ma segmentata e stratificata in ruoli asimmetrici e competitivi. Le norme, soprattutto le norme giuridiche, appaiono come uno strumento di dominio o, comunque, di condizionamento esterno dei comportamenti. Il controllo sociale avviene in modo forzoso; i vincoli normativi sono imposti, giacché le norme regolano l'uso della forza indirizzandola secondo evenienze dettate dalle relazioni di potere. Nelle versioni più radicali, come quella marxista, esse giustificano l'uso della forza diffondendo falsa coscienza.Le acquisizioni teoriche sopra citate, in base a questa teorizzazione, non vengono messe in discussione, ma appaiono in una luce diversa e più articolata. Per esempio, la crescente importanza delle norme procedurali rispetto a quelle sostanziali rivela, da un lato, la progressiva liberazione dai vincoli comportamentali e l'esaltazione delle autonomie dei singoli e dei gruppi entro un quadro generale di rispetto delle regole del gioco, ma dall'altro lato può stimolare il conflitto fra gruppi (v. Corsale, 1995) e, inoltre, fa sorgere il sospetto che entro le autonomie dei gruppi i singoli possano trovarsi oppressi e privi della protezione che può scaturire da complessi normativi vincolanti per tutta una comunità e gestiti in modo impersonale (v. Treves, 1987).Fra le due prospettive esiste peraltro una possibile conciliazione, poiché l'uomo è portato a socializzare così come a massimizzare la propria utilità (v. Pocar, 1993), e in conseguenza le norme, soprattutto giuridiche, riflettono sia valori condivisi, sia volontà oppressive (v. Resta, 1992).