Movimenti politici e sociali
di Sidney Tarrow
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1996)
Sommario: 1. Introduzione. 2. Definizione e parametri empirici: a)
sfida collettiva; b) scopi comuni; c) solidarietà; d)
capacità di sostenere l'azione collettiva. 3. La ricerca sui
movimenti sociali e le sue scuole: a) problematiche; b) origini
storiche degli orientamenti teorici tradizionali. 4. I cambiamenti
degli anni sessanta: a) la 'normalizzazione' della protesta; b) i
'nuovi' movimenti sociali; c) Olson e i suoi critici. 5. Il problema
sociale dell'azione collettiva. La teoria di Williamson: i costi di
transazione e le risorse esterne. 6. L'appropriazione dell'ambiente
esterno: a) la struttura delle opportunità politiche; b) il
repertorio dell'azione collettiva; c) le strutture di mobilitazione;
d) la mobilitazione del consenso. 7. Le dinamiche dei movimenti: a)
i cicli della protesta; b) gli esiti dei movimenti. 8. Una tipologia
dei movimenti: a) movimenti espressivi; b) movimenti di riforma; c)
movimenti comunitari; d) movimenti integralisti. 9. Verso una
globalizzazione dei movimenti sociali? □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nello studio dei movimenti politici e sociali, più che in
qualsiasi altro ambito della ricerca sociologica, vengono alla luce
sia i vantaggi che gli svantaggi di un approccio interdisciplinare.
Laddove nello studio dei partiti politici e dei gruppi di interesse
i ricercatori possono essere tentati di adottare un approccio
strettamente disciplinare, nel caso dei movimenti politici e sociali
non possono permettersi di privilegiare gli aspetti politici,
trascurando quelli sociali, sociopsicologici ed economici. In
realtà, se vi è una distorsione nella letteratura
sull'argomento, questa è dovuta al fatto che - soprattutto
nell'area angloamericana - i movimenti sono stati considerati quasi
esclusivamente in termini sociali e sociopsicologici, trascurando la
loro interazione con il conflitto politico e con le istituzioni
politiche.Il carattere interdisciplinare della ricerca sui movimenti
sociali, tuttavia, ha il suo lato negativo nella varietà dei
parametri definitori che hanno accompagnato lo sviluppo di questo
campo di studi. Da un lato, seguendo le orme di Michels, alcuni
studiosi hanno focalizzato l'attenzione sulle strutture
organizzative dei movimenti (v. Zald e McCarthy, 1987); dall'altro,
altri studiosi hanno ampliato il campo d'indagine sino a includervi
praticamente ogni corrente d'opinione e ogni azione collettiva, dai
movimenti letterari sino ai tumulti e agli assembramenti spontanei.
Un'altra conseguenza negativa dell'approccio interdisciplinare ai
movimenti sociali è rappresentato dalla varietà di
metodi con i quali il fenomeno è stato studiato: dall'analisi
degli atteggiamenti individuali alle raccolte sistematiche di dati
relativi a eventi storici, alle analisi delle strutture
organizzative, agli affreschi di largo respiro di determinate
correnti di pensiero e ideologie, questo campo d'indagine si
presenta oltremodo ricco ed eterogeneo sul piano metodologico. A
questa ricchezza nata dal sincretismo metodologico si aggiunge la
tendenza di molti attori politici a definire i propri partiti
'movimenti' - anche quando già da tempo questi hanno
cominciato a partecipare a normali competizioni elettorali. Ma se
questa ricchezza costituisce un aspetto stimolante,
l'eterogeneità dei metodi e delle definizioni impedisce di
cumulare e replicare i risultati della ricerca.
2. Definizione e parametri empirici
In questo articolo definiremo i movimenti politici e sociali come
sfide collettive avanzate da individui uniti da scopi comuni e da
vincoli di solidarietà, capaci di sostenere l'interazione con
le élites, gli avversari e le autorità. Questa
definizione, che deve la sua ispirazione al lavoro di Charles Tilly
(v., 1978 e 1993), si differenzia sia dagli approcci che
circoscrivono l'attenzione alle organizzazioni dei movimenti, sia da
quelli che pretendono di abbracciare ogni forma di comportamento
collettivo; essa contiene inoltre i seguenti elementi chiave: sfida
collettiva, scopi comuni, solidarietà, capacità di
sostenere le rivendicazioni a nome di soggetti non rappresentati.
Esaminiamo brevemente ognuno di questi elementi.
a) Sfida collettiva
Esistono molte forme di azione collettiva - dal voto e
dall'affiliazione a gruppi d'interesse ai giochi di carte e alle
partite di calcio. Non sono queste, tuttavia, le forme di azione
più caratteristiche dei movimenti sociali. I movimenti
avanzano rivendicazioni mediante un'azione di sfida diretta, rivolta
contro élites, autorità, altri gruppi o determinati
codici culturali. Questa azione di sfida, il più delle volte
di carattere pubblico, può anche assumere la forma di una
resistenza individuale coordinata, di una mobilitazione cognitiva o
di un'affermazione collettiva di nuovi valori.Le sfide collettive
nella maggior parte dei casi sono contrassegnate da comportamenti
che mirano a interrompere, ostacolare o mettere a repentaglio le
attività - e spesso la sicurezza personale -degli altri.
Soprattutto nei sistemi autoritari la protesta viene espressa
talvolta attraverso slogans, forme simboliche di abbigliamento o di
musica, nuove o diverse denominazioni di oggetti familiari. Anche
negli Stati democratici gli individui possono identificarsi con un
movimento attraverso l'impiego di determinati vocaboli, forme
d'espressione e comportamenti privati che denotano i loro scopi
collettivi e sono rafforzati da essi.
La sfida collettiva non è l'unica attività dei
movimenti sociali. Essi - specialmente quelli organizzati - si
impegnano in una varietà di compiti nell'interesse dei propri
scopi e dei propri aderenti: fornire 'incentivi selettivi' ai
membri, costruire nuove identità collettive tra gli attuali o
futuri sostenitori, esercitare pressioni sulle autorità e
condurre negoziati con esse, contestare i codici culturali correnti
attraverso nuove pratiche religiose o individuali. La sfida
collettiva tuttavia costituisce la strategia più
caratteristica e ricorrente dei movimenti sociali. E ciò non
perché i loro leaders siano psicologicamente inclini alla
violenza o al disordine, bensì perché nel cercare di
conquistare nuovi sostenitori e nell'avanzare le proprie
rivendicazioni, essi non dispongono di quelle risorse stabili -
denaro, organizzazione, accesso allo Stato - che i partiti politici
e i gruppi di interesse sono invece in grado di mobilitare. Privi di
tali risorse, e poiché rappresentano soggetti non
rappresentati o nuovi soggetti in via di formazione, i movimenti si
servono delle sfide collettive per diventare punti focali del
conflitto, per ottenere l'attenzione degli avversari e di terze
parti, per individuare soggetti emergenti. Anche il compito della
costruzione dell'identità collettiva - a volte contrapposto
schematicamente alle attività 'pubbliche' dei movimenti (v.
Melucci, 1982 e 1988) - è spesso attuato attraverso
l'interazione conflittuale con gli avversari.
b) Scopi comuni
Molte ipotesi sono state proposte al fine di spiegare perché
gli individui aderiscano a un movimento: dal desiderio tipico dei
giovani di sfidare l'autorità sino agli istinti violenti
della folla. Se è vero che alcuni movimenti sono
contrassegnati dal senso ludico e dallo spirito carnevalesco, mentre
in altri viene alla luce la cieca violenza delle folle, esiste un
motivo più generale - e più prosaico - che spinge gli
individui ad associarsi in un movimento: quello di avanzare
rivendicazioni comuni contro avversari, autorità o
élites. Ciò non significa che tutti i conflitti di
questo tipo scaturiscano da interessi di classe, né che i
leaders non godano di alcuna autonomia nel definire gli scopi del
movimento, ma solo che alla base delle loro rivendicazioni vi
è la collocazione all'interno di una struttura di conflitto.
Sia l'ipotesi dello 'spirito carnevalesco', sia quella degli istinti
irrazionali della folla trascurano i rischi e i costi notevoli
comportati dall'azione collettiva contro autorità protette
dalle forze dell'ordine. Gli schiavi ribelli che sfidarono l'Impero
romano rischiavano la morte in caso di sconfitta; i dissidenti
religiosi che promossero la Riforma affrontarono rischi analoghi; e
gli studenti neri delle università americane del Sud,
costretti a sedere a tavoli separati alla mensa, non si aspettavano
certo grandi festeggiamenti dai bianchi che li aspettavano fuori,
pronti ad aggredirli con bastoni e violenze verbali. Gli attivisti
non rischiano la vita né sacrificano il proprio tempo per le
attività di un movimento sociale, se non ritengono di avere
un buon motivo per farlo. Quando questo scopo comune si traduce
fondamentalmente in una sfida alle élites, alle
autorità o agli oppositori, si ha la seconda caratteristica
dei movimenti sociali.
c) Solidarietà
Il denominatore comune della maggior parte dei movimenti è
dunque l'interesse. L'interesse però non è altro che
una categoria oggettiva imposta dall'osservatore esterno: è
il riconoscimento dei propri interessi comuni da parte degli
individui coinvolti che traduce il potenziale per la nascita di un
movimento in azione collettiva. Mobilitando il consenso, i promotori
di un movimento svolgono un ruolo importante nello stimolare tale
consenso. Essi però possono creare un movimento sociale solo
qualora esistano sentimenti di solidarietà o di
identità profondamente radicati. È questo quasi
certamente il motivo per cui il nazionalismo e l'appartenenza etnica
- fondati su legami reali o 'immaginari' - oppure la religione -
fondata su una fede comune - hanno costituito basi più solide
per l'organizzazione di movimenti che non l''obiettiva' classe
sociale.Un tumulto o un assembramento di folla di solito non
costituiscono un movimento sociale, in quanto i partecipanti sono
uniti tipicamente da una solidarietà solo temporanea. A volte
però anche le sommosse rivelano l'esistenza o la
potenzialità di una solidarietà. I tumulti per il pane
negli anni settanta e ottanta del XVIII secolo in Francia non erano
ancora un movimento, ma segnalavano che un movimento stava per
nascere. I tumulti nei ghetti di varie città americane negli
anni sessanta o quelli verificatisi a Los Angeles nel 1992 in
sé non costituivano un movimento, ma il fatto che fossero
innescati da abusi politici indica che alla loro origine vi era un
diffuso senso di ingiustizia. Nel corso della storia gli attacchi
istintivi contro altri gruppi - i cattolici in Inghilterra, gli
Ebrei in Germania, gli immigrati asiatici a Los Angeles - dimostrano
che l'identità collettiva richiede un 'altro' per affermare
se stessa. Le folle, i tumulti e gli assembramenti spontanei,
più che costituire movimenti in se stessi, indicano che un
movimento potrebbe essere in via di formazione.
d) Capacità di sostenere l'azione collettiva
Ciò che distingue un movimento sociale da un semplice
episodio o manifestazione di protesta è la capacità di
sostenere l'azione collettiva contro gli antagonisti. Gli scopi
comuni, le identità collettive e la capacità di
avanzare una sfida sono elementi importanti per la formazione dei
movimenti, ma a meno che questi non siano in grado di sostenere tale
rivendicazione, sono destinati a dissolversi in quella sorta di
risentimento individualistico che James Scott (v., 1986) definisce
'resistenza', a cristallizzarsi nell'opposizione intellettuale o a
recedere nel settarismo. I movimenti che hanno inciso più
profondamente nella storia sono riusciti a far ciò in quanto
erano in grado di sostenere l'azione collettiva contro avversari
forti.I leaders si sforzano di sostenere l'azione collettiva, ma se
la ricerca degli ultimi due decenni ha dimostrato qualcosa, è
che i movimenti raramente sono dominati da un singolo leader o da
una singola organizzazione. In che modo essi riescano a sostenere le
rivendicazioni collettive a fronte degli egoismi personali, della
disorganizzazione sociale e della repressione da parte dello Stato
rappresenta il problema che ha animato gran parte della ricerca sui
movimenti sociali e che sarà al centro del presente articolo.
Prima di occuparci di questo tema però sarà opportuno
esaminare i principali indirizzi teorici cui ha dato vita la ricerca
sui movimenti sociali in Europa e in America, nonché le loro
origini storiche e le variabili utilizzate per spiegarne la comparsa
per rivolgere poi l'attenzione ai principali tipi di movimenti
sociali e politici nelle società contemporanee.
3. La ricerca sui movimenti sociali e le sue scuole
a) Problematiche
Così come è accaduto per molti altri fenomeni sociali,
lo studio dei movimenti politici e sociali si sviluppò a
seguito dei problemi posti dalla società industriale e dalla
nascita del proletariato industriale. Di fatto, il movimento sociale
del XIX secolo si identificava senz'altro con la classe operaia.
È questo il motivo per cui spesso, ancor oggi, il concetto di
'movimento sociale' evoca l'idea del conflitto di classe. Nella
maggior parte dei paesi, tuttavia, i movimenti sociali
accompagnarono l'avvento della democrazia liberale e precedettero la
rivoluzione industriale. Basandosi su quello che è stato
definito il "repertorio-modulo" dell'azione collettiva e utilizzando
gli strumenti della stampa e dell'associazione, i primi attivisti
della democrazia in Francia, Inghilterra e Nordamerica si
consideravano - ed erano ampiamente considerati - gli agenti di un
nuovo credo e di una nuova prassi politica (v. Walzer, 1971) e
avevano ben poco a che fare con il conflitto di classe. I movimenti
politici e sociali moderni si svilupparono intorno - e in reazione -
al consolidamento dello Stato moderno nell'Europa occidentale e nel
Nordamerica. Tuttavia, forse perché lo studio di questo
fenomeno è sorto nel contesto dell'industrializzazione, i
principali problemi che hanno animato la ricerca sui movimenti sono
stati di ordine sociologico, sociopsicologico o economico, ma non
politico-istituzionale. Tradizionalmente, gli studi in questo campo
si sono focalizzati su tre problematiche principali.
1. Quali categorie di persone vengono reclutate nei movimenti? In
passato gli attivisti dei movimenti erano considerati spesso
ideologi fanatici o elementi di una folla anonima in cerca di nuove
identità (v. Le Bon, 1895). Gli ultimi due decenni tuttavia
hanno dimostrato che gli attivisti possono provenire
pressoché da ogni settore della società e che le loro
rivendicazioni, anche se formulate in termini espressivi, sono
sempre strumentali. La ricerca ha dimostrato inoltre che, lungi
dall'essere membri isolati di una folla, gli attivisti nella maggior
parte dei casi sono reclutati attraverso reti di relazioni sociali e
tendono a restare attivi all'interno di tali reti una volta che
abbiano fatto il loro ingresso nella vita pubblica (v. McAdam,
1988).
2. In che modo la nascita di un movimento è legata ai cicli
della crescita economica e ai cambiamenti nei rapporti di classe? In
passato si era propensi a ritenere che la deprivazione economica
fosse la causa principale della nascita dei movimenti. Tuttavia i
movimenti degli anni sessanta hanno accreditato l'ipotesi opposta,
ossia che i movimenti esprimano atteggiamenti 'post-materiali'
scaturiti dal benessere (v. Inglehart, 1977). Marx era uno storico
sufficientemente avvertito per rendersi conto che le coalizioni di
varie classi erano spesso all'origine della formazione di movimenti
sociali, ma il marxismo volgare persistette nella convinzione che i
movimenti richiedano un fondamento di classe. Con il declino del
marxismo, gli studiosi sono diventati assai più cauti
nell'attribuire priorità causale ai fattori macrostrutturali.
A partire dal fondamentale lavoro di E. P. Thompson, alcuni hanno
cercato di dare alla classe un fondamento culturale (v. Eder, 1993),
mentre altri hanno prestato crescente attenzione ai cambiamenti
nella struttura delle opportunità politiche che diminuiscono
i costi dell'azione collettiva e fungono così da incentivi
all'attivismo (v. Eisinger, 1973). I fattori macrosociologici hanno
perso in questo modo la centralità che avevano nei precedenti
orientamenti della ricerca.
3. In che modo i rapporti tra leaders e seguaci all'interno di un
movimento influiscono sulla sua dinamica? Riguardo a questo problema
il punto di riferimento principale è stata la classica tesi
michelsiana della sostituzione dei fini del gruppo da parte dei
leaders burocratici. Per Michels (v., 1911), i leaders arrivano a
identificarsi con l'organizzazione e con la sua sopravvivenza,
piuttosto che con la realizzazione dei suoi scopi a lungo termine.
Ma le organizzazioni esaminate da Michels erano assai più
burocratiche della maggior parte dei movimenti, e gli studi condotti
a partire dagli anni sessanta indicano che l'istituzionalizzazione e
l'oligarchia interna riscontrate da Michels non sono preordinate (v.
ad esempio Lipset e altri, 1977). È più comune che i
movimenti attuali basino i loro rapporti tra leaders e seguaci su
modelli meno rigidi di 'spazi liberi', in cui la partecipazione al
processo decisionale diventa uno dei principali incentivi per
l'attivismo (v. Evans e Boyte, 1992).
b) Origini storiche degli orientamenti teorici tradizionali
Gli orientamenti teorici tradizionali nell'ambito della ricerca sui
movimenti sociali hanno fondamentalmente due origini storiche: la
reazione conservatrice alla Rivoluzione francese e alla rivoluzione
industriale da un lato, e la nascita dei movimenti socialisti alla
fine del XIX secolo dall'altro. Ma nessuno di questi indirizzi
teorici è stato di grande aiuto nel mettere in correlazione i
movimenti sociali con la politica: il primo propugnava l'idea che i
movimenti fossero veicoli delle folle, ignorando la capacità
di sostenere l'azione collettiva che caratterizza gli autentici
movimenti; il secondo persisteva nell'associare i movimenti alle
singole classi sociali. Entrambi trascuravano il fatto che i
movimenti di maggior successo non erano costituiti né da
folle violente né da classi sociali organizzate, bensì
da coalizioni di differenti attori sociali e politici uniti intorno
a un'azione collettiva. Ciò è evidente nei grandi
movimenti del passato: le Rivoluzioni francese e americana del XVIII
secolo, i fermenti per la riforma elettorale in Gran Bretagna e i
moti rivoluzionari del 1848 in varie regioni d'Europa.
Al trascorrere del XIX secolo, il declino dell'anarchismo violento e
l'integrazione della classe operaia cominciarono a mettere in crisi
sia il pregiudizio che associava i movimenti al comportamento
irrazionale delle folle, sia il presupposto che essi siano
espressione di singole classi sociali. Ma i grandi cataclismi del XX
secolo - il fascismo e la Rivoluzione russa - determinarono una
rinascita di entrambe le teorie. Ciò si verificò in
particolare negli Stati Uniti, dove una generazione di esuli europei
portò con sé le memorie da incubo delle 'folle' e la
prevenzione contro l'ideologia. Corroborata da questa nuova fonte di
energie intellettuali, e priva della salda tradizione strutturalista
dei teorici europei, la sociologia americana arrivò
facilmente alla convinzione che i movimenti sono espressione di una
disfunzione (v. Smelser, 1962). La guerra fredda, infine,
resuscitò la vecchia identificazione tra classe e movimento,
sussumendo entrambe sotto la bandiera della Terza Internazionale.
4. I cambiamenti degli anni sessanta
Gli anni sessanta contraddissero queste cupe visioni, contribuendo
all'affermarsi dell'idea che i movimenti, pur esprimendo una
protesta, possono essere positivamente collegati a uno sviluppo
democratico. Allorché il movimento americano per i diritti
civili e i movimenti studentesco, pacifista, femminista, gay e
ambientalista cominciarono ad avanzare critiche motivate delle
élites e delle autorità, coinvolgendo centinaia di
migliaia di persone in azioni prevalentemente pacifiche, i movimenti
sociali vennero legittimati come oggetto di studio. Gli sviluppi
della teoria e della ricerca a partire dagli anni sessanta hanno
dato luogo a tre orientamenti principali: la teoria della
'normalizzazione' dei movimenti, quella dei cosiddetti 'nuovi'
movimenti sociali e l'approccio di M. Olson, con le critiche cui ha
dato luogo.
a) La 'normalizzazione' della protesta
La natura strumentale di gran parte dei movimenti degli anni
sessanta, il fatto che essi si sovrapponessero ai gruppi di
interesse, e la loro capacità di sfruttare le abilità
e le energie di ampi gruppi della popolazione contribuirono a
mettere in crisi la dicotomia tra azione sociale convenzionale e
comportamento collettivo 'irrazionale' che aveva dominato la ricerca
sociologica. Gli studenti universitari che protestavano
pacificamente contro la guerra in Vietnam, i neri d'America che
lottavano pacificamente per i diritti civili, i membri dei ceti medi
che partecipavano ai movimenti ambientalista, pacifista, femminista,
contrastavano con la vecchia immagine degli estremisti militanti il
cui comportamento collettivo era legato alla classe sociale o
assimilabile all'azione della folla.
In Gran Bretagna gran parte dell'opera di reinterpretazione
cominciò prima del 1968 e fu portata avanti da storici quali
E.P. Thompson (nell'imponente The making of the English working
class, del 1963), George Rudé (nel suo studio sul ruolo della
folla nella Rivoluzione francese del 1964) ed E.J. Hobsbawm (in
varie opere, nonché in una eccellente ricostruzione, in
collaborazione con Rudé, del movimento Captain Swing: v.
Hobsbawn, 1959 e 1974; v. Hobsbawn e Rudé, 1968). Questi
studiosi tendevano ad attribuire ai movimenti di massa un carattere
strumentale piuttosto che espressivo, e li consideravano fenomeni
sociopolitici piuttosto che sociopsicologici. Il più
clamoroso movimento degli anni sessanta in Gran Bretagna, quello per
il disarmo nucleare, contribuì a consolidare l'immagine di
'normalità' dei movimenti (v. soprattutto Parkin, 1968).
Un diverso genere di 'normalizzazione' si ebbe in Italia, dove i
conflitti legati alle relazioni industriali vennero inquadrati in
qualcosa di analogo a una struttura di scambio politico. Dati gli
elementi espressivi presenti nell''autunno caldo' (v. Pizzorno,
1978) nonché i legami - tenui o forti che fossero - tra gli
operai e altri attori sociali nel "maggio strisciante" italiano (v.
Reyneri, 1978), gli studiosi del conflitto industriale in Italia
erano assai più vicini allo studio dei movimenti sociali di
quanto non lo fossero gli studiosi delle relazioni industriali negli
altri paesi.
Questo approccio in termini di scambio politico fu sviluppato
soprattutto da un gruppo di giovani sociologi sotto l'influenza di
Alessandro Pizzorno (v. Pizzorno e altri, 1978, e in particolare i
contributi di Regalia, Regini e Reyneri). La loro ricerca
influenzò alcuni studiosi stranieri che lavorarono
principalmente in Italia (v. ad esempio Lumley, 1990; v. Tarrow,
1989 e i contributi in Crouch e Pizzorno, 1978). Un approccio
analogamente improntato in senso politico si poteva comunque
riscontrare anche in una serie di analisi più istituzionali
del movimento sindacale, ad esempio nei contributi di Aris Accornero
(v., 1971 e 1976).La 'normalizzazione' dell'immagine dei movimenti
fu particolarmente marcata negli Stati Uniti. Sulla scia degli anni
sessanta si affermò la tendenza a vedere nei movimenti, in
quanto veicoli per la mobilitazione di risorse e dell'azione
collettiva, un elemento - per quanto turbolento e incivile - del
processo politico (v. Lipsky, 1968; v. McAdam, 1982; v. Piven e
Cloward, 1979). Alcuni studiosi americani applicarono questi modelli
sociopolitici all'Europa (v. Tarrow, 1967; v. Tilly, 1986; v. Tilly
e altri, 1975).
I ricercatori americani seguirono due orientamenti paralleli: il
modello della 'mobilitazione delle risorse' e quello del 'processo
politico'; a entrambi gli approcci si devono alcuni fondamentali
risultati analitici. In primo luogo, gli attivisti dei movimenti non
venivano più considerati estremisti nei fini, violenti nel
comportamento e anomali nel reclutamento. In secondo luogo,
l'attenzione venne focalizzata sulle strutture organizzative dei
movimenti, visti come collettività strumentali piuttosto che
come generiche correnti intellettuali o ideologiche. In terzo luogo,
i movimenti vennero considerati sempre più come attori
strategici in una equazione complessa di interesse, azione e
reazione, in interazione con lo Stato, altri attori politici e il
pubblico: in breve, come una componente della lotta politica.Con
questo approccio sintetico e orientato in senso politico, le
strutture delle opportunità politiche venivano ora incluse
esplicitamente nell'analisi dell'azione collettiva (v. Garner e
Zald, 1985; v. Jenkins e Perrow, 1977; v. McAdam, 1982 e 1983). I
movimenti erano considerati non come espressioni eccezionali della
rabbia collettiva, ma come attori in complessi cicli di protesta e
di riforma (v. Hirschman, 1981; v. Kriesi e altri, 1992; v. Tarrow,
1989 e 1994). Non più paria dello studio della politica
istituzionale, i movimenti cominciarono a essere visti come
componente di un sistema interattivo incentrato sullo Stato
nazionale.
Queste acquisizioni teoriche tuttavia furono spesso ottenute
mettendo in ombra alcune caratteristiche peculiari dei movimenti.
Laddove i primi approcci avevano visto in essi dei nemici della
democrazia, i teorici della mobilitazione delle risorse rischiavano
di assimilarli ai gruppi di interesse (v. la critica di Kitschelt e
la risposta di Zald in Rucht, 1991). Ciò spiega almeno in
parte il grande richiamo esercitato dall'opera dell'economista
Mancur Olson (v., 1965) su molti studiosi americani. Inoltre, nel
considerare i movimenti come una forma normale di partecipazione
politica, i teorici del processo politico mancarono di specificare
ciò che li distingue dalle forme convenzionali di
partecipazione.Consideriamo ora le controproposte teoriche avanzate
nello stesso periodo dagli studiosi europei.
b) I 'nuovi' movimenti sociali
Per molti sociologi europei il rischio maggiore comportato dagli
approcci americani era la possibile confusione tra movimenti e
gruppi di interesse. Questi indirizzi teorici venivano inoltre
criticati in quanto trascuravano il rapporto tra movimenti e
mutamento macrosociale, concentrando l'attenzione sul 'come'
anziché sul 'perché' dei movimenti (v. Melucci, 1988)
e trascurando i legami tra movimenti e classi sociali. Nell'Europa
occidentale, dove il neomarxismo era più influente che in
America durante gli anni settanta e la ricerca empirica molto meno
sviluppata, i movimenti degli anni sessanta e settanta ebbero un
impatto assai più 'strutturale' sulla ricerca. Questa si
incentrava sulla scuola dei 'nuovi' movimenti sociali - nelle sue
varie versioni francese, tedesca e italiana - i cui esponenti di
maggior rilievo furono Touraine (v., 1984), Offe (v., 1985 e 1990) e
Melucci (v., 1980, 1982 e 1988).
A grandi linee, la teoria dei nuovi movimenti sociali sosteneva che
la crescita dello Stato del benessere keynesiano e la
centralizzazione delle economie del capitalismo avanzato hanno
ridotto gli spazi di vita individuali. Sia le classi in declino che
la 'nuova' classe media hanno motivazioni convergenti nel rigettare
le precedenti identificazioni nei partiti - esse stesse il risultato
del nuovo assetto postbellico - e aderiscono a nuovi movimenti in
nome del femminismo, dell'ecologia, del pacifismo e della
libertà d'espressione. Tali movimenti si incentrano in larga
misura sullo 'spazio di vita' piuttosto che su preoccupazioni
materiali. Secondo questi teorici, i nuovi movimenti non sono
ideologici nel senso tradizionale e mancano sia di organizzazioni
formali sia di una forte leadership. Possiamo vedere la loro
apoteosi nei partiti dei Verdi - soprattutto in quello tedesco, che
ha influenzato notevolmente le prospettive di molti esponenti della
nuova scuola.
Tuttavia la scuola dei 'nuovi' movimenti poneva alcuni problemi, per
molti versi opposti a quelli degli approcci americani. In primo
luogo, molti studiosi che aderivano a tale scuola erano più
interessati alla teoria generale che alla verifica empirica, e
sembravano indifferenti alle discrepanze che talora era dato
riscontrare tra i loro costrutti teorici e il mondo reale. Ad
esempio, per Offe il soggetto principale era la 'nuova' classe media
che aderiva ai 'nuovi' movimenti mentre la 'vecchia' classe operaia
non vi partecipava. Tuttavia l'attenta indagine di Kriesi (v., 1989)
sulla nuova classe media in Olanda dimostrò che erano
soprattutto gli operatori dei servizi culturali e sociali a
sostenere in maniera preponderante i nuovi movimenti, e non la nuova
classe media nella sua globalità. Nello stesso tempo la
ricerca empirica sui sindacati - il 'vecchio' movimento per
eccellenza agli occhi dei teorici dei nuovi movimenti sociali -
dimostrò che le organizzazioni sindacali andavano adottando
in misura crescente il comportamento espressivo dei nuovi movimenti
(v. Klandermans, 1991; v. Pizzorno, 1978).
La maggior parte degli esponenti di questa scuola aveva come punto
di riferimento i mutamenti macrosociali, senza peraltro specificare
il processo politico che interviene tra il mutamento strutturale e
l'azione collettiva. Di conseguenza essi focalizzarono l'attenzione
su cause prime analoghe, facendo raramente ricorso alla comparazione
e trascurando le significative variazioni politiche che si
riscontrano tra i movimenti nei diversi paesi (un'eccezione è
costituita dai lavori di Kitschelt - v., 1986 - e di Kriesi e altri:
v., 1992). Così, ad esempio, il carattere moderato del
più importante partito della sinistra nella Repubblica
Federale Tedesca non venne preso in considerazione quale fattore che
contribuì all'affermarsi dei nuovi movimenti in Germania,
laddove vennero privilegiate spiegazioni che si basavano sulle
caratteristiche generali del capitalismo avanzato. Ancora, venne
trascurato il carattere specifico dei movimenti italiani degli anni
settanta - altamente ideologici e nello stesso tempo strettamente
collegati al processo politico - in quanto essi venivano considerati
il prodotto di un paese troppo 'arretrato' per poter esprimere
'nuovi' movimenti sociali in senso proprio.Infine, i teorici dei
'nuovi' movimenti sociali esageravano il carattere pienamente
strutturato, settario e burocratico dei movimenti del passato. Una
comparazione storica meglio informata avrebbe mostrato che la
maggior parte dei nuovi movimenti del passato era simile ai
movimenti odierni per la qualità espressiva, per
l'organizzazione decentrata e per il rilievo dato ai problemi dello
'spazio di vita' (v. Calhoun, 1993). Il punto essenziale di questa
comparazione è che se le forme particolari, indicate dai
teorici come specifiche dei 'nuovi' movimenti delle società
industriali avanzate, caratterizzavano anche nuovi movimenti in
altre epoche storiche, allora il nesso causale istituito tra
industrializzazione avanzata e nuovi movimenti non può essere
valido. Fu forse in risposta a questo problema che Offe
abbandonò la sua prima formulazione della teoria per adottare
un modello più familiare di 'stadi di evoluzione', ben noto
ai ricercatori americani degli anni cinquanta (v. Offe,
1990).È interessante notare che il contributo più
originale all'indirizzo teorico dei nuovi movimenti sociali non
venne dalla Germania - dove i nuovi movimenti furono peraltro
oggetto della massima attenzione - bensì dall'Italia.
Prendendo le mosse dal lavoro di Alain Touraine, il sociologo
Alberto Melucci (v., 1980 e 1982) elaborò una versione della
teoria dei nuovi movimenti incentrata non tanto sul cambiamento
macrosociale quanto sui processi interni di formazione
dell'identità, trascurati dai teorici tedeschi più
'strutturalisti'. Melucci affermava che i movimenti sociali
rappresentano attori multipolari il cui maggior problema è la
costruzione di una identità collettiva. Gran parte
dell'attività dei movimenti può essere interpretata
non come un agire strumentale, 'rivolto all'esterno', bensì
come un tentativo di creare identità di questo tipo. Sebbene
le analisi di Melucci fossero focalizzate sulla realtà
italiana dal punto di vista empirico, esse concordavano per molti
significativi aspetti con i recenti sviluppi teorici americani
dovuti a Gamson (v., 1988) e a Snow e i suoi collaboratori (v. Snow
e altri, 1986), i quali consideravano i movimenti in termini
'costruttivisti'. Con ciò arriviamo al 'problema' dell'azione
collettiva così come venne posto dagli studiosi che
utilizzavano un approccio derivato dall'economia politica.
c) Olson e i suoi critici
In passato molti studiosi partivano dal presupposto che vi fosse uno
stretto legame tra interessi e azione collettiva, e più
specificamente tra deprivazione e movimenti dei poveri. Tuttavia gli
studi più precisi e articolati condotti negli anni settanta e
ottanta dimostrarono che i cittadini più poveri raramente
partecipano a movimenti che agiscono nel loro interesse. Di
conseguenza, per molti studiosi il problema fu di stabilire in che
modo l'azione collettiva in favore di beni comuni sia possibile tra
individui guidati da un ristretto interesse personale - specialmente
allorché altri sembrano pronti a difendere quegli interessi.
La più autorevole formulazione di tale problema si deve
all'economista americano Mancur Olson (v., 1965). Pur riconoscendo
l'importanza degli incentivi non materiali all'azione collettiva, la
sua teoria ha come punto di partenza e come punto d'arrivo
l'individuo. Per Olson il problema degli attori collettivi era di
tipo aggregativo: come coinvolgere il maggior numero possibile di
membri di un gruppo in attività dirette a promuovere il bene
collettivo di quest'ultimo. Solo massimizzando la partecipazione il
gruppo può convincere gli antagonisti e le autorità
della propria forza e della propria importanza. Il problema consiste
nel convincere gli individui a partecipare nell'interesse del loro
bene collettivo quando vi sono altri pronti ad assumersi i costi e i
rischi che ciò comporta: è il cosiddetto 'problema del
free rider'.
Nel suo studio The logic of collective action Olson arriva alla
conclusione che solo i membri più importanti di un grande
gruppo hanno sufficiente interesse nel perseguire il suo bene
collettivo da assumerne la leadership. L'unica eccezione a questa
regola è costituita dai gruppi di dimensioni molto ridotte,
in cui esiste una stretta connessione tra beni individuali e beni
collettivi (v. Olson, 1965, pp. 43 ss.). Quanto più il gruppo
è ampio, tanto più gli individui preferiranno
beneficiare, senza impegnarsi di persona, degli sforzi di individui
il cui interesse per il bene collettivo è abbastanza forte da
indurli a perseguirlo. Per superare questo problema, gli aspiranti
leaders di un gruppo devono imporre costi ai suoi membri o fornire
loro 'incentivi selettivi' per convincerli che vale la pena di
partecipare (p. 51).
Il bene collettivo di un sindacato, ad esempio, è ottenere un
aumento dei salari e una diminuzione delle ore di lavoro; si tratta
però di 'beni comuni' di cui beneficeranno tutti gli operai
di una fabbrica, aderiscano o no all'organizzazione sindacale.
Analogamente il bene collettivo di un'associazione industriale
può essere indurre il governo a imporre tariffe
protezionistiche sui beni importati; ma i piccoli produttori che
fanno parte dell'associazione staranno a guardare lasciando che
siano le unità più grandi a svolgere l'opera di
pressione sul governo. Solo offrendo ai propri membri 'incentivi
selettivi' o 'ricompense collaterali', oppure costringendoli
attraverso contributi obbligatori, il sindacato o l'associazione
industriale potranno ottenere la loro partecipazione.
Ci siamo soffermati a lungo sulla teoria di Olson non perché
sia corretto applicarla senz'altro ai movimenti politici e sociali,
bensì perché analizzando le reazioni che essa ha
suscitato tra gli studiosi dei movimenti sociali ci avvicineremo
alla formulazione del vero problema dell'azione collettiva, ossia
quello della sua coordinazione. Vi sono stati tre tipi di reazione
alla teoria di Olson: alcuni hanno cercato di adattarla ai movimenti
sociali, altri l'hanno criticata, altri ancora hanno applicato
modelli di economia politica alternativi.
Tra gli studiosi che hanno cercato di adattare la teoria di Olson ai
movimenti sociali i più autorevoli sono stati due sociologi,
John McCarthy e Mayer Zald. Pur riconoscendo la forza dell'argomento
del free rider, essi videro una soluzione del problema nella nascita
di organizzazioni professionali di movimenti. Zald e McCarthy (v.,
1987), assieme ai loro collaboratori, sostennero che il benessere e
le diffuse capacità organizzative presenti nella moderna
società industriale forniscono agli organizzatori le risorse
necessarie per mobilitare gli individui nei movimenti. Tali
organizzatori non sono semplicemente coloro che hanno un particolare
interesse in un bene collettivo, come sosteneva Olson; si tratta
piuttosto di veri e propri 'imprenditori' professionisti di
movimenti, che dispongono delle capacità e delle
opportunità necessarie a trasformare in azione i potenziali
di mobilitazione esistenti, risolvendo in questo modo il problema
dell'azione collettiva.
In Europa, dove il contributo di Olson incontrò
l'indifferenza generale, vi furono nondimeno due studiosi che si
distinsero nel tentativo di adattare la teoria olsoniana ai
movimenti sociali. In Germania Karl-Dieter Opp e i suoi
collaboratori (v. Opp e altri, 1989) verificarono l'idea secondo cui
l'utilità marginale è l'indicatore migliore
dell'attivismo nei movimenti. In Olanda Bert Klandermans (v., 1984)
arrivò alla conclusione che l'interesse personale deve essere
rafforzato dalla conoscenza delle intenzioni degli altri e dalla
convinzione che una causa abbia una qualche probabilità di
successo per poter superare il problema del free rider. Entrambi gli
autori istituirono delle teste di ponte nel contesto europeo per
questa teoria 'americana'.
Alcuni studiosi si dimostrarono più scettici nei confronti di
una teoria che ai loro occhi riduceva l'azione collettiva a un
calcolo di costi e benefici, insistendo sul problema delle
identità nuove che sorgono allorché si presentano
nuovi movimenti (v. Pizzorno, 1978; v. Melucci, 1988). Altri furono
pronti a ribattere che Olson era stato troppo precipitoso nel
concludere che l'azione collettiva è problematica, in un
periodo storico - gli anni sessanta - in cui si assisteva a una vera
e propria esplosione di azioni collettive (v. Hirschman, 1981, p.
78). Altri sostennero che gli individui partecipano ai movimenti non
solo spinti dall'interesse personale, ma anche per convinzioni
profondamente radicate, per il desiderio di socializzare con altri e
perché anch'essi sono consapevoli del dilemma olsoniano (v.
Klandermans, 1991, pp. 24-25). Altri ancora rilevarono che la
distinzione operata da Olson tra piccoli e grandi gruppi è
matematicamente insostenibile, e affermarono che la soluzione del
problema dell'azione collettiva risiede nella 'eterogeneità':
piccoli gruppi che dispongono di risorse eccezionali o sono
profondamente impegnati in una causa possono servire da modello e da
incoraggiamento ad altri (v. Marwell e Oliver, 1993).
Il punto di forza di molte di queste critiche era costituito dal
fatto che l'azione collettiva ha effettivamente luogo, sia nei
piccoli che nei grandi gruppi, in condizioni di rischio sia elevato
che basso. Ciò tuttavia può semplicemente significare
che i gruppi possono 'risolvere' il problema dell'azione collettiva,
non che questo non esiste. Una questione fondamentale è se vi
sia una effettiva rispondenza tra la teoria di Olson e la
realtà dei movimenti sociali. A nostro avviso la risposta
è negativa: come cercheremo ora di dimostrare, il vero
problema dei movimenti sociali è di ordine sociale, e va
affrontato facendo ricorso a un modello politico-economico
alternativo.
5. Il problema sociale dell'azione collettiva. La teoria di
Williamson: i costi di transazione e le risorse esterne
Torniamo a Zald e McCarthy, i quali sembrano non aver dato molto
peso al fatto che nell'elaborare la sua teoria Olson non si riferiva
principalmente ai movimenti sociali, bensì ai gruppi di
interesse. Di fatto, Olson generalizzava estendendolo all'azione
collettiva un discorso riferito a una categoria ancora più
ristretta, quella delle associazioni economiche. In quest'ambito il
problema dell'azione collettiva e quello del free rider sembrano del
tutto appropriati, e ciò per tre motivi. In primo luogo, nei
gruppi economici la misura del profitto è l'utilità
marginale, chiaramente definita e intesa in senso generale. In
secondo luogo, per le organizzazioni economiche, come affermava
giustamente Olson, la proporzione dei membri di un gruppo che si
impegna in un'azione collettiva è decisiva per il successo di
quest'ultima, in quanto se una quota significativa di membri non
sostiene i propri leaders, gli antagonisti non hanno motivo di
prenderli sul serio. Infine, le associazioni di questo tipo in
genere sono di grandi dimensioni e hanno un'organizzazione formale;
esse sono caratterizzate da leaders identificabili, che cercano di
mobilitare iscritti formalmente associati in vista di un insieme
definito di obiettivi. Le condizioni di validità della teoria
di Olson sembrano quindi soddisfatte nell'ambito d'applicazione
originario di tale teoria.
Nessuno di questi tre criteri però si applica ai movimenti
politici e sociali, fatta eccezione per quelli che sono sulla via di
trasformarsi in gruppi di interesse. In primo luogo, la ragione per
cui un individuo aderisce a un movimento non è
necessariamente l'utilità marginale - anche ampliando questo
concetto al di là del suo significato economico (v. Fireman e
Gamson, 1979, pp. 19-20). La ricerca ha dimostrato che gli individui
partecipano ai movimenti per un'ampia gamma di motivi: dal desiderio
di trarre un vantaggio personale alla solidarietà di gruppo,
all'impegno di principio nei confronti di una causa, al desiderio di
far parte di un gruppo. Questa eterogeneità delle motivazioni
individuali rende il problema della coordinazione assai più
difficile per i movimenti sociali che non per i gruppi di interesse,
ma nello stesso tempo consente loro di fruire di risorse diverse da
quelle materiali per coinvolgere potenziali sostenitori nell'azione
collettiva.In secondo luogo, mentre in un'associazione economica la
quota degli iscritti che partecipano all'azione collettiva
costituisce una misura decisiva della sua forza, i movimenti non
hanno dimensioni definite né un numero stabile di iscritti, e
spesso sono in via di formazione nel momento in cui fanno la loro
comparsa. Ciò rende il criterio della partecipazione
proporzionale pressoché privo di significato. Laddove la
capacità di 'attivare' un numero consistente di persone
può costituire in determinati casi una misura importante del
potere di un movimento, quante persone debbano partecipare dipende
dalla 'struttura del conflitto' in cui esso è coinvolto
(ibid., p. 17), e tale quota può essere inversamente
proporzionale al potere del movimento: è questo il caso, ad
esempio, dei gruppi terroristici italiani, la cui coesione e
sicurezza dipendevano dalle loro dimensioni ridotte (v. Della Porta,
1990).
In terzo luogo, la relazione trasparente e bimodale tra il leader e
i seguaci che Olson riscontrava nelle associazioni economiche
è quasi sempre assente nei movimenti, i cui leaders spesso
non conoscono nemmeno i loro seguaci. Nella misura in cui sono
organizzati - e anche se spesso non lo sono - i movimenti sono
caratterizzati da un insieme di relazioni tra leaders, gruppi
intermedi, iscritti, simpatizzanti e seguaci più informale e
mediato rispetto a quello che si riscontra nei gruppi di interesse.
Come scrive il sociologo Pam Oliver (v., 1989, p. 4), "è
fuorviante equiparare un movimento sociale a una qualche sorta di
singolo ente che esprime decisioni collettive, per quanto poco
rigidamente strutturato".
In che modo allora i movimenti risolvono il problema della
coordinazione, visto che dipendono da una varietà di
incentivi, non hanno dimensioni definite e non controllano la
maggior parte degli individui che mobilitano? E in che modo possono
sostenere l'azione collettiva per una durata più o meno lunga
in interazione con antagonisti forti e determinati? È questo
il problema chiave nello studio dei movimenti sociali. Un punto di
partenza per arrivare a una risposta a tale problema può
essere fornito da un'analogia tratta dalla teoria
dell'organizzazione industriale.
In base alla teoria dell'impresa formulata da Oliver Williamson, le
aziende dipendono da fornitori e produttori di componenti esterni,
ma riducono tale dipendenza internalizzando le proprie
attività. Sulla scia di Coase (v., 1960), Williamson sostiene
che quando le imprese temono che quanti controllano le loro
attività possano avvantaggiarsi opportunisticamente di questo
fatto, decidono di assorbire i processi di offerta di componenti e
di informazione, diminuendo in questo modo i loro costi di
transazione (v. Williamson, 1975 e 1985). Alcuni di tali costi di
transazione - ad esempio quelli di regolamentazione - non possono
mai essere assorbiti, ma internalizzando i contratti le aziende
minimizzano i costi di scambio. Il risultato è di produrre
unità industriali su larga scala, le cui dimensioni e la cui
struttura sono determinate dai criteri tecnici del controllo sulle
attività.Non tutte le imprese, ovviamente, possono o vogliono
internalizzare le proprie attività, ed esistono modi
alternativi di risolvere il problema dei costi di transazione. Ad
esempio, per le aziende di piccole dimensioni unite in libere
associazioni di produttori, un'alternativa all'internalizzazione
è quella di cooperare nell'acquisto di forniture e di
informazione e nella distribuzione dei loro prodotti. Basandosi
sulle intese culturali esistenti e su reti di relazioni sociali
locali, tali aziende e i loro concorrenti/colleghi stipulano quelli
che Hardin (v., 1982, cap. 11) definisce "contratti per
convenzione". In alcuni casi - ad esempio nel settore della
produzione su piccola scala giapponese (v. Dore, 1986) o nella
"terza Italia" (v. Trigilia, 1986 e 1989) - le piccole imprese
superano in efficienza le grandi unità consolidate in quanto
possono contare sulla fiducia e sulle reti di relazioni sociali
locali che mancano invece ai grandi gruppi industriali.
Sebbene il discorso di Trigilia si riferisca alle organizzazioni
industriali, la soluzione al problema dell'azione collettiva che
egli riscontra nella "terza Italia" è particolarmente
importante per i movimenti sociali, che raramente sono in condizione
di risolvere il problema della coordinazione e dell'informazione
attraverso l'internalizzazione. E in effetti, quando questa strada
fu tentata dai partiti della Seconda Internazionale, ciò ebbe
delle conseguenze negative per i partiti e i sindacati del movimento
(v. Michels, 1911; v. Tarrow, 1994, cap. 8). I movimenti infatti non
esercitano alcun controllo sui propri sostenitori, né hanno
espliciti rapporti contrattuali con gli antagonisti e con le
autorità. Al pari dei piccoli produttori studiati da Dore e
da Trigilia, i movimenti devono basarsi su risorse esterne per
coordinare e sostenere l'azione collettiva. Per concludere, il
principale problema dei movimenti sociali non è quello della
mobilitazione, come riteneva Olson, bensì quello del
coordinamento, e per risolverlo si può ricorrere a varie
risorse di tipo sia istituzionale che congiunturale, come ci
accingiamo a dimostrare.
6. L'appropriazione dell'ambiente esterno
Arriviamo così all'argomento centrale del nostro discorso: i
movimenti, a differenza delle organizzazioni economiche, risolvono
il problema dell'azione collettiva appropriandosi temporaneamente di
determinati elementi dell'ambiente esterno. I più importanti
di questi elementi sono: le opportunità politiche che aiutano
i movimenti a risolvere il problema sociale dell'azione collettiva;
il 'repertorio' di forme di azione collettiva da essi utilizzato; le
reti di relazioni sociali contro cui si svolge l'azione collettiva,
nonché i simboli culturali e ideologici che strutturano tale
azione. Nel loro insieme opportunità, repertori, schemi
culturali e reti di relazioni sociali rappresentano il materiale a
partire dal quale si costruiscono i movimenti. Esaminiamo brevemente
ciascuno di questi elementi, cominciando con la struttura delle
opportunità politiche in cui i movimenti sorgono e cercano
sostegno.
a) La struttura delle opportunità politiche
A differenza sia della vecchia scuola americana, che considerava la
partecipazione ai movimenti come il risultato di fattori
sociopsicologici, sia dell'approccio europeo che dava maggiore
importanza a strutture sociali più ampie, un gruppo di
studiosi contemporanei sostiene che i movimenti sociali e politici
sembrano fare la loro comparsa allorché si creano determinate
opportunità politiche. Secondo questa teoria, i movimenti si
formano quando i cittadini, a volte incoraggiati da un leader,
reagiscono a determinati cambiamenti nella struttura delle
opportunità che diminuiscono i costi dell'azione collettiva,
rivelano potenziali alleati e mostrano i punti deboli delle
élites e delle autorità.
I cambiamenti più salienti presi in esame dalla maggior parte
di questi autori sono legati all'aprirsi di canali di
partecipazione, a cambiamenti negli schieramenti di governo, alla
presenza di alleati influenti nonché alle divisioni tra le
élites e all'interno di esse. Questa teoria ci aiuta a capire
perché la nascita dei movimenti non sia direttamente
collegata al livello di deprivazione dei loro sostenitori. Se
infatti essi possono appropriarsi di opportunità esterne per
tradurre in azione il potenziale di mobilitazione, allora anche
gruppi che dispongono di risorse scarse possono trarne vantaggio. I
mutamenti nella struttura delle opportunità politiche
contribuiscono inoltre a spiegare in che modo i movimenti si
propagano allorché vengono sfruttate e create nuove
opportunità politiche, e in che modo nuovi movimenti e
contromovimenti possono avvantaggiarsi di opportunità create
da altri.
Alcuni studiosi hanno focalizzato l'attenzione principalmente sulle
opportunità stabili offerte da differenti strutture statali e
sistemi partitici (v. Katzenstein e Mueller, 1987; v. Kitschelt,
1986). Altri, come ad esempio Peter Eisinger (v., 1973), Doug McAdam
(v., 1982 e 1983) nonché chi scrive (v. Tarrow, 1989 e 1994),
hanno preso in considerazione opportunità mutevoli
nonché quelle opportunità che variano per diversi
sottogruppi della popolazione. Un terzo gruppo di studiosi -
segnatamente Hanspeter Kriesi e i suoi collaboratori (v. Kriesi e
altri, 1992) - ha analizzato entrambi i tipi di opportunità,
facendo riferimento a un insieme di nuovi movimenti sociali
nell'Europa occidentale. Per molti di questi autori la struttura
delle opportunità politiche costituisce il legame più
importante tra i movimenti sociali e le caratteristiche del
conflitto politico.
b) Il repertorio dell'azione collettiva
Ogni gruppo particolare ha una sua storia - e una memoria storica -
particolare di azione collettiva. Gli operai sanno come scioperare
perché generazioni di operai hanno scioperato prima di loro;
i parigini costruivano barricate perché esse sono iscritte
nella storia della protesta parigina; i contadini si appropriavano
della terra portando i simboli che i loro padri e i padri dei loro
padri avevano usato in passato (v. Hill e Rothchild, 1992, p. 192).
Con queste routines incise nella memoria collettiva, i gruppi
sociali hanno una disponibilità allargata quando i movimenti
cercano di coinvolgerli in un tipo particolare di azione collettiva.
È questo il motivo per cui i leaders raramente pretendono
un'azione collettiva in quanto tale, ma richiedono piuttosto un tipo
particolare d'azione tratto dall'esperienza di un determinato
soggetto storico.
Esistono inoltre forme convenzionali più generali di azione
collettiva, come afferma Tilly (v., 1978), il quale ha formulato in
proposito il concetto di 'repertorio' della protesta. Ogni
società ha uno stock di forme familiari di azione, che sono
note tanto ai potenziali contestatori quanto ai loro antagonisti, e
che diventano elementi abituali della loro interazione. Se si parte
dal presupposto che gli individui hanno a disposizione le forme di
azione collettiva depositate nella storia della loro società,
si può vedere come i leaders propongano, e i seguaci
recepiscano, non tanto l''azione collettiva' in astratto,
bensì piuttosto un repertorio storicamente appreso di forme
di azione collettiva.Nel passato, la maggior parte delle forme di
azione collettiva era legata a particolari gruppi e situazioni di
conflitto: i tumulti per il pane, lo scherno rituale o charivari, la
rivolta antisignorile. Ma a un certo punto nel corso del XIX secolo
si verificò una trasformazione radicale. Grazie alla
diffusione dell'informazione attraverso la stampa e alle cognizioni
conservate da associazioni e reti di movimenti, le medesime forme di
azione collettiva cominciarono a essere impiegate oltre i confini
locali, in settori sociali più ampi e in nome di cause
diverse, dando luogo a quello che è stato definito
"repertorio-modulo" (v. Tarrow, 1994, cap. 2).
Tuttavia nel corso di un ciclo di protesta il repertorio dell'azione
collettiva cambia non appena le persone si stancano delle forme
consuete o le forze dell'ordine imparano a controllarle. È
questa l'origine delle innovazioni che i leaders introducono
nell'azione collettiva per aggirare gli avversari e stimolare
l'immaginazione di sostenitori il cui entusiasmo si è
logorato (v. McAdam, 1983). Nel corso del tempo queste innovazioni
vengono sperimentate, diventano oggetto di improvvisazione e a volte
si cristallizzano in forme di azione interamente nuove. Così
ad esempio la petizione di massa in Inghilterra si sviluppò
dalla petizione di gruppo, e dalla tattica di ostruire il passaggio
nella via di una città derivò la prassi oggi ben nota
del sit in.I leaders inventano, adattano e combinano varie forme di
azione collettiva per conquistare il sostegno di individui che
altrimenti resterebbero a casa (v. Hirschman, 1981, pp. 82-91). Essi
offrono loro forme di azione collettiva tradizionali o rare,
abituali o insolite, isolatamente o come parte di campagne
concertate, e associano queste forme di azione a tematiche iscritte
nella cultura o inventate sul momento, oppure ancora, più di
frequente, mescolano elementi convenzionali con nuove strutture di
significato. La protesta è una risorsa, secondo il politologo
Michael Lipsky (v., 1968), e le forme di azione collettiva scelte
dai movimenti costituiscono un incentivo collettivo alla
mobilitazione.
c) Le strutture di mobilitazione
Chi sono i soggetti dei movimenti sociali? Senza dubbio sono i
singoli individui che decidono di impegnarsi in un'azione
collettiva, come sosteneva Olson. Tuttavia gli individui da soli
hanno poche probabilità di superare gli ostacoli che incontra
l'azione collettiva o di sostenerla una volta iniziata. Sebbene
siano gli individui che decidono se prender parte o meno all'azione
collettiva, è all'interno dei loro gruppi faccia a faccia,
delle loro reti di relazioni sociali e delle loro istituzioni che
l'azione collettiva il più delle volte viene attivata.Gran
parte dei primi studi stimolati dai movimenti degli anni sessanta
restavano ancorati al livello individuale (v. Barnes e Kaase, 1979;
v. Inglehart, 1977). Agli inizi degli anni ottanta però gli
studiosi si convinsero sempre più che sono i processi di
gruppo a trasformare il potenziale per l'azione collettiva in
partecipazione a un movimento. Ad esempio, lo studio del sociologo
Doug McAdam (v., 1988) sul movimento Freedom summer dimostrò
che, assai più del retroterra sociale e delle ideologie
personali, le reti di relazioni sociali in cui erano coinvolti i
volontari di Freedom summer svolgevano un ruolo fondamentale nel
determinare chi avrebbe partecipato e chi si sarebbe astenuto. Nello
stesso periodo alcuni studiosi europei, tra cui Hanspeter Kriesi
(v., 1988), arrivarono alla conclusione che le sottoculture dei
movimenti costituivano delle 'riserve' entro cui prendeva forma
l'azione collettiva. Ciò concordava con quanto Alberto
Melucci (v., 1988) andava scoprendo circa il ruolo delle reti di
relazioni sociali nel definire l'identità collettiva dei
movimenti da lui studiati in Italia.Il ruolo chiave delle reti di
relazioni sociali nello stimolare la partecipazione ai movimenti ci
aiuta a correggere la conclusione pessimistica di Olson secondo cui
i grandi gruppi non sosterranno l'azione collettiva per beni comuni
senza l'impiego di incentivi selettivi. Se infatti consideriamo la
morfologia dei movimenti, risulta chiaro che essi sono 'grandi' solo
nominalmente: in realtà i movimenti sono assai più
simili a un intreccio di piccoli gruppi, reti di relazioni sociali e
loro interconnessioni. L'azione collettiva nasce dapprima tra i
più dotati o più coraggiosi di questi gruppi, ma le
connessioni tra loro aumentano le probabilità che l'azione di
un gruppo inciti gli altri a seguirne l'esempio. Come osservano in
proposito Gerald Marwell e Pam Oliver (v., 1993, p. 54), "il
problema dei 'grandi gruppi' posto da Olson spesso viene risolto con
una soluzione di 'piccolo gruppo"'. Le istituzioni rappresentano
ambienti 'ospiti' particolarmente idonei allo sviluppo dei nuovi
movimenti. In America il sociologo Aldon Morris (v., 1984) ha
dimostrato che le origini del movimento per i diritti civili erano
strettamente legate al ruolo delle chiese nere. In America Latina e
in Italia le strutture e le norme della Chiesa cattolica la resero
complice involontaria nella formazione delle reti di
'comunità di base' (v. Levine, 1990; v. Tarrow, 1988). La
mobilitazione di reti di relazioni sociali preesistenti diminuisce i
costi sociali di transazione dell'azione collettiva e rende
possibile il passaggio da azioni collettive episodiche a movimenti
sociali in grado di sostenere l'interazione conflittuale con gli
antagonisti.
d) La mobilitazione del consenso
La coordinazione dell'azione collettiva non dipende solo da
determinate caratteristiche strutturali della società, come
ad esempio l'esistenza di reti di relazioni sociali e istituzioni,
ma anche dalla fiducia e dalla cooperazione originate da convinzioni
comuni oppure, per usare una categoria più ampia, dalle
strutture dell'azione collettiva che la giustificano, nobilitano e
animano (v. Snow e altri, 1986). Il consenso all'interno di gruppi e
istituzioni non si forma solo involontariamente; spesso è
attivamente mobilitato da movimenti, partiti, chiese e governi (v.
Klandermans, 1988).
In anni recenti alcuni studiosi dei movimenti hanno cominciato a
impiegare formule tecniche quali strutture cognitive, 'pacchetti'
ideologici e discorsi culturali per descrivere le idee e le
finalità condivise che spingono gli individui all'azione
collettiva (v. Eyerman e Jamison, 1991; v. Morris e Mueller, 1992).
Qualunque sia la terminologia usata, l'innovazione importante
introdotta da questo orientamento della ricerca è costituita
dall'abbandono del precedente formalismo che induceva a considerare
gli interessi come 'dati', nonché dalla premessa teorica
secondo cui i movimenti strutturano i motivi di scontento in
rivendicazioni più ampie, in un processo di 'strutturazione'
finalizzata (v. Klandermans, 1992) o di costruzione sociale (v.
Melucci, 1988).
Tuttavia, se gli organizzatori dei movimenti sono attivamente
impegnati nella strutturazione di messaggi, non possono però
monopolizzarla. Essi devono competere con l'attività in
questo senso dello Stato e dei media, i quali trasmettono messaggi
che i movimenti devono cercare di rielaborare, contrastare e
influenzare (v. Kielbowicz e Scherer, 1986). Come ha riscontrato il
sociologo americano Todd Gitlin (v., 1980), la diffusione di
informazione che contribuì allo sviluppo della Nuova Sinistra
americana fu in gran parte veicolata dai media e rimpiazzò
quelli che in epoche precedenti sarebbero stati sforzi
organizzativi. In Italia, nel 1994, un intero movimento - Forza
Italia - è stato alimentato attraverso i mass
media.Ricapitolando il discorso sulle risorse esterne di cui i
movimenti si appropriano per stimolare e sostenere l'azione
collettiva, si può affermare che i movimenti si formano in
presenza di opportunità politiche che diminuiscono i costi
dell'azione collettiva, rivelando nel contempo eventuali alleati e i
punti deboli degli avversari. La soluzione del problema sociale
dell'azione collettiva dipende dalla capacità dei movimenti
di sfruttare a proprio vantaggio queste opportunità, di
utilizzare repertori di protesta sia innovativi che convenzionali,
di basarsi su reti di relazioni sociali preesistenti e di definire
strutture di azione collettiva capaci di mediare tra le esigenze
culturali e le richieste di cambiamento. I movimenti che hanno
successo trasformano queste opportunità, convenzioni e
risorse in azione collettiva contro avversari, autorità ed
élites.
7. Le dinamiche dei movimenti
Il potere di innescare sequenze di azione collettiva non equivale al
potere di controllarle o sostenerle. Se è vero infatti che i
movimenti si sviluppano appropriandosi di opportunità,
convenzioni e risorse esterne, nello stesso tempo sono privi delle
risorse interne necessarie a controllare tali elementi esterni e di
conseguenza possono essere sorpassati dallo slancio che essi stessi
generano oppure possono essere sconfitti da attori più
istituzionali che possiedono tali risorse. Questo problema ha due
dimensioni, una interna e una esterna. Internamente, una buona parte
del potere dei movimenti deriva loro dal fatto che essi attivano
individui su cui non esercitano alcun controllo. Come abbiamo visto,
ciò consente ai movimenti di condurre azioni collettive senza
le risorse che sarebbero necessarie per internalizzare le proprie
basi di sostegno o distribuire a esse risorse. L'autonomia dei
sostenitori però disperde il potere dei movimenti, incoraggia
la creazione di correnti e dà adito alla defezione, alla
competizione e alla repressione.
Esternamente, i movimenti risentono del fatto che le stesse
opportunità politiche che li hanno creati e che diffondono la
loro influenza nella società producono anche altri movimenti
che possono essere complementari, concorrenti oppure ostili.
Soprattutto se l'azione collettiva ha successo, queste
opportunità danno luogo a un settore di movimento più
ampio, che si allarga dagli attivisti del movimento a gruppi di
interesse e partiti istituzionali nonché a contromovimenti,
provocando inevitabilmente le reazioni dello Stato (v. Garner e
Zald, 1985). Come conseguenza di questa dinamica di diffusione e
creazione, il successo o il fallimento dei movimenti finiscono per
dipendere da forze al di fuori del loro controllo. Arriviamo
così al concetto di ciclo della protesta.
a) I cicli della protesta
Da tempo i sociologi hanno maturato la convinzione che i cambiamenti
culturali si verificano a ondate e che queste sono grosso modo
collegate all'ascesa e al declino dei movimenti sociali (v. Brand,
1990). Tuttavia lo studio di queste ondate di cambiamenti è
rimasto di solito al livello culturale e non è stato
ricollegato alle concrete attività strategiche dei movimenti.
Il concetto di struttura delle opportunità politiche ci aiuta
a individuare i meccanismi attraverso i quali questi cambiamenti
culturali si manifestano nell'azione collettiva.
Man mano che si ampliano le opportunità di mettere in crisi
un sistema politico e si diffonde l'informazione relativa alle sue
vulnerabilità, non solo gli attivisti ma anche i cittadini e
i gruppi istituzionali cominciano a saggiare i limiti del controllo
sociale. Gli scontri tra i primi contestatori e le autorità
rivelano i punti deboli di queste ultime e la forza dei primi,
consentendo anche agli attori sociali più timidi di
schierarsi con l'una o con l'altra parte. Una volta innescata da una
situazione di ampliamento generalizzato delle opportunità,
l'informazione si propaga all'esterno e si accelera il processo di
apprendimento politico (v. Hill e Rothchild, 1992).
Nel corso di tali periodi le opportunità create dalla prima
ondata forniscono incentivi per la formazione di nuove
organizzazioni di movimenti. In un ambiente aperto di questo tipo,
anche i gruppi di interesse convenzionali prestano attenzione a
forme d'azione collettiva non convenzionali. Si formano alleanze che
spesso travalicano i confini tra contestatori e membri del sistema
politico (v. Tilly, 1978, cap. 2), e si sperimentano e si diffondono
nuove forme di azione collettiva. Compare un 'settore di movimento
sociale' denso e interattivo, in cui le organizzazioni competono e
cooperano tra loro. Le organizzazioni dei movimenti competono per il
sostegno, e come risultato di questa competizione si ha una
radicalizzazione e una concorrenza tra fazioni che danno luogo a
defezioni e a un aumento della repressione. Via via che il ciclo si
allarga, i movimenti possono annullarsi a vicenda dirigendo le
proprie sfide gli uni contro gli altri, e creano così
opportunità favorevoli alle élites e ai partiti di
opposizione, come successe in Italia nel ciclo degli anni sessanta e
settanta. Si formano alleanze tra gruppi istituzionali e
contestatori; le élites all'opposizione possono avanzare
richieste di cambiamenti radicali che prima sarebbero sembrate
avventate; le forze governative rispondono con la repressione o con
le riforme, o con una combinazione delle due cose. L'estendersi
della logica dell'azione collettiva conduce a soluzioni nella sfera
politica, dove i movimenti che hanno dato l'avvio al ciclo e quelli
che sono apparsi nel suo corso hanno un'influenza sempre minore sui
suoi esiti.I cicli della protesta possono culminare in casi estremi
in rivoluzioni. Queste non sono una forma a sé stante di
azione collettiva, né si esauriscono interamente nell'azione
collettiva popolare. Nelle rivoluzioni, così come nei cicli
della protesta ai quali sono collegate, l'azione collettiva induce
altri gruppi e istituzioni a partecipare, fornendo le basi e le
strutture per la nascita di nuovi movimenti sociali, scardinando le
vecchie istituzioni e le reti di relazioni sociali che le circondano
e creandone di nuove a partire dalle forme di azione collettiva con
le quali i gruppi ribelli hanno iniziato il processo. La principale
differenza tra i cicli della protesta e le rivoluzioni è che
in queste ultime viene creata una pluralità di centri di
sovranità, cosicché il conflitto tra i contestatori e
i membri del sistema politico si trasforma in una lotta per il
potere (v. Tilly, 1978 e 1993).
b) Gli esiti dei movimenti
Le considerazioni fatte in precedenza indicano che sarebbe del tutto
infruttuoso esaminare i risultati dei movimenti sociali facendo
esclusivamente riferimento agli individui o alle strutture
organizzative dei movimenti stessi. Se è vero infatti che le
decisioni iniziali di intraprendere un'azione collettiva sono
individuali, tali decisioni hanno luogo di solito all'interno di
reti di relazioni sociali e in risposta a determinate
opportunità politiche, e creano incentivi e
opportunità per altri. Tanto la sfida collettiva quanto le
reazioni che essa suscita sono inserite in un complesso sistema
politico e sociale nel quale entrano in gioco gli interessi e le
azioni di altri partecipanti, e in cui le tradizioni e le esperienze
storiche di protesta e di conflitto diventano risorse e segnali sia
per i contestatori che per i loro avversari.
Per quel che riguarda gli esiti dei movimenti sociali, il punto
importante è che sebbene questi si considerino al di fuori
delle reti istituzionali esistenti e in contrasto con esse, l'azione
collettiva li inserisce in complesse reti di rapporti politici e di
conseguenza li colloca nel raggio d'azione dello Stato. Se non
altro, i movimenti formulano richieste in termini di strutture di
senso comprensibili alla società più ampia (il 'senso
comune' di cui parla Gramsci), utilizzano forme di azione collettiva
attinte da un repertorio preesistente, e sviluppano forme di
organizzazione che spesso imitano quelle dei loro antagonisti. Anche
i movimenti che insorgono contro lo Stato sono in un senso basilare
prigionieri dello Stato (v. Tilly, 1993).
Si può dunque cominciare ad analizzare l'azione collettiva
come un insieme di decisioni individuali oppure dal punto di vista
delle strutture organizzative, ma ben presto si arriva
inevitabilmente alla sfera più complessa e ardua della
politica; e ciò vale anche per movimenti che mirano allo
sviluppo di una identità collettiva. È attraverso le
opportunità politiche appropriate create da contestatori,
movimenti e alleati che scaturiscono i cicli della protesta e le
rivoluzioni. Essi a loro volta creano opportunità per
élites ed élites di opposizione, e l'azione che era
cominciata nelle strade viene risolta nelle stanze di governo o
dalle baionette dell'esercito. I movimenti, e in particolare le
ondate di movimenti che sono i principali catalizzatori del
mutamento sociale, vanno visti come una componente delle lotte
nazionali per il potere.
8. Una tipologia dei movimenti
Definire una tipologia dei movimenti sociali è senz'altro
più difficile che fornire una classificazione dei partiti
politici o dei gruppi di interesse. Nella storia del mondo moderno i
movimenti sociali hanno avuto una grande varietà di basi
sociali (classe, religione, etnia), di ideologie (liberalismo,
nazionalismo, socialismo, democratizzazione), di forme di azione
collettiva (dalle assemblee pacifiche alla lotta armata),
nonché di tipi e livelli di organizzazione (dalle formazioni
quasi spontanee ai movimenti di massa organizzati). Inoltre, alcuni
movimenti hanno una chiara natura strumentale, altri mirano alla
costruzione o alla difesa di una identità collettiva, mentre
la maggior parte presenta entrambe le componenti.
Forse l'elemento più generale che può essere
utilizzato quale criterio per distinguere i vari movimenti è
il tipo di rapporto che essi hanno con le istituzioni. Alcuni
studiosi hanno operato una distinzione tra i movimenti e le
istituzioni, e hanno visto una evidente progressione dalla fase di
emergenza di un movimento all'istituzionalizzazione (v. Alberoni,
1977). Mentre alcuni movimenti sorgono all'interno delle
istituzioni, altri hanno origini extra-istituzionali. Certuni si
pongono obiettivi compatibili con le istituzioni cui si rivolgono,
altri mirano alla loro distruzione e altri ancora cercano di
costruire comunità che si sottraggano alla loro influenza.
Da questo elemento generale rappresentato dal rapporto con le
istituzioni si possono ricavare due variabili atte a identificare
quattro tipi fondamentali di movimenti, distinti a seconda
dell'opposizione totale o parziale alle istituzioni, e delle
modalità di confronto, pacifiche oppure violente e
distruttive, con esse. Avremo così il seguente schema:
Livello di opposizione alle istituzioni
Parziale
Totale
Conflittuale
Movimenti
Movimenti
espressivi
integralisti
Tipo di rapporto
con le istituzioni
Pacifico
Movimenti
Movimenti
di
riforma
comunitari
Ovviamente, ciascuna delle forme di movimento sociale che ne
risultano costituisce un tipo ideale. Ciò significa che
all'interno di uno stesso tipo di movimento possono coesistere
diverse tendenze, e che l'interazione di un movimento con le
istituzioni nel corso del tempo può cambiarne la natura
rendendo necessaria una sua riclassificazione. Per fini espositivi,
focalizzeremo l'attenzione sulla principale tendenza storica
nell'ambito di ciascun tipo di movimento, illustrandone l'evoluzione
a partire dalla storia moderna dell'Occidente e accennando solo di
passaggio alla sua interazione con le istituzioni e con i movimenti
rivali.
a) Movimenti espressivi
Poiché i movimenti sociali rappresentano tipicamente attori
non rappresentati, essi sono tutti connotati da forti elementi
espressivi - nuove forme di abbigliamento e di linguaggio, nuovi
stili di vita e di lotta. Solo attraverso una presentazione
drammatica di sé, infatti, un movimento può costruire
una nuova identità e ottenerne il riconoscimento da parte sia
dei soggetti che degli interlocutori. Useremo la locuzione
'movimenti espressivi' per designare quei movimenti il cui rapporto
con le istituzioni è in fase emergente e improntato
all'opposizione. Si tratta di movimenti instabili nella forma e
spesso effimeri. Poiché le loro rivendicazioni il più
delle volte sono circoscritte a un singolo tema o a una singola
campagna, spesso i movimenti come tali scompaiono dopo che le
tematiche attorno alle quali si sono organizzati diventano superate.
Ancora più spesso, però, dopo la fase di emergenza
iniziale, essi mutano il loro carattere passando a una forma
più stabile di interazione con le autorità o con le
élites.
I primi movimenti operai erano espressivi nel senso sopra definito,
e mutuavano spesso le forme ritualizzate di movimenti precedenti per
esprimere le proprie richieste, il più delle volte assai
modeste. L'adozione di usanze popolari quale quella del charivari in
Francia o della cosiddetta 'rough music' in Inghilterra dimostrava
la natura essenzialmente transizionale di tali movimenti. Una volta
scoperto il proprio repertorio caratteristico di azione collettiva -
lo sciopero, le assemblee pubbliche, le manifestazioni - essi si
trasformarono in movimenti essenzialmente riformisti (vedi sotto),
pur conservando forti elementi espressivi.
La presenza di spiccati elementi espressivi caratterizzò
anche i movimenti contadini. Nati spesso sull'onda delle
opportunità createsi all'interno di un sistema politico
più ampio (si pensi ad esempio ai moti contadini dell'Italia
meridionale, innescati dagli avvenimenti rivoluzionari del 1848),
tali movimenti raramente perseguivano obiettivi più ambiziosi
della restituzione delle terre comuni abusivamente recintate o della
riforma di contratti improntati allo sfruttamento. Tuttavia alla
testa delle loro processioni spesso alla statua della Vergine si
affiancava la bandiera nera o quella rossa. Solo di rado i movimenti
contadini avevano un'ideologia ben definita che andasse al di
là delle loro rivendicazioni immediate, come nel caso degli
anarchici andalusi o del movimento zapatista nel corso della
Rivoluzione messicana.
In tempi più recenti i 'nuovi' movimenti sociali sorti
nell'Europa occidentale sono stati a volte qualificati come
'espressivi' per la loro organizzazione informale, per la mancanza
di un'ideologia ben definita, per il privilegiamento di
problematiche concernenti quello che Habermas ha definito 'spazio di
vita', e per l'opposizione alle autorità. Secondo alcuni
autori, tali rivendicazioni incentrate sullo spazio di vita,
originate dai processi di cambiamento nel capitalismo avanzato,
erano legate alla costruzione di nuove identità collettive e
di conseguenza erano viste come una sfida permanente all'assetto
politico del dopoguerra (v. Offe, 1985). In retrospettiva, è
agevole constatare come queste caratteristiche fossero una
conseguenza della 'giovinezza' di tali movimenti, la maggior parte
dei quali negli anni novanta si è evoluta verso forme
più stabili o ha assunto i connotati di partiti politici.
b) Movimenti di riforma
Il termine 'riforma', impiegato originariamente in molti paesi per
designare la Riforma protestante, ha assunto il suo significato
attuale solo dopo il consolidamento del moderno Stato nazionale. Non
è un caso pertanto che il primo movimento moderno di riforma
affermatosi con successo sia stato quello per l'abolizione del
commercio e dello sfruttamento degli schiavi in Gran Bretagna e
nelle sue colonie (v. Drescher, 1987). Nato tra i gruppi protestanti
evangelici, tale movimento fu alimentato dalle ribellioni degli
schiavi nel Nuovo Mondo e fu propagato nel continente europeo dai
moti del 1848. In un primo tempo contrastato dalle lobbies di
proprietari di schiavi, il movimento antischiavista alla fine
trionfò in Gran Bretagna, diventando una politica ufficiale
portata avanti dalla diplomazia e dalla Marina britanniche.
Negli Stati Uniti - paese in cui lo schiavismo era stato sin dal
XVII secolo un'istituzione nazionale da cui dipendevano settori
chiave della classe dei proprietari terrieri - il movimento per
l'abolizione della schiavitù scatenò un conflitto
sociale più profondo, dando luogo a un movimento
abolizionista a base religiosa e fondendosi con politiche elettorali
e con la colonizzazione delle frontiere. La lotta contro lo
schiavismo mise le une contro le altre intere regioni e coalizioni
di interessi politici ed economici del paese, sfociando in una
sanguinosa guerra civile che terminò nel 1865 con la
distruzione del sistema di vita basato sulle piantagioni del Sud.
È degno di nota il fatto che dal movimento in favore
dell'affrancamento degli schiavi non si sviluppò alcun
movimento permanente, laddove dai sentimenti di ostilità nei
confronti dei neri all'indomani della guerra civile nacque il Ku
Klux Klan, un'organizzazione semiclandestina tuttora esistente che
afferma la supremazia della razza bianca. Solo negli anni cinquanta
e sessanta un movimento nazionale per i diritti civili si è
battuto con successo per estendere la riforma fino al riconoscimento
dei diritti politici, sociali ed economici alle minoranze nere.
La tendenza insita nei movimenti di riforma a scatenare conflitti
politici e sociali profondamente radicati si può riscontrare
anche nel classico movimento di riforma del XIX secolo, il movimento
operaio socialdemocratico. Nati all'inizio dell'Ottocento tra gli
operai qualificati - con il carattere di confraternite quasi
religiose - e connotati da forti elementi espressivi (vedi sopra), i
movimenti operai chiedevano una riforma dei salari e dell'orario di
lavoro, l'estensione del suffragio alle classi dei lavoratori in
paesi come la Gran Bretagna e la Germania, e soprattutto il diritto
di formare organizzazioni sindacali.
Se l'antischiavismo era stato alimentato da determinate
organizzazioni religiose, il movimento operaio poté contare
su due tipi di risorse: quelle create dalla disciplina del lavoro in
fabbrica, che produssero il sindacalismo, e quelle del riformismo
della classe media, da cui si svilupparono i partiti
socialdemocratici e laburisti. In alcuni paesi, come in Germania, i
sindacati si svilupparono sotto l'egida del partito, in altri, come
in Italia e in Francia, partiti e sindacati mantennero rapporti non
facili, e in altri ancora, come negli Stati Uniti, partiti e
sindacati rimasero completamente separati.
Al pari del movimento antischiavista, il movimento operaio si fuse
con altri movimenti contemporanei e ne fu alimentato: movimenti di
riforma religiosa, movimenti libertari e movimenti che sostenevano
l'estensione dei diritti politici alle classi inferiori (v. Bendix,
1964). E come nel caso dell'antischiavismo - perlomeno nella sua
forma americana - le rivendicazioni operaie fecero nascere aspri
conflitti giuridici, politici e sociali che andavano ben al di
là del programma originario di riduzione dell'orario di
lavoro, aumento dei salari e miglioramento delle condizioni di
lavoro. La resistenza opposta dagli imprenditori a queste
rivendicazioni e le differenze ideologiche all'interno del movimento
operaio portarono alla nascita di varie correnti: il sindacalismo e
l'anarcosindacalismo - forti soprattutto nell'Europa latina -, il
riformismo in Francia, il fabianismo e il laburismo in Inghilterra,
e la versione socialdemocratica del marxismo, che si radicò
soprattutto nei paesi dell'Europa centrale.
Nel XX secolo, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, si
è assistito a una fioritura di movimenti di riforma per i
diritti delle donne, delle minoranze, dei disabili e dei non nati,
nonché per la regolamentazione dell'ambiente e del luogo di
lavoro. In concomitanza con il declino del movimento operaio si sono
sviluppati nuovi movimenti di cittadini, organizzati attorno agli
obiettivi più svariati: dal 'movimento delle madri contro la
guida in stato di ubriachezza' negli Stati Uniti, al movimento degli
automobilisti in Svizzera sino al potente movimento anti-immigrati
in Francia (Front national). Particolare successo ha avuto il
movimento ambientalista, nato con forti connotazioni espressive ma
dotato di un programma di riforme che in molti punti è stato
recepito dai partiti riformisti e persino da quelli moderati.
Quali sono le ragioni del proliferare dei movimenti di riforma negli
ultimi vent'anni? In primo luogo, i movimenti studenteschi e quelli
della 'nuova sinistra' degli anni sessanta hanno creato una riserva
di attivismo al di fuori dei partiti politici cui hanno potuto
attingere i movimenti degli anni settanta e ottanta - in particolare
quelli pacifisti, ambientalisti e femministi. In secondo luogo,
nuovi strumenti di organizzazione e di diffusione - e specialmente i
mass media - hanno messo a disposizione dei cittadini ingenti
risorse, conferendo loro un potere di influenzare le scelte
politiche che in passato avrebbe richiesto organizzazioni
burocratiche di tipo formale. In terzo luogo, per ragioni diverse, i
partiti politici hanno perso le potenti subculture politiche che
erano riusciti a creare in passato, a seguito dell'accresciuta
prosperità, della mobilità della popolazione e della
creazione di subculture popolari veicolate dai media.
c) Movimenti comunitari
I due tipi di movimenti illustrati in precedenza sono critici nei
confronti delle istituzioni. Esistono però molti altri
movimenti che le rifiutano globalmente; alcuni di essi, sui quali ci
soffermeremo in seguito, mirano a sovvertire le istituzioni, mentre
altri, rifiutandone del pari l'autorità, cercano di costruire
comunità alternative sottratte alla loro influenza.
L'impulso a costruire comunità alternative può nascere
all'interno delle istituzioni, come dimostra l'esempio delle
comunità monastiche medievali. Di fatto, i primi movimenti
monastici si organizzarono attorno ai valori spirituali
rappresentati dagli insegnamenti della Chiesa - e così
raramente messi in pratica. La Chiesa fornì loro un modello
di struttura normativa e di organizzazione economica di cui
sarebbero stati privi se avessero scelto di separarsi totalmente dai
suoi insegnamenti e dalla sua autorità. Le comunità
alternative sembrano richiedere peraltro l'isolamento fisico, e per
questa ragione molti di essi si insediarono in aree isolate o nelle
campagne.
Tra la fine del Settecento e la metà dell'Ottocento l'idea
delle comunità alternative incontrò un particolare
successo, e molte di esse vennero fondate sia in Europa che negli
Stati Uniti. Si trattava spesso di comunità di ispirazione
religiosa - come quelle dei mormoni e degli shakers, o 'scotitori',
negli Stati Uniti - che cercavano l'isolamento fisico per sfuggire
ai mali spirituali della città. Altre però ebbero
un'impronta laica e nacquero come reazione alle conseguenze negative
della prima industrializzazione; ne sono un esempio le
comunità owenite create in Gran Bretagna e nell'America del
Nord e quelle dei primi populisti russi, che sognavano di fare del
mir, l'antica comunità contadina, la base di una futura
società socialista. Sebbene molti dei primi utopisti fossero
europei - come Cabet, Fourier, lo stesso Owen - l'America divenne il
locus classicus per la fondazione di comunità alternative, in
parte perché la vastità di questo paese incoraggiava
nuovi insediamenti, ma soprattutto perché l'assenza di una
Chiesa istituzionale lasciava maggior spazio a una sperimentazione
spirituale di quanto non accadesse in Europa. Tuttavia anche negli
Stati Uniti sperimentatori quali i mormoni furono allontanati dai
loro insediamenti originari nello Stato di New York verso i deserti
dell'Ovest, dove poterono coltivare le loro pratiche esotiche e
dedicarsi indisturbati al perfezionamento della loro
spiritualità.
La costruzione di comunità alternative sembra seguire ondate
di entusiasmo religioso o politico, come dimostrano i movimenti
revivalisti degli anni trenta dell'Ottocento negli Stati Uniti e i
più recenti esperimenti comunitari realizzati sia in Europa
che negli Stati Uniti dagli ex attivisti degli anni sessanta.
Promotori di tali comunità sono fondamentalmente gli elementi
dei movimenti di massa disillusi dai movimenti espressivi e
riformisti, che ripongono le proprie speranze di autorigenerazione
nella vita in comune con altre persone simili a loro, lontano dalle
tentazioni della società capitalistica.
Tuttavia queste comunità alternative spesso falliscono o,
quando ciò non accade, sopravvivono a patto di scendere a
compromessi con la società che li circonda adeguandosi alle
forme di comportamento dominanti. Questo paradosso non deriva da
un'intrinseca debolezza di fibra morale nei membri di tali
comunità, bensì dal fatto che la volontà di
creare comunità pienamente autosufficienti li induce a
intraprendere attività economiche in settori dominati da
attori la cui unica motivazione è il profitto. Lo stesso
discorso vale per la cosiddetta 'scena alternativa', sviluppatasi
nei paesi dell'Europa occidentale dai movimenti degli anni sessanta:
là dove essa è sopravvissuta, ha potuto farlo in larga
misura in quanto ha accettato le regole del mercato.
d) Movimenti integralisti
L'espansione dell'industrializzazione nell'Europa meridionale e
orientale alla fine del XIX secolo mise in crisi la tendenza
riformista che si era imposta nei movimenti operai occidentali negli
anni ottanta del secolo. Non si trattava solo dell'interazione tra
governi autocratici e masse di ex contadini sfruttati nelle
fabbriche e ammassati in sordidi slums; come ha messo in luce
Gerschenkron, la necessità di competere con i paesi
già industrializzati, ad alti livelli di tecnologia e di
capitalizzazione, portò i governi dei paesi arretrati a
sostenere e a finanziare lo sviluppo industriale. Ciò
significava che le lotte per l'aumento dei salari, per la riduzione
dell'orario di lavoro e per i diritti sindacali erano viste come
minacce agli Stati autocratici e come conflitti per la
sovranità. Più si procedeva verso oriente, più
gli Stati consideravano le riforme come una minaccia e i riformatori
come rivoluzionari. Ciò portò infine all'affermarsi
del movimento socialdemocratico russo, che abbandonò le
posizioni riformiste per abbracciare l'integralismo leninista.
All'inizio il leninismo non fu che un'esigua corrente all'interno
della sinistra nel vasto Impero russo. Tuttavia il fatto di
propugnare una nuova teoria organizzativa (la teoria leninista
dell'avanguardia), il suo progetto utopico di trasformazione globale
della vita politica ed economica della Russia, e infine
l'opposizione alla prima guerra mondiale misero tale movimento nella
singolare condizione di acquistare potere in nome di un'ideologia
proletaria in un paese dominato da una maggioranza contadina che era
appena uscita dal feudalesimo. Da ciò derivarono molte delle
distorsioni della via sovietica al socialismo, ma derivò
anche la convinzione di molti socialisti in tutto il mondo che
quanto il leninismo aveva realizzato in Russia avrebbe potuto essere
attuato anche nel loro paese.
L'integralismo comunque - il rifiuto totale delle istituzioni
associato al ricorso a forme di azione collettiva improntate alla
lotta - non era limitato al movimento operaio. Via via che
l'industrializzazione investì i paesi dell'Est, fecero la
loro comparsa nuove forme di nazionalismo - dottrina associata
originariamente al liberalismo e al riformismo. Il nazionalismo
integralista asseriva, con eguale infondatezza, l'assoluta
unicità di ogni gruppo etnico e il suo legame storico con un
particolare territorio. Per i movimenti più radicali
ciò si traduceva sul piano pratico nel rifiuto totale di ogni
compromesso territoriale e in un odio viscerale nei confronti dei
vicini: è quanto si è visto recentemente nella guerra
nell'ex Iugoslavia.
L'integralismo non è peraltro limitato a queste forme estreme
del movimento operaio e del nazionalismo etnico. La sua
manifestazione più recente è data dalle varie forme di
fondamentalismo religioso che si sono affermate nel mondo islamico,
nonché in quelli cristiano ed ebraico. Il fatto che da tutte
e tre le grandi religioni monoteiste siano scaturiti nello stesso
momento storico movimenti improntati al proselitismo e
all'intransigenza è un fenomeno che non può essere
analizzato in questa sede; ci limiteremo a osservare che la sua
coincidenza con il crollo dell'ideologia marxista-leninista potrebbe
non essere casuale, e che la comparsa di questi movimenti su scala
transnazionale potrebbe essere una dimostrazione del fatto che la
globalizzazione sta trasformando le dimensioni dei movimenti
sociali.
9. Verso una globalizzazione dei movimenti sociali?
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, gran parte della nostra
esperienza di politiche conflittuali deriva dalla storia
dell'Occidente industrializzato nel corso degli ultimi due secoli, e
ha come perno il consolidamento dello Stato nazionale. Gli studiosi
hanno appena cominciato a indagare gli effetti del cosiddetto
processo di 'globalizzazione' sui movimenti politici e sociali. In
questa sede non possiamo analizzare in dettaglio le varie versioni e
le caratteristiche della tesi della globalizzazione. Ci limiteremo a
enunciare i cinque assunti fondamentali della sua versione 'forte':
1. Alla fine del XX secolo si riscontra una tendenza dominante verso
l'interdipendenza economica internazionale.
2. La crescita economica degli anni settanta e ottanta ha
ravvicinato i popoli del Nord e dell'Ovest a quelli del Sud e
dell'Est, rendendo questi ultimi maggiormente consapevoli della
propria ineguaglianza.
3. L'interdipendenza economica a livello mondiale e la
povertà di alcuni paesi rispetto ad altri hanno contribuito
ad alimentare massicci spostamenti di popolazione dal Sud e dall'Est
verso il Nord e l'Ovest del mondo. Poiché però gli
immigrati non perdono più i contatti con la propria terra
d'origine, né d'altro canto possono aspirare a ottenere la
cittadinanza del paese ospite, essi rimangono perennemente
stranieri.
4. Si vanno affermando strutture di comunicazione globali che creano
legami più stretti tra il centro e la periferia del
sistema-mondo. Certe tecnologie della comunicazione decentralizzate
e private, come ad esempio i networks informatici, hanno accelerato
lo sviluppo di strutture di comunicazione globali interdipendenti.
5. A questi cambiamenti strutturali fa riscontro un mutamento
culturale, ossia una crescente unificazione del mondo in cui
viviamo, in virtù della quale ciò che accade in una
parte del globo ha una risonanza immediata altrove.Siffatti
cambiamenti potrebbero favorire lo sviluppo di movimenti sociali
transnazionali. Le strutture politiche nazionali, che in passato
erano le uniche a modellare, e a vincolare, l'azione collettiva,
potrebbero essere sulla via di scomparire. Lo Stato nazionale -
incubatrice e nello stesso tempo fulcro dei movimenti sociali del
passato - potrebbe non essere più l'unico stimolo, o l'unico
terreno di lotta, per i movimenti. Ciò vale in modo
particolare là dove i sistemi politici nazionali hanno
consentito a condividere la sovranità con nuovi organismi
politici ed economici transnazionali (è questo il caso, ad
esempio, dell'Unione Europea).
Anche la capacità dei cittadini di organizzare nuove forme di
azione collettiva probabilmente si è accresciuta con la
globalizzazione dei mezzi di comunicazione. Quando la comunicazione
elettronica diventa uno strumento di propagazione dell'informazione
per il movimento, aumenta la possibilità di conferire potere
a basso rischio ai cittadini di tutti i paesi del mondo. A questa
trasformazione si sono accompagnate forme pacifiche e praticamente
istituzionalizzate di azione collettiva a livello transnazionale:
dal movimento studentesco degli anni sessanta alle campagne
pacifiste degli anni ottanta in Europa e in America, al movimento
ambientalista mondiale, che unisce i movimenti e i partiti dei Verdi
di tutti i paesi, fino alle organizzazioni non governative (le
cosiddette ONG), attive nella tutela dei diritti delle popolazioni
indigene in tutto il mondo - dall'America Latina all'Australia - e
nella denuncia dei soprusi e delle ingiustizie di cui sono vittime.
Questi movimenti transnazionali vanno acquistando un'importanza
crescente sul piano della politica sia nazionale che
internazionale.E tuttavia l'aumento dell'immigrazione e la rapida
diffusione dell'informazione e persino della militanza potrebbero
non essere sufficienti a far nascere movimenti globali. Sia la
storia che la teoria dei movimenti sociali suggeriscono una certa
prudenza. Le ragioni per cui si impone cautela nei confronti della
versione forte della tesi della globalizzazione possono essere
sintetizzate in due punti: in primo luogo, l'integrazione
dell'economia mondiale non è un fenomeno interamente nuovo;
in secondo luogo, l'espansione del capitalismo e dei mezzi di
comunicazione e le ondate di immigrazione che ne sono state la
conseguenza determinarono già nel XIX secolo la diffusione a
livello mondiale di movimenti simili nella forma e con obiettivi
analoghi (basti pensare alla III Internazionale creata da Lenin, o
alla diffusione di forme analoghe di nazionalismo in tutto il
mondo).
La teoria dei movimenti sociali dal canto suo, come abbiamo visto in
precedenza, insegna che i movimenti sociali e politici non dipendono
solo dagli interessi o dalle opportunità, ma devono basarsi
su reti sociali locali e sulle opportunità politiche offerte
dalla società all'interno della quale operano. Quanti
ritengono che la globalizzazione porterà alla nascita di
movimenti sociali transnazionali dovranno dimostrare che le reti di
attivisti internazionali (e inevitabilmente distanti) hanno gli
stessi effetti di quelle faccia a-faccia, e sono in grado di creare
identità collettive analoghe a quelle che sono state alla
base dei movimenti sociali nazionali.