Funzionalismo
di Jeffrey C. Alexander, Paul Colomy e Marion
J. Levy jr.
Sommario: 1. Introduzione. 2. La teoria generale del funzionalismo. 3.
I programmi di ricerca del funzionalismo: a) sociologia culturale; b)
mutamento sociale; c) professioni; d) sociologia politica; e) famiglia,
personalità e socializzazione. 4. Discredito del funzionalismo e
nascita del neofunzionalismo. 5. La teoria generale del
neofunzionalismo. 6. I programmi di ricerca del neofunzionalismo: a)
studi sulla cultura; b) mutamento sociale; c) professioni; d)
sociologia politica; e) sociologia femminista. 7. Conclusione. □
Bibliografia.
1. Introduzione
Ogni seria rassegna sul funzionalismo comincia col rimarcare la
disparità di vedute, i dissensi e le ambiguità che circondano il
termine. Ciò nonostante - così almeno si sostiene - l'essenza del
funzionalismo è chiara: esso consisterebbe in un determinato insieme di
assunti, un'ideologia implicita, un modello distintivo, un'analogia
organicistica, un principio metodologico unico, un protocollo
esplicativo nonché spesso - si afferma - in insiemi di enunciati e di
ipotesi. Le analisi di questi cosiddetti elementi distintivi, sebbene
spesso incisive e utili sul piano informativo, sono anche decisamente
fuorvianti se è il 'funzionalismo' ciò che si cerca di definire. Il
funzionalismo infatti è una tradizione, e una tradizione non può mai
essere ridotta a un singolo elemento, e nemmeno a una precisa
correlazione tra differenti elementi. Le tradizioni, invece, si
compongono di insiemi di scelte intellettuali effettuate a livelli di
analisi diversi, che vanno da elementi di ordine astratto, generale e
metafisico a elementi di ordine concreto, fattuale ed empirico (v.
Alexander, 1982-1983, vol. I). Tra questi due estremi sono compresi
altri elementi del discorso sociologico: ideologie, modelli, concetti,
leggi, proposizioni, assunti metodologici ed enunciati osservativi. Il
funzionalismo, di conseguenza, va inteso come una tradizione
determinatasi storicamente, definita dalle peculiari scelte teoriche
compiute a ciascun livello e dalle connessioni stabilite tra i diversi
livelli.
Una trattazione esaustiva del funzionalismo, come di qualunque altra
tradizione sociologica, richiederebbe un'analisi dettagliata e forse
noiosa di ciascuno dei livelli menzionati; sembra perciò opportuno, a
fini semplificativi, introdurre una distinzione tra due componenti
predominanti. Parleremo allora di 'teoria generale' riferendoci ai
fondamenti metodologici di una tradizione, agli assunti di base, alle
scelte o alle implicazioni ideologiche nonché ai modelli generali
elaborati per descrivere e spiegare i processi e i sistemi sociali. La
seconda componente di una tradizione è data dai 'programmi di ricerca',
nel cui contesto le questioni teoriche di ordine generale vengono
assunte come relativamente a-problematiche. Questo tipo di indagine
scientifica si propone di spiegare o interpretare strutture e processi
empirici specifici. Un'adeguata esposizione del funzionalismo deve
quindi descrivere i contenuti della sua teoria generale e dei suoi
programmi di ricerca, nonché le connessioni tra questi due livelli.
La pluralità di livelli che caratterizza le tradizioni scientifiche che
si sono formate in ambito sociologico non può render conto da sola
delle disparità di vedute, delle ambiguità e dei dissensi che hanno
sempre contraddistinto i dibattiti sul funzionalismo. Due ulteriori
considerazioni sono determinanti in proposito. In primo luogo occorre
tener presente che le tradizioni (o scuole di pensiero) non si
sviluppano isolatamente. I conflitti e la competizione tra diverse
tradizioni (e all'interno di una stessa tradizione) rappresentano di
fatto un fattore dinamico fondamentale nelle scienze sociali. Un
criterio basilare - anche se relativistico - per valutare il
'progresso' di una scuola è fornito dai rapporti che si stabiliscono
tra tradizioni diverse e dai tratti distintivi all'interno di una data
tradizione. Di conseguenza, anziché parlare del progresso empirico o
teorico del funzionalismo in sé e per sé, occorre confrontare i
risultati che ha ottenuto con quelli di altri approcci o di precedenti
versioni dell'approccio funzionalista stesso.
In secondo luogo, all'interno di ogni tradizione che sopravvive per più
di una generazione, si rinvengono correnti in contrasto le une con le
altre su temi sociologici di grande importanza, nonostante l'accordo su
molti aspetti essenziali e la proclamata fedeltà ai medesimi padri
fondatori. E quindi le diverse concezioni relative alla teoria generale
e/o ai programmi di ricerca di una determinata scuola scaturiscono non
solo da tradizioni, ma anche da correnti rivali all'interno di una
stessa tradizione.
Tale contrasto esterno e interno costringe le tradizioni a un continuo
processo di revisione. Una scuola vitale deve far fronte in modo
soddisfacente alle critiche sollevate dagli esponenti di tradizioni
rivali, alle diversità concettuali e/o empiriche che dividono le sue
correnti interne, nonché all'emergere di nuovi problemi sul piano della
teoria generale e dei programmi di ricerca, determinati dai mutamenti
di sensibilità nell'ambito della disciplina, che sono frutto, a loro
volta, delle trasformazioni verificatesi nella realtà sociale e
globale.
Rispondere in modo convincente a queste obiezioni ricorrenti è un
compito assai arduo. Ogni scuola di pensiero destinata a perdurare nel
tempo sperimenta periodi di crisi; le altre si esauriscono sul nascere.
Per sopravvivere le tradizioni devono cambiare, e quelle che perdurano
devono essere sottoposte a un processo di sostanziale revisione e
ricostruzione.
Considerando la tradizione funzionalista in questa prospettiva, si può
affermare che essa ha attraversato tre fasi. La prima ebbe inizio con
il tentativo di Parsons di sintetizzare in un nuovo quadro di
riferimento elementi tratti da vari classici della disciplina e con i
successivi sforzi volti a elaborare sia sul piano concettuale che su
quello empirico le sue tesi, che hanno costituito la base teorica su
cui si è fondata la tradizione funzionalista. Nella seconda fase, che
va grosso modo dalla fine degli anni sessanta a tutti gli anni
settanta, i mutamenti di sensibilità nell'ambito della disciplina,
determinati dai movimenti politici e sociali di contestazione, nonché
dalla trasformazione del più ampio contesto culturale delle società
occidentali, delegittimarono le modalità di elaborazione teorica e di
ricerca empirica proprie del funzionalismo. A seguito di questi
sviluppi la tradizione funzionalista sembrò quasi scomparire. L'attuale
terza fase, ancora in evoluzione, è contrassegnata da una diffusa
propensione verso una teorizzazione di tipo sintetico (v. Alexander,
The new..., 1988), da un contesto sociopolitico caratterizzato dal
pressoché unanime rifiuto dei regimi repressivi sia di destra che di
sinistra e da un clima culturale decisamente meno relativistico e meno
favorevole alle ideologie anticapitaliste e antimoderniste di tipo sia
marxista che poststrutturalista. Questi nuovi sviluppi determinano
vistose trasformazioni all'interno della disciplina e hanno indotto i
sociologi a porsi problemi di nuovo genere. Di riflesso la tradizione
funzionalista è entrata in una fase di ricostruzione e di esplicita
revisione; il neofunzionalismo è il risultato di tale processo.
2. La teoria generale del funzionalismo
Molti classici della sociologia, tra i quali Herbert Spencer, Émile
Durkheim, Bronislaw Malinowski e Alfred R. Radcliffe-Brown, hanno
fornito importanti contributi al funzionalismo. È stato Talcott
Parsons, tuttavia, ad affermarsi nell'epoca attuale come leader
carismatico di questa scuola sociologica, e di conseguenza è stata la
versione parsonsiana del funzionalismo a definire - nel bene e nel male
- la tradizione cui si fa attualmente riferimento. Parsons ha
effettuato una quantità di studi empirici assai penetranti, e tuttavia
sono stati i suoi sforzi di costruire un modello teorico generale a
dimostrarsi i più validi e duraturi; egli ha formulato un complesso di
tesi che contribuisce a conferire al funzionalismo i connotati di una
tradizione sociologica ben definita.
Un aspetto cruciale del pensiero di Parsons è la presa di posizione a
favore dell'indipendenza dell'elaborazione teorica e concettuale
rispetto ad altri livelli dell'analisi sociologica. In una delle sue
prime opere Parsons (v., 1937) mise in discussione le correnti
dominanti dell'empirismo e del positivismo sostenendo che è impossibile
formulare ipotesi e ordinare i dati empirici in assenza di un contesto
teorico che stabilisca criteri di rilevanza e plausibilità. Il lavoro
di tipo empirico, secondo Parsons, è sempre effettuato nell'ambito di
un contesto più generale di assunti relativi alla natura della realtà
sociale. Un quadro di riferimento generale è indispensabile per lo
sviluppo della conoscenza nelle scienze sociali; dato il suo alto grado
di astrazione, inoltre, tale quadro di riferimento va valutato in base
a criteri diversi dalla semplice verifica o confutazione empirica.
Parsons e i suoi colleghi non si limitarono a fornire uno schema
analitico appropriato alla teoria generale; nei suoi momenti migliori
il funzionalismo sociologico ha prodotto un'euristica in grado di
superare le antinomie insite nelle precedenti teorie. In risposta alle
debolezze concettuali ed empiriche dell'utilitarismo, del positivismo e
dell'idealismo, Parsons (v., 1937) delineò una teoria volontaristica
dell'azione, incentrata su vari elementi analitici: fini, mezzi,
condizioni, norme e sforzo. I rudimenti della strategia analitica
parsonsiana sono già evidenti in questa opera innovativa tesa a
chiarire concetti chiave a un alto livello di astrazione, a specificare
le complesse relazioni tra le varie componenti dello schema concettuale
e a costruire un modello generale in grado di superare le presunte
inconciliabilità tra scuole di pensiero in conflitto tra loro. Rispetto
ai classici delle scienze sociali, Parsons e i suoi allievi affermavano
che esiste una sostanziale continuità tra il pensiero di Durkheim, di
Weber e di Freud e il funzionalismo contemporaneo. Tra questi classici
della sociologia non potevano sussistere contrasti di fondo, né
potevano esservi contraddizioni insanabili tra le loro teorie e quella
di Parsons (v. Parsons e altri, 1961).
Sul piano dei presupposti la teoria di Parsons aspirava a una posizione
multidimensionale, sebbene non sempre sia riuscita a soddisfare tale
requisito (v. Alexander, 1982-1983, voll. I e IV). Per quanto riguarda
il problema dell'ordine Parsons elaborò una teoria del volontarismo
condizionale, che combinava un'analisi delle caratteristiche più
rilevanti e irriducibili dell'organizzazione sociale con il
riconoscimento delle contingenze associate all'azione individuale e
collettiva. Il suo approccio mirava a fornire un'analisi delle
strutture sociali che, a livello teorico, non annullasse la
soggettività e la libertà individuali. Parsons cercò di mettere a punto
una definizione sintetica dell'azione sociale. In contrasto con la
posizione più riduzionistica di Marx, il quale poneva l'accento sul
calcolo strumentale, e con l'importanza parimenti unilaterale che
Durkheim attribuiva agli aspetti normativi e affettivi del
comportamento, il sociologo americano propose una sintesi che metteva
in evidenza gli aspetti sia razionali che irrazionali dell'agire.
L'approccio parsonsiano si incentrava tanto sulla dimensione espressiva
e i fini dell'azione quanto sulla dimensione pragmatica e i mezzi, e
prestava particolare attenzione al modo in cui i fini riescono a
regolare e a definire i mezzi.
Per quanto riguarda l'ideologia Parsons e altri funzionalisti
sostenevano che è indispensabile mantenere il lavoro sociologico
nettamente separato dalle convinzioni ideologiche. Rielaborando le
classiche tesi di Weber, i funzionalisti asserivano che una valida
scienza sociale deve rispettare la distinzione fondamentale tra
avalutatività (Wertfreiheit) e riferimento ai valori. L'avalutatività
presuppone un complesso differenziato e istituzionalizzato di valori
propri della scienza sociale che emancipano quest'ultima dalle
potenziali restrizioni e distorsioni imposte da altri sistemi di
valori. Una caratteristica fondamentale del sistema di valori proprio
della scienza sociale è l'elaborazione di schemi di verifica universali
e astratti impiegati per controllare la validità delle teorie e delle
analisi empiriche sociologiche. Sebbene considerazioni di valore
possano indirizzare l'attenzione dello studioso verso determinati
problemi o esperienze, il lavoro sociologico in ultima istanza deve
mirare a elaborare schemi universali ed essere valutato in termini di
tali schemi (v. Lidz, 1981). Su un piano più concreto i sostenitori
dell'indirizzo parsonsiano affermavano che il fatto che vi fossero
esponenti del funzionalismo dei più disparati orientamenti politici
dimostrava che le convinzioni ideologiche individuali erano
indipendenti dall'adesione al funzionalismo.
Parsons (v., 1951) presentò la società come un sistema intellegibile,
composto di elementi le cui interrelazioni formano una struttura che si
distingue nettamente dall'ambiente circostante. Egli rigettò il
determinismo monocausale del marxismo e altri approcci che
attribuiscono a un unico elemento della società la capacità di
determinare tutti i fenomeni sociali, in favore di una concezione dei
rapporti tra le componenti del sistema più pluralistica e aperta sul
piano analitico. Il modello parsonsiano, inoltre, opera una distinzione
tra cultura, società e personalità, integrando l'analisi dei sistemi
sociali o istituzionali con un esame dei sistemi relativamente autonomi
della cultura e della personalità. Una particolare attenzione viene
dedicata a meccanismi quali il processo di istituzionalizzazione e
l'introiezione di valori istituzionalizzati nella personalità
(attraverso l'interiorizzazione e la socializzazione). I funzionalisti
sostenevano tuttavia che le tensioni create da tale compenetrazione di
sistemi autonomi rappresentano una fonte incessante di mutamento e di
conflitto.Nelle sue parti più valide la teoria parsonsiana dei sistemi
sociali considera l'integrazione come una possibilità e la devianza e i
processi di controllo sociale come fatti, introducendo la nozione di
equilibrio non come una descrizione empirica di sistemi concreti o
degli elementi che li compongono, bensì come un concetto analitico in
base al quale analizzarli. Parsons in effetti utilizza svariati modelli
di equilibrio: quello omeostatico, autoregolativo; quello dinamico, per
descrivere strutture evolutive di crescita e mutamento; e infine un
modello di equilibrio parziale analogo a quello impiegato da Keynes per
descrivere le tensioni sistemiche nelle economie capitalistiche (v.
Bailey, 1984).
In collaborazione con altri studiosi (v. Parsons e Shils, 1951; v.
Parsons e altri, 1953; v. Parsons e Smelser, 1956) Parsons ha descritto
i valori centrali della modernità in termini di alternative di scelta
tra variabili strutturali o variabili modello (pattern variables) -
affettività/neutralità affettiva, diffusività/specificità,
universalismo/particolarismo, acquisizione/ascrizione, sé/collettività
- utilizzandole come parametri concettuali per analizzare modelli
culturali, requisiti di ruolo e orientamenti della personalità. Parsons
e i suoi collaboratori proposero inoltre un modello che assimila la
società a un ente preposto alla soluzione dei cosiddetti problemi
funzionali e cioè: adattamento (creazione e distribuzione di strutture
nel sistema), raggiungimento degli scopi (definizione degli obiettivi e
mobilitazione delle risorse per raggiungerli), integrazione
(organizzazione dei rapporti tra le unità del sistema), latenza
(motivazione degli attori e controllo delle tensioni e dei conflitti).
Questo modello venne usato per descrivere sistemi e sottosistemi
sociali apparentemente orientati a soddisfare prerequisiti essenziali.
Generalizzando la logica che sta alla base di tale paradigma, Parsons
(v., 1971) postulò un sistema d'azione generale costituito da quattro
sottosistemi: culturale, sociale, della personalità e dell'organismo
biologico (quest'ultimo ridefinito in seguito come sistema
comportamentale). Una gerarchia cibernetica di controllo 'regola' le
interrelazioni tra questi sistemi: il sistema culturale è in cima alla
gerarchia dei controlli relativi all'informazione, e il sistema
comportamentale costituisce la fonte ultima di risorse energetiche. I
rapporti di interscambio tra i sistemi d'azione e al loro interno
avvengono attraverso i mezzi di scambio generalizzati - denaro, potere,
influenza e adesione ai valori.
Lo schema teorico elaborato da Parsons e dai suoi collaboratori
costituì il fulcro della corrente dominante del funzionalismo negli
anni del secondo dopoguerra. Tuttavia quello di Parsons non fu il solo
tipo di funzionalismo che si affermò in tale periodo. Rifacendosi a
molti dei classici ai quali si era ispirato Parsons nonché a Parsons
stesso, dal quale fu profondamente influenzato, Robert K. Merton
elaborò un diverso indirizzo della tradizione funzionalista, che si
distingueva dall'approccio parsonsiano sotto tre aspetti fondamentali.
In primo luogo, rilevando la scarsità di risorse a disposizione della
ricerca sociologica, Merton (v., 1968³, pp. 39-72) mise in discussione
l'opportunità di dedicarsi esclusivamente alla definizione di uno
schema concettuale generale. Secondo Merton sarebbe stato più proficuo
impiegare tali scarse risorse per elaborare teorie a medio raggio su
strutture e processi empirici più circoscritti. I sociologi avrebbero
fatto meglio a sviluppare teorie - programmi di ricerca nel nostro
senso - su fenomeni specifici quali i gruppi di riferimento, la
socializzazione professionale o la devianza, piuttosto che cercare di
elaborare un unico schema astratto applicabile a ogni ambito concreto.
Merton (ibid., pp. 73-138) presentava il funzionalismo come una sorta
di supermetodo. Partendo dal principio metodologico fondamentale
secondo il quale i dati devono essere analizzati individuando gli
effetti che producono sulle strutture più ampie di cui fanno parte,
Merton propose un protocollo dell'analisi funzionale che richiede: una
esatta descrizione dei sistemi sociali oggetto dell'analisi; una
spiegazione del contesto sociale in cui si presenta il sistema in
questione; un elenco delle alternative strutturali che possono fungere
da equivalenti funzionali; una valutazione del/dei significato/i del
sistema per coloro che ne fanno parte e delle motivazioni che li
spingono alla conformità o alla devianza; un'analisi delle funzioni
manifeste e latenti del sistema; infine il calcolo di un bilancio netto
di funzioni e disfunzioni del sistema stesso.
Merton sosteneva inoltre che la logica del metodo funzionalista era
intrinseca alle scienze sociali, tesi che Kingsley Davis (v., 1959, p.
757) riprese in forma più polemica rifiutando "il falso assunto che
esista un metodo o una teoria speciale, quello della 'analisi
funzionale', che si possa distinguere da altri metodi o teorie della
sociologia e dell'antropologia sociale". In altre parole, a nostro
parere, l'importanza attribuita da Merton al metodo e al protocollo di
ricerca smentiva l'idea del funzionalismo come tradizione particolare.
Più vicini al marxismo e ad altri approcci incentrati sulla nozione di
conflitto, Merton e i suoi allievi diedero al funzionalismo un'impronta
di sinistra, criticando Parsons per aver sopravvalutato l'importanza
del consenso sui valori, della stabilità e dell'equilibrio; essi
cercarono di correggere tale errore dando rilievo ai conflitti e alle
tensioni che pervadono le società contemporanee. Merton (v., 1976)
analizzò quindi le aspettative contraddittorie, o ciò che in seguito
definì 'ambivalenza sociologica', Gross e altri (v., 1958) e Goode (v.,
1960) esaminarono il conflitto e la tensione di ruolo, Gouldner (v.,
1954) studiò il fenomeno dello sciopero selvaggio e Coser (v., 1956 e
1967) delineò una teoria funzionalistica del conflitto.
Le differenze tra la teoria generale di Merton e quella di Parsons sono
rilevanti e diedero origine a stili diversi di elaborazione teorica e
di ricerca empirica. Tuttavia le convergenze tra le due posizioni sono
ancora più significative delle divergenze, e per questo motivo sarebbe
più giusto parlare di indirizzi diversi all'interno di una stessa
scuola che non di tradizioni antagonistiche.
Naturalmente si possono individuare punti di contatto anche tra il
funzionalismo e le scuole rivali. Sussistono ad esempio notevoli
parallelismi tra la concezione dei sistemi sociali di Parsons e quella
marxiana: ambedue le concezioni definiscono le società come totalità
distinte e irriducibili composte di elementi interdipendenti e
sostengono che le società contemporanee - 'moderne' per Parsons,
'capitalistiche' per Marx - devono soddisfare determinati prerequisiti
per conservarsi. Le affinità tra il funzionalismo di Parsons e il
neomarxismo contemporaneo, peraltro, sono assai più il frutto di
un'appropriazione diretta che non di un'elaborazione autonoma. Jurgen
Habermas (v., 1981) ha ripreso e rielaborato parecchi elementi della
teoria parsonsiana, come ad esempio le nozioni di sistema,
sottosistema, complessi motivazionali, meccanismi di controllo e
razionalità cognitiva. I punti di contatto tra il funzionalismo di
Parsons e questi paradigmi rivali, tuttavia, a differenza di quelli tra
Parsons e Merton, si rinvengono nell'ambito di un discorso
caratterizzato da posizioni radicalmente diverse ad altri livelli.
Inserita in contesti intellettuali tanto diversi, anche la comune
adesione al modello sistemico dà luogo a risultati radicalmente
divergenti: Marx e Habermas propongono, almeno in ultima istanza, una
concezione riduzionistica dei sistemi sociali che attribuisce
preminenza analitica al sottosistema economico, mentre Parsons adotta
un approccio più pluralistico alle interrelazioni tra le diverse
componenti del sistema.
Si potrebbero riconsiderare infine i rapporti tra l'antropologia
classica e la teoria generale di Merton e di Parsons. Alcuni studiosi
(v. ad esempio Cohen, 1968) sostengono esplicitamente o implicitamente
che sussiste una sostanziale continuità tra il funzionalismo
sociologico e le prime ricerche antropologiche, in particolare quelle
di Malinowski e di Radcliffe-Brown, come sarebbe almeno in parte
dimostrato dai parallelismi riscontrabili tra l'approccio di Malinowski
e il modello sistemico parsonsiano. L'identificazione operata da
Malinowski (v., 1939 e 1944) tra i bisogni universali e le istituzioni
create per soddisfarli anticiperebbe le successive teorizzazioni dei
requisiti funzionali e dei sistemi sociali (v. Turner, 1991⁵).
Malinowski descrive una serie di bisogni organici e le risposte
culturali che questi suscitano. I bisogni elementari o biologici
dell'individuo, come ad esempio la nutrizione, la riproduzione, lo
svago e la crescita, verrebbero soddisfatti da attività organizzate
quali i sistemi di approvvigionamento, le istituzioni del matrimonio e
della famiglia, i sistemi di svago e di riposo, di addestramento e di
tirocinio. La soddisfazione di tali necessità biologiche genera altri
bisogni secondari o strumentali e un complesso corrispondente di
risposte culturali. Il bisogno derivato di cooperazione e di controllo
del conflitto, ad esempio, produce un sistema di controllo sociale,
mentre il bisogno di ricostituire il gruppo con l'immissione di nuovi
membri induce a creare un sistema educativo. Le esigenze simboliche e
di integrazione danno origine a un terzo livello di bisogni i quali
producono a loro volta le religioni, i cerimoniali e i sistemi
filosofici. Numerosi suggerimenti metodologici integrano la teoria
generale di Malinowski. Egli sostiene che "ogni usanza, ogni oggetto
materiale, ogni idea e ogni credenza soddisfa determinate funzioni
vitali", e afferma che certe pratiche come la magia assolvono una
funzione indispensabile che non può essere svolta da nessun'altra
pratica sociale o culturale (v. Malinowski, 1926, p. 132).
Sebbene Radcliffe-Brown (v., 1935, 1946 e 1949) riconosca che il
concetto di funzione applicato alle società umane si fonda su
un'analogia tra la vita sociale e quella organica, egli critica
aspramente la tesi di Malinowski secondo cui la cultura deriva dai
bisogni organici dell'individuo, affermando che il suo funzionalismo
biologico non è in grado di spiegare la variazione sociale.
Contrapponendo esplicitamente il proprio approccio a quello di
Malinowski, Radcliffe-Brown propone un funzionalismo sociale mirato a
spiegare le interconnessioni tra le strutture e i processi della vita
sociale. Il suo schema si sviluppa lungo tre linee correlate: la
classificazione delle strutture sociali, la descrizione del modo in cui
esse operano e l'analisi della genesi di nuovi tipi di strutture
sociali. Secondo Radcliffe-Brown la funzione di ogni attività
ricorrente risiede nel contributo che essa fornisce al sistema sociale
globale. Tale concezione della funzione presuppone come ipotesi di
lavoro che tutte le parti della struttura sociale operino insieme con
un grado minimo di coerenza interna. Radcliffe-Brown sottolinea
tuttavia che solo un'indagine empirica può stabilire la natura e il
livello di tale unità funzionale nelle singole società. Egli conia il
concetto complementare di disunione funzionale per designare
l'incoerenza interna di un sistema sociale e formula l'ipotesi che la
'disnomia sociale', come viene da lui definita, possa portare alla
creazione di nuove strutture. Radcliffe-Brown rifiuta esplicitamente,
in quanto asserzione dogmatica, la tesi secondo cui ogni attività
ricorrente ha una funzione necessaria, rilevando anzi come la stessa
usanza possa avere funzioni assai diverse quando viene praticata in due
o più sistemi distinti.
Sebbene i punti di contatto tra le teorie di Malinowski e
Radcliffe-Brown da un lato e il moderno funzionalismo dall'altro non
siano trascurabili, ancora più significativa è però l'evoluzione
verificatasi grazie a Parsons, Merton e altri esponenti del
funzionalismo sociologico rispetto agli antropologi loro predecessori.
Parsons (v., 1957), ad esempio, elogia la classificazione degli
imperativi funzionali della cultura operata da Malinowski e la
considera un valido punto di partenza per una teoria generale dei
sistemi sociali. Ma subito dopo aver espresso questo giudizio positivo
aggiunge che "questo notevole contributo resta come un frammento
virtualmente isolato" nello schema concettuale di Malinowski (ibid., p.
66). Parsons ritiene manchevole la visione semplicistica dell'organismo
umano di Malinowski, in quanto non opera alcuna distinzione tra il
sistema fisiologico e quello della personalità, mentre il suo concetto
di cultura eccessivamente ampio trascura le differenze cruciali che
sussistono tra l'organizzazione sociale e i sistemi simbolici. Parsons
critica inoltre il procedimento arbitrario con cui Malinowski collega
la propria classificazione dei bisogni a determinate risposte
culturali. Infine, in contrasto con la preminenza attribuita da
Malinowski ai bisogni biologici, preculturali, Parsons mette l'accento
sull'autonomia e la reciproca compenetrazione di tutti i livelli -
quello della personalità, quello comportamentale, quello sociale e
quello culturale - nell'azione del sistema sociale.
Merton distingue accuratamente la propria codificazione della
metodologia funzionalista da quelle di Malinowski, di Radcliffe-Brown e
di altri antropologi che non avevano introdotto le necessarie
specificazioni e distinzioni nell'analisi funzionale. Secondo Merton,
Malinowski e, in misura minore, Radcliffe-Brown accolgono in modo un
po' superficiale la tesi discutibile dell'unità funzionale della
società, secondo la quale i singoli elementi sociali e culturali sono
funzionalmente importanti per l'intero sistema sociale o culturale.
Malinowski inoltre postula un funzionalismo universale, in base al
quale tutte le forme sociali o culturali standardizzate hanno funzioni
positive. Un altro postulato di Malinowski è quello
dell'indispensabilità funzionale, in base al quale determinate forme
sociali o culturali sono insostituibili. Nella concezione alternativa
proposta da Merton l'assunto dell'unità funzionale lascia il posto alla
specificazione delle unità per le quali un dato elemento è funzionale.
Egli riconosce inoltre che un elemento può avere conseguenze diverse
per gli individui, per i sottogruppi e per il più ampio contesto
sociale. Al postulato del funzionalismo universale Merton sostituisce,
anche se in forma ipotetica, l'asserzione secondo la quale le forme
culturali durature avrebbero un bilancio netto di conseguenze
funzionali o per la società nella sua totalità o per sottogruppi
sufficientemente potenti da preservarle. Infine Merton respinge il
postulato dell'indispensabilità funzionale e avanza l'idea che la
stessa funzione possa essere assolta da strutture o pratiche
alternative.
3. I programmi di ricerca del funzionalismo
La teoria generale del funzionalismo ha ispirato una quantità di
programmi di ricerca in quasi tutti gli ambiti di specializzazione
della sociologia di metà secolo. Tale ricerca era guidata da una
strategia di riconferma che prevedeva un unico schema concettuale
generale in grado di ricollegare in un'unità strettamente coesa i
singoli studi empirici. Questa strategia dimostrò un'efficacia
raramente raggiunta nelle scienze sociali. Tra i programmi di ricerca
meglio sviluppati si devono annoverare quelli sulla sociologia della
cultura, sul mutamento sociale, sulle professioni, sulla sociologia
politica, sulla famiglia, sulla socializzazione e sulla personalità.
a) Sociologia culturale
La tesi funzionalista secondo la quale l'azione sociale implica sempre
un qualche referente culturale, nonché il principio più specifico che i
valori rappresentano un aspetto fondamentale dei sistemi sociali, hanno
dato luogo a una serie di studi su particolari sistemi di valori - ad
esempio il sistema di valori americano o i differenti valori di varie
subculture occupazionali ed etniche - nonché ad analisi comparative
sugli orientamenti di valore in diverse società. Williams (v., 1970³)
individuò diversi valori centrali della società statunitense
contemporanea, tra i quali il successo, il lavoro, l'umanitarismo,
l'efficienza e il senso pratico, il progresso, l'eguaglianza, la
libertà, la razionalità, la democrazia e l'individualismo, mentre i
ricercatori dello Harvard values study project hanno descritto gli
orientamenti di valore di cinque culture nell'America sudoccidentale
(v. Vogt e Albert, 1966).
Il tentativo dei funzionalisti di spiegare l'azione sociale facendo
riferimento ai valori comuni raggiunse il suo apice in una serie di
studi sul modo in cui nei sistemi sociali si formano i valori generali.
Parsons e Platt (v., 1973) sostenevano che la razionalità è un valore
altamente generalizzato nella società americana e che ciascun
sottosistema (ad esempio quello politico o quello economico) dà una
propria particolare interpretazione di tale valore. Sebbene queste
specificazioni istituzionali della razionalità siano modellate in base
alle esigenze specifiche di ciascun sottosistema, esse derivano però da
un unico modello culturale generale. Di conseguenza, nonostante che i
singoli sottosistemi definiscano i valori in modi diversi, tali
disparate interpretazioni dello stesso modello culturale di solito non
sono sostanzialmente in conflitto. Inoltre, poiché si assume che i
sottosistemi si sostengano reciprocamente attraverso scambi
complementari, la fonte più probabile di conflitto è rappresentata
dalle inadeguatezze dello stesso sistema generale di valori.
I funzionalisti operano una distinzione tra norme e valori, sostenendo
che questi ultimi forniscono le regole generali del pensiero e della
condotta, mentre le norme forniscono prescrizioni e divieti più
specifici. Sebbene dal punto di vista tecnico non siano una componente
del sistema culturale, le norme hanno assunto spesso un'importanza
cruciale nell'analisi delle dimensioni non razionali dell'azione e
nella spiegazione del comportamento umano fornite dai funzionalisti. Di
conseguenza lo studio dei complessi normativi, particolarmente nei
contesti nei quali il modo in cui tali complessi operano non è di
evidenza immediata, ha un posto di rilievo in questo programma di
ricerca, come dimostrano l'analisi di Parsons degli aspetti normativi
del ruolo del malato (v., 1951, pp. 428-479) e la discussione di Merton
(v., 1973, pp. 267-278) sul sistema normativo su cui si fonda la
scienza moderna.
I funzionalisti hanno analizzato inoltre il modo in cui norme e valori
possono rappresentare una fonte di mutamento e di conflitto. Essi
sostenevano che la capacità di cambiamento di una società è
direttamente correlata alla sua dimensione assiologica, che le assicura
un potere trascendente e regolativo rispetto ad altre dimensioni, di
natura più materiale, della struttura sociale. Rifacendosi a Weber,
Parsons (v., 1966) affermò che tra i momenti di cambiamento sociale più
significativi vanno annoverate le radicali alterazioni dell'ordine
normativo create dalle rivoluzioni religiose, in particolare
dall'affermarsi delle religioni trascendenti nel corso del primo
millennio a.C. e dalla assai più tarda frattura culturale legata alla
Riforma protestante. Bellah (v., 1964) studiò il rapporto tra
differenziazione culturale e mutamento sociale, esaminando le
connessioni tra il livello della trascendenza religiosa e quelli delle
riforme sociali, e individuò nella sua successiva analisi della
religione civile le basi culturali per una critica e una trasformazione
degli ordinamenti esistenti (v. Bellah, 1975).
A un livello meno generale e in uno spirito più laico i funzionalisti -
soprattutto gli esponenti della corrente mertoniana - studiarono i
conflitti normativi e le tensioni legate alle posizioni istituzionali e
ai ruoli sociali. Merton (v., 1957) introdusse la nozione di 'complesso
di ruolo' (role set) per descrivere l'insieme delle relazioni di ruolo
dell'individuo che dipendono dal suo status, sottolineando la
probabilità che i diversi attori del complesso di ruolo nutrano
aspettative incompatibili per la condotta di ego, mentre Goode (v.,
1960), nel suo classico studio sulle tensioni dovute al ruolo, sostiene
che la complessità e il carattere estremamente impegnativo della
moderna vita istituzionale rendono pressoché impossibile rispettare le
norme associate a tutti i ruoli rivestiti dal singolo individuo.
b) Mutamento sociale
Il programma di ricerca funzionalistico sul mutamento sociale -
sviluppato in parte in risposta alla critica secondo la quale il
funzionalismo non era in grado di render conto né del mutamento né del
conflitto - avanzava una serie di tesi interrelate. Postulato
fondamentale di tale programma era che uno degli aspetti più
significativi del moderno cambiamento sociale sul piano sia teorico che
empirico è la tendenza alla differenziazione. Parsons aveva definito la
differenziazione come la sostituzione di ruoli e istituzioni
multifunzionali con unità più specializzate, e aveva descritto lo
sviluppo di questa tendenza dalle società arcaiche a quelle primitive e
intermedie, sino alle società moderne. I suoi allievi e collaboratori
studiarono il processo di differenziazione in ambiti istituzionali
specifici: le idee, le istituzioni e le azioni in ambito religioso (v.
Bellah, 1964), i ruoli familiari e professionali (v. Smelser, 1959) e i
ruoli direttivi (v. Keller, 1963).
Per spiegare il passaggio dalle unità multifunzionali a strutture più
specializzate i teorici della differenziazione si servirono di un
modello basato sulla nozione di risposta ai problemi. Smelser (v.,
1959) ne fornì la versione più sofisticata, sostenendo che la
differenziazione è causata dal funzionamento inadeguato di una
struttura che produce una insoddisfazione diffusa. Un determinato
fenomeno di cambiamento sfocia nella istituzionalizzazione di un'unità
più differenziata ed efficiente. All'origine dell'impulso a creare
strutture più differenziate vi sarebbe proprio l'esigenza di rendere
più efficiente una data funzione. Tale modello presuppone un unico e
predominante sistema di valori in grado di legittimare
l'insoddisfazione iniziale e successivamente le innovazioni finalizzate
a una maggiore efficienza. Smelser operò una distinzione tra gli
elementi della società che esprimono insoddisfazione e una struttura
dell'autorità, presumibilmente disinteressata, preposta a risolvere e
incanalare le tensioni. Tale modello esplicativo, inoltre, presuppone
che la creazione di strutture più differenziate ed efficienti sia in
grado di determinare una diffusa soddisfazione.
Gli esponenti di questa ricerca avanzavano l'ipotesi che
l'istituzionalizzazione di strutture maggiormente specializzate
accresca la capacità adattativa di un sistema o sottosistema sociale
(v. Parsons, 1964). I funzionalisti sostenevano che elevati livelli di
differenziazione innescano processi correlati quali una
generalizzazione dei valori, una maggiore inclusività nonché la nascita
di istituzioni integrative specializzate (v. Parsons, 1966 e 1971; v.
Parsons e Smelser, 1956, pp. 101-184); essi ritenevano inoltre che tali
processi favoriscano l'integrazione di un sistema divenuto più
complesso attraverso la differenziazione. In alcune delle sue
interpretazioni più diffuse, soprattutto quelle elaborate da Parsons
(v., 1966 e 1971), la teoria della differenziazione trasmetteva un
senso di innegabile, compiaciuto ottimismo di stampo liberale riguardo
alle conseguenze a lungo termine della differenziazione strutturale, e
rappresentava inoltre una incondizionata celebrazione del modernismo
americano.
c) Professioni
Le considerazioni di ordine teorico sui limiti dell'approccio
utilitaristico e sul piano empirico la convinzione che le professioni
rivestono un'importanza cruciale nelle società moderne spinsero i
funzionalisti a dedicare particolare attenzione alla tematica delle
professioni. Il pionieristico articolo di Parsons (v., 1939)
sull'argomento metteva in discussione la tesi utilitaristica secondo la
quale sarebbero motivazioni di ordine strumentale e calcoli
utilitaristici a fornire impulso all'azione umana. Ponendo l'accento
sui modelli istituzionalizzati che improntano e regolano la condotta,
Parsons sostenne che la moderna condotta professionale non è guidata da
un ristretto interesse personale, come avviene nella sfera degli
affari, bensì da modelli di riferimento che prescrivono un orientamento
verso la collettività. Parsons riteneva inoltre che nelle professioni
si può rinvenire un elemento distintivo delle società moderne: "Il
sistema professionale, sebbene il suo sviluppo non sia ovviamente
ancora completo, è già diventato la più importante delle varie
componenti che costituiscono la struttura della società moderna [...].
È la preponderante affermazione del sistema professionale, non lo
status particolare del modo di organizzazione capitalistico o
socialistico, a rappresentare lo sviluppo strutturale cruciale nella
società del XX secolo" (v. Parsons, 1968, p. 545).
Da un punto di vista empirico i funzionalisti definirono le professioni
come un sottoinsieme identificabile di ruoli occupazionali
caratterizzati da un alto livello di conoscenza generalizzata e
sistematica, da un orientamento primario verso gli interessi della
comunità, da un elevato grado di autocontrollo raggiunto attraverso
l'interiorizzazione di codici etici nel corso della socializzazione
professionale e attraverso un sistema di sanzioni amministrate da
associazioni professionali volontarie, nonché da un sistema di
ricompense simboliche incentrate principalmente sul successo
professionale (v. Barber, 1963). L'importanza data dai funzionalisti
alla padronanza di un corpus esoterico di conoscenze e ai meccanismi di
controllo interni sui quali fanno affidamento i professionisti ispirò
un classico studio sulla socializzazione professionale (v. Merton e
altri, 1957), una serie di studi sull'acquisizione di competenze
tecniche, sull'interiorizzazione degli impegni connessi con
l'occupazione e sui processi di identificazione con la comunità
professionale (v. Goode, 1957; v. Moore, 1970, pp. 66-83), e infine una
serie di analisi sul modo in cui le associazioni professionali, a volte
con carattere di società di eguali, riescano o meno a esercitare il
controllo sui propri membri (v. Barber, 1952). Anche il rapporto tra la
conoscenza tecnica e sistematica, le istituzioni universitarie e le
professioni fu oggetto di numerosi studi (v. Parsons e Platt, 1973, pp.
225-266), così come le tensioni e i mutevoli compromessi cui dà luogo
la partecipazione dei professionisti a organizzazioni formali non
completamente vincolate a modelli collegiali di autorità (v.
Kornhauser, 1962). Le competenze dei professionisti, secondo i
funzionalisti, favoriscono una forma di organizzazione collegiale,
mentre la disparità di conoscenze tecniche tra professionista e cliente
impone a quest'ultimo di aver fiducia nel professionista, che viene
così incoraggiato a rispettare sia i clienti che i propri colleghi (v.
Parsons, 1939 e 1968). L'atteggiamento del professionista verso il
cliente viene descritto in termini di variabili strutturali come
universalistico, affettivamente neutrale, specifico e orientato
all'interesse collettivo; nonostante la disparità delle competenze, il
rapporto professionista-cliente conterrebbe anch'esso elementi di
collegialità (v. Parsons, 1951, pp. 428-479). Vennero studiati, infine,
gli sforzi di altre categorie occupazionali per raggiungere un livello
professionale (v. Wilensky, 1964), gli ostacoli alla
professionalizzazione (v. Goode, 1969) e le tensioni legate allo status
semiprofessionale (v. Etzioni, 1969).
d) Sociologia politica
Alcuni dei primi studi sulla politica, come quello di Merton (v.,
1968³, pp. 125-136) sugli apparati politici e quelli di Parsons (v.,
1942 e 1955) sull'avvento del fascismo in Germania e in Giappone e
sulla genesi del maccartismo negli Stati Uniti, avevano messo in
evidenza come certe caratteristiche fondamentali del moderno
cambiamento sociale favoriscano l'insorgere di lotte politiche tra
gruppi mobilitati a sostegno di interessi confliggenti. Tuttavia,
allorché la teoria funzionalista si orientò verso un approccio più
sistemico, la politica venne analizzata sempre più nei termini dello
schema quadrifunzionale adattamento-raggiungimento degli
scopi-integrazione-latenza, descritto in precedenza. Il sistema
politico era quindi descritto come quel sottosistema, preposto
principalmente al raggiungimento di determinati scopi, il cui
funzionamento è condizionato da altri sottosistemi (l'economia, la
comunità sociale, il sistema di conservazione e riproduzione della
struttura) con i quali scambia risorse (v. Parsons, 1969). Parsons
introdusse inoltre un'alternativa innovativa alla concezione prevalente
del potere come gioco a somma zero. Egli definì il potere come un
medium simbolico generalizzato, analogo al denaro, che consente a
società altamente differenziate di svolgere in modo efficiente funzioni
essenziali. Il potere viene definito come la capacità di individuare
scopi collettivi, di mobilitare risorse per perseguire tali scopi e di
prendere decisioni vincolanti per assicurare la loro realizzazione.
Poiché un sistema politico efficiente richiede risorse prodotte da
altri sottosistemi, la quantità di potere in una società è parzialmente
determinata dagli scambi tra il sistema politico e tali sottosistemi.
Dato che questi scambi sono ineguali, essi determinano inflazione e
deflazione nel medium generalizzato. Quando prevale la deflazione si
ricorre sovente a meccanismi di controllo politico meno generalizzati
ed efficienti, come ad esempio lo scambio politico e la coercizione.
Poiché il potere dipende dai vincoli di lealtà dei cittadini ed è
legittimato da valori fondamentali, la minaccia della forza o il suo
impiego, che costituiscono la base materiale del potere, possono
provocare movimenti tesi a sostituire la classe politica esistente o a
ristrutturare l'intero sistema politico.
Questo modello è stato sviluppato in numerosi studi empirici.
Eisenstadt (v., 1963) ad esempio associò all'approccio sistemico di
Parsons un interesse di stampo weberiano per le lotte tra fazioni
politiche rivali al fine di studiare l'effetto della leadership
politica e di varie risorse di tipo solidale, economico e culturale
sulla capacità degli imperi storici di creare le strutture preposte a
definire scopi collettivi e a regolare la produzione di risorse di
altri sottosistemi. Altri studi descrissero il processo di sostituzione
di una classe dominante da parte di élites strategiche funzionalmente
differenziate (v. Keller, 1963); il modello sistemico quadrifunzionale
venne impiegato per individuare strutture di divisione e per
determinare la loro incidenza sulle strutture partitiche e sui
movimenti politici (v. Lipset e Rokkan, 1967); le variabili
strutturali, infine, vennero utilizzate per valutare l'influenza di
determinati sistemi di valori sulle istituzioni democratiche (v.
Lipset, 1963). La definizione del sistema politico come quel sistema
che deve rispondere a esigenze specifiche e che opera in un ambiente
composto di altri sistemi ispirò inoltre una serie di studi
sull'evoluzione politica nelle società in via di sviluppo (v. Almond e
Coleman, 1960; v. Pye, 1966).
e) Famiglia, personalità e socializzazione
Il punto di vista dei funzionalisti sulla famiglia, sulla
socializzazione e sulla personalità, che si era venuto precisando nel
corso degli anni cinquanta e sessanta, considerava la moderna famiglia
nucleare come un'unità caratterizzata dall'isolamento e dalla
differenziazione strutturale, il cui compito primario era la
socializzazione dei figli (v. Parsons e Bales, 1955). Parsons rielaborò
la distinzione tra ruoli guida strumentali ed espressivi, delineata
inizialmente nell'ambito della ricerca su piccoli gruppi (v. Bales,
1950): a suo parere nella moderna famiglia nucleare il marito/padre
assume un ruolo strumentale e cerca una collocazione nel mondo del
lavoro per assicurare il sostegno economico della famiglia, mentre la
moglie/madre è responsabile principalmente delle funzioni espressive, e
il suo compito è soprattutto quello di fornire supporto ai figli in
ambito educativo ed emozionale. Questi ruoli parentali specializzati,
considerati complementari, favorirebbero la solidarietà coniugale
eliminando la competizione tra marito e moglie e costituirebbero una
valida forma di adattamento alle esigenze della società moderna.
La teoria dello sviluppo della personalità elaborata da Parsons, che si
ispira a Freud, individua una serie di fasi discontinue. Ogni fase è
contraddistinta dall'interiorizzazione da parte del bambino di nuovi
oggetti sociali e dalla successiva differenziazione di tali oggetti
attraverso un processo simile alla fissione binaria. Dapprima il
bambino interiorizza la figura materna in modo così totale che non è in
grado di operare una distinzione tra sé e lei. Gradualmente però egli
impara a differenziare se stesso dalla madre e a discriminare un 'io' e
un 'tu', il 'noi' formato da questa diade e un 'non-noi' che comprende
tutti gli altri. Questa fase, e le altre che seguono, si concludono con
l'elaborazione di un insieme più differenziato di relazioni, e il
bambino, man mano che attraversa gli stadi successivi, acquisisce
schemi di riferimento sempre più ampi che gli consentono di interagire
con una vasta gamma di potenziali 'altri'.
Rilevando l'impronta particolaristica della moderna famiglia nucleare,
Parsons sostenne che il passaggio dall'infanzia all'età adulta, e più
in particolare l'interiorizzazione di criteri universalistici, rende
necessaria la socializzazione in altri contesti. Inoltre, per essere
preparati all'alto grado di indipendenza, competenza e responsabilità
richiesto dai ruoli che dovranno assumere come adulti, i bambini si
devono liberare dai vincoli emozionali che li rendono dipendenti dai
genitori. La scuola e i gruppi di pari condizioni svolgono un ruolo
essenziale al riguardo. Meno vincolata dai legami particolaristici e
affettivi che si sviluppano all'interno della famiglia, la scuola
riesce con maggior facilità a inculcare norme universalistiche e a
determinare una migliore accettazione del principio della valutazione
basata sulla prestazione (v. Dreeben, 1968). La più frequente
associazione con i coetanei consente al bambino di stabilire una certa
indipendenza emozionale dai genitori e favorisce altresì la capacità e
il desiderio di coordinare le proprie attività con quelle di quanti si
trovano in eguale condizione (v. Eisenstadt, 1956).
4. Discredito del funzionalismo e nascita del neofunzionalismo
L'imponente edificio teorico faticosamente costruito dai funzionalisti
cominciò a sgretolarsi nel secondo dopoguerra, allorché un
contromovimento intellettuale ampiamente diffuso mise in questione
pressoché ogni aspetto della teoria generale e dei programmi di ricerca
di questa scuola. La tesi di Parsons secondo la quale ogni scienza
contiene un livello di elaborazione concettuale indipendente venne
attaccata dai positivisti e dagli empiristi, i quali sostenevano invece
che la teoria deve collegarsi più strettamente ai fatti e deve
includere o implicare conclusioni direttamente verificabili. Venne
messa in discussione l'interpretazione parsonsiana dei classici, come
pure la sua tesi della continuità tra il loro pensiero e il
funzionalismo moderno. Sul piano dei presupposti, i funzionalisti
vennero accusati di aver trascurato i fattori materiali in favore di
quelli ideali, di aver dato eccessiva importanza all'influenza dei
valori sull'azione sociale e di aver presentato gli attori sociali come
esseri sovrasocializzati, culturalmente condizionati e incapaci di
fronteggiare la contingenza interazionale. Venne messo in questione il
tentativo di separare in modo netto e inequivocabile la teoria e i
programmi di ricerca del funzionalismo dall'ideologia, e l'opera di
questa scuola fu giudicata dai critici inficiata dalla sua intrinseca
natura conservatrice. Il modello sistemico del funzionalismo venne
accusato non solo di essere troppo astruso, ma anche di non distinguere
i modelli analitici di equilibrio dalla realtà empirica, sottovalutando
in questo modo la rilevanza del conflitto e del cambiamento nelle
società moderne. Le tesi metodologiche dei funzionalisti vennero
accusate di essere tautologiche e inficiate da una illegittima
impostazione teleologica, mentre la distinzione operata da Merton tra
funzioni latenti e funzioni manifeste venne rigettata in quanto vaga e
inconsistente. Alcuni elementi di queste critiche rivolte allo schema
teorico generale furono utilizzati anche per confutare i programmi di
ricerca del funzionalismo, molti dei quali vennero parzialmente
screditati pure sul piano della validità empirica.
Per le ragioni discusse in precedenza, questa ondata di critiche non
può avere il valore di una confutazione, ma va vista piuttosto come un
inasprimento del contrasto tra scuole rivali, alimentato dalle
trasformazioni in corso nel contesto sociale e intellettuale delle
scienze sociali. Tuttavia il fatto che i funzionalisti non riuscissero
a replicare in modo convincente a tali critiche - il che accadeva quasi
invariabilmente - alimentò la convinzione che il funzionalismo fosse in
errore. Con l'avvicendamento generazionale nel mondo intellettuale tra
la fine degli anni sessanta e gli anni settanta, il funzionalismo subì
una grave perdita di credito. Le tradizioni però scompaiono solo
gradualmente, e gli attuali sviluppi indicano che è in atto una
rivalutazione, per quanto critica, di questa scuola (v. Alexander,
1985; v. Alexander e Colomy, 1985; v. Colomy, Neofunctionalist...,
1990). Un gruppo ristretto ma assai vitale di neofunzionalisti ha
iniziato una ricostruzione del funzionalismo ortodosso, sia al livello
della teoria generale che a quello della ricerca empirica, tenendo
conto delle fondate obiezioni sollevate nel secondo dopoguerra.
5. La teoria generale del neofunzionalismo
Sul piano teorico il neofunzionalismo riprende la tesi parsonsiana del
ruolo relativamente indipendente dell'elaborazione teorica nelle
scienze sociali. Un'influenza di tipo positivista ha tuttavia spinto a
modificare la posizione originale, sottolineando l'importanza centrale
delle tradizioni nel lavoro sociologico, introducendo la distinzione
tra teoria generale e programmi di ricerca e analizzando le complesse
relazioni tra i due livelli, e accentuando la rilevanza del conflitto e
della competizione tra scuole rivali e tra correnti diverse all'interno
di una stessa scuola (v. Alexander, 1982-1983, vol. I; v. Alexander e
Colomy, 1992; v. Colomy, 1991). Nello stesso tempo i neofunzionalisti
giudicano negativamente la proposta di Merton di privilegiare le teorie
a medio raggio, ritenendo che essa si basi su un fraintendimento dei
fondamenti epistemologici della scienza sociale (v. Alexander e Colomy,
1992; v. Gould, 1990).
Sul piano dei presupposti il neofunzionalismo riafferma l'originaria
esortazione alla sintesi di Parsons, mettendo peraltro in evidenza come
Parsons stesso il più delle volte non sia riuscito a sostenere una
posizione pienamente sintetica. Per quanto riguarda l'azione, ad
esempio, i neofunzionalisti criticano l'inclinazione idealista
dell'analisi di Parsons, e sostengono che molte carenze del
funzionalismo ortodosso - inclusa la tendenza a considerare il
cambiamento in termini teleologici e a trascurare il ruolo delle
ricompense economiche e della coercizione politica - derivano dal
riduzionismo normativo parsonsiano. Per definire un approccio
multidimensionale più soddisfacente e dotato di maggior coerenza, i
funzionalisti hanno riaffermato l'importanza dei fattori materiali (v.
Alexander, 1982-1983, vol. IV; v. Gould, 1981). Criticando il
funzionalismo convenzionale per non esser riuscito a introdurre la
contingenza nella sua teoria dell'ordine collettivo in modo pienamente
convincente, i neofunzionalisti hanno mutuato una serie di elementi da
varie teorie microsociologiche al fine di incorporare il volontarismo e
lo sforzo individuale in una più ampia concezione dell'ordine (v.
Alexander, Action..., 1987).
Gli esponenti del neofunzionalismo, inoltre, hanno messo l'accento non
sulla convergenza tra Parsons e i classici, bensì sulle tangibili
discrepanze che sussistono tra il funzionalismo ortodosso e le tesi dei
padri fondatori della disciplina. Mentre Parsons aveva respinto Marx, i
neofunzionalisti (v. Alexander, 1982-1983, vol. I) ritengono che il suo
pensiero fornisca i paradigmi di quell'approccio materialistico e
strumentale che Parsons a loro avviso ha avuto il torto di trascurare.
Analogamente, in contrasto con il riduzionismo culturale che
caratterizza la concezione dei valori sociali propria del funzionalismo
ortodosso, sono state riprese e valorizzate le analisi di Durkheim
sulla cultura e sulla dimensione simbolica (v. Alexander,
Durkheimian..., 1988). I neofunzionalisti inoltre hanno rivisitato i
classici della microsociologia, quali ad esempio Mead, Peirce, Husserl
e Schutz, al fine di studiare l'azione contingente in una prospettiva
trascurata da Parsons (v. Alexander, Twenty lectures..., 1987; v.
Munch, 1982).
Per quanto riguarda l'ambito dell'ideologia, la rottura più radicale
con l'ortodossia effettuata dal neofunzionalismo è consistita
semplicemente nel rendere esplicite le dimensioni ideologiche della
tradizione funzionalista. Si sono così sviluppati due distinti
orientamenti di autocoscienza ideologica: il primo mette l'accento sul
carattere liberale, progressista e umanistico dei contributi di Parsons
(v. Holton e Turner, 1986; v. Mayhew, 1984), mentre il secondo sostiene
che determinati elementi del funzionalismo, opportunamente rielaborati
e associati ad alcuni indirizzi della teoria critica, possano essere
utilizzati per costruire una teoria sociale radicale (v. Gould, 1985;
v. Sciulli, 1985).
In reazione alla reificazione dei sistemi e dei concetti
funzionalistici nell'opera di Parsons e alla confusione tra le
distinzioni del modello sistemico quadrifunzionale e la
differenziazione empirica della società contemporanea, i
neofunzionalisti mettono in maggior risalto gli aspetti storici e
istituzionali dei sistemi, gli elementi dinamici e conflittuali tra i
sistemi e al loro interno, e le tensioni tra i sistemi e l'ambiente (v.
Luhmann, 1982; v. Munch, 1982; v. Colomy, 1992). Senza dubbio i
neofunzionalisti non hanno abbandonato l'idea che la società possa
essere analizzata come un sistema intellegibile, ma sono decisamente
meno ottimisti di Parsons per quel che riguarda la capacità di una
società di risolvere i propri problemi funzionali e assai più inclini a
riconoscere che le tensioni delle società moderne e postmoderne non
possono trovare alcuna soluzione pienamente soddisfacente. Di
conseguenza, mentre le opere di Parsons - soprattutto quelle del
secondo dopoguerra - sono permeate dalle idee di progresso e di
equilibrio, i neofunzionalisti, specie quelli americani, sostengono
piuttosto che il progresso è fragile e spesso illusorio (v. Alexander e
Sztompka, 1990). La nozione di equilibrio è stata relegata in secondo
piano anche come parametro analitico.
È opportuno osservare che il tentativo di ricostruzione del
neofunzionalismo riguarda principalmente la scuola parsonsiana. Non
sono mancati validi tentativi di riprendere il funzionalismo di Merton
sia come strategia metodologica (v. Faia, 1986) che come teoria
generale (v. Sztompka, 1986); molti neofunzionalisti condividono la sua
impostazione che dà rilievo alle tensioni e ai conflitti, nonché l'idea
espressa da alcuni suoi collaboratori che il funzionalismo possa essere
utilizzato come una teoria critica della società. Il neofunzionalismo
tuttavia si è sviluppato partendo soprattutto dalla posizione
epistemologica complessiva di Parsons, dai suoi modelli concettuali e
dal suo tentativo complementare di collegare, per quanto in modo
imperfetto, questo sistema di proposizioni astratte a una serie di
programmi di ricerca, piuttosto che dallo specifico delle analisi a
medio raggio mertoniane. I neofunzionalisti valutano in larga misura i
loro progressi nell'ambito della disciplina confrontando il proprio
lavoro al livello teorico ed empirico con quello di Parsons e dei suoi
allievi, oltreché ovviamente con le scuole antagoniste e con le altre
correnti della tradizione funzionalista contemporanea.
6. I programmi di ricerca del neofunzionalismo
a) Studi sulla cultura
Lo sforzo di ricostruzione e di revisione proprio della teoria
neofunzionalista impronta anche i programmi di ricerca di questa
scuola. Il modello parsonsiano dei tre sistemi, parzialmente inficiato
da una certa ambiguità per quel che riguarda l'autonomia del sistema
culturale, aveva ispirato una quantità di studi sugli orientamenti di
valore, i quali presupponevano l'esistenza, all'interno del sistema
sociale, di un sistema culturale perfettamente istituzionalizzato
attraverso i valori che la personalità interiorizza mediante la
socializzazione. I valori, quindi, non il sistema culturale vero e
proprio, divennero il punto focale di questo programma di ricerca. I
neofunzionalisti hanno messo in discussione questo approccio in due
modi.In primo luogo, essi hanno ridefinito concettualmente i rapporti
tra cultura e società. Luhmann (v., 1982), ad esempio, mette in
discussione il ruolo privilegiato assegnato alla cultura e al consenso
normativo nella gerarchia cibernetica di Parsons, e propone una
prospettiva alternativa ed egualitaria sul piano analitico in cui la
cultura non è che uno tra i tanti ambiti dell'azione presenti
all'interno della società. Alexander (v., 1984) sostiene che l'analisi
parsonsiana dell'istituzionalizzazione, che costituisce ciò che egli
definisce un modello di specificazione culturale, non rappresenta che
una delle tre forme che i rapporti cultura-società possono assumere. La
rifrazione culturale si determina quando gruppi sociali e funzioni in
conflitto tra loro producono subculture antagonistiche che continuano
peraltro a basarsi su un sistema di valori integrato al livello
culturale. Una cultura 'verticalmente segmentata' si produce invece
quando esistono differenze fondamentali sia nel sistema culturale che
in quello sociale, i gruppi di interesse condividono pochi valori
fondamentali ed emergono raggruppamenti politico-culturali
sostanzialmente opposti.
Questa riformulazione delle relazioni intersistemiche tra cultura e
società ha consentito una comprensione più specifica e meno
circoscritta al livello sociale del sistema culturale stesso.
Combinando elementi desunti da modelli semiotici ed ermeneutici con una
rivalutazione della sociologia culturale delineata da Durkheim nelle
sue opere più tarde, i neofunzionalisti propongono un programma di
ricerca sulla cultura incentrato sulla chiarificazione della complessa
struttura dei sistemi simbolici. Alexander (v., Culture and..., 1988),
ad esempio, analizza il caso Watergate non come un semplice evento
politico, ma come un simbolo di corruzione che incarna il senso del
male e dell'impurità. Le udienze del progresso Watergate vengono
presentate come un evento ritualizzato, liminale, che rielabora gli
episodi e i personaggi ordinari connessi alla vicenda nei termini di
antitesi superiori tra gli elementi puri e impuri della religione
civile americana.
La nuova apertura del neofunzionalismo nei confronti di analisi
dettagliate di strutture e processi simbolici costituisce in parte una
reazione all'ambivalenza del funzionalismo ortodosso in merito
all'autonomia della cultura dalle interpretazioni idealistiche e
unilaterali della vita sociale. Lo studio di Alexander sulla dimensione
simbolica del caso Watergate, ad esempio, contiene un'analisi sia della
costellazione delle condizioni sociali - quali l'esistenza di un centro
sociale, l'attivazione di controlli istituzionali, la mobilitazione di
élites rivali in lotta fra loro - sia dell'impiego consapevole o
inconsapevole di strategie simboliche da parte dei protagonisti - quali
la riaffermazione ritualistica di un mito sociale, i formalismi
connessi al degrado morale e la generalizzazione dei valori - che
rendono possibili i rituali di natura civica nelle moderne società.
b) Mutamento sociale
I neofunzionalisti hanno rielaborato criticamente la teoria ortodossa
del cambiamento sociale in tre modi principali. In primo luogo,
l'attenzione per la tendenza, predominante, a una crescente
differenziazione culturale, sociale e psicologica è stata integrata con
l'individuazione di variabili modello di mutamento strutturale, tra le
quali figurano la de-differenziazione e la differenziazione ineguale,
irregolare e incompleta (v. Alexander e Colomy, 1990; v. Colomy, 1992).
Inoltre lo schema convenzionale che presentava la differenziazione come
il prodotto di una risoluzione dei problemi di tipo sistemico ha
lasciato il posto a un modello più ampio sul piano analitico, in cui
assumono un posto di rilievo anche le contingenze associate alla
mobilitazione e al conflitto tra i gruppi e il modo in cui questi
fattori influenzano il processo di differenziazione. Lungi dal
presentare l'incerto tentativo di scolarizzare i giovani della classe
operaia britannica come un esempio di miglioramento sistemico adattivo,
Smelser (v., 1991) analizza il modo in cui diversi tipi di potere, di
interessi e di organizzazione delle classi sociali e dei gruppi
antagonistici hanno frustrato e ritardato l'istituzione di scuole per
la classe lavoratrice.
Altri tentativi di includere la dimensione contingente nelle analisi
della differenziazione si ritrovano in una serie di studi che
rielaborano il concetto di 'imprenditori' istituzionali formulato per
primo da Eisenstadt (v., 1964). Nel suo studio sui partiti politici
statunitensi nel periodo prebellico, ad esempio, Colomy (v., Strategic
groups..., 1990) sostiene che il cambiamento strutturale dipende in
parte dalle attività di individui e gruppi specifici che assumono un
ruolo guida nel promuovere nuovi livelli di differenziazione. Egli
dimostra come questi gruppi 'imprenditoriali' possano essere analizzati
comparativamente in riferimento ai loro rispettivi progetti
istituzionali, agli strumenti organizzativi che approntano per
perseguire quegli obiettivi e alle strategie e alle tattiche impiegate
per ottenere il sostegno e neutralizzare le resistenze ai loro progetti.
Anche gli effetti della differenziazione sono stati considerati in modo
diverso. Mentre il funzionalismo ortodosso aveva dato particolare
rilievo alla presunta maggiore efficacia ed efficienza di istituzioni
più differenziate, il neofunzionalismo cerca di mettere in luce altre
conseguenze della differenziazione, quali la frammentazione, la
mancanza di flessibilità e di affidabilità. Smelser (v., 1985) ad
esempio rileva come istituzioni differenziate creino nuovi ruoli i cui
titolari possono costituire in seguito raggruppamenti politici
preoccupati di conservare o favorire i propri interessi
particolaristici. Questa preoccupazione di tutelare interessi
costituiti può introdurre un elemento di rigidità e inflessibilità in
un sistema, riducendo le sue capacità di adattamento ai mutamenti
dell'ambiente. Una trattazione esauriente degli effetti della
differenziazione, quindi, deve prendere in considerazione i casi in cui
la tendenza alla differenziazione può essere affermata sul piano
simbolico ma affossata sul piano pratico da potenti gruppi costituiti
che riescono a vanificare le modificazioni sancite pubblicamente. Lo
studio di Rhoades (v., 1990) sulle tendenze registrate nel mondo
accademico in Francia, Inghilterra, Svezia e Stati Uniti, ad esempio,
illustra come il significativo incremento della scolarità tra il 1960 e
il 1980 abbia spinto gruppi di non accademici a richiedere una
ulteriore differenziazione strutturale. Tale richiesta venne appoggiata
da molti politici, legislatori e amministratori, ma quando l'attuazione
di queste riforme venne affidata al corpo accademico conservatore, come
è avvenuto nei paesi europei presi in esame da Rhoades, i docenti
manifestarono la tendenza ad adattare le nuove strutture al
conseguimento di obiettivi accademici tradizionali, sovvertendo così in
pratica gli scopi che avrebbero dovuto raggiungere unità maggiormente
differenziate.
c) Professioni
Riconsiderando criticamente l'approccio al tema delle professioni del
funzionalismo ortodosso, i neofunzionalisti hanno integrato l'analisi
dei fondamenti normativi delle professioni con lo studio degli
interessi materiali dei professionisti; hanno messo in luce i rapporti
conflittuali all'interno delle professioni e tra settori professionali,
settori occupazionali affini e clienti; hanno messo in rilievo le
dimensioni strategiche delle associazioni professionali e hanno
studiato infine le tensioni intrinseche tra le categorie professionali
e il resto della comunità. Smelser (v., 1973) critica i precedenti
studi sull'istruzione superiore in quanto hanno trascurato di
considerare l'importanza del conflitto e dei gruppi di interesse sulla
formazione e sull'attività di questa organizzazione professionale
prototipica, ponendo successivamente rimedio a tale carenza con
un'analisi di stampo tocquevilliano sui ceti accademici (v. Smelser,
1974). Studi analoghi hanno messo in luce come le categorie
professionali spesso si mobilitino in difesa dei propri interessi
particolari per impedire l'attuazione di riforme mirate a fornire un
servizio più efficace ed equo ai clienti.
La ricerca neofunzionalista corregge inoltre la tendenza di Parsons a
non distinguere tra modelli concettuali e strutture da un lato e
processi empirici dall'altro. Gli studi sulle categorie professionali
dei medici, degli avvocati, degli scienziati e degli accademici, nonché
delle professioni legate all'assistenza al pubblico, documentano un
numero considerevole di casi in cui le categorie professionali non sono
riuscite a far fronte alle loro responsabilità fiduciarie, e mettono in
discussione l'efficacia delle procedure di autoregolamentazione, sia i
meccanismi informali di controllo sia quelli più formali (v. Barber,
1983). Barber (v., 1979) mette in luce le disfunzioni della
collegialità e osserva che quando nelle ricerche biomediche vengono
impiegati soggetti umani, i medici spesso non si preoccupano di
ottenere quel consenso basato sull'informazione che è essenziale alla
relazione professionista-cliente. In altre parole, la collegialità
viene spesso usata come strumento di particolarismo e di
discriminazione contro coloro che si trovano in posizione svantaggiata.
Barber afferma anzi che, data l'eccessiva importanza attribuita dai
parsonsiani all'esigenza funzionale di strutture professionali
centralistiche, il funzionalismo ortodosso spesso è servito come
giustificazione ideologica alle pretese di autorità assoluta e di
autonomia illimitata della categoria medica.
Più in generale, il postulato su cui si basa la rielaborazione
concettuale della problematica delle professioni operata da Barber (v.,
1983; v. Alexander, 1990) è che l'organizzazione sociale contemporanea
si modella in base alle antinomie fondamentali - fede e critica,
fiducia e sfiducia, elitarismo ed egualitarismo. Nelle società in cui
all'egualitarismo viene attribuito un grande valore e il livello di
istruzione dei cittadini è relativamente elevato, le pretese di
autorità professionale basate su una conoscenza esoterica e altamente
sistematizzata provocano un certo grado di sfiducia razionale. Tale
sfiducia induce alcuni settori dell'opinione pubblica a richiedere che
le forme di autoregolamentazione delle associazioni professionali
vengano integrate con altri meccanismi di controllo statale ed esterno.
d) Sociologia politica
I neofunzionalisti che si sono dedicati allo studio della sociologia
politica hanno assunto una posizione critica nei confronti della
tendenza di Parsons a non distinguere le analisi formali del sistema
politico e gli scambi tra i suoi sottosistemi dai processi empirici.
Essi hanno criticato la concezione parsonsiana della democrazia come
risultato di una evoluzione secolare, opponendovi una serie di analisi
storiche e comparative di un'ampia gamma di strutture e movimenti
politici. Champagne (v., 1992) è autore di un approfondito studio sulla
diseguale transizione alla democrazia in quattro società degli Indiani
d'America.
Sebbene i rapporti geopolitici con gli Stati Uniti e l'integrazione nel
sistema economico mondiale abbiano condizionato la capacità di queste
società di istituzionalizzare la democrazia, Champagne ha scoperto che
ancor più l'ha condizionata il grado di differenziazione raggiunto da
determinati ordinamenti politici indiani rispetto ai sistemi clanici di
tipo territoriale o religioso. Una notevole differenziazione consentiva
di associare un alto grado di solidarietà alla tolleranza del
conflitto, incoraggiando la creazione di istituzioni politiche
specializzate e la nascita di una nazionalità politica. Gli
orientamenti culturali rivestivano anch'essi un'importanza cruciale
nella creazione di stabili sistemi politici democratici in queste
società. Champagne rileva l'impronta attivistica del protestantesimo, i
prototipi ideologici incorporati nella Costituzione degli Stati Uniti e
nel suo governo federale, nonché le attività di 'imprenditori' politici
e culturali, in particolare dei missionari cristiani nati da matrimoni
misti.
Muovendosi in una direzione analoga Prager (v., 1986) afferma che le
moderne istituzioni democratiche richiedono una salda infrastruttura
simbolica e solidaristica, e sostiene che convincenti accordi sociali e
strutture di significato costituiscono le sue componenti essenziali.
Analizzando il passaggio verificatosi in Irlanda da una struttura
politica e culturale di tipo 'segmentato verticale' a una società che
nel 1932 era riuscita a istituire una base di sostegno comune per un
governo democratico, Prager esamina il modo in cui l'attività simbolica
e di legittimazione delle élites politiche irlandesi ha dato luogo a
una sfera pubblica più differenziata, in grado di creare le intese
comuni essenziali a una democrazia moderna.
I neofunzionalisti hanno criticato Parsons per il suo ottimismo nei
confronti del funzionamento delle strutture democratiche una volta
istituzionalizzate, e più in generale della stabilità degli ordinamenti
sociali moderni. Sciulli (v., 1992) oppone a questa posizione la
convinzione che la vita moderna sia caratterizzata da una incessante
pressione verso la razionalizzazione strumentale e l'autoritarismo
burocratico, soprattutto nelle sfere materiali dell'economia e delle
istituzioni politiche. Questa tendenza al potere arbitrario può essere
evitata, secondo Sciulli, solo da una sempre maggiore differenziazione
e istituzionalizzazione delle formazioni collegiali e dei vincoli
procedurali. Il concetto di costituzionalismo sociale di Sciulli
rappresenta una sintesi tra la nozione di legalità procedurale
elaborata da Fuller e l'analisi dell'organizzazione fondata sulla
collegialità di Parsons, e fornisce un criterio per distinguere
un'autentica integrazione sociale dall'ordine sociale stabilito
attraverso il dominio burocratico. Con la sua 'teoria critica non
marxista' Sciulli intende incoraggiare le attività che accrescono
l'autonomia delle formazioni fondate sulla collegialità e i vincoli
procedurali.
e) Sociologia femminista
Il femminismo neofunzionalista ha modificato in modo radicale il
modello differenziato della famiglia nucleare delineato da Parsons,
sottoponendo a una riconsiderazione critica anche il suo tentativo di
formulare una teoria della socializzazione che combini tale approccio
strutturale con un'analisi psicanalitica dello sviluppo della
personalità. Piuttosto che mettere l'accento, come aveva fatto Parsons,
sulla compenetrazione e il mutuo sostegno che caratterizzano il
complesso di ruolo marito/padre e quello moglie/madre, il femminismo
neofunzionalista sostiene che mentre i ruoli di marito e di padre
possono compenetrarsi in modo positivo, ciò non è assolutamente vero
per il complesso di status moglie/madre. Laddove infatti il ruolo della
madre comporta la cura e l'educazione di esseri in condizioni di
dipendenza, nel ruolo di moglie la donna è costretta a definire se
stessa in rapporto al marito secondo modelli di predominio maschile (v.
Johnson, 1988). Mentre l'attenzione di Parsons si incentrava sulle
differenze di potere tra genitori e figli, questa prospettiva
alternativa indica la necessità di prendere in considerazione anche le
differenze di potere tra i coniugi.Anche la distinzione tra
strumentalità ed espressività è stata rielaborata. Partendo dal
presupposto che questi due concetti designano dimensioni separate, la
Johnson sostiene che l'orientamento strumentale è indice di un
interesse verso scopi esterni al sistema interattivo, realizzati
tipicamente attraverso la manipolazione di oggetti, dell'ambiente e di
altre persone; l'orientamento espressivo, invece, attribuisce
importanza preminente alla facilitazione dell'interazione stessa e
richiede il controllo delle tensioni nonché la capacità di comprendere
e fronteggiare le emozioni in se stessi e negli altri. La Johnson e le
sue colleghe sostengono che, mentre l'orientamento strumentale è
presente nelle donne non meno che negli uomini, l'orientamento
espressivo è in misura assai maggiore parte integrante del ruolo
femminile. Basandosi su una vasta serie di ricerche transculturali, le
studiose femministe illustrano in che modo questo orientamento più
espressivo, che sarebbe la fonte delle qualità espressive comuni ai due
sessi, si trasmetta attraverso la maternità. Il distacco dei figli
maschi dalle madri, che avviene nella fase successiva al periodo di
latenza, significa quindi anche un distacco dalla propria componente
espressiva.
Secondo la tesi della Johnson, la famiglia nucleare non solo formerebbe
persone in grado di assumere ruoli adulti in una società complessa e
differenziata, ma sarebbe anche il luogo in cui si produce e si
riproduce il predominio maschile. Questi ultimi processi possono essere
spiegati, secondo la Johnson, coniugando un modello modificato della
famiglia - un modello che metta l'accento sulle differenze di potere
tra il marito/padre e la moglie/madre e operi una distinzione tra il
ruolo di moglie e quello di madre - con un approccio femminista ai
processi psicodinamici. Questa posizione inoltre mette in luce il
divario che sussisterebbe tra l'ideologia liberale e le realtà
contemporanee. Nelle società moderne, valori liberali quali
l'individualismo, l'eguaglianza e l'integrazione sarebbero stati
interpretati in modo patriarcale e sessista. Una definizione
autenticamente universalistica di tali valori, secondo la Johnson,
dovrebbe mettere in discussione il ruolo di moglie che concretizzerebbe
lo status subordinato della donna e suggerirebbe di abbandonare
l'eterosessualità tradizionale che favorisce la sottomissione
femminile. Sul piano pratico, un liberalismo realmente universale
dovrebbe propugnare matrimoni senza 'mogli', una tendenza sociale in
grado di ridurre il predominio maschile e di accrescere l'importanza
del ruolo educativo dei padri.
7. Conclusione
Progetto estremamente ambizioso, il funzionalismo è stato il paradigma
preminente della disciplina sociologica per oltre due decenni. Sebbene
l'influenza esercitata dal funzionalismo si possa far risalire in parte
a motivi di ordine politico, sociale e culturale, la sua egemonia
nell'ambito della disciplina non può essere spiegata solo ed
esclusivamente sulla base di motivi ideologici, come alcuni critici
sono soliti fare. Il funzionalismo si è potuto affermare anche perché
costituiva una teoria estremamente lucida che ha dato luogo a una
fertile tradizione sociologica. Associando a una stimolante teoria
generale una serie di acute affermazioni a medio raggio e di
approfonditi programmi di ricerca, questa tradizione ha dominato la
sociologia degli anni cinquanta in virtù dei contributi di grande
interesse, a volte illuminanti, che ha fornito nel campo della scienza
sociale.Tuttavia, contrariamente a quanto sostengono i suoi più
ferventi difensori, il declino del funzionalismo non è legato solo a
fraintendimenti ideologici e a una incapacità dei critici di
comprendere la complessità delle sue elaborazioni teoriche. Senza
dubbio i fraintendimenti e i radicali cambiamenti di prospettiva e di
orientamento ideologico verificatisi nella disciplina hanno avuto un
ruolo preminente nel dibattito del secondo dopoguerra, ma questi
elementi da soli non sono sufficienti a spiegare il declino del
funzionalismo. Il discredito del funzionalismo ortodosso è nato anche
per le sue oggettive carenze sul piano sia della teoria che della
ricerca empirica, individuate correttamente dai critici e dagli
avversari della scuola.
Il funzionalismo tuttavia non è scomparso; in questa rassegna abbiamo
cercato di illustrare in che modo i neofunzionalisti hanno ricostruito
e riveduto criticamente la tradizione ortodossa. Rispetto al
funzionalismo nella sua prima versione nonché alle critiche che gli
sono state mosse dall'esterno, si può affermare che il neofunzionalismo
ha fatto progressi significativi sia al livello della teoria generale
che al livello dei programmi di ricerca. In reazione alle critiche che
minacciavano di demolirlo completamente, il neofunzionalismo ha
prodotto una vasta gamma di studi e di ricerche che hanno tenuto conto
dei rilievi critici pur conservando la continuità con il nucleo
essenziale della tradizione funzionalista.
Osservando che tutte le tradizioni durevoli producono due o più
indirizzi rivali, abbiamo rilevato come Parsons e Merton abbiano
elaborato versioni differenti del funzionalismo. La nostra analisi
tuttavia non ha sollevato esplicitamente la questione degli indirizzi
rivali; essa, di fatto, si applica principalmente alla corrente
neofunzionalista sviluppatasi negli Stati Uniti, che è fondamentalmente
ricostruttiva e postparsonsiana. Esiste peraltro un altro filone
neofunzionalista che, sebbene ampiamente coerente col primo, è
attestato su posizioni diverse, soprattutto al livello della teoria
generale. Molti neofunzionalisti americani, ad esempio, associano ai
modelli sistemici le nozioni di volontarismo e di contingenza,
analizzano il modo in cui gli attori come singoli o come collettività
riproducono e modificano il proprio ambiente, e conducono dettagliati
studi storici e comparativi sul cambiamento sociale al fine di
individuare le condizioni e gli agenti responsabili di tale
cambiamento. Il ramo tedesco del neofunzionalismo invece propone un
approccio sistemico più ortodosso; esso continua a impiegare le
metafore e i modelli organicistici convenzionali, descrive il
cambiamento in termini di tendenze globali dirompenti e spiega le
trasformazioni sociali facendo ricorso a principî evoluzionistici
altamente generalizzati. La scuola tedesca inoltre è sempre più chiusa
in se stessa. L'analisi della compenetrazione condotta da Münch, ad
esempio, è più una reazione critica alla descrizione dei sistemi
autonomi e autoreferenziali di Luhmann che non una risposta
all'indirizzo di ricerca americano. Un interrogativo stimolante sul
futuro del movimento funzionalista è se queste distinte correnti
continueranno a percorrere strade divergenti o se avvieranno quanto
prima un costruttivo dibattito interno.
Lo sviluppo di una tradizione non può essere valutato solo sulla base
di criteri interni e il suo dialogo non può restare circoscritto agli
esponenti dei suoi diversi indirizzi. Occorre istituire un confronto
anche con scuole rivali. I critici del neofunzionalismo reagiscono già
sollevando nuove obiezioni: alcuni cercheranno di ignorare i
cambiamenti di vasta portata attuati dal neofunzionalismo (v. Bourdieu
e Wacquant, 1992), altri riconosceranno le sostanziali trasformazioni
che si sono verificate e formuleranno critiche di diversa natura (v.
Hilbert, 1992). Il futuro di questa scuola dipende in larga misura
dalla capacità dei suoi esponenti di replicare in modo convincente a
questa nuova ondata di obiezioni. Il futuro del 'funzionalismo' è
legato all'esito di questo scambio di critiche e di risposte, oltreché,
ovviamente, al lavoro teorico sostenuto dalla ricerca empirica che i
neofunzionalisti saranno in grado di produrre.