Funzionalismo


di Jeffrey C. Alexander, Paul Colomy e Marion J. Levy jr.


Sommario: 1. Introduzione. 2. La teoria generale del funzionalismo. 3. I programmi di ricerca del funzionalismo: a) sociologia culturale; b) mutamento sociale; c) professioni; d) sociologia politica; e) famiglia, personalità e socializzazione. 4. Discredito del funzionalismo e nascita del neofunzionalismo. 5. La teoria generale del neofunzionalismo. 6. I programmi di ricerca del neofunzionalismo: a) studi sulla cultura; b) mutamento sociale; c) professioni; d) sociologia politica; e) sociologia femminista. 7. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Ogni seria rassegna sul funzionalismo comincia col rimarcare la disparità di vedute, i dissensi e le ambiguità che circondano il termine. Ciò nonostante - così almeno si sostiene - l'essenza del funzionalismo è chiara: esso consisterebbe in un determinato insieme di assunti, un'ideologia implicita, un modello distintivo, un'analogia organicistica, un principio metodologico unico, un protocollo esplicativo nonché spesso - si afferma - in insiemi di enunciati e di ipotesi. Le analisi di questi cosiddetti elementi distintivi, sebbene spesso incisive e utili sul piano informativo, sono anche decisamente fuorvianti se è il 'funzionalismo' ciò che si cerca di definire. Il funzionalismo infatti è una tradizione, e una tradizione non può mai essere ridotta a un singolo elemento, e nemmeno a una precisa correlazione tra differenti elementi. Le tradizioni, invece, si compongono di insiemi di scelte intellettuali effettuate a livelli di analisi diversi, che vanno da elementi di ordine astratto, generale e metafisico a elementi di ordine concreto, fattuale ed empirico (v. Alexander, 1982-1983, vol. I). Tra questi due estremi sono compresi altri elementi del discorso sociologico: ideologie, modelli, concetti, leggi, proposizioni, assunti metodologici ed enunciati osservativi. Il funzionalismo, di conseguenza, va inteso come una tradizione determinatasi storicamente, definita dalle peculiari scelte teoriche compiute a ciascun livello e dalle connessioni stabilite tra i diversi livelli.

Una trattazione esaustiva del funzionalismo, come di qualunque altra tradizione sociologica, richiederebbe un'analisi dettagliata e forse noiosa di ciascuno dei livelli menzionati; sembra perciò opportuno, a fini semplificativi, introdurre una distinzione tra due componenti predominanti. Parleremo allora di 'teoria generale' riferendoci ai fondamenti metodologici di una tradizione, agli assunti di base, alle scelte o alle implicazioni ideologiche nonché ai modelli generali elaborati per descrivere e spiegare i processi e i sistemi sociali. La seconda componente di una tradizione è data dai 'programmi di ricerca', nel cui contesto le questioni teoriche di ordine generale vengono assunte come relativamente a-problematiche. Questo tipo di indagine scientifica si propone di spiegare o interpretare strutture e processi empirici specifici. Un'adeguata esposizione del funzionalismo deve quindi descrivere i contenuti della sua teoria generale e dei suoi programmi di ricerca, nonché le connessioni tra questi due livelli.

La pluralità di livelli che caratterizza le tradizioni scientifiche che si sono formate in ambito sociologico non può render conto da sola delle disparità di vedute, delle ambiguità e dei dissensi che hanno sempre contraddistinto i dibattiti sul funzionalismo. Due ulteriori considerazioni sono determinanti in proposito. In primo luogo occorre tener presente che le tradizioni (o scuole di pensiero) non si sviluppano isolatamente. I conflitti e la competizione tra diverse tradizioni (e all'interno di una stessa tradizione) rappresentano di fatto un fattore dinamico fondamentale nelle scienze sociali. Un criterio basilare - anche se relativistico - per valutare il 'progresso' di una scuola è fornito dai rapporti che si stabiliscono tra tradizioni diverse e dai tratti distintivi all'interno di una data tradizione. Di conseguenza, anziché parlare del progresso empirico o teorico del funzionalismo in sé e per sé, occorre confrontare i risultati che ha ottenuto con quelli di altri approcci o di precedenti versioni dell'approccio funzionalista stesso.

In secondo luogo, all'interno di ogni tradizione che sopravvive per più di una generazione, si rinvengono correnti in contrasto le une con le altre su temi sociologici di grande importanza, nonostante l'accordo su molti aspetti essenziali e la proclamata fedeltà ai medesimi padri fondatori. E quindi le diverse concezioni relative alla teoria generale e/o ai programmi di ricerca di una determinata scuola scaturiscono non solo da tradizioni, ma anche da correnti rivali all'interno di una stessa tradizione.

Tale contrasto esterno e interno costringe le tradizioni a un continuo processo di revisione. Una scuola vitale deve far fronte in modo soddisfacente alle critiche sollevate dagli esponenti di tradizioni rivali, alle diversità concettuali e/o empiriche che dividono le sue correnti interne, nonché all'emergere di nuovi problemi sul piano della teoria generale e dei programmi di ricerca, determinati dai mutamenti di sensibilità nell'ambito della disciplina, che sono frutto, a loro volta, delle trasformazioni verificatesi nella realtà sociale e globale.

Rispondere in modo convincente a queste obiezioni ricorrenti è un compito assai arduo. Ogni scuola di pensiero destinata a perdurare nel tempo sperimenta periodi di crisi; le altre si esauriscono sul nascere. Per sopravvivere le tradizioni devono cambiare, e quelle che perdurano devono essere sottoposte a un processo di sostanziale revisione e ricostruzione.

Considerando la tradizione funzionalista in questa prospettiva, si può affermare che essa ha attraversato tre fasi. La prima ebbe inizio con il tentativo di Parsons di sintetizzare in un nuovo quadro di riferimento elementi tratti da vari classici della disciplina e con i successivi sforzi volti a elaborare sia sul piano concettuale che su quello empirico le sue tesi, che hanno costituito la base teorica su cui si è fondata la tradizione funzionalista. Nella seconda fase, che va grosso modo dalla fine degli anni sessanta a tutti gli anni settanta, i mutamenti di sensibilità nell'ambito della disciplina, determinati dai movimenti politici e sociali di contestazione, nonché dalla trasformazione del più ampio contesto culturale delle società occidentali, delegittimarono le modalità di elaborazione teorica e di ricerca empirica proprie del funzionalismo. A seguito di questi sviluppi la tradizione funzionalista sembrò quasi scomparire. L'attuale terza fase, ancora in evoluzione, è contrassegnata da una diffusa propensione verso una teorizzazione di tipo sintetico (v. Alexander, The new..., 1988), da un contesto sociopolitico caratterizzato dal pressoché unanime rifiuto dei regimi repressivi sia di destra che di sinistra e da un clima culturale decisamente meno relativistico e meno favorevole alle ideologie anticapitaliste e antimoderniste di tipo sia marxista che poststrutturalista. Questi nuovi sviluppi determinano vistose trasformazioni all'interno della disciplina e hanno indotto i sociologi a porsi problemi di nuovo genere. Di riflesso la tradizione funzionalista è entrata in una fase di ricostruzione e di esplicita revisione; il neofunzionalismo è il risultato di tale processo.

2. La teoria generale del funzionalismo

Molti classici della sociologia, tra i quali Herbert Spencer, Émile Durkheim, Bronislaw Malinowski e Alfred R. Radcliffe-Brown, hanno fornito importanti contributi al funzionalismo. È stato Talcott Parsons, tuttavia, ad affermarsi nell'epoca attuale come leader carismatico di questa scuola sociologica, e di conseguenza è stata la versione parsonsiana del funzionalismo a definire - nel bene e nel male - la tradizione cui si fa attualmente riferimento. Parsons ha effettuato una quantità di studi empirici assai penetranti, e tuttavia sono stati i suoi sforzi di costruire un modello teorico generale a dimostrarsi i più validi e duraturi; egli ha formulato un complesso di tesi che contribuisce a conferire al funzionalismo i connotati di una tradizione sociologica ben definita.

Un aspetto cruciale del pensiero di Parsons è la presa di posizione a favore dell'indipendenza dell'elaborazione teorica e concettuale rispetto ad altri livelli dell'analisi sociologica. In una delle sue prime opere Parsons (v., 1937) mise in discussione le correnti dominanti dell'empirismo e del positivismo sostenendo che è impossibile formulare ipotesi e ordinare i dati empirici in assenza di un contesto teorico che stabilisca criteri di rilevanza e plausibilità. Il lavoro di tipo empirico, secondo Parsons, è sempre effettuato nell'ambito di un contesto più generale di assunti relativi alla natura della realtà sociale. Un quadro di riferimento generale è indispensabile per lo sviluppo della conoscenza nelle scienze sociali; dato il suo alto grado di astrazione, inoltre, tale quadro di riferimento va valutato in base a criteri diversi dalla semplice verifica o confutazione empirica. Parsons e i suoi colleghi non si limitarono a fornire uno schema analitico appropriato alla teoria generale; nei suoi momenti migliori il funzionalismo sociologico ha prodotto un'euristica in grado di superare le antinomie insite nelle precedenti teorie. In risposta alle debolezze concettuali ed empiriche dell'utilitarismo, del positivismo e dell'idealismo, Parsons (v., 1937) delineò una teoria volontaristica dell'azione, incentrata su vari elementi analitici: fini, mezzi, condizioni, norme e sforzo. I rudimenti della strategia analitica parsonsiana sono già evidenti in questa opera innovativa tesa a chiarire concetti chiave a un alto livello di astrazione, a specificare le complesse relazioni tra le varie componenti dello schema concettuale e a costruire un modello generale in grado di superare le presunte inconciliabilità tra scuole di pensiero in conflitto tra loro. Rispetto ai classici delle scienze sociali, Parsons e i suoi allievi affermavano che esiste una sostanziale continuità tra il pensiero di Durkheim, di Weber e di Freud e il funzionalismo contemporaneo. Tra questi classici della sociologia non potevano sussistere contrasti di fondo, né potevano esservi contraddizioni insanabili tra le loro teorie e quella di Parsons (v. Parsons e altri, 1961).

Sul piano dei presupposti la teoria di Parsons aspirava a una posizione multidimensionale, sebbene non sempre sia riuscita a soddisfare tale requisito (v. Alexander, 1982-1983, voll. I e IV). Per quanto riguarda il problema dell'ordine Parsons elaborò una teoria del volontarismo condizionale, che combinava un'analisi delle caratteristiche più rilevanti e irriducibili dell'organizzazione sociale con il riconoscimento delle contingenze associate all'azione individuale e collettiva. Il suo approccio mirava a fornire un'analisi delle strutture sociali che, a livello teorico, non annullasse la soggettività e la libertà individuali. Parsons cercò di mettere a punto una definizione sintetica dell'azione sociale. In contrasto con la posizione più riduzionistica di Marx, il quale poneva l'accento sul calcolo strumentale, e con l'importanza parimenti unilaterale che Durkheim attribuiva agli aspetti normativi e affettivi del comportamento, il sociologo americano propose una sintesi che metteva in evidenza gli aspetti sia razionali che irrazionali dell'agire. L'approccio parsonsiano si incentrava tanto sulla dimensione espressiva e i fini dell'azione quanto sulla dimensione pragmatica e i mezzi, e prestava particolare attenzione al modo in cui i fini riescono a regolare e a definire i mezzi.

Per quanto riguarda l'ideologia Parsons e altri funzionalisti sostenevano che è indispensabile mantenere il lavoro sociologico nettamente separato dalle convinzioni ideologiche. Rielaborando le classiche tesi di Weber, i funzionalisti asserivano che una valida scienza sociale deve rispettare la distinzione fondamentale tra avalutatività (Wertfreiheit) e riferimento ai valori. L'avalutatività presuppone un complesso differenziato e istituzionalizzato di valori propri della scienza sociale che emancipano quest'ultima dalle potenziali restrizioni e distorsioni imposte da altri sistemi di valori. Una caratteristica fondamentale del sistema di valori proprio della scienza sociale è l'elaborazione di schemi di verifica universali e astratti impiegati per controllare la validità delle teorie e delle analisi empiriche sociologiche. Sebbene considerazioni di valore possano indirizzare l'attenzione dello studioso verso determinati problemi o esperienze, il lavoro sociologico in ultima istanza deve mirare a elaborare schemi universali ed essere valutato in termini di tali schemi (v. Lidz, 1981). Su un piano più concreto i sostenitori dell'indirizzo parsonsiano affermavano che il fatto che vi fossero esponenti del funzionalismo dei più disparati orientamenti politici dimostrava che le convinzioni ideologiche individuali erano indipendenti dall'adesione al funzionalismo.

Parsons (v., 1951) presentò la società come un sistema intellegibile, composto di elementi le cui interrelazioni formano una struttura che si distingue nettamente dall'ambiente circostante. Egli rigettò il determinismo monocausale del marxismo e altri approcci che attribuiscono a un unico elemento della società la capacità di determinare tutti i fenomeni sociali, in favore di una concezione dei rapporti tra le componenti del sistema più pluralistica e aperta sul piano analitico. Il modello parsonsiano, inoltre, opera una distinzione tra cultura, società e personalità, integrando l'analisi dei sistemi sociali o istituzionali con un esame dei sistemi relativamente autonomi della cultura e della personalità. Una particolare attenzione viene dedicata a meccanismi quali il processo di istituzionalizzazione e l'introiezione di valori istituzionalizzati nella personalità (attraverso l'interiorizzazione e la socializzazione). I funzionalisti sostenevano tuttavia che le tensioni create da tale compenetrazione di sistemi autonomi rappresentano una fonte incessante di mutamento e di conflitto.Nelle sue parti più valide la teoria parsonsiana dei sistemi sociali considera l'integrazione come una possibilità e la devianza e i processi di controllo sociale come fatti, introducendo la nozione di equilibrio non come una descrizione empirica di sistemi concreti o degli elementi che li compongono, bensì come un concetto analitico in base al quale analizzarli. Parsons in effetti utilizza svariati modelli di equilibrio: quello omeostatico, autoregolativo; quello dinamico, per descrivere strutture evolutive di crescita e mutamento; e infine un modello di equilibrio parziale analogo a quello impiegato da Keynes per descrivere le tensioni sistemiche nelle economie capitalistiche (v. Bailey, 1984).

In collaborazione con altri studiosi (v. Parsons e Shils, 1951; v. Parsons e altri, 1953; v. Parsons e Smelser, 1956) Parsons ha descritto i valori centrali della modernità in termini di alternative di scelta tra variabili strutturali o variabili modello (pattern variables) - affettività/neutralità affettiva, diffusività/specificità, universalismo/particolarismo, acquisizione/ascrizione, sé/collettività - utilizzandole come parametri concettuali per analizzare modelli culturali, requisiti di ruolo e orientamenti della personalità. Parsons e i suoi collaboratori proposero inoltre un modello che assimila la società a un ente preposto alla soluzione dei cosiddetti problemi funzionali e cioè: adattamento (creazione e distribuzione di strutture nel sistema), raggiungimento degli scopi (definizione degli obiettivi e mobilitazione delle risorse per raggiungerli), integrazione (organizzazione dei rapporti tra le unità del sistema), latenza (motivazione degli attori e controllo delle tensioni e dei conflitti). Questo modello venne usato per descrivere sistemi e sottosistemi sociali apparentemente orientati a soddisfare prerequisiti essenziali. Generalizzando la logica che sta alla base di tale paradigma, Parsons (v., 1971) postulò un sistema d'azione generale costituito da quattro sottosistemi: culturale, sociale, della personalità e dell'organismo biologico (quest'ultimo ridefinito in seguito come sistema comportamentale). Una gerarchia cibernetica di controllo 'regola' le interrelazioni tra questi sistemi: il sistema culturale è in cima alla gerarchia dei controlli relativi all'informazione, e il sistema comportamentale costituisce la fonte ultima di risorse energetiche. I rapporti di interscambio tra i sistemi d'azione e al loro interno avvengono attraverso i mezzi di scambio generalizzati - denaro, potere, influenza e adesione ai valori.

Lo schema teorico elaborato da Parsons e dai suoi collaboratori costituì il fulcro della corrente dominante del funzionalismo negli anni del secondo dopoguerra. Tuttavia quello di Parsons non fu il solo tipo di funzionalismo che si affermò in tale periodo. Rifacendosi a molti dei classici ai quali si era ispirato Parsons nonché a Parsons stesso, dal quale fu profondamente influenzato, Robert K. Merton elaborò un diverso indirizzo della tradizione funzionalista, che si distingueva dall'approccio parsonsiano sotto tre aspetti fondamentali. In primo luogo, rilevando la scarsità di risorse a disposizione della ricerca sociologica, Merton (v., 1968³, pp. 39-72) mise in discussione l'opportunità di dedicarsi esclusivamente alla definizione di uno schema concettuale generale. Secondo Merton sarebbe stato più proficuo impiegare tali scarse risorse per elaborare teorie a medio raggio su strutture e processi empirici più circoscritti. I sociologi avrebbero fatto meglio a sviluppare teorie - programmi di ricerca nel nostro senso - su fenomeni specifici quali i gruppi di riferimento, la socializzazione professionale o la devianza, piuttosto che cercare di elaborare un unico schema astratto applicabile a ogni ambito concreto.

Merton (ibid., pp. 73-138) presentava il funzionalismo come una sorta di supermetodo. Partendo dal principio metodologico fondamentale secondo il quale i dati devono essere analizzati individuando gli effetti che producono sulle strutture più ampie di cui fanno parte, Merton propose un protocollo dell'analisi funzionale che richiede: una esatta descrizione dei sistemi sociali oggetto dell'analisi; una spiegazione del contesto sociale in cui si presenta il sistema in questione; un elenco delle alternative strutturali che possono fungere da equivalenti funzionali; una valutazione del/dei significato/i del sistema per coloro che ne fanno parte e delle motivazioni che li spingono alla conformità o alla devianza; un'analisi delle funzioni manifeste e latenti del sistema; infine il calcolo di un bilancio netto di funzioni e disfunzioni del sistema stesso.

Merton sosteneva inoltre che la logica del metodo funzionalista era intrinseca alle scienze sociali, tesi che Kingsley Davis (v., 1959, p. 757) riprese in forma più polemica rifiutando "il falso assunto che esista un metodo o una teoria speciale, quello della 'analisi funzionale', che si possa distinguere da altri metodi o teorie della sociologia e dell'antropologia sociale". In altre parole, a nostro parere, l'importanza attribuita da Merton al metodo e al protocollo di ricerca smentiva l'idea del funzionalismo come tradizione particolare.

Più vicini al marxismo e ad altri approcci incentrati sulla nozione di conflitto, Merton e i suoi allievi diedero al funzionalismo un'impronta di sinistra, criticando Parsons per aver sopravvalutato l'importanza del consenso sui valori, della stabilità e dell'equilibrio; essi cercarono di correggere tale errore dando rilievo ai conflitti e alle tensioni che pervadono le società contemporanee. Merton (v., 1976) analizzò quindi le aspettative contraddittorie, o ciò che in seguito definì 'ambivalenza sociologica', Gross e altri (v., 1958) e Goode (v., 1960) esaminarono il conflitto e la tensione di ruolo, Gouldner (v., 1954) studiò il fenomeno dello sciopero selvaggio e Coser (v., 1956 e 1967) delineò una teoria funzionalistica del conflitto.

Le differenze tra la teoria generale di Merton e quella di Parsons sono rilevanti e diedero origine a stili diversi di elaborazione teorica e di ricerca empirica. Tuttavia le convergenze tra le due posizioni sono ancora più significative delle divergenze, e per questo motivo sarebbe più giusto parlare di indirizzi diversi all'interno di una stessa scuola che non di tradizioni antagonistiche.

Naturalmente si possono individuare punti di contatto anche tra il funzionalismo e le scuole rivali. Sussistono ad esempio notevoli parallelismi tra la concezione dei sistemi sociali di Parsons e quella marxiana: ambedue le concezioni definiscono le società come totalità distinte e irriducibili composte di elementi interdipendenti e sostengono che le società contemporanee - 'moderne' per Parsons, 'capitalistiche' per Marx - devono soddisfare determinati prerequisiti per conservarsi. Le affinità tra il funzionalismo di Parsons e il neomarxismo contemporaneo, peraltro, sono assai più il frutto di un'appropriazione diretta che non di un'elaborazione autonoma. Jurgen Habermas (v., 1981) ha ripreso e rielaborato parecchi elementi della teoria parsonsiana, come ad esempio le nozioni di sistema, sottosistema, complessi motivazionali, meccanismi di controllo e razionalità cognitiva. I punti di contatto tra il funzionalismo di Parsons e questi paradigmi rivali, tuttavia, a differenza di quelli tra Parsons e Merton, si rinvengono nell'ambito di un discorso caratterizzato da posizioni radicalmente diverse ad altri livelli. Inserita in contesti intellettuali tanto diversi, anche la comune adesione al modello sistemico dà luogo a risultati radicalmente divergenti: Marx e Habermas propongono, almeno in ultima istanza, una concezione riduzionistica dei sistemi sociali che attribuisce preminenza analitica al sottosistema economico, mentre Parsons adotta un approccio più pluralistico alle interrelazioni tra le diverse componenti del sistema.

Si potrebbero riconsiderare infine i rapporti tra l'antropologia classica e la teoria generale di Merton e di Parsons. Alcuni studiosi (v. ad esempio Cohen, 1968) sostengono esplicitamente o implicitamente che sussiste una sostanziale continuità tra il funzionalismo sociologico e le prime ricerche antropologiche, in particolare quelle di Malinowski e di Radcliffe-Brown, come sarebbe almeno in parte dimostrato dai parallelismi riscontrabili tra l'approccio di Malinowski e il modello sistemico parsonsiano. L'identificazione operata da Malinowski (v., 1939 e 1944) tra i bisogni universali e le istituzioni create per soddisfarli anticiperebbe le successive teorizzazioni dei requisiti funzionali e dei sistemi sociali (v. Turner, 1991⁵). Malinowski descrive una serie di bisogni organici e le risposte culturali che questi suscitano. I bisogni elementari o biologici dell'individuo, come ad esempio la nutrizione, la riproduzione, lo svago e la crescita, verrebbero soddisfatti da attività organizzate quali i sistemi di approvvigionamento, le istituzioni del matrimonio e della famiglia, i sistemi di svago e di riposo, di addestramento e di tirocinio. La soddisfazione di tali necessità biologiche genera altri bisogni secondari o strumentali e un complesso corrispondente di risposte culturali. Il bisogno derivato di cooperazione e di controllo del conflitto, ad esempio, produce un sistema di controllo sociale, mentre il bisogno di ricostituire il gruppo con l'immissione di nuovi membri induce a creare un sistema educativo. Le esigenze simboliche e di integrazione danno origine a un terzo livello di bisogni i quali producono a loro volta le religioni, i cerimoniali e i sistemi filosofici. Numerosi suggerimenti metodologici integrano la teoria generale di Malinowski. Egli sostiene che "ogni usanza, ogni oggetto materiale, ogni idea e ogni credenza soddisfa determinate funzioni vitali", e afferma che certe pratiche come la magia assolvono una funzione indispensabile che non può essere svolta da nessun'altra pratica sociale o culturale (v. Malinowski, 1926, p. 132).

Sebbene Radcliffe-Brown (v., 1935, 1946 e 1949) riconosca che il concetto di funzione applicato alle società umane si fonda su un'analogia tra la vita sociale e quella organica, egli critica aspramente la tesi di Malinowski secondo cui la cultura deriva dai bisogni organici dell'individuo, affermando che il suo funzionalismo biologico non è in grado di spiegare la variazione sociale. Contrapponendo esplicitamente il proprio approccio a quello di Malinowski, Radcliffe-Brown propone un funzionalismo sociale mirato a spiegare le interconnessioni tra le strutture e i processi della vita sociale. Il suo schema si sviluppa lungo tre linee correlate: la classificazione delle strutture sociali, la descrizione del modo in cui esse operano e l'analisi della genesi di nuovi tipi di strutture sociali. Secondo Radcliffe-Brown la funzione di ogni attività ricorrente risiede nel contributo che essa fornisce al sistema sociale globale. Tale concezione della funzione presuppone come ipotesi di lavoro che tutte le parti della struttura sociale operino insieme con un grado minimo di coerenza interna. Radcliffe-Brown sottolinea tuttavia che solo un'indagine empirica può stabilire la natura e il livello di tale unità funzionale nelle singole società. Egli conia il concetto complementare di disunione funzionale per designare l'incoerenza interna di un sistema sociale e formula l'ipotesi che la 'disnomia sociale', come viene da lui definita, possa portare alla creazione di nuove strutture. Radcliffe-Brown rifiuta esplicitamente, in quanto asserzione dogmatica, la tesi secondo cui ogni attività ricorrente ha una funzione necessaria, rilevando anzi come la stessa usanza possa avere funzioni assai diverse quando viene praticata in due o più sistemi distinti.

Sebbene i punti di contatto tra le teorie di Malinowski e Radcliffe-Brown da un lato e il moderno funzionalismo dall'altro non siano trascurabili, ancora più significativa è però l'evoluzione verificatasi grazie a Parsons, Merton e altri esponenti del funzionalismo sociologico rispetto agli antropologi loro predecessori. Parsons (v., 1957), ad esempio, elogia la classificazione degli imperativi funzionali della cultura operata da Malinowski e la considera un valido punto di partenza per una teoria generale dei sistemi sociali. Ma subito dopo aver espresso questo giudizio positivo aggiunge che "questo notevole contributo resta come un frammento virtualmente isolato" nello schema concettuale di Malinowski (ibid., p. 66). Parsons ritiene manchevole la visione semplicistica dell'organismo umano di Malinowski, in quanto non opera alcuna distinzione tra il sistema fisiologico e quello della personalità, mentre il suo concetto di cultura eccessivamente ampio trascura le differenze cruciali che sussistono tra l'organizzazione sociale e i sistemi simbolici. Parsons critica inoltre il procedimento arbitrario con cui Malinowski collega la propria classificazione dei bisogni a determinate risposte culturali. Infine, in contrasto con la preminenza attribuita da Malinowski ai bisogni biologici, preculturali, Parsons mette l'accento sull'autonomia e la reciproca compenetrazione di tutti i livelli - quello della personalità, quello comportamentale, quello sociale e quello culturale - nell'azione del sistema sociale.

Merton distingue accuratamente la propria codificazione della metodologia funzionalista da quelle di Malinowski, di Radcliffe-Brown e di altri antropologi che non avevano introdotto le necessarie specificazioni e distinzioni nell'analisi funzionale. Secondo Merton, Malinowski e, in misura minore, Radcliffe-Brown accolgono in modo un po' superficiale la tesi discutibile dell'unità funzionale della società, secondo la quale i singoli elementi sociali e culturali sono funzionalmente importanti per l'intero sistema sociale o culturale. Malinowski inoltre postula un funzionalismo universale, in base al quale tutte le forme sociali o culturali standardizzate hanno funzioni positive. Un altro postulato di Malinowski è quello dell'indispensabilità funzionale, in base al quale determinate forme sociali o culturali sono insostituibili. Nella concezione alternativa proposta da Merton l'assunto dell'unità funzionale lascia il posto alla specificazione delle unità per le quali un dato elemento è funzionale. Egli riconosce inoltre che un elemento può avere conseguenze diverse per gli individui, per i sottogruppi e per il più ampio contesto sociale. Al postulato del funzionalismo universale Merton sostituisce, anche se in forma ipotetica, l'asserzione secondo la quale le forme culturali durature avrebbero un bilancio netto di conseguenze funzionali o per la società nella sua totalità o per sottogruppi sufficientemente potenti da preservarle. Infine Merton respinge il postulato dell'indispensabilità funzionale e avanza l'idea che la stessa funzione possa essere assolta da strutture o pratiche alternative.

3. I programmi di ricerca del funzionalismo

La teoria generale del funzionalismo ha ispirato una quantità di programmi di ricerca in quasi tutti gli ambiti di specializzazione della sociologia di metà secolo. Tale ricerca era guidata da una strategia di riconferma che prevedeva un unico schema concettuale generale in grado di ricollegare in un'unità strettamente coesa i singoli studi empirici. Questa strategia dimostrò un'efficacia raramente raggiunta nelle scienze sociali. Tra i programmi di ricerca meglio sviluppati si devono annoverare quelli sulla sociologia della cultura, sul mutamento sociale, sulle professioni, sulla sociologia politica, sulla famiglia, sulla socializzazione e sulla personalità.

a) Sociologia culturale

La tesi funzionalista secondo la quale l'azione sociale implica sempre un qualche referente culturale, nonché il principio più specifico che i valori rappresentano un aspetto fondamentale dei sistemi sociali, hanno dato luogo a una serie di studi su particolari sistemi di valori - ad esempio il sistema di valori americano o i differenti valori di varie subculture occupazionali ed etniche - nonché ad analisi comparative sugli orientamenti di valore in diverse società. Williams (v., 1970³) individuò diversi valori centrali della società statunitense contemporanea, tra i quali il successo, il lavoro, l'umanitarismo, l'efficienza e il senso pratico, il progresso, l'eguaglianza, la libertà, la razionalità, la democrazia e l'individualismo, mentre i ricercatori dello Harvard values study project hanno descritto gli orientamenti di valore di cinque culture nell'America sudoccidentale (v. Vogt e Albert, 1966).

Il tentativo dei funzionalisti di spiegare l'azione sociale facendo riferimento ai valori comuni raggiunse il suo apice in una serie di studi sul modo in cui nei sistemi sociali si formano i valori generali. Parsons e Platt (v., 1973) sostenevano che la razionalità è un valore altamente generalizzato nella società americana e che ciascun sottosistema (ad esempio quello politico o quello economico) dà una propria particolare interpretazione di tale valore. Sebbene queste specificazioni istituzionali della razionalità siano modellate in base alle esigenze specifiche di ciascun sottosistema, esse derivano però da un unico modello culturale generale. Di conseguenza, nonostante che i singoli sottosistemi definiscano i valori in modi diversi, tali disparate interpretazioni dello stesso modello culturale di solito non sono sostanzialmente in conflitto. Inoltre, poiché si assume che i sottosistemi si sostengano reciprocamente attraverso scambi complementari, la fonte più probabile di conflitto è rappresentata dalle inadeguatezze dello stesso sistema generale di valori.

I funzionalisti operano una distinzione tra norme e valori, sostenendo che questi ultimi forniscono le regole generali del pensiero e della condotta, mentre le norme forniscono prescrizioni e divieti più specifici. Sebbene dal punto di vista tecnico non siano una componente del sistema culturale, le norme hanno assunto spesso un'importanza cruciale nell'analisi delle dimensioni non razionali dell'azione e nella spiegazione del comportamento umano fornite dai funzionalisti. Di conseguenza lo studio dei complessi normativi, particolarmente nei contesti nei quali il modo in cui tali complessi operano non è di evidenza immediata, ha un posto di rilievo in questo programma di ricerca, come dimostrano l'analisi di Parsons degli aspetti normativi del ruolo del malato (v., 1951, pp. 428-479) e la discussione di Merton (v., 1973, pp. 267-278) sul sistema normativo su cui si fonda la scienza moderna.

I funzionalisti hanno analizzato inoltre il modo in cui norme e valori possono rappresentare una fonte di mutamento e di conflitto. Essi sostenevano che la capacità di cambiamento di una società è direttamente correlata alla sua dimensione assiologica, che le assicura un potere trascendente e regolativo rispetto ad altre dimensioni, di natura più materiale, della struttura sociale. Rifacendosi a Weber, Parsons (v., 1966) affermò che tra i momenti di cambiamento sociale più significativi vanno annoverate le radicali alterazioni dell'ordine normativo create dalle rivoluzioni religiose, in particolare dall'affermarsi delle religioni trascendenti nel corso del primo millennio a.C. e dalla assai più tarda frattura culturale legata alla Riforma protestante. Bellah (v., 1964) studiò il rapporto tra differenziazione culturale e mutamento sociale, esaminando le connessioni tra il livello della trascendenza religiosa e quelli delle riforme sociali, e individuò nella sua successiva analisi della religione civile le basi culturali per una critica e una trasformazione degli ordinamenti esistenti (v. Bellah, 1975).

A un livello meno generale e in uno spirito più laico i funzionalisti - soprattutto gli esponenti della corrente mertoniana - studiarono i conflitti normativi e le tensioni legate alle posizioni istituzionali e ai ruoli sociali. Merton (v., 1957) introdusse la nozione di 'complesso di ruolo' (role set) per descrivere l'insieme delle relazioni di ruolo dell'individuo che dipendono dal suo status, sottolineando la probabilità che i diversi attori del complesso di ruolo nutrano aspettative incompatibili per la condotta di ego, mentre Goode (v., 1960), nel suo classico studio sulle tensioni dovute al ruolo, sostiene che la complessità e il carattere estremamente impegnativo della moderna vita istituzionale rendono pressoché impossibile rispettare le norme associate a tutti i ruoli rivestiti dal singolo individuo.

b) Mutamento sociale

Il programma di ricerca funzionalistico sul mutamento sociale - sviluppato in parte in risposta alla critica secondo la quale il funzionalismo non era in grado di render conto né del mutamento né del conflitto - avanzava una serie di tesi interrelate. Postulato fondamentale di tale programma era che uno degli aspetti più significativi del moderno cambiamento sociale sul piano sia teorico che empirico è la tendenza alla differenziazione. Parsons aveva definito la differenziazione come la sostituzione di ruoli e istituzioni multifunzionali con unità più specializzate, e aveva descritto lo sviluppo di questa tendenza dalle società arcaiche a quelle primitive e intermedie, sino alle società moderne. I suoi allievi e collaboratori studiarono il processo di differenziazione in ambiti istituzionali specifici: le idee, le istituzioni e le azioni in ambito religioso (v. Bellah, 1964), i ruoli familiari e professionali (v. Smelser, 1959) e i ruoli direttivi (v. Keller, 1963).

Per spiegare il passaggio dalle unità multifunzionali a strutture più specializzate i teorici della differenziazione si servirono di un modello basato sulla nozione di risposta ai problemi. Smelser (v., 1959) ne fornì la versione più sofisticata, sostenendo che la differenziazione è causata dal funzionamento inadeguato di una struttura che produce una insoddisfazione diffusa. Un determinato fenomeno di cambiamento sfocia nella istituzionalizzazione di un'unità più differenziata ed efficiente. All'origine dell'impulso a creare strutture più differenziate vi sarebbe proprio l'esigenza di rendere più efficiente una data funzione. Tale modello presuppone un unico e predominante sistema di valori in grado di legittimare l'insoddisfazione iniziale e successivamente le innovazioni finalizzate a una maggiore efficienza. Smelser operò una distinzione tra gli elementi della società che esprimono insoddisfazione e una struttura dell'autorità, presumibilmente disinteressata, preposta a risolvere e incanalare le tensioni. Tale modello esplicativo, inoltre, presuppone che la creazione di strutture più differenziate ed efficienti sia in grado di determinare una diffusa soddisfazione.

Gli esponenti di questa ricerca avanzavano l'ipotesi che l'istituzionalizzazione di strutture maggiormente specializzate accresca la capacità adattativa di un sistema o sottosistema sociale (v. Parsons, 1964). I funzionalisti sostenevano che elevati livelli di differenziazione innescano processi correlati quali una generalizzazione dei valori, una maggiore inclusività nonché la nascita di istituzioni integrative specializzate (v. Parsons, 1966 e 1971; v. Parsons e Smelser, 1956, pp. 101-184); essi ritenevano inoltre che tali processi favoriscano l'integrazione di un sistema divenuto più complesso attraverso la differenziazione. In alcune delle sue interpretazioni più diffuse, soprattutto quelle elaborate da Parsons (v., 1966 e 1971), la teoria della differenziazione trasmetteva un senso di innegabile, compiaciuto ottimismo di stampo liberale riguardo alle conseguenze a lungo termine della differenziazione strutturale, e rappresentava inoltre una incondizionata celebrazione del modernismo americano.

c) Professioni

Le considerazioni di ordine teorico sui limiti dell'approccio utilitaristico e sul piano empirico la convinzione che le professioni rivestono un'importanza cruciale nelle società moderne spinsero i funzionalisti a dedicare particolare attenzione alla tematica delle professioni. Il pionieristico articolo di Parsons (v., 1939) sull'argomento metteva in discussione la tesi utilitaristica secondo la quale sarebbero motivazioni di ordine strumentale e calcoli utilitaristici a fornire impulso all'azione umana. Ponendo l'accento sui modelli istituzionalizzati che improntano e regolano la condotta, Parsons sostenne che la moderna condotta professionale non è guidata da un ristretto interesse personale, come avviene nella sfera degli affari, bensì da modelli di riferimento che prescrivono un orientamento verso la collettività. Parsons riteneva inoltre che nelle professioni si può rinvenire un elemento distintivo delle società moderne: "Il sistema professionale, sebbene il suo sviluppo non sia ovviamente ancora completo, è già diventato la più importante delle varie componenti che costituiscono la struttura della società moderna [...]. È la preponderante affermazione del sistema professionale, non lo status particolare del modo di organizzazione capitalistico o socialistico, a rappresentare lo sviluppo strutturale cruciale nella società del XX secolo" (v. Parsons, 1968, p. 545).

Da un punto di vista empirico i funzionalisti definirono le professioni come un sottoinsieme identificabile di ruoli occupazionali caratterizzati da un alto livello di conoscenza generalizzata e sistematica, da un orientamento primario verso gli interessi della comunità, da un elevato grado di autocontrollo raggiunto attraverso l'interiorizzazione di codici etici nel corso della socializzazione professionale e attraverso un sistema di sanzioni amministrate da associazioni professionali volontarie, nonché da un sistema di ricompense simboliche incentrate principalmente sul successo professionale (v. Barber, 1963). L'importanza data dai funzionalisti alla padronanza di un corpus esoterico di conoscenze e ai meccanismi di controllo interni sui quali fanno affidamento i professionisti ispirò un classico studio sulla socializzazione professionale (v. Merton e altri, 1957), una serie di studi sull'acquisizione di competenze tecniche, sull'interiorizzazione degli impegni connessi con l'occupazione e sui processi di identificazione con la comunità professionale (v. Goode, 1957; v. Moore, 1970, pp. 66-83), e infine una serie di analisi sul modo in cui le associazioni professionali, a volte con carattere di società di eguali, riescano o meno a esercitare il controllo sui propri membri (v. Barber, 1952). Anche il rapporto tra la conoscenza tecnica e sistematica, le istituzioni universitarie e le professioni fu oggetto di numerosi studi (v. Parsons e Platt, 1973, pp. 225-266), così come le tensioni e i mutevoli compromessi cui dà luogo la partecipazione dei professionisti a organizzazioni formali non completamente vincolate a modelli collegiali di autorità (v. Kornhauser, 1962). Le competenze dei professionisti, secondo i funzionalisti, favoriscono una forma di organizzazione collegiale, mentre la disparità di conoscenze tecniche tra professionista e cliente impone a quest'ultimo di aver fiducia nel professionista, che viene così incoraggiato a rispettare sia i clienti che i propri colleghi (v. Parsons, 1939 e 1968). L'atteggiamento del professionista verso il cliente viene descritto in termini di variabili strutturali come universalistico, affettivamente neutrale, specifico e orientato all'interesse collettivo; nonostante la disparità delle competenze, il rapporto professionista-cliente conterrebbe anch'esso elementi di collegialità (v. Parsons, 1951, pp. 428-479). Vennero studiati, infine, gli sforzi di altre categorie occupazionali per raggiungere un livello professionale (v. Wilensky, 1964), gli ostacoli alla professionalizzazione (v. Goode, 1969) e le tensioni legate allo status semiprofessionale (v. Etzioni, 1969).

d) Sociologia politica

Alcuni dei primi studi sulla politica, come quello di Merton (v., 1968³, pp. 125-136) sugli apparati politici e quelli di Parsons (v., 1942 e 1955) sull'avvento del fascismo in Germania e in Giappone e sulla genesi del maccartismo negli Stati Uniti, avevano messo in evidenza come certe caratteristiche fondamentali del moderno cambiamento sociale favoriscano l'insorgere di lotte politiche tra gruppi mobilitati a sostegno di interessi confliggenti. Tuttavia, allorché la teoria funzionalista si orientò verso un approccio più sistemico, la politica venne analizzata sempre più nei termini dello schema quadrifunzionale adattamento-raggiungimento degli scopi-integrazione-latenza, descritto in precedenza. Il sistema politico era quindi descritto come quel sottosistema, preposto principalmente al raggiungimento di determinati scopi, il cui funzionamento è condizionato da altri sottosistemi (l'economia, la comunità sociale, il sistema di conservazione e riproduzione della struttura) con i quali scambia risorse (v. Parsons, 1969). Parsons introdusse inoltre un'alternativa innovativa alla concezione prevalente del potere come gioco a somma zero. Egli definì il potere come un medium simbolico generalizzato, analogo al denaro, che consente a società altamente differenziate di svolgere in modo efficiente funzioni essenziali. Il potere viene definito come la capacità di individuare scopi collettivi, di mobilitare risorse per perseguire tali scopi e di prendere decisioni vincolanti per assicurare la loro realizzazione. Poiché un sistema politico efficiente richiede risorse prodotte da altri sottosistemi, la quantità di potere in una società è parzialmente determinata dagli scambi tra il sistema politico e tali sottosistemi. Dato che questi scambi sono ineguali, essi determinano inflazione e deflazione nel medium generalizzato. Quando prevale la deflazione si ricorre sovente a meccanismi di controllo politico meno generalizzati ed efficienti, come ad esempio lo scambio politico e la coercizione. Poiché il potere dipende dai vincoli di lealtà dei cittadini ed è legittimato da valori fondamentali, la minaccia della forza o il suo impiego, che costituiscono la base materiale del potere, possono provocare movimenti tesi a sostituire la classe politica esistente o a ristrutturare l'intero sistema politico.

Questo modello è stato sviluppato in numerosi studi empirici. Eisenstadt (v., 1963) ad esempio associò all'approccio sistemico di Parsons un interesse di stampo weberiano per le lotte tra fazioni politiche rivali al fine di studiare l'effetto della leadership politica e di varie risorse di tipo solidale, economico e culturale sulla capacità degli imperi storici di creare le strutture preposte a definire scopi collettivi e a regolare la produzione di risorse di altri sottosistemi. Altri studi descrissero il processo di sostituzione di una classe dominante da parte di élites strategiche funzionalmente differenziate (v. Keller, 1963); il modello sistemico quadrifunzionale venne impiegato per individuare strutture di divisione e per determinare la loro incidenza sulle strutture partitiche e sui movimenti politici (v. Lipset e Rokkan, 1967); le variabili strutturali, infine, vennero utilizzate per valutare l'influenza di determinati sistemi di valori sulle istituzioni democratiche (v. Lipset, 1963). La definizione del sistema politico come quel sistema che deve rispondere a esigenze specifiche e che opera in un ambiente composto di altri sistemi ispirò inoltre una serie di studi sull'evoluzione politica nelle società in via di sviluppo (v. Almond e Coleman, 1960; v. Pye, 1966).

e) Famiglia, personalità e socializzazione

Il punto di vista dei funzionalisti sulla famiglia, sulla socializzazione e sulla personalità, che si era venuto precisando nel corso degli anni cinquanta e sessanta, considerava la moderna famiglia nucleare come un'unità caratterizzata dall'isolamento e dalla differenziazione strutturale, il cui compito primario era la socializzazione dei figli (v. Parsons e Bales, 1955). Parsons rielaborò la distinzione tra ruoli guida strumentali ed espressivi, delineata inizialmente nell'ambito della ricerca su piccoli gruppi (v. Bales, 1950): a suo parere nella moderna famiglia nucleare il marito/padre assume un ruolo strumentale e cerca una collocazione nel mondo del lavoro per assicurare il sostegno economico della famiglia, mentre la moglie/madre è responsabile principalmente delle funzioni espressive, e il suo compito è soprattutto quello di fornire supporto ai figli in ambito educativo ed emozionale. Questi ruoli parentali specializzati, considerati complementari, favorirebbero la solidarietà coniugale eliminando la competizione tra marito e moglie e costituirebbero una valida forma di adattamento alle esigenze della società moderna.

La teoria dello sviluppo della personalità elaborata da Parsons, che si ispira a Freud, individua una serie di fasi discontinue. Ogni fase è contraddistinta dall'interiorizzazione da parte del bambino di nuovi oggetti sociali e dalla successiva differenziazione di tali oggetti attraverso un processo simile alla fissione binaria. Dapprima il bambino interiorizza la figura materna in modo così totale che non è in grado di operare una distinzione tra sé e lei. Gradualmente però egli impara a differenziare se stesso dalla madre e a discriminare un 'io' e un 'tu', il 'noi' formato da questa diade e un 'non-noi' che comprende tutti gli altri. Questa fase, e le altre che seguono, si concludono con l'elaborazione di un insieme più differenziato di relazioni, e il bambino, man mano che attraversa gli stadi successivi, acquisisce schemi di riferimento sempre più ampi che gli consentono di interagire con una vasta gamma di potenziali 'altri'.

Rilevando l'impronta particolaristica della moderna famiglia nucleare, Parsons sostenne che il passaggio dall'infanzia all'età adulta, e più in particolare l'interiorizzazione di criteri universalistici, rende necessaria la socializzazione in altri contesti. Inoltre, per essere preparati all'alto grado di indipendenza, competenza e responsabilità richiesto dai ruoli che dovranno assumere come adulti, i bambini si devono liberare dai vincoli emozionali che li rendono dipendenti dai genitori. La scuola e i gruppi di pari condizioni svolgono un ruolo essenziale al riguardo. Meno vincolata dai legami particolaristici e affettivi che si sviluppano all'interno della famiglia, la scuola riesce con maggior facilità a inculcare norme universalistiche e a determinare una migliore accettazione del principio della valutazione basata sulla prestazione (v. Dreeben, 1968). La più frequente associazione con i coetanei consente al bambino di stabilire una certa indipendenza emozionale dai genitori e favorisce altresì la capacità e il desiderio di coordinare le proprie attività con quelle di quanti si trovano in eguale condizione (v. Eisenstadt, 1956).

4. Discredito del funzionalismo e nascita del neofunzionalismo

L'imponente edificio teorico faticosamente costruito dai funzionalisti cominciò a sgretolarsi nel secondo dopoguerra, allorché un contromovimento intellettuale ampiamente diffuso mise in questione pressoché ogni aspetto della teoria generale e dei programmi di ricerca di questa scuola. La tesi di Parsons secondo la quale ogni scienza contiene un livello di elaborazione concettuale indipendente venne attaccata dai positivisti e dagli empiristi, i quali sostenevano invece che la teoria deve collegarsi più strettamente ai fatti e deve includere o implicare conclusioni direttamente verificabili. Venne messa in discussione l'interpretazione parsonsiana dei classici, come pure la sua tesi della continuità tra il loro pensiero e il funzionalismo moderno. Sul piano dei presupposti, i funzionalisti vennero accusati di aver trascurato i fattori materiali in favore di quelli ideali, di aver dato eccessiva importanza all'influenza dei valori sull'azione sociale e di aver presentato gli attori sociali come esseri sovrasocializzati, culturalmente condizionati e incapaci di fronteggiare la contingenza interazionale. Venne messo in questione il tentativo di separare in modo netto e inequivocabile la teoria e i programmi di ricerca del funzionalismo dall'ideologia, e l'opera di questa scuola fu giudicata dai critici inficiata dalla sua intrinseca natura conservatrice. Il modello sistemico del funzionalismo venne accusato non solo di essere troppo astruso, ma anche di non distinguere i modelli analitici di equilibrio dalla realtà empirica, sottovalutando in questo modo la rilevanza del conflitto e del cambiamento nelle società moderne. Le tesi metodologiche dei funzionalisti vennero accusate di essere tautologiche e inficiate da una illegittima impostazione teleologica, mentre la distinzione operata da Merton tra funzioni latenti e funzioni manifeste venne rigettata in quanto vaga e inconsistente. Alcuni elementi di queste critiche rivolte allo schema teorico generale furono utilizzati anche per confutare i programmi di ricerca del funzionalismo, molti dei quali vennero parzialmente screditati pure sul piano della validità empirica.

Per le ragioni discusse in precedenza, questa ondata di critiche non può avere il valore di una confutazione, ma va vista piuttosto come un inasprimento del contrasto tra scuole rivali, alimentato dalle trasformazioni in corso nel contesto sociale e intellettuale delle scienze sociali. Tuttavia il fatto che i funzionalisti non riuscissero a replicare in modo convincente a tali critiche - il che accadeva quasi invariabilmente - alimentò la convinzione che il funzionalismo fosse in errore. Con l'avvicendamento generazionale nel mondo intellettuale tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta, il funzionalismo subì una grave perdita di credito. Le tradizioni però scompaiono solo gradualmente, e gli attuali sviluppi indicano che è in atto una rivalutazione, per quanto critica, di questa scuola (v. Alexander, 1985; v. Alexander e Colomy, 1985; v. Colomy, Neofunctionalist..., 1990). Un gruppo ristretto ma assai vitale di neofunzionalisti ha iniziato una ricostruzione del funzionalismo ortodosso, sia al livello della teoria generale che a quello della ricerca empirica, tenendo conto delle fondate obiezioni sollevate nel secondo dopoguerra.

5. La teoria generale del neofunzionalismo

Sul piano teorico il neofunzionalismo riprende la tesi parsonsiana del ruolo relativamente indipendente dell'elaborazione teorica nelle scienze sociali. Un'influenza di tipo positivista ha tuttavia spinto a modificare la posizione originale, sottolineando l'importanza centrale delle tradizioni nel lavoro sociologico, introducendo la distinzione tra teoria generale e programmi di ricerca e analizzando le complesse relazioni tra i due livelli, e accentuando la rilevanza del conflitto e della competizione tra scuole rivali e tra correnti diverse all'interno di una stessa scuola (v. Alexander, 1982-1983, vol. I; v. Alexander e Colomy, 1992; v. Colomy, 1991). Nello stesso tempo i neofunzionalisti giudicano negativamente la proposta di Merton di privilegiare le teorie a medio raggio, ritenendo che essa si basi su un fraintendimento dei fondamenti epistemologici della scienza sociale (v. Alexander e Colomy, 1992; v. Gould, 1990).

Sul piano dei presupposti il neofunzionalismo riafferma l'originaria esortazione alla sintesi di Parsons, mettendo peraltro in evidenza come Parsons stesso il più delle volte non sia riuscito a sostenere una posizione pienamente sintetica. Per quanto riguarda l'azione, ad esempio, i neofunzionalisti criticano l'inclinazione idealista dell'analisi di Parsons, e sostengono che molte carenze del funzionalismo ortodosso - inclusa la tendenza a considerare il cambiamento in termini teleologici e a trascurare il ruolo delle ricompense economiche e della coercizione politica - derivano dal riduzionismo normativo parsonsiano. Per definire un approccio multidimensionale più soddisfacente e dotato di maggior coerenza, i funzionalisti hanno riaffermato l'importanza dei fattori materiali (v. Alexander, 1982-1983, vol. IV; v. Gould, 1981). Criticando il funzionalismo convenzionale per non esser riuscito a introdurre la contingenza nella sua teoria dell'ordine collettivo in modo pienamente convincente, i neofunzionalisti hanno mutuato una serie di elementi da varie teorie microsociologiche al fine di incorporare il volontarismo e lo sforzo individuale in una più ampia concezione dell'ordine (v. Alexander, Action..., 1987).

Gli esponenti del neofunzionalismo, inoltre, hanno messo l'accento non sulla convergenza tra Parsons e i classici, bensì sulle tangibili discrepanze che sussistono tra il funzionalismo ortodosso e le tesi dei padri fondatori della disciplina. Mentre Parsons aveva respinto Marx, i neofunzionalisti (v. Alexander, 1982-1983, vol. I) ritengono che il suo pensiero fornisca i paradigmi di quell'approccio materialistico e strumentale che Parsons a loro avviso ha avuto il torto di trascurare. Analogamente, in contrasto con il riduzionismo culturale che caratterizza la concezione dei valori sociali propria del funzionalismo ortodosso, sono state riprese e valorizzate le analisi di Durkheim sulla cultura e sulla dimensione simbolica (v. Alexander, Durkheimian..., 1988). I neofunzionalisti inoltre hanno rivisitato i classici della microsociologia, quali ad esempio Mead, Peirce, Husserl e Schutz, al fine di studiare l'azione contingente in una prospettiva trascurata da Parsons (v. Alexander, Twenty lectures..., 1987; v. Munch, 1982).

Per quanto riguarda l'ambito dell'ideologia, la rottura più radicale con l'ortodossia effettuata dal neofunzionalismo è consistita semplicemente nel rendere esplicite le dimensioni ideologiche della tradizione funzionalista. Si sono così sviluppati due distinti orientamenti di autocoscienza ideologica: il primo mette l'accento sul carattere liberale, progressista e umanistico dei contributi di Parsons (v. Holton e Turner, 1986; v. Mayhew, 1984), mentre il secondo sostiene che determinati elementi del funzionalismo, opportunamente rielaborati e associati ad alcuni indirizzi della teoria critica, possano essere utilizzati per costruire una teoria sociale radicale (v. Gould, 1985; v. Sciulli, 1985).

In reazione alla reificazione dei sistemi e dei concetti funzionalistici nell'opera di Parsons e alla confusione tra le distinzioni del modello sistemico quadrifunzionale e la differenziazione empirica della società contemporanea, i neofunzionalisti mettono in maggior risalto gli aspetti storici e istituzionali dei sistemi, gli elementi dinamici e conflittuali tra i sistemi e al loro interno, e le tensioni tra i sistemi e l'ambiente (v. Luhmann, 1982; v. Munch, 1982; v. Colomy, 1992). Senza dubbio i neofunzionalisti non hanno abbandonato l'idea che la società possa essere analizzata come un sistema intellegibile, ma sono decisamente meno ottimisti di Parsons per quel che riguarda la capacità di una società di risolvere i propri problemi funzionali e assai più inclini a riconoscere che le tensioni delle società moderne e postmoderne non possono trovare alcuna soluzione pienamente soddisfacente. Di conseguenza, mentre le opere di Parsons - soprattutto quelle del secondo dopoguerra - sono permeate dalle idee di progresso e di equilibrio, i neofunzionalisti, specie quelli americani, sostengono piuttosto che il progresso è fragile e spesso illusorio (v. Alexander e Sztompka, 1990). La nozione di equilibrio è stata relegata in secondo piano anche come parametro analitico.

È opportuno osservare che il tentativo di ricostruzione del neofunzionalismo riguarda principalmente la scuola parsonsiana. Non sono mancati validi tentativi di riprendere il funzionalismo di Merton sia come strategia metodologica (v. Faia, 1986) che come teoria generale (v. Sztompka, 1986); molti neofunzionalisti condividono la sua impostazione che dà rilievo alle tensioni e ai conflitti, nonché l'idea espressa da alcuni suoi collaboratori che il funzionalismo possa essere utilizzato come una teoria critica della società. Il neofunzionalismo tuttavia si è sviluppato partendo soprattutto dalla posizione epistemologica complessiva di Parsons, dai suoi modelli concettuali e dal suo tentativo complementare di collegare, per quanto in modo imperfetto, questo sistema di proposizioni astratte a una serie di programmi di ricerca, piuttosto che dallo specifico delle analisi a medio raggio mertoniane. I neofunzionalisti valutano in larga misura i loro progressi nell'ambito della disciplina confrontando il proprio lavoro al livello teorico ed empirico con quello di Parsons e dei suoi allievi, oltreché ovviamente con le scuole antagoniste e con le altre correnti della tradizione funzionalista contemporanea.

6. I programmi di ricerca del neofunzionalismo

a) Studi sulla cultura

Lo sforzo di ricostruzione e di revisione proprio della teoria neofunzionalista impronta anche i programmi di ricerca di questa scuola. Il modello parsonsiano dei tre sistemi, parzialmente inficiato da una certa ambiguità per quel che riguarda l'autonomia del sistema culturale, aveva ispirato una quantità di studi sugli orientamenti di valore, i quali presupponevano l'esistenza, all'interno del sistema sociale, di un sistema culturale perfettamente istituzionalizzato attraverso i valori che la personalità interiorizza mediante la socializzazione. I valori, quindi, non il sistema culturale vero e proprio, divennero il punto focale di questo programma di ricerca. I neofunzionalisti hanno messo in discussione questo approccio in due modi.In primo luogo, essi hanno ridefinito concettualmente i rapporti tra cultura e società. Luhmann (v., 1982), ad esempio, mette in discussione il ruolo privilegiato assegnato alla cultura e al consenso normativo nella gerarchia cibernetica di Parsons, e propone una prospettiva alternativa ed egualitaria sul piano analitico in cui la cultura non è che uno tra i tanti ambiti dell'azione presenti all'interno della società. Alexander (v., 1984) sostiene che l'analisi parsonsiana dell'istituzionalizzazione, che costituisce ciò che egli definisce un modello di specificazione culturale, non rappresenta che una delle tre forme che i rapporti cultura-società possono assumere. La rifrazione culturale si determina quando gruppi sociali e funzioni in conflitto tra loro producono subculture antagonistiche che continuano peraltro a basarsi su un sistema di valori integrato al livello culturale. Una cultura 'verticalmente segmentata' si produce invece quando esistono differenze fondamentali sia nel sistema culturale che in quello sociale, i gruppi di interesse condividono pochi valori fondamentali ed emergono raggruppamenti politico-culturali sostanzialmente opposti.

Questa riformulazione delle relazioni intersistemiche tra cultura e società ha consentito una comprensione più specifica e meno circoscritta al livello sociale del sistema culturale stesso. Combinando elementi desunti da modelli semiotici ed ermeneutici con una rivalutazione della sociologia culturale delineata da Durkheim nelle sue opere più tarde, i neofunzionalisti propongono un programma di ricerca sulla cultura incentrato sulla chiarificazione della complessa struttura dei sistemi simbolici. Alexander (v., Culture and..., 1988), ad esempio, analizza il caso Watergate non come un semplice evento politico, ma come un simbolo di corruzione che incarna il senso del male e dell'impurità. Le udienze del progresso Watergate vengono presentate come un evento ritualizzato, liminale, che rielabora gli episodi e i personaggi ordinari connessi alla vicenda nei termini di antitesi superiori tra gli elementi puri e impuri della religione civile americana.

La nuova apertura del neofunzionalismo nei confronti di analisi dettagliate di strutture e processi simbolici costituisce in parte una reazione all'ambivalenza del funzionalismo ortodosso in merito all'autonomia della cultura dalle interpretazioni idealistiche e unilaterali della vita sociale. Lo studio di Alexander sulla dimensione simbolica del caso Watergate, ad esempio, contiene un'analisi sia della costellazione delle condizioni sociali - quali l'esistenza di un centro sociale, l'attivazione di controlli istituzionali, la mobilitazione di élites rivali in lotta fra loro - sia dell'impiego consapevole o inconsapevole di strategie simboliche da parte dei protagonisti - quali la riaffermazione ritualistica di un mito sociale, i formalismi connessi al degrado morale e la generalizzazione dei valori - che rendono possibili i rituali di natura civica nelle moderne società.



b) Mutamento sociale

I neofunzionalisti hanno rielaborato criticamente la teoria ortodossa del cambiamento sociale in tre modi principali. In primo luogo, l'attenzione per la tendenza, predominante, a una crescente differenziazione culturale, sociale e psicologica è stata integrata con l'individuazione di variabili modello di mutamento strutturale, tra le quali figurano la de-differenziazione e la differenziazione ineguale, irregolare e incompleta (v. Alexander e Colomy, 1990; v. Colomy, 1992). Inoltre lo schema convenzionale che presentava la differenziazione come il prodotto di una risoluzione dei problemi di tipo sistemico ha lasciato il posto a un modello più ampio sul piano analitico, in cui assumono un posto di rilievo anche le contingenze associate alla mobilitazione e al conflitto tra i gruppi e il modo in cui questi fattori influenzano il processo di differenziazione. Lungi dal presentare l'incerto tentativo di scolarizzare i giovani della classe operaia britannica come un esempio di miglioramento sistemico adattivo, Smelser (v., 1991) analizza il modo in cui diversi tipi di potere, di interessi e di organizzazione delle classi sociali e dei gruppi antagonistici hanno frustrato e ritardato l'istituzione di scuole per la classe lavoratrice.

Altri tentativi di includere la dimensione contingente nelle analisi della differenziazione si ritrovano in una serie di studi che rielaborano il concetto di 'imprenditori' istituzionali formulato per primo da Eisenstadt (v., 1964). Nel suo studio sui partiti politici statunitensi nel periodo prebellico, ad esempio, Colomy (v., Strategic groups..., 1990) sostiene che il cambiamento strutturale dipende in parte dalle attività di individui e gruppi specifici che assumono un ruolo guida nel promuovere nuovi livelli di differenziazione. Egli dimostra come questi gruppi 'imprenditoriali' possano essere analizzati comparativamente in riferimento ai loro rispettivi progetti istituzionali, agli strumenti organizzativi che approntano per perseguire quegli obiettivi e alle strategie e alle tattiche impiegate per ottenere il sostegno e neutralizzare le resistenze ai loro progetti.

Anche gli effetti della differenziazione sono stati considerati in modo diverso. Mentre il funzionalismo ortodosso aveva dato particolare rilievo alla presunta maggiore efficacia ed efficienza di istituzioni più differenziate, il neofunzionalismo cerca di mettere in luce altre conseguenze della differenziazione, quali la frammentazione, la mancanza di flessibilità e di affidabilità. Smelser (v., 1985) ad esempio rileva come istituzioni differenziate creino nuovi ruoli i cui titolari possono costituire in seguito raggruppamenti politici preoccupati di conservare o favorire i propri interessi particolaristici. Questa preoccupazione di tutelare interessi costituiti può introdurre un elemento di rigidità e inflessibilità in un sistema, riducendo le sue capacità di adattamento ai mutamenti dell'ambiente. Una trattazione esauriente degli effetti della differenziazione, quindi, deve prendere in considerazione i casi in cui la tendenza alla differenziazione può essere affermata sul piano simbolico ma affossata sul piano pratico da potenti gruppi costituiti che riescono a vanificare le modificazioni sancite pubblicamente. Lo studio di Rhoades (v., 1990) sulle tendenze registrate nel mondo accademico in Francia, Inghilterra, Svezia e Stati Uniti, ad esempio, illustra come il significativo incremento della scolarità tra il 1960 e il 1980 abbia spinto gruppi di non accademici a richiedere una ulteriore differenziazione strutturale. Tale richiesta venne appoggiata da molti politici, legislatori e amministratori, ma quando l'attuazione di queste riforme venne affidata al corpo accademico conservatore, come è avvenuto nei paesi europei presi in esame da Rhoades, i docenti manifestarono la tendenza ad adattare le nuove strutture al conseguimento di obiettivi accademici tradizionali, sovvertendo così in pratica gli scopi che avrebbero dovuto raggiungere unità maggiormente differenziate.


c) Professioni

Riconsiderando criticamente l'approccio al tema delle professioni del funzionalismo ortodosso, i neofunzionalisti hanno integrato l'analisi dei fondamenti normativi delle professioni con lo studio degli interessi materiali dei professionisti; hanno messo in luce i rapporti conflittuali all'interno delle professioni e tra settori professionali, settori occupazionali affini e clienti; hanno messo in rilievo le dimensioni strategiche delle associazioni professionali e hanno studiato infine le tensioni intrinseche tra le categorie professionali e il resto della comunità. Smelser (v., 1973) critica i precedenti studi sull'istruzione superiore in quanto hanno trascurato di considerare l'importanza del conflitto e dei gruppi di interesse sulla formazione e sull'attività di questa organizzazione professionale prototipica, ponendo successivamente rimedio a tale carenza con un'analisi di stampo tocquevilliano sui ceti accademici (v. Smelser, 1974). Studi analoghi hanno messo in luce come le categorie professionali spesso si mobilitino in difesa dei propri interessi particolari per impedire l'attuazione di riforme mirate a fornire un servizio più efficace ed equo ai clienti.

La ricerca neofunzionalista corregge inoltre la tendenza di Parsons a non distinguere tra modelli concettuali e strutture da un lato e processi empirici dall'altro. Gli studi sulle categorie professionali dei medici, degli avvocati, degli scienziati e degli accademici, nonché delle professioni legate all'assistenza al pubblico, documentano un numero considerevole di casi in cui le categorie professionali non sono riuscite a far fronte alle loro responsabilità fiduciarie, e mettono in discussione l'efficacia delle procedure di autoregolamentazione, sia i meccanismi informali di controllo sia quelli più formali (v. Barber, 1983). Barber (v., 1979) mette in luce le disfunzioni della collegialità e osserva che quando nelle ricerche biomediche vengono impiegati soggetti umani, i medici spesso non si preoccupano di ottenere quel consenso basato sull'informazione che è essenziale alla relazione professionista-cliente. In altre parole, la collegialità viene spesso usata come strumento di particolarismo e di discriminazione contro coloro che si trovano in posizione svantaggiata. Barber afferma anzi che, data l'eccessiva importanza attribuita dai parsonsiani all'esigenza funzionale di strutture professionali centralistiche, il funzionalismo ortodosso spesso è servito come giustificazione ideologica alle pretese di autorità assoluta e di autonomia illimitata della categoria medica.

Più in generale, il postulato su cui si basa la rielaborazione concettuale della problematica delle professioni operata da Barber (v., 1983; v. Alexander, 1990) è che l'organizzazione sociale contemporanea si modella in base alle antinomie fondamentali - fede e critica, fiducia e sfiducia, elitarismo ed egualitarismo. Nelle società in cui all'egualitarismo viene attribuito un grande valore e il livello di istruzione dei cittadini è relativamente elevato, le pretese di autorità professionale basate su una conoscenza esoterica e altamente sistematizzata provocano un certo grado di sfiducia razionale. Tale sfiducia induce alcuni settori dell'opinione pubblica a richiedere che le forme di autoregolamentazione delle associazioni professionali vengano integrate con altri meccanismi di controllo statale ed esterno.

d) Sociologia politica

I neofunzionalisti che si sono dedicati allo studio della sociologia politica hanno assunto una posizione critica nei confronti della tendenza di Parsons a non distinguere le analisi formali del sistema politico e gli scambi tra i suoi sottosistemi dai processi empirici. Essi hanno criticato la concezione parsonsiana della democrazia come risultato di una evoluzione secolare, opponendovi una serie di analisi storiche e comparative di un'ampia gamma di strutture e movimenti politici. Champagne (v., 1992) è autore di un approfondito studio sulla diseguale transizione alla democrazia in quattro società degli Indiani d'America.

Sebbene i rapporti geopolitici con gli Stati Uniti e l'integrazione nel sistema economico mondiale abbiano condizionato la capacità di queste società di istituzionalizzare la democrazia, Champagne ha scoperto che ancor più l'ha condizionata il grado di differenziazione raggiunto da determinati ordinamenti politici indiani rispetto ai sistemi clanici di tipo territoriale o religioso. Una notevole differenziazione consentiva di associare un alto grado di solidarietà alla tolleranza del conflitto, incoraggiando la creazione di istituzioni politiche specializzate e la nascita di una nazionalità politica. Gli orientamenti culturali rivestivano anch'essi un'importanza cruciale nella creazione di stabili sistemi politici democratici in queste società. Champagne rileva l'impronta attivistica del protestantesimo, i prototipi ideologici incorporati nella Costituzione degli Stati Uniti e nel suo governo federale, nonché le attività di 'imprenditori' politici e culturali, in particolare dei missionari cristiani nati da matrimoni misti.

Muovendosi in una direzione analoga Prager (v., 1986) afferma che le moderne istituzioni democratiche richiedono una salda infrastruttura simbolica e solidaristica, e sostiene che convincenti accordi sociali e strutture di significato costituiscono le sue componenti essenziali. Analizzando il passaggio verificatosi in Irlanda da una struttura politica e culturale di tipo 'segmentato verticale' a una società che nel 1932 era riuscita a istituire una base di sostegno comune per un governo democratico, Prager esamina il modo in cui l'attività simbolica e di legittimazione delle élites politiche irlandesi ha dato luogo a una sfera pubblica più differenziata, in grado di creare le intese comuni essenziali a una democrazia moderna.

I neofunzionalisti hanno criticato Parsons per il suo ottimismo nei confronti del funzionamento delle strutture democratiche una volta istituzionalizzate, e più in generale della stabilità degli ordinamenti sociali moderni. Sciulli (v., 1992) oppone a questa posizione la convinzione che la vita moderna sia caratterizzata da una incessante pressione verso la razionalizzazione strumentale e l'autoritarismo burocratico, soprattutto nelle sfere materiali dell'economia e delle istituzioni politiche. Questa tendenza al potere arbitrario può essere evitata, secondo Sciulli, solo da una sempre maggiore differenziazione e istituzionalizzazione delle formazioni collegiali e dei vincoli procedurali. Il concetto di costituzionalismo sociale di Sciulli rappresenta una sintesi tra la nozione di legalità procedurale elaborata da Fuller e l'analisi dell'organizzazione fondata sulla collegialità di Parsons, e fornisce un criterio per distinguere un'autentica integrazione sociale dall'ordine sociale stabilito attraverso il dominio burocratico. Con la sua 'teoria critica non marxista' Sciulli intende incoraggiare le attività che accrescono l'autonomia delle formazioni fondate sulla collegialità e i vincoli procedurali.

e) Sociologia femminista

Il femminismo neofunzionalista ha modificato in modo radicale il modello differenziato della famiglia nucleare delineato da Parsons, sottoponendo a una riconsiderazione critica anche il suo tentativo di formulare una teoria della socializzazione che combini tale approccio strutturale con un'analisi psicanalitica dello sviluppo della personalità. Piuttosto che mettere l'accento, come aveva fatto Parsons, sulla compenetrazione e il mutuo sostegno che caratterizzano il complesso di ruolo marito/padre e quello moglie/madre, il femminismo neofunzionalista sostiene che mentre i ruoli di marito e di padre possono compenetrarsi in modo positivo, ciò non è assolutamente vero per il complesso di status moglie/madre. Laddove infatti il ruolo della madre comporta la cura e l'educazione di esseri in condizioni di dipendenza, nel ruolo di moglie la donna è costretta a definire se stessa in rapporto al marito secondo modelli di predominio maschile (v. Johnson, 1988). Mentre l'attenzione di Parsons si incentrava sulle differenze di potere tra genitori e figli, questa prospettiva alternativa indica la necessità di prendere in considerazione anche le differenze di potere tra i coniugi.Anche la distinzione tra strumentalità ed espressività è stata rielaborata. Partendo dal presupposto che questi due concetti designano dimensioni separate, la Johnson sostiene che l'orientamento strumentale è indice di un interesse verso scopi esterni al sistema interattivo, realizzati tipicamente attraverso la manipolazione di oggetti, dell'ambiente e di altre persone; l'orientamento espressivo, invece, attribuisce importanza preminente alla facilitazione dell'interazione stessa e richiede il controllo delle tensioni nonché la capacità di comprendere e fronteggiare le emozioni in se stessi e negli altri. La Johnson e le sue colleghe sostengono che, mentre l'orientamento strumentale è presente nelle donne non meno che negli uomini, l'orientamento espressivo è in misura assai maggiore parte integrante del ruolo femminile. Basandosi su una vasta serie di ricerche transculturali, le studiose femministe illustrano in che modo questo orientamento più espressivo, che sarebbe la fonte delle qualità espressive comuni ai due sessi, si trasmetta attraverso la maternità. Il distacco dei figli maschi dalle madri, che avviene nella fase successiva al periodo di latenza, significa quindi anche un distacco dalla propria componente espressiva.

Secondo la tesi della Johnson, la famiglia nucleare non solo formerebbe persone in grado di assumere ruoli adulti in una società complessa e differenziata, ma sarebbe anche il luogo in cui si produce e si riproduce il predominio maschile. Questi ultimi processi possono essere spiegati, secondo la Johnson, coniugando un modello modificato della famiglia - un modello che metta l'accento sulle differenze di potere tra il marito/padre e la moglie/madre e operi una distinzione tra il ruolo di moglie e quello di madre - con un approccio femminista ai processi psicodinamici. Questa posizione inoltre mette in luce il divario che sussisterebbe tra l'ideologia liberale e le realtà contemporanee. Nelle società moderne, valori liberali quali l'individualismo, l'eguaglianza e l'integrazione sarebbero stati interpretati in modo patriarcale e sessista. Una definizione autenticamente universalistica di tali valori, secondo la Johnson, dovrebbe mettere in discussione il ruolo di moglie che concretizzerebbe lo status subordinato della donna e suggerirebbe di abbandonare l'eterosessualità tradizionale che favorisce la sottomissione femminile. Sul piano pratico, un liberalismo realmente universale dovrebbe propugnare matrimoni senza 'mogli', una tendenza sociale in grado di ridurre il predominio maschile e di accrescere l'importanza del ruolo educativo dei padri.

7. Conclusione

Progetto estremamente ambizioso, il funzionalismo è stato il paradigma preminente della disciplina sociologica per oltre due decenni. Sebbene l'influenza esercitata dal funzionalismo si possa far risalire in parte a motivi di ordine politico, sociale e culturale, la sua egemonia nell'ambito della disciplina non può essere spiegata solo ed esclusivamente sulla base di motivi ideologici, come alcuni critici sono soliti fare. Il funzionalismo si è potuto affermare anche perché costituiva una teoria estremamente lucida che ha dato luogo a una fertile tradizione sociologica. Associando a una stimolante teoria generale una serie di acute affermazioni a medio raggio e di approfonditi programmi di ricerca, questa tradizione ha dominato la sociologia degli anni cinquanta in virtù dei contributi di grande interesse, a volte illuminanti, che ha fornito nel campo della scienza sociale.Tuttavia, contrariamente a quanto sostengono i suoi più ferventi difensori, il declino del funzionalismo non è legato solo a fraintendimenti ideologici e a una incapacità dei critici di comprendere la complessità delle sue elaborazioni teoriche. Senza dubbio i fraintendimenti e i radicali cambiamenti di prospettiva e di orientamento ideologico verificatisi nella disciplina hanno avuto un ruolo preminente nel dibattito del secondo dopoguerra, ma questi elementi da soli non sono sufficienti a spiegare il declino del funzionalismo. Il discredito del funzionalismo ortodosso è nato anche per le sue oggettive carenze sul piano sia della teoria che della ricerca empirica, individuate correttamente dai critici e dagli avversari della scuola.

Il funzionalismo tuttavia non è scomparso; in questa rassegna abbiamo cercato di illustrare in che modo i neofunzionalisti hanno ricostruito e riveduto criticamente la tradizione ortodossa. Rispetto al funzionalismo nella sua prima versione nonché alle critiche che gli sono state mosse dall'esterno, si può affermare che il neofunzionalismo ha fatto progressi significativi sia al livello della teoria generale che al livello dei programmi di ricerca. In reazione alle critiche che minacciavano di demolirlo completamente, il neofunzionalismo ha prodotto una vasta gamma di studi e di ricerche che hanno tenuto conto dei rilievi critici pur conservando la continuità con il nucleo essenziale della tradizione funzionalista.

Osservando che tutte le tradizioni durevoli producono due o più indirizzi rivali, abbiamo rilevato come Parsons e Merton abbiano elaborato versioni differenti del funzionalismo. La nostra analisi tuttavia non ha sollevato esplicitamente la questione degli indirizzi rivali; essa, di fatto, si applica principalmente alla corrente neofunzionalista sviluppatasi negli Stati Uniti, che è fondamentalmente ricostruttiva e postparsonsiana. Esiste peraltro un altro filone neofunzionalista che, sebbene ampiamente coerente col primo, è attestato su posizioni diverse, soprattutto al livello della teoria generale. Molti neofunzionalisti americani, ad esempio, associano ai modelli sistemici le nozioni di volontarismo e di contingenza, analizzano il modo in cui gli attori come singoli o come collettività riproducono e modificano il proprio ambiente, e conducono dettagliati studi storici e comparativi sul cambiamento sociale al fine di individuare le condizioni e gli agenti responsabili di tale cambiamento. Il ramo tedesco del neofunzionalismo invece propone un approccio sistemico più ortodosso; esso continua a impiegare le metafore e i modelli organicistici convenzionali, descrive il cambiamento in termini di tendenze globali dirompenti e spiega le trasformazioni sociali facendo ricorso a principî evoluzionistici altamente generalizzati. La scuola tedesca inoltre è sempre più chiusa in se stessa. L'analisi della compenetrazione condotta da Münch, ad esempio, è più una reazione critica alla descrizione dei sistemi autonomi e autoreferenziali di Luhmann che non una risposta all'indirizzo di ricerca americano. Un interrogativo stimolante sul futuro del movimento funzionalista è se queste distinte correnti continueranno a percorrere strade divergenti o se avvieranno quanto prima un costruttivo dibattito interno.

Lo sviluppo di una tradizione non può essere valutato solo sulla base di criteri interni e il suo dialogo non può restare circoscritto agli esponenti dei suoi diversi indirizzi. Occorre istituire un confronto anche con scuole rivali. I critici del neofunzionalismo reagiscono già sollevando nuove obiezioni: alcuni cercheranno di ignorare i cambiamenti di vasta portata attuati dal neofunzionalismo (v. Bourdieu e Wacquant, 1992), altri riconosceranno le sostanziali trasformazioni che si sono verificate e formuleranno critiche di diversa natura (v. Hilbert, 1992). Il futuro di questa scuola dipende in larga misura dalla capacità dei suoi esponenti di replicare in modo convincente a questa nuova ondata di obiezioni. Il futuro del 'funzionalismo' è legato all'esito di questo scambio di critiche e di risposte, oltreché, ovviamente, al lavoro teorico sostenuto dalla ricerca empirica che i neofunzionalisti saranno in grado di produrre.