Conflitto sociale
di Charles Tilly
www.treccani.it
Enciclopedia di scienze sociali (1992)
Sommario: 1. Introduzione. 2. Spiegazioni generali del conflitto. 3.
Conflitto e mezzi coercitivi. 4. La dinamica del conflitto. 5. Forme
assunte dal conflitto. 6. Condizioni per la diffusione del
conflitto. 7. Tendenze storiche del conflitto. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Vi è conflitto sociale quando una persona o un gruppo avanza
pretese di segno negativo nei confronti di altre persone o gruppi,
pretese che, qualora venissero soddisfatte, danneggerebbero
l'interesse altrui cioè l'altrui probabilità di
raggiungere una situazione desiderabile. Le pretese di segno
negativo implicano tanto minacce quanto attacchi veri e propri.
Quando esse comportano una diretta presa di possesso, oppure un
danno alle persone o alle cose, gli osservatori utilizzano spesso la
parola 'violenza'. Un conflitto può essere asimmetrico, nel
senso che una sola delle parti in causa, e non l'altra, può
avanzare pretese di segno negativo: in questo caso si parla di
'coercizione'. Accade più spesso, tuttavia, che nel conflitto
ci si avvicini a una situazione di simmetria, con ciascuna delle due
parti che avanza almeno alcune pretese per neutralizzare quelle
dell'altra. Il conflitto è un caso particolare di
'competizione': due o più parti cercano simultaneamente di
ottenere dei vantaggi (o di evitare degli svantaggi) che si
escludono a vicenda. La normale competizione diventa conflitto
quando un concorrente avanza in maniera esplicita delle pretese
potenzialmente lesive dell'altrui interesse; fare un'offerta
maggiore rispetto a quella del proprio vicino, per un pezzo di terra
desiderato da entrambi, non può esser di per sé
configurato come conflitto, ma si configura come tale il minacciare
il proprio vicino di attaccarlo qualora egli rilanci l'offerta. In
base a tale definizione, l'ingaggiare una gara con qualcuno è
un comportamento che si situa ai margini del conflitto,
poiché, se per i due concorrenti perdere non implica alcuna
differenza sostanziale, il conflitto non si scatena; se invece una
delle parti ha interesse a vincere, la competizione si trasforma in
conflitto. In ogni caso, l'atto di ostacolare l'avversario per
indurlo a rallentare identifica chiaramente la gara come un
conflitto.
Il conflitto è complementare alla cooperazione, in cui
unità sociali differenti avanzano istanze positive le une nei
confronti delle altre; i cooperanti, cioè, offrono promesse e
ricompense piuttosto che minacce e attacchi. Le relazioni sociali
che implicano minacce esplicite o attacchi condotti da una delle
parti nei confronti dell'altra rappresentano il terreno naturale del
conflitto. Per questo motivo, individui e gruppi che esercitano il
controllo su mezzi di coercizione - armi, soldati, simboli
sovrannaturali, accesso alla pubblicità negativa e
così via - giocano nel conflitto un ruolo senza paragoni;
essi diventano degli specialisti nella formulazione di pretese di
segno negativo, e dispongono di basi migliori per sostenerle. Tra
tutti costoro, i più importanti sono gli Stati, i quali si
specializzano non soltanto nell'accumulazione e nell'impiego di
mezzi coercitivi, ma anche nel controllo dell'uso che, all'interno
dei rispettivi territori, altre persone fanno della coercizione. Il
conflitto sociale comprende tutte quelle forme d'interazione
all'interno delle quali degli individui o dei gruppi si minacciano o
si attaccano a vicenda, e in molte situazioni conflittuali gli Stati
entrano in gioco o come partecipanti attivi, o come il terzo polo
del conflitto, oppure con funzioni di arbitrato.
Sebbene questa definizione includa già un'ampia gamma di
comportamenti umani, alcuni studiosi preferiscono attribuire al
conflitto sociale un ambito ancora più esteso. Nella misura
in cui individui e gruppi sarebbero avvantaggiati, in teoria, dal
godere di qualche beneficio, dall'occupare una certa posizione, o
dal vivere in una determinata condizione sociale al momento goduta o
monopolizzata da altri individui e gruppi, un qualche tipo di
conflitto pervade tutta la vita sociale. Alcuni studiosi (v., ad
es., Lukes, 1974) sostengono che nessuna teoria del potere - e
dunque, per estensione, nessuna teoria del conflitto - che non
prenda in considerazione tali alternative precluse può essere
ritenuta valida. Johan Galtung (v., 1969) ha introdotto il concetto
di "violenza strutturale" - cioè le ingiustizie perpetrate ai
danni delle persone dalla struttura di potere esistente - in
riferimento proprio a situazioni di questo genere. In questo caso
una teoria del conflitto sociale può essere ritenuta una
teoria generale non solo della vita sociale esistente, ma anche
delle possibili forme di vita sociale alternative.
Per contro, in quest'ampia accezione, ogni teoria politica generale
è anche una teoria del conflitto sociale. Così
l'economia politica marxista, attraverso le sue analisi dello
sfruttamento, porta alla luce il conflitto insito in molte relazioni
sociali i cui soggetti non sono in lotta fra loro, e vi riesce
paragonando tali relazioni sociali con altre possibili almeno in
linea di principio. Servendosi di siffatte argomentazioni diventa
possibile concludere, per esempio, che i lavoratori italiani stanno
sfruttando i loro colleghi di Taiwan e Singapore.
Non c'è dubbio che, dando un senso così ampio alla
nozione di conflitto, si sollevano delle questioni fondamentali che
un punto di vista più ristretto può evitare. Questa
impostazione, inoltre, comporta due gravi inconvenienti: in primo
luogo, opera una generalizzazione del problema al punto da renderlo
virtualmente insolubile e da sottrarlo al dominio della
verificabilità; in secondo luogo, oscura il problema
originario, quello di determinare le condizioni in cui conflitti
esistenti in linea di principio generano, in pratica, pretese reali.
La trattazione che segue, pur prendendo in considerazione questi
argomenti di carattere generale, si concentra in particolare sui
conflitti espliciti, diretti, in cui almeno una delle parti in causa
avanza evidenti pretese nei confronti di un'altra.A rigor di
termini, sono solo i singoli individui, e non i gruppi, ad avanzare
pretese di segno negativo. Tuttavia il conflitto sociale è
chiaramente un fenomeno collettivo, in cui gli individui svolgono
un'azione comune e avanzano spesso pretese in nome di ampie
categorie sociali, quali classi, comunità o gruppi religiosi.
In tali casi, una semplificazione ricorrente è quella di
riferirsi ai gruppi come ai veri e propri attori del conflitto. Gli
individui che agiscono insieme provengono: 1) da categorie di
persone (ad es., coloro che sono nati nella stessa regione) aventi
in comune alcune caratteristiche facilmente individuabili; 2) da
reticoli di individui (ad es., catene patronocliente), connessi da
un certo tipo di interazione ma per il resto privi di
un'identità comune; oppure, e si tratta del caso più
importante, 3) da categorie di persone organizzate in reticoli (ad
es. colleghi di lavoro) che hanno in comune sia una caratteristica
facilmente individuabile che una serie di relazioni sociali. Solo di
rado tutti i membri di una categoria, di un reticolo, di individui o
di una categoria di persone organizzate in un reticolo entrano
insieme in azione nel conflitto.
L'usuale divario tra l'appartenenza alla categoria, al reticolo, o
alla categoria di persone organizzate in un reticolo, e la
partecipazione diretta alla formulazione delle varie pretese pone il
duplice problema dell'azione collettiva e della mobilitazione. Si
definisce 'azione collettiva' lo sforzo congiunto in favore di
interessi comuni a più persone. Si parla di 'mobilitazione'
per tutti quei processi per mezzo dei quali le risorse utilizzate
dall'azione collettiva - lavoro, denaro, armamenti e così via
- sono poste sotto controllo collettivo. Poiché l'azione
collettiva spesso è non solo rischiosa ma anche dispendiosa,
e distoglie frequentemente risorse da altri usi necessari, la
maggior parte dei gruppi mantiene bassi livelli di mobilitazione,
agisce collettivamente solo di tanto in tanto e vede impegnata
direttamente nell'azione solo una percentuale ridotta dei propri
membri. Questi momenti di azione collettiva minoritaria sono
comunque di cruciale importanza, poiché le conseguenze che
provocano esercitano un impatto significativo sulle relazioni tra
tutti i membri all'interno di un gruppo e con i membri di altri
gruppi. Anche nelle rivoluzioni di massa, come quelle verificatesi
in Russia e in Cina, la grande maggioranza dei contadini
continuò a badare ai propri campi come meglio poté per
tutta la durata delle agitazioni; ma quelli tra loro che si unirono
al movimento rivoluzionario impressero una svolta drammatica ai
destini di tutti gli altri.
2. Spiegazioni generali del conflitto
Gran parte dell'indagine sociologica sul conflitto consiste in un
lavoro descrittivo e interpretativo, piuttosto che in un'analisi
teorica vera e propria. La letteratura abbonda di studi specifici su
singoli casi di rivoluzioni, rivolte, scioperi, movimenti sociali e
conflitti di vicinato, studi intrapresi da una miriade di punti di
vista differenti. Sebbene tali lavori siano indispensabili per il
loro valore documentario, e contengano talvolta significative
intuizioni teoriche, valutati nel loro insieme essi appaiono privi
di un saldo nucleo concettuale.
Tuttavia, nel momento in cui si passa all'esplicita formulazione di
teorie, è un numero relativamente piccolo di questioni e di
idee a dominare la discussione. I problemi principali riguardano tre
punti:
1) le origini: quali sono le condizioni che promuovono o che
impediscono il formarsi di pretese di segno negativo;
2) i partecipanti: in che modo e per quale ragione si formano e si
mobilitano i gruppi che avanzano tali pretese;
3) la dinamica: attraverso quali processi, e con quali conseguenze,
i conflitti iniziano, si sviluppano, si attenuano e cessano.
Riferiti all'intero ambito della nozione di conflitto, questi sono
problemi enormi. Nessuna teoria può sperare di fornire da
sola la spiegazione a tutti e tre questi problemi.Le spiegazioni
generali del conflitto sociale si dividono secondo due direttrici
fondamentali. La prima concerne le relazioni sociali implicate nel
conflitto, e precisamente:
a) quelle relazioni che connettono gli individui alla società
presa nel suo insieme;
b) quelle relazioni che connettono un individuo o un gruppo a un
altro individuo o gruppo.
Da una parte, vi sono gli studiosi che concepiscono la vita sociale
come un confronto tra individui dalle caratteristiche chiaramente
definite e una società sovraordinata; dall'altra parte, vi
sono gli studiosi che ravvisano l'essenza della vita sociale in
relazioni concrete tra individui altrettanto concreti. Quando
Montesquieu identificò nella società intera, modellata
dalle proprie condizioni ambientali e dall'esperienza storica comune
a tutti i propri membri, la fonte dei sentimenti morali di questi
ultimi, e quando Rousseau sostenne invece che i sentimenti morali
scaturiscono dalle concrete relazioni di una persona con tutti
quelli che la circondano, essi presero posizione sui due lati
opposti di tale discrimine teorico.
La seconda distinzione concerne i processi sociali che producono
conflitto: a) il cattivo funzionamento degli ordinari meccanismi di
regolazione, o b) l'attivazione di interessi contraddittori. Se
paragoniamo la vita sociale a un organo funzionante o a una
macchina, possiamo considerare il conflitto come il risultato di una
malattia o di un guasto. Coloro che furono testimoni del rapido
processo di urbanizzazione e industrializzazione del XIX secolo
attribuirono spesso un'ampia varietà di mali sociali a quel
tipo di guasto, e proposero dei rimedi adeguati. Altri studiosi,
invece, ritengono che gli interessi generatori di conflitto siano
inerenti alla vita sociale, anche se vengono inibiti o attivati dal
variare delle circostanze. Secondo Freud, per esempio, il mondo
'ribolle' di forti pulsioni in attesa dell'opportunità di
esprimersi.
Le quattro concezioni risultanti dall'incrociarsi delle due
dicotomie sono riportate nello schema.
Queste quattro concezioni non sono teorie bensì metateorie,
ovvero insiemi di idee che non sono sufficientemente specifiche per
essere verificabili in se stesse, ma che guidano la teoria, la
ricerca e l'interpretazione degli eventi.
La metateoria della tensione sociale presuppone che esista una
società e che gli individui si rapportino ad essa come a una
forza superiore ed esterna; tale metateoria presume anche che
l'ordine sociale sia naturale, ma che il cambiamento produca
disordine, e il disordine produca a sua volta conflitto. Per la
metateoria della tensione sociale, il conflitto rappresenta una
condizione patologica evitabile. Sebbene molti enunciati empirici
traggano ispirazione da principî analoghi, nessuna di tali
presupposizioni, espressa in questi termini generici, può
empiricamente esser provata vera o falsa. Émile Durkheim
rappresenta un tipico esempio di pensatore che, nell'affrontare il
tema del conflitto, ha fatto solitamente ricorso a una metateoria
della tensione sociale, formulando in genere le proprie
argomentazioni empiriche in accordo con tale metateoria. Secondo
Durkheim, se la divisione del lavoro supera la capacità,
propria di una determinata società, di mantenere
l'integrazione dei suoi membri, questi perdono il proprio
attaccamento alla società stessa, prevalgono l'anomia e uno
stato di disordine, che contiene in sé il conflitto. Le
teorie più specifiche di Durkheim, per esempio la sua analisi
del suicidio, si conformano generalmente alla metateoria della
tensione sociale.
La metateoria della lotta tra gruppi, in opposizione
pressoché totale alla precedente, sostiene che gli individui
e le loro reciproche relazioni sociali costi tuiscano le
realtà fondamentali della sfera sociale, che individui e
gruppi abbiano interessi comuni, e che la vita sociale consti di
interazioni fra gruppi costituiti sulla base di interessi comuni.
Karl Marx rappresenta l'esempio più tipico di un metateorico
della lotta fra gruppi. Insiemi interagenti di esseri umani
costituiscono, agli occhi di Marx, la realtà sociale
fondamentale; tutti gli individui e i gruppi hanno degli interessi
determinati dalla posizione da essi occupata entro il sistema
produttivo; interessi contraddittori sono inerenti a quasi tutti i
sistemi produttivi, e situazioni di aperto conflitto scaturiscono
prevalentemente da interessi contraddittori.
Le altre due concezioni presentano anch'esse delle caratteristiche
peculiari. L'idea circa il carattere intrinseco del conflitto
sociale combina l'immagine di un individuo che si confronta con la
società in generale con una visione del conflitto come
attivazione di interessi latenti. Tale idea postula spesso un
qualche tipo di determinismo biologico, che nella sua forma estrema
considera il conflitto come l'espressione di un istinto di lotta
programmato geneticamente. E infatti Konrad Lorenz (v., 1963)
presenta l'aggressività come profondamente radicata nella
biologia umana e promossa da una selezione genetica che affina la
capacità di lottare. Ma ogni spiegazione del conflitto che
ricorra alle peculiari inclinazioni di taluni tipi di individui o
gruppi - siano esse innate, apprese o determinate dall'ambiente -
rientra in questa categoria. Brian Crozier (v., 1974, cap. VIII),
per esempio, deriva la sua conclusione che il conflitto è
inevitabile, e tuttavia dev'essere represso, dai seguenti 'assiomi':
l'uomo è per natura invidioso e aggressivo; la sua natura non
è soggetta a modificazioni; il suo comportamento è
comunque suscettibile di cambiamenti in meglio o in peggio; l'uomo,
infine, ha un fortissimo bisogno di ordine. L'analisi di Crozier
tradisce il contenuto potenzialmente conservatore delle idee
derivanti dalla metateoria del carattere intrinseco.
La metateoria delle relazioni tra gruppi postula comunemente che i
conflitti nascano da pregiudizi, incomprensioni o errate
valutazioni, che l'informazione, l'educazione, la persuasione o un
prolungato contatto elimineranno. Quando si scatena un contrasto per
motivi razziali, etnici o religiosi, di solito si fa ricorso a
spiegazioni basate sulle relazioni tra gruppi. I progetti
periodicamente presentati da educatori e politici al fine di ridurre
il conflitto per mezzo dell'esortazione, dell'educazione e del
contatto tra gli avversari dimostrano che questo genere di approccio
è ancora diffuso. Tuttavia, le concezioni basate sul
carattere intrinseco e sulle relazioni tra gruppi hanno avuto un
impatto relativamente modesto sulle recenti analisi del conflitto.
Viceversa, la maggior parte delle teorie e delle ricerche
contemporanee segue la linea della tensione sociale o quella della
lotta tra gruppi. Il presente articolo si occuperà
principalmente di queste due prospettive teoriche, formulando dei
giudizi circa la loro utilità.
Le metateorie, sebbene siano troppo ampie perché sia
possibile provarle vere o false, esercitano una profonda influenza
sull'indagine concernente il conflitto sociale. Inoltre, certe
teorie che possono essere verificate si collocano senza
ambiguità entro l'una o l'altra delle suddette metateorie.
Quando Samuel Huntington (v., 1968) tenta per esempio di spiegare
l'andamento del conflitto politico nei paesi in via di sviluppo,
sostiene che il grado di conflittualità è funzione
della misura in cui la mobilitazione sociale supera
l'istituzionalizzazione della società e soprattutto del
governo: più ampio è il divario, più diffuso
è il conflitto. Poiché è difficile misurare il
grado di istituzionalizzazione indipendentemente dall'estensione del
conflitto, la teoria corre il rischio di cadere in un circolo
vizioso; ciononostante, mediante l'uso di definizioni e misurazioni
appropriate è possibile sottoporla a verifica. La teoria di
Huntington, in quanto combina l'idea di cattivo funzionamento con
l'idea di confronto tra individuo e società, rientra senza
dubbio nella categoria della tensione sociale.Kenneth Boulding (v.,
1962), viceversa, sostiene che il conflitto economico diventa
più acuto nei paesi poveri che in quelli ricchi
poiché, in condizioni prossime al livello di mera
sussistenza, ogni guadagno ottenuto da un gruppo equivale
verosimilmente a una perdita per un altro gruppo. Egli, inoltre,
nell'analizzare altri tipi di conflitto, si richiama ripetutamente
ai modelli costruiti da Lewis Richardson relativi alla corsa agli
armamenti. (I modelli di Richardson, nella loro forma più
semplice, considerano gli armamenti di una nazione come una
funzione:
1) dell'armamento di un paese rivale, moltiplicato per un indice
stabilito in base alla vulnerabilità a quel tipo di
armamento;
2) del costo della produzione di nuove armi;
3) del livello di ostilità nei confronti del paese rivale; se
gli antagonisti rispondono l'uno alle mosse dell'altro, un modello a
due equazioni dimostra la possibilità che si determini una
spirale nella corsa agli armamenti anche in assenza di alterazioni
dei livelli di ostilità o dei costi degli armamenti).
Come mostrano questi due esempi, l'attivazione di interessi da parte
di gruppi in competizione si trova al centro dell'analisi di
Boulding. Questo genere di argomentazione colloca manifestamente la
sua teoria nella categoria della lotta tra gruppi.
3. Conflitto e mezzi coercitivi
I sostenitori delle teorie della lotta tra gruppi e della tensione
sociale sono d'accordo su un punto: la forma e il controllo dei
mezzi coercitivi a disposizione modellano il carattere,
l'intensità e le conseguenze del conflitto sociale, e quindi,
se cambiano i mezzi di coercizione cambia anche il tipo di
conflitto. Tali mezzi comprendono qualsiasi strumento utilizzato
dalle persone per imporre le proprie pretese di segno negativo,
dalle maldicenze alle bombe. I mezzi per avanzare pretese di segno
negativo sono distribuiti, in qualunque tempo e luogo, in maniera
alquanto diseguale. Nel mondo contemporaneo, con enormi riserve di
armi terribili accumulate negli arsenali di pochi Stati, i mezzi di
coercizione sono distribuiti in maniera persino più diseguale
di quanto non accada per il cibo, le strutture sanitarie, la
ricchezza e il reddito pro capite. La distribuzione diseguale degli
strumenti coercitivi determina un coinvolgimento diseguale nel
conflitto. Più ampia è la scala del conflitto,
maggiore è la diseguaglianza. Su una scala molto vasta, a
prescindere dal modo in cui un conflitto abbia inizio, gli Stati
diventano inevitabilmente gli attori principali. Ai nostri giorni,
gli Stati nazionali sono diventati i grandi specialisti
nell'iniziare, portare avanti e controllare il conflitto,
soprattutto quello violento.
Uno Stato è un'organizzazione relativamente autonoma e
specializzata che controlla i principali mezzi coercitivi
concentrati entro un territorio piuttosto vasto. Se nessun gruppo
detiene una parte preponderante degli strumenti di coercizione (per
esempio, se ciascun nucleo familiare o ciascun gruppo organizzato
possiede armi simili, e se nessun altro tipo di organizzazione ne
possiede in maggiore quantità), se l'organizzazione dotata di
ampi mezzi coercitivi non possiede alcun territorio abbastanza
esteso (com'è talvolta il caso, per esempio, di eserciti
mercenari), o se l'organizzazione in questione non è
distinguibile da gruppi basati su legami di parentela, allora non
esiste alcuno Stato. In questo senso si può affermare che,
mille anni fa, la maggior parte delle Americhe, dell'Africa, del
Pacifico e dell'Asia meridionale era priva di organismi statali.
Attualmente nessuna parte significativa del globo è senza
Stati, e si è imposto un tipo di Stato alquanto raro in
passato: lo Stato nazionale.
Lo Stato nazionale differisce dalla città-Stato, dall'impero
e dalla federazione di città che una volta erano
preponderanti su scala mondiale fra gli organismi statali. Il
sistema di Stati nazionali formatosi in Europa è giunto a
dominare il mondo intero a partire dal XV secolo. Con la
decolonizzazione che seguì alla seconda guerra mondiale, le
principali potenze suddivisero quasi tutto il globo in Stati
nazionali formalmente autonomi. Allora, ogni nuovo Stato
costituì le proprie forze armate, cosicché i modelli
del conflitto sociale del Terzo Mondo si modificarono passando dalla
lotta tra controllo coloniale e resistenza anticoloniale a lotte
locali per il potere.
Gli Stati giocano un ruolo centrale nel conflitto sociale,
perché si specializzano nel controllo e nell'uso di una
grande quantità di mezzi di coercizione. La distinzione tra
Stati e altri soggetti fornisce quindi le basi di una sommaria
tipologia del conflitto sociale, imperniata sulle principali coppie
di attori:
Stato contro Stato: per esempio guerra, conquista.
Stato contro non-Stato: per esempio ribellione, rivoluzione,
movimenti sociali.
Non-Stato contro non-Stato: per esempio conflitto industriale,
scontri tra villaggi, lotte religiose.
Questa tipologia è valida soltanto in maniera approssimativa,
poiché molti conflitti coinvolgono più di due parti,
poiché spesso il discrimine tra Stato e non-Stato non appare
sufficientemente distinto, e poiché i conflitti tra Stati
coinvolgono pressoché inevitabilmente attori che non sono
Stati. Alcune importanti varietà di conflitto - per esempio i
delitti tra persone - si collocano proprio al limite tra la seconda
e la terza categoria, in quanto agenti dello Stato intervengono
regolarmente in tali conflitti e ne determinano in ampia misura gli
esiti. Gli studi sul conflitto sociale hanno risentito delle
specializzazioni accademiche, inducendo un gruppo di studiosi ad
occuparsi della guerra e della diplomazia, un altro gruppo a
studiare le rivoluzioni e le ribellioni, un altro ancora a
interessarsi della criminalità o dei conflitti etnici,
ciascuno prestando scarsa o nessuna attenzione agli altri ambiti di
studio. Noi dovremmo invece evitare di considerare i conflitti tra
Stato e Stato, tra Stato e non-Stato, e tra non-Stato e non-Stato
come fenomeni che non hanno niente in comune l'uno con l'altro.
In genere, però, la tassonomia individua distinzioni
importanti.
Consideriamo i conflitti Stato contro Stato. Nel mondo
contemporaneo, in cui gli Stati sono gli organismi dominanti e
formano un sistema internazionale relativamente compatto, i
conflitti tra Stati hanno di solito un impatto molto più
esteso rispetto ad altri conflitti: anche una disputa d'importanza
relativamente minore tra due Stati provoca il rapido intervento di
terzi che hanno qualcosa da guadagnare o da perdere dall'esito del
conflitto. I conflitti che coinvolgono gli Stati (tanto del tipo
Stato contro Stato, quanto del tipo Stato contro non-Stato)
producono violenza più spesso dei conflitti tra soggetti che
non sono Stati, e ciò perché gli Stati hanno a loro
disposizione mezzi incomparabilmente più potenti per
l'esercizio della violenza. (Questo aspetto sfugge di solito
all'attenzione perché gli studiosi, classificando gli episodi
di violenza, non prendono in considerazione la guerra e la
repressione interna). I conflitti tra Stati, combattuti attraverso
l'impiego dei rispettivi eserciti, producono inoltre violenza su una
scala molto più vasta di quanto non facciano altri tipi di
conflitto, sebbene le guerre civili, che somigliano per molti versi
ai conflitti tra Stati e talvolta non ne sono facilmente
distinguibili, li superino occasionalmente quanto a violenza.I
conflitti tra Stati e non-Stati caratterizzano l'intera storia del
processo di formazione delle entità statali; coloro che erano
a capo d'uno Stato hanno cercato di battere i propri nemici interni,
di controllare le popolazioni loro soggette e di estorcerne i mezzi
necessari a condurre una guerra; mentre gruppi operanti all'interno
dei confini nazionali hanno tentato di sottrarsi alle richieste
dello Stato, di influenzare a proprio vantaggio l'azione di questo,
e talvolta di impadronirsi almeno in parte del potere. Poiché
le classi dirigenti si servono generalmente dell'apparato statale -
per esempio, della polizia - per proteggere i propri interessi
particolari e per sferrare attacchi contro gli avversari, molte
apparenti forme di lotta tra Stato e non-Stato sono nate in
realtà da conflitti tra attori che non erano Stati.
Paragonati ai conflitti che rientrano nelle prime due categorie,
quelli tra attori diversi dallo Stato coinvolgono con maggior
frequenza alte percentuali di tutta quella parte della popolazione i
cui interessi sono messi in gioco dall'esito del conflitto,
principalmente perché il controllo sui mezzi coercitivi
esercitato dallo Stato scoraggia molti dall'entrare in conflitti nei
quali lo Stato rappresenta una delle parti in causa. All'interno
della categoria dei conflitti non-Stato contro non-Stato, il
conflitto di classe fornisce un impulso sostanziale al cambiamento
sociale, soprattutto quando si attua su scala regionale o nazionale,
dato che la posta in gioco concerne direttamente l'organizzazione
della produzione, che a sua volta fornisce la base per altre forme
di organizzazione sociale. La forma assunta dal conflitto di classe
varia radicalmente a seconda del modo di produzione: basti pensare
all'opposizione dei contadini contro i proprietari terrieri tipica
del feudalesimo classico, alla lotta tra proletari e capitalisti
dominante nel capitalismo industriale, alle battaglie tra lavoratori
e burocrati di partito proprie del socialismo di Stato. L'aspetto
davvero sorprendente è che il conflitto aperto non mandi in
frantumi questi sistemi; ciò non avviene poiché le
classi dominanti fanno ricorso alla repressione, poiché dei
terzi (e tra questi lo Stato stesso) intervengono per mitigare i
conflitti, poiché le classi subordinate ricevono delle
contropartite economiche, poiché la formazione di una classe
è un processo difficile e imprevedibile, e poiché la
mobilitazione e l'azione collettiva presentano dei rischi e
distolgono risorse da altre attività che non possono essere
eluse.
Per ragioni analoghe, la stragrande maggioranza dei potenziali
conflitti tra gruppi religiosi, etnici, razziali o comunque con una
connotazione culturale, non promuove mai l'esplicita formulazione di
pretese di segno negativo. I conflitti diventano acuti e tendono a
generalizzarsi solo quando viene messo in discussione il controllo
della produzione o dell'apparato statale, e quando gli attivisti
interni ai vari gruppi (spesso si tratta dei capi di questi gruppi
che giudicano pericolosa la propria situazione personale) articolano
i loro problemi in termini di oppressione o di competizione sleale
(v. Gellner 1983; v. Olzak e Nagel, 1986).
4. La dinamica del conflitto
Attraverso quali processi, e con quali conseguenze, i conflitti
iniziano, si sviluppano, declinano e cessano? Per molti anni, le
risposte più diffuse a tali questioni riguardanti la dinamica
del conflitto sono venute dalla metateoria della tensione sociale;
esse possono essere riunite in due gruppi principali: a) storie
'naturali': viene postulata l'esistenza di sequenze ricorrenti di
eventi per rivoluzioni, movimenti sociali e altri tipi di conflitto
che si sviluppano da determinate tensioni strutturali (cfr., per
es., Smelser, 1963); b) modelli socio-psicologici del tipo
frustrazioneaggressione o privazione relativa, i quali concepiscono
tipicamente il conflitto come la liberazione di emozioni generate
dall'esperienza sociale, soprattutto dalla comparsa di discrepanze
significative tra le aspettative delle persone e le realtà
che queste si trovano ad affrontare (v., per es., Gurr, 1970).
Nessuna di queste due linee interpretative si è finora
dimostrata veramente efficace nella spiegazione delle variazioni del
carattere, dell'incidenza e della dinamica del conflitto sociale
(per un esauriente esame, v. Gurr, 1980; v. Zimmerman, 1983).
Il corpo di teorie più coerente, in merito al conflitto
sociale, è quello basato sull'idea della lotta tra gruppi, e
prende la forma dell'analisi strategica. Quest'ultima, come viene
correntemente impostata, non presta una grande attenzione alle cause
del conflitto o a coloro che vi prendono parte, ma si occupa a fondo
della sua dinamica. Anzi, l'analisi strategica assume le cause e i
partecipanti come dati, al fine di comprendere appieno la dinamica
del conflitto. Gran parte di quest'analisi si rifà alle
argomentazioni contenute ne Il principe di Niccolò
Machiavelli, passando per Jeremy Bentham, gli utilitaristi inglesi e
l'analisi microeconomica contemporanea. Assumendo gli interessi di
partenza e i mezzi utilizzati dai soggetti del conflitto come dati,
l'analisi strategica si concentra sulla genesi di rivendicazioni di
segno negativo, intesa come un'interazione razionale in cui ciascuna
delle parti tenta di ottenere vantaggi e di evitare
svantaggi.L'analisi strategica del conflitto sociale si propone
principalmente tre obiettivi piuttosto diversi fra loro:
1) identificare la serie di relazioni sociali e di regole
decisionali che meglio caratterizzano il modo in cui si verifica
effettivamente un determinato conflitto o una classe di conflitti
(stabilendo, per esempio, fino a che punto un modello adeguato della
guerra tra Iran e Iraq debba prendere in considerazione altri
soggetti);
2) desumere i risultati di differenti strategie di conflitto
(valutando, per esempio, gli effetti delle diverse vie al disarmo);
3) individuare quale sia il modo migliore per assicurare al
conflitto un determinato sbocco (esaminando per esempio i modi per
far sì che gli scontri tra polizia e dimostranti non
finiscano in un bagno di sangue).
In tutti e tre i casi, gli studiosi attingono spesso a quella branca
della teoria delle decisioni denominata teoria dei giochi: si tratta
dell'analisi matematica delle decisioni in situazioni il cui esito
dipende parzialmente dalle scelte compiute da altri attori, in cui
ogni attore è consapevole di tutti i possibili risultati e
possiede una precisa scala di preferenze verso di essi, e in cui
tutti gli attori cercano di procurarsi il massimo vantaggio
possibile.
Gli esempi più rilevanti provengono dallo studio delle
relazioni internazionali, nel quale gli analisti strategici trattano
abitualmente i confronti diplomatici e militari come giochi
sofisticati i cui possibili esiti sono combinazioni variabili di
vittoria, sconfitta e danno per i diversi partecipanti. Ad esempio,
sulla base della teoria dei giochi, il cambiamento intercorso nelle
relazioni cino-americane, dalla guerra del 1950 fino al consistente
grado di riavvicinamento raggiunto negli anni settanta, viene
interpretato come la formazione di una alleanza risultante dal
declino relativo della potenza militare americana rispetto a quella
sovietica, e dall'ascesa relativa della potenza militare cinese
rispetto a quella americana (v. Luterbacher e Ward, 1985, p. 248).
Nonostante si possa pervenire a conclusioni analoghe anche senza il
ricorso alla teoria formale dei giochi, la formalizzazione consente
di contrapporre tali argomentazioni a spiegazioni alternative e
ugualmente plausibili.
Gli studi di Robert Axelrod sul 'dilemma del prigioniero' mostrano
come delle semplici specificazioni della teoria dei giochi producano
risultati illuminanti. Nella sua forma elementare, il dilemma
caratterizza un'interazione in cui l'azione egoistica di entrambe le
parti conduce a risultati indesiderabili per ciascuna delle due,
mentre una combinazione di atti egoistici e di atti improntati alla
cooperazione, da parte dei due partecipanti, conduce a un risultato
ancora più positivo per la parte egoista e a un risultato
negativo per quella cooperante. Molte situazioni della vita reale
somigliano al dilemma del prigioniero: si pensi all'inquinamento
ambientale, alla corsa agli armamenti, alla contrattazione delle
leggi, e addirittura agli incontri che si verificano in natura tra
organismi aventi la possibilità, ma non la certezza, della
simbiosi. Nel corso di una singola interazione, entrambe le parti
hanno forti motivi per evitare la cooperazione e perseguire il
proprio interesse individuale senza tenere in alcun conto quello
dell'altra.
La situazione cambia, tuttavia, se le parti entrano spesso in
interazione. Nel corso di ripetuti incontri, anche i soggetti mossi
esclusivamente da intenti egoistici tendono a trarre vantaggio da
strategie che combinano una fase iniziale di cooperazione e una
netta differenziazione tra le risposte, a seconda che la controparte
cooperi a sua volta oppure continui ad agire esclusivamente per il
proprio interesse individuale. La strategia del rispondere 'colpo su
colpo' - io inizio col cooperare, al nostro primo incontro, e poi mi
adeguo completamente all'atteggiamento col quale tu rispondi - tende
ad avere la meglio su ogni strategia improntata a maggiore egoismo.
Il vantaggio offerto da una strategia di iniziale cooperazione,
inoltre, aumenta:
a) con la probabilità di ulteriori incontri;
b) con la chiarezza della discriminazione tra le varie risposte;
c) con la certezza sull'identità della controparte, sulle sue
azioni e sulle loro conseguenze.
Anche in mezzo a una popolazione d'incorreggibili egoisti, un gruppo
di giocatori che utilizzi la strategia del 'colpo su colpo' tende a
vincere. In questo modo l'analisi dimostra, tra le altre cose, i
vantaggi derivanti dal coalizzarsi.Sotto questo aspetto, i risultati
di Axelrod richiamano l'analisi condotta da Mancur Olson in The rise
and decline of nations circa la probabilità che gruppi di
ridotte dimensioni, nonché gruppi aventi accesso a incentivi
selezionati formino delle coalizioni nella distribuzione delle
risorse. Datori di lavoro nell'industria, sindacati di categoria e
associazioni di produttori ne costituiscono degli esempi. Tali
gruppi, in base allo schema di Olson, ottengono un vantaggio
utilizzando la loro struttura organizzativa al fine di influenzare
la produzione e la distribuzione dei beni. Nel lungo termine tale
influenza conduce alla sclerosi, o almeno a una significativa
deviazione dalla classica razionalità del mercato. Si
determina così quel ciclo che segue ogni grande lotta a
carattere nazionale: dapprima un'espansione relativamente libera
durante la quale coloro che hanno la capacità di formare
coalizioni iniziano a farlo, e poi una contrazione come risultato
del comportamento di tali coalizioni.
Esistono due modi, secondo Olson, per sfuggire a questa dinamica: o
annientare di tanto in tanto le coalizioni, oppure promuovere la
formazione di coalizioni globali, i cui particolari vantaggi
soddisfino anche l'interesse generale.
Negli schemi di Axelrod e di Olson la certezza e la
continuità delle relazioni sociali facilitano la formazione
di coalizioni stabili, funzionali al mutuo interesse delle parti che
continuano a perseguire i propri scopi particolari, e di coalizioni
globali, funzionali all'interesse generale.I risultati teorici e
sperimentali raggiunti da Axelrod presentano strette analogie con la
contrattazione delle leggi, con le alleanze militari e diplomatiche,
e con la collusione tra imprese industriali. Tali analogie, a loro
volta, suggeriscono la possibilità di generalizzare i
fondamenti della teoria dei giochi al livello dei processi
strutturali su larga scala. Questo è, in effetti, il progetto
formulato da John Elster e perseguito (in una direzione però
alquanto diversa da quella intrapresa dallo stesso Elster) da Andrew
Schotter.
L'analisi strategica, ovviamente, si applica tanto al conflitto
interno quanto a quello internazionale. James De Nardo (v., 1985),
per esempio, ha creato un modello generale, essenzialmente
microeconomico, che riproduce i criteri ai quali i dissidenti
decidono di ispirarsi nella loro azione contro un determinato
regime; mentre Barbara Salert e John Sprague (v., 1980) hanno
sviluppato dei modelli che riproducono la dinamica interna delle
interazioni violente tra dimostranti e polizia. A livello di
micromobilitazione, Mark Granovetter, Clark McPhail, John Lofland e
altri ricercatori hanno approntato utili modelli di quei processi di
comunicazione che trasformano un aggregato passivo in un gruppo
pronto all'azione, di quei processi, cioè, di mobilitazione
finalizzata a un'azione collettiva.Il gruppo di ricercatori guidato
da William Gamson, per esempio, ha condotto una serie di esperimenti
sulla resistenza opposta ad autorità ingiuste. L'esperimento
centrale consisteva nel mettere a confronto i soggetti prescelti con
un presunto ricercatore, il quale infrangeva sistematicamente e
progressivamente l'accordo stabilito in precedenza col gruppo,
tentando di influenzare le loro dichiarazioni.
Secondo l'analisi di Gamson, una forma di aperta resistenza a tale
violazione, quando si verificava, scaturiva dalla combinazione di
tre tipi di azioni: quelle di tipo organizzativo aumentavano le
capacità collettive del gruppo; quelle di tipo privativo
neutralizzavano i vincoli nei confronti dell'autorità; quelle
di tipo ricostitutivo creavano un nuovo contesto per
l'interpretazione dei comportamenti dell'autorità; in questo
nuovo contesto l'autorità era considerata ingiusta. Secondo
tale modello, pertanto, una ribellione vittoriosa contro
un'autorità ingiusta risulta da una sequenza di atti
organizzativi, privativi e ricostitutivi (v. Gamson e altri, 1982).
Mark Granovetter si è accostato alla dinamica della
micromobilitazione da un'altra angolazione. I suoi "modelli-soglia
del comportamento collettivo" postulano una distribuzione di attori
ciascuno dei quali fa i propri calcoli in termini di costi e
benefici derivanti dalla sua partecipazione a una determinata
azione, calcoli che dipendono in misura assai rilevante dal numero
di attori già coinvolti nell'azione o che promettono di
parteciparvi. L'attivazione dell'intero gruppo, se si verifica,
dipende dal raggiungimento da parte dei diversi attori delle
rispettive soglie - per esempio, il 20%, il 40%, il 90% dei membri
del gruppo - via via che altri soggetti si uniscono all'azione. In
questi modelli, due gruppi con identiche propensioni medie ad agire
(per esempio due gruppi in cui il membro-tipo è pronto a
unirsi all'azione quando il 40% dei membri è già
coinvolto in essa) possono differenziarsi in maniera significativa,
a seconda della distribuzione delle soglie individuali, nella loro
propensione collettiva all'azione. I modelli di Granovetter prestano
grande attenzione alla raccolta di informazioni circa l'impegno di
altre persone che di solito precede un'azione rischiosa: la
disponibilità allo scontro fisico, l'esame delle varie
tattiche, il ricordo dei precedenti scontri, gli appelli alla
solidarietà, le stipulazioni di accordi tra coppie di
partecipanti e così via.Malgrado questo promettente indirizzo
di ricerca e d'indagine teorica, le analisi strategiche dei
conflitti interni a un determinato paese non hanno goduto di quella
popolarità raggiunta invece dalle analisi strategiche dei
conflitti internazionali.
Ciò è avvenuto soprattutto per due ragioni:
1) gli studiosi di conflitti internazionali pensano abitualmente in
termini strategici, mentre coloro che si occupano di conflitti
interni pensano di solito in termini di eziologia;
2) è più facile applicare modelli decisionali unitari
agli Stati che non alla maggior parte dei partecipanti a conflitti
interni.
In realtà l'uso dell'analisi strategica come metodo generale
per spiegare il conflitto sociale presenta ancora alcuni gravi
limiti. In primo luogo, allo stato presente delle conoscenze, i
modelli strategici risultano efficaci solo in presenza di
presupposti molto restrittivi: numero e identità fissi degli
attori, interessi e scelte noti agli attori e specificati a priori,
e così via; in molti conflitti, invece, questi aspetti
cambiano nel corso della lotta. Al limite (come sostengono, sebbene
con modalità alquanto diverse, E. P. Thompson, Alain Touraine
e Francesco Alberoni), il conflitto produce realmente nuove
identità, nuovi interessi e nuove scelte. In secondo luogo,
alcuni dei processi cruciali nell'ambito del conflitto - per esempio
quelli con cui Stati in guerra fra loro ricostituiscono le proprie
risorse e rinfocolano l'impegno dei propri cittadini - non sono
strategici in alcun senso pregnante del termine; essi richiedono
piuttosto, per essere descritti, dei modelli di accumulazione, di
comunicazione e di controllo. In terzo luogo, se si vuole affrontare
seriamente il problema di spiegare non solo la dinamica del
conflitto ma anche le caratteristiche dei suoi partecipanti e le sue
origini sociali, allora è necessario analizzare il sorgere e
il trasformarsi degli attori, degli interessi, delle scelte, delle
informazioni e delle diverse forme di conflitto; ma l'analisi
strategica offre un aiuto alquanto modesto in tale direzione.
5. Forme assunte dal conflitto
Il conflitto sociale può assumere molte forme, che variano in
funzione della struttura sociale e del precedente evolversi del
conflitto tra determinati attori. Prendiamo il caso del conflitto
industriale: gli scioperi, nel senso di astensioni concertate dei
lavoratori dalla produzione, associate a richieste di cambiamenti
nelle condizioni della produzione stessa, si verificano soprattutto
quando il lavoro viene eseguito da proletari, il capitale è
concentrato in poche mani e gli operai lavorano in stretto contatto.
Ma le forme particolari di sciopero, come ha mostrato Michelle
Perrot (v., 1974) a proposito della Francia del XIX secolo, si
sviluppano dalle lotte tra lavoratori, capitalisti e agenti dello
Stato; il risultato è che col tempo ciascun paese accumula,
attorno al fenomeno dello sciopero, un proprio patrimonio di leggi
speciali, prassi poliziesche, burocrazie, comportamenti dei
lavoratori, tecniche di associazione e strategie padronali. Tale
patrimonio determina poi in larga misura l'incidenza, la
distribuzione, la frequenza, il carattere e l'esito degli scioperi.
Ciò che vale per gli scioperi si può estendere
generalmente a tutte le forme di conflitto. In confronto alla
molteplicità di attività conflittuali possibili almeno
in teoria, una qualsiasi coppia di attori che s'impegna in un
conflitto prolungato tende ad attuare una serie estremamente
limitata di comportamenti, adottando sempre gli stessi per
più volte, con variazioni di secondaria importanza.
All'interno degli Stati capitalisti contemporanei, i conflitti
organizzati tra padroni e operai assumono la forma di scioperi,
serrate, consigli di fabbrica, dimostrazioni, richieste d'intervento
statale, sabotaggi ecc.
Nei paesi europei del XVIII secolo, d'altra parte, padroni e operai
si affrontavano ricorrendo ad azioni umilianti (come il far sfilare
un crumiro in groppa a un asino) e a ciò che gli inglesi
chiamavano turn-out. Il turn-out consisteva in una serie di
iniziative: i lavoratori (insoddisfatti) di una determinata
città si riunivano in un luogo protetto, quindi marciavano da
un'officina all'altra sollecitando altri lavoratori a unirsi a loro,
poi indicevano una nuova assemblea di lavoratori, nel cui ambito
formulavano collettivamente le proprie rivendicazioni, infine
inviavano delegazioni presso i padroni e le autorità locali.
A tutto ciò facevano seguito controassemblee padronali (e
talvolta delle autorità locali), negoziati (durante i quali
il lavoro restava interrotto) e accordi conclusivi, sia al
più ampio livello della comunità che a quello
più ristretto della singola officina. Il fatto che il
turn-out non abbia seguito in tutti i casi questa esatta sequenza -
il fatto che, per esempio, singoli padroni abbiano talvolta cacciato
i propri operai dalla fabbrica, rifiutandosi poi di riassumerli -
conferma che non si trattava di un vuoto rituale, ma di un vero e
proprio mezzo con cui gli antagonisti risolvevano i propri
conflitti.
Nei paesi occidentali, a partire dalla seconda guerra mondiale,
è diventata abbastanza comune una forma di conflitto fino a
quel momento piuttosto rara: un gruppo s'impadronisce di un luogo,
di una persona o di un oggetto importanti per il loro valore
simbolico, tenendoli in ostaggio nel corso delle trattative con un
altro gruppo. Rientrano in questo schema i dirottamenti aerei, le
occupazioni delle fabbriche e i sit-in negli uffici o nelle
pubbliche piazze. La cattura di ostaggi in guerra ha dietro di
sé una lunga storia, e le dimostrazioni per più di un
secolo hanno gravitato intorno ai più importanti luoghi
pubblici, ma come tattica premeditata questa dinamica
sequestro-trattativa rappresenta un orientamento del tutto nuovo.
Essa coincide in parte con le tattiche adottate in quell'ambito
eterogeneo di conflitti che le autorità indicano con il nome
di terrorismo.
Attacchi proditori alle autorità condotti da gruppi al di
fuori della legalità si sono verificati per millenni. In
questo senso generico il terrorismo non rappresenta nulla di nuovo.
Le novità del recente terrorismo, come segnala Donatella
Della Porta (v., 1984, p. 14), risiedono piuttosto nella scelta
ricorrente di bersagli di rilevanza più simbolica che reale,
nella ricerca dell'effetto psicologico, nell'adeguare il messaggio
al bersaglio e nel dirigere molti attacchi contro persone che non
hanno il potere di soddisfare le richieste dei terroristi. Queste
tattiche, quando hanno successo, riescono a raggiungere più
scopi nello stesso tempo: confermano l'esistenza del gruppo di
attivisti, ne pubblicizzano le richieste, dimostrano la
vulnerabilità delle autorità. Ma gradualmente anche
queste forme di conflitto si cristallizzano in stereotipi
chiaramente individuabili.
Una delle parole con cui si indica l'insieme dei mezzi usati in un
conflitto da una qualsiasi coppia (o gruppo più ampio) di
attori è 'repertorio'. La metafora teatrale suggerisce che si
tratta di un numero limitato di procedure relativamente
differenziate e implicanti interazione tra alleati e nemici, che
sono messe in atto dai partecipanti in base a norme negoziate, sono
più o meno note a tutti i partecipanti, variano di volta in
volta e tendono ad essere manipolate dagli attori a proprio
esclusivo vantaggio. Naturalmente nelle forme del conflitto si
verifica anche una certa innovazione, che però modifica solo
marginalmente le forme che hanno già una posizione
consolidata nel repertorio. All'interno dei repertori del conflitto
sono estremamente rari i momenti di dirompente creatività,
come il luglio del 1789 o il maggio del 1968. Gli attivisti politici
inglesi del XIX secolo, per esempio, crearono gradualmente la forma
della dimostrazione attraverso una serie di variazioni rispetto alle
forme del comizio pubblico, della marcia di petizione e della
delegazione, ciascuna delle quali aveva una certa importanza nei
repertori inglesi della fine del XVIII secolo. Già prima del
1840 la dimostrazione di massa era ormai divenuta una tattica usuale
dei gruppi in lotta per strappare concessioni alle autorità.
I vantaggi di queste modifiche marginali dei repertori esistenti
sono ovvi: coloro che mettono in pratica nuove forme di conflitto
hanno relativamente poco da imparare e, nella misura in cui il
repertorio ha raggiunto una legittimazione de facto o persino de
jure, gli avversari incontrano maggiori difficoltà
nell'invocare sanzioni legali e morali contro quelle innovazioni che
sembrano cadere entro tale ambito. C'è però anche lo
svantaggio che per ostacolare l'innovazione gli avversari possono
ricorrere a mezzi analoghi a quelli già utilizzati per
neutralizzare le forme precedenti. Nel conflitto, pertanto, gli
innovatori devono costantemente soppesare i pregi della
familiarità e della legalità di contro agli innegabili
vantaggi connessi al fattore sorpresa.
I repertori del conflitto variano secondo la struttura e la storia
delle relazioni sociali nel cui contesto essi sono situati. Questo
è uno dei motivi che sta alla base delle differenze
sussistenti tra i conflitti Stato/Stato, Stato/non-Stato e
non-Stato/non-Stato: nella loro interazione, gli Stati creano una
serie di modelli conflittuali standard, gli Stati e i loro
oppositori interni ne elaborano altri, gli avversari al di fuori
dello Stato altri ancora. Dopo il 1500 gli Europei hanno imposto al
mondo intero il proprio tipo di sistema statale e quindi i loro
apparati di ambasciate, delegazioni, conferenze internazionali,
trattati, eserciti permanenti e formali dichiarazioni di guerra, che
a loro volta hanno determinato quel repertorio stilizzato di
relazioni interstatali tipico dell'epoca contemporanea. Sebbene
l'organizzazione interna degli Stati, l'appartenenza al sistema
internazionale degli Stati, le potenze dominanti e gli interessi da
queste perseguiti abbiano subito enormi cambiamenti nel corso
dell'ultimo secolo, la sopravvivenza di un tale apparato
militare-diplomatico ha mantenuto una certa continuità nelle
forme del conflitto fra Stati, le quali comprendono ancora lo
spionaggio e la stipulazione di alleanze offensive, come pure le
minacce, le ostentazioni di potenza e l'uso della forza militare ed
economica. Analoghi elementi di continuità si riscontrano
anche nelle lotte tra Stato e non-Stato e in quelle tra non-Stato e
non-Stato.
Prendiamo il caso dei movimenti sociali, ovvero il caso di una
prolungata sfida alle autorità condotta a favore di un gruppo
privo di quei vantaggi di cui godono invece molti altri gruppi. Tra
il 1780 e il 1880 si formò, nella maggior parte dei paesi
occidentali, l'apparato dei movimenti sociali, quale lo conosciamo
oggi. Esso comprende associazioni apposite, riunioni pubbliche,
enunciazione di programmi, dichiarazioni, slogan, marce, petizioni e
portavoce riconosciuti da entrambe le parti. Sul versante delle
autorità, tale apparato include anche procedure standard di
polizia, spionaggio, contenimento, ascolto delle rivendicazioni e
negoziazione. Proprio come le dimostrazioni danno spesso luogo a
controdimostrazioni, i movimenti sociali generano frequentemente dei
contromovimenti in rappresentanza di parti i cui interessi sono da
quelli minacciati.
Gli studiosi dei movimenti sociali hanno mostrato l'infelice
tendenza a trattare questi movimenti come se fossero gruppi, mentre
si tratta, in realtà, di prolungate interazioni tra sfidanti
e autorità. Soltanto di rado capita che sia un singolo
gruppo, compatto, a portare avanti la sfida. Accade molto più
spesso, invece, che gli organizzatori di un movimento impieghino
gran parte delle proprie energie nel mettere insieme delle
coalizioni, nell'inventare per tali coalizioni nomi 'da gruppi', nel
sopprimere i rivali o gli alleati scomodi, e nel disciplinare i
partecipanti per mantenere almeno l'illusione di un fronte unito.
L'intero apparato presenta una notevole somiglianza con quello
approntato in occasione delle campagne elettorali, e non a caso: i
movimenti sociali ebbero un vigoroso sviluppo tanto da assurgere a
forme standard di conflitto nel momento in cui l'allargamento del
suffragio dette rilevanza politica a chiunque potesse fornire
pubblicamente la prova che un gran numero di individui sosteneva una
determinata persona, o rivendicazione, o programma politico. A
partire dal XIX secolo, i movimenti sociali hanno occupato un posto
importante nei repertori del conflitto diffusi nella maggior parte
dei paesi occidentali.
6. Condizioni per la diffusione del conflitto
Quali condizioni sociali promuovono e quali ostacolano il formarsi
di pretese di segno negativo? Come e perché i gruppi che
avanzano tali pretese si formano e si mobilitano? Questi sono gli
interrogativi concernenti le origini e i protagonisti del conflitto
sociale. Gli studiosi di scienze sociali non sono affatto unanimi
circa le risposte da dare a tali interrogativi, anzi i tradizionali
indirizzi della tensione sociale e della lotta tra gruppi divergono
proprio su questi punti. Per i teorici appartenenti al primo
indirizzo, un cambiamento sociale rapido e ineguale promuove il
conflitto, e i gruppi sradicati dal cambiamento sociale vi
partecipano in misura più intensa. (Un'altra versione della
teoria della tensione sociale è imperniata sulle discrepanze
tra aspettative e traguardi raggiunti; si tratta di una versione
più statica della precedente, ma la logica di fondo rimane la
stessa). Viceversa, per i teorici appartenenti all'indirizzo della
lotta tra gruppi, il conflitto si sviluppa dall'intersezione di
solidarietà e interessi contraddittori: oltre un certo
livello-soglia di solidarietà e interesse, tutte le
condizioni sociali che causano il sorgere della solidarietà
entro gruppi di interesse o la crescita delle contraddizioni tra
interessi promuovono il conflitto aperto. Le nozioni di 'cambiamento
sociale rapido e ineguale' e di 'interesse contraddittorio' sono
troppo vaste, imprecise e controverse per consentire confronti
incisivi ed empirici tra le due prospettive.
La maggior parte dei dati sistematici accumulati finora induce a
dubitare seriamente delle formulazioni proprie della metateoria
della tensione sociale, favorendo piuttosto l'una o l'altra variante
degli argomenti addotti dalla metateoria della lotta tra gruppi (per
una rassegna critica, v. Zimmerman, 1983). I risultati empirici
riguardanti individui, gruppi e nazioni non riescono in molte
occasioni a mostrare relazioni attendibili tra il carattere o
l'intensità del conflitto, da un lato, e, dall'altro, il
ritmo di differenti tipi di cambiamento sociale, il livello di
frustrazione, il grado di variazione delle aspettative, la
prevalenza di una patologia sociale, o le altre variabili introdotte
dalle argomentazioni della metateoria della tensione sociale.
Nessuno potrebbe affermare, tuttavia, che gli studiosi di scienze
sociali abbiano provato la validità delle teorie della lotta
tra gruppi, se non altro perché, sotto questa bandiera,
viaggiano molte idee scientificamente inconsistenti. Ma alcune
risultanze ricorrenti puntano in questa direzione: il continuo
ripresentarsi di gruppi sociali relativamente coerenti in situazioni
di conflitto prolungato, la persistente importanza che riveste la
posizione di potere come fattore di previsione del coinvolgimento di
un individuo o di un gruppo nel conflitto, la standardizzazione
delle forme di conflitto all'interno di determinati gruppi, la larga
presenza di agenti statali nei conflitti condotti su scala
più vasta, e conclusioni analoghe cui è pervenuta la
ricerca sistematica. Le prove favorevoli alle teorie della lotta tra
gruppi consistono specialmente in un plausibile accordo tra diversi
modelli di conflitto da un lato e ragionevoli attribuzioni di
interessi, organizzazione, alleanze, risorse e potere ai relativi
attori, dall'altro (v. De Nardo, 1985; v. Goldstone, 1982; v. Gurr,
1980 e 1986; v. Jenkins, 1983; v. Luterbacher e Ward, 1985; v.
Oberschall, 1978; v. Roy, 1984; v. Schellenberg, 1982; v. Singer,
1980; v. Tilly, 1978; v. Zimmerman, 1983).In caso, per esempio, di
significativi e permanenti squilibri di potere tra le parti di un
conflitto, alcune risposte sono abbastanza scontate: nei conflitti
in cui sono coinvolte due parti, se una di esse è molto
più debole dell'altra è tipica la scelta di astenersi
del tutto dall'azione, oppure il ricorso a quelle che James Scott
(v., 1985) definisce le "armi del debole": sabotaggio, incendio
doloso, fuga, acquiescenza apparente, resistenza passiva e
così via; nei conflitti che coinvolgono tre o più
attori, è caratteristico delle parti più deboli
allearsi contro quella più forte. Quando gli antagonisti
hanno una potenza approssimativamente uguale, diviene più
probabile un conflitto aperto e prolungato (v. Korpi, 1974).
Le regole cambiano quando si verifica un rapido trasferimento di
potere: gruppi ben organizzati (come gli artigiani minacciati dalla
meccanizzazione) che si trovano a fronteggiare improvvise minacce
rivolte contro i loro interessi passano spesso all'azione, malgrado
alte probabilità di insuccesso; mentre gruppi relativamente
deboli (come i contadini in rivolta) spesso si fanno avanti nel
momento in cui l'autorità dei loro principali antagonisti
riceve un duro colpo (come quando uno Stato perde una guerra o si
dimostra incapace di sedare delle ribellioni scoppiate altrove). Se
le azioni di una delle parti violano i diritti consolidati o
colpiscono direttamente le basi dell'identità della seconda
parte (come la lingua, la religione, o una proprietà cruciale
per il suo valore simbolico), la parte lesa di solito contrattacca
anche se le possibilità di riuscita non sono incoraggianti
(v. Moore, 1979). Queste e altre regolarità offrono un
sostegno alla teoria che considera il conflitto sociale basato sulla
lotta tra gruppi, e pongono serie limitazioni alla possibile
validità delle concezioni della tensione sociale, del
carattere intrinseco e delle relazioni tra gruppi.
7. Tendenze storiche del conflitto
Le varie tendenze del conflitto differiscono ampiamente a seconda
del contesto e del tipo di conflitto. Dal punto di vista della
guerra aperta, il XX secolo è stato il più sanguinoso
di tutta la storia umana. Dal 1480 al 1800 le guerre internazionali
sono scoppiate a una media di circa quaranta per secolo, dal 1800 al
1944 a una media di circa settantacinque per secolo, dal 1944 in poi
a una media di circa novanta per secolo (v. Beer, 1974, pp. 12-15;
v. Small e Singer, 1982, pp. 59-60). Mettendo insieme le grandi
guerre internazionali e quelle civili (la distinzione non è
sempre facile), il XVIII secolo ha visto sessantotto guerre con
quattro milioni di morti in combattimento, e il XIX secolo
duecentocinque guerre con otto milioni di morti; alla media tenuta
fino al 1985, il XX secolo giungerà a circa
duecentosettantacinque guerre e a centoquindici milioni di morti in
battaglia (v. Sivard, 1986, p. 26). Queste cifre sconvolgenti, per
di più, non tengono conto dei morti provocati dalla guerra
tra la popolazione civile.
Durante questo periodo, sorprendentemente, le guerre combattute tra
le grandi potenze sono diventate più brevi, meno frequenti e
di minore portata quanto al numero dei belligeranti. In radicale
antitesi con l'Europa dei secoli XVI e XVII, le popolazioni civili
delle maggiori potenze sempre più di rado debbono sopportare
i saccheggi condotti dalle truppe combattenti - tanto quelle nemiche
che quelle del proprio paese. La prima e la seconda guerra mondiale
devastarono importanti regioni dell'Europa e dell'Asia, ma esse
differirono da una guerra come quella dei Trent'anni per la loro
brevità e intensità. Le guerre tra grandi potenze sono
diventate sempre più distruttive; in caso di guerra, la
gioventù delle maggiori potenze si trova sempre più a
rischio di morte (v. Levy, 1983, pp. 116-149). Da quando il sistema
degli Stati europei si è esteso fino a includere il mondo
intero, gli Stati di minore importanza sono scesi in guerra l'uno
contro l'altro più spesso e con effetti più letali,
mentre le guerre, sempre meno frequenti, tra le grandi potenze sono
diventate apocalittiche.Nel mondo occidentale, almeno, la
percentuale di morti dovute ad atti di violenza 'privata' è
scesa in modo sensazionale nel corso dello stesso periodo (v.
Chesnais, 1981; v. Gurr, 1981; v. Hair, 1971; v. Stone, 1983).
Nell'Inghilterra del XII secolo, per esempio, la media degli omicidi
era all'incirca dieci volte maggiore rispetto a quella odierna, e
forse due volte maggiore rispetto alla media dei secoli XVI e XVII.
Tendenze analoghe si manifestano in tutti gli altri Stati
occidentali per i quali si dispone di dati sufficienti. Se non fosse
per la guerra, la repressione statale, il suicidio e gli incidenti
automobilistici, il rischio di morte violenta sarebbe
incomparabilmente più basso, nei paesi occidentali, di quanto
non lo fosse tre o quattro secoli fa. Mentre la sfera statale
è diventata sempre più violenta, quella della vita
civile si è fatta relativamente pacifica.
Questi cambiamenti rispecchiano, tra le altre cose, la tendenza
degli Stati nazionali a ottenere il controllo e il monopolio degli
strumenti per l'esercizio della forza. Quando in Europa
cominciò a prender forma il sistema degli Stati, molte
persone portavano con sé armi letali, abbondavano gli
eserciti privati, i banditi prosperavano, e molti antagonisti
regolavano le proprie controversie con la forza delle armi.
Gradualmente, coloro che erano alla guida degli Stati sciolsero o
cooptarono le bande armate private, soppressero il duello e altri
tipi di combattimento tra privati cittadini, affidarono ai propri
tribunali la soluzione delle controversie e disarmarono la
popolazione civile. Il risultato fu che la vita sociale divenne meno
violenta e sempre più netto il contrasto tra il potere armato
dello Stato e la condizione inerme dei suoi cittadini.
Stabilire se il conflitto non violento abbia subito un certo
declino, nel corso del medesimo processo, dipende dal modo in cui
noi definiamo la sua intensità e valutiamo le sue molte,
differenti forme; negli Stati Uniti, per esempio, le vertenze civili
si sono moltiplicate, mentre il ricorso alla vigilanza privata
è andato diminuendo (v. Friedman, 1985). In ogni caso,
nessuno studioso ha raccolto in proposito i dati necessari, anche
solo per un singolo paese. Una supposizione ragionevole è che
il conflitto, considerato nel suo insieme, non è diminuito,
ma piuttosto ha cambiato forma e - se si esclude la sfera statale -
ha perso gran parte della sua violenza. Nello stesso tempo, gli
Stati sono diventati sempre più violenti.