Comportamenti collettivi
di Alain Touraine
www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1992)
Sommario: 1. Introduzione. 2. I tre principali tipi di analisi: a)
la difesa degli interessi collettivi; b) la paralisi istituzionale;
c) i movimenti sociali. 3. Le modalità dei comportamenti
collettivi: a) riforme e rotture; b) movimenti e antimovimenti
sociali. 4. Comportamenti collettivi e cambiamenti storici: a) la
restaurazione del passato; b) l'emancipazione; c) i movimenti
storici; d) le rivoluzioni; e) l'istituzionalizzazione dei
conflitti. 5. Le forme dell'azione collettiva: a) i comportamenti di
crisi; b) i gruppi d'interesse; c) vita privata e azione pubblica;
d) il gruppo diviso. 6. Conclusione.
1. Introduzione
Il concetto di 'comportamento collettivo' non definisce un insieme
di fenomeni sociali oggettivamente riscontrabili, ma serve da
rivelatore per ciascuno dei grandi orientamenti generali che si
contrappongono all'interno della sociologia e degli studi storici.
È addirittura sorprendente osservare le difficoltà con
cui i lavori concepiti all'interno di un certo orientamento sono
percepiti in un paese, in un'epoca o all'interno di un gruppo
professionale dominati da un approccio di tipo diverso.
In particolare, si può facilmente contrapporre un approccio
che possiamo definire americano a un altro che possiamo chiamare
europeo, senza per questo dare a tali espressioni un contenuto
troppo sistematico. La sociologia americana del dopoguerra è
stata dominata dalla scuola funzionalista, cioè dai concetti
di istituzione, integrazione e socializzazione, e pertanto il tema
dei comportamenti collettivi e dei movimenti sociali è stato
introdotto soltanto con i disordini, le campagne di protesta e i
movimenti organizzati che si sono sviluppati negli Stati Uniti
durante gli anni sessanta: movimento studentesco, azioni per la
difesa dei diritti civili dei neri, campagne contro la guerra del
Vietnam. L'attenzione rivolta alla violenza o al rifiuto dei valori
dominanti sottolineava la debolezza, maggiore del previsto, dei
meccanismi di integrazione sociale e culturale. In Europa, al
contrario, ha esercitato per molto tempo un'influenza prevalente il
pensiero marxista, vale a dire l'idea che l'organizzazione sociale
poggi su un conflitto o almeno su un rapporto di subordinazione di
importanza centrale. Mentre nel primo caso i comportamenti
collettivi tendono ad apparire come marginali e come il risultato di
difficoltà incontrate dai meccanismi di integrazione, una
visione di ispirazione marxista tende a mettere al centro
dell'analisi comportamenti collettivi opposti tra loro, dando
così un'immagine drammatica della storia.
Prima però di definire con precisione i diversi modi di
'costruire' quest'oggetto (i comportamenti collettivi), occorre
rilevare ciò che essi hanno in comune tra loro, vale a dire
l'insoddisfazione generale nei confronti di una rappresentazione
puramente liberale della vita sociale, che ridurrebbe la
società a rapporti di mercato. In effetti, l'elemento
specifico di un mercato, soprattutto se i suoi meccanismi non sono
falsati da coalizioni, consiste nel favorire la ricerca razionale
dell'interesse personale. Una società semplicemente 'aperta'
sarebbe quindi fatta interamente di storie individuali, che
potrebbero essere riunite tra loro solo in raggruppamenti
statistici.
Anche se si ammette l'importanza della stratificazione in queste
società aperte, nulla può indurci a pensare che gli
individui collocati allo stesso livello abbiano la capacità
di organizzare dei comportamenti collettivi; sembra al contrario
più logico pensare che essi avranno dei comportamenti simili
o comuni che si manifesteranno per esempio a livello di opinione, di
consumi o di mobilità sociale. Il trionfo delle inchieste di
opinione è legato in gran parte alla realtà
indiscutibile, almeno nei paesi democratici e quindi liberali, di
questo modello, degli atteggiamenti e dei comportamenti
individualizzati: il metodo statistico permette poi di rendere conto
nel modo migliore della suddivisione delle preferenze. Pertanto
possono esistere dei comportamenti collettivi solo nella misura in
cui una società non è interamente aperta, oppure, come
dicono la maggior parte degli autori, nella misura in cui è
dominata da un potere, e dunque è in essa operante una logica
di dominio che eleva delle barriere, esclude alcuni mentre ne
controlla altri, ecc. Il pensiero più liberale e quello che
è stato definito individualismo metodologico, cui è
stato accordato recentemente nuovo favore, indicano dunque i limiti
di tutte le analisi dei comportamenti collettivi. Viceversa, tutti
coloro che fanno riferimento a questo concetto concordano nel
considerare insufficiente un'analisi semplicemente utilitaristica e
individualistica dei comportamenti sociali.Vi sono tre tipi
principali di analisi dei comportamenti collettivi, che si possono
definire come analisi delle rivendicazioni, analisi delle paralisi
istituzionali e analisi dei conflitti sociali.
2. I tre principali tipi di analisi
a) La difesa degli interessi collettivi
Come si passa dalla difesa di interessi individuali a un
comportamento collettivo? Paradossalmente, è la celebre
analisi di Mancur Olson sul free rider che ci porta più
vicino a una risposta. Olson, eminente rappresentante
dell'individualismo metodologico, ha osservato che l'interesse bene
inteso di ciascuno deve portare piuttosto alla non partecipazione
che alla partecipazione all'azione collettiva. Non è infatti
più razionale non assumersi il rischio di pagare i costi di
un'azione collettiva (di uno sciopero, per esempio), aspettare che
altri si siano assunti questi costi e ricevere in questo modo i
vantaggi senza alcuna contropartita?
Olson afferma giustamente che, in particolare nella vita sindacale,
questo principio del free rider spinge alla formazione di
unità di negoziato le più ridotte possibile,
perché è così che ciascun individuo può
vedere nel modo migliore quale interesse egli ha a partecipare a
un'azione collettiva. Nessuno contesta quindi l'esistenza di
rivendicazioni collettive e la formazione di gruppi d'interesse, e
addirittura di movimenti rivendicativi. Ma come spiegare questa
formazione? Olson, personalmente, ritrova una tradizione assai forte
alla fine del XIX secolo, cioè al momento della formazione in
Europa dei sindacati e dei partiti di massa, illustrato nel modo
migliore da Roberto Michels: se si formano delle azioni di massa,
questo dipende dal fatto che esse avvantaggiano direttamente i loro
dirigenti. Le grandi organizzazioni, anche quando si dicono
democratiche, sono sottoposte alla legge ferrea dell'oligarchia;
esse funzionano cioè nell'interesse di quello che è
stato recentemente chiamato il loro apparato o la loro
tecnostruttura.
Ma è necessario allargare questo ragionamento, in quanto
questi dirigenti non agiscono - ancor meno che i membri di base
delle loro organizzazioni - come individui su un mercato. Essi sono
di fatto collocati all'interno di un mondo più organizzato e
più ristretto, cioè quello dei dirigenti politici.
Sviluppano una strategia di potere, ma devono al tempo stesso
assicurarsi che i loro mandanti siano convinti che questa strategia
è a loro vantaggio. Di qui la necessità di atti e
parole simbolici che, secondo gli osservatori più critici,
generalmente non corrispondono ai comportamenti effettivi di questi
dirigenti nei confronti di coloro che essi condannano con veemenza
in pubblico e con i quali cercano accordi o compromessi quando non
sono sotto il controllo dell'opinione pubblica.
Queste osservazioni introducono già un tema diventato sempre
più importante negli ultimi vent'anni, quello della
mobilitazione delle risorse, che costituisce la contropartita di un
approccio utilitaristico, vale a dire della definizione dei
comportamenti collettivi come difesa degli interessi. L'azione dei
dirigenti mostra in effetti assai bene che tra le richieste degli
individui e le risposte che vengono loro date si interpongono i
rapporti di potere, di influenza e di autorità, in breve che
non è possibile contrapporre l'individualismo degli interessi
al carattere collettivo dell'azione, in quanto i beni ricercati non
sono sul mercato ma dipendono, nella maggior parte dei casi, da
centri di potere, si tratti di un governo o della direzione di
un'impresa. Inoltre pochi attori sociali possono raggiungere i loro
obiettivi senza formare alleanze o coalizioni e orientare quindi la
loro azione verso guadagni o vittorie più simbolici che
materiali, cambiando dei rapporti di forza che decidono la
distribuzione dei vantaggi, siano essi materiali o d'altro tipo.
Questa concezione dei comportamenti collettivi è condivisa da
alcuni liberali e marxisti, così come l'individualismo
metodologico si considera spesso discepolo fedele dell'insegnamento
di Marx, anche se ciò è vero soltanto se si riduce
Marx all'economicismo. Comunque sia, non va sottovalutata
l'importanza di questo tipo di analisi, in particolare quando essa
viene applicata all'azione sindacale. Per ottenere un migliore
salario, giornate lavorative più brevi o semplicemente la
conservazione di un posto di lavoro minacciato dai cambiamenti
tecnologici o economici, è necessario collegare un'azione
guidata da interessi direttamente visibili a una strategia politica.
C. Tilly ed E. Shorter, studiando gli scioperi in Francia, hanno
notato che i conflitti di lavoro, che hanno quasi sempre obiettivi
economici, si sviluppano soprattutto quando il mondo operaio ha
coscienza o di aver aumentato la propria influenza politica o che
essa è diminuita. In questo modo il concetto di interesse si
combina con quello di pressione politica e anche di strategia.
b) La paralisi istituzionale
Questa seconda ipotesi è stata costantemente sviluppata dai
sociologi di ispirazione funzionalista, che vedono nella formazione
dei comportamenti collettivi l'espressione di una paralisi o di un
cattivo funzionamento dei meccanismi istituzionali, un po' come un
imbottigliamento è il risultato di strade insufficienti per
smaltire il traffico o di una circolazione mal regolata. I
comportamenti collettivi sarebbero quindi la contropartita di
comportamenti individuali definiti dalla conformità alle
norme dominanti e dalla loro interiorizzazione. In questo spirito, i
comportamenti collettivi più importanti possono essere
considerati quelli definiti da R. Merton 'iperconformisti',
cioè quelli che fanno appello, contro le pratiche in atto, ai
valori dominanti, ai principî affermati nell'ambito di una
società. In tutti i paesi democratici si formano movimenti di
protesta che denunciano delle ingiustizie, il mancato riconoscimento
dei diritti d'espressione e d'azione di gruppi particolari. Il
concetto di minoranza è quello che ha avuto maggiore
importanza, soprattutto negli Stati Uniti, per definire i gruppi
capaci di mobilitarsi in nome di principî generali, di una
concezione sempre più larga dei diritti umani. Le battaglie
per i diritti civili nel Sud degli Stati Uniti, come l'azione non
violenta di Gandhi in Sudafrica e in India, sono dei buoni esempi di
azioni puramente di protesta, la cui forza deriva in gran parte dal
fatto di mettere i poteri pubblici e privati in contraddizione con i
principî che essi pretendono di servire.
I movimenti di modernizzazione, anche quando sono rivoluzionari, si
richiamano nella maggior parte dei casi a un'evoluzione naturale
della storia capace di condurre da società segmentate verso
società aperte. In termini pressoché analoghi molti
movimenti di protesta si richiamano, in modo positivo, all'idea di
società sempre più complesse e costrette ad adattarsi
a cambiamenti incessanti, il che le costringe a rimettere
costantemente in causa i principî e le forme organizzative che
sembravano più saldi. I movimenti per la pace, che hanno
svolto un ruolo così importante nei paesi occidentali
impegnati in conflitti di tipo coloniale, come la Francia e gli
Stati Uniti, hanno fatto appello costantemente a una dichiarazione
dei diritti dell'uomo e a principî costituzionali. Gli Stati
Uniti sono certamente uno dei paesi in cui le azioni di protesta si
sono giovate più efficacemente di argomentazioni di tipo
giuridico. Si sono visti per esempio movimenti in difesa dei neri,
promossi da gruppi di ispirazione comunista pronti a denunciare la
società americana, utilizzare abilmente e con efficacia tutte
le risorse del diritto, in particolare grazie all'advocacy, il
diritto all'ingerenza e alla contestazione.
Ma queste azioni collettive presuppongono che siano possibili, e
anzi probabili, delle riforme. Senza di ciò la mobilitazione
perde senso, si degrada e può condurre a una violenza che
significa solo il fallimento di un tentativo di riforma. I regimi
socialdemocratici europei, compreso il laburismo inglese, hanno dato
un'importanza centrale al tema delle riforme e dell'allargamento
dell'idea democratica. Gli Inglesi per primi hanno parlato di
democrazia industriale e anche, circa un secolo più tardi, di
patto sociale. I grandi accordi collettivi, come quello firmato nel
1938 a Saltsjöbaden tra padronato e sindacati svedesi, sono una
chiara esemplificazione di come questi accordi, che poggiano su
forti azioni collettive, siano in grado di condurre a riforme.
Queste azioni non sarebbero state intraprese senza il convincimento
che le riforme erano conformi allo spirito della costituzione o ai
principî riconosciuti della società politica.
c) I movimenti sociali
Benché l'espressione 'movimenti sociali' sia utilizzata in
molti sensi e da tutte le scuole sociologiche, sembrerebbe
preferibile, in nome di semplici ragioni storiche, e soprattutto
quando si parla dell'Europa, riservarla ai comportamenti collettivi
che mettono in causa, attraverso un conflitto sociale,
l'utilizzazione da parte di una società delle principali
risorse e dei modelli culturali di cui essa dispone: cioè,
allo stesso tempo, i suoi modelli di conoscenza, le sue principali
forme di investimento e di produzione e i suoi modelli etici, i suoi
principî morali.In realtà è impossibile
utilizzare gli stessi termini per definire un approccio centrato
sull'interesse di individui o di gruppi, un altro che dà un
posto centrale all'idea di sistema sociale e di funzionamento
istituzionale, e un altro ancora che poggia sull'idea che l'insieme
dell'organizzazione sociale si basa su un conflitto sociale
centrale.
Ma non è nemmeno sufficiente dare un posto essenziale al
conflitto sociale. In effetti, si può argomentare che il
primo dei tre approcci qui definiti e l'idea stessa di mercato
attribuiscono una grandissima importanza ai conflitti e alla
concorrenza. Una visione utilitaristica si può esprimere bene
anche in termini di conflitti d'interesse. Ciò che
caratterizza questa terza ipotesi è che essa definisce gli
attori sociali allo stesso tempo attraverso il conflitto sociale in
cui sono impegnati e gli orientamenti culturali che li guidano. In
questo senso, questo terzo approccio combina insieme i due
precedenti: il primo parla di conflitti d'interesse, il secondo di
norme e di meccanismi di integrazione sociale, il terzo di conflitti
sociali diretti verso l'utilizzazione sociale di orientamenti
culturali riconosciuti da tutti.
Un esempio può illustrare facilmente questo tipo di
comportamenti collettivi. Nell'Europa della fine del XIX secolo e
del XX l'industrializzazione e la razionalizzazione delle imprese
sono orientamenti e idee largamente condivisi da industriali e
sindacati. Il movimento operaio si è veramente costituito
come tale solo quando ha superato il rifiuto luddista dell'industria
e, una volta accettati i valori industriali, si è presentato
come difensore del progresso e della modernizzazione e ha combattuto
il profitto capitalistico considerato come un ostacolo alla
razionalizzazione. Parallelamente, tecnici e ideologi del padronato,
come F. W. Taylor negli Stati Uniti, hanno denunciato la pigrizia e
la lentezza degli operai in nome di metodi di produzione che essi
consideravano scientifici.
Questo tipo di approccio è più esigente dei precedenti
in quanto implica l'idea che esista, almeno virtualmente, un
conflitto centrale in una data società. È
un'affermazione, questa, che dà una grande importanza al
concetto di classe sociale, almeno nel senso in cui esso si è
imposto nel pensiero europeo. In effetti, se il concetto di classe
servisse semplicemente a individuare dei livelli, degli strati o
anche dei gruppi professionali, esso non conterrebbe in sé
l'idea di un conflitto centrale, idea imposta invece da espressioni
come 'lotta di classe'. Molti studi, come anche molte azioni
politiche, hanno mirato a rivelare dietro l'apparente
molteplicità dei comportamenti sociali l'unità di un
conflitto fondamentale. Alcuni leaders politici hanno parlato quindi
di 'fronti' particolari dove si conduceva una lotta di classe
supposta generale. Si può anche pensare che proprio la crisi
di questa concezione abbia rafforzato nel pensiero sociale
l'importanza delle due precedenti analisi dei comportamenti
politici, capaci di render conto meglio della molteplicità e
della specificità dei conflitti o delle azioni collettive.
Questa osservazione permette di collegare i tre approcci tra loro,
di vedere quindi che essi sono più complementari che
contraddittori, e che non si collocano allo stesso livello della
realtà sociale. Il concetto di movimenti sociali si colloca
al livello più elevato, ma anche più difficile da
raggiungere, quello che A. Touraine ha chiamato historicité,
cioè la realizzazione sociale dei grandi modelli culturali
attraverso i quali una società costruisce le sue relazioni
con l'ambiente. Al contrario, i conflitti d'interesse si collocano a
livello dell'organizzazione sociale e anche di quelle che i
sociologi chiamano 'le organizzazioni'. I movimenti di riforma si
collocano tra i due al livello delle istituzioni e dei meccanismi
politici, che costituiscono un insieme di mediazioni capace di
condurre dai rapporti di dominio sociale a forme di organizzazione
professionale o tecnica.
Pertanto, invece di affermare perentoriamente che i comportamenti
collettivi devono essere analizzati nell'una o nell'altra
prospettiva, è opportuno distinguere anzitutto i tre grandi
tipi di comportamenti collettivi e affermare quindi che i
comportamenti di livello più elevato, i movimenti sociali, si
formano soltanto attraverso il superamento dei comportamenti
collettivi degli altri due tipi, che si collocano al livello
dell'organizzazione sociale o a livello politico. L'oggetto
principale delle ricerche storiche o sociologiche deve dunque
consistere nell'identificare i comportamenti sociali e nel definire
il livello della realtà sociale in cui essi si collocano.
Occorre anche riconoscere che il vantaggio di un'analisi, che
può essere marxista o non, in termini di movimenti sociali
consiste nel fatto che essa permette di rilevare questa
diversità, mentre troppo spesso le analisi di tipo
utilitaristico (come pure quelle condotte soltanto in termini di
meccanismi di integrazione sociale) tendono a rifiutare l'esistenza
di altri tipi di comportamenti collettivi e quindi a rifiutare anche
altri metodi di analisi. Tuttavia vedere nei comportamenti
utilitaristici, per esempio, soltanto delle forme degradate di
movimenti sociali significherebbe andare troppo lontano in direzione
contraria. Esiste in realtà un'ampia autonomia dei
comportamenti collettivi a ciascuno dei tre livelli che sono stati
ora distinti.
3. Le modalità dei comportamenti collettivi
a) Riforme e rotture
Tutti i comportamenti collettivi ora definiti combinano tra loro
partecipazione e rifiuto, elementi positivi ed elementi negativi
dell'azione. Tuttavia alcuni sono più vicini al polo
riformatore, altri a quello rivoluzionario, e questa opposizione si
può osservare a ciascuno dei tre livelli che abbiamo appena
distinto. A livello dell'organizzazione sociale, e in particolare
dell'organizzazione del lavoro, le rivendicazioni 'positive' mirano
a ottenere gratificazioni più adeguate alla natura del
contributo personale o collettivo, a ottenere cioè un miglior
rapporto tra lavoro e salario. Ma l'azione operaia, in particolare
al suo sorgere, ha fatto largamente ricorso a certe forme di
violenza, cioè di rifiuto delle norme dominanti. Il
sabotaggio o il boicottaggio rappresentano le forme estreme di
questa violenza; il rallentamento della produzione è stato
invece una pratica molto più frequente.
Al secondo livello, quello della pressione politica, dell'azione
destinata a cambiare le regole del gioco, la pressione 'positiva'
è stata sempre accompagnata da una pressione violenta di cui
lo sciopero, da parte operaia, e la serrata da parte padronale sono
le espressioni ben note. Infine, e questo rappresenta l'opposizione
storicamente più visibile e più importante, la
formazione di movimenti sociali 'positivi', miranti, per esempio, a
sostituire una gestione padronale delle imprese con una gestione
operaia o con una autogestione, è stata sempre accompagnata
da azioni di rottura di tipo rivoluzionario, che tendono, in misura
più o meno completa, a respingere la posta stessa del
conflitto, cioè (nel caso in esame) la produzione
industriale, insieme al dominio del padronato sulla produzione e ai
metodi di lavoro industriali.
b) Movimenti e antimovimenti sociali
Si definisce movimento sociale quello che combina un rapporto
sociale conflittuale con un obiettivo culturale riconosciuto e
apprezzato da tutti gli avversari. Ma può succedere che
questa associazione di orientamenti comuni e di conflitto sociale si
rompa. Talvolta il conflitto può non riferirsi più a
orientamenti comuni e diventa una semplice concorrenza o addirittura
una guerra, vale a dire un gioco a somma zero. In altri casi un
attore sociale si identifica interamente con l'obiettivo culturale e
considera il suo avversario più come un nemico e uno
straniero che come qualcuno con cui si è in conflitto
all'interno di orientamenti culturali comuni. Un'azione collettiva,
trasformata così in richiamo alla violenza, rifiuta il
negoziato con un avversario che diventa una minaccia sia per i
valori culturali sia per gli interessi sociali e che si identifica
egli stesso così completamente con questi valori culturali da
poter concepire solo una società omogenea, di cui la setta
rappresenta il tipo 'puro'. Si chiama 'antimovimento sociale' non un
movimento che si oppone a un altro movimento, ma la distruzione
della nozione stessa di movimento sociale in nome
dell'identificazione dell'attore con l'obiettivo culturale e del
rifiuto dell'avversario come un nemico pericoloso contro cui tutta
la comunità deve mobilitarsi.
Questa è appunto la definizione dei regimi totalitari che
identificano una collettività con dei valori e la trasformano
quindi in comunità, vedendo negli avversari soltanto dei
nemici, appoggiati per di più da traditori all'interno della
comunità. I rapporti sociali sono allora sostituiti da
relazioni di guerra e le lotte sociali divengono dei combattimenti
mortali. Non esistono nell'Europa del XX secolo fatti storici
più importanti di questo rovesciamento, soprattutto quando
esso concerne non soltanto comportamenti utilitaristici o movimenti
di riforma, ma addirittura movimenti sociali che affermano la loro
importanza centrale. Proprio in questo modo il nazionalsocialismo ha
rovesciato l'analisi e l'azione del socialismo, così come i
regimi totalitari nati da rivoluzioni dette proletarie hanno scelto
come prima vittima proprio il movimento operaio.
4. Comportamenti collettivi e cambiamenti storici
a) La restaurazione del passato
I comportamenti collettivi non sono sempre diretti verso il presente
o l'avvenire. Spesso una società è minacciata da
trasformazioni la cui origine è lontana, sulle quali essa non
può agire e che addirittura non riesce neppure a comprendere.
I suoi membri reagiscono allora più alla crisi della
società tradizionale che alla sua eventuale trasformazione in
una società nuova. Altre volte una comunità
indifferenziata ed egualitaria reagisce alla sua differenziazione
interna e all'arrivo, attraverso matrimoni o immigrazione, di
individui esterni alla comunità stessa e alle sue tradizioni.
Può apparire allora un capo carismatico o anche un messia
(come avvenne per la comunità dei Mucker, nel Brasile
meridionale alla fine del XIX secolo, quando l'arricchimento di
alcuni mise in pericolo l'integrazione della comunità
primitiva). La penetrazione del mondo mercantile è stata
spesso vissuta come una minaccia diretta da parte delle
comunità contadine o di pescatori o anche di minatori, tutte
comunità per definizione isolate. La caccia alle streghe si
è diffusa, tanto in Francia che nelle colonie inglesi
d'America, durante la fase di passaggio da una società rurale
a una società mercantile.In altri casi la difesa della
tradizione risponde a un'aggressione più diretta. Gli storici
hanno troppo spesso considerato questi movimenti collettivi come
reazionari; oggi è noto che la Vandea, durante la Rivoluzione
francese, non fu un movimento manipolato dagli aristocratici, ma
piuttosto la difesa di una società tradizionale - in cui i
nobili svolgevano un ruolo effettivamente importante - di fronte
alla forte penetrazione della proprietà borghese, già
prima della Rivoluzione. Allo stesso modo in questo secolo, alla
fine degli anni venti, le violente campagne anticlericali condotte
dal governo messicano provocarono, in particolare nel Bajío,
la reazione dei cristeros, un movimento di difesa comunitaria
ispirato più dal sentimento religioso che dalla Chiesa, la
quale mantenne sempre una prudente distanza.
Le forme di profetismo e di messianismo, in particolare nel Congo e
in Brasile, sono state spesso interpretate come movimenti di difesa
delle comunità rurali minacciate al tempo stesso dalla
povertà - nel caso brasiliano dal banditismo - e dallo
sviluppo di un capitalismo che prendeva, direttamente o
indirettamente, forme di colonialismo. Tuttavia questa
interpretazione è probabilmente insufficiente. La sola difesa
della comunità non spiega l'apparizione di un messia, il
quale combatte sicuramente un ordine nuovo considerato come una
fonte di minacce, ma crea anche una mobilitazione, una
capacità d'azione dirette non verso un avvenire storico, ma
verso un avvenire escatologico, verso una 'fine del mondo':
ciò indica che si tratta già di una prima forma di
organizzazione di un movimento sociale e non soltanto di un
movimento di restaurazione.
b) L'emancipazione
All'estremo opposto rispetto a questi movimenti, in parte almeno
rivolti verso il passato, si collocano altri movimenti interamente
rivolti verso il futuro, il cui contenuto sociale è molto
più debole di quello culturale. Si tratta di movimenti di
innovazione o di mobilità sociale. È il richiamo verso
la città, verso la sue forme di consumo, verso le sue
occasioni di miglioramento sociale, in particolare attraverso
l'educazione dei figli, che sposta grandi ondate di emigranti dalle
società tradizionali in cui la terra manca sempre più
per una popolazione in rapida crescita; tali masse o si urbanizzano
o diventano gruppi marginali ridotti a vivere in quella che O. Lewis
ha definito la "cultura della povertà", intermedia tra la
società di partenza e la società d'arrivo, ma estranea
per la sua organizzazione a entrambe.
I comportamenti innovativi possono assumere un aspetto più
dinamico, in particolare in un Occidente che ha dato un'importanza
fondamentale al tema della modernizzazione. I comportamenti
collettivi sembrano allora diretti verso la scomparsa di
collettività o di categorie tradizionali e sono di
ispirazione egualitaria o individualista. Si tratta di rovesciare
barriere e privilegi e di dare a ciascuno l'eguaglianza delle
opportunità e dei diritti: era questo già lo spirito
delle Dichiarazioni americana e francese dei diritti umani. La
mobilitazione è solo strumentale: non fa appello a una
collettività, ma a un diritto naturale o all'uguaglianza di
tutti.Recentemente la tendenza più rilevante del movimento
femminista occidentale è stata appunto di questa natura:
mirava ad abolire le discriminazioni tra uomini e donne e di
conseguenza a fare in modo che il sesso non rappresentasse
più un ostacolo nella vita professionale o nell'accesso alle
diverse funzioni.
c) I movimenti storici
Questo liberalismo vincente si incontra soltanto nelle
società più convinte di poter produrre naturalmente la
modernizzazione, a condizione soltanto di rovesciare gli ostacoli
che rallentano la marcia del progresso. Nella maggior parte dei
casi, al contrario, la volontà di apertura e di
modernizzazione si scontra con ostacoli che appaiono insormontabili
o che richiedono una mobilitazione più organizzata e spesso,
addirittura, il ricorso alla violenza.I più importanti tra
quelli che si possono definire movimenti storici sono i movimenti di
liberazione nazionale, che hanno svolto un ruolo di grande rilievo
durante il XX secolo. Occorre però distinguere tra movimenti
storici e movimenti sociali. Questi ultimi, come si è visto,
si collocano all'interno di un determinato tipo di società e
sono sostenuti da un determinato attore sociale, per esempio una
classe sociale che si oppone a un altro attore sociale per la
gestione delle principali risorse. I movimenti storici, invece, sono
impegnati in un conflitto che non riguarda la direzione della
società, ma la direzione del passaggio da un tipo di
società a un altro. Si può dire, per esempio, che i
movimenti sociali moderni si collocano spesso all'interno della
società industriale, mentre i movimenti storici cercano
invece di dirigere l'industrializzazione.
La storia moderna è dominata dalle relazioni tra questi due
tipi di movimenti, ben espressa dall'opposizione tra movimenti di
classe e movimenti nazionali. Alla fine del XIX secolo prevalse
spesso l'idea che questi due tipi di movimenti potessero confluire
per creare grandi movimenti rivoluzionari. È questa per
esempio la definizione del leninismo. L'esperienza centrale del XX
secolo è che questa confluenza non avviene, anzi, la logica
dei due movimenti è così diversa che essi tendono ad
allontanarsi l'uno dall'altro. I movimenti specificamente sociali,
in quanto presuppongono lo sviluppo di forze produttive moderne,
assumono spesso forme sempre più istituzionalizzate e
regolate dalla legge o dalle convenzioni (e questo li conduce in
particolare verso la socialdemocrazia). Al contrario, i movimenti
non anticapitalisti, ma antimperialisti o anticolonialisti, perdono
il loro contenuto sociale, in quanto devono mobilitare tutte le
categorie sociali contro un avversario - l'occupazione straniera -
più nazionale che sociale e ciò li spinge o verso
regimi nazionalistici autoritari o verso una mobilitazione
neocomunitaria, che poggia talvolta sulla religione o su un
sentimento nazionale.
Durante la seconda metà del XX secolo la contraddizione tra
questi due tipi di movimenti, e quindi il declino del modello che si
può definire leninista o maoista, si è rivelata
talmente importante che i gruppi che hanno tentato di svolgere
un'azione rivoluzionaria, allo stesso tempo sociale e nazionale, si
sono isolati sempre più e hanno creato nel mondo la linea di
frattura sulla quale si sono collocate la maggior parte delle azioni
terroriste: dai Tupamaros uruguayani e dai Montoneros argentini fino
ai Mujahiddin marxisti-leninisti turchi, iraniani o anche
palestinesi.
I movimenti storici non sono definiti dalla loro posizione in una
società civile, ma dalle loro relazioni con lo Stato, in
quanto esso non rappresenta il principio centrale del funzionamento
di una società ma, al contrario, è l'agente principale
della trasformazione di un paese da un tipo di società in un
altro: lo dimostra con evidenza, durante tutto il XX secolo, il
ruolo degli Stati autoritari modernizzatori, eredi del dispotismo
illuminato, e lo ricordano non solo il caso francese - più
vicino a quelli tedesco e italiano che a quello inglese - ma anche
il caso dell'Inghilterra o degli Stati Uniti, paesi 'centrali' per
eccellenza, la cui modernizzazione non è però
separabile dall'egemonia che essi esercitarono o esercitano a
livello mondiale.
I movimenti storici non hanno quindi la stessa autonomia d'azione
dei movimenti sociali: in particolare, essi sono spesso subordinati
alle iniziative di un dirigente politico. Se non possono appoggiarsi
a uno Stato nazionale forte, ricorrono alla violenza, per esempio
quella della guerriglia, non per mobilitare le masse ma, al
contrario, come ricorda la teoria cubana del focolaio
rivoluzionario, per creare un'avanguardia rivoluzionaria capace di
attaccare uno Stato considerato esso stesso un agente del dominio
straniero.
d) Le rivoluzioni
La rivoluzione è il modello di comportamento collettivo al
quale i due ultimi secoli hanno dato più importanza. Questo
dipende dal fatto che l'idea di rivoluzione sembra riunire in
sé tutti i comportamenti volti al cambiamento storico ora
ricordati. Nella definizione di una rivoluzione si incontrano sempre
tre elementi principali. In primo luogo l'idea, ereditata dalla
filosofia dei Lumi, che sia necessario aprire, anche con la forza,
la porta a un progresso naturale. Ogni rivoluzione vuole distruggere
un ancien régime considerato arcaico e creare una
società moderna. In secondo luogo questa concezione
naturalistica si unisce alla mobilitazione di forze popolari ridotte
al silenzio o alla schiavitù nell'ancien régime, forze
che non sono però soltanto modernizzatrici, in quanto
combattono un avversario sociale e spesso vogliono anche restaurare
un ordine precedente, che garantiva loro certi privilegi o un certo
grado di autonomia. Infine, non vi è rivoluzione che non sia
associata alla creazione o alla restaurazione di uno Stato
nazionale, il che fa di ogni rivoluzione allo stesso tempo un
movimento storico e un movimento sociale.
Dalle Rivoluzioni americana e francese alla Rivoluzione russa e poi
a quella cinese e a molte altre, noi abbiamo vissuto ciò che
E. Hobsbawm ha chiamato l'epoca delle rivoluzioni, dominata
dall'idea centrale che movimenti storici e movimenti sociali possono
unirsi in un'azione collettiva di trasformazione totale della
società e della storia. Siamo ancora gli eredi di questa
concezione, nella misura in cui molti movimenti sociali hanno
definito i loro obiettivi in termini storici: si trattava in
particolare di creare il socialismo per sostituire il capitalismo,
come una nuova tappa della storia che sarebbe poi stata superata a
sua volta dal comunismo o da un'altra forma di organizzazione
sociale.
Ma come non parlare del declino e addirittura della scomparsa
dell'idea di rivoluzione? In primo luogo la volontà di
liberazione nazionale ha rapidamente eliminato ogni concezione
evolutiva della storia a vantaggio della difesa della
specificità di una determinata cultura: durante gli anni
sessanta e settanta si è assistito a violenti attacchi contro
l'idea di sviluppo, nuova versione dell'idea occidentale di
progresso o di modernizzazione. E poi l'idea, difesa soprattutto da
F. Fanon, che le categorie sociali più lontane dall'influenza
coloniale sarebbero anche quelle più mobilitabili socialmente
e più rivoluzionarie, si è rivelata falsa e, al
contrario, sono state le élites nazionaliste e militari che
si sono impadronite del potere, riducendo o lasciando nella
passività le masse contadine.
I movimenti nazionali e i gruppi rivoluzionari si sono presto
combattuti, cosa che era già avvenuta nella fase centrale
della Rivoluzione francese, con la rapida eliminazione delle forze,
ancora disorganizzate, che chiamavano a lotte specificamente sociali
al di là del rovesciamento della monarchia. Infine, e
soprattutto, il XX secolo ha visto svilupparsi quelle che si possono
definire delle antirivoluzioni, il cui primo esempio è
rappresentato dal movimento contadino all'interno della Rivoluzione
messicana dopo il 1910. In questo caso la difesa di un gruppo
sociale è più restauratrice che progressista. Esso non
si allea alle forze di modernizzazione, ma al contrario le combatte,
difendendosi dalla penetrazione di un capitalismo nazionale o
straniero: fu appunto il caso dei contadini del Morelos che, guidati
da Zapata, lottavano contro la penetrazione di un capitalismo
agrario favorito dalla costruzione della linea ferroviaria.
Modernizzazione, lotte sociali, creazione dello Stato nazionale, che
erano sembrate unirsi nel modello rivoluzionario, si separano e
spesso addirittura si combattono.
e) L'istituzionalizzazione dei conflitti
L'esperienza dominante dei paesi occidentali è stata
l'istituzionalizzazione dei conflitti nati dall'industrializzazione
e, di conseguenza, la crescente subordinazione dei movimenti sociali
a comportamenti di pressione politica. La ricerca inglese di una
industrial democracy, la creazione svedese, norvegese, tedesca o
austriaca di regimi socialdemocratici, lo sviluppo in Italia e in
Francia, a partire dalla fine del XIX secolo, dell'intervento
sociale dello Stato sono altrettante forme di questa
istituzionalizzazione dei conflitti che trasforma comportamenti
collettivi di rottura in comportamenti di partecipazione, senza
peraltro che ciò significhi la scomparsa di un riferimento al
conflitto sociale fondamentale. Le nostre democrazie rappresentative
occidentali sono state forti nella misura in cui la partecipazione
politica è rimasta rappresentativa di conflitti sociali di
classe, il che ha associato violenza sociale e pace civile grazie a
meccanismi a un tempo legali e contrattuali.
5. Le forme dell'azione collettiva
a) I comportamenti di crisi
Questi comportamenti sono i più deboli di tutti,
poiché manifestano la decomposizione e non la mobilitazione
di un corpo sociale. La loro forma estrema è il panico, che
si ha quando un pericolo a un tempo generale e non bene
identificato, e quindi difficile da combattere e da prevedere,
minaccia un corpo sociale. Il panico è la risposta a una
catastrofe, si tratti dell'eruzione di un vulcano, della rottura di
una diga o di un bombardamento, o anche di una crisi di borsa o di
un incidente nucleare. Il comportamento di crisi decompone il gruppo
e lo sostituisce con la folla. Quest'ultima, non essendo capace
d'azione autonoma, si dissolve nel ripiegamento individuale o nella
lotta di tutti contro tutti, o è ristrutturata dall'azione di
un leader che, come hanno ben visto Le Bon e Freud, non agisce sulla
collettività ma su ciascuno degli individui, desocializzati e
disorientati, stabilendo con essi un rapporto di dominio.
b) I gruppi d'interesse
I gruppi d'interesse, ai quali la scienza politica americana ha dato
tanta importanza, sono l'esatto opposto della folla. È
appunto da questi gruppi che ci si attende dei comportamenti
utilitaristici più o meno organizzati, ai quali la prima
delle tre prospettive analitiche definite all'inizio ha dato
un'importanza centrale. A molti è sembrato che l'elemento
specifico di una società moderna razionalizzata consista
nell'importanza sempre crescente di questi gruppi specializzati,
capaci di agire in modo calcolato e poco emotivo, con un
comportamento, quindi, esattamente contrario a quello della folla.
Questa immagine è del tutto artificiale, e l'osservazione
mostra piuttosto la trasformazione di questi presunti gruppi
d'interesse da un lato in clientele relativamente passive di agenti
di influenza, in particolare di politicanti o lobbisti
all'americana, e dall'altro in movimenti di base tanto più
capaci di ricorrere alla violenza o a ogni altra forma di azione
dimostrativa quanto più diventa grande la separazione tra gli
agenti di influenza e coloro che essi sarebbero tenuti a
rappresentare.
Aggiungiamo inoltre che un'azione puramente strumentale, largamente
delegata ad agenti di influenza, si incontra tanto più
facilmente quanto più i gruppi d'interesse sono dominanti o
privilegiati, hanno cioè un accesso più diretto al
potere politico e ai mezzi di manipolazione dell'opinione pubblica.
In compenso categorie socialmente deboli o in declino, per esempio
in regioni sottosviluppate, o categorie contadine in decadenza,
artigiani, commercianti e piccoli imprenditori minacciati dalla
concentrazione commerciale e industriale, possono difendere i loro
interessi solo mescolando subordinazione al padronato politico e
violenza. Questa strana mescolanza di integrazione estrema nel
sistema politico e di comportamenti di rottura reale e simbolica con
questo stesso sistema si manifesta di frequente nell'Europa
occidentale. Il poujadismo francese, nato nel dopoguerra all'epoca
del grande sviluppo industriale, è uno degli esempi
più citati. È dunque artificioso credere all'autonomia
dei gruppi d'interesse; ciò che viene definito con questo
nome non è altro che un equilibrio instabile tra una
mobilitazione contestataria e un apparato di manipolazione e di
integrazione politica.
c) Vita privata e azione pubblica
Contro l'idea stessa di gruppi d'interesse e di interest groups
politics, occorre sottolineare che la pressione collettiva e
l'azione strumentale non sono separabili dalla dimensione
dimostrativa dell'azione, vale a dire dal rapporto con la cultura e
con l'organizzazione sociale del gruppo interessato. Da ciò
l'importanza del riferimento alle culture professionali più
forti da parte dei gruppi relativamente isolati, come i minatori, i
dockers e i portuali, e altresì l'importanza dell'azione
collettiva di gruppi culturalmente o socialmente minoritari, come
anche dei giovani e delle donne. In generale è impossibile
separare la ricerca strumentale dell'interesse dalla dimostrazione
di una unità collettiva. Il leader di un'azione collettiva
deve essere a un tempo uno stratega o un negoziatore e insieme un
uomo capace di mobilitare e soprattutto di esprimere una coscienza,
un'inquietudine, una speranza o una paura collettive. Ogni
comportamento collettivo può essere collocato in rapporto a
due forme estreme egualmente rare nella realtà: l'azione
puramente strumentale e l'azione puramente dimostrativa; l'una e
l'altra conducono alla distruzione dei comportamenti collettivi.
d) Il gruppo diviso
La combinazione di azioni strumentali e azioni dimostrative è
soltanto uno degli aspetti della complessità di tutte le
forme di mobilitazione collettiva. Questa complessità spiega
a sua volta il fatto che assai raramente un'azione organizzata
corrisponde direttamente a un gruppo sociale (come se un partito, un
sindacato, un movimento religioso o associativo potesse
identificarsi con l'insieme della popolazione in nome della quale
esso agisce e parla). Al contrario, proprio la distanza tra il
gruppo rappresentato, l'azione organizzata e, all'interno di questa,
i dirigenti, costituisce l'aspetto più appariscente dei
comportamenti collettivi organizzati. Al punto che, spesso, le
divisioni e le lotte interne costituiscono un fattore di
mobilitazione maggiore dell'azione contro l'avversario.
Si possono distinguere tre forme principali di crisi interna
dell'azione organizzata. Lo 'scisma' mette in discussione la
direzione del movimento e quindi la sua strategia e le relazioni con
gli avversari o con gli eventuali alleati. Può succedere che
uno scisma divida attori che hanno in comune un elemento di
mobilitazione, ma che differiscono per altri aspetti importanti
della loro esperienza sociale.
Facendo ancora ricorso al linguaggio religioso, si può
chiamare 'eresia' una rottura interna che verte sulle
finalità dell'azione e addirittura sulla sua natura. Il caso
più celebre è quello delle scissioni nella
socialdemocrazia russa, e in particolare delle lotte tra menscevichi
e bolscevichi tra l'inizio del secolo, la prima guerra mondiale e la
Rivoluzione sovietica. Il sindacalismo occidentale ha conosciuto
anch'esso le divisioni interne tra socialisti e comunisti,
rivoluzionari e riformisti. Più in generale, una causa
frequente di divisione è rappresentata dall'opposizione tra i
difensori di un movimento autonomo e coloro che invece cercano di
inserirsi nel gioco politico. Ne sono un esempio i movimenti
regionalisti. In Francia, in particolare, essi si sono divisi
definitivamente tra i radicali, che facevano appello a un
nazionalismo culturale, e quanti davano la priorità a una
campagna per lo sviluppo regionale, che presupponeva l'alleanza con
forze politiche a livello nazionale. L'opposizione sopra richiamata
tra lotte nazionali e lotte di classe costituisce il livello
più elevato di divisione 'eretica', come dimostrano i due
esempi paralleli dell'ETA basca e dell'IRA irlandese, profondamente
divise tra quanti danno la priorità all'azione nazionale e
militare e quanti vogliono combinare quest'azione nazionale con
un'azione di classe.
La terza forma di divisione può essere definita
'fondamentalismo': nasce come risposta alle tensioni che minacciano
il movimento di rottura e fa appello alla comunità o alle
credenze originarie capaci di cementare l'azione collettiva. Questi
movimenti assumono un'importanza eccezionale alla fine del XX
secolo. Li si trova sotto forma di movimenti islamici, ma anche
nelle comunità di base più o meno religiose di molti
paesi dell'America Latina e, in particolare, del Brasile.
Si potrebbe aggiungere infine il caso, veramente estremo,
dell'autodistruzione del gruppo: ne sono un esempio i movimenti
'sebastianisti', che in Brasile, all'inizio del XIX secolo,
attendevano in modo escatologico il ritorno del re del Portogallo,
Sebastiano, e arrivarono per questo fino all'immolazione collettiva.
Questo episodio si ricollega a drammatici esempi storici come quello
degli Ebrei di Masada, che conclusero con un suicidio collettivo la
loro rivolta contro il potere romano.
6. Conclusione
È possibile parlare in generale di un'evoluzione dei
comportamenti collettivi? È difficile in effetti rinunciare a
ogni concezione evoluzionistica, anche se bisogna scartarne le
versioni più semplicistiche. L'idea a lungo dominante,
espressa da quasi tutti i sociologi classici, è che con la
modernizzazione si è passati da un'azione dimostrativa a
un'azione strumentale e, come diceva Parsons, da un'azione centrata
sulla comunità a un'azione centrata sull'interesse personale,
come se la società si avvicinasse a un modello di
funzionamento di tipo economico, capace di combinare
l'organizzazione dell'impresa e le leggi del mercato. Ma l'interesse
costante rivolto allo studio dei comportamenti collettivi in tutte
le scienze umane, dalla psicologia sociale alla sociologia e alla
storia, costituisce una critica di questa concezione razionalistica
della modernità.
Due idee si impongono a questo punto. La prima è che i
comportamenti collettivi sono sempre meno diretti verso i centri
politici o culturali del potere e sempre più rivolti alla
difesa di un'azione autonoma degli attori, sia in rapporto agli
altri, sia in rapporto ai poteri centrali, sia infine in rapporto a
possibili pericoli venuti dall'esterno. Anche se il tema
dell'autogestione resta sempre più utopistico che realistico,
le azioni collettive fanno appello alla partecipazione responsabile,
individualizzata, dei loro membri. In secondo luogo, e questo
è ancora più importante, i comportamenti collettivi
mobilitano in modo sempre più complesso e completo i loro
attori. Al punto che si potrebbe, senza fare del paradosso,
rovesciare l'immagine classica e dire che si passa da azioni sempre
più strumentali ad azioni sempre più dimostrative,
come se la capacità di cambiamento, di innovazione e di
critica estendesse costantemente il suo campo d'azione.
Agli inizi, a partire dal momento in cui i comportamenti non sono
più 'di conformità' ma 'di cambiamento', essi si
collocano a un livello completamente istituzionale (per esempio per
esigere la rappresentanza degli interessi e in particolare il voto
delle imposte, fatto quest'ultimo che diede origine ai parlamenti).
In seguito, nella società industriale, i comportamenti
collettivi coinvolgono più concretamente i lavoratori che i
cittadini; mobilitano quindi i gruppi di lavoro e la loro
organizzazione informale, la loro esperienza vissuta di
un'attività professionale e di rapporti sociali di potere.
Nel nostro secolo si può dire che i comportamenti collettivi
siano capaci di mobilitare in modo ancora più ampio; fanno
appello a quella che si può chiamare la vita privata,
cioè l'insieme della personalità e della cultura e non
solo alle forme più istituzionalizzate della vita politica:
anche per questo i comportamenti collettivi mostrano un
indebolimento della loro leadership. I profeti e i capi militari
hanno lasciato il posto ai rappresentanti eletti e questi ai
mandatari, ai responsabili di associazioni la cui funzione
può essere soppressa in ogni momento dal gruppo dei mandanti.
In tal modo la partecipazione ai comportamenti collettivi diventa
sempre più totale, mentre crea allo stesso tempo una
crescente fragilità di tutte le forme organizzative.
Tutto questo conduce a una conclusione più generale: il
concetto di 'comportamenti collettivi' è essenziale per
passare da una scienza sociale centrata sul sistema sociale, sulle
sue regole, sulle sue istituzioni, sulle sue forme di integrazione,
di partecipazione o di devianza, a una concezione della vita sociale
centrata sull'azione. Gli attori e le loro relazioni, conflittuali o
non, divengono gli elementi più importanti dell'analisi,
mentre le forme di organizzazione sociale e anche le regole
istituzionali sembrano ormai dei compromessi temporanei o instabili,
fissati tra attori in continuo movimento, le cui relazioni di
autorità, di influenza e di potere sono variabili. La
concezione tradizionale aveva fatto dei comportamenti collettivi la
zona d'ombra della società, come se il loro destino normale
fosse l'autodissoluzione in un funzionamento individualizzato delle
regole dell'organizzazione sociale, come se ogni lavoratore o
cittadino utilizzasse delle regole impersonali che non richiedono
una organizzazione collettiva. Al contrario, più la nostra
società si definisce per la sua capacità di agire su
se stessa e di autotrasformarsi, più i comportamenti
collettivi occupano il posto centrale attribuito in altri tempi alle
istituzioni, dal momento che queste sono state ricondotte alla
posizione relativamente marginale assegnata prima agli attori come
elemento di devianza o di protesta: di modo che la sociologia,
definita al momento della sua nascita come lo studio della
società, deve essere definita oggi come lo studio dei
comportamenti collettivi, vale a dire degli attori sociali e delle
relazioni sociali.