Comportamenti collettivi 

di Alain Touraine


www.treccani.it
Enciclopedia delle scienze sociali (1992)


Sommario: 1. Introduzione. 2. I tre principali tipi di analisi: a) la difesa degli interessi collettivi; b) la paralisi istituzionale; c) i movimenti sociali. 3. Le modalità dei comportamenti collettivi: a) riforme e rotture; b) movimenti e antimovimenti sociali. 4. Comportamenti collettivi e cambiamenti storici: a) la restaurazione del passato; b) l'emancipazione; c) i movimenti storici; d) le rivoluzioni; e) l'istituzionalizzazione dei conflitti. 5. Le forme dell'azione collettiva: a) i comportamenti di crisi; b) i gruppi d'interesse; c) vita privata e azione pubblica; d) il gruppo diviso. 6. Conclusione.

1. Introduzione

Il concetto di 'comportamento collettivo' non definisce un insieme di fenomeni sociali oggettivamente riscontrabili, ma serve da rivelatore per ciascuno dei grandi orientamenti generali che si contrappongono all'interno della sociologia e degli studi storici. È addirittura sorprendente osservare le difficoltà con cui i lavori concepiti all'interno di un certo orientamento sono percepiti in un paese, in un'epoca o all'interno di un gruppo professionale dominati da un approccio di tipo diverso.
In particolare, si può facilmente contrapporre un approccio che possiamo definire americano a un altro che possiamo chiamare europeo, senza per questo dare a tali espressioni un contenuto troppo sistematico. La sociologia americana del dopoguerra è stata dominata dalla scuola funzionalista, cioè dai concetti di istituzione, integrazione e socializzazione, e pertanto il tema dei comportamenti collettivi e dei movimenti sociali è stato introdotto soltanto con i disordini, le campagne di protesta e i movimenti organizzati che si sono sviluppati negli Stati Uniti durante gli anni sessanta: movimento studentesco, azioni per la difesa dei diritti civili dei neri, campagne contro la guerra del Vietnam. L'attenzione rivolta alla violenza o al rifiuto dei valori dominanti sottolineava la debolezza, maggiore del previsto, dei meccanismi di integrazione sociale e culturale. In Europa, al contrario, ha esercitato per molto tempo un'influenza prevalente il pensiero marxista, vale a dire l'idea che l'organizzazione sociale poggi su un conflitto o almeno su un rapporto di subordinazione di importanza centrale. Mentre nel primo caso i comportamenti collettivi tendono ad apparire come marginali e come il risultato di difficoltà incontrate dai meccanismi di integrazione, una visione di ispirazione marxista tende a mettere al centro dell'analisi comportamenti collettivi opposti tra loro, dando così un'immagine drammatica della storia.
Prima però di definire con precisione i diversi modi di 'costruire' quest'oggetto (i comportamenti collettivi), occorre rilevare ciò che essi hanno in comune tra loro, vale a dire l'insoddisfazione generale nei confronti di una rappresentazione puramente liberale della vita sociale, che ridurrebbe la società a rapporti di mercato. In effetti, l'elemento specifico di un mercato, soprattutto se i suoi meccanismi non sono falsati da coalizioni, consiste nel favorire la ricerca razionale dell'interesse personale. Una società semplicemente 'aperta' sarebbe quindi fatta interamente di storie individuali, che potrebbero essere riunite tra loro solo in raggruppamenti statistici.

Anche se si ammette l'importanza della stratificazione in queste società aperte, nulla può indurci a pensare che gli individui collocati allo stesso livello abbiano la capacità di organizzare dei comportamenti collettivi; sembra al contrario più logico pensare che essi avranno dei comportamenti simili o comuni che si manifesteranno per esempio a livello di opinione, di consumi o di mobilità sociale. Il trionfo delle inchieste di opinione è legato in gran parte alla realtà indiscutibile, almeno nei paesi democratici e quindi liberali, di questo modello, degli atteggiamenti e dei comportamenti individualizzati: il metodo statistico permette poi di rendere conto nel modo migliore della suddivisione delle preferenze. Pertanto possono esistere dei comportamenti collettivi solo nella misura in cui una società non è interamente aperta, oppure, come dicono la maggior parte degli autori, nella misura in cui è dominata da un potere, e dunque è in essa operante una logica di dominio che eleva delle barriere, esclude alcuni mentre ne controlla altri, ecc. Il pensiero più liberale e quello che è stato definito individualismo metodologico, cui è stato accordato recentemente nuovo favore, indicano dunque i limiti di tutte le analisi dei comportamenti collettivi. Viceversa, tutti coloro che fanno riferimento a questo concetto concordano nel considerare insufficiente un'analisi semplicemente utilitaristica e individualistica dei comportamenti sociali.Vi sono tre tipi principali di analisi dei comportamenti collettivi, che si possono definire come analisi delle rivendicazioni, analisi delle paralisi istituzionali e analisi dei conflitti sociali.

2. I tre principali tipi di analisi

a) La difesa degli interessi collettivi

Come si passa dalla difesa di interessi individuali a un comportamento collettivo? Paradossalmente, è la celebre analisi di Mancur Olson sul free rider che ci porta più vicino a una risposta. Olson, eminente rappresentante dell'individualismo metodologico, ha osservato che l'interesse bene inteso di ciascuno deve portare piuttosto alla non partecipazione che alla partecipazione all'azione collettiva. Non è infatti più razionale non assumersi il rischio di pagare i costi di un'azione collettiva (di uno sciopero, per esempio), aspettare che altri si siano assunti questi costi e ricevere in questo modo i vantaggi senza alcuna contropartita?

Olson afferma giustamente che, in particolare nella vita sindacale, questo principio del free rider spinge alla formazione di unità di negoziato le più ridotte possibile, perché è così che ciascun individuo può vedere nel modo migliore quale interesse egli ha a partecipare a un'azione collettiva. Nessuno contesta quindi l'esistenza di rivendicazioni collettive e la formazione di gruppi d'interesse, e addirittura di movimenti rivendicativi. Ma come spiegare questa formazione? Olson, personalmente, ritrova una tradizione assai forte alla fine del XIX secolo, cioè al momento della formazione in Europa dei sindacati e dei partiti di massa, illustrato nel modo migliore da Roberto Michels: se si formano delle azioni di massa, questo dipende dal fatto che esse avvantaggiano direttamente i loro dirigenti. Le grandi organizzazioni, anche quando si dicono democratiche, sono sottoposte alla legge ferrea dell'oligarchia; esse funzionano cioè nell'interesse di quello che è stato recentemente chiamato il loro apparato o la loro tecnostruttura.

Ma è necessario allargare questo ragionamento, in quanto questi dirigenti non agiscono - ancor meno che i membri di base delle loro organizzazioni - come individui su un mercato. Essi sono di fatto collocati all'interno di un mondo più organizzato e più ristretto, cioè quello dei dirigenti politici. Sviluppano una strategia di potere, ma devono al tempo stesso assicurarsi che i loro mandanti siano convinti che questa strategia è a loro vantaggio. Di qui la necessità di atti e parole simbolici che, secondo gli osservatori più critici, generalmente non corrispondono ai comportamenti effettivi di questi dirigenti nei confronti di coloro che essi condannano con veemenza in pubblico e con i quali cercano accordi o compromessi quando non sono sotto il controllo dell'opinione pubblica.

Queste osservazioni introducono già un tema diventato sempre più importante negli ultimi vent'anni, quello della mobilitazione delle risorse, che costituisce la contropartita di un approccio utilitaristico, vale a dire della definizione dei comportamenti collettivi come difesa degli interessi. L'azione dei dirigenti mostra in effetti assai bene che tra le richieste degli individui e le risposte che vengono loro date si interpongono i rapporti di potere, di influenza e di autorità, in breve che non è possibile contrapporre l'individualismo degli interessi al carattere collettivo dell'azione, in quanto i beni ricercati non sono sul mercato ma dipendono, nella maggior parte dei casi, da centri di potere, si tratti di un governo o della direzione di un'impresa. Inoltre pochi attori sociali possono raggiungere i loro obiettivi senza formare alleanze o coalizioni e orientare quindi la loro azione verso guadagni o vittorie più simbolici che materiali, cambiando dei rapporti di forza che decidono la distribuzione dei vantaggi, siano essi materiali o d'altro tipo.

Questa concezione dei comportamenti collettivi è condivisa da alcuni liberali e marxisti, così come l'individualismo metodologico si considera spesso discepolo fedele dell'insegnamento di Marx, anche se ciò è vero soltanto se si riduce Marx all'economicismo. Comunque sia, non va sottovalutata l'importanza di questo tipo di analisi, in particolare quando essa viene applicata all'azione sindacale. Per ottenere un migliore salario, giornate lavorative più brevi o semplicemente la conservazione di un posto di lavoro minacciato dai cambiamenti tecnologici o economici, è necessario collegare un'azione guidata da interessi direttamente visibili a una strategia politica. C. Tilly ed E. Shorter, studiando gli scioperi in Francia, hanno notato che i conflitti di lavoro, che hanno quasi sempre obiettivi economici, si sviluppano soprattutto quando il mondo operaio ha coscienza o di aver aumentato la propria influenza politica o che essa è diminuita. In questo modo il concetto di interesse si combina con quello di pressione politica e anche di strategia.

b) La paralisi istituzionale

Questa seconda ipotesi è stata costantemente sviluppata dai sociologi di ispirazione funzionalista, che vedono nella formazione dei comportamenti collettivi l'espressione di una paralisi o di un cattivo funzionamento dei meccanismi istituzionali, un po' come un imbottigliamento è il risultato di strade insufficienti per smaltire il traffico o di una circolazione mal regolata. I comportamenti collettivi sarebbero quindi la contropartita di comportamenti individuali definiti dalla conformità alle norme dominanti e dalla loro interiorizzazione. In questo spirito, i comportamenti collettivi più importanti possono essere considerati quelli definiti da R. Merton 'iperconformisti', cioè quelli che fanno appello, contro le pratiche in atto, ai valori dominanti, ai principî affermati nell'ambito di una società. In tutti i paesi democratici si formano movimenti di protesta che denunciano delle ingiustizie, il mancato riconoscimento dei diritti d'espressione e d'azione di gruppi particolari. Il concetto di minoranza è quello che ha avuto maggiore importanza, soprattutto negli Stati Uniti, per definire i gruppi capaci di mobilitarsi in nome di principî generali, di una concezione sempre più larga dei diritti umani. Le battaglie per i diritti civili nel Sud degli Stati Uniti, come l'azione non violenta di Gandhi in Sudafrica e in India, sono dei buoni esempi di azioni puramente di protesta, la cui forza deriva in gran parte dal fatto di mettere i poteri pubblici e privati in contraddizione con i principî che essi pretendono di servire.

I movimenti di modernizzazione, anche quando sono rivoluzionari, si richiamano nella maggior parte dei casi a un'evoluzione naturale della storia capace di condurre da società segmentate verso società aperte. In termini pressoché analoghi molti movimenti di protesta si richiamano, in modo positivo, all'idea di società sempre più complesse e costrette ad adattarsi a cambiamenti incessanti, il che le costringe a rimettere costantemente in causa i principî e le forme organizzative che sembravano più saldi. I movimenti per la pace, che hanno svolto un ruolo così importante nei paesi occidentali impegnati in conflitti di tipo coloniale, come la Francia e gli Stati Uniti, hanno fatto appello costantemente a una dichiarazione dei diritti dell'uomo e a principî costituzionali. Gli Stati Uniti sono certamente uno dei paesi in cui le azioni di protesta si sono giovate più efficacemente di argomentazioni di tipo giuridico. Si sono visti per esempio movimenti in difesa dei neri, promossi da gruppi di ispirazione comunista pronti a denunciare la società americana, utilizzare abilmente e con efficacia tutte le risorse del diritto, in particolare grazie all'advocacy, il diritto all'ingerenza e alla contestazione.

Ma queste azioni collettive presuppongono che siano possibili, e anzi probabili, delle riforme. Senza di ciò la mobilitazione perde senso, si degrada e può condurre a una violenza che significa solo il fallimento di un tentativo di riforma. I regimi socialdemocratici europei, compreso il laburismo inglese, hanno dato un'importanza centrale al tema delle riforme e dell'allargamento dell'idea democratica. Gli Inglesi per primi hanno parlato di democrazia industriale e anche, circa un secolo più tardi, di patto sociale. I grandi accordi collettivi, come quello firmato nel 1938 a Saltsjöbaden tra padronato e sindacati svedesi, sono una chiara esemplificazione di come questi accordi, che poggiano su forti azioni collettive, siano in grado di condurre a riforme. Queste azioni non sarebbero state intraprese senza il convincimento che le riforme erano conformi allo spirito della costituzione o ai principî riconosciuti della società politica.

c) I movimenti sociali

Benché l'espressione 'movimenti sociali' sia utilizzata in molti sensi e da tutte le scuole sociologiche, sembrerebbe preferibile, in nome di semplici ragioni storiche, e soprattutto quando si parla dell'Europa, riservarla ai comportamenti collettivi che mettono in causa, attraverso un conflitto sociale, l'utilizzazione da parte di una società delle principali risorse e dei modelli culturali di cui essa dispone: cioè, allo stesso tempo, i suoi modelli di conoscenza, le sue principali forme di investimento e di produzione e i suoi modelli etici, i suoi principî morali.In realtà è impossibile utilizzare gli stessi termini per definire un approccio centrato sull'interesse di individui o di gruppi, un altro che dà un posto centrale all'idea di sistema sociale e di funzionamento istituzionale, e un altro ancora che poggia sull'idea che l'insieme dell'organizzazione sociale si basa su un conflitto sociale centrale.

Ma non è nemmeno sufficiente dare un posto essenziale al conflitto sociale. In effetti, si può argomentare che il primo dei tre approcci qui definiti e l'idea stessa di mercato attribuiscono una grandissima importanza ai conflitti e alla concorrenza. Una visione utilitaristica si può esprimere bene anche in termini di conflitti d'interesse. Ciò che caratterizza questa terza ipotesi è che essa definisce gli attori sociali allo stesso tempo attraverso il conflitto sociale in cui sono impegnati e gli orientamenti culturali che li guidano. In questo senso, questo terzo approccio combina insieme i due precedenti: il primo parla di conflitti d'interesse, il secondo di norme e di meccanismi di integrazione sociale, il terzo di conflitti sociali diretti verso l'utilizzazione sociale di orientamenti culturali riconosciuti da tutti.

Un esempio può illustrare facilmente questo tipo di comportamenti collettivi. Nell'Europa della fine del XIX secolo e del XX l'industrializzazione e la razionalizzazione delle imprese sono orientamenti e idee largamente condivisi da industriali e sindacati. Il movimento operaio si è veramente costituito come tale solo quando ha superato il rifiuto luddista dell'industria e, una volta accettati i valori industriali, si è presentato come difensore del progresso e della modernizzazione e ha combattuto il profitto capitalistico considerato come un ostacolo alla razionalizzazione. Parallelamente, tecnici e ideologi del padronato, come F. W. Taylor negli Stati Uniti, hanno denunciato la pigrizia e la lentezza degli operai in nome di metodi di produzione che essi consideravano scientifici.

Questo tipo di approccio è più esigente dei precedenti in quanto implica l'idea che esista, almeno virtualmente, un conflitto centrale in una data società. È un'affermazione, questa, che dà una grande importanza al concetto di classe sociale, almeno nel senso in cui esso si è imposto nel pensiero europeo. In effetti, se il concetto di classe servisse semplicemente a individuare dei livelli, degli strati o anche dei gruppi professionali, esso non conterrebbe in sé l'idea di un conflitto centrale, idea imposta invece da espressioni come 'lotta di classe'. Molti studi, come anche molte azioni politiche, hanno mirato a rivelare dietro l'apparente molteplicità dei comportamenti sociali l'unità di un conflitto fondamentale. Alcuni leaders politici hanno parlato quindi di 'fronti' particolari dove si conduceva una lotta di classe supposta generale. Si può anche pensare che proprio la crisi di questa concezione abbia rafforzato nel pensiero sociale l'importanza delle due precedenti analisi dei comportamenti politici, capaci di render conto meglio della molteplicità e della specificità dei conflitti o delle azioni collettive.

Questa osservazione permette di collegare i tre approcci tra loro, di vedere quindi che essi sono più complementari che contraddittori, e che non si collocano allo stesso livello della realtà sociale. Il concetto di movimenti sociali si colloca al livello più elevato, ma anche più difficile da raggiungere, quello che A. Touraine ha chiamato historicité, cioè la realizzazione sociale dei grandi modelli culturali attraverso i quali una società costruisce le sue relazioni con l'ambiente. Al contrario, i conflitti d'interesse si collocano a livello dell'organizzazione sociale e anche di quelle che i sociologi chiamano 'le organizzazioni'. I movimenti di riforma si collocano tra i due al livello delle istituzioni e dei meccanismi politici, che costituiscono un insieme di mediazioni capace di condurre dai rapporti di dominio sociale a forme di organizzazione professionale o tecnica.

Pertanto, invece di affermare perentoriamente che i comportamenti collettivi devono essere analizzati nell'una o nell'altra prospettiva, è opportuno distinguere anzitutto i tre grandi tipi di comportamenti collettivi e affermare quindi che i comportamenti di livello più elevato, i movimenti sociali, si formano soltanto attraverso il superamento dei comportamenti collettivi degli altri due tipi, che si collocano al livello dell'organizzazione sociale o a livello politico. L'oggetto principale delle ricerche storiche o sociologiche deve dunque consistere nell'identificare i comportamenti sociali e nel definire il livello della realtà sociale in cui essi si collocano. Occorre anche riconoscere che il vantaggio di un'analisi, che può essere marxista o non, in termini di movimenti sociali consiste nel fatto che essa permette di rilevare questa diversità, mentre troppo spesso le analisi di tipo utilitaristico (come pure quelle condotte soltanto in termini di meccanismi di integrazione sociale) tendono a rifiutare l'esistenza di altri tipi di comportamenti collettivi e quindi a rifiutare anche altri metodi di analisi. Tuttavia vedere nei comportamenti utilitaristici, per esempio, soltanto delle forme degradate di movimenti sociali significherebbe andare troppo lontano in direzione contraria. Esiste in realtà un'ampia autonomia dei comportamenti collettivi a ciascuno dei tre livelli che sono stati ora distinti.

3. Le modalità dei comportamenti collettivi

a) Riforme e rotture

Tutti i comportamenti collettivi ora definiti combinano tra loro partecipazione e rifiuto, elementi positivi ed elementi negativi dell'azione. Tuttavia alcuni sono più vicini al polo riformatore, altri a quello rivoluzionario, e questa opposizione si può osservare a ciascuno dei tre livelli che abbiamo appena distinto. A livello dell'organizzazione sociale, e in particolare dell'organizzazione del lavoro, le rivendicazioni 'positive' mirano a ottenere gratificazioni più adeguate alla natura del contributo personale o collettivo, a ottenere cioè un miglior rapporto tra lavoro e salario. Ma l'azione operaia, in particolare al suo sorgere, ha fatto largamente ricorso a certe forme di violenza, cioè di rifiuto delle norme dominanti. Il sabotaggio o il boicottaggio rappresentano le forme estreme di questa violenza; il rallentamento della produzione è stato invece una pratica molto più frequente.

Al secondo livello, quello della pressione politica, dell'azione destinata a cambiare le regole del gioco, la pressione 'positiva' è stata sempre accompagnata da una pressione violenta di cui lo sciopero, da parte operaia, e la serrata da parte padronale sono le espressioni ben note. Infine, e questo rappresenta l'opposizione storicamente più visibile e più importante, la formazione di movimenti sociali 'positivi', miranti, per esempio, a sostituire una gestione padronale delle imprese con una gestione operaia o con una autogestione, è stata sempre accompagnata da azioni di rottura di tipo rivoluzionario, che tendono, in misura più o meno completa, a respingere la posta stessa del conflitto, cioè (nel caso in esame) la produzione industriale, insieme al dominio del padronato sulla produzione e ai metodi di lavoro industriali.

b) Movimenti e antimovimenti sociali

Si definisce movimento sociale quello che combina un rapporto sociale conflittuale con un obiettivo culturale riconosciuto e apprezzato da tutti gli avversari. Ma può succedere che questa associazione di orientamenti comuni e di conflitto sociale si rompa. Talvolta il conflitto può non riferirsi più a orientamenti comuni e diventa una semplice concorrenza o addirittura una guerra, vale a dire un gioco a somma zero. In altri casi un attore sociale si identifica interamente con l'obiettivo culturale e considera il suo avversario più come un nemico e uno straniero che come qualcuno con cui si è in conflitto all'interno di orientamenti culturali comuni. Un'azione collettiva, trasformata così in richiamo alla violenza, rifiuta il negoziato con un avversario che diventa una minaccia sia per i valori culturali sia per gli interessi sociali e che si identifica egli stesso così completamente con questi valori culturali da poter concepire solo una società omogenea, di cui la setta rappresenta il tipo 'puro'. Si chiama 'antimovimento sociale' non un movimento che si oppone a un altro movimento, ma la distruzione della nozione stessa di movimento sociale in nome dell'identificazione dell'attore con l'obiettivo culturale e del rifiuto dell'avversario come un nemico pericoloso contro cui tutta la comunità deve mobilitarsi.

Questa è appunto la definizione dei regimi totalitari che identificano una collettività con dei valori e la trasformano quindi in comunità, vedendo negli avversari soltanto dei nemici, appoggiati per di più da traditori all'interno della comunità. I rapporti sociali sono allora sostituiti da relazioni di guerra e le lotte sociali divengono dei combattimenti mortali. Non esistono nell'Europa del XX secolo fatti storici più importanti di questo rovesciamento, soprattutto quando esso concerne non soltanto comportamenti utilitaristici o movimenti di riforma, ma addirittura movimenti sociali che affermano la loro importanza centrale. Proprio in questo modo il nazionalsocialismo ha rovesciato l'analisi e l'azione del socialismo, così come i regimi totalitari nati da rivoluzioni dette proletarie hanno scelto come prima vittima proprio il movimento operaio.

4. Comportamenti collettivi e cambiamenti storici

a) La restaurazione del passato

I comportamenti collettivi non sono sempre diretti verso il presente o l'avvenire. Spesso una società è minacciata da trasformazioni la cui origine è lontana, sulle quali essa non può agire e che addirittura non riesce neppure a comprendere. I suoi membri reagiscono allora più alla crisi della società tradizionale che alla sua eventuale trasformazione in una società nuova. Altre volte una comunità indifferenziata ed egualitaria reagisce alla sua differenziazione interna e all'arrivo, attraverso matrimoni o immigrazione, di individui esterni alla comunità stessa e alle sue tradizioni. Può apparire allora un capo carismatico o anche un messia (come avvenne per la comunità dei Mucker, nel Brasile meridionale alla fine del XIX secolo, quando l'arricchimento di alcuni mise in pericolo l'integrazione della comunità primitiva). La penetrazione del mondo mercantile è stata spesso vissuta come una minaccia diretta da parte delle comunità contadine o di pescatori o anche di minatori, tutte comunità per definizione isolate. La caccia alle streghe si è diffusa, tanto in Francia che nelle colonie inglesi d'America, durante la fase di passaggio da una società rurale a una società mercantile.In altri casi la difesa della tradizione risponde a un'aggressione più diretta. Gli storici hanno troppo spesso considerato questi movimenti collettivi come reazionari; oggi è noto che la Vandea, durante la Rivoluzione francese, non fu un movimento manipolato dagli aristocratici, ma piuttosto la difesa di una società tradizionale - in cui i nobili svolgevano un ruolo effettivamente importante - di fronte alla forte penetrazione della proprietà borghese, già prima della Rivoluzione. Allo stesso modo in questo secolo, alla fine degli anni venti, le violente campagne anticlericali condotte dal governo messicano provocarono, in particolare nel Bajío, la reazione dei cristeros, un movimento di difesa comunitaria ispirato più dal sentimento religioso che dalla Chiesa, la quale mantenne sempre una prudente distanza.

Le forme di profetismo e di messianismo, in particolare nel Congo e in Brasile, sono state spesso interpretate come movimenti di difesa delle comunità rurali minacciate al tempo stesso dalla povertà - nel caso brasiliano dal banditismo - e dallo sviluppo di un capitalismo che prendeva, direttamente o indirettamente, forme di colonialismo. Tuttavia questa interpretazione è probabilmente insufficiente. La sola difesa della comunità non spiega l'apparizione di un messia, il quale combatte sicuramente un ordine nuovo considerato come una fonte di minacce, ma crea anche una mobilitazione, una capacità d'azione dirette non verso un avvenire storico, ma verso un avvenire escatologico, verso una 'fine del mondo': ciò indica che si tratta già di una prima forma di organizzazione di un movimento sociale e non soltanto di un movimento di restaurazione.

b) L'emancipazione

All'estremo opposto rispetto a questi movimenti, in parte almeno rivolti verso il passato, si collocano altri movimenti interamente rivolti verso il futuro, il cui contenuto sociale è molto più debole di quello culturale. Si tratta di movimenti di innovazione o di mobilità sociale. È il richiamo verso la città, verso la sue forme di consumo, verso le sue occasioni di miglioramento sociale, in particolare attraverso l'educazione dei figli, che sposta grandi ondate di emigranti dalle società tradizionali in cui la terra manca sempre più per una popolazione in rapida crescita; tali masse o si urbanizzano o diventano gruppi marginali ridotti a vivere in quella che O. Lewis ha definito la "cultura della povertà", intermedia tra la società di partenza e la società d'arrivo, ma estranea per la sua organizzazione a entrambe.

I comportamenti innovativi possono assumere un aspetto più dinamico, in particolare in un Occidente che ha dato un'importanza fondamentale al tema della modernizzazione. I comportamenti collettivi sembrano allora diretti verso la scomparsa di collettività o di categorie tradizionali e sono di ispirazione egualitaria o individualista. Si tratta di rovesciare barriere e privilegi e di dare a ciascuno l'eguaglianza delle opportunità e dei diritti: era questo già lo spirito delle Dichiarazioni americana e francese dei diritti umani. La mobilitazione è solo strumentale: non fa appello a una collettività, ma a un diritto naturale o all'uguaglianza di tutti.Recentemente la tendenza più rilevante del movimento femminista occidentale è stata appunto di questa natura: mirava ad abolire le discriminazioni tra uomini e donne e di conseguenza a fare in modo che il sesso non rappresentasse più un ostacolo nella vita professionale o nell'accesso alle diverse funzioni.

c) I movimenti storici

Questo liberalismo vincente si incontra soltanto nelle società più convinte di poter produrre naturalmente la modernizzazione, a condizione soltanto di rovesciare gli ostacoli che rallentano la marcia del progresso. Nella maggior parte dei casi, al contrario, la volontà di apertura e di modernizzazione si scontra con ostacoli che appaiono insormontabili o che richiedono una mobilitazione più organizzata e spesso, addirittura, il ricorso alla violenza.I più importanti tra quelli che si possono definire movimenti storici sono i movimenti di liberazione nazionale, che hanno svolto un ruolo di grande rilievo durante il XX secolo. Occorre però distinguere tra movimenti storici e movimenti sociali. Questi ultimi, come si è visto, si collocano all'interno di un determinato tipo di società e sono sostenuti da un determinato attore sociale, per esempio una classe sociale che si oppone a un altro attore sociale per la gestione delle principali risorse. I movimenti storici, invece, sono impegnati in un conflitto che non riguarda la direzione della società, ma la direzione del passaggio da un tipo di società a un altro. Si può dire, per esempio, che i movimenti sociali moderni si collocano spesso all'interno della società industriale, mentre i movimenti storici cercano invece di dirigere l'industrializzazione.

La storia moderna è dominata dalle relazioni tra questi due tipi di movimenti, ben espressa dall'opposizione tra movimenti di classe e movimenti nazionali. Alla fine del XIX secolo prevalse spesso l'idea che questi due tipi di movimenti potessero confluire per creare grandi movimenti rivoluzionari. È questa per esempio la definizione del leninismo. L'esperienza centrale del XX secolo è che questa confluenza non avviene, anzi, la logica dei due movimenti è così diversa che essi tendono ad allontanarsi l'uno dall'altro. I movimenti specificamente sociali, in quanto presuppongono lo sviluppo di forze produttive moderne, assumono spesso forme sempre più istituzionalizzate e regolate dalla legge o dalle convenzioni (e questo li conduce in particolare verso la socialdemocrazia). Al contrario, i movimenti non anticapitalisti, ma antimperialisti o anticolonialisti, perdono il loro contenuto sociale, in quanto devono mobilitare tutte le categorie sociali contro un avversario - l'occupazione straniera - più nazionale che sociale e ciò li spinge o verso regimi nazionalistici autoritari o verso una mobilitazione neocomunitaria, che poggia talvolta sulla religione o su un sentimento nazionale.

Durante la seconda metà del XX secolo la contraddizione tra questi due tipi di movimenti, e quindi il declino del modello che si può definire leninista o maoista, si è rivelata talmente importante che i gruppi che hanno tentato di svolgere un'azione rivoluzionaria, allo stesso tempo sociale e nazionale, si sono isolati sempre più e hanno creato nel mondo la linea di frattura sulla quale si sono collocate la maggior parte delle azioni terroriste: dai Tupamaros uruguayani e dai Montoneros argentini fino ai Mujahiddin marxisti-leninisti turchi, iraniani o anche palestinesi.

I movimenti storici non sono definiti dalla loro posizione in una società civile, ma dalle loro relazioni con lo Stato, in quanto esso non rappresenta il principio centrale del funzionamento di una società ma, al contrario, è l'agente principale della trasformazione di un paese da un tipo di società in un altro: lo dimostra con evidenza, durante tutto il XX secolo, il ruolo degli Stati autoritari modernizzatori, eredi del dispotismo illuminato, e lo ricordano non solo il caso francese - più vicino a quelli tedesco e italiano che a quello inglese - ma anche il caso dell'Inghilterra o degli Stati Uniti, paesi 'centrali' per eccellenza, la cui modernizzazione non è però separabile dall'egemonia che essi esercitarono o esercitano a livello mondiale.

I movimenti storici non hanno quindi la stessa autonomia d'azione dei movimenti sociali: in particolare, essi sono spesso subordinati alle iniziative di un dirigente politico. Se non possono appoggiarsi a uno Stato nazionale forte, ricorrono alla violenza, per esempio quella della guerriglia, non per mobilitare le masse ma, al contrario, come ricorda la teoria cubana del focolaio rivoluzionario, per creare un'avanguardia rivoluzionaria capace di attaccare uno Stato considerato esso stesso un agente del dominio straniero.

d) Le rivoluzioni

La rivoluzione è il modello di comportamento collettivo al quale i due ultimi secoli hanno dato più importanza. Questo dipende dal fatto che l'idea di rivoluzione sembra riunire in sé tutti i comportamenti volti al cambiamento storico ora ricordati. Nella definizione di una rivoluzione si incontrano sempre tre elementi principali. In primo luogo l'idea, ereditata dalla filosofia dei Lumi, che sia necessario aprire, anche con la forza, la porta a un progresso naturale. Ogni rivoluzione vuole distruggere un ancien régime considerato arcaico e creare una società moderna. In secondo luogo questa concezione naturalistica si unisce alla mobilitazione di forze popolari ridotte al silenzio o alla schiavitù nell'ancien régime, forze che non sono però soltanto modernizzatrici, in quanto combattono un avversario sociale e spesso vogliono anche restaurare un ordine precedente, che garantiva loro certi privilegi o un certo grado di autonomia. Infine, non vi è rivoluzione che non sia associata alla creazione o alla restaurazione di uno Stato nazionale, il che fa di ogni rivoluzione allo stesso tempo un movimento storico e un movimento sociale.

Dalle Rivoluzioni americana e francese alla Rivoluzione russa e poi a quella cinese e a molte altre, noi abbiamo vissuto ciò che E. Hobsbawm ha chiamato l'epoca delle rivoluzioni, dominata dall'idea centrale che movimenti storici e movimenti sociali possono unirsi in un'azione collettiva di trasformazione totale della società e della storia. Siamo ancora gli eredi di questa concezione, nella misura in cui molti movimenti sociali hanno definito i loro obiettivi in termini storici: si trattava in particolare di creare il socialismo per sostituire il capitalismo, come una nuova tappa della storia che sarebbe poi stata superata a sua volta dal comunismo o da un'altra forma di organizzazione sociale.

Ma come non parlare del declino e addirittura della scomparsa dell'idea di rivoluzione? In primo luogo la volontà di liberazione nazionale ha rapidamente eliminato ogni concezione evolutiva della storia a vantaggio della difesa della specificità di una determinata cultura: durante gli anni sessanta e settanta si è assistito a violenti attacchi contro l'idea di sviluppo, nuova versione dell'idea occidentale di progresso o di modernizzazione. E poi l'idea, difesa soprattutto da F. Fanon, che le categorie sociali più lontane dall'influenza coloniale sarebbero anche quelle più mobilitabili socialmente e più rivoluzionarie, si è rivelata falsa e, al contrario, sono state le élites nazionaliste e militari che si sono impadronite del potere, riducendo o lasciando nella passività le masse contadine.

I movimenti nazionali e i gruppi rivoluzionari si sono presto combattuti, cosa che era già avvenuta nella fase centrale della Rivoluzione francese, con la rapida eliminazione delle forze, ancora disorganizzate, che chiamavano a lotte specificamente sociali al di là del rovesciamento della monarchia. Infine, e soprattutto, il XX secolo ha visto svilupparsi quelle che si possono definire delle antirivoluzioni, il cui primo esempio è rappresentato dal movimento contadino all'interno della Rivoluzione messicana dopo il 1910. In questo caso la difesa di un gruppo sociale è più restauratrice che progressista. Esso non si allea alle forze di modernizzazione, ma al contrario le combatte, difendendosi dalla penetrazione di un capitalismo nazionale o straniero: fu appunto il caso dei contadini del Morelos che, guidati da Zapata, lottavano contro la penetrazione di un capitalismo agrario favorito dalla costruzione della linea ferroviaria. Modernizzazione, lotte sociali, creazione dello Stato nazionale, che erano sembrate unirsi nel modello rivoluzionario, si separano e spesso addirittura si combattono.

e) L'istituzionalizzazione dei conflitti

L'esperienza dominante dei paesi occidentali è stata l'istituzionalizzazione dei conflitti nati dall'industrializzazione e, di conseguenza, la crescente subordinazione dei movimenti sociali a comportamenti di pressione politica. La ricerca inglese di una industrial democracy, la creazione svedese, norvegese, tedesca o austriaca di regimi socialdemocratici, lo sviluppo in Italia e in Francia, a partire dalla fine del XIX secolo, dell'intervento sociale dello Stato sono altrettante forme di questa istituzionalizzazione dei conflitti che trasforma comportamenti collettivi di rottura in comportamenti di partecipazione, senza peraltro che ciò significhi la scomparsa di un riferimento al conflitto sociale fondamentale. Le nostre democrazie rappresentative occidentali sono state forti nella misura in cui la partecipazione politica è rimasta rappresentativa di conflitti sociali di classe, il che ha associato violenza sociale e pace civile grazie a meccanismi a un tempo legali e contrattuali.

5. Le forme dell'azione collettiva

a) I comportamenti di crisi

Questi comportamenti sono i più deboli di tutti, poiché manifestano la decomposizione e non la mobilitazione di un corpo sociale. La loro forma estrema è il panico, che si ha quando un pericolo a un tempo generale e non bene identificato, e quindi difficile da combattere e da prevedere, minaccia un corpo sociale. Il panico è la risposta a una catastrofe, si tratti dell'eruzione di un vulcano, della rottura di una diga o di un bombardamento, o anche di una crisi di borsa o di un incidente nucleare. Il comportamento di crisi decompone il gruppo e lo sostituisce con la folla. Quest'ultima, non essendo capace d'azione autonoma, si dissolve nel ripiegamento individuale o nella lotta di tutti contro tutti, o è ristrutturata dall'azione di un leader che, come hanno ben visto Le Bon e Freud, non agisce sulla collettività ma su ciascuno degli individui, desocializzati e disorientati, stabilendo con essi un rapporto di dominio.

b) I gruppi d'interesse

I gruppi d'interesse, ai quali la scienza politica americana ha dato tanta importanza, sono l'esatto opposto della folla. È appunto da questi gruppi che ci si attende dei comportamenti utilitaristici più o meno organizzati, ai quali la prima delle tre prospettive analitiche definite all'inizio ha dato un'importanza centrale. A molti è sembrato che l'elemento specifico di una società moderna razionalizzata consista nell'importanza sempre crescente di questi gruppi specializzati, capaci di agire in modo calcolato e poco emotivo, con un comportamento, quindi, esattamente contrario a quello della folla. Questa immagine è del tutto artificiale, e l'osservazione mostra piuttosto la trasformazione di questi presunti gruppi d'interesse da un lato in clientele relativamente passive di agenti di influenza, in particolare di politicanti o lobbisti all'americana, e dall'altro in movimenti di base tanto più capaci di ricorrere alla violenza o a ogni altra forma di azione dimostrativa quanto più diventa grande la separazione tra gli agenti di influenza e coloro che essi sarebbero tenuti a rappresentare.

Aggiungiamo inoltre che un'azione puramente strumentale, largamente delegata ad agenti di influenza, si incontra tanto più facilmente quanto più i gruppi d'interesse sono dominanti o privilegiati, hanno cioè un accesso più diretto al potere politico e ai mezzi di manipolazione dell'opinione pubblica. In compenso categorie socialmente deboli o in declino, per esempio in regioni sottosviluppate, o categorie contadine in decadenza, artigiani, commercianti e piccoli imprenditori minacciati dalla concentrazione commerciale e industriale, possono difendere i loro interessi solo mescolando subordinazione al padronato politico e violenza. Questa strana mescolanza di integrazione estrema nel sistema politico e di comportamenti di rottura reale e simbolica con questo stesso sistema si manifesta di frequente nell'Europa occidentale. Il poujadismo francese, nato nel dopoguerra all'epoca del grande sviluppo industriale, è uno degli esempi più citati. È dunque artificioso credere all'autonomia dei gruppi d'interesse; ciò che viene definito con questo nome non è altro che un equilibrio instabile tra una mobilitazione contestataria e un apparato di manipolazione e di integrazione politica.

c) Vita privata e azione pubblica

Contro l'idea stessa di gruppi d'interesse e di interest groups politics, occorre sottolineare che la pressione collettiva e l'azione strumentale non sono separabili dalla dimensione dimostrativa dell'azione, vale a dire dal rapporto con la cultura e con l'organizzazione sociale del gruppo interessato. Da ciò l'importanza del riferimento alle culture professionali più forti da parte dei gruppi relativamente isolati, come i minatori, i dockers e i portuali, e altresì l'importanza dell'azione collettiva di gruppi culturalmente o socialmente minoritari, come anche dei giovani e delle donne. In generale è impossibile separare la ricerca strumentale dell'interesse dalla dimostrazione di una unità collettiva. Il leader di un'azione collettiva deve essere a un tempo uno stratega o un negoziatore e insieme un uomo capace di mobilitare e soprattutto di esprimere una coscienza, un'inquietudine, una speranza o una paura collettive. Ogni comportamento collettivo può essere collocato in rapporto a due forme estreme egualmente rare nella realtà: l'azione puramente strumentale e l'azione puramente dimostrativa; l'una e l'altra conducono alla distruzione dei comportamenti collettivi.

d) Il gruppo diviso

La combinazione di azioni strumentali e azioni dimostrative è soltanto uno degli aspetti della complessità di tutte le forme di mobilitazione collettiva. Questa complessità spiega a sua volta il fatto che assai raramente un'azione organizzata corrisponde direttamente a un gruppo sociale (come se un partito, un sindacato, un movimento religioso o associativo potesse identificarsi con l'insieme della popolazione in nome della quale esso agisce e parla). Al contrario, proprio la distanza tra il gruppo rappresentato, l'azione organizzata e, all'interno di questa, i dirigenti, costituisce l'aspetto più appariscente dei comportamenti collettivi organizzati. Al punto che, spesso, le divisioni e le lotte interne costituiscono un fattore di mobilitazione maggiore dell'azione contro l'avversario.

Si possono distinguere tre forme principali di crisi interna dell'azione organizzata. Lo 'scisma' mette in discussione la direzione del movimento e quindi la sua strategia e le relazioni con gli avversari o con gli eventuali alleati. Può succedere che uno scisma divida attori che hanno in comune un elemento di mobilitazione, ma che differiscono per altri aspetti importanti della loro esperienza sociale.

Facendo ancora ricorso al linguaggio religioso, si può chiamare 'eresia' una rottura interna che verte sulle finalità dell'azione e addirittura sulla sua natura. Il caso più celebre è quello delle scissioni nella socialdemocrazia russa, e in particolare delle lotte tra menscevichi e bolscevichi tra l'inizio del secolo, la prima guerra mondiale e la Rivoluzione sovietica. Il sindacalismo occidentale ha conosciuto anch'esso le divisioni interne tra socialisti e comunisti, rivoluzionari e riformisti. Più in generale, una causa frequente di divisione è rappresentata dall'opposizione tra i difensori di un movimento autonomo e coloro che invece cercano di inserirsi nel gioco politico. Ne sono un esempio i movimenti regionalisti. In Francia, in particolare, essi si sono divisi definitivamente tra i radicali, che facevano appello a un nazionalismo culturale, e quanti davano la priorità a una campagna per lo sviluppo regionale, che presupponeva l'alleanza con forze politiche a livello nazionale. L'opposizione sopra richiamata tra lotte nazionali e lotte di classe costituisce il livello più elevato di divisione 'eretica', come dimostrano i due esempi paralleli dell'ETA basca e dell'IRA irlandese, profondamente divise tra quanti danno la priorità all'azione nazionale e militare e quanti vogliono combinare quest'azione nazionale con un'azione di classe.

La terza forma di divisione può essere definita 'fondamentalismo': nasce come risposta alle tensioni che minacciano il movimento di rottura e fa appello alla comunità o alle credenze originarie capaci di cementare l'azione collettiva. Questi movimenti assumono un'importanza eccezionale alla fine del XX secolo. Li si trova sotto forma di movimenti islamici, ma anche nelle comunità di base più o meno religiose di molti paesi dell'America Latina e, in particolare, del Brasile.

Si potrebbe aggiungere infine il caso, veramente estremo, dell'autodistruzione del gruppo: ne sono un esempio i movimenti 'sebastianisti', che in Brasile, all'inizio del XIX secolo, attendevano in modo escatologico il ritorno del re del Portogallo, Sebastiano, e arrivarono per questo fino all'immolazione collettiva. Questo episodio si ricollega a drammatici esempi storici come quello degli Ebrei di Masada, che conclusero con un suicidio collettivo la loro rivolta contro il potere romano.

6. Conclusione

È possibile parlare in generale di un'evoluzione dei comportamenti collettivi? È difficile in effetti rinunciare a ogni concezione evoluzionistica, anche se bisogna scartarne le versioni più semplicistiche. L'idea a lungo dominante, espressa da quasi tutti i sociologi classici, è che con la modernizzazione si è passati da un'azione dimostrativa a un'azione strumentale e, come diceva Parsons, da un'azione centrata sulla comunità a un'azione centrata sull'interesse personale, come se la società si avvicinasse a un modello di funzionamento di tipo economico, capace di combinare l'organizzazione dell'impresa e le leggi del mercato. Ma l'interesse costante rivolto allo studio dei comportamenti collettivi in tutte le scienze umane, dalla psicologia sociale alla sociologia e alla storia, costituisce una critica di questa concezione razionalistica della modernità.

Due idee si impongono a questo punto. La prima è che i comportamenti collettivi sono sempre meno diretti verso i centri politici o culturali del potere e sempre più rivolti alla difesa di un'azione autonoma degli attori, sia in rapporto agli altri, sia in rapporto ai poteri centrali, sia infine in rapporto a possibili pericoli venuti dall'esterno. Anche se il tema dell'autogestione resta sempre più utopistico che realistico, le azioni collettive fanno appello alla partecipazione responsabile, individualizzata, dei loro membri. In secondo luogo, e questo è ancora più importante, i comportamenti collettivi mobilitano in modo sempre più complesso e completo i loro attori. Al punto che si potrebbe, senza fare del paradosso, rovesciare l'immagine classica e dire che si passa da azioni sempre più strumentali ad azioni sempre più dimostrative, come se la capacità di cambiamento, di innovazione e di critica estendesse costantemente il suo campo d'azione.

Agli inizi, a partire dal momento in cui i comportamenti non sono più 'di conformità' ma 'di cambiamento', essi si collocano a un livello completamente istituzionale (per esempio per esigere la rappresentanza degli interessi e in particolare il voto delle imposte, fatto quest'ultimo che diede origine ai parlamenti). In seguito, nella società industriale, i comportamenti collettivi coinvolgono più concretamente i lavoratori che i cittadini; mobilitano quindi i gruppi di lavoro e la loro organizzazione informale, la loro esperienza vissuta di un'attività professionale e di rapporti sociali di potere. Nel nostro secolo si può dire che i comportamenti collettivi siano capaci di mobilitare in modo ancora più ampio; fanno appello a quella che si può chiamare la vita privata, cioè l'insieme della personalità e della cultura e non solo alle forme più istituzionalizzate della vita politica: anche per questo i comportamenti collettivi mostrano un indebolimento della loro leadership. I profeti e i capi militari hanno lasciato il posto ai rappresentanti eletti e questi ai mandatari, ai responsabili di associazioni la cui funzione può essere soppressa in ogni momento dal gruppo dei mandanti. In tal modo la partecipazione ai comportamenti collettivi diventa sempre più totale, mentre crea allo stesso tempo una crescente fragilità di tutte le forme organizzative.

Tutto questo conduce a una conclusione più generale: il concetto di 'comportamenti collettivi' è essenziale per passare da una scienza sociale centrata sul sistema sociale, sulle sue regole, sulle sue istituzioni, sulle sue forme di integrazione, di partecipazione o di devianza, a una concezione della vita sociale centrata sull'azione. Gli attori e le loro relazioni, conflittuali o non, divengono gli elementi più importanti dell'analisi, mentre le forme di organizzazione sociale e anche le regole istituzionali sembrano ormai dei compromessi temporanei o instabili, fissati tra attori in continuo movimento, le cui relazioni di autorità, di influenza e di potere sono variabili. La concezione tradizionale aveva fatto dei comportamenti collettivi la zona d'ombra della società, come se il loro destino normale fosse l'autodissoluzione in un funzionamento individualizzato delle regole dell'organizzazione sociale, come se ogni lavoratore o cittadino utilizzasse delle regole impersonali che non richiedono una organizzazione collettiva. Al contrario, più la nostra società si definisce per la sua capacità di agire su se stessa e di autotrasformarsi, più i comportamenti collettivi occupano il posto centrale attribuito in altri tempi alle istituzioni, dal momento che queste sono state ricondotte alla posizione relativamente marginale assegnata prima agli attori come elemento di devianza o di protesta: di modo che la sociologia, definita al momento della sua nascita come lo studio della società, deve essere definita oggi come lo studio dei comportamenti collettivi, vale a dire degli attori sociali e delle relazioni sociali.