Capitale
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In economia, il termine ha
più significati: il valore in denaro di beni; i beni
stessi in cui il denaro è investito o, più
comunemente, l’insieme dei beni destinati a impieghi produttivi
per ottenere nuova produzione. L’espressione beni c. (in
contrapposto a beni di consumo) indica i beni impiegati in atti
di produzione, da cui si attende la reintegrazione del valore
investito con un profitto. Il c. è detto morto, quando
l’investimento non dà frutto. In ragioneria, c. indica un
fondo astratto di valori e anche il valore capitalizzato di
redditi futuri.
1. Il concetto di capitale
Il concetto di c. è uno dei
più controversi e difficili della teoria economica. Gli
economisti della scuola classica, da A.
Smith a J.S.
Mill, considerano c. ogni bene prodotto che invece di
essere consumato è impiegato per ulteriori processi
produttivi. Per gli autori classici, il saggio di profitto su
tutti gli investimenti di c. tende all’uguaglianza, scontati i
fattori specifici che rendono più o meno rischioso ogni
diverso investimento.
Nella teoria di Marx,
fondata sull’identità di valore e lavoro contenuto,
è fondamentale la distinzione tra c. costante e variabile.
Il c. costante è quello investito in impianti, macchine,
materie prime, elementi che non possono aggiungere al prodotto
più valore di quanto ne incorporano. Il compra la
forza-lavoro che, oltre a riprodurre il proprio valore, crea il
plusvalore, fonte del profitto.
C.
Menger definì il c. come il potere di acquisto
disponibile per investimenti produttivi, concezione poi sviluppata
da J.A.
Schumpeter. M.-E.-L.
Walras distinse i c., beni scarsi che offrono servizi in
più atti d’uso, dai redditi, beni scarsi che scompaiono in
un solo uso. Tra i c. Walras incluse le risorse naturali (c.
fondiari), le capacità dei lavoratori, frutto di
qualità personali e d’addestramento (c. personali) e i c.
propriamente detti, beni durevoli prodotti (con destinazione
produttiva o di consumo), che danno luogo alla vendita di servizi
dal loro uso.
Nella funzione aggregata di produzione sviluppata da autori
marginalisti (➔ marginalismo),
poi nella teoria della crescita (➔ crescita
economica) come negli studi di economia applicata, il c.
è trattato come un fattore omogeneo, applicabile in dosi
successive con produttività positiva, ma decrescente (a
parità degli altri fattori), secondo il principio dei
rendimenti decrescenti. Questa visione del c. è stata
criticata, per le difficoltà logiche che s’incontrano nel
ricondurre un insieme eterogeneo di beni c. a grandezza unica, con
significato quantitativamente coerente. La teoria della
distribuzione marginalista è basata sulla corresponsione ai
vari fattori produttivi di compensi corrispondenti alla rispettiva
produttività marginale, tra cui va inclusa la
produttività marginale dei singoli beni c. ovvero del c.
come fattore omogeneo. Secondo E.
von Böhm-Bawerk, il c. va concepito come l’investimento
indiretto di risorse originarie nei vari stadi necessari per
arrivare al prodotto finale destinato al consumo;
l’intensità di c. va misurata con il periodo medio di produzione (la durata in media
dell’immobilizzo di lavoro nel processo produttivo.
I c. (o, in altra dizione, i c. mobiliari) si distinguono in c.
fissi , se si logorano gradualmente e possono fornire prestazioni
utili in più cicli di produzione, e c. circolanti , se si
consumano interamente in un solo atto di produzione (come le
materie prime) o servono ad anticipare i salari. I primi vanno
reintegrati parzialmente a ogni ciclo produttivo, i secondi
integralmente. Il c. circolante è talvolta distinto in c.
di anticipazione, c. di esercizio, c. liquido e fondo monetario.
Per il reintegro del c. fisso, al logorio tecnico va aggiunto
quello economico, a seguito delle innovazioni tecnologiche, che
rendono superati strumenti e macchine ancora efficienti. La durata
del c. può considerarsi indefinita, se si provvede
costantemente a fronteggiare il logorio tecnico ed economico con
restauri e ammortamenti, coprendo con l’assicurazione la
distruzione totale o parziale per caso fortuito. La ripartizione
del c. totale in fisso e circolante dipende, caso per caso, dal
tipo e dal sistema di produzione. Si distingue ancora tra e c.
salari , il primo impiegato in strumenti, edifici, materie prime e
sussidiarie, il secondo destinato alla retribuzione dei
lavoratori.
2. Il c. nell’economia nazionale
Nell’economia di un singolo agente
la nozione di c. è legata a quella di reddito monetario,
perché coincide con la ricchezza capace di fornire un
reddito, effettivo o presunto; dal punto di vista individuale
è c. anche la ricchezza in moneta, mentre la sua
inclusione tra i c. dal punto di vista generale è
controversa. In riferimento all’economia nazionale, s’includono
nel c. tutti i beni destinati alla produzione del reddito reale
nazionale, siano essi risorse naturali, come la terra, o
prodotti (come le macchine, gli edifici ecc.) e anche la
popolazione produttiva, che con i beni concorre alla produzione.
Il c. umano è l’insieme delle capacità acquisite
con l’educazione e la formazione; va considerato come il risultato
di scelte d’investimento nel corso del tempo, perché
produce rendimenti futuri grazie al maggior valore dei redditi
percepiti da chi ha investito risorse nella sua accumulazione. Il
concetto di c. umano, in questa accezione, è stato
approfondito in particolare da G.S.
Becker con un’ampia gamma di applicazioni.
Il c. deve la sua origine all’ampiezza del prodotto interno lordo
e all’entità dell’accumulazione: in sintesi, alla quota del
prodotto lordo destinata in ogni periodo a nuovi investimenti che
permettono l’impiego degli altri fattori della produzione e
determinano la possibilità di maggior prodotto e maggior
risparmio nel futuro. L’ampliamento del c. esistente in un dato
periodo è consentito dal flusso di risparmio, che va a
finanziare gli investimenti netti. Secondo le teorie keynesiane,
nel caso di risorse disoccupate, può essere l’investimento
stesso, dal lato della domanda, anche se finanziato con mezzi
aggiuntivi di pagamento, a costituire il presupposto per l’aumento
del reddito e quindi del risparmio. Nella teoria degli
investimenti, l’efficienza marginale del c. misura il
saggio di profitto atteso (detto saggio di rendimento interno) per
un investimento iniziale che dà redditi nel corso di
più periodi futuri. L’efficienza marginale del c. deve
superare il tasso dell’interesse di mercato, perché
l’investimento sia conveniente. A livello aggregato, s’ipotizza
che l’efficienza marginale del c. diminuisca con il crescere del
volume degli investimenti e questo sia, quindi, funzione diretta
dell’efficienza marginale del c. e inversa del saggio
dell’interesse.
Il principio dell’ spiega le decisioni d’investimento con una
funzione, derivata dalla modifica del principio d’accelerazione,
nell’ipotesi che in ciascun periodo le imprese realizzano solo una
quota degli investimenti desiderati per adeguare la capacità produttiva all’andamento del reddito. In generale, il principio
dell’adeguamento dello stock di c., suppone che le imprese
esprimano in ogni periodo un livello del c. desiderato, sulla base
della domanda attesa, del livello di produzione, del saggio
dell’interesse, e decidano investimenti netti (la variazione dello
stock di c.) per adeguare il c. già istallato al livello
desiderato. Il coefficiente di adeguamento è supposto
positivo, ma inferiore all’unità: in ciascun periodo si
realizza un adeguamento parziale, che dà luogo a un
processo dinamico nel tempo dello stock di c., con ritardi e
flessibilità nell’aggiustamento all’andamento del
reddito.
Nella teoria dello sviluppo, l’espressione c. fisso sociale
è stata usata per indicare infrastrutture e beni c. di uso
collettivo (ferrovie, acquedotti, impianti elettrici ecc.),
esterni alla dotazione delle singole imprese, nonché le
spese per l’istruzione e la ricerca scientifica. Questo insieme di
risorse influisce sulla redditività del c. impiegato nelle
singole imprese, perché genera economie esterne. È
detto fisso, perché nessun investimento può
svolgersi con buone prospettive di profitto se il c. sociale non
raggiunge almeno un minimo. Secondo P.N.
Rosenstein-Rodan, la carenza di c. fisso sociale
contribuisce all’arretratezza di certe regioni e costituisce serio
ostacolo all’avvio del processo di sviluppo. In altra accezione,
sviluppata soprattutto da R.D. Putnam, c. sociale indica l’insieme
delle istituzioni, delle norme e relazioni di reciprocità e
fiducia in una comunità, che favoriscono l’azione
collettiva e facilitano, quindi, l’attività economica. Il
c. sociale è ritenuto un importante fattore nei processi di
sviluppo economico.
3. Trasferimenti internazionali di
capitale
I trasferimenti (o movimenti)
internazionali di c. consistono nel trasferimento da un paese
all’altro di flussi finanziari, che non sono la contropartita di
vendite o acquisti, già avvenuti o da avvenire, di merci
o servizi oggetto di commercio internazionale, né il
pagamento di prestazioni economiche internazionali con natura di
reddito. Includono gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e gli
investimenti di portafoglio per acquisto di attività
finanziarie, ovvero anche prestiti accordati da Stati o da
organismi governativi e da organizzazioni internazionali.
Possono essere a lungo o breve termine e sono contabilizzati
nella bilancia dei pagamenti, con metodi contabili che sono
variati nei diversi periodi storici.
I movimenti internazionali di c. sono determinati in primo luogo
da variabili economiche. Sui movimenti di c. privati a breve
termine influisce soprattutto la differenza tra i tassi
d’interesse nei paesi tra i quali avvengono; giocano un ruolo
importante le aspettative di svalutazione o rivalutazione delle
valute, soprattutto nei regimi di cambi fissi. Possono determinare
repentini movimenti di c. timori di crisi bancarie o voci di
sospensione del debito estero, l’inasprimento della pressione
fiscale all’interno di un paese, o preoccupazioni per
l’instabilità politica in paesi dai quali si preferiscono
ritirare i fondi investiti. Movimenti internazionali di c.
avvengono per interventi di politica economica, soprattutto
nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, o per circostanze
eccezionali, quali riparazioni di guerra, prestiti bellici e
postbellici e loro rimborso. Dopo la Prima
guerra mondiale si ebbe un’accentuata tendenza a improvvisi
e ingenti spostamenti da un paese all’altro di oro e capitali a
vista o a breve termine. Per neutralizzarne gli effetti, furono
istituiti Fondi di stabilizzazione dei cambi. Rilevanti movimenti
di c. si sono verificati, dopo il ripristino (1958) della
convertibilità esterna, nell’ambito del sistema di cambi
fissi stabilito a Bretton
Woods, che aveva al centro il Fondo monetario
internazionale. Movimenti di c. sono stati provocati dai
cambiamenti politici avvenuti nell’ex URSS e nei paesi dell’Europa
dell’Est.
I movimenti di c. possono essere regolamentati, più o meno
rigidamente, dai singoli Stati o anche da organismi
internazionali. La dottrina si è divisa
sull’opportunità del loro stretto controllo. Prevale oggi
la liberalizzazione dei trasferimenti internazionali di c., che si
è imposta sulla scena internazionale per i vantaggi della
mobilità, nonostante i rischi d’instabilità
finanziaria con ricadute a catena in caso di crisi finanziarie
internazionali, come avvenuto nel corso degli anni 1990. La
crescente mobilità internazionale dei c. è un
aspetto importante della globalizzazione, ma si discute
sull’opportunità di ripristinare o adottare forme di
controllo sui movimenti finanziari a breve, che hanno carattere
spiccatamente speculativo.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)
di Giorgio Lunghini
Capitale
sommario: 1. Introduzione. 2. L'epoca
classica e la critica marxiana. a) Il capitale come
anticipazioni: François Quesnay. b) Adam Smith: il
lavoro diviso. c) David Ricardo: saggio dei profitti,
macchine e accumulazione. d) John Stuart Mill: il capitale
come fattore della produzione. e) Karl Marx: la critica
della formula trinitaria. f) Marx: lavoro salariato e
capitale. g) Marx: il processo di produzione-riproduzione. h) Marx: plusvalore e profitto. 3. L'epoca
neoclassica. a) L'equilibrio economico come ordine naturale e
necessario. b) Il capitale nell'equilibrio economico
generale. c) La teoria 'austriaca': capitale e tempo. d) Irving Fisher: impazienza e volontà. e) Domanda
di capitale e produttività marginale. f) Knut
Wicksell: una curiosa divergenza. 4. Capitale e moneta.
a) Joseph A. Schumpeter: il capitale monetario nel processo
capitalistico. b) John M. Keynes: capitale, investimenti e
animal spirits. c) Keynes e il saggio di interesse: il
distacco dalla tradizione. d) Keynes: capitale e
(dis)occupazione. 5. Controversie recenti sulla misura
del capitale. a) Il capitale nella funzione di produzione. b) Le 'parabole' neoclassiche. c) La critica sraffiana:
l'armonia neoclassica come caso particolarmente astratto. d) Capitale
e società: la scomparsa della categoria. □
Bibliografia.
1. Introduzione
'Capitale' è un termine tratto dal linguaggio comune, con cui
si indica normalmente qualsiasi forma di ricchezza accumulata e
accantonata, che consenta di ottenere dal lavoro proprio o altrui,
passato o futuro, un 'sovrappiù', o comunque prometta un
godimento ovvero un 'profitto'. In questo senso sarebbe capitale
qualsiasi mezzo di produzione prodotto, il quale aiuti a produrre di
più e meglio (dall'amigdala al robot), o qualsiasi somma di
denaro che frutti o possa fruttare un guadagno netto (dai ducati
prestati da Shylock ad Antonio, ai dollari investiti da Henry Ford
nella produzione della Ford T). Non avrebbe dunque importanza chi
possieda il capitale, a quale scopo e con quali tecniche lo
impieghi, e come tutto ciò condizioni le modalità di
produzione-riproduzione del sistema esistente. La definizione
è evidentemente troppo ampia.
Come tutte le categorie dell'economia politica, anche quella di
'capitale' richiede una determinazione storica. Anche il 'lavoro' ha
forme diverse nelle diverse epoche, tuttavia di esso si può
parlare in generale. Il lavoro è semplicemente la principale
attività materiale con la quale l'uomo si pone in rapporto
con la natura, al fine di trarne valori d'uso. Esso è
certamente più produttivo quando è svolto con
l'ausilio di strumenti appropriati, che nulla impedisce di chiamare
'beni capitali': sarebbe però eccessivo ridurre la nozione di
capitale a quella di un insieme di beni capitali, poiché in
tal caso ci si limiterebbe a constatare che la produzione con
capitale dà luogo a un sovrappiù maggiore di quello
ottenibile senza un tale ausilio, e si rinuncerebbe a spiegare
perché mai questo modo di produzione conferisca al
sovrappiù la forma del profitto. Proprio dal concetto di
sovrappiù converrà partire per intendere come nel modo
capitalistico di produzione il capitale non sia soltanto un insieme
di cose o una somma di denaro, ma un rapporto sociale.
Il sovrappiù può essere definito come quel che resta
del prodotto sociale (tutto ciò che in un'economia viene
prodotto in un dato periodo di tempo), una volta reintegrati i beni
di consumo necessari per la sussistenza e la riproduzione dei
lavoratori (produttivi) nonché i beni capitali che si sono
consumati o logorati nel corso della produzione. Il sovrappiù
sarà nullo, per definizione, in un'economia di mera
sussistenza, ma normalmente sarà positivo, e può
essere positivo in qualsiasi modo di produzione. Diversi, tuttavia,
sono i modi in cui il sovrappiù viene prodotto, le persone o
classi che se ne appropriano, l'uso che se ne fa e il ruolo che in
tutto ciò hanno l'istituto della proprietà, il mercato
e la moneta.
In un'astratta società precapitalistica - diciamo 'feudale' -
il sovrappiù viene prodotto mediante il comando diretto del
lavoro dei servi (la corvée, per esempio). Del
sovrappiù, in natura o in denaro, il signore si appropria in
virtù di un rapporto di potere strettamente politico e non di
scambio economico, e lo impiega non per l'allargamento del processo
produttivo, ma per quello che si può chiamare 'consumo
signorile'. Al mercato si ricorre essenzialmente per gli scambi
intercomunitari; la moneta ha come funzione pressoché
esclusiva quella di facilitare gli scambi.
Con l'avvento del capitalismo, quali che ne siano state le cause
('accumulazione originaria' o 'grande trasformazione'), si assiste a
una polarizzazione della società. Se si trascurano i residui
feudali - la classe dei rentiers e gli artigiani - sul mercato si
fronteggiano due classi: i capitalisti, proprietari dei mezzi di
produzione, e i lavoratori salariati, liberi ma proprietari di
un'unica merce: la propria forza lavoro. Il sovrappiù (se
realizzato) prende la forma di profitto, e questo - il profitto e
non più l'uso - diventa lo scopo della produzione. Del
sovrappiù il capitalista si appropria in quanto possiede o
controlla i mezzi di produzione e dopo aver pagato al suo prezzo la
forza lavoro. La destinazione del sovrappiù, d'altra parte,
non è più il consumo, bensì l'allargamento
della produzione. La moneta diventa essenziale al processo di
produzione-riproduzione, poiché la produzione capitalistica
non è produzione di merci a mezzo di merci, ma produzione di
denaro a mezzo di denaro. E il mercato, infine, pervade tutta la
società: tutti i rapporti fra gli uomini passano per il
mercato.
Il processo economico acquista ora una sua autonomia: da finalizzato
ad altro, diventa fine a se stesso, circolare. E soltanto ora
l'economia politica si può costituire in disciplina autonoma
e sistematica: in scienza del capitalismo. Alla nozione di capitale
come categoria eterna (il capitale come mezzi di produzione
prodotti) viene a contrapporsi quella di capitale come categoria
propria e fondante di un dato modo di produzione: il modo di
produzione capitalistico. Soltanto nel modo capitalistico di
produzione la ricchezza prende la forma di capitale, in quanto
rapporto che si instaura fra queste due classi: capitalisti e
lavoratori salariati. Può allora dirsi 'capitale' qualsiasi
proprietà (di denaro, macchine o altre forme di potere)
mediante la quale sia possibile comandare lavoro salariato in vista
di un profitto realizzabile vendendone il prodotto.
All'interno di queste due grandi categorie (il capitale come insieme
di mezzi di produzione prodotti, oppure come nesso sociale) ci sono
numerosissime definizioni di 'capitale'. Qui se ne
ripercorrerà la storia per grandi epoche: l'epoca classica
(che ai fini di questo articolo si farà cominciare con
François Quesnay e finire con David Ricardo); Marx; l'epoca
neoclassica (che dura fino a oggi ma ha radici anche nella
dissoluzione della scuola ricardiana e dunque contemporanee alla
critica marxiana); Schumpeter e Keynes; infine i moderni accademici.
A questa successione temporale non corrisponde un'evoluzione
coerente e progressiva del concetto, il cui significato oscilla
periodicamente fra due grandi campi definitori. Nella vasta galleria
di personaggi eminenti è infatti possibile tracciare una
distinzione: da un lato vi sono coloro che, come gli economisti
classici, Marx, e gli eretici contemporanei quali Schumpeter e
Keynes, avevano in mente una società divisa in classi;
dall'altro coloro che, come Senior, Say, i marginalisti, i
neoclassici moderni, hanno in mente una società integrata.
Per i primi il capitale è un aspetto del potere che la classe
proprietaria esercita sul lavoro: potere di decisione sull'uso del
lavoro, sfruttamento, utilizzazione del sovrappiù. Per i
secondi il capitale è un aspetto di decisioni riguardanti
cose: quindi le categorie sono quelle dell'astinenza, del risparmio,
della produzione di beni strumentali. Le due linee di pensiero,
sempre compresenti nella storia delle dottrine economiche, danno
necessariamente luogo a definizioni diverse di ogni categoria
economica, e quindi anche del termine capitale (da rapporto sociale
a beni prodotti e destinati a ulteriore produzione).
Poiché la storia del concetto di capitale rispecchia quella
del capitalismo, sarà utile averne in mente una sinossi (come
quella tracciata da Eric J. Hobsbawm) e ricordare le date
fondamentali nella storia del concetto di capitale: il Tableau
économique di François Quesnay è del 1758; la
Ricchezza delle nazioni di Adam Smith è del 1776; il Saggio e
i Principî di David Ricardo, qui rilevanti, sono del 1815 e
del 1817-1821; i Principî di John Stuart Mill sono del 1848;
gli scritti di Karl Marx sul capitale vanno dal 1835 al 1883; gli
Elementi di economia politica pura di Léon Walras sono del
1874; la Teoria positiva del capitale di Eugen von Böhm-Bawerk
è del 1884; la Teoria dello sviluppo economico di Joseph A.
Schumpeter è del 1911; il Trattato della moneta di John M.
Keynes è del 1930, la Teoria generale del 1936; la Produzione
di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa è del 1960.
2. L'epoca classica e la critica marxiana
Nella Francia della metà del Settecento l'industria, nel
senso moderno del termine, è praticamente assente; le
attività manifatturiere e commerciali hanno forma
artigianale; l'economia è fondamentalmente un'economia
agricola, retta da rapporti di proprietà di tipo feudale
(alla corvée si rinuncia nel 1776). Nelle campagne francesi
del settentrione il processo lavorativo comincia però a
prendere forma capitalistica sia per l'uso che vi si fa dei mezzi di
produzione, sia - e soprattutto - perché il lavoro è
diventato lavoro salariato.
La rivoluzione del 1789 e la rivoluzione industriale sono ancora
lontane; tuttavia i fisiocratici, per dirla con Marx, riescono a
scoprire l'essenza borghese nascosta in un involucro feudale. Nel
sistema fisiocratico "il feudalesimo viene riprodotto e spiegato sub
specie della produzione borghese e l'agricoltura come il settore
produttivo in cui si manifesta esclusivamente la produzione
capitalistica, cioè la produzione del plusvalore.
Così, mentre il feudalesimo si imborghesisce, la
società borghese assume un aspetto feudale" (v. Marx,
1867-1894).
a) Il capitale come anticipazioni: François Quesnay
François Quesnay è il massimo esponente della scuola
fisiocratica, e per quanto riguarda la teoria del capitale gli si
devono intuizioni e analisi ancora oggi insuperate: la visione del
processo produttivo come processo circolare, come processo di
produzione-riproduzione (il Tableau économique);
l'essenzialità, ai fini dell'analisi di questo processo, del
concetto di classi sociali (sia pure nella loro forma
precapitalistica: la classe produttiva, o degli agricoltori, la
classe dei proprietari fondiari, la classe sterile o dei
manifatturieri); infine il concetto di capitale non solo come
insieme di beni capitali, ma come anticipazioni.
Per Quesnay le anticipazioni sono essenziali ai fini della
produzione di un sovrappiù. Soltanto il capitale investito
(in agricoltura) fa sì che il processo produttivo dia luogo a
un produit net, e l'origine di questo va ricercata non nella sfera
della circolazione, che pure è essenziale alla riproduzione
del sistema, ma nella sfera della produzione. La produzione non
può essere ridotta a un rapporto immediato fra uomo e natura;
il processo di produzione di merci non può essere descritto
semplicemente in termini di una combinazione di lavoro e terra,
poiché per produrre merci occorre impiegare come mezzi di
produzione anche quantità appropriate di queste stesse merci:
l'ammontare del sovrappiù dipende in modo cruciale
dall'entità e dalla composizione delle anticipazioni.
Quesnay distingue tre tipi di anticipazioni (fondando così la
moderna distinzione fra capitale fisso e capitale circolante):
primitive, fondiarie e annuali. Sono anticipazioni primitive il
bestiame, gli edifici, gli attrezzi; anticipazioni fondiarie le
opere idrauliche e di recinzione e in generale le opere di
miglioramento permanente dei fondi; anticipazioni annuali i salari
dei lavoratori, le sementi e tutte le altre spese annuali
ricorrenti.
Anticipazioni primitive e anticipazioni fondiarie hanno la natura
del capitale fisso e partecipano alla produzione del prodotto netto
cedendo il loro valore nel corso di più periodi di produzione
(e richiedendo quindi adeguati reintegri per ciascun periodo di
produzione). Le anticipazioni annuali dei ricchi fittavoli hanno
invece la natura di capitale circolante, in quanto trasferiscono il
loro valore nei beni prodotti nel corso di un solo periodo di
produzione. Tutte e tre queste forme di anticipazioni, nella loro
composizione e nel loro ammontare, sono essenziali nella
determinazione dell'ammontare e della composizione del
sovrappiù, che si forma bensì soltanto
nell'agricoltura ma che - una volta distribuito e speso - sostiene
tutti i ceti e tutte le professioni. Così il prodotto netto,
reso possibile da un dato ammontare di anticipazioni annuali,
dipende non soltanto da questo, ma anche dall'ammontare delle
anticipazioni primitive e fondiarie. L'accumulazione di capitale in
agricoltura è essenziale affinché crescano il prodotto
lordo e la parte di questo costituita dal prodotto netto; in
particolare occorre che le anticipazioni siano di natura e ammontare
tali da consentire la 'grande coltura', poiché soltanto
così sarà possibile l'introduzione di metodi sempre
più produttivi (di sovrappiù). Una somma di denaro
diventa capitale soltanto se si trasforma in capitale produttivo, e
quindi procura un prodotto netto per l'intera società.
b) Adam Smith: il lavoro diviso
Nell'Inghilterra di Adam Smith il capitale ha ormai pervaso
tutta l'attività produttiva. Ciò consente a Smith di
fare un importante passo avanti rispetto ai fisiocratici e di
riconoscere che in tutte le attività è possibile
produrre sovrappiù, e che il sovrappiù prende non solo
e non tanto la forma di rendita (per i fisiocratici il produit net
prende per l'appunto la forma di rendita pagata dalla classe
produttiva alla classe dei proprietari), ma anche e soprattutto
quella di profitto. D'altra parte, come noterà Marx, Smith
compie un passo indietro trascurando, nella determinazione
quantitativa del sovrappiù, la quota del prodotto sociale
necessaria al reintegro dei mezzi di produzione consumati nel
processo produttivo: sarebbe capitale soltanto quello speso in
salari e sarebbe vero il 'dogma veramente fantastico' per il quale
il prezzo delle merci è composto di salario, profitto
(interesse) e rendita fondiaria, quindi soltanto di salario e
sovrappiù. Errore analogo compirà David Ricardo, e
questo - come si vedrà a proposito di Marx - ha conseguenze
importanti sulla definizione e l'analisi del saggio dei profitti.
In Smith la nozione di capitale è strettamente intrecciata
con le sue distinzioni fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
Per Smith è volta a volta lavoro produttivo quello che si
fissa in una merce vendibile, quello che crea valore e quello che
produce un sovrappiù. La nozione qui rilevante è la
terza, quella per la quale è lavoro produttivo (di
sovrappiù) il lavoro che si scambia contro capitale, mentre
è lavoro improduttivo quello pagato dal reddito dei
capitalisti e dei rentiers. Simmetricamente si potrà dire che
è capitale quella parte del fondo posseduto da un individuo
che viene impiegata per mettere in attività il lavoro
produttivo, e che quindi non solo consentirà di reintegrare
le spese inizialmente sostenute, ma darà altresì luogo
a un reddito. L'altra parte del fondo, in quanto destinata al
consumo immediato, non darà invece alcun reddito. Soltanto
con l'impiego di lavoro produttivo sarà possibile un processo
di accumulazione di capitale.
Il capitale, d'altra parte, può prendere la forma di capitale
fisso e di capitale circolante. Come quasi tutte le distinzioni
smithiane (quella fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ma
soprattutto quelle interne alla teoria smithiana del valore), anche
questa è confusa, in quanto gli elementi del capitale
produttivo vengono distinti a seconda del modo in cui compaiono
nella sfera della circolazione, anziché in quella della
produzione. La distinzione fra capitale fisso e capitale circolante
in Smith si regge letteralmente sul fatto che il capitale circoli
oppure no, che generi un profitto restando presso il capitalista,
dentro al processo produttivo, oppure distaccandosene, circolando
con le merci prodotte. Per Smith, ad esempio, sono capitale fisso i
fondi impiegati nel miglioramento delle terre coltivate, le
costruzioni destinate alla locazione, gli strumenti di produzione di
qualsiasi genere, il bestiame da lavoro e le stesse "abilità
acquisite e utili" dei lavoratori; mentre sono capitale circolante
la moneta, le merci prodotte per la vendita, le materie prime
impiegate in un processo produttivo o nel mantenimento del bestiame
da lavoro e i salari dei lavoratori. (Contare come capitale fisso le
abilità acquisite e utili dei lavoratori e come capitale
circolante i loro salari evoca la difficile questione delle
relazioni fra forze produttive e rapporti di produzione, difficile
soprattutto per chi ha una concezione strettamente materiale del
capitale produttivo. È difficile far coesistere l'idea che
nel capitale vadano contate quelle che vengono chiamate
utilità 'immateriali' e l'idea secondo la quale tutto il
capitale è un prodotto del lavoro, e dunque se ne debbano
escludere dal computo le forze e i doni della natura: è molto
difficile distinguere e contabilizzare quali siano i doni della
natura e quali i risultati del lavoro).
Per quanto riguarda l'origine del sovrappiù e in particolare
del profitto, Smith la individua nella produttività del
lavoro in generale. A sua volta, la produttività del lavoro
dipende dalla divisione del lavoro, e questa dalla tendenza propria
della natura umana al baratto e allo scambio: "E poiché
è in questo modo, col baratto e con lo scambio, che noi
otteniamo la maggior parte di quei reciproci buoni uffici di cui
abbiamo bisogno, così è questa stessa tendenza a
trafficare che in origine dà occasione al sorgere di quella
divisione del lavoro sulla quale si fonda tutto il benessere delle
società evolute" (v. Smith, 1776). Nella produzione
capitalistica, in particolare, il capitale, riunendo insieme un gran
numero di lavoratori e anticipando loro le sussistenze di cui essi
non dispongono, può attuare la migliore divisione e
distribuzione degli impieghi e può fornire agli operai le
migliori macchine: la forma capitalistica di produzione è
destinata a diventare la forma dominante e definitiva dell'economia
e della società. La storia sarebbe dunque finita.
La società borghese, secondo Smith, si regge sulla classe dei
lavoratori produttivi; questi - producendo prodotto netto -
sostengono se stessi e tutte le altre classi; i padroni, che avendo
anticipato le sussistenze si appropriano del prodotto netto, ne
trattengono per sé una parte come profitto, destinandola
elettivamente all'accumulazione del capitale, e ne redistribuiscono
l'altra parte ai proprietari fondiari e ai lavoratori improduttivi.
Si manifesta così la duplicità del rapporto fra
capitale e lavoro salariato: in quanto lavoro produttivo di
sovrappiù, il lavoro produce il capitale, ma in quanto lavoro
salariato viene comandato dal capitale. Come Smith scrive
nell'Abbozzo della Ricchezza delle nazioni, "In un paese civile i
poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro signori
[...]. Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell'intero prodotto
della propria attività" (v. Smith, 1763).
Occorre ricordare qui un problema che Smith, a differenza dei
fisiocratici, si trova a dover affrontare: il problema di che cosa
determini il valore delle merci. Poiché per i fisiocratici il
prodotto netto si dava soltanto in agricoltura, di esso si poteva
dare una determinazione quantitativa in termini fisici, come
semplice differenza fra le quantità di beni prodotte e le
quantità di beni impiegate come mezzi di produzione e mezzi
di sussistenza; ma quando può darsi sovrappiù in tutte
le attività produttive, come è per Smith, l'unica
determinazione quantitativa logicamente possibile diventa quella in
valore. Nasce di qui la centralità della teoria del valore
nell'analisi dell'economia capitalistica.
c) David Ricardo: saggio dei profitti, macchine e accumulazione
Anche David Ricardo, come Smith, concepisce il capitale nella sua
materialità, piuttosto che come rapporto sociale, e come
Smith lo riduce alle anticipazioni salariali. Per Ricardo il
problema principale dell'economia politica non è però
l'indagine sulle cause della ricchezza delle nazioni, bensì
la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del
prodotto sociale, al netto della rendita, fra capitalisti e
lavoratori. Vi è dunque almeno l'intuizione di un rapporto
fondamentale fra capitale e lavoro salariato.
Nell'ipotesi che il capitale consista soltanto nelle anticipazioni
salariali, il saggio dei profitti (che per definizione è
uguale al rapporto fra l'ammontare dei profitti e il valore del
capitale) risulta pari al rapporto fra profitti e salari, ed
è dunque la misura ricercata della distribuzione del prodotto
sociale netto di rendita fra capitalisti e lavoratori. Si
tratterà perciò di individuare le determinanti del
saggio dei profitti, il modo in cui il saggio dei profitti si muove
con il procedere dell'accumulazione del capitale, e se e come
l'introduzione delle macchine nel processo produttivo abbia
influenza sugli interessi delle diverse classi della società
("argomento questo di grande importanza che sembra non sia stato mai
esaminato in modo da condurre a risultati certi e soddisfacenti").
Ricardo non dà una spiegazione dell'origine del profitto,
poiché lo concepisce come un residuo: come quel che resta
nelle mani dei capitalisti, una volta pagati rendita e salari;
tuttavia la sua teoria del saggio dei profitti mostra che il
rapporto fra capitalisti e lavoratori salariati è un rapporto
conflittuale: è questa un'importante implicazione politica
dell'analisi ricardiana delle relazioni fra capitale sociale e
processo lavorativo sociale, quali si danno nel modo di produzione
capitalistico.
Il saggio dei profitti, secondo Ricardo, dipende da due ordini di
circostanze: dalle condizioni tecniche della produzione e dal saggio
di salario. Date le condizioni tecniche della produzione (e in ogni
dato momento esse sono date), saggio dei profitti e saggio di
salario stanno fra di loro in una relazione inversa: a un alto
saggio di salario corrisponde un basso saggio dei profitti e
viceversa. Inoltre, e a differenza di quanto sosterrà la
teoria neoclassica nella sua versione egemone, non è vero che
a una data configurazione delle tecniche di produzione corrisponda
una e una sola configurazione distributiva di equilibrio: in
astratto è compatibile con una configurazione data delle
tecniche di produzione qualsiasi configurazione distributiva
compresa fra i due estremi in cui tutto il prodotto netto (di
rendita) va ai salari, o in cui tutto il prodotto netto va ai
profitti (è importante sottolineare che ciò è
vero in astratto: nella realtà non è vero che non
esista un vincolo distributivo alla determinazione del livello di
attività o al processo di accumulazione del capitale, come
mostrerà Marx e come è stato dimostrato dagli esiti
politici delle tesi neoricardiane, fatte proprie da una parte del
sindacato italiano negli anni settanta, circa il salario come
'variabile indipendente').
Il prodotto sociale che si spartiscono capitalisti e lavoratori
è il prodotto sociale al netto della rendita. Sul livello del
saggio dei profitti, e sulla sua dinamica nel corso del processo di
accumulazione, hanno dunque influenza le determinanti della rendita
stessa. Questa, secondo Ricardo (che ne mutua la spiegazione da
Malthus), dipende dal fatto che il processo produttivo è
caratterizzato da rendimenti decrescenti; se si suppone, come
Ricardo fa nella versione più semplice della sua teoria, che
l'unica attività produttiva sia quella agricola e che le
diverse terre abbiano diversa fertilità, allora la
concorrenza fra capitalisti da un lato e fra proprietari terrieri
dall'altro farà sì che la rendita risulti pari alla
differenza fra il prodotto effettivamente ottenuto e quello che si
sarebbe ottenuto se tutte le terre fossero state di fertilità
pari a quella della terra meno fertile fra quelle messe a coltura.
Su quest'ultima la rendita è nulla, e il suo prodotto (il
prodotto marginale) basterà appena a pagare i salari e i
profitti, a un saggio (dei profitti) che per effetto della
concorrenza dovrà essere uniforme su tutte le terre. Il
saggio di salario, d'altra parte, dovrà anch'esso essere
uniforme su tutte le terre, e sarà mantenuto al livello di
sussistenza dall'operare di un meccanismo demografico di tipo
malthusiano.
Per Ricardo (che almeno in questo senso aderisce alla legge di Say,
secondo la quale tutti i redditi sono integralmente spesi) se vi
sono profitti positivi, questi saranno investiti dai capitalisti
nella coltivazione di nuove terre, che avranno una
produttività via via decrescente. I profitti saranno
schiacciati fra rendita e salari (vi è dunque conflitto non
soltanto fra capitalisti e lavoratori salariati, ma anche fra queste
due classi e quella dei rentiers); il saggio dei profitti
diminuirà, e il sistema - prima o poi - raggiungerà lo
stato stazionario.
Il rapporto (distributivo) fra capitale e lavoro salariato non
è però istituito, per Ricardo, soltanto dalle leggi
'naturali' che governano la relazione inversa fra saggio di salario
e saggio dei profitti e la caduta di questo nel corso del processo
di accumulazione (non tendenziale, ma necessaria), bensì
anche dall'eventuale introduzione di macchine nel processo
produttivo: che non è un fatto di natura, ma è il
risultato di decisioni dei capitalisti.
Per Ricardo, e contro l'opinione allora e oggi dominante,
l'introduzione di macchine nel processo produttivo riesce spesso
dannosa agli interessi della classe dei lavoratori. L'occupazione
aumenta sicuramente soltanto quando aumentano le anticipazioni
salariali e il salario è al suo livello 'naturale', di
sussistenza; mentre l'introduzione delle macchine può far
sì che aumenti il reddito netto della società (rendite
e profitti) e contemporaneamente diminuisca il reddito lordo (e
dunque l'ammontare dei salari). A ciò consegue, secondo
Ricardo, che la stessa causa che può aumentare il reddito
netto del paese può nello stesso tempo rendere esuberante la
popolazione e peggiorare le condizioni dei lavoratori.
d) John Stuart Mill: il capitale come fattore della produzione
Il tentativo di John Stuart Mill di emendare, completare e
sistemare le teorie ricardiane prelude in realtà allo
stravolgimento che del pensiero classico compirà la scuola
neoclassica. Ricardo non dà una spiegazione dell'origine del
profitto, che concepisce come grandezza residuale; egli nega, in
altre parole, che il capitale materiale abbia in sé un
proprio potere produttivo. Mill si pone invece il problema di
spiegare - ma principalmente di giustificare - i redditi da profitto
come generati da un siffatto potere produttivo, anticipando
così una concezione del capitale come di un elemento
materiale che si combina con lavoro e terra nella produzione di
ricchezza: una concezione del capitale, dunque, come 'fattore' della
produzione. Su ciò si tornerà più avanti, ma
vanno indicati almeno alcuni aspetti della concezione milliana del
capitale perché rappresentativi di indirizzi di pensiero
presenti anche in altri autori dell'epoca (J.B. Say, J. M.
Lauderdale, J. R. McCulloch).
La teoria milliana del capitale - definito come "un fondo accumulato
dei prodotti del lavoro precedente" - è riassunta dallo
stesso Mill in quattro "proposizioni fondamentali":
1) l'industria è limitata dal capitale (l'occupazione
può essere aumentata soltanto mediante l'accumulazione di
capitale, cioè sarebbero impossibili problemi malthusiani di
insufficienza della domanda);
2) il capitale è il risultato del risparmio;
3) il capitale, sebbene sia il risultato del risparmio, è
tuttavia consumato (vi è dunque corrispondenza, come vuole la
legge di Say, fra risparmio e spese);
4) la domanda di merci non è domanda di lavoro. (Quest'ultima
e discussa proposizione probabilmente significa che la domanda di
merci non è necessariamente domanda di lavoro, poiché
la decisione di ricostituire il fondo salari mediante il ricavato
dalla vendita delle merci prodotte spetta al capitalista. A questa
proposizione si lega il quesito milliano, se la distinzione fra
ciò che è capitale e ciò che non lo è
non dipenda dalle intenzioni del capitalista, ovvero del
proprietario del capitale potenziale).
Mill non afferma esplicitamente il potere produttivo del capitale, e
anzi scrive che "il capitale, rigorosamente parlando, non ha alcun
potere produttivo: l'unico potere produttivo è quello del
lavoro"; ma aggiunge subito "assistito indubbiamente da utensili e
operante sulle materie prime. Si può forse dire, senza grande
improprietà, che la parte di capitale che consiste di
utensili e di materie prime possiede un potere produttivo,
poiché essi contribuiscono, insieme col lavoro,
all'espletamento della produzione. [...] Il concetto appropriato di
capitale è che tutto quanto una persona possiede costituisce
il suo capitale, purché questa persona possa e voglia
impiegarlo non nel consumo a scopo di soddisfazione, ma per
procurarsi i mezzi di produzione con l'intenzione di impiegarli
produttivamente. Ora i mezzi di produzione sono lavoro, strumenti e
materie prime. L'unico potere produttivo che esiste è il
potere produttivo del lavoro, degli strumenti e delle materie prime"
(v. Mill, 1844).
e) Karl Marx: la critica della formula trinitaria
Karl Marx intitola proprio alla "formula trinitaria" il primo
capitolo dell'ultima sezione del terzo volume del Capitale (dedicata
a I redditi e loro fonti; l'ultimo capitolo, là dove il
manoscritto si interrompe, ha per titolo Le classi).
Scrive Marx: "Questa formula trinitaria si riduce più
precisamente alla seguente: capitale-interesse, terra-rendita
fondiaria, lavoro-salario, nella quale il profitto, la forma del
plusvalore che caratterizza specificamente il modo di produzione
capitalistico, è felicemente eliminato. Le pretese fonti
della ricchezza annualmente disponibile appartengono a sfere
completamente diverse e non vi è fra di esse la più
piccola analogia, come non vi è analogia fra gli onorari di
un notaio, le carote rosse, la musica. Capitale, terra, lavoro! Ma
il capitale non è una cosa, bensì un determinato
rapporto di produzione sociale, appartenente a una determinata
formazione storica della società. Il capitale è
costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte
determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di
attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti
della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa
contrapposizione personificati nel capitale. [...] Viene poi la
terra, la natura inorganica come tale, rudis indigestaque moles in
tutta la sua selvaggia primitività. [...] E infine, come
terzo in questa alleanza, un semplice fantasma, 'il' lavoro, che non
è altro che un'astrazione, l'attività produttiva
dell'uomo in generale, per mezzo della quale egli rende possibile il
ricambio organico con la natura. [...] L'economia volgare non fa
altro, in realtà, che interpretare, sistemare e difendere le
idee di coloro che, impigliati nei rapporti di produzione borghesi,
sono gli agenti di questa produzione. Non ci dobbiamo quindi
meravigliare che l'economia volgare si senta particolarmente a suo
agio proprio in questa forma fenomenica estraniata dai rapporti
economici, in cui questi prima facie sono assurdi e del tutto
contraddittori - e ogni scienza sarebbe superflua, se l'essenza
delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero - e
che questi rapporti le appaiano tanto più evidenti di per
sé quanto più le rimane nascosto il loro nesso
interno".
f) Marx: lavoro salariato e capitale
Per Marx il processo di produzione capitalistico è una forma
storicamente determinata del processo di produzione sociale in
generale. Quest'ultimo è al tempo stesso il processo di
produzione delle condizioni materiali della vita umana e un processo
che si sviluppa entro specifici rapporti di produzione
storico-economici, producendo e riproducendo questi rapporti stessi
di produzione e dunque i rappresentanti di questo processo, le loro
condizioni materiali di esistenza e i loro rapporti reciproci, ossia
la loro determinata forma economica e sociale. Il complesso di
questi rapporti, in cui i rappresentanti di questa produzione stanno
con la natura e fra di loro, costituisce precisamente la
società, considerata nella sua struttura economica.
La caratteristica principale del modo di produzione capitalistico,
se lo si guarda dal punto di vista della circolazione, è che
il processo è del tipo Denaro-Merce-Denaro, e non
Merce-Denaro-Merce. Ciò vuol dire che mentre nel ciclo M-D-M
lo scopo dello scambio è quello di ottenere una merce finale
atta a soddisfare bisogni diversi da quelli che possono essere
soddisfatti con la merce posseduta e ceduta inizialmente (scopo
dello scambio è il valore d'uso e la moneta serve soltanto
all'intermediazione nello scambio delle merci), nel ciclo D-M-D si
cede denaro per ottenere altro denaro; questo denaro, d'altra parte,
non viene mai speso definitivamente, ma rifluisce sempre al punto di
partenza. Scopo di questo processo non è ottenere valori
d'uso, bensì un plusvalore; la somma ottenuta, perché
l'operazione abbia un senso, dovrà essere maggiore di quella
ceduta inizialmente: la forma effettiva del ciclo dovrà
dunque essere D-M-D´, dove D´ sarà maggiore di D
e la differenza rispetto al valore originario sarà costituita
dal plusvalore. Nella circolazione, dice Marx, il valore anticipato
originariamente si valorizza, e questo movimento lo trasforma in
capitale.
Si tratta ora di spiegare come mai D´ possa (e debba) essere
maggiore di D. La spiegazione marxiana è la seguente. Come si
è visto, il processo si apre con uno scambio di potere
d'acquisto contro una merce: il potere d'acquisto originario si
trasforma in capitale proprio in quanto assume la forma intermedia
di merce. Tuttavia non esiste nessuna risorsa o merce (salvo una,
come si vedrà) che allo stesso tempo abbia valore d'uso e sia
fonte di valore, così come occorre affinché D´
sia maggiore di D. Diventa dunque necessario indagare come nel modo
di produzione capitalistico si svolga il processo di produzione (e
riproduzione). L'idea marxiana è che l'unica merce che
insieme abbia valore d'uso e funzioni come fonte di valore sia la
forza lavoro. Di tale merce, che costituisce l'unica
proprietà del lavoratore, il lavoratore stesso non può
fare uso, poiché non possiede i mezzi di produzione;
può soltanto venderla a chi - il capitalista - possiede
potere d'acquisto da trasformare in capitale, la immette e utilizza
nel processo produttivo e ne trae il plusvalore che si
realizzerà (se si realizzerà) nella forma di profitto
con l'ulteriore trasformazione della merce prodotta in denaro.
Se le cose stanno così, non è più possibile
pensare il capitale soltanto come entità materiale e come
categoria distinta dal lavoro, come semplice insieme di mezzi di
produzione che vengono combinati con il lavoro per produrre valori
d'uso. Nel modo di produzione capitalistico il lavoratore è
lavoratore salariato, e il rapporto materiale fra strumenti di
lavoro e capacità lavorativa, quale si dà nel processo
lavorativo, sottende un nesso sociale fra capitalista e lavoratore
che condiziona tutto il processo di valorizzazione e di
riproduzione.
Scrive Marx (in Lavoro salariato e capitale): "Anche il capitale
è un rapporto sociale di produzione. Esso è un
rapporto borghese di produzione. Il capitale non è dunque
soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di
merci, di valori di scambio, di grandezze sociali [...]. Come dunque
una somma di merci, di valori di scambio, diventa capitale? Per il
fatto che essa, come forza sociale indipendente, cioè come
forza di una parte della società, si conserva e si accresce
attraverso lo scambio con il lavoro vivente, immediato. L'esistenza
di una classe che non possiede null'altro che la capacità di
lavorare è una premessa necessaria del capitale" (v. Marx,
1849).
g) Marx: il processo di produzione-riproduzione
Che cosa avviene nello scambio fra capitale e lavoro salariato?
Per Marx il valore di una merce si scinde in tre parti: capitale
costante, capitale variabile, plusvalore. Il processo produttivo si
apre con la spesa da parte del capitalista del suo capitale
monetario nell'acquisto dei mezzi di produzione e della forza lavoro
(la quale costituisce il capitale produttivo). La forza lavoro, come
qualsiasi altra merce, viene pagata secondo il suo valore, che
è pari al tempo di lavoro necessario per riprodurla
(cioè per produrre i mezzi di sussistenza del lavoratore).
Al termine del processo di produzione il capitale produttivo
è trasformato in capitale merce, in merci che hanno un valore
superiore a quello del capitale produttivo iniziale. La parte di
capitale monetario spesa nei mezzi di produzione (capitale costante)
non cambia la sua grandezza di valore, mentre la parte spesa in
forza lavoro (capitale variabile) ha aumentato il suo valore,
producendo il plusvalore che viene trattenuto dal capitalista e che,
una volta realizzato, può essere trasformato in nuovo
capitale produttivo. Il lavoratore salariato si troverà
così di fronte il valore che egli stesso ha prodotto; egli
vende la propria forza lavoro per produrre ciò che gli si
contrapporrà come proprietà del capitalista. Da un
lato la forza lavoro, in quanto produce plusvalore, è
all'origine del profitto; dall'altro il lavoro, in quanto lavoro
salariato, è incluso nel capitale.
Ciascun singolo capitale, tuttavia, può riprodursi soltanto
se la merce prodotta viene venduta e il ricavato viene riconvertito
in nuovo capitale produttivo. La realizzazione della merce
può però essere ostacolata da tre ordini di
circostanze: il bisogno che la collettività ha della merce
stessa; la quantità di moneta esistente; l'effettiva
trasformazione in denaro dell'intera quantità prodotta. Gli
schemi di riproduzione di Marx, che riprendono l'idea del Tableau
économique di Quesnay, hanno lo scopo di individuare le
condizioni necessarie affinché il processo di produzione
possa ripetersi, riprodursi, ed è proprio nel processo di
riproduzione che può manifestarsi l'equilibrio - oppure la
crisi - del capitale.
Se si suddivide il sistema economico nei due settori fondamentali
(quello che produce mezzi di produzione e quello che produce merci
salario), allora dalla condizione di uguaglianza fra domanda e
offerta che è necessaria per ciascun settore risulterà
che la domanda di mezzi di produzione da parte del settore che
produce merci salario deve essere uguale alla domanda di merci
salario da parte del settore che produce mezzi di produzione. In
assenza di un piano, è chiaro non soltanto che il verificarsi
spontaneo di questa condizione è improbabile, ma anche che,
se quella uguaglianza per caso si verifica, nulla assicura che essa
comporti il massimo livello di attività e di occupazione del
sistema; sono cruciali, comunque, nella determinazione del livello,
delle proporzioni e della regolarità e stabilità delle
modalità di riproduzione del sistema, le decisioni dei
capitalisti circa l'impiego dei profitti realizzati.
Da questo punto di vista, cioè dal punto di vista della
riproduzione e della circolazione del capitale complessivo, Marx
dimostra che l'equilibrio reale, nello scambio delle diverse parti
del prodotto annuo, non necessariamente esiste, né è
necessariamente unico, stabile e ottimo per tutti, come invece
vogliono gli economisti ortodossi. In particolare, la funzione del
denaro quale capitale monetario produce determinate condizioni dello
svolgimento normale della riproduzione (sia su scala semplice sia su
scala allargata), che si trasformano in altrettante condizioni di
svolgimento anormale della produzione, in possibilità di
crisi: "poiché l'equilibrio stesso - dato il carattere
primitivo di questa produzione - è un caso".
h) Marx: plusvalore e profitto
Per Marx la soluzione del problema lasciato irrisolto da Ricardo -
quale sia l'origine del profitto - è dunque questa:
all'origine del profitto sta il plusvalore, e all'origine di questo
sta il pluslavoro prestato nella fabbrica dal lavoratore, dopo che
questi aveva venduto sul mercato, e al suo prezzo, la propria forza
lavoro. Lo scambio che ha per oggetto la merce forza lavoro è
uno scambio fra equivalenti nella sfera della circolazione, mentre
è uno scambio fra non equivalenti se si considera il processo
capitalistico complessivo, che è allo stesso tempo processo
di circolazione, produzione e riproduzione.
La giornata lavorativa si divide in due parti: una prima parte serve
a ricostituire i beni di consumo necessari alla riproduzione della
forza lavoro (lavoro necessario), la seconda (pluslavoro)
costituisce il plusvalore, quella parte del valore del prodotto che
non ritorna al lavoratore salariato e che anzi gli si
contrapporrà come nuovo capitale. Conviene aggiungere che un
rapporto di sfruttamento non si dà soltanto nel modo di
produzione capitalistico, ma soltanto in questo esso è
mediato, e celato, dallo scambio. Il profitto è il risultato
della forma capitalistica del rapporto di sfruttamento.
Poiché il valore di ogni merce prodotta capitalisticamente si
scinde per Marx in capitale costante (c), capitale variabile (v) e
plusvalore (s), la grandezza alla quale vanno commisurati i profitti
ai fini della determinazione del saggio del profitto sarà il
valore dell'intero capitale speso negli elementi della produzione;
cioè la somma del capitale costante e del capitale variabile,
e non soltanto l'ammontare dei salari anticipati, come si ha in
Ricardo. Se il plusvalore si trasforma in profitto (se cioè
la merce prodotta viene realizzata), il saggio del profitto
sarà dato da s/(c + v), ovvero, se si dividono numeratore e
denominatore per v, dal rapporto fra s/v (che si può definire
saggio del plusvalore o di sfruttamento) e (c/v + 1) (dove il
rapporto c/v può essere definito 'composizione organica del
capitale').
Mentre il saggio del plusvalore rende manifesta l'origine del
plusvalore stesso, che è il capitale variabile, nel saggio
del profitto tale origine viene occultata poiché, perdendosi
la distinzione fra capitale costante e capitale variabile, il
profitto apparirà come generato da 'qualità segrete'
del capitale nel suo complesso (e non soltanto da quella sua parte
che per Marx ha capacità di valorizzazione). Il capitalista
anticipa il capitale complessivo senza riguardo alle diverse
funzioni assolte nella produzione del plusvalore dalle singole parti
costitutive del capitale, e dunque ai suoi occhi il profitto
è originato dal capitale in sé, mentre in
realtà esso non è altro che una forma mistificata del
plusvalore, "la forma fenomenica del plusvalore". (Si pone qui il
cosiddetto 'problema della trasformazione', che ci limitiamo a
menzionare. Mentre in Ricardo valore e prezzo coincidono
immediatamente, per Marx valore e prezzo sono due categorie
distinte: i valori si 'trasformano' in prezzi di produzione per
effetto della concorrenza, in maniera tale da assicurare ai vari
capitali l'eguaglianza dei saggi di profitto. I prezzi di produzione
dovrebbero dunque essere determinati a partire dai valori. Sulla
trasformazione in prezzi dei valori misurati in termini di lavoro
incorporato è bene avvertire che l'analisi elaborata da Piero
Sraffa (v., 1960) in Produzione di merci a mezzo di merci, ha messo
in evidenza che, nel procedere alla trasformazione, si incontrano
difficoltà gravi, secondo alcuni economisti insuperabili,
secondo altri non decisive).
Un cenno, infine, agli effetti dell'accumulazione del capitale sul
saggio del profitto. Si è visto come per Ricardo il saggio
del profitto dipenda dalle condizioni tecniche della produzione e
dal saggio di salario, e che la messa a coltura di terre via via
meno fertili, dato il saggio di salario, comporta necessariamente e
naturalmente una caduta del saggio dei profitti. Nella definizione
marxiana (e nella contabilità capitalistica) del saggio del
profitto, questo dipende invece dal rapporto fra il saggio del
plusvalore e la composizione organica del capitale; cioè
dalla divisione della giornata lavorativa (che è una misura
della distribuzione del prodotto fra capitalisti e lavoratori) e
dalle condizioni tecniche della produzione (descritte in termini di
composizione organica del capitale). Ciò significa che, a
parità del saggio di plusvalore (ovvero di sfruttamento),
l'andamento del saggio del profitto dipenderà da quello della
composizione organica del capitale. Questa, a sua volta, dipende
dalle decisioni dei capitalisti circa le tecniche di produzione e
circa il rapporto fra capitale costante e capitale variabile, che in
generale tenderà ad aumentare, non tanto in dipendenza di un
'progresso tecnico' ineluttabile, il quale deterministicamente
conduca a sostituire macchine a lavoro vivo, ma in quanto in tal
modo - generando disoccupazione (esercito industriale di riserva) -
si manterrà il salario al suo livello di sussistenza. Il
saggio dei profitti, dunque, tenderà a diminuire, a causa
delle decisioni stesse dei capitalisti; anche se alla legge della
caduta tendenziale del saggio del profitto potranno opporsi, quali
contraddizioni intrinseche della legge, delle cause antagonistiche.
3. L'epoca neoclassica
Nel suo splendido libro su Gli anni dell'alta teoria. Invenzione e
tradizione nel pensiero economico, 1926-1939, George L. S. Shackle
narra che nei quarant'anni seguenti il 1870 fu fondata una "grande
teoria" o "grande sistema della scienza economica", il cui unico
scopo era di dimostrare quali fossero le implicazioni logiche di
gusti o bisogni dati, combinati con "conoscenza perfetta" e messi a
confronto con "scarsità e versatilità di risorse".
Scarsità e versatilità di risorse, unite alla perfetta
e generale conoscenza delle soddisfazioni che si possono trarre da
ciascun uso di tali risorse attraverso l'intera gamma di
possibilità rivelate da un determinato stadio della
tecnologia, assicuravano che queste risorse sarebbero state sempre
pienamente impiegate. La conoscenza perfetta implicava anche la
perfezione dei mercati, così che ogni bene veniva prodotto da
un gran numero di imprese di pari dimensioni fra le quali i
compratori si muovevano in completa indifferenza. Inoltre la
conoscenza perfetta aboliva del tutto la necessità di un
qualche mezzo di conservazione del potere generale d'acquisto
(distinto dalla ricchezza incorporata in forme concrete capaci di
fornire direttamente la soddisfazione del consumo o di intervenire
fisicamente nella produzione) e quindi non c'era moneta reale (la
cui funzione come riserva di valore è di rendere possibile la
posposizione di una decisione circostanziata a chi possiede una
conoscenza imperfetta). La teoria evitava di prendere in
considerazione lo sviluppo in qualsiasi sua forma: "La Grande Teoria
era quindi la teoria dell'equilibrio generale stazionario (o,
meglio, atemporale), perfettamente concorrenziale e di piena
occupazione" (v. Shackle, 1967).
a) L'equilibrio economico come ordine naturale e necessario
Con l'avvento della scuola neoclassica l'economia politica si
trasforma in una disciplina che di 'politico', esplicitamente, ha
ben poco; la 'scienza' economica, secondo la definizione che ne
darà Lionel Robbins tra il 1932 e il 1935, si riduce
all''economica': "scienza che studia la condotta umana come una
relazione tra scopi e mezzi scarsi, applicabili a usi alternativi".
Questa riduzione (o generalizzazione, a seconda dei punti di vista)
nell'ambito della teoria del capitale conduce a concepire il
capitale stesso esclusivamente nella sua connotazione materiale:
come un insieme di mezzi di produzione prodotti e dotati di
produttività.
Già nell'epoca classica erano presenti teorie che concepivano
il capitale come 'fattore produttivo'. Nassau Senior, in
particolare, riconduce la produttività del capitale alla
categoria dell''astinenza', cioè al "comportamento di un
soggetto che o si astiene dall'uso improduttivo di ciò di cui
dispone o deliberatamente preferisce il conseguimento di risultati
remoti anziché quello di risultati immediati". All'origine
del profitto starebbe l'astinenza, e nella definizione e
nell'analisi del capitale diventa centrale la dimensione temporale
del processo produttivo.
Un'impostazione siffatta ha una conseguenza di grande portata sulla
visione del processo economico. La conseguenza è che se il
lavoro non è l'unica fonte del valore, ma esistono anche
altri 'fattori' della produzione, allora viene meno la categoria del
sovrappiù, che per l'appunto presuppone che sia il lavoro
produttivo (la forza lavoro, per Marx) a produrre di più di
quanto occorra alla sua riproduzione, e si afferma la concezione del
problema distributivo come retto dall'armonia anziché dal
conflitto fra classi antagonistiche. Se si pensa ciascuna quota
distributiva come il risultato di un contributo produttivo specifico
di ciascun fattore, la distribuzione del prodotto sociale non
è più determinata anche da un conflitto di classe, ma
soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, che sono
assunte come date. Il mondo è retto da un'unica, determinata
legge economica ed esiste un'unica configurazione di equilibrio, che
in assenza di attriti si afferma e si mantiene naturalmente e con il
massimo vantaggio per tutti. Il reddito percepito da ciascun
soggetto non è altro che il prezzo per i servizi produttivi
dei fattori della produzione di cui ciascun soggetto è
proprietario.
b) Il capitale nell'equilibrio economico generale
Del capitale la teoria di Léon Walras vuole e può dire
soltanto ciò che se ne può dire nel linguaggio
matematico. Ciò rende particolarmente difficile esporla
mediante il linguaggio comune, ma soprattutto le impedisce di
indagare il ruolo che il capitale ha nelle diverse fasi del processo
capitalistico di produzione-riproduzione, riducendo la questione al
modo in cui il capitale entra (come dato) in un problema di
massimizzazione sotto vincoli. Questo, nella visione di Walras,
è un problema generale e universale, che va studiato con
riferimento a un sistema il cui funzionamento non è
condizionato da alcuna determinazione storica o istituzionale.
Il problema che Walras affronta con la sua teoria dell'equilibrio
economico generale è il seguente: quali siano le
quantità di beni prodotti e scambiati, e i prezzi ai quali
avvengono tali scambi, in quella configurazione che vede realizzate
simultaneamente le posizioni di equilibrio cui tendono i soggetti
economici. I dati del problema, d'altra parte, sono le
quantità iniziali di risorse produttive, la tecnica di
produzione, il sistema di preferenze dei soggetti. Si suppone,
inoltre, che il mercato sia concorrenziale e che i soggetti siano
razionali nel senso che tendono a massimizzare la propria
soddisfazione.
Lo schema analitico complessivo comprende quattro stadi: una teoria
dello scambio, sotto il vincolo dell'eguaglianza fra domanda e
offerta dei beni di consumo; una teoria della produzione, sotto il
vincolo dell'eguaglianza fra prezzo di vendita dei prodotti e costi
dei servizi produttivi che vi sono entrati; una teoria della
capitalizzazione, circa le quantità prodotte dei capitali
propriamente detti, sotto il vincolo dell'uniformità del
saggio di rendimento dei beni capitali e dell'eguaglianza fra
reddito risparmiato e valore dei nuovi beni capitali prodotti;
infine una teoria della circolazione che tenga conto della
necessità (strumentale) della moneta come capitale
circolante.
Per Walras il capitale in generale è costituito da "tutte le
forme di ricchezza sociale che non sono consumate affatto o che
vengono esaurite soltanto dopo un certo periodo di tempo". Sono
invece redditi "tutti i beni non durevoli, tutte le forme di
ricchezza sociale che vengono consumate immediatamente". Per
intendere il modo in cui il capitale entra nella determinazione
dell'equilibrio economico walrasiano, occorre dunque partire dalla
nozione walrasiana di ricchezza sociale, che è "l'insieme
delle cose materiali o immateriali che sono scarse, cioè che
da una parte ci sono utili e dall'altra non sono disponibili che in
quantità limitata". Gli elementi della ricchezza sociale sono
di due tipi: i capitali, beni che servono più di una volta, e
i redditi, beni che servono una sola volta. I capitali, a loro
volta, sono di tre tipi: i capitali, o risorse, naturali, i
capitali, o capacità, personali, e i capitali propriamente
detti, quei beni capitali che non sono né terra né
facoltà personali. Quanto ai redditi, essi comprendono i beni
per uso di consumo (beni di consumo e servizi consumabili delle tre
specie di capitali) e i beni per usi di produzione (beni intermedi e
servizi produttivi delle tre specie di capitali).
La principale preoccupazione analitica di Walras riguarda la
trasformazione dei servizi produttivi in prodotti. Nel processo
economico vi sarebbe dunque un punto di partenza (le dotazioni
iniziali di capitali) e un fine: il consumo, da parte dei soggetti,
dei beni di consumo, e l'acquisto - in quanto risparmiatori - di
nuovi capitali. La successione lineare che conduce dal punto di
partenza al traguardo è la seguente: i soggetti proprietari
dei capitali (in quantità date) ne vendono i servizi agli
imprenditori; questi, comprati tali servizi, si scambiano (nel senso
del baratto) i servizi intermedi fra di loro; ora dispongono dei
fattori della produzione e li immettono in un processo produttivo,
la cui tecnologia è data; l'esito del processo è la
vendita dei prodotti, dagli imprenditori ai proprietari dei servizi
produttivi, che i primi avevano acquistato dai secondi e che ora i
secondi sono in grado di acquistare dai primi.
Per esprimersi in termini moderni, si può dire che nella
teoria walrasiana della produzione le merci non sono prodotte (come
è invece per gli economisti classici) mediante altre merci
prodotte, bensì grazie ai servizi produttivi di beni capitali
assunti come dati nello schema. La funzione dell'imprenditore si
riduce a quella di comprare servizi produttivi e vendere beni di
consumo, senza alcuna iniziativa o reddito suoi propri; come
noterà Schumpeter, "è chiaro che nel pensiero di
Walras le famiglie sono realmente gli agenti che, sia come
compratori che come venditori di servizi, determinano il processo
economico " (v. Schumpeter, 1954).
Per quanto riguarda il valore dei beni capitali occorre distinguere
due casi: un'economia in stato stazionario e un'economia in
sviluppo. Nella prima non vi sarà un mercato sul quale si
determinano tali valori, poiché in uno stato stazionario non
vi sarà produzione di nuovi beni capitali, ma soltanto
ammortamenti e rinnovi. In un'economia in sviluppo vi sarà
invece domanda di nuovi beni capitali e offerta di risparmio. Gli
imprenditori domanderanno nuovi beni capitali fino a quando non
saranno uguali il rendimento di questi e il prezzo di offerta del
risparmio, sotto la condizione che in equilibrio i prezzi dei beni
capitali siano proporzionali ai loro rendimenti netti. L'offerta di
risparmio, da parte delle famiglie, è spiegata da Walras in
termini di utilità. A questo fine - per stabilire una
relazione fra beni capitali e utilità - Walras immagina un
bene ideale, il "ricavo netto perpetuo", per il quale ciascuna
famiglia ha una funzione di domanda (basata sull'utilità
marginale che attribuisce al bene stesso). I prezzi dei beni
capitali possono ora essere espressi in termini del prezzo di
un'unità di ricavo netto perpetuo per unità di tempo,
che è il reciproco del saggio di interesse. In equilibrio la
domanda complessiva di nuovi beni capitali (che deve essere uguale
al risparmio) dovrà ripartirsi fra le industrie che producono
questi nuovi beni capitali secondo la condizione di
proporzionalità ricordata sopra (in modo che il rendimento
netto dei beni capitali sia proporzionale ai loro prezzi). Il
fattore di proporzionalità comune ai prezzi di tutti i beni
capitali sarà dato dal reciproco del prezzo di
un'unità di ricavo netto perpetuo e dunque - in assenza di
moneta - coinciderà con il saggio di interesse.
L'edificio walrasiano è senza dubbio molto bello, come scrive
Schumpeter (che ne è affascinato e però - tentato da
Marx - vuol prenderne le distanze): "Il piano terreno di questa
costruzione è la teoria del 'mercato' dei beni di consumo. Al
primo piano troviamo la teoria della produzione e il 'mercato' dei
servizi produttivi, non separato dal primo mercato ma con esso
integrato. Al secondo piano abbiamo il 'mercato' dei beni capitali,
analogamente integrato con gli altri due" (ibid.). (E al terzo piano
c'è un altro mercato, integrato con gli altri tre, quello del
'capitale circolante' e della moneta).
Sebbene la teoria walrasiana sia spesso invocata come fondamentale,
in quanto schema di riferimento indispensabile per una fondazione
microeconomica delle proposizioni relative al funzionamento del
sistema economico nel complesso (fondazione che molti presumono
necessaria, sebbene con ragioni dubbie), quella stessa teoria sembra
a sua volta avere fondamenta discutibili. Infatti la teoria
dell'equilibrio economico generale ha dato luogo a una vastissima
letteratura, in accordo o critica, sulla sua coerenza formale e il
suo realismo; qui ci si limita a riprendere una considerazione di
Claudio Napoleoni, per il quale al fondo delle difficoltà
analitiche della teoria walrasiana c'è un modo
sostanzialmente contraddittorio di concepire il capitale: "Il
capitale è una realtà essenzialmente unitaria proprio
perché costituisce, nel suo insieme e indipendentemente dai
singoli beni che lo costituiscono, il termine di riferimento
rispetto al quale si determina il saggio dell'interesse. La
contraddizione in cui cade Walras sta allora in ciò, che, da
un lato, il capitale è frantumato nelle sue singole
componenti (i tanti 'beni capitali') e, dall'altro lato, è
riaffermato come unitario nel momento in cui ciò è
inevitabile, ossia nel momento in cui si introduce il saggio
dell'interesse (comune valore dei saggi di rendimento)" (v.
Napoleoni, 1976).
c) La teoria 'austriaca': capitale e tempo
Al centro della teoria austriaca del capitale (il cui campione
è Eugen von Böhm-Bawerk, ma in cui confluiscono da varie
parti culturali e in tempi diversi i contributi di William S. Jevons
- "Il capitale è un fatto di tempo" -, Carl Menger, Knut
Wicksell e altri) sta l'idea che il capitale, in quanto fattore
della produzione, possa essere misurato in termini di 'periodo di
produzione'. Il capitale, per Böhm-Bawerk - "il Marx borghese",
secondo Schumpeter -, non è un fattore produttivo originario,
quali sono il lavoro e la terra, ma è esso stesso prodotto. I
beni di consumo possono essere prodotti anche direttamente, mediante
l'impiego dei soli fattori originari; normalmente, tuttavia, essi
sono prodotti con metodi indiretti, che comportano l'impiego di beni
intermedi, di beni capitali: tali metodi indiretti sono più
produttivi, e diventano tanto più produttivi (sia pure con
incrementi decrescenti) quanto più lungo è il periodo
di produzione. Il problema diventa allora quello di determinare una
misura dell'intensità capitalistica delle tecniche di
produzione, che a sua volta consenta di determinare il saggio di
interesse associato a ciascuna tecnica, nonché le relazioni
intercorrenti fra intensità capitalistica delle tecniche e
distribuzione del reddito, nell'ipotesi che i soggetti adottino un
comportamento massimizzante.
In quanto il capitale non è un fattore produttivo originario,
deve esserne possibile, per Böhm-Bawerk, la riduzione ai
fattori originari; in particolare, se per semplicità si
trascura la terra, il capitale deve poter essere ridotto al lavoro
che nelle epoche precedenti al periodo considerato è stato
investito nella produzione dei mezzi di produzione.
L'intensità capitalistica delle tecniche di produzione
può allora essere misurata in termini di periodo medio di
produzione: se si considerano i periodi che intercorrono tra l'epoca
in cui è stata prestata ciascuna quantità di lavoro e
il momento in cui si rende disponibile il prodotto, il periodo medio
di produzione sarà dato dalla media aritmetica dei singoli
periodi, ponderati con le rispettive quantità di lavoro.
Ciascuna tecnica di produzione ha dunque un suo periodo medio di
produzione, che cresce quanto più indiretta, o
'capitalistica', è la tecnica stessa.
Si pone ora il problema dell'interesse. Posto che il capitale non
è altro che il lavoro investito nelle epoche precedenti,
perché mai il valore del prodotto è maggiore della
somma dei valori di tutte le quantità di lavoro direttamente
e indirettamente impiegate nella produzione del prodotto stesso, e
comprende anche un interesse?
Per Böhm-Bawerk l'esistenza e l'ammontare dell'interesse sono
spiegati da tre fattori fondamentali, i drei Gründe: le
"diverse circostanze di bisogno e di approvvigionamento" nel
presente e nel futuro, la "sottovalutazione del futuro" e la
"superiorità tecnica dei beni presenti su quelli futuri" (i
beni presenti possono essere investiti oggi e reinvestiti domani, al
momento in cui si rendono disponibili; mentre i beni disponibili
domani possono essere investiti soltanto domani). I primi due
fattori (o 'regole fattuali', ma in realtà convenzioni)
presiedono alle decisioni di consumo: la natura umana è tale
che i soggetti preferiscono i beni presenti a beni futuri,
così che i beni presenti possiedono un'utilità e
perciò un valore superiore rispetto a quelli futuri. La
speranza induce a sopravvalutare le risorse future, la mancanza di
immaginazione e la debolezza della volontà determinano una
sottovalutazione dei bisogni futuri: presi insieme, questi due
fattori rendono l'utilità marginale dei beni presenti
maggiore di quella dei beni futuri. Per provocare un'offerta di beni
presenti in cambio di beni futuri occorre pagare un aggio, un
interesse. L'altro fattore, il terzo, spiega l'esistenza di un
prezzo di domanda dei beni presenti in termini di beni futuri,
spiega cioè come mai l'utilizzatore di capitale possa pagare
quell'interesse. Questo fattore è di carattere tecnico e
consisterebbe nella maggior produttività dei metodi di
produzione indiretti: il procedere della civiltà, nel campo
tecnico, consiste precisamente nell'adozione di metodi di produzione
più 'indiretti', nell''allungamento' dei processi produttivi.
Tutto viene così ricondotto alla 'natura', anziché
alla struttura storicamente determinata della società:
è la natura dell'uomo, e della società, che spiega
come l'interesse debba e possa essere pagato. Esso deve essere
pagato perché corrisponde a una rinuncia alla
disponibilità di ricchezze presenti in vista di una
disponibilità futura, e può essere pagato grazie alla
maggiore 'produttività' dei metodi 'indiretti',
'capitalistici', di produzione.
Molte obiezioni possono essere e saranno mosse alla costruzione di
Böhm-Bawerk (curiosamente analoghe, sul piano logico, a quelle
con le quali egli pretese di liquidare il sistema marxiano), ma
nella vulgata dei manuali essa continua a imperare.
d) Irving Fisher: impazienza e volontà
Al di fuori delle ipotesi ad hoc sulle quali si regge, la teoria
austriaca del capitale (nella formulazione di Böhm-Bawerk)
presenta difficoltà insormontabili per quanto riguarda la
misurazione del capitale stesso e dunque la determinazione del
saggio di interesse in termini di periodo medio di produzione.
Irving Fisher tenta di aggirare queste difficoltà
abbandonando quest'ultimo concetto, e muovendo dall'idea che
"l'interesse è un indice della preferenza espressa dalla
comunità per un dollaro presente rispetto a un dollaro
futuro" (v. Fisher, 1930).
Per trattare correttamente del ruolo del tempo nella determinazione
del saggio di interesse occorre distinguere, secondo Fisher, il
concetto di fondo da quello di flusso. In particolare, "un fondo di
ricchezza esistente in un dato istante di tempo è detto
capitale; un flusso di servizi durante un periodo di tempo è
detto reddito". Il capitale è allora qualsiasi forma di
ricchezza capace di produrre un flusso di reddito. I percettori di
reddito, d'altra parte, cercano di modificare le quantità di
reddito disponibili per il consumo nelle diverse epoche future
ricorrendo al risparmio e ai prestiti: il saggio di interesse
è il prezzo che viene pagato per ottenere reddito presente in
luogo di reddito futuro.
La determinazione di tale saggio dipende dall'interazione fra forze
soggettive e forze oggettive. Le forze soggettive sono costituite
dal "principio dell'impazienza" (o "della volontà"), che
presiede alla redistribuzione dei consumi nel tempo da parte dei
soggetti. Le forze oggettive, d'altra parte, consistono nel
"principio delle occasioni di investimento", il quale consente di
valutare i diversi progetti di investimento in termini del loro
"saggio di rendimento sul costo". È questa una nozione
importante, poiché strettamente connessa a quella keynesiana
(anche se con essa non si identifica) di "efficienza marginale del
capitale". Il saggio di rendimento sul costo è quel saggio di
sconto in base al quale due o più progetti di investimento
hanno lo stesso valore attuale netto. Le decisioni di investimento
dipenderanno da un confronto fra tale saggio e il saggio di
interesse (o, se questo è diverso, il costo del capitale). Il
saggio di interesse, a sua volta, non è determinato
dall'ammontare di capitale (anche se Fisher non ne nega la
produttività), bensì dall'interazione fra le
preferenze temporali dei percettori di reddito e le
opportunità di investimento. Nell'ipotesi di un comportamento
massimizzante dei soggetti e di mercati concorrenziali, i saggi di
preferenza temporale individuali e i saggi di rendimento sul costo
dei diversi progetti di investimento convergeranno in un punto di
equilibrio, il quale costituisce il saggio di interesse del sistema.
Il saggio di interesse non dipende dunque dall'ammontare di capitale
(semmai è vero il contrario, che il valore del capitale
dipende dal saggio di interesse), bensì dalla preferenza
temporale dei soggetti. La prospettiva tradizionale viene rovesciata
e il processo produttivo praticamente scompare dall'analisi:
all'analisi retrospettiva della struttura del capitale viene
sostituita l'analisi prospettica delle opportunità di
investimento. Per Fisher (ibid.) il principio fondamentale è
che il valore del capitale in un dato momento deriva dal valore del
reddito futuro che è atteso da quel capitale: "Il principio
del valore presente è di fondamentale importanza nella teoria
del valore e dei prezzi. Esso significa che il valore di qualsiasi
articolo di ricchezza o di proprietà dipende soltanto dal
futuro, non dal passato".
e) Domanda di capitale e produttività marginale
L'idea che il capitale, al pari degli altri fattori, sia
produttivo, ha ovvie e importanti conseguenze sul piano della teoria
della distribuzione del reddito. Per Smith il profitto era
determinato dal saggio naturale del profitto, per Ricardo era un
residuo, per Marx il risultato di un rapporto di sfruttamento. Per
la teoria neoclassica della produttività marginale (Philip H.
Wicksteed, Knut Wicksell, John B. Clark e altri) il profitto (qui,
l'interesse), come qualsiasi altra quota distributiva, era
univocamente determinato - date le condizioni tecniche della
produzione - dalla produttività marginale del capitale. Il
principio della marginalità era già presente in
Ricardo, che su di esso basava la determinazione della rendita (e
solo di questa). Gli economisti marginalisti generalizzano questo
principio: tutti i fattori (variabili) della produzione devono
essere remunerati, in equilibrio, secondo la loro
produttività marginale, che è misurata dalla
variazione del prodotto totale provocata dall'aggiunta o dalla
sottrazione di un'unità del fattore considerato, quando sia
mantenuta costante la quantità degli altri fattori.
Tale tesi ha due importanti implicazioni, una logica, l'altra
normativa, riconducibili a questa domanda: una volta che tutti i
fattori della produzione siano stati remunerati secondo la loro
produttività marginale, secondo il loro 'contributo' alla
produzione stessa, si sarà esaurito il prodotto totale? Se
così non fosse - se il prodotto totale non bastasse per una
siffatta distribuzione, oppure se restasse un residuo - si
tratterebbe di una teoria logicamente insoddisfacente. In effetti
non tutte le funzioni di produzione godono di questa
proprietà, anzi una soltanto: perché il prodotto
risulti esaurito, occorre che la funzione di produzione sia di un
tipo speciale, omogenea lineare (cioè con rendimenti di scala
costanti). Ma ovviamente non c'è nessuna ragione per
sostenere che le funzioni di produzione, nella realtà, siano
necessariamente di questo tipo, quasi che si trattasse di "una sorta
di misteriosa legge naturale" (Joan Robinson). Conviene osservare,
inoltre, che una teoria della distribuzione basata sul principio
della produttività marginale presuppone che per ciascun
fattore questa possa essere calcolata indipendentemente dalla
distribuzione del prodotto; occorre, in altri termini, che il valore
del capitale non vari al variare della distribuzione, e questo -
come oggi sappiamo, e come si vedrà più avanti - in
generale non è vero.
L'implicazione normativa di questa teoria della distribuzione,
d'altra parte, è che essa - quando sia soddisfatto il
requisito di cui si è detto - sembra fornire un principio di
giustizia distributiva: ciascun fattore della produzione deve essere
remunerato secondo il suo contributo alla produzione, ed esiste
un'unica configurazione distributiva di equilibrio, che è
imposta dalle condizioni tecniche della produzione e non può
né deve essere modificata dall'azione umana. Il profitto
(l'interesse), in particolare, trova così una piena e doppia
legittimazione, analitica ed 'etica'.
f) Knut Wicksell: una curiosa divergenza
Knut Wicksell condivide l'idea della scuola austriaca, secondo la
quale il capitale è un insieme di mezzi di produzione
prodotti, "una massa unitaria e omogenea di lavoro e terra
risparmiati, accumulati negli anni" (v. Wicksell, 1901-1906). Il
valore del capitale può dunque essere calcolato come somma
delle remunerazioni (salari e rendite) ai servizi produttivi dei
fattori originari (lavoro e terra) investiti nella produzione di
beni capitali, capitalizzati in base al saggio di interesse corrente
per il periodo di tempo durante il quale sono stati investiti.
L'interesse (la remunerazione del capitale) è perciò
la differenza fra la produttività marginale del lavoro e
della terra risparmiati e la produttività marginale del
lavoro e della terra correnti.
Wicksell si accorge però di una "curiosa divergenza": mentre
per il lavoro e per la terra la nozione di produttività
marginale è inequivoca, tale non è per il capitale nel
suo complesso; dunque non si può affermare che vi sia una
relazione univoca fra variazioni del capitale totale, variazioni del
prodotto sociale e saggio di interesse. La spiegazione di questa
curiosa divergenza (dopo Wicksell) è molto semplice: mentre
il lavoro e la terra sono misurati ciascuno in termini della propria
unità tecnica (ad esempio giornate o mesi lavorativi, ettari
per anno), il capitale non può essere misurato in termini
fisici, ma soltanto calcolato come una somma di valori di scambio,
poiché ciascun singolo bene capitale è misurato in
termini di un'unità estranea ad esso.
In quanto è un valore, il capitale non è una variabile
indipendente (quali sono il lavoro e la terra), bensì dipende
dai saggi di remunerazione. È dunque impossibile determinare
il valore del capitale prima che sia stato raggiunto l'equilibrio
fra produzione e consumo, per il semplice fatto che il capitale, a
differenza dei fattori originari, non può esistere prima e
indipendentemente dalla produzione. Se cambia il saggio di
interesse, cambia il valore del capitale, e dunque voler spiegare
l'interesse a partire dal valore del capitale significa ragionare in
circolo.
4. Capitale e moneta
Con l'importante eccezione di Karl Marx e di altri eretici minori,
incapaci di influenzare il corso del pensiero e dell'analisi
economica, tutta l'economia ortodossa concepisce il capitale
essenzialmente come capitale produttivo: come insieme di mezzi di
produzione prodotti e non anche come capitale monetario. Questa
distinzione è invece al centro delle opere, peraltro ben
distinte quanto a metodi e risultati, di Joseph A. Schumpeter e di
John M. Keynes. Sia pure brevemente, si deve però ricordare
che spunti importanti, circa la distinzione fra capitale produttivo
e capitale monetario, si trovano (oltre che in Alfred Marshall)
soprattutto in Carl Menger, con la sua nozione di "capitale a
disposizione".
Nell'ambito delle teorie classiche e neoclassiche egemoni la nozione
di capitale monetario quale potere d'acquisto capace di comandare
mezzi materiali di produzione sfugge inevitabilmente, in quanto tali
teorie vedono nella moneta soltanto un mezzo per agevolare le
transazioni. Menger rileva invece che la moneta ha anche altre
funzioni: essa può funzionare come mezzo di tesoreggiamento e
di trasferimento patrimoniale nello spazio e nel tempo. In questa
prospettiva diventa possibile, e necessario, distinguere le funzioni
di chi possiede potere d'acquisto e di chi investe in mezzi di
produzione, e l'interesse può essere spiegato semplicemente
come il prezzo che si forma nello scambio di un bene contro moneta,
dove il bene consiste nel potere di comandare i mezzi di produzione:
per Menger il capitale è "proprietà produttiva
[considerata] come una somma di denaro impiegata produttivamente"
(v. Menger, 1871).
a) Joseph A. Schumpeter: il capitale monetario nel processo
capitalistico
Nella sua Teoria dello sviluppo economico Schumpeter definisce
così il capitale: "Il capitale non è altro che la leva
che consente all'imprenditore di sottomettere al proprio dominio i
beni concreti di cui ha bisogno, nient'altro che un mezzo per
disporre di certi beni per nuovi scopi o un mezzo per dettare alla
produzione una nuova direzione" (v. Schumpeter, 1911). Ma
cos'è questa "leva", questo mezzo di dominio?
Per l'imprenditore schumpeteriano tutti i beni di cui ha bisogno al
fine di introdurre nuove combinazioni nel processo produttivo si
trovano sullo stesso piano, siano essi appezzamenti di terra,
prestazioni di lavoro, macchine o materie prime, o anche beni di
consumo. Il modo di comportarsi dell'imprenditore nei confronti di
qualsiasi bene di cui ha bisogno è sempre lo stesso: li
acquista tutti in cambio di moneta, per la quale calcola (quando la
possegga di già) o paga (quando la debba prendere a prestito)
un interesse.
Il capitale non è l'aggregato di tutti i beni che servono
agli scopi dell'imprenditore: il capitale sta di fronte al mondo dei
beni, e la sua funzione consiste nel procurare all'imprenditore quei
beni che devono essere impiegati produttivamente; sta dunque tra
l'imprenditore e il mondo dei beni come un 'terzo agente' necessario
alla produzione nell'economia di scambio. Esso costituisce il ponte
fra le due cose, non prende direttamente parte alla produzione,
né viene esso stesso 'trasformato': piuttosto esegue un
compito che deve essere assolto prima che possa iniziare la
produzione tecnica. C'è infatti un momento in cui
l'imprenditore ha già il capitale necessario, ma non ancora i
beni produttivi: in questo momento si può vedere con
chiarezza come il capitale non si identifichi affatto con beni
concreti e sia invece un 'agente autonomo'. Schumpeter cita qui,
significativamente, Quesnay: "Parcourez les fermes et les ateliers,
et [...] vous trouverez des bâtiments, des bestiaux, des
matières premières, des meubles et des instruments de
toute espèce". Una volta acquistato tutto ciò, il
capitale ha adempiuto la sua funzione; l'imprenditore non ha
più il capitale che gli era stato messo a disposizione, l'ha
ceduto in cambio dei mezzi di produzione, nel cui insieme
consisterebbe - secondo "la concezione scientifica dominante" - il
capitale stesso. In questo modo, secondo Schumpeter, si ignora
però completamente la funzione del capitale di procurare
beni, e si sostituisce alla visione complessiva (e 'circolare') del
processo economico la supposizione "estranea alla realtà" che
all'imprenditore vengano direttamente prestati quei beni di cui ha
bisogno.
Il capitale è per Schumpeter un fondo di potere d'acquisto.
Si tratta ora di capire in che cosa consista questo fondo di potere
d'acquisto. Se ci si limitasse a dire che esso consiste in una somma
di denaro, si tornerebbe alla nozione di Menger (e per un verso a
quella di Fisher); ma soprattutto non è vero che per entrare
nel novero degli imprenditori occorra il possesso di una siffatta
somma, poiché non soltanto la moneta, bensì qualsiasi
mezzo di circolazione che adempia a tale funzione è capitale.
D'altra parte, se un mezzo di pagamento non serve a procurare a un
imprenditore beni produttivi e a sottrarli per questo scopo a quello
che era finora il loro impiego, esso non è capitale.
Ciò significa che in un'economia senza sviluppo non esiste
'capitale', nel senso che il capitale non adempie alla sua funzione
caratteristica di agente autonomo. Il concetto di capitale "incarna
un aspetto dei processi economici che ci è suggerito soltanto
dai fenomeni dello sviluppo"; si potrà dunque ridefinire il
capitale come "quella somma di moneta e di altri mezzi di pagamento
che è in ogni momento disponibile per essere ceduta a
imprenditori".
Lla nozione secondo la quale lo sviluppo economico è
sostanzialmente un diverso impiego dei servizi del lavoro e della
terra già esistenti conduce Schumpeter a due 'eresie' (che lo
accomunano a Marx e a Keynes); la prima è che nel processo
capitalistico ha una funzione essenziale la moneta, l'altra che tale
funzione spetta anche agli altri mezzi di pagamento. "I processi che
avvengono nel campo dei mezzi di pagamento non sono meri riflessi
dei processi che avvengono nel mondo dei beni". Di qui il ruolo
centrale, nel processo capitalistico, della moneta e del credito,
dunque del banchiere. L'imprenditore ha bisogno del credito nel
senso di una cessione temporanea di potere d'acquisto, e ciò
proprio per poter produrre, per poter introdurre le sue nuove
combinazioni, per diventare un imprenditore. Questo potere
d'acquisto, se non lo possiede per altra via - ma in questo caso
ciò sarebbe soltanto la conseguenza di uno sviluppo
precedente - se lo deve far prestare: egli può diventare
imprenditore solo diventando prima debitore. Se il capitale non
è altro che la leva che consente all'imprenditore di
sottomettere al proprio dominio i beni concreti di cui ha bisogno,
il credito è a sua volta la leva di questa sottrazione di
beni.
Il credito, per Schumpeter, può essere definito come la
"creazione di potere d'acquisto al fine di cederlo
all'imprenditore", e non semplicemente come il trasferimento di
potere d'acquisto esistente. Attraverso il credito si apre agli
imprenditori l'accesso al flusso di beni della società; in
un'economia caratterizzata dalla proprietà privata e dalla
divisione del lavoro, la concessione del credito agisce come
un'ingiunzione al sistema economico di subordinarsi agli scopi
dell'imprenditore, come un ordine ai beni di cui egli ha bisogno,
"come un affidamento a lui di forze produttive". Il profitto
imprenditoriale, in questo quadro, assume il significato di un
fenomeno autonomo (anziché conseguente al rapporto fra
capitale e lavoro salariato), essenzialmente legato alla funzione
dell'imprenditore in quanto leader dell'economia: "È
l'espressione del valore del contributo dell'imprenditore alla
produzione, esattamente nello stesso senso [anche se non nel senso
della teoria della produttività marginale] in cui il salario
è l'espressione di valore di ciò che 'produce'
l'operaio". Il profitto imprenditoriale non è una rendita,
non è un semplice residuo, non è il risultato di un
rapporto di sfruttamento, e non è neppure un utile del
capitale, poiché non coincide con l'interesse: l'interesse
è una porzione del profitto, della quale si appropria chi
fornisce all'imprenditore la liquidità che gli occorre, e ha
la natura di un premio del potere d'acquisto presente su quello
futuro, che si forma sul mercato della moneta e non su quello dei
beni.
b) John M. Keynes: capitale, investimenti e animal spirits
Il concetto centrale, nella teoria del capitale di John M.
Keynes, è quello di "efficienza marginale del capitale",
cioè "quel saggio di sconto al quale il valore presente della
serie di annualità, rappresentate dai ricavi attesi dal
capitale durante la sua vita, eguaglia esattamente il prezzo di
offerta del capitale medesimo" (v. Keynes, 1936). Questa nozione
può sembrare - anche a causa di talune concessioni retoriche
dello stesso Keynes - simile o addirittura identica a quella
fisheriana di "saggio di rendimento sul costo", il quale, come si
è già visto, è quel saggio ipotetico di
interesse che, se impiegato per calcolare il valore presente di due
opzioni messe a confronto, le renderebbe uguali. Di qui conviene
cominciare, per mostrare come Keynes non sia affatto un epigono
degli economisti neoclassici e la Teoria generale vada invece letta
come critica della tradizione neoclassica (così come Il
capitale di Marx va letto come critica della tradizione classica).
Al di là delle analogie formali, e a parte alcune differenze
tecniche (peraltro importanti), la differenza fondamentale sta in
questo: che mentre in Fisher, e in generale nella visione
neoclassica, il saggio di rendimento dipende dalla
produttività fisica del capitale, per Keynes l'efficienza
marginale del capitale dipende dalla scarsità del capitale
stesso; scarsità che almeno per il sistema economico nel
complesso è artificiale, poiché ancora oggi si
è ben lontani da una situazione di saturazione dei capitali:
il rendimento del capitale è una sorta di rendita
improduttiva ed eliminabile. D'altra parte, mentre la teoria
neoclassica determina il valore dello stock di capitale sulla base
del tasso d'interesse che risulta dal confronto fra domanda e
offerta dei servizi dei beni capitali, per Keynes l'efficienza
marginale del capitale è il tasso di profitto atteso,
ciò che l'imprenditore -mosso dai suoi animal spirits -
si aspetta di ottenere, e non ciò che egli otterrà
davvero; l'efficienza marginale del capitale va definita in termini
dell'aspettativa di reddito e del prezzo corrente di offerta del
capitale: "essa dipende dal saggio atteso di rendimento in termini
di moneta, se questa venisse investita in un dato capitale di nuova
produzione, non dal risultato storico di ciò che un
investimento ha reso rispetto al suo costo originario se si guarda
indietro a ciò che ha fruttato quando la sua vita è
giunta al termine".
L'ammontare effettivo dell'investimento corrente dipenderà da
un confronto fra l'efficienza marginale del capitale e il saggio di
interesse corrente, poiché si realizzeranno soltanto quei
progetti di investimento la cui efficienza marginale è
maggiore, o almeno uguale, al saggio di interesse corrente.
L'incentivo a investire dipende quindi in parte dall'efficienza
marginale del capitale (dalle aspettative degli imprenditori) e in
parte dal saggio di interesse; quest'ultimo tuttavia, e dunque il
valore attuale di quel capitale, non può essere determinato
sulla sola base della conoscenza del reddito prospettivo di un
capitale o della sua efficienza marginale. Occorre dunque una teoria
indipendente del saggio di interesse, che consenta poi di calcolare
il valore attuale del capitale 'capitalizzando' il suo reddito
prospettivo.
Per Keynes il rendimento del capitale dipende dal fatto che esso
è (artificialmente) scarso. Ciò è sufficiente
per consigliare di non dire che il capitale è produttivo:
è assai meglio dire che esso fornisce, nel corso della sua
vita, un reddito maggiore del suo costo originario. L'unica ragione
per la quale un bene capitale offre la prospettiva di rendere,
durante la sua vita, servizi aventi un valore complessivo superiore
al suo prezzo di offerta iniziale è perché esso
è scarso; e viene mantenuto scarso a causa della concorrenza
del saggio di interesse: se il capitale diviene meno scarso, il suo
rendimento rispetto al costo diminuirà, senza che diminuisca
la sua produttività fisica. Per questa ragione Keynes si
dichiara vicino alla dottrina classica: "ogni cosa è prodotta
dal lavoro, coadiuvato da ciò che allora usava chiamarsi arte
e che ora si chiama tecnica, dalle risorse naturali e dai risultati
del lavoro passato incorporati in attività capitali".
È insomma preferibile considerare il lavoro (compresi i
servizi personali dell'imprenditore e dei suoi collaboratori) come
l'unico fattore di produzione, operante in un dato ambiente di
tecnica, di risorse naturali, di beni capitali e di domanda
effettiva.
Il problema diventa allora quello di determinare che cosa solleciti
gli imprenditori a fare quel che fanno, posto che la Teoria generale
si può ridurre a questa proposizione: l'occupazione è
quella che i capitalisti decidono di dare, secondo le loro
aspettative. Secondo lo stesso Keynes, "la teoria si può
riassumere dicendo che, data la psicologia della gente, il livello
della produzione e dell'occupazione complessive dipende
dall'ammontare dell'investimento" (v. Keynes, 1937).
c) Keynes e il saggio di interesse: il distacco dalla tradizione
Keynes, come egli stesso scrive nel fondamentale articolo del 1937,
si distacca dalla teoria tradizionale in almeno due punti.
1. La teoria ortodossa assume che noi si disponga di un tipo di
conoscenza del futuro completamente diverso da quello che abbiamo in
realtà. L'ipotesi di un futuro prevedibile mediante un
calcolo benthamiano conduce a un'interpretazione erronea dei
principî di comportamento che la necessità di agire ci
costringe ad adottare, e a una sottovalutazione dei fattori nascosti
di dubbio, di precarietà, di speranza, di timore. Il
risultato è stato un'errata teoria del tasso di interesse:
"È vero che la necessità di uguagliare i vantaggi
della scelta tra il possesso di titoli o di beni capitali rende
necessario che il tasso di interesse sia uguale all'efficienza
marginale del capitale. Ma questo non ci dice a che livello questa
uguaglianza si realizzi. La teoria ortodossa ritiene che sia
l'efficienza marginale del capitale a stabilirlo. Ma l'efficienza
marginale del capitale dipende dal prezzo dei beni capitali, e
poiché questo prezzo determina il tasso del nuovo
investimento, esso è compatibile in equilibrio con un solo
dato livello del reddito monetario. Perciò l'efficienza
marginale del capitale non è determinata, se non è
dato il livello del reddito monetario. In un sistema nel quale il
livello del reddito è soggetto a fluttuazioni, la teoria
ortodossa ha un'equazione di meno di quanto serve per ottenere una
soluzione. Indubbiamente la ragione per cui il sistema ortodosso non
è riuscito a scoprire la lacuna sta nel fatto che esso ha
sempre tacitamente assunto che il reddito sia dato, e precisamente
al livello corrispondente al pieno impiego di tutte le risorse
disponibili. Così, invece di essere l'efficienza marginale a
determinare il tasso di interesse, è corretto affermare che
è il tasso di interesse che determina l'efficienza marginale
del capitale".
2. La teoria ortodossa avrebbe scoperto il difetto di cui sopra, se
non avesse ignorato la necessità di una teoria della domanda
e dell'offerta del prodotto complessivo: "Non è stato
osservato che la quantità dei beni di consumo che conviene
produrre agli imprenditori è funzione della quantità
dei beni di investimento che conviene loro produrre".
Secondo Keynes la tradizione (neo)classica del pensiero economico
considera il saggio di interesse come il fattore che porta
all'equilibrio la domanda di investimento con la disposizione a
risparmiare. L'investimento rappresenta la domanda di risorse
investibili e il risparmio rappresenta l'offerta, mentre il saggio
di interesse è il 'prezzo' delle risorse investibili al quale
domanda e offerta si equilibrano. Allo stesso modo in cui il prezzo
di una merce si stabilisce necessariamente al punto nel quale la
domanda è uguale all'offerta, così il saggio di
interesse si stabilisce necessariamente, sotto il gioco delle forze
del mercato, al punto nel quale l'ammontare dell'investimento a quel
saggio di interesse è uguale all'ammontare di risparmio a
quello stesso saggio. Keynes è disposto ad ammettere che il
saggio di interesse possa forse esercitare un influsso
sull'ammontare risparmiato da un reddito dato; ma il punto è
proprio questo, che il reddito non è dato e che il caso
veramente generale è quello in cui il livello del reddito e
dell'occupazione è soggetto a fluttuazioni: "In verità
la teoria classica non ha afferrato l'importanza delle variazioni
del livello del reddito o della possibilità che il livello
del reddito divenga effettivamente una funzione dell'ammontare di
investimento per unità di tempo". L'analisi tradizionale
è dunque difettosa perché non è riuscita a
isolare correttamente le variabili indipendenti del sistema.
Così come l'efficienza marginale del capitale, anche il
saggio di interesse per Keynes dipende in maniera decisiva dalle
aspettative degli agenti economici. Ciascun individuo, una volta
deciso quanta parte del suo reddito consumerà e quanta invece
accantonerà in qualche forma disponibile per il consumo
futuro, dovrà decidere in quale forma - liquida oppure no -
conserverà le disponibilità che ha accantonato. Il
saggio di interesse, in questo contesto, non può essere una
ricompensa per il risparmio o l'astinenza come tali; infatti, se un
uomo tesaurizza i suoi risparmi in denaro, non percepisce alcun
interesse benché risparmi esattamente tanto quanto prima: il
saggio di interesse è invece la ricompensa all'abbandono
della liquidità per un periodo determinato. Esso misura la
riluttanza di coloro che possiedono la moneta ad abbandonare il loro
controllo liquido su di essa; esso non è il 'prezzo' che
porta all'equilibrio la domanda di mezzi da investire con la
disposizione ad astenersi dal consumo presente: è il prezzo
che equilibra il desiderio di tenere la ricchezza in forma di denaro
con la quantità di denaro disponibile.
Questa preferenza per la liquidità richiede però una
spiegazione. "Perché mai vi dovrebbe essere qualcuno, al di
fuori delle mura di un manicomio, che desideri usare la moneta come
riserva di ricchezza?". La spiegazione keynesiana è che, per
motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio
di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del
nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e
nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo atteggiamento
verso la moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso
opera, per così dire, a un livello più profondo delle
nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più
superficiali, più instabili convenzioni si sono indebolite:
"Il possesso della moneta culla la nostra inquietudine, e il premio
che noi pretendiamo per dividerci da essa è la misura della
nostra inquietudine".
d) Keynes: capitale e (dis)occupazione
La teoria keynesiana, come si è accennato, si può
riassumere così: "Data la psicologia della gente, il livello
della produzione e dell'occupazione complessive dipende
dall'ammontare dell'investimento". Più esaurientemente, la
produzione totale dipende dalla propensione al tesoreggiamento, da
come la politica monetaria influenza la quantità di moneta,
dallo stato della fiducia relativamente al rendimento futuro dei
beni capitali, dalla propensione alla spesa, dai fattori sociali che
influenzano il livello del salario monetario. Di questi diversi
fattori, però, quelli dei quali ci si può fidare di
meno sono quelli che determinano il tasso dell'investimento,
perché sono influenzati dalle nostre previsioni sul futuro,
del quale sappiamo così poco.
In condizioni di laissez faire, d'altra parte, il livello
dell'investimento normalmente non assicurerà la piena
occupazione. Il nostro mondo economico oscilla, evitando i
più gravi estremi delle fluttuazioni dell'occupazione e dei
prezzi in ambo i sensi, intorno a una posizione intermedia
sensibilmente al di sopra di quel livello minimo dell'occupazione al
di sotto del quale si metterebbe in pericolo l'esistenza, ma
sensibilmente al di sotto dell'occupazione piena: "La nostra sorte
normale è una situazione intermedia, né disperata
né soddisfacente" (v. Keynes, 1936). Di qui l'auspicio di
Keynes - il quale vede nella disoccupazione il difetto principale
della società capitalistica (oltre alla distribuzione
arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi) - di una
socializzazione "di una certa ampiezza" dell'investimento e
soprattutto dell'eutanasia del redditiero.
La ragione di una proposta politica così radicale è la
radicalità dell'analisi keynesiana. La teoria keynesiana del
saggio di interesse e delle decisioni di investimento, infatti,
rovescia la tesi tradizionale secondo la quale un saggio di
interesse moderatamente alto è giustificato dalla
necessità di offrire un incentivo sufficiente al risparmio.
L'ampiezza del risparmio effettivo è invece determinata dalla
scala dell'investimento, e questa è favorita da un saggio di
interesse basso (purché non si cerchi di stimolare in tal
modo l'investimento al di là del punto corrispondente alla
piena occupazione). L'eutanasia del redditiero (e dunque
"l'eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di
sfruttare il valore di scarsità del capitale") sarebbe
pertanto vantaggiosa per la società, e allo stesso tempo
ragionevole ed equa. L'interesse non rappresenta il compenso di
alcun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della
terra. Il possessore del capitale può ottenere l'interesse
perché il capitale è scarso, proprio come il
possessore della terra può ottenere la rendita perché
la terra è scarsa. Ma mentre vi può essere una ragione
intrinseca della scarsità della terra, non vi sono ragioni
intrinseche della scarsità del capitale.
Circa questo punto - nell'ultimo capitolo: Note conclusive sulla
filosofia sociale verso la quale la 'Teoria generale' potrebbe
condurre - Keynes argomenta e predica così: "A lungo andare
non esisterebbe una ragione intrinseca di questa scarsità,
ossia non esisterebbe un sacrificio genuino, ottenibile soltanto con
l'offerta del compenso dell'interesse; salvo che la propensione
individuale al consumo si dimostrasse di carattere tale che il
risparmio netto in condizioni di occupazione piena venisse a finire
prima che il capitale fosse divenuto sufficientemente abbondante. Ma
anche in tal caso, sarà ancora possibile che il risparmio
collettivo per il tramite dello Stato sia mantenuto a un livello che
permetta l'aumento del capitale fino al punto al quale questo non
sia più scarso. Considero perciò l'aspetto del
capitalismo caratterizzato dall'esistenza del redditiero come una
fase di transizione, destinata a scomparire quando esso avrà
compiuto la sua opera. E con la scomparsa del redditiero, molte
altre cose del capitalismo subiranno un mutamento radicale. [...]
Potremmo dunque mirare in pratica (poiché non vi è
nulla di tutto questo che sia irraggiungibile) a un aumento del
volume di capitale finché questo non sia più scarso,
cosicché l'investitore senza funzioni non riceva più
un premio gratuito; e a un sistema di imposizione diretta tale da
permettere che l'intelligenza e la determinatezza e la
capacità del finanziere, dell'imprenditore et hoc genus omne
(i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro
potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano
imbrigliate al servizio della collettività, con un compenso a
condizioni ragionevoli".
5. Controversie recenti sulla misura del capitale
Wicksell e Keynes avevano colto un problema importante, quello delle
difficoltà di una misura inequivoca del capitale (e
perciò della produttività marginale del capitale
stesso): il capitale, a differenza degli altri fattori della
produzione, non può essere misurato in termini di una sua
propria unità di misura; essendo - nella sua determinazione
materiale - una collezione di beni capitali eterogenei, di esso non
si può dare una 'misura' aggregata altro che in termini di
valore.
Della "curiosa divergenza" notata da Wicksell si è già
detto. Quanto a Keynes, egli rileva - nel capitolo della sua Teoria
generale sulla scelta delle unità di misura - che le
unità sulla base delle quali gli economisti misurano il
reddito nazionale, il livello generale dei prezzi e per l'appunto lo
stock di capitale reale sono insoddisfacenti. In generale "la
produzione di merci e servizi della collettività è un
complesso non omogeneo, il quale a rigore non può venire
misurato se non in certi casi particolari, come ad esempio quando
tutti gli elementi di una certa produzione siano compresi in egual
proporzione in un'altra produzione". E la difficoltà è
anche maggiore quando si cerca di misurare l'incremento netto del
capitale, poiché allora si deve trovare una base per un
confronto quantitativo fra i nuovi beni capitali prodotti nel
periodo e i vecchi beni capitali che sono stati consumati. È
per questa ragione che Keynes usa, come unità di misura,
unicamente moneta e lavoro e considera come unico fattore della
produzione il lavoro stesso.
a) Il capitale nella funzione di produzione
Le teorie del capitale egemoni nell'accademia e
nell'insegnamento (e dunque ispiratrici delle idées
reçues), almeno fino ai contributi critici di Joan Robinson,
di Piero Sraffa, di Pierangelo Garegnani e di Luigi Pasinetti,
ignorano o aggirano il problema ricordato sopra. Il problema
consiste nella possibilità di determinare una misura teorica
univoca e rigorosa del capitale aggregato, la quale sia indipendente
dalle variabili che sulla base di questo si vogliono determinare:
saggio di salario, saggio di interesse, prezzi relativi delle merci.
Il contesto è quello della teoria marginalistica della
distribuzione (v. § 3e).
In un articolo del 1953-1954 la questione viene sollevata da Joan
Robinson: "Il predominio, nell'insegnamento economico di tipo
neoclassico, del concetto di una funzione della produzione per mezzo
della quale si dimostra che i prezzi relativi dei fattori sono
funzione del rapporto in cui questi vengono impiegati, a un dato
stato della conoscenza tecnica, ha avuto un effetto negativo sullo
sviluppo di questi argomenti; e infatti, prendendo in esame
principalmente i problemi relativi alle proporzioni tra fattori
produttivi, esso ha distolto l'attenzione dai problemi, più
difficili ma più interessanti, relativi alle forze che
regolano le offerte dei fattori e alle cause e conseguenze dei
mutamenti delle conoscenze tecniche. Per di più, la funzione
della produzione è stata un potente strumento diseducativo.
Allo studente di teoria economica si insegna a scrivere Q = f(L, K),
dove L è una quantità di lavoro, K una quantità
di capitale e Q la quantità prodotta di certe merci. Gli
viene poi detto di supporre che tutti i lavoratori siano uguali e di
misurare L in ore-uomo di lavoro, gli viene detto qualcosa sul
problema dei numeri indice, a proposito della scelta di una
unità di misura per il prodotto, e poi lo si fa passare
frettolosamente al problema che segue, nella speranza che egli si
dimentichi di chiedere in quali unità viene misurato K. Prima
di avere il tempo di porsi tale domanda egli è già
diventato professore; e così abiti mentali frusti sono
tramandati da una generazione all'altra".
Il problema, come ha scritto Geoffrey C. Harcourt, "è quello
di trovare un'unità con cui il capitale sociale, o capitale
aggregato in valore che dir si voglia, possa essere misurato come un
numero; cioè un'unità che sia indipendente dai prezzi
relativi e dalla distribuzione e possa quindi essere inserita in una
funzione della produzione dove, insieme al lavoro, misurato
anch'esso in modo opportuno, possa spiegare il livello della
produzione aggregata. Inoltre, in un'economia perfettamente
concorrenziale in cui le previsioni sono perfette [...], questa
unità dev'essere tale da uguagliare la derivata parziale del
prodotto rispetto al 'capitale' alla remunerazione del 'capitale' e
la corrispondente derivata rispetto al lavoro al salario reale (in
termini di prodotto). Questa unità fornirebbe dunque anche
gli elementi per una teoria della distribuzione basata sulla
produttività marginale. Se è possibile trovare una
tale unità di misura, si possono prendere due piccioni con
una fava; poiché in tal caso possiamo da un lato analizzare
un sistema produttivo in cui i beni capitali - mezzi di produzione
prodotti - fungono da ausiliari del lavoro (caratteristica, questa,
comune a ogni società industrialmente avanzata) e, dall'altro
lato, possiamo studiare la distribuzione del reddito in un sistema
capitalistico (cioè in un sistema in cui la proprietà
di un capitale in valore permette ai suoi possessori di partecipare
alla distribuzione del reddito nazionale sotto forma di profitti sul
capitale investito, dove sia l'ammontare di tali profitti che lo
stesso saggio del profitto sono in relazione alle caratteristiche
tecniche del sistema produttivo)" (v. Harcourt, 1972).
Trovare quell'unità di misura, e quindi poter trattare il
capitale come 'fattore' della produzione in un mondo caratterizzato
dalla scarsità delle risorse e dalla razionalità
massimizzante dei soggetti economici, vorrebbe inoltre dire che non
ci sarebbe alcun bisogno di specificare il contesto politico e
istituzionale del processo di produzione-riproduzione, e che
diventerebbe superfluo o addirittura improprio il rinvio ai rapporti
di forza fra le diverse classi come variabile essenziale nella
determinazione della configurazione distributiva. E verrebbe meno il
problema di analizzare le diverse forme che il capitale assume nelle
diverse fasi del processo capitalistico, problema che Joan Robinson
evoca così: "Siamo abituati a parlare del saggio del profitto
realizzato da una impresa come se i profitti e il capitale fossero
entrambi delle somme di denaro. Il capitale, quando consiste in
attività finanziarie non ancora investite, è in
effetti una somma di denaro, e così pure i ricavi netti di
un'impresa sono somme di denaro. Ma le due cose non coesistono mai
allo stesso tempo. Quando il capitale si presenta come una somma di
moneta, i profitti non sono stati ancora realizzati. Quando i
profitti (quasi-rendite) vengono realizzati, il capitale ha cessato
di essere moneta ed è diventato un impianto. Ma possono
succedere molte cose che fanno sì che si crei una divergenza
tra il valore dell'impianto e il suo costo originario. [...] Come
dobbiamo valutare il capitale rappresentato dall'impianto?" (v.
Robinson, 1953-1954).
Il fatto è che in generale è impossibile concepire un
valore del 'capitale in generale', che sia indipendente dalla
distribuzione: saggio di salario e saggio dei profitti non sono
'prezzi' come gli altri.
b) Le 'parabole' neoclassiche
Gli "abiti mentali frusti" di cui parla Joan Robinson hanno
preso la forma, come ha scritto lo stesso Harcourt, di 'parabole'
sulle forze che determinano la distribuzione del reddito fra
capitalisti e lavoratori salariati, sulle modalità
dell'accumulazione del capitale e sulle scelte (da parte dei
capitalisti) delle tecniche di produzione.
Queste parabole sono: a) a saggi dei profitti più bassi
corrispondono valori del capitale pro capite più elevati; b)
a saggi dei profitti più bassi corrispondono rapporti
capitale-prodotto più elevati; c) a saggi dei profitti
più bassi corrispondono (tramite investimenti in metodi
produttivi più 'meccanizzati') livelli di consumo pro capite
più elevati (in 'stato uniforme'); e soprattutto d) in
condizioni concorrenziali la distribuzione del reddito fra
capitalisti e lavoratori salariati può essere spiegata sulla
sola base della conoscenza delle produttività marginali e
delle offerte dei fattori, in sostanza della sola conoscenza delle
condizioni 'tecniche' della produzione (risorse, tecnologia e gusti
dei consumatori).
c) La critica sraffiana: l'armonia neoclassica come caso
particolarmente astratto
Queste quattro proposizioni non sono tutte condivise da tutti
gli economisti neoclassici; esse corrispondono però alla
visione ancora corrente del capitale come un 'fattore' della
produzione al quale, come a tutti gli altri, spetta una
remunerazione commisurata al suo 'contributo' alla produzione (alla
sua 'produttività marginale'). Esse si reggono, d'altra
parte, sulla possibilità di dare del capitale una misura in
valore che sia indipendente dal saggio del profitto: in caso
contrario il ragionamento sarebbe circolare. Una critica definitiva
a una concezione siffatta del capitale è stata possibile
grazie al contributo di Piero Sraffa (del quale ci si
occuperà qui soltanto in questa prospettiva, e non anche in
quella delle possibili riletture di Marx 'dopo Sraffa').
Una funzione della produzione descrive le varie combinazioni dei
fattori fra le quali l'imprenditore potrà scegliere:
nell'ipotesi che le condizioni tecniche della produzione siano date,
che vi sia sostituibilità fra i fattori della produzione, che
vi sia concorrenza perfetta e che l'imprenditore persegua la
massimizzazione del profitto. Ciascun livello della produzione
richiederà un'adeguata combinazione di fattori (un dato
metodo di produzione) e la combinazione più vantaggiosa
sarà quella per la quale il saggio di sostituzione dei
fattori è uguale al reciproco del rapporto fra i prezzi dei
fattori stessi; se i prezzi relativi dei fattori mutano, dovranno
mutare anche le proporzioni in cui sono combinati i fattori. Ad
esempio: se i salari aumentano e i profitti diminuiscono, in una
funzione di produzione regolare ci si sposterà verso una
combinazione di fattori che impieghi meno lavoro e più
capitale.
Questa proposizione, tuttavia, ha un senso soltanto se vi è
davvero un solo bene capitale, così che non si pone il
problema di misurarlo in valore. Se invece si producono più
merci - nell'ambito di un processo circolare di produzione di merci
a mezzo di merci, esse stesse prodotte - quella proposizione,
apparentemente sensata, diventa dubbia: vera soltanto entro ipotesi
estremamente precise e restrittive. Se si potesse mostrare che in
generale non è vero che vi sia una relazione inversa fra
saggio dei profitti e 'intensità di capitale', allora la
nozione di capitale implicita in quella di funzione della
produzione, e la conseguente teoria della distribuzione,
perderebbero qualsiasi significato analitico e politico: e in
effetti così è.
Si può dimostrare infatti, grazie ai lavori di Sraffa,
Pasinetti, Garegnani e altri, che non vi è una relazione
univoca e inversa fra saggio dei profitti e intensità di
capitale, e che invece è possibile che le tecniche di
produzione 'ritornino' (non nel senso storico del termine, ma in
quello logico, che qui è dirimente). È cioè
possibile che a seguito di un cambiamento nella distribuzione del
prodotto netto fra salari e profitti, ad esempio a favore dei
salari, una data tecnica di produzione, che comporta una data
intensità di lavoro, sia sostituita con un'altra tecnica a
più alta intensità di capitale; e che però, a
un livello dei salari ancora più alto, la prima tecnica torni
a essere conveniente e quindi venga a sua volta sostituita a quella
che l'aveva soppiantata. Questo risultato non è un curiosum:
esso mette definitivamente in crisi l'idea che le grandezze
distributive siano prezzi come tutti gli altri, poiché
così si dimostra che i prezzi stessi variano al variare della
distribuzione del reddito, e dunque varia il valore del capitale che
mediante quei prezzi deve essere calcolato.
È invece davvero curioso quanto segue, se si ricorda che la
vulgata neoclassica pretende che in equilibrio il saggio dei
profitti sia uguale alla produttività marginale del capitale,
e che il calcolo di questa, se non si vuole ragionare in circolo,
presuppone la possibilità di misurare il capitale
indipendentemente dalla distribuzione. La curiosità sta in
questo: il valore del 'capitale' non varia al variare del saggio dei
profitti (che si vorrebbe determinare e giustificare a partire da
quel valore) soltanto ed esattamente nelle stesse ipotesi in cui
Böhm-Bawerk confina la validità della versione semplice
della teoria marxiana del valore-lavoro, e cioè quando la
composizione organica del capitale sia uniforme nelle diverse
industrie; che è come dire che dal punto di vista
dell'analisi economica si produce una sola merce. Sembrerebbe una
vendetta della storia; ma mentre la riduzione di Marx a caso
particolare è diventata dogma, dell'astrattezza neoclassica,
almeno nei manuali, non si fa cenno.
In generale non esiste una misura della quantità di capitale
che possa essere usata, senza ragionare in circolo, per la
determinazione dei prezzi e della distribuzione del reddito. Le
conseguenze di ciò sono gravi per la teoria accettata del
capitale e della distribuzione: come scrive Garegnani, "dall'aumento
della proporzione tra capitale e lavoro nell'economia, quando
l'interesse diminuisce, sono state infatti dedotte 'funzioni di
domanda' del 'capitale' (cioè, in ultima analisi, del
'risparmio') e del lavoro e, con esse, l'idea che la distribuzione
del prodotto sociale fosse determinata dall'equilibrio fra la
domanda e l'offerta di tali 'fattori di produzione'. Di qui, in
particolare, la spiegazione dell'interesse (profitti) in termini di
scarsità del 'capitale', e di ricompensa per l''attesa'.
È difficile vedere come questa complessa struttura teorica
possa essere preservata, quando la base su cui essa è eretta
si rivela erronea".
d) Capitale e società: la scomparsa della categoria
Dimostrare non basta però a convincere. Neoclassici
autorevoli ammettono che la teoria neoclassica aggregata è
logicamente debole. Alcuni ritengono che ci si debba comunque
attenere a essa, e continuare a insegnarla, per ragioni di fede, in
attesa di improbabili soluzioni econometriche della questione. Altri
negano che vi siano neoclassici seri che credono nelle parabole,
poiché la vera teoria neoclassica sarebbe quella delle
versioni moderne della teoria dell'equilibrio economico generale,
che continuamente promettono, senza mai mantenere, di tener conto di
tutte le forme e metamorfosi del capitale in una società
capitalistica: all'interno però di un modello nel quale il
capitale è ridotto a misteriose e naturali 'dotazioni
iniziali'.
Nell'analisi economica contemporanea il 'capitale' scompare. Nessuno
crede più che abbia senso parlare di 'leggi di movimento'
della società capitalistica. Così come le 'classi' si
sarebbero fatte da sanguigne realtà pallide astrazioni
(secondo Schumpeter), il capitale sembra essere diventato un
indistinto insieme di beni capitali eterogenei. Tutto è
spostato altrove, e non ci sono più eretici influenti.