Trasformismo
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Termine con cui la pubblicistica italiana definì la prassi politica,
inaugurata da A. Depretis, consistente nel formare di volta in volta
maggioranze parlamentari intorno a singole personalità e su
programmi contingenti, superando le tradizionali distinzioni tra
destra e sinistra. Di tipo trasformistico fu considerata anche la
concessione di favori alle consorterie locali in cambio del sostegno
parlamentare praticata da F. Crispi e G. Giolitti.
Con riferimento alla politica contemporanea, il termine è stato
assunto a significare, con tono spregiativo o comunque polemico e
negativo, sia ogni azione spregiudicatamente intesa ad assicurarsi
una maggioranza parlamentare o a rafforzare la propria parte, sia la
prassi di ricorrere, invece che al corretto confronto parlamentare,
a manovre di corridoio, a compromessi, a clientelismi, senza più
alcuna coerenza ideologica con la linea del partito.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1998)
di Giovanni Sabbatucci
Sommario: 1. Il trasformismo 'storico'. 2. Il trasformismo come
categoria morale. 3. Il trasformismo come scelta di sistema. 4.
Trasformismo e storia d'Italia. □ Bibliografia.
1. Il trasformismo 'storico'
Il termine 'trasformismo' entrò nel linguaggio politico italiano tra
la fine del 1882 e l'inizio del 1883 per definire, con chiara
connotazione polemica, la politica inaugurata in quel periodo
dall'allora presidente del Consiglio Agostino Depretis. Per la
verità il vocabolo traeva origine da un'espressione pronunciata
dallo stesso Depretis in un discorso tenuto a Stradella l'8 ottobre
1882, nell'imminenza delle prime elezioni politiche a suffragio
'allargato', che si sarebbero tenute di lì a due settimane. In
risposta a coloro che criticavano gli accordi da lui stipulati in
campagna elettorale con la Destra di Marco Minghetti e lo accusavano
di aver così snaturato il programma della Sinistra, Depretis si
giustificava con una frase destinata a restare celebre: "Se
qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il
mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare
progressista, come posso io respingerlo?" (cit. in Candeloro, 1970,
p. 161).
Non era la prima volta che il presidente del Consiglio si esprimeva
in questi termini. Esattamente sei anni prima, e sempre a Stradella,
nel corso della campagna elettorale del 1876, Depretis aveva
esplicitamente invocato "quella concordia, quella feconda
trasformazione dei partiti" che sola avrebbe consentito la
formazione di una "salda maggioranza". In quello stesso discorso,
però, il leader della Sinistra aveva contraddittoriamente ricondotto
la portata del suo appello entro i termini di quello che oggi
definiremmo un accordo bipartisan, facendo riferimento alla
"concordia delle due grandi parti politiche che devono alternarsi al
potere" (cit. in De Mattei, 1941, p. 9). E del resto l'esito
trionfale delle discusse elezioni del 1876 avrebbe garantito alla
Sinistra una maggioranza non solo salda, ma addirittura
schiacciante, rendendo superflua qualsiasi ipotesi di accordo con
l'opposizione. Nel 1882, invece, ogni accenno all'alternanza era
scomparso, mentre si dava per scontata la convergenza dei moderati
sulle posizioni 'progressiste' che Depretis aveva sempre rivendicato
come sue.
In realtà, da questo punto di vista, le parole del presidente del
Consiglio contenevano una buona dose di insincerità. Che gli uomini
della Destra moderata (o almeno quelli che si riconoscevano nelle
posizioni di Minghetti) si fossero trasformati, o si stessero
trasformando, in progressisti era affermazione quanto meno
opinabile. Minghetti era lo stesso uomo politico che, poco meno di
dieci anni prima (nel 1873), da capo del governo aveva proposto al
Depretis allora capo dell'opposizione un accordo 'centrista' in
tutto e per tutto simile a quello che poi si sarebbe realizzato a
parti invertite nel 1882. Il leader della Sinistra, che pure non era
alieno da simili prospettive e non era nemmeno nuovo a combinazioni
politiche 'trasversali' (aveva fatto parte per due volte di governi
a guida moderata), aveva allora rifiutato la proposta, privilegiando
l'esigenza di tenere unita la sua parte politica in vista di una
prossima ascesa al potere; e i fatti gli avrebbero dato ragione. La
diversa scelta operata da Minghetti nel 1882 era motivata in parte
dalle preoccupazioni suscitate dalla appena varata riforma
elettorale circa la possibile irruzione nell'arena parlamentare di
forze non legittimate (preoccupazioni comuni, come vedremo, a larga
parte della Sinistra di governo), in parte dalla presa d'atto del
carattere irreversibile della sconfitta subita con la cosiddetta
'rivoluzione parlamentare' del marzo 1876 e più ancora con le
elezioni dell'ottobre di quell'anno: non era certo, dunque, il
risultato di una significativa evoluzione politico-ideologica.
A subire un'evoluzione in senso opposto, e dunque in qualche misura
a 'trasformarsi', erano stati piuttosto gli uomini della Sinistra
moderata. Chiusasi, con la formazione nel maggio 1881 del quarto
ministero Depretis, la parentesi progressista dei governi Cairoli,
esauritasi, con l'approvazione della nuova legge elettorale, la
stagione delle riforme, gli eredi della Sinistra risorgimentale
apparivano soprattutto preoccupati di rafforzare le loro basi di
consenso e di garantire al tempo stesso la solidità delle
istituzioni nel segno di un liberalismo moderato non molto diverso,
nella sostanza, da quello dei loro antichi rivali. Ad accentuare le
loro preoccupazioni contribuivano da un lato le sempre più visibili
manifestazioni di un nuovo dissenso politico e sociale (non solo di
ispirazione radical-repubblicana, ma anche di matrice socialista)
che stava trovando proprio allora nuove e più definite forme
organizzative, dall'altro le possibili conseguenze della riforma
elettorale che loro stessi avevano voluto e approvato dopo non pochi
tentennamenti (v. Romanelli, 1988). Una riforma che, pur essendo
ispirata a un prudente gradualismo (legare il suffragio al requisito
dell'istruzione primaria significava diluire in tempi molto lunghi
l'accesso alle urne del grosso della popolazione), accresceva di tre
volte il corpo elettorale e soprattutto lo mutava dal punto di vista
qualitativo, rendendolo meno controllabile e minacciando di
favorire, accanto alla sinistra moderata, anche una sinistra estrema
ben radicata in alcuni strati della piccola borghesia e delle
nascenti élites operaie.
Furono soprattutto queste preoccupazioni a rendere necessaria e
urgente, agli occhi dei moderati di ambo le parti, un'operazione
politica volta a superare gli schieramenti tradizionali (i cui
confini peraltro non erano mai stati nettamente segnati e da molti
anni ormai si andavano facendo sempre più incerti) e a dar vita così
a una nuova grande maggioranza 'centrista', teoricamente
inattaccabile e capace dunque di garantire l''area della
legittimità' (v. Sabbatucci, 1990) dalle possibili incursioni delle
forze antisistema, fin allora neutralizzate dalla stessa
ristrettezza del suffragio. L'operazione, destinata a rivelarsi
irreversibile e a segnare nel lungo periodo la storia della politica
italiana, si attuò in effetti già nella campagna elettorale del
1882: grazie anche al meccanismo dei collegi plurinominali
introdotto dalla nuova legge (che in teoria avrebbe dovuto
moralizzare e spersonalizzare i termini della competizione),
numerosi furono i casi di accordi fra Destra e Sinistra sul nome di
uno o più candidati. La consacrazione ufficiale della nuova
maggioranza si ebbe però nel maggio 1883, con la formazione del
quinto ministero Depretis, ufficialmente appoggiato da una parte
cospicua della vecchia Destra.
Non si trattò, peraltro, di un'operazione indolore. Anche a
prescindere dalle accese polemiche che essa suscitò, soprattutto a
sinistra (e dalle quali ebbe origine la stessa parola
'trasformismo'), l'alleanza Depretis-Minghetti accelerò in primo
luogo il processo di individuazione e di separazione di una sinistra
'radicale' (che in realtà esisteva già da alcuni anni, ma non si
poneva in netta soluzione di continuità con le componenti
progressiste della Sinistra di governo). In secondo luogo provocò
all'interno della stessa maggioranza una vasta dissidenza raccolta
attorno a cinque fra i personaggi più prestigiosi della Sinistra
storica: Crispi, Nicotera, Cairoli, Zanardelli e Baccarini. In
realtà, nonostante la sua non trascurabile consistenza parlamentare,
la cosiddetta 'pentarchia' non assunse mai il ruolo e la figura di
una nuova ed efficiente opposizione: i suoi leaders erano infatti
divisi da forti rivalità (Crispi faceva parte per se stesso e i
progressisti settentrionali, Cairoli, Zanardelli e Baccarini, non
avevano nulla in comune con un personaggio discusso come Nicotera) e
tutt'altro che determinati a costituire un solido fronte comune in
vista di un'alternativa di governo. Alternativa che sfumò
definitivamente con l'ingresso (aprile 1887) di Crispi e Zanardelli
nell'ottavo e ultimo ministero Depretis.
La fine del trasformismo 'storico' viene comunemente fatta
coincidere con la morte di Agostino Depretis (luglio 1887) e con
l'ascesa di Francesco Crispi alla Presidenza del Consiglio. E in
effetti, da allora, la stessa espressione 'trasformismo' uscì dal
linguaggio politico corrente. In realtà, pur tenendo conto delle
cospicue differenze fra i due statisti, quanto meno nello stile di
governo, proprio la successione 'interna' di Crispi, che ereditò dal
suo predecessore sia la compagine ministeriale sia la maggioranza
parlamentare, segnò la definitiva affermazione del modello
trasformista in senso lato: di un modello, cioè, caratterizzato
dalla presenza di una 'grande maggioranza' mobile e plastica, pronta
a spezzarsi e a ricomporsi attorno alla figura di singoli leaders,
non fondata su precise pregiudiziali di programma, ma ugualmente
capace di monopolizzare l'area della legittimità costituzionale (e
dunque di bloccare sul nascere qualsiasi alternativa di governo),
relegando le opposizioni ai lati estremi e simmetrici dello
schieramento parlamentare.
2. Il trasformismo come categoria morale
L'operazione politica avviata da Depretis nell'autunno 1882 aveva,
come si è visto, scopi evidenti di stabilizzazione. Ciò non toglie
che, almeno nelle intenzioni del suo principale promotore, essa si
iscrivesse in una logica e in una cultura di segno positivista e
moderatamente progressista. L'accenno di Depretis alla
"trasformazione" non solo alludeva a una tendenza ormai in atto da
molti anni, che mirava al superamento delle vecchie divisioni nel
nome degli interessi nazionali (e vedeva infatti il continuo
proliferare di 'centri-sinistri', di 'terzi partiti', di 'sinistre
giovani' e via elencando), ma rinviava anche a un contesto lessicale
e culturale in cui il termine 'trasformazione' (così come
'evoluzione') acquistava una connotazione implicitamente positiva
(v. Bollati, 1983, p. XI).
Questa connotazione risultò capovolta nel passaggio al derivato
'trasformismo' che divenne subito sinonimo di politica senza
principî, di amoralità, di sostanziale corruzione. Uno slittamento
semantico comune a molti termini del linguaggio politico, in
particolare al coevo 'opportunismo', calco del francese
opportunisme, parola coniata per indicare una politica
sostanzialmente analoga, sia nella pratica sia nelle motivazioni, a
quella avviata in Italia da Depretis. Sembra che all'origine del
termine vi fosse un riferimento all'abilità dei Gambetta e dei Ferry
nello sfruttare le 'opportunità' a loro disposizione: il sostantivo
'opportunità' era dunque usato in senso positivo, mentre i derivati
'opportunismo' e 'opportunista' acquistarono subito, nel linguaggio
degli oppositori radicali, il significato spregiativo che tuttora
conservano.
Se 'opportunismo' è diventato un termine universale - ricorrente
soprattutto nel linguaggio e negli schemi mentali del movimento
operaio - quella di 'trasformismo' è invece rimasta una categoria
tipicamente italiana. Una categoria che non solo è stata usata come
chiave di lettura dell'intera storia politica unitaria (il che, come
vedremo, è, almeno in parte, legittimo), ma addirittura, anche in
analisi recenti e raffinate (v. Altan, 1989), è stata assunta a
elemento cardine del carattere nazionale: il trasformismo come vizio
italico, come segno di un'inclinazione, maturata attraverso i
secoli, a non prendere troppo sul serio fedi e ideologie, ma anche,
in positivo, come manifestazione di uno speciale talento applicato
alla capacità di adattamento e di sopravvivenza. Italiano era del
resto il più famoso trasformista di tutti i tempi: quel Leopoldo
Fregoli, attore livornese nato nel 1867 e morto nel 1936, la cui
specialità consisteva nel cambiare abito e trucco con prodigiosa
rapidità. Il suo lungo e indiscusso successo sulle scene di mezzo
mondo contribuì certamente alla fortuna del vocabolo e anche alla
piegatura semantica che lo identificava in buona sostanza con
l'abitudine a mutar casacca con disinvoltura: donde l'uso improprio
dei termini trasformismo e trasformista in riferimento al passaggio
di uomini o gruppi politici da uno schieramento all'altro.
L'interpretazione morale, o moralista, del trasformismo traeva in
verità alimento da alcuni dati reali, relativi ai caratteri assunti
dalla pratica di governo e dalla lotta politica in Italia dopo la
svolta del 18821883. Il venir meno di ogni discriminante ideologica
e programmatica fra i due maggiori schieramenti in campo (ossia la
fine di quel sia pur imperfetto modello bipolare che aveva
caratterizzato la scena parlamentare italiana nel primo ventennio
postunitario) ebbe come effetti un visibile degrado del dibattito
politico all'interno della 'grande maggioranza' costituzionale e il
trasferimento delle funzioni proprie dell'opposizione a forze non
pienamente legittimate (l'estrema radicale, repubblicana e poi
socialista) oppure a gruppi eterogenei o marginali, pronti peraltro
a rientrare alla prima occasione nel gioco delle combinazioni
ministeriali (la pentarchia o l'ala più dura della vecchia Destra).
La necessità per l'esecutivo - non più sorretto da una maggioranza
in qualche modo precostituita - di costruirsi la sua base di
consenso giorno per giorno, mediando fra gruppi di pressione e
interessi locali, non giovò certamente alla qualità dell'azione di
governo né alla trasparenza dei processi decisionali. La
combinazione fra queste maggioranze e un apparato statale fortemente
accentrato - elemento essenziale, quest'ultimo, della "formula
trasformistica" (v. Vivarelli, 1991, vol. II, pp. 64-71) - esaltava
l'intreccio triangolare fra i singoli deputati, il governo e una
pubblica amministrazione da sempre poco portata a interpretare il
suo ruolo in modo imparziale.
Questi fenomeni, che peraltro furono solo esaltati e non creati
dalla prassi trasformistica (l'uso disinvolto degli apparati
pubblici, ad esempio, era parte essenziale della pratica di governo
della Destra storica), non vanno però considerati, in un'ottica
essenzialmente deprecatoria, solo in quanto manifestazioni di
malcostume e fomite di corruzione; né tanto meno possono essere
ricondotti a un presunto carattere nazionale (categoria,
quest'ultima, sfuggente quant'altre mai e già fortemente criticata
da Croce). Essi erano invece la conseguenza di un determinato
assetto istituzionale e il risultato di alcune precise scelte
politiche. Scelte sicuramente opinabili e forse non coraggiose, ma
non prive di motivazioni serie: in quel periodo la fedeltà alle
istituzioni delle forze escluse dall'area della legittimità (estrema
sinistra da un lato, cattolici dall'altro) era tutt'altro che
scontata; e l'Italia, unificata da appena un ventennio, aveva un
disperato bisogno di rispettabilità anche internazionale (il 1882 è
non solo l'anno della riforma elettorale, ma anche quello della
Triplice alleanza). Dunque, ciò che spingeva i moderati di ambo le
parti a far blocco al centro era non tanto una smodata brama di
potere, quanto un eccesso di prudenza. In altri termini, il
trasformismo non nasceva da una connaturata inclinazione al
compromesso dei politici italiani, ma era il portato della debolezza
originaria dello Stato unitario, della fragilità delle istituzioni e
della cronica esiguità delle loro basi di consenso. Non era il
prodotto di un carattere nazionale, ma la risposta, forse sbagliata,
a un problema reale.
3. Il trasformismo come scelta di sistema
Inteso in questo senso ampio, il trasformismo non fu, e non è,
certamente un fenomeno solo italiano. Le sue origini si possono
rintracciare nella teoria e nella pratica del juste milieu
guizotiano ai tempi della Monarchia di luglio: un modello, questo, a
cui, pur dandone un'interpretazione dinamica, si era già
esplicitamente ispirato Cavour nel promuovere la politica del
'connubio'. A livello di teoria costituzionale, il trasformismo
trovava una sorta di giustificazione preventiva nelle opere del
giurista svizzero Johann Kaspar Bluntschli, autore nel 1869 di un
fortunato trattato di politica in cui si sosteneva tra l'altro la
necessità dell'unione fra i partiti medi, ossia conservatori e
liberali, al fine di impedire la prevalenza di quelli estremi
(reazionari e radicali) nella conduzione dello Stato. Tradotta negli
anni settanta dell'Ottocento in Francia e in Italia, apprezzata e
citata, non a caso, da Marco Minghetti (v., 1881), l'opera di
Bluntschli esercitò una forte influenza in tutta Europa (v. Pombeni,
1994, p. 110) e fornì ulteriori argomenti ai sostenitori del governo
di coalizione come alternativa al modello bipartitico tipico dei
paesi anglosassoni (ma in verità non sempre funzionante in quel
periodo nemmeno in Gran Bretagna).
Il principale campo di applicazione di queste teorie - e il più
importante precedente del trasformismo depretisiano - va sicuramente
individuato nella Francia degli esordi della Terza Repubblica: la
cui nascita stessa - a partire dalla tribolata approvazione da parte
dell'Assemblea Nazionale delle lois constitutionelles nel 1875 - si
dovette a un accordo fra i 'centri' (monarchici orleanisti e
repubblicani moderati), e la cui intera vita sarebbe stata poi
segnata dal rapido succedersi di instabili governi di coalizione. La
storia politica della Francia repubblicana conobbe, è vero, un
dinamismo più pronunciato rispetto a quella dell'Italia liberale e
consentì persino un blando simulacro di alternanza fra coalizioni a
prevalenza conservatrice e alleanze a tinta progressista (si
trattava però, appunto, di un simulacro, in quanto l'alternanza era
dovuta più agli spostamenti dei gruppi in Parlamento che non ai
verdetti elettorali). Ma i due sistemi politici funzionavano in modo
molto simile. Analoghe erano, in primo luogo, le cause di fondo che,
nei due paesi, facevano apparire praticamente obbligata la via
dell'unione dei centri e che, riferendosi all'esigenza di tutelare
le istituzioni dagli attacchi delle forze politiche estremiste
(anche se in Francia le istituzioni da difendere e da consolidare
erano quelle repubblicane), rinviavano implicitamente all'assenza, o
all'insufficienza, di un patto originario largamente condiviso, di
un quadro di legittimità comunemente accettato. Analoghe, nella
sostanza, erano anche le conseguenze pratiche del modello adottato:
mobilità delle maggioranze, instabilità degli esecutivi, scarsa
trasparenza dei processi decisionali, corruzione politica favorita
dall'assenza di quel fondamentale correttivo che è rappresentato
dall'alternanza di governo per via elettorale (o dalla semplice
possibilità che essa si verifichi).
In questo senso, il trasformismo italiano non merita né il giudizio
assolutorio formulato nella sua Storia d'Italia da Benedetto Croce
(v., 1928), il quale giungeva a negare al concetto ogni dignità di
categoria politica, né le definizioni severe che, sulla scorta delle
polemiche democratiche di fine Ottocento, ne hanno dato alcuni fra i
maggiori esponenti della storiografia di questo dopoguerra: sia
quelli di formazione marxista (v. Carocci, 1956 e 1992; v.
Candeloro, 1970), che ne hanno messo in rilievo soprattutto i
risvolti conservatori e immobilisti, sia quelli di formazione
salveminiana (v. Vivarelli, 1991), che hanno insistito sui suoi
effetti deleteri sul costume politico e sulla funzionalità delle
istituzioni. In particolare, in un'ottica di comparazione con altre
coeve esperienze europee, sembra eccessivo il giudizio formulato da
Carocci (v., 1992, p. 10), uno dei più autorevoli studiosi del
trasformismo: "una sottospecie degenerata della maggioranza di
centro alla francese". È forse più corretto parlare della versione
italiana - né particolarmente corrotta né specialmente virtuosa - di
un modello di governo, e di sistema politico, affermatosi in molti
regimi parlamentari europei del tardo Ottocento (non solo in Italia
e in Francia) in alternativa a quello tendenzialmente bipartitico
sviluppatosi nei paesi anglosassoni.
La notevole fortuna incontrata da questo modello va ricondotta in
primo luogo alla lentezza e alla difficoltà del processo di impianto
sul continente delle istituzioni parlamentari e, in prospettiva, di
quel sistema che oggi siamo soliti definire 'democrazia liberale'.
Il problema, infatti, non sussisteva nemmeno nei regimi autoritari,
o semiautoritari, dell'Europa centrale, dove i governi potevano in
qualche misura prescindere dall'appoggio delle assemblee
rappresentative. Là dove, invece, la sorte del potere esecutivo era
in vario modo collegata alle manifestazioni della volontà popolare,
tanto più se espresse attraverso forme di suffragio allargato o
universale, l'esigenza di proteggere le maggioranze parlamentari
dalla possibile prevalenza delle tendenze estremiste si imponeva
come prioritaria. Soprattutto nei paesi - ed erano i più - in cui
erano ampie le fratture politico-ideologiche (o anche religiose o
etnico-linguistiche, si veda il caso del Belgio), forte l'eredità
dei conflitti passati e debole il consenso alle istituzioni, la
competizione bipolare propria del modello anglosassone appariva
troppo pericolosa, in quanto era ritenuta, a torto o a ragione,
capace di rivelare e di approfondire lacerazioni e fratture
preesistenti e di offrire più larghi spazi di intervento alle forze
della rivoluzione e a quelle della reazione assolutistica.
Nati, come si è visto, per rispondere a un'esigenza legittima, in
una fase in cui le istituzioni liberaldemocratiche stavano muovendo
in molti paesi i loro primi passi, i sistemi lato sensu
trasformistici mostrarono nel tempo una spiccata tendenza
all'autoperpetuazione. Le grandi maggioranze centriste tendevano
infatti fatalmente a usurarsi e, contraddicendo allo scopo
originario per cui erano sorte, lasciavano spazi sempre più larghi,
sulle loro ali estreme, allo sviluppo di opposizioni
'irresponsabili', la cui crescita, a sua volta, serviva a ribadire
l'esigenza di far blocco al centro. Il sistema sopravviveva
ammettendo nell'area della legittimità singole componenti delle
opposizioni, che, nel momento in cui si costituzionalizzavano,
venivano però sostituite da nuove forze radicali. Il ricambio
avveniva dunque attraverso meccanismi di cooptazione e di
esclusione, mai mediante un fisiologico processo di alternanza per
via elettorale: il che certo non giovava né alla funzionalità del
sistema né alla sua moralità.
Questo schema di funzionamento - che facilmente può sfociare nel
modello del "multipartitismo polarizzato" descritto da Giovanni
Sartori (v., 1982) - è tipico di tutti i sistemi politici
originariamente fondati sul blocco al centro con esclusione delle
estreme. Ma proprio in Italia, paese d'origine del trasformismo
storico, esso ha trovato le applicazioni più integrali e più
sistematiche: tanto da informare di sé, pur nell'alternarsi delle
leggi elettorali e degli assetti istituzionali, oltre un secolo di
storia politica del paese.
4. Trasformismo e storia d'Italia
Se il trasformismo inteso in senso etico (o addirittura come dato
antropologico) ha un significato soprattutto polemico, e non aiuta
molto a capire la storia italiana, il trasformismo inteso nel senso
'sistemico' appena descritto si rivela invece una chiave utile per
leggere la vicenda politica nazionale in un'ottica di lungo periodo
(v. Sabbatucci, 1990; v. Salvadori, 1994). Nel caso italiano,
infatti, alla naturale tendenza del sistema all'autoperpetuazione,
si aggiunse l'anomala persistenza di quei fattori di debolezza del
tessuto politico-istituzionale (forti contrasti ideologici e ampie
fratture sociali, carenza di valori generalmente condivisi, presenza
di agguerrite opposizioni antisistema) che abbiamo visto essere
all'origine della tendenza a far blocco al centro.
Secondo molti studiosi (v. Mack Smith, 1959; v. Maranini, 1967; v.
Galli, 1975), la connotazione trasformistica del sistema politico
italiano risalirebbe addirittura al periodo preunitario, più
precisamente al "connubio" fra "centro-destro" e "centro-sinistro"
promosso da Cavour e Rattazzi nel 1852 in sede di Parlamento
subalpino. In realtà, anche a prescindere dalla valenza patriottica
e progressiva di quell'operazione - valenza vigorosamente
sottolineata da Rosario Romeo (v., 1977, t. 2, pp. 59-80) -, va
ricordato che essa era chiaramente legata a una precisa strategia
politica (l'alleanza fra la monarchia sabauda e il movimento
liberale-nazionale) e che, a unità raggiunta (grazie anche
all'autoesclusione dalla vita politica di cattolici intransigenti e
legittimisti), il Parlamento italiano riassunse una configurazione
tendenzialmente bipolare, imperniata sulla divisione fra liberali
moderati e liberali progressisti.
L'operazione varata trent'anni dopo da Depretis, svincolata da ogni
chiara opzione programmatica, ebbe invece un carattere
irreversibile. La grande maggioranza da essa creata non solo
occupava saldamente il centro dello schieramento politico, ma
coincideva, almeno in teoria, con l'area della legittimità
costituzionale e dunque non ammetteva alternative che non fossero
traumatiche. Per rompere quello schema, la classe dirigente liberale
avrebbe dovuto dividersi secondo una netta linea di separazione fra
conservatori e progressisti: il che, però, non poteva fare se non a
prezzo di far entrare nel gioco politico (in funzione determinante e
non solo subalterna) le forze cattoliche e socialiste, la cui lealtà
nei confronti delle istituzioni continuava a essere quanto meno
dubbia. Nei primi anni del secolo parve, per la verità, che Giolitti
e Sonnino si presentassero come i possibili leaders, in ambito
liberale, di due schieramenti alternativi, ispirati a programmi
contrapposti.
In realtà Giolitti e Sonnino, come avevano fatto prima di loro
Crispi e Rudinì, usavano i loro programmi per proporsi come capi non
già di due maggioranze diverse, ma della stessa 'grande maggioranza'
liberale, occasionalmente allargata a questo o a quello spezzone
delle forze già escluse dall'area della legittimità.
Paradossalmente, fu il 'conservatore' Sonnino a portare per la prima
volta i radicali al governo, mentre fu il 'progressista' Giolitti a
promuovere, sia pur in forme graduali e coperte, i primi tentativi
di inserimento dei cattolici nel quadro istituzionale dello Stato
liberale.
Il sistema fondato sulla grande maggioranza superò bene la prova del
suffragio 'quasi universale' maschile (grazie anche all'escamotage
del patto Gentiloni, che permise alla classe dirigente di utilizzare
a suo vantaggio almeno una parte del voto cattolico). E sopravvisse
persino alla gravissima spaccatura apertasi nell'area liberale sulla
questione dell'intervento nella grande guerra: la frattura tra
interventisti e neutralisti si manifestò a livello di schieramenti
parlamentari solo alla fine del 1917 (senza peraltro esercitare
un'influenza di rilievo nella formazione delle maggioranze
governative) e si chiuse definitivamente nella primavera-estate del
1920, con la formazione dell'ultimo ministero Giolitti.
A quel punto, però, il sistema era già entrato in crisi, non per i
contrasti interni alla maggioranza costituzionale, ma per
l'improvviso venir meno di quella maggioranza in seguito all'esito
traumatico delle elezioni del novembre 1919: esito spiegabile a sua
volta con la concomitanza di una gravissima emergenza
politico-sociale (quella del 'biennio rosso' 1919-1920) e di una
riforma elettorale (la rappresentanza proporzionale con scrutinio di
lista) che sconvolgeva d'un colpo il collaudato sistema di rapporti
fra eletti ed elettori su cui il personale politico liberale aveva
costruito le sue fortune.
La perdita dell'autosufficienza da parte della classe dirigente di
matrice risorgimentale non costituiva però la premessa di un nuovo
sistema, alternativo al vecchio. Al contrario, la presenza
minacciosa in Parlamento di una fortissima opposizione antisistema
(i 156 deputati di un Partito socialista schierato su una linea di
radicale rifiuto delle istituzioni) obbligava tutte le altre forze a
confluire in una stessa maggioranza per dare al paese un
qualsivoglia governo; in particolare costringeva la variegata
galassia liberal-democratica a cercare la collaborazione di un
partito cattolico ormai strutturatosi in moderna formazione di massa
ed emancipatosi dalle logiche subalterne del clerico-moderatismo
d'anteguerra. Le ultime maggioranze parlamentari dell'età liberale
furono dunque anch'esse trasformiste in senso lato: nel senso cioè
che erano prive di alternative, non avevano una connotazione
programmatica precisa ed erano guidate da una logica di mera
sopravvivenza.
Quelle maggioranze, però, non potevano più disporre di alcuni degli
strumenti classici del vecchio trasformismo (il rapporto personale,
non mediato dalle strutture partitiche, fra il capo del governo e i
singoli deputati, il legame fra il deputato e il suo collegio); e
mancavano di quel minimo di omogeneità che la comune matrice
liberal-risorgimentale aveva bene o male assicurato alle maggioranze
prebelliche: causa non ultima, questa, del collasso funzionale
dell'intero sistema e della conseguente ascesa al governo di
Mussolini.
Lo stesso Mussolini, peraltro, dopo aver fondato il suo primo
esperimento di governo sulla preesistente maggioranza
liberal-popolare, si fece promotore di una riforma elettorale che
prevedeva, come condizione per il successo del fronte governativo,
la concentrazione di tutte le forze autenticamente 'nazionali' in un
unico 'listone'. Quella realizzata con la legge Acerbo del 1923 e
poi con le elezioni del 1924 fu certamente molto più che una
semplice operazione trasformista: fu la premessa necessaria per
l'instaurazione di una dittatura monopartitica. Essa fu però
grandemente facilitata da una tradizione politica che considerava
normale la concentrazione di tutte le forze 'sane' in un unico
blocco (e anche da una cultura giuspubblicistica che vedeva nel
parlamento più un'articolazione del potere statale che
un'espressione della pluralità dei soggetti operanti nella società).
Questa tendenza di fondo non mutò nella sostanza nemmeno dopo la
caduta del fascismo e la riconquista delle libertà democratiche. A
guerra conclusa, parve naturale che i partiti che avevano guidato la
lotta di liberazione (o almeno i maggiori fra di essi) continuassero
a governare insieme il paese. Quando, nel 1947, la coalizione
tripartita si ruppe per iniziativa di De Gasperi, le sinistre furono
espulse non solo dal governo, ma anche da una ridefinita area della
legittimità, entro la quale sarebbero poi state riammesse in tempi e
modi diversi (i socialisti col centrosinistra, i comunisti con la
solidarietà nazionale), contestualmente al loro ingresso nelle
maggioranze governative: senza mai assumere dunque la figura del
polo alternativo in un quadro di opposizione costituzionale.
Leggere la storia politica repubblicana nella sola chiave della
continuità col vecchio trasformismo sarebbe riduttivo, oltre che
scorretto. Il modello originario si fondava, come si è visto, su
maggioranze mobili costruite giorno per giorno attraverso gli
accordi con i singoli deputati o con i gruppi di interesse locali:
il tutto in assenza di schieramenti partitici e di gruppi
parlamentari fortemente strutturati. Quello della 'democrazia dei
partiti' attuato in età repubblicana (e già parzialmente
sperimentato negli anni successivi alla prima guerra mondiale) era
invece un modello rigido, i cui equilibri erano in larga parte
predeterminati in base alle intese di vertice fra le segreterie. La
rigidità del sistema e la solidità delle maggioranze da esso
espresse risultavano però attenuate a causa della frammentazione
partitica, favorita dalla legge elettorale proporzionale, e delle
divisioni interne alle formazioni politiche maggiori: ragion per
cui, nella pratica, la vita dei governi era legata a un complicato
gioco di mediazioni fra partiti e correnti che aveva qualche punto
di contatto con quello messo in atto dai leaders parlamentari
dell'Italia prefascista. Restava poi, come costante immutabile, la
sostanziale inamovibilità delle coalizioni di governo, instabili e
conflittuali ma inattaccabili per via elettorale, e suscettibili di
cambiamento solo attraverso meccanismi di cooptazione e di
esclusione.
La 'rivoluzione maggioritaria' dei primi anni novanta - segnata
soprattutto dall'esito vittorioso del referendum del 1993
sull'elezione del Senato - ha avuto per obiettivo proprio la rottura
di questo modello e l'avvento di una democrazia bipolare di stampo
anglosassone. Il tempo dirà se e in quale misura l'obiettivo sia
stato raggiunto. È certo comunque che le resistenze soggettive e gli
ostacoli oggettivi con cui si è dovuto misurare il processo di
transizione verso un modello compiuto di democrazia dell'alternanza
vanno in larga parte attribuiti all'eredità del trasformismo: inteso
come scelta di sistema e non come mera espressione di un costume
politico, come prodotto non tanto di una irresistibile vocazione al
compromesso, quanto piuttosto di una scarsa propensione a
riconoscersi in un quadro di regole e di valori condivisi.