Tirannia
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Governo di un dominatore assoluto. Per Platone era la peggior forma
di governo, quella in cui il sovrano esercita il potere tramite la
paura e commettendo atti abnormi; per Aristotele rappresentava la
degenerazione della monarchia, in cui il sovrano peresegue il
proprio interesse anziché quello collettivo.
Connotata in seguito come infrazione della ‘legge naturale’, nel
pensiero cristiano la t. fu concepita come violazione della legge
divina, dando vita alla riflessione sulla legittimità del
tirannicidio . Il concetto di t. passò infine a designare ogni forma
di potere arbitrario e illimitato (anche da parte del popolo o della
maggioranza in un regime democratico in cui non vengano rispettati i
diritti individuali).
Il nome tiranno (gr. τύραννος), ignoto a Omero e forse di origine
anatolica, compare nella letteratura del 7° sec. a.C. quando si ha
la notizia dei primi tiranni nelle colonie greche dell’Asia Minore.
Il tiranno era in genere un nobile il quale, nelle lotte sociali e
politiche che ovunque accompagnarono il declinare delle aristocrazie
e l’emergere delle masse popolari, riusciva a conquistare il potere
governando poi in modo assoluto, come avvenne in molti luoghi della
Grecia tra il 7° e il 6° sec. a.C.
Il termine non comportò originariamente una valutazione negativa; se
mai metteva in rilievo la non legittimità del potere; in realtà,
spesso i tiranni si distinsero per il loro governo illuminato e lo
sviluppo impresso alle città su cui dominavano, ma restarono sovente
vittime di quelle energie che avevano suscitato o protetto
(artigiani, armatori, plebi urbane). Le t. tornarono ad apparire nel
mondo greco dalla fine del 5° sec. a.C. quando le democrazie si
mostrarono impotenti a difendere le proprie istituzioni o
l’indipendenza (per es., Dionisio I a Siracusa). L’instaurarsi della
t. in questa seconda fase non ebbe sempre le stesse cause
politico-sociali che aveva avuto nei sec. 7°-6°; comparve
sporadicamente in Tessaglia (a Fere), in Asia Minore (Asso nella
Troade, Eraclea Pontica), nel Peloponneso.
Nell’epoca ellenistica il fenomeno è connesso sia con episodi di
dominazione da parte di altri Stati, sia con momenti di crisi delle
istituzioni politiche tradizionali, sia con la necessità di
assicurare con una forte direzione militare l’indipendenza da
aggressioni esterne.
Dizionario di Storia (2011)
Il governo del tiranno, l’esercizio della tirannide. Il problema
della t. appare già ampiamente sviluppato nel pensiero politico
greco, e riceve da Aristotele una formulazione di importanza
decisiva. Originariamente il termine significava il governo
illegittimo di uno solo, poi si allargò a significare ogni governo
arbitrario (anche di una parte del popolo, o addirittura della
maggioranza). Aristotele definì la t. come degenerazione della
monarchia, che ha luogo quando chi governa mira all’utile proprio
invece che a quello della collettività (le parallele degenerazioni
dell’aristocrazia e della cosiddetta politeia sono l’oligarchia e la
democrazia). Definendo in tal modo la t., Aristotele accentuava
l’aspetto politico-morale (bontà dell’esercizio del potere) della
valutazione, ponendone in seconda linea quello giuridico
(legittimità dell’esercizio del potere).
Su questa via si posero anche i pensatori romani: Cicerone fece
derivare la t. dalla mancanza della «recta ratio imperandi atque
prohibendi», concetto che Seneca chiarì e precisò ulteriormente.
Nella temperie spirituale dell’impero si affermò l’idea che sono il
comportamento personale, la capacità di governo, la dedizione
completa alla cosa pubblica ciò che distingue il principe dal
tiranno. D’altra parte, divenne fondamentale per la formulazione del
problema della tirannide l’idea dell’esistenza dell’eminente
principio giuridico della «legge naturale», la cui deliberata
violazione costituisce appunto la t., contrapposta alla monarchia,
che è invece governo di uno solo conformato alla legge naturale e
anche (stante il forte nesso tra i due concetti nel maturo pensiero
politico-giuridico romano) alla legge positiva. Tali elementi
classici confluirono nella concezione cristiana: la legge naturale,
derivando dal volere divino, costituisce un limite invalicabile dal
potere.
T. è per il cristianesimo violazione della legge naturale e quindi
misconoscimento dei doveri che derivano dalla legge divina.
Grande importanza assunse intanto nel primo Medioevo l’affermarsi
delle concezioni giuridiche barbariche, fondate sul principio della
tradizione immemoriale: tiranno è anche colui che deliberatamente
viola col suo arbitrio le norme tradizionali che reggono le nazioni.
Sorgeva progressivamente il problema, fondamentale nell’elaborazione
del pensiero politico tardo-medievale e moderno, della posizione del
cittadino di fronte alla tirannia.
Una forte corrente di pensiero, fondata sul riconoscimento della
origine divina di ogni potere, negava all’individuo e al popolo ogni
diritto alla ribellione contro la t.; ma un’altra, fondata
sull’illegittimità della t. in quanto governo «ingiusto», si affermò
sostenendo la legittimità della ribellione e addirittura la sua
doverosità, giungendo fino a teorizzare il tirannicidio (problema
già presente nel pensiero antico). S. Gregorio e s. Isidoro avevano
sostenuto rispettivamente le due tesi: nel Basso Medioevo, Giovanni
di Salisbury fece propria la seconda, mentre s. Tommaso tentava una
formulazione più complessa, ritenendo che in ogni caso la punizione
del tiranno spetti ad autorità pubbliche.
Con il pensiero politico e giuridico del primo Rinascimento (Bartolo
da Sassoferrato, Coluccio Salutati), si accentuò la considerazione
giuridica del problema della t. e del tirannicidio. Si distinsero
due forme di t., definite, in quanto il tiranno opprima i sudditi,
t. ex parte exercitio, e in quanto il suo potere manchi di titolo,
t. ex defectu tituli. D’altra parte, nell’età dell’affermarsi delle
signorie e dei principati e del decadere delle istituzioni comunali,
si fece strada presso alcuni (sviluppando gli antichi motivi delle
libertà repubblicane e delle virtù civili) un atteggiamento
estremista di esaltazione del tirannicidio (Apologia di Lorenzino
de’ Medici).
La teoria del tirannicidio, fusa con i nuovi motivi della polemica
religiosa e politica, sfociò nel maturo Rinascimento e nel Seicento
nella dottrina dei monarcomachi (regalismo e antiregalismo), i
quali, sulla premessa che il principe deve esercitare il suo potere
per il bene dei sudditi, concludevano che dove egli manchi a tale
compito divenga tiranno e, come tale, possa essere legittimamente
ucciso; il «bene dei sudditi» era ora interpretato alla luce delle
conseguenze della frattura creata dalla Riforma.
Elementi di dottrina monarcomaca si ritrovano in cattolici (specie
gesuiti e spagnoli) come J. de Mariana, L. de Molina, F. Suárez, R.
Bellarmino. Con lo svolgersi del pensiero politico nel mondo
moderno, il problema della t. e del tirannicidio si svuotò sempre
più di contenuto di fronte alla maggiore complessità del problema
delle garanzie costituzionali, della limitazione dell’assolutismo
regio, della formulazione di una concezione liberale dello Stato.
enciclopedia online
Tirannide
Regime fondato sulla violenza e l'arbitrio. L'accezione negativa che
oggi si attribuisce al termine non era insita al momento della sua
prima apparizione nella letteratura greca del 7° sec. a.C., quando
cioè si affermarono i primi tiranni nelle colonie elleniche
dell'Asia Minore, ma già nella successiva tradizione greca si andò
sempre più determinando il significato di governo dispotico.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1998)
di Giovanni Giorgini
Sommario: 1. La tirannide antica. 2. Il Medioevo e l'umanesimo
civile. 3. La grande cesura: Machiavelli e Hobbes. 4. L'epoca delle
guerre di religione e il pensiero repubblicano. 5. L'eclissi di un
concetto e il destino di un nome. □ Bibliografia.
1. La tirannide antica
La tirannide è una forma di gestione del potere e quindi una realtà
della politica, ma il concetto di tirannide non è l'immediato
rispecchiamento di questa realtà storica: vi è una cesura, uno iato,
tra la tirannide come regime politico e la sua concettualizzazione,
e occorre innanzitutto ricercarne la ragione e poi ripercorrere le
due storie separatamente, osservando quanto il pensiero attinga
dalla realtà e arricchisca via via la nozione di tirannide passata
nella storia del pensiero politico occidentale.
Preliminarmente si può affermare che la tirannide fa la propria
comparsa come regime politico in Occidente nel VII secolo a.C.,
mentre il concetto di tirannide si plasma nelle lotte politiche
all'interno delle città greche (πόλειϚ), verso la fine del VI secolo
a.C., per divenire un 'concetto militante' nella teorizzazione
politica del V e IV secolo a.C.: l'evoluzione e i mutamenti del
concetto di tirannide non sono quindi riconducibili, se non in
misura assai ridotta, alle vicende storiche dei governi tirannici.
Non si spiegherebbe, altrimenti, lo scarto temporale tra la presenza
storica di regimi tirannici e la concettualizzazione della
tirannide; ma, soprattutto, non si spiegherebbe l'ossessiva fobia
verso il tiranno che appare un fenomeno diffuso in tutti gli strati
della popolazione di Atene un secolo dopo la cacciata dei tiranni
reali, i Pisistratidi, né si spiegherebbe come tutti i tiranni siano
accomunati in un giudizio negativo, indipendentemente dalle loro
singole, e talvolta positive, personalità.
Occorre concludere che già nel V secolo a.C. la tirannide non è più
una mera forma di governo ma è divenuta una creazione ideologica: il
tiranno è il nemico interno della città, perché la comunità dei
cittadini è giunta a elaborare una propria concezione del vivere
politico - che è stata assai efficacemente definita 'ideologia della
città' - fondata su di un insieme di valori morali, giuridici e
politici, e di scelte economiche che appaiono antitetici alla
tirannide. Occorre quindi concepire la tirannide come un concetto
'dialettico' e legare la sua concettualizzazione alla nascita della
categoria del 'politico', ossia all'invenzione, databile al VI
secolo a.C., del 'politico' concepito come spazio comune (ϰοινόν) di
mediazione, all'interno del quale vigono leggi (νόμοι) valide per
tutti e uguale diritto di parola (ἰσηγοϱία), al quale tutti i
cittadini (in linea di principio, nella realtà i maschi adulti
liberi) possono partecipare al fine di governare la città: la
politica, dunque, come spazio contrapposto alla violenza e
all'arbitrio di uno solo. Il tiranno appare così come il negatore di
questa visione della politica che possiamo definire latamente
'democratica' o, con maggiore rigore terminologico, 'isonomica',
perché fondata sull'uguaglianza di fronte alla legge (ἰσονομία).
L'evoluzione in senso democratico della πόλιϚ greca, e segnatamente
della città di Atene, alla quale possono essere ricondotti la
maggior parte degli autori e delle testimonianze in nostro possesso,
è alla base della creazione del tiranno come idolo polemico, perché
egli rappresenta l'antitesi di ciò che la comunità politica è giunta
a identificare come miglior forma di governo: è la costruzione
ideologica, e non le circostanze storiche accidentali dei regimi
tirannici, a interessare il pensiero politico, e può apparire
perfino sorprendente in che misura lo stereotipo greco passa
inalterato e viene utilizzato nella lotta politica molti secoli dopo
la scomparsa dei tiranni effettivi, in contesti storici e culturali
diversissimi e contro avversari assai differenti. È quindi alla
Grecia che ci dobbiamo rivolgere per conoscere la realtà della
tirannide e per ripercorrere le tappe della creazione di un 'mito'
politico.
È necessaria, inoltre, una chiarificazione concettuale: non dobbiamo
confondere la tirannide, che ha una propria natura specifica, con
altri regimi politici che le vengono spesso accostati e ai quali
viene talvolta assimilata. Già i Greci l'avevano distinta
categorialmente dal dispotismo, marcando una differenza che viene
ereditata dalla tradizione politica occidentale. La storia del
dispotismo, che pure in epoca moderna si intreccia talvolta con
quella della tirannide, è una storia a sé stante, che conserva negli
autori più rigorosi alcune specificità. Fin dalla sua comparsa la
tirannide appare come un caso eccezionale, al punto da non poter
essere neppure definita una forma di governo stricto sensu, mentre
il dispotismo costituisce un sistema politico, caratterizzato dal
trasferimento nella sfera pubblica dello status privato del
capofamiglia e del padrone degli schiavi, un dominio pertanto
particolarmente adatto a popoli di indole servile. Questo aspetto di
eccezionalità costituisce uno dei tratti peculiari e sorprendenti
della tirannide, che rimase un fatto dell'esperienza politica e non
fu mai razionalizzata all'interno di un contesto giuridico e
istituzionale. Per tali motivi i Greci ritennero il dispotismo un
sistema politico alieno, laddove paventarono sempre una possibile
insorgenza tirannica. La stigmatizzazione del dispotismo risale alle
guerre persiane, allorché i Greci vincitori impostarono quella
straordinaria operazione culturale che assegnò la vittoria ai
difensori della libertà contro la schiavitù di coloro che, da
allora, furono designati come 'barbari': nacque allora la categoria
del 'dispotismo orientale', ossia di un regime adatto a popoli
'schiavi per natura', mentre perfino nei contemporanei trattati
medici si cercava una spiegazione antropologica della naturale
inferiorità dei popoli asiatici (Ippocrate, Arie, acque, luoghi 16,
dove spiegazioni climatiche e considerazioni politiche si
intrecciano).
La confusione terminologica che regna oggi in politica ci costringe
a distinguere inoltre la tirannide da altre forme di organizzazione
del potere alle quali viene spesso assimilata, sebbene ciascuna di
esse abbia peculiarità che la contraddistinguono nettamente dalla
tirannide. In una concettualizzazione appena rigorosa emerge con
chiarezza la distanza che separa la tirannide dalla dittatura,
magistratura straordinaria ma inserita nel contesto giuridico della
repubblica romana. La dittatura è legata allo 'stato di eccezione',
ma il dittatore è pur sempre un commissario dotato di uno scopo
concreto (condurre una guerra o reprimere una sedizione) e il suo
incarico e le sue prerogative sono regolate da norme giuridiche e
finalizzate a salvare la libertà repubblicana in una situazione di
pericolo.
Nei tempi moderni, a partire dalla Rivoluzione francese e in tutta
evidenza nella letteratura socialista, a questa antica dittatura con
funzioni limitate di riforma si è affiancata una dittatura
rivoluzionaria legata al potere costituente del popolo, svincolata
da ogni limite giuridico, da Carl Schmitt denominata "dittatura
sovrana" e distinta dalla precedente "dittatura commissaria". È
questo il caso, ad esempio, della marxiana "dittatura del
proletariato". Ancora maggiore è la distanza dall'assolutismo,
termine settecentesco che rimanda allo Stato moderno e alla dottrina
della sovranità, dove l'unico punto di contatto è costituito
dall'unicità della figura del monarca e dalla soppressione della
divisione dei poteri. Appare evidente, da ultimo, la differenza dal
cesarismo che, nelle sue varianti anche contemporanee, indica sempre
il governo con il supporto dell'esercito, visto come entità
professionale e non identificabile con il corpo dei cittadini.
Il termine 'tiranno' (τύϱαννοϚ), come altri termini greci indicanti
il potere di una persona sola, è di derivazione allotria e
appartiene alla cultura asiatica, anatolica e mediorientale, ove, a
partire dal XII secolo a.C., indicava il detentore autocratico di un
potere extraistituzionale circondato di un'aura di autorità. Il
termine 'tirannide' (τυϱαννίϚ) fa la propria comparsa in greco alla
metà del VII secolo a.C. in una poesia di Archiloco di Paro, in
riferimento al re della Lidia, Gige, il quale regnò tra il 687 e il
652 circa. Già a partire dal V secolo a.C. gli autori greci
ricorsero a etimologie spesso fantasiose e inattendibili per
mostrare l'origine straniera, aliena, del fenomeno della tirannide.
Occorre evidenziare come i Greci non importarono dall'Oriente
un'istituzione bensì un vocabolo dotato di alcune connotazioni
precise, che designava con maggiore esattezza, rispetto agli usuali
ἄναξ (signore) e βασιλεύϚ (re), il nuovo potere che si stava
affermando in alcune città greche. Sebbene in origine non avesse
connotazioni negative e nella sua accezione neutra continuasse a
essere utilizzato, soprattutto nella tragedia, anche in epoca
classica, il termine 'tirannide' ha connaturate due sfumature di
significato, che sottolineano la novità (ossia l'assenza di
successione dinastica) e la grandezza del potere tirannico, oggetto
pertanto di ammirazione e di invidia da parte dei più.
Si può affermare con una certa sicurezza che esistono alcuni dati
comuni riguardo all'origine e al ruolo storico delle tirannidi. I
tiranni cominciarono a insediarsi nelle comunità politiche greche a
partire dal VII secolo a.C., in un'epoca caratterizzata dallo
scontro tra l'aristocrazia tradizionalmente dominante nelle città e
i nuovi ceti politici: il contesto comune all'insediamento delle
tirannidi è la στάσιϚ, la lotta interna fra fazioni politiche che
non riesce a essere composta con i mezzi ordinari della cultura
politica nobiliare e della πόλιϚ aristocratica, e che rende pertanto
necessario ricorrere a un intervento straordinario. Il ricorso al
tiranno non rappresentava, peraltro, l'unica possibilità di colmare
un vuoto di potere: in diversi contesti di lotte intestine si
ricorse a figure straordinarie, sempre dotate di potere monocratico,
quali l'esimnete e il legislatore, con il compito di pacificare il
conflitto. Ciò che contraddistinse il tiranno fu l'appropriarsi del
potere che, in diverse guise, aveva ricevuto, oltre il lasso di
tempo necessario al proprio compito: i tiranni cercarono di
perpetuare il proprio potere personale instaurando dinastie che
raramente andarono peraltro oltre la seconda generazione. Occorre
evidenziare come la lotta politica nel VII e VI secolo a.C. si
svolgesse quasi esclusivamente tra fazioni aristocratiche, anche se
non dobbiamo personalizzare eccessivamente il conflitto, che vedeva
la contrapposizione di programmi concernenti l'assetto interno e la
politica estera.
I tiranni arcaici appartenevano alle classi nobiliari e avevano un
seguito soprattutto tra le famiglie aristocratiche, perché il popolo
non ebbe alcun ruolo politico consapevole fino al V secolo a.C. Il
tiranno è, dunque, un aristocratico che prende, o riceve, il potere
in un momento di crisi dell'aristocrazia, una crisi determinata da
fattori eterogenei e concomitanti quali la trasformazione
dell'economia e il conseguente accumulo di capitali, il mutamento
nella tecnica militare con la sostituzione della falange oplitica
alla cavalleria aristocratica, lo sviluppo della coscienza
individuale. Il tiranno è un aristocratico che va contro l'assunto
fondamentale dell'ideologia aristocratica, l'uguaglianza tra pari:
ὁμοῖοι, uguali, si definivano tra loro i nobili, ma il tiranno non
si accontenta di questa uguaglianza, travalicando limiti che non
sono solamente politici e giuridici ma anche etici e religiosi, e
pecca dunque di ὕβϱιϚ, di arrogante tracotanza, una nozione ricca di
connotazioni morali e sacrali che individua il rifiuto di permanere
nei limiti posti dalla divinità all'azione umana.
Il tiranno è un aristocratico che tra gli aristocratici, soprattutto
più recenti, ritaglia i propri consensi ma che, per governare, attua
politiche che ledono gli interessi della nobiltà e si rivelano
favorevoli agli strati della popolazione meno elevati sul piano
economico e sociale: il tiranno, soprattutto arcaico, non è comunque
il paladino del popolo contro la nobiltà, come affermano invece
alcuni autori antichi e moderni. I tiranni mantennero la struttura
aristocratica della πόλιϚ e si limitarono a far ricoprire le cariche
più importanti a persone a loro vicine, mostrando così l'aspetto
'privatistico' del loro regime, di contro all'ideologia comunitaria
che si sarebbe sviluppata nel giro di qualche decennio; repressero,
o quanto meno non favorirono, la discussione pubblica sulle
questioni politiche comuni, mentre la democrazia si sarebbe
caratterizzata come un regime fondato sulla parola e sulla
centralità dell'ἀγοϱά; cercarono di impedire l'inurbamento del δῆμοϚ
e concedettero la cittadinanza a molti stranieri, in modo da
contenere le richieste dei cittadini di maggiore partecipazione al
potere politico. Questa serie di motivi rese la tirannide non
soltanto un'opzione politica non più praticabile nel V secolo, ma
anche l'antitesi speculare del regime politico che una serie di
circostanze aveva portato ad instaurare nella più importante città
greca dell'epoca: la democrazia.
Le tirannidi più importanti sul continente greco si ebbero ad Atene
e a Corinto, le cui figure di tiranni rimasero emblematiche e
ispirarono la letteratura su questo regime, mentre Sparta ne fu
esente e attuò sempre una politica estera contraria alle tirannidi.
A Corinto nel 657 a.C. Cipselo, un polemarco, ossia un comandante
militare, rovesciò l'oligarchia dei Bacchiadi, cui pure apparteneva
per parte di madre, e instaurò la tirannide: le valutazioni delle
fonti successive sono oscillanti, ma concordano nel giudicare più
violenta la tirannide del figlio Periandro, il quale dovette
sopperire alla mancanza di sostegno popolare di cui aveva goduto il
padre, con un sostegno personale di 300 guardie del corpo, limitò la
libertà economica dei sudditi impedendo loro l'acquisto di schiavi,
spogliò le donne di Corinto dei loro gioielli e compì scelleratezze
di varia natura. Questo non impedì tuttavia al figlio di
succedergli: merito soprattutto della politica estera estremamente
dinamica del padre Periandro, che vide la fondazione di numerose
colonie, e di una politica commerciale fondata sui buoni rapporti
personali con i tiranni di altre città.
La progressiva degenerazione della tirannide nei passaggi
generazionali è, comunque, un topos della storiografia greca. Ad
Atene la tirannide di Pisistrato, insediatosi al potere nel 560
a.C., seguì un lungo periodo di lotte tra clan nobiliari, aggravate
da una situazione economica che aveva visto molti ateniesi venduti
all'estero come schiavi. Le fondamentali riforme di Solone (592
a.C.), che avevano decretato l'abolizione della schiavitù per
debiti, sancendo il principio dell'inviolabilità della persona umana
e la sostituzione del principio censitario a quello genetico, non
avevano tuttavia eliminato la lotta tra fazioni. Pisistrato, eroe di
guerra ed esponente di una delle fazioni aristocratiche in lotta,
seppe approfittare delle divisioni dei suoi avversari e, attraverso
alleanze mutevoli e un'accorta politica matrimoniale, invero un
tratto distintivo di tutti i tiranni, seppe mantenere il potere fino
alla morte, avvenuta nel 527 a.C., nonostante fosse stato cacciato
due volte dalla città: il suo governo era stato così mite e benevolo
che gli succedettero i figli Ippia e Ipparco, con un accordo,
documentato, tra le principali famiglie aristocratiche. La figura di
Pisistrato è emblematica per valutare lo scarto tra realtà della
tirannide e mitologia politica e il ridotto grado di isomorfismo che
la concettualizzazione della tirannide presenta: con icastica
formulazione, Aristotele asserisce che Pisistrato governò "più
politicamente che da tiranno", inaugurando una contrapposizione tra
politica e tirannide destinata ad avere straordinaria fortuna nella
tradizione politica occidentale.
In precedenza già Erodoto, sostenitore della democrazia periclea e
critico senza appello del regime tirannico, aveva espresso un
giudizio assai positivo sulla figura del tiranno Pisistrato (I, 59),
seguito in questo da Tucidide (VI, 54): sebbene le singole
personalità tiranniche possano essere state buone, il regime
tirannico in sé viene condannato. Centrale in questa vicenda è la
svolta storica che vede la cacciata di Ippia (511 a.C.), dopo
l'uccisione del fratello Ipparco che aveva provocato un inasprimento
del regime tirannico (514 a.C.) e dopo alcuni tentativi nobiliari
falliti di rovesciare la tirannide, ad opera del clan degli
Alcmeonidi aiutati militarmente dagli Spartani e con l'appoggio
dell'oracolo di Delfi. Fu in questa Stimmung che si forgiò il mito
politico dei τυϱαννόϰτοι, gli uccisori del tiranno, eroi della
democrazia ateniese e prototipi di tutti i futuri tirannicidi in
nome della libertà politica; fu in questo contesto che il leader
degli Alcmeonidi, Clistene, ritenne necessario allargare la base di
consenso della propria fazione per sopravanzare l'avversario
Isagora, e si assicurò l'appoggio del popolo facendolo entrare per
la prima volta nella dimensione pubblica in nome dell'ideale di
uguaglianza di fronte alla legge (ἰσονομία). Fuori dal continente
greco, le principali tirannidi si insediarono in Sicilia, a
Siracusa, con Gelone e Gerone nel V secolo e Dionisio il Vecchio e
Dionisio il Giovane nel IV. Le tirannidi ioniche del VI secolo, e in
particolare quella di Mileto con Aristagora e Istieo, sono
caratterizzate dal sostegno militare persiano, per cui questi
tiranni sono più assimilabili a governatori.
La letteratura più antica sulla tirannide è costituita soprattutto
da frammenti di poeti aristocratici che riflettono l'immediatezza
della lotta politica e lo spirito di parte degli autori. In questa
prospettiva dobbiamo leggere le invettive di Alceo (acme 600 a.C.)
contro il tiranno Pittaco, definito peraltro anche monarca ed
esimnete dalle fonti e annoverato tra i Sette Sapienti, la
sconsolata disamina di Teognide (acme 600 a.C.), che vede il tiranno
come correttore della malvagia tracotanza delle classi sociali in
lotta, l'orgogliosa rivendicazione del proprio operato di Solone,
che si vanta di non aver mai ceduto alle lusinghe della tirannide
sovvertitrice del tradizionale ordinamento aristocratico della πόλιϚ
e generatrice di violenza.
Eschilo (525-455 a.C.), esponente della generazione che combatté a
Maratona, ha suggestivamente utilizzato i tratti del tiranno per
caratterizzare addirittura Zeus e mostrare come solamente
l'esperienza e la sofferenza possano infondere giustizia e
conoscenza nei governanti (Prometeo incatenato). Nel celebre
'discorso tripolitico' (Storie III, 80-82) di Erodoto (490420 a.C.)
troviamo la prima discussione teorica di pregi e difetti delle forme
di governo, dove la tirannide già appare l'opposto speculare del
governo popolare, "che ha il nome più bello di tutti, isonomia, e
che [...] non fa niente di quanto fa il monarca": la successiva
esemplificazione mostra che il modello positivo sottostante è
l'Atene di Pericle, mentre il tiranno, che "sovverte le patrie
usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio", è già una
figura idealizzata, sebbene in negativo.
Nelle pagine di Tucidide (460-399 a.C.) troviamo sia la migliore
esposizione dell'ideologia ateniese, con la realistica ammissione
che ogni città che abbia un impero è costretta a esercitare
tirannicamente la propria egemonia, sia un giudizio negativo,
ispirato al principio secondo cui la potenza è il metro di misura di
ogni entità politica, sulla tirannide vista come regime debole e
fonte di debolezza politica. La rappresentazione scenica della
tirannide nella tragedia non può prescindere dal carattere politico
degli agoni drammatici: la tragedia è un momento di celebrazione
della città di Atene e l'immagine del tiranno sulla scena è uno
specchio fedele delle convinzioni profondamente condivise dei suoi
cittadini. Sofocle (497-406 a.C.) mette sulla scena potenti e
complesse figure di tiranni, come Edipo e Creonte, sottolineandone
la fragilità morale, che tosto si tramuta in empietà, e la
precarietà di fronte alla forza della Tyche. L'ultimo grande
tragediografo, Euripide (485-406 a.C.), utilizza invece i tratti
politici del tiranno per celebrare la democrazia ateniese.
È tuttavia verso la sistematizzazione teorica del IV secolo a.C.,
erede peraltro di un'immagine del tiranno già ricca di valenze
morali, psicologiche e politiche, che il pensiero politico
occidentale è maggiormente debitore. Nel IV secolo, infatti, in
concomitanza con un rinnovato affermarsi di tirannie sul continente
greco, la teoria politica elabora la cruciale dicotomia tra 'buon
re' e 'cattivo tiranno', che inserisce una fondamentale distinzione
all'interno del regime monarchico e lo salva da una generalizzata
quanto aprioristica condanna. Così nel Gerone, il primo dialogo
dedicato alla tirannide, Senofonte (430-355 a.C.) mostra come,
ascoltando i consigli dei saggi, il tiranno possa trasformare il
proprio governo, fonte di infelicità per sé e per i propri sudditi,
in un buon regno. La potenza concettuale e stilistica di Platone
(427-347 a.C.) è rinvenibile nelle memorabili pagine dedicate alla
delineazione del ritratto psicologico del tiranno, la cui miseria
morale e ignoranza della verità riguardo al bene umano ne fanno
l'essere più infelice di tutti, di contro alla seducente immagine di
felicità che lo accompagna e lo rende oggetto di invidia; a questa
caratterizzazione fa pendant la visione della tirannide come pessima
forma di governo, ultimo stadio della progressiva degenerazione
della πόλιϚ perfetta. È interessante notare come il pensiero
politico platonico si evolva e questa concezione della tirannide
presente nella Repubblica, dove il filosofo è l'antitesi del
tiranno, ceda il posto alla visione delle Leggi, che affida
all'unione tra tirannide e filosofia la realizzazione del miglior
regime politico.
La complessa concettualizzazione della tirannide di Aristotele
(384-322 a.C.) è caratterizzata da grandi antitesi, finalizzate a
mostrare l'impossibilità antropologica del buon tiranno. Sul piano
etico individuale il tiranno appare l'opposto dell'uomo
perfettamente virtuoso: questi giudica correttamente le situazioni
pratiche che si trova ad affrontare, così da costituire il metro di
giudizio cui ispirare la propria azione, mentre il tiranno è
accecato dalla propria disposizione malvagia e non può pertanto
conoscere il vero bene per l'uomo e per la comunità politica. Sul
piano più prettamente politico Aristotele distingue notoriamente sei
forme di governo, in base al duplice criterio del numero dei
governanti e dell'esercizio del potere nell'interesse pubblico o
meno: in questa classificazione la tirannide, degenerazione della
monarchia, appare come l'ultima e peggiore forma di governo. Nel
corso della trattazione, però, Aristotele, attento alla storia e
alla realtà empirica, rende più complessa questa classificazione: da
un lato mostra come, nonostante alcune similitudini con l'esimnetia
arcaica e la monarchia persiana, la tirannide sia un regime contro
natura, mentre il dispotismo barbarico è adatto a un popolo schiavo
per natura; dall'altro illustra come la tirannide non sorga soltanto
dalla degenerazione del regno ma anche di altri regimi, come
l'oligarchia, e si possa trasformare in molte guise (Politica V, 12,
1316a). È in questo contesto che si inseriscono i suoi consigli
realistici fino al cinismo, altrimenti inspiegabili o
contraddittori, su come trasformare la tirannide per avvicinarla a
un regno, rendendola così a un tempo più moderata e più duratura
(Politica V, 11, 1313a-1315b).
Il distacco che permea questi consigli e la tipologia aristotelica,
di contro al pathos di altre pagine della Politica, è lo specchio
dell'ambiguità della posizione aristotelica, che tiene in vita un
passato già superato dalle conquiste di Alessandro il Macedone: la
dissoluzione della πόλιϚ non determina però la scomparsa della sua
controparte negativa, destinata a rimanere un nome per i secoli.
Possiamo così osservare come nel VI libro delle proprie Storie
Polibio (200-120 a.C.), storico greco vissuto a Roma, riprenda la
teoria platonico-aristotelica delle forme di governo, cui aggiunge
l'idea di un loro succedersi ciclico (anaciclosi): in questa
prospettiva la tirannide rappresenta la naturale degenerazione del
regno e Polibio osserva come, date le apparenti somiglianze, "tutti
i monarchi finché possono adottano dolosamente il titolo di re" (VI,
3).
Cicerone (106-43 a.C.) è il tramite tra la cultura greca e quella
romana, e a lui dobbiamo la traduzione latina della maggior parte
dei concetti filosofici e politici greci. Nella sua opera, come
nella letteratura politica latina in generale, la ricezione
dell'immagine greca del tiranno si fonde con l'esperienza romana
della monarchia: l'esaltazione della libertà repubblicana si
accompagna all'esecrazione del rex, i cui tratti riprendono la
raffigurazione del tiranno. Cicerone è autenticamente 'classico' nel
ritenere che dove vi sia un tiranno, non essendovi "vinculum iuris
nec consensus ac societas coetus", non esista affatto respublica (De
re publica III, 31). Ne consegue che il tiranno può essere ucciso
impunemente perché egli si pone al di fuori dell'ordinamento
giuridico, o meglio perché la sua esistenza stessa nega tale
ordinamento: "Fra noi e i tiranni non vi è nessun rapporto sociale
(societas), ma piuttosto un incolmabile abisso" (De officiis III,
6). Altre classiche contrapposizioni greche vengono riprese dal
pensiero politico latino: in Sallustio (86-35 a.C.) i tratti del
tiranno rivivono in figure quali Silla e Catilina; nell'Ab urbe
condita di Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) troviamo l'opposizione tra
la libertà repubblicana e la servitù sotto il tiranno, dove
osserviamo l'obliterazione della distinzione tra re e tiranno unita
a un elogio del tirannicidio; in Tacito (55-120 d.C.) la successione
del principato alla repubblica marca la sostituzione della
respublica con un possesso privato del dominus.
Questi temi, inseriti in un contesto etico didascalico, ritornano
nei Moralia e nelle Vite parallele di Plutarco (I secolo d.C.),
opere destinate ad avere un perdurante influsso sulla letteratura
repubblicana, mentre la figura del tiranno rivive per incarnare
diversi aspetti del vizio morale nelle opere di Seneca (4 a.C.-65
d.C.) e, con fini essenzialmente retorici, nelle orazioni di epoca
imperiale.
2. Il Medioevo e l'umanesimo civile
L'adattabilità ai diversi contesti della figura del tiranno emerge
con assoluta chiarezza nell'uso medievale, dove essa viene impiegata
sia per descrivere il papa che travalica il proprio potere
spirituale e non rispetta né le prerogative del Concilio né quelle
dell'imperatore, sia per designare l'imperatore che non ha riguardo
per il ruolo dei propri vassalli, sia infine per bollare i piccoli
governanti locali che calpestano le libertà del popolo. Ciò che
occorre sottolineare è la versatilità d'uso di questa
caratterizzazione, atta a bollare di infamia qualunque uso eccessivo
del potere, temporale o spirituale.
L'orizzonte morale che caratterizza il Polycraticus (1159) di
Giovanni di Salisbury spiega l'uso ampio del termine tirannia, che
abbraccia sia tutte le forme di governo violento che, a ogni
livello, mirano a vanificare le leggi e a ridurre il popolo in
schiavitù, sia la smodata lotta per la conquista del trono
pontificio (VIII, 23). Concezione medievale del rex supra legem e
visione cristiana si intrecciano in una dottrina di cui fatichiamo a
comprendere la coerenza: dal momento che la tirannide è un crimine
pubblico e il tiranno è un nemico pubblico, ucciderlo non solo è
lecito ma equo e giusto (III, 15); d'altro canto, anche i tiranni
sono ministri di Dio (VIII, 18) e pertanto agli oppressi viene
raccomandato di affidarsi alla protezione e alla clemenza di Dio
(VIII, 20).
L'influsso aristotelico in Tommaso d'Aquino (1225-1274) spicca nella
descrizione della tirannia come forma di governo nella quale chi
detiene il potere lo esercita nel proprio interesse e non per il
bonum commune (Summa Theologica Ia IIae 105 1 ad 2). Pur condannando
la ribellione come un peccato mortale, Tommaso ritiene lecito
resistere a un tiranno appellandosi all'autorità pubblica, ossia a
magistrati superiori (De regno); nel caso, poi, di un usurpatore del
potere regio, l'uccisore del tiranno è degno di lode e di premio
(Commento alle sentenze II, q. 44, 2, 2-5; De regimine principum I,
2-6). Ma è soprattutto nelle grandi lotte che videro contrapposti
papato e impero e il papa al concilio vescovile che la retorica
della tirannide appare pienamente dispiegata. Nel Defensor pacis
(1324) di Marsilio da Padova, accanto a suggestioni aristoteliche
(I, 8, 3), la condanna della tirannide è motivata dalla necessità
che all'interno della politia viga una legge che è espressione della
volontà di tutto il corpo dei cittadini (o della sua valentior pars:
I, 12, 8).
Nel Breviloquium de principatu tyrannico, scritto verso il 1340,
Guglielmo di Occam attacca la dottrina della plenitudo potestatis
papale come contraria al Vangelo e alla ragione naturale e fonte di
mali incalcolabili, perché confonde le due sfere di potere,
temporale e spirituale. Richiamando Aristotele e le Sacre Scritture,
egli ricorda come il governo "apostolico o papale" e quello
temporale esistano per il "vantaggio comune" dei fedeli e dei
sudditi, rispettivamente; la giurisdizione dell'imperatore non è
pertanto basata sul suo essere cristiano. L'influsso aristotelico è
invece particolarmente avvertibile nella tipologia esposta nel
Dialogus (III, 1, 2, 6).
Il Tractatus de tyranno di Bartolo da Sassoferrato, scritto tra il
1355 e il 1357, ha sullo sfondo il nascente fenomeno
dell'instaurarsi di signorie e l'acceso dibattito giuridico-politico
che l'accompagnò. Composto verso la fine della sua vita, il De
tyranno riassume molti temi della lunga riflessione di Bartolo sulla
legalità, la legittimità e la corruzione dei sistemi politici e
fornisce una sistematizzazione del fenomeno multiforme della
tirannide destinata a divenire canonica. Esaminando una ricchissima
casistica, Bartolo si interroga sulla natura del governo tirannico.
Nei suoi Moralia super Job (XII, 38: Migne, Patrologia latina LXXV,
1006) Gregorio Magno aveva distinto cinque specie di tirannide,
nella Repubblica romana, nelle comunità inferiori e, infine, anche
nella coscienza del singolo, specie che si manifesta come desiderio
di oppressione.
Bartolo afferma decisamente che vi può essere tirannide solamente
dove si esercita una giurisdizione, perché i pensieri non
interessano al giurista, sebbene egli ritenga che anche gli atti
preparatori all'instaurazione della tirannide debbano essere puniti.
Egli distingue, poi, la tirannide in manifesta e occulta e
all'interno di queste due grandi divisioni opera quattro ulteriori
suddivisioni: nella tirannide manifesta egli distingue tra chi
detiene illegittimamente il potere, l'usurpatore (ex defectu tituli)
che sovverte le forme costituzionali della comunità, e chi lo ha
ottenuto legittimamente ma governa dispoticamente e con violenza (ex
parte exercitii): dalla trattazione aristotelica Bartolo riprende
l'idea che questo tipo di tirannide si manifesti con il mantenimento
di divisioni e lotte tra fazioni e l'impoverimento dei sudditi. La
tirannide occulta, invece, rispetta in apparenza le regole
costituzionali ma le altera nella sostanza, con eccessi di potere o
abusi di ufficio o anche con forme di discriminazione verso alcuni
cittadini. Se pensiamo ai 'due soli' che guidano la riflessione
politica medievale, possiamo concludere che da un lato il tiranno
viola un ordine che è sacro perché stabilito da Dio, dall'altro la
tirannide costituisce un fenomeno eminentemente antigiuridico.
Bartolo tratta anche del diritto di resistenza e afferma che non è
lecito abbattere il tiranno per motivi personali, ma solo per
ragioni di publica utilitas e soltanto nell'impossibilità di
ricorrere a un magistrato superiore.
La suggestione di temi classici ispira la riflessione sulla fine
degli ordinamenti repubblicani di Firenze, marcata dall'ascesa al
potere di Cosimo de' Medici, nei cosiddetti 'umanisti civici' e nel
pensiero repubblicano fiorentino. Ciò che contraddistingue questi
autori è l'enfatica contrapposizione della florentina libertas alla
servitù sotto un signore unico, che diviene inevitabilmente tiranno.
Nel De tyranno di Coluccio Salutati, scritto agli inizi del
Quattrocento, ritorna il tema medievale della duplice via per cui si
diviene tiranni, ossia usurpando il potere oppure dominando con
superbia e contro le leggi e la giustizia; Salutati, tuttavia,
individua nella libera accettazione dei sudditi il tratto
discriminante del regno dalla tirannide. L'importanza del consenso
viene invece negata da Donato Giannotti nella Republica fiorentina,
perché esso può essere comprato dal tiranno con elargizioni e altri
mezzi. L'esaltazione del 'reggimento civile', in polemica con la
tirannide di Lorenzo de' Medici, informa il Trattato circa il
reggimento e governo della città di Firenze (1494) di Girolamo
Savonarola. Della tirannide Savonarola sottolinea l'instabilità, la
mutevolezza e la breve durata e, riprendendo un tema tradizionale,
non sottopone a esame la forma di governo ma si sofferma sull'uomo,
il tiranno. Nell'Apologia, scritta attorno al 1540 per giustificare
l'uccisione del duca Alessandro, Lorenzino de' Medici ritiene che i
costumi malvagi creino il tiranno, indipendentemente dalla legalità
della sua investitura.
3. La grande cesura: Machiavelli e Hobbes
La grandezza e l'innovatività del pensiero di Niccolò Machiavelli si
riverberano sull'immagine del tiranno, assolutamente svincolata
dalla tradizionale trattazione medievale, che troviamo nelle sue
opere e segnatamente nel Principe. Egli mostra innanzitutto di aver
ben chiaro come i principati possano essere ricondotti a due grandi
tipologie: "o per uno principe, e tutti li altri servi", ossia un
despota che nomina a suo piacimento i ministri che lo aiutano a
governare, come nel caso dell'Impero ottomano ("el Turco", la
classica categoria del dispotismo orientale); "o per uno principe e
per baroni", come è il caso della monarchia francese, dove la classe
aristocratica costituisce un contrappeso al potere regio per
antichità di sangue (cap. 4). Ma la figura paradigmatica per
comprendere la centralità della categoria della tirannide in
Machiavelli, e l'innovatività della sua trattazione, è costituita
dal tiranno di Siracusa Agatocle, il quale esemplifica coloro che
ascendono al principato per mezzo di scelleratezze: queste possono
procurare il regno ma non la gloria, che è il fine dell'attività di
governo. L'inumanità di Agatocle induce inoltre Machiavelli a
tracciare la famigerata distinzione tra crudeltà bene o male usate,
dove le prime sono quelle commesse, se necessitati, in nome del fine
supremo per l'uomo politico - la conservazione dello Stato - e
quindi alla fine si convertono nell'utilità dei sudditi; le seconde
sono quelle fini a se stesse, che dipendono dall'innata malvagità
del governante.
Emerge qui con chiarezza come Machiavelli abbia un'acuta
consapevolezza che il male rimane tale ("se del male è licito dire
bene") anche quando il Principe è necessitato a farvi ricorso (cap.
8). Assente dalla riflessione machiavelliana è invece la questione
della legittimità del governo, che viene semplicemente identificata
nella sua effettività storica. Nei Discorsi I, 40, emerge come la
tirannide si instauri in una repubblica allorché vi sia la
prevalenza degli interessi di una parte del popolo che ricerca
un'assoluta libertà, o invece dei nobili che vorrebbero
sottometterlo completamente; di fronte al tiranno la nobiltà è
destinata a dividersi ed egli non potrà guadagnarla senza eccezioni
alla propria causa. Il tiranno deve avere l'appoggio del popolo, ma
così perde il proprio carattere specifico: è evidente l'influenza
dell'insegnamento del Gerone di Senofonte.
In Thomas Hobbes troviamo una posizione meno ricca di sfumature e
più radicale. La distinzione tra re e tiranno è totalmente
obliterata. La tirannia non è una forma di governo a sé stante bensì
una monarchia sgradita ai sudditi (Leviathan 19): il nome tirannia,
infatti, non è altro che un sinonimo di sovranità. Fedele alla
propria convinzione secondo cui "gli uomini sono soliti significare
con i nomi non solo le cose ma, insieme, anche le loro passioni",
Hobbes ritiene che i nomi 'regno' e 'tirannia' esprimano
semplicemente pareri diversi sul potere di uno solo, e riconduce
agli scrittori greci e romani l'esecrazione della tirannide, alle
loro motivazioni politiche: abituati a vivere in governi popolari o
di ottimati, essi odiavano la monarchia in tutte le sue forme (De
cive III, 7, 2-3). Nella straordinaria coerenza della costruzione
politica hobbesiana osserviamo come attraverso il patto ciascun
individuo autorizzi ogni azione del sovrano dando vita a quel grande
Leviatano all'interno del quale, solo, si ha la legge e la giustizia
e dunque il bene e il male; in assenza di qualunque autorità o
riferimento esterno non è possibile giudicare le azioni del sovrano
e definire il suo potere una tirannide. In questo modo il suddito
viene privato degli strumenti concettuali e giuridici per opporsi al
potere sovrano fomentando ribellioni o arrogandosi addirittura il
potere di uccidere il tiranno, contrapposto al buon monarca
(Leviathan 29): è pericolosissimo, infatti, tollerare "un odio
professato per la tirannia" perché significa tollerare "un odio per
lo Stato in generale" dal quale sorge il germe delle sedizioni
(Leviathan, Revisione e Conclusione).
4. L'epoca delle guerre di religione e il pensiero repubblicano
L'utilizzo della figura polemica del tiranno ebbe rinnovato vigore
nelle guerre di religione che sconvolsero l'Europa nella seconda
metà del Cinquecento. Nessuna innovazione caratterizza però tale
utilizzo, che si pone in perfetta continuità con il pensiero
medievale. In Francia divenne un luogo comune la visione del
Principe come manuale per tiranni e l'identificazione del
machiavellismo con la difesa teorica del regime tirannico e
dell'immoralità in politica.
Può apparire singolare che la dottrina tutta politica di Machiavelli
possa apparire una difesa della tirannide, ossia della negazione
della politica, come è affermato esplicitamente nel celebre Discours
[...] contre Nicolas Machiavel florentin di Innocent Gentillet, più
noto come Anti-Machiavel (1576), nel quale si sostiene che
Machiavelli avrebbe edificato "non une science politique mais
tyrannique". Nel medesimo anno compaiono i Six livres de la
république di Jean Bodin, una delle opere capitali del pensiero
politico cinquecentesco, nella quale ritroviamo diversi topoi
tirannici.
Nel secondo libro, dove tratta delle diverse forme di Stato, Bodin
distingue la monarchia in regia, dispotica e tirannica. Egli fa
ricorso alla propria distinzione, di cui va fiero, tra forme di
Stato (che sono tre soltanto: monarchia, aristocrazia e democrazia)
e forme di governo (la modalità di amministrazione del potere) per
sostenere che la tirannide costituisce non un regime a sé stante
bensì un modo di esercitare il governo in uno Stato a regime
monarchico. Al di là della tipologia, la sua trattazione appare
largamente debitrice di Aristotele. Egli sostiene, ad esempio, che
il regime dispotico trasferisce nella società civile un dominio
patriarcale adatto alla famiglia, con una concezione patrimoniale
dello Stato che vede il sovrano padrone delle persone e dei beni dei
sudditi. Afferma poi chiaramente che la monarchia dispotica non va
confusa con la tirannide e trova il discrimine tra queste due forme
di governo nella loro origine: nella monarchia dispotica il sovrano
è divenuto padrone dei sudditi e dei loro beni per diritto di guerra
in seguito a una guerra 'giusta', mentre è monarca tirannico chi
ingiustamente rende schiavi uomini liberi, al modo di un pirata o un
brigante, una definizione straordinariamente reminiscente della
Politica aristotelica. La monarchia dispotica appare a Bodin una
modalità di amministrazione del potere monarchico adatta soprattutto
ai popoli asiatici e mal tollerata dagli europei "più alteri e più
guerrieri".
Concludiamo con alcune rapide esemplificazioni per mostrare la
continuità con il pensiero politico premoderno e l'assenza di
innovazione nell'utilizzo della retorica della tirannia in
quest'epoca. Nella letteratura ugonotta posteriore alla strage di
san Bartolomeo (1572), negli autori significativamente denominati
'monarcomachi', il problema della tirannide si incontra con quello
del diritto di resistenza, perché la 'tirannide' del sovrano
assoluto incorpora un elemento nuovo, sconosciuto nel passato, il
dominio delle coscienze. Esemplari, in questo senso, la
Franco-Gallia (1572) di François Hotman, il Discours de la servitude
volontaire (1576) di Étienne de La Boétie e le Vindiciae contra
tyrannos (1579) di Stephanus Junius Brutus.L'elaborazione
concettuale del tema della liceità del tirannicidio ha un ruolo
preminente nella scolastica spagnola, legata alla questione della
legittimità della resistenza, ed eventuale deposizione di sovrani
eretici. Roberto Bellarmino (1542-1621), Francisco Suarez
(1548-1617), ma soprattutto Juan de Mariana (1535-1624) spingono le
proprie argomentazioni fino a giustificare l'uccisione del sovrano
eretico.
Un ritorno al passato, con un riutilizzo retorico dell'immagine
della tirannide, si riscontra anche nel pensiero politico
repubblicano inglese del Seicento, e segnatamente in autori come
John Milton, Algemon Sidney, Henry Neville, John Toland. È
significativo, in questo senso, che nel proprio progetto utopico e
antimoderno di Oceana (1656) James Harrington segnali
l'eccezionalità della posizione hobbesiana riguardo alla
considerazione della tirannia, unanimemente condannata dagli autori
del passato.
Nell'opera Les soupirs de la France esclave (1689-1690) Michel Le
Vassor sostiene che un governo tirannico è meno pericoloso di uno
dispotico perché la tirannia è limitata alla deviazione di un
governante, mentre il governo dispotico è un sistema, che una volta
si trovava solamente fra gli orientali e che ora si è insediato in
Francia, con la conseguenza che "il re ha preso il posto dello
Stato" e la sua "puissance tyrannique" si esplica anche nelle
questioni religiose. 5. L'eclissi di un concetto e il destino di un
nome.
Con il progressivo spegnersi delle guerre civili e delle polemiche
religiose osserviamo la permanenza della parola tirannia nel lessico
politico ma il depauperamento semantico del concetto. L'Esprit des
lois (1748) di Montesquieu marca chiaramente lo spostamento a favore
della categoria del dispotismo orientale come concetto ideologico
negativo. Sebbene il termine gli sia noto, il concetto di tirannide
non ha un ruolo centrale nel suo pensiero, laddove il dispotismo,
delineato peraltro con tratti ripresi dall'immagine tradizionale
della tirannide, costituisce uno dei tre possibili sistemi di
dominio, un dominio fondato sulla paura e la condizione servile dei
sudditi.
È con l'Illuminismo che il dispotismo diviene una categoria politica
centrale, sia in autori che intendono riproporre l'ideale del
monarca 'illuminato' dai consigli dei filosofi (despotisme éclairé
dei fisiocratici), sia in chi ritiene invece che l'imperium
paternale sia la peggior forma di dispotismo (Kant), adatto soltanto
ai servili popoli orientali (Turgot, Condorcet): con valutazioni
diametralmente opposte questi autori rilevano che caratteristica del
dispotismo è il trasferimento della figura paterna dalla casa alla
scena politica. Il richiamo alla tirannide e l'elogio del
tirannicidio che permette al popolo di recuperare la perduta
libertà, che troviamo in autori come Voltaire (si veda la voce
Tyrannie nel Dictionnaire philosophique del 1764) e nei
rivoluzionari francesi, hanno un mero fine retorico. Lo svuotamento
di significato del termine è percepibile nelle espressioni 'tirannia
della libertà' e 'tirannia della virtù', veri e propri ossimori che,
riecheggiando Rousseau, troviamo in Robespierre.
Nella Démocratie en Amérique (1835-1840) di Alexis de Tocqueville
appare evidente l'uso metaforico del termine là dove si afferma che
le società democratiche devono paventare che tiranna divenga la
maggioranza e non un singolo uomo individuabile. La tendenza delle
nazioni democratiche a concentrare tutta l'attività governativa nel
solo potere che emana direttamente dal popolo, il legislativo, in
assenza di freni e contrappesi, determina un'onnipotenza della
maggioranza che si estrinseca innanzitutto sul potere legislativo,
il quale risulta schiavo delle passioni volubili e momentanee del
popolo, e quindi sull'esecutivo, per poi estendersi sul piano
sociale fino a imprigionare anche il pensiero: la "tirannide della
maggioranza" produce un conformismo di massa cui non servono catene
e carnefici perché "trascura il corpo e punta diritto all'anima", un
conformismo alimentato da un insaziabile amore per l'eguaglianza che
prevarica financo l'attaccamento all'idea di libertà. A questo nuovo
genere di tirannide, che minaccia la libertà sul piano sociale, fa
pendant un regime politico, bollato spregiativamente come
"dispotismo paterno", che, togliendo all'individuo ogni desiderio di
partecipare agli affari politici, lo rinchiude egoisticamente nella
ristretta cerchia formata da amici e parenti, relegandolo in una
dimensione privata dove la sopita passione politica è sostituita
dalla "caccia ai piaceri consentiti". Rovesciando un luogo comune
vecchio di secoli e guardando al futuro, Tocqueville preconizza così
che la tirannide possa coesistere con istituzioni democratiche in
una forma di governo in cui la libertà è insensibilmente e
volontariamente limitata dai cittadini stessi.
Nel nostro secolo, che già nel 1938 Élie Halévy definiva l'"era
delle tirannidi", il grande politologo Raymond Aron insinua il
sospetto che la tirannide sia in realtà il simbolo del male in
politica. Osserviamo così come il termine, per le sue connotazioni
assiologiche, ritorni in concomitanza dell'instaurarsi di regimi
totalitari. Ciò appare evidente, da ultimo, nell'opera di uno dei
maggiori filosofi politici del Novecento, Leo Strauss, il quale
riesuma il termine da un oblio secolare per bollare il nazifascismo
e il comunismo sovietico, in nome di una rinnovata concezione della
filosofia politica che proponga nuovamente la questione della
migliore forma di governo, in aperta polemica con la scienza sociale
americana che aveva fatto dell'avalutatività la propria bandiera.