www.treccani.it
Enciclopedia online
Nel senso storicamente più vasto, ogni dottrina, teoria o
ideologia che postuli una riorganizzazione della società su basi
collettivistiche e secondo principi di uguaglianza sostanziale,
contrapponendosi alle concezioni individualistiche della vita
umana.
In senso più stretto, e in epoca moderna, sistema generalizzato di
idee, valori e credenze, finalizzato a guidare i comportamenti
collettivi – e i movimenti, i gruppi, i partiti che li organizzano
– verso l’obiettivo di un nuovo ordine politico in grado di
eliminare o almeno ridurre le disuguaglianze sociali attraverso
una qualche forma di socializzazione dei mezzi di produzione e
correttivi applicati al meccanismo di distribuzione delle risorse
economiche.
1. Origini del termine
Nonostante quella del s. sia una concezione assai antica (si parla
infatti di s. anche con riferimento alla Repubblica di Platone),
che specialmente nel Medioevo cristiano trova le sue prime
concrete manifestazioni in sette ereticali che predicavano
l’uguaglianza totale nella comunione dei beni (e che per questo si
definivano piuttosto comunioniste), è soltanto nel 19° sec., con
l’avvento della società industriale, che la parola e il fenomeno
s. assumono i contenuti propri che comunemente gli si
attribuiscono. In Francia il termine s. sembra sia stato coniato
da P. Leroux dopo la rivoluzione del 1830, mentre in Inghilterra
pare circolasse già qualche anno prima nel gruppo di R. Owen. Ma
quel che più conta notare è la diversità dei significati che
l’etichetta includeva all’atto stesso della sua invenzione: se per
Leroux era una specie di dichiarazione di guerra contro il
liberalismo, e una risoluta rivendicazione della priorità dello
Stato sull’individuo, per Owen rivestiva contenuti più economici e
sociali che politici, ponendo al centro dei suoi interessi la
questione operaia.
2. Il s. utopistico
La prima fase del pensiero socialista è solitamente identificata,
sulla scorta di una definizione di K. Marx, nel s. utopistico. È
questa, in realtà, una definizione sommaria che serve ad
abbracciare diverse tendenze sviluppatesi fra il 1820 e la fine
del 19° secolo. È in particolare in Francia che trovano
espressione le teorie originarie del movimento socialista, dalle
quali traggono alimento in qualche misura le formulazioni
posteriori e contemporanee. Gli esponenti più significativi del s.
utopistico furono tutti dei militanti, coinvolti più o meno
intensamente nella vita politica del loro tempo e del loro paese,
con l’intento di modificare l’ordine esistente attraverso la forza
della teoria e la coerenza dell’azione pratica. All’interno di
questo movimento si possono tuttavia distinguere due diverse
interpretazioni del cruciale rapporto fra teoria e prassi: quella
di coloro che privilegiarono il momento dell’analisi della realtà
sociale, e quella di coloro che considerarono invece prioritario
il momento dell’azione, facendone oggetto esclusivo dei loro
sforzi intellettuali.
Il comune riferimento è per tutti costituito dalla rivoluzione del
1789, la differente valutazione della quale, in particolare della
sua fase giacobina, si può dire che determini l’appartenenza
all’uno o all’altro dei due filoni. Troviamo così da una parte la
posizione di pensatori – quali C.-H. de Saint-Simon, F.-M.-C.
Fourier, R. Owen, J.-J.-C.-L. Blanc, E. Cabet, P.-J. Proudhon –
che sono portati a derivare dalle numerose trasformazioni avvenute
nel corso della rivoluzione, considerate inadeguate a risolvere i
mali della società, un profondo scetticismo nei confronti della
politica e dei suoi strumenti di violenza. Nelle loro dottrine
prevalgono dunque il rifiuto dell’esperienza rivoluzionaria, la
fiducia nel progresso dell’umanità, l’esaltazione della scienza
positiva come unico metodo per risolvere efficacemente i problemi
sociali. Le loro analisi si svolgono in termini prevalentemente
economici; sul piano politico e giuridico-costituzionale, il
problema fondamentale non è quello della migliore forma di
governo, bensì quello del miglior sistema di organizzazione
sociale, informato ai criteri di rappresentanza meritocratica e ai
principi dell’autonomia. Da un’altra parte troviamo invece l’ala
radicale del s. utopistico.
Il fallimento della Rivoluzione francese è imputato, dagli autori
che si riconoscono in questa seconda corrente di pensiero (L.-A.
Blanqui, F. Buonarroti, F.-N. Babeuf), a una inadeguata
preparazione organizzativa. Il principio egualitario e il
‘comunismo’ dei beni, che costituiscono le finalità supreme
dell’azione rivoluzionaria, presuppongono la conquista del potere
politico; il momento teorico viene così fortemente semplificato a
vantaggio di quello organizzativo, cospiratorio e insurrezionale,
nell’ambito di una strategia tutta tesa al rovesciamento
dell’ordine politico. Di qui un’esaltazione quasi mistica
dell’azione rivoluzionaria quale strumento della palingenesi
storica.
C’è dunque fin dalle origini, nel movimento socialista, una
duplicità costitutiva mai risolta: un’anima laica, pluralista e
moderata; un’altra gnostica, dispotica e radicale, che già da
allora si riconosce più nell’etichetta del comunismo che del s. (e
comuniste venivano infatti dette le società segrete attive in
Francia fra il 1835 e il 1840, ispiratrici della linea
Babeuf-Buonarroti, le quali non a caso diffusero l’espressione
dittatura comunista per qualificare l’obiettivo della loro
rivoluzione).
3. Il s. pragmatico
Parallelamente al movimento francese si sviluppò in Gran Bretagna,
soprattutto a opera di R. Owen, una dottrina che vi si accostava
per molti aspetti, pur radicandosi in un contesto storico diverso
e su problemi diversi di ordine economico-sociale. Le idee
maturate in questo ambito si posero alla base di tendenze che
riprendevano dalla tradizione filosofica dell’empirismo inglese il
carattere della duttilità politica e del pragmatismo. Il
ragionamento di Owen era molto semplice: era inutile arrestare il
progresso industriale e prendersela con le macchine; tuttavia era
rischioso lasciare la regolazione del modo di produzione
industriale, nel quale i lavoratori erano immiseriti e resi
schiavi, al libero gioco del laissez faire. Occorreva invece una
pianificazione ponderata che si occupasse di tutti gli aspetti –
dalle condizioni di lavoro alle condizioni di vita – della classe
operaia, mediante metodi educativi e filantropici. Il cartismo e
il movimento sindacale organizzato in Inghilterra si svolsero in
rapporto all’influenza di Owen, accentuandone via via i tratti più
o meno inconsapevoli del riformismo pragmatico e respingendone
invece quelli che lo iscrivevano nel quadro del s. utopistico. Di
Owen si accettò in particolare l’assunto secondo il quale
occorreva porre un argine alla discesa dei salari ai livelli
minimi di sussistenza, attraverso le trade unions, libere
associazioni fra lavoratori.
4. Il s. scientifico
Con K. Marx e F. Engels il s. raggiunse la piena maturità
intellettuale e politica. Nel Manifesto del partito comunista,
scritto su incarico della Lega dei comunisti durante i moti del
1848 in Germania, Marx ed Engels distinguevano il loro s. dalle
altre versioni, tracciando le linee portanti del s. scientifico,
in quanto solo un’analisi scientifica dei rapporti economici
poteva consentire di elaborare un programma di azione
rivoluzionaria del proletariato in lotta con la borghesia per
l’attuazione del socialismo. La riflessione del marxismo
procedette lungo due direzioni specifiche per la definizione del
programma socialista. Da un lato, la non compiutezza delle
condizioni oggettive per la rivoluzione pose il problema di
approfondire l’analisi critica dell’economia capitalistica.
Dall’altro, dopo il 1860, fu in primo piano il problema
dell’organizzazione e della direzione del movimento operaio e
socialista. Sulla soluzione di questo problema influirono, in
particolare, tre eventi: la nascita del Partito socialdemocratico
tedesco, la Prima Internazionale e la Comune di Parigi. La Prima
Internazionale segnò l’incontro fra il marxismo e il movimento
operaio dei diversi paesi europei, che cominciava a liberarsi dal
democraticismo, dall’anarchismo e dal romanticismo propri del
primo socialismo. Il problema di fondo era quello di indirizzare
lo sviluppo delle organizzazioni proletarie, attraverso un centro
di coordinamento internazionale, verso obiettivi di unità, di
autonomia, di solidarietà. C’era anche il riconoscimento
dell’importanza tattica del riformismo democratico e il primo
riconoscimento delle vie nazionali al s.: rivoluzionarie quasi
ovunque, ma anche pacifiche nei paesi a tradizione
liberal-democratica.
Marx escluse che nell’esperienza della Comune parigina del 1871,
diretta da blanquisti, proudhoniani e giacobini, vi fossero le
condizioni oggettive per un’insurrezione, e per questo preferì
agire in difesa delle istituzioni e in vista dell’organizzazione
politica del proletariato nelle file della socialdemocrazia
tedesca. La lezione che Marx traeva dalle vicende parigine lo
portò a riconcettualizzare il s. come quella fase transitoria del
processo rivoluzionario nella quale la classe operaia si
appropriava dello Stato e del potere legale per instaurare la
dittatura del proletariato, momento propedeutico all’avvento della
società comunista (Kritik des Gothaer Programms, 1875): troviamo
qui una divaricazione sistematica dei due termini di s. e
comunismo, di rilievo fondamentale per quelle che saranno le loro
applicazioni storiche successive.
5. La varietà dei socialismi
Con la Seconda Internazionale (1889-1917) la guida del movimento
operaio fu assunta dalla socialdemocrazia tedesca, il cui ideologo
principale era K. Kautsky. In questo ambito la dottrina marxista
fu sottoposta a una serie di revisioni critiche, in senso
‘riformista’ o ‘rivoluzionario’, che segnarono in modo indelebile
lo sviluppo e i conflitti del movimento socialista nelle diverse
realtà storiche.
Dal punto di vista politico, il congresso di Londra del 1896
decretò l’espulsione degli anarchici e la condanna del
revisionismo, affrontando una serie di altri problemi cruciali per
le sorti del movimento. Negli anni successivi e precedenti alla
Prima guerra mondiale, le questioni dello sciopero generale, del
militarismo, del colonialismo, e soprattutto della posizione da
assumere nei confronti degli eventi bellici, dimostrarono
l’incapacità dei partiti socialisti, nella loro maggioranza
neutrali o favorevoli al conflitto, di porre la solidarietà di
classe al di sopra degli interessi nazionali.
Nella prospettiva della storia delle idee, la Seconda
Internazionale presentò una rilettura del marxismo in chiave di
revisionismi ‘di sinistra’, attraverso una rivalutazione della
dialettica hegeliana, e ‘di destra’, attraverso gli strumenti
concettuali dell’evoluzionismo positivistico o del neokantismo. Si
ebbero così, da una parte, le posizioni a difesa dell’‘ortodossia’
marxista di K. Kautsky e R. Luxemburg; dall’altra parte, le
posizioni fortemente critiche nei confronti della teoria marxista,
come quelle di E. Bernstein, di M. Adler e degli altri esponenti
del cosiddetto austromarxismo, che recuperavano le ragioni etiche
del s. e ne rigettavano le basi scientifiche. Le estreme
conseguenze, anche scissionistiche, di questa controversia si
ebbero con l’istituzione, nel 1919, della Terza Internazionale,
non più socialista ma ormai già comunista, dato che ebbe come
partito-guida quello bolscevico e come modello quello della
rivoluzione sovietica condotta al successo in Russia appena due
anni prima.
Secondo Lenin, il cui pensiero divenne il credo ideologico dei
nuovi partiti rivoluzionari in Europa, il comunismo si differenzia
dal s. revisionista, definito spregiativamente come
«opportunistico, eclettico e senza principi», come pure dallo
spontaneismo insurrezionale, perché non assume la coscienza di
classe come un prodotto spontaneo dello sviluppo capitalistico,
nel modo in cui portava a credere una «grossolana deformazione»
della teoria marxista. Solo gli intellettuali borghesi che ne sono
gli interpreti, e il partito come «avanguardia armata del
proletariato», possono trasmettere la consapevolezza del fine
supremo cui tende la storia dell’umanità, cioè la società
comunista. Questa ideologia, «onnipotente perché giusta», divenne
la dottrina ufficiale del partito rivoluzionario e dello Stato
socialista con il quale si identificava.
6. S. e welfare state
La storia delle idee e delle esperienze politiche del s. nel
secondo dopoguerra si intreccia e quasi si fonde con la
trasformazione dei sistemi democratici nella struttura del welfare
state. Lo Stato sociale non fu invero una invenzione socialista:
fu piuttosto la risposta in senso compatibile ad alcuni
principi-cardine del s. che i sistemi a capitalismo maturo
fornivano alle tensioni e alle sfide cui erano sottoposti i propri
equilibri sociali ed economici dai processi di produzione e
redistribuzione del reddito. Non a caso il prototipo moderno dello
Stato sociale si realizzò, dopo la crisi del 1929, negli Stati
Uniti con l’esperimento del New deal rooseveltiano e, nel secondo
dopoguerra, con l’impostazione teorica e legislativa data al
problema dei rapporti fra Stato e mercato da W.H. Beveridge in
Gran Bretagna, sotto l’influenza della macroeconomia di J.M.
Keynes, e in particolare dei suoi enunciati teorici relativi
all’espansione dell’offerta pubblica e delle politiche di spesa
finanziate attraverso il bilancio statale e la contribuzione
fiscale. In sostanza, il modello del welfare state scaturiva da un
compromesso politico fra i principi del mercato e le esigenze di
giustizia sociale avanzate dal movimento operaio.
Così, dopo quello con la democrazia, l’incontro fra s. e
liberalismo, che nel 19° sec. sembrava impossibile, riscattò del
tutto la gran parte dei partiti socialisti europei dalla matrice
dell’ortodossia marxista e dell’ideologia rivoluzionaria per
adattarli a un ruolo di pragmatismo politico. In altri termini, lo
Stato sociale poteva essere visto come una vera e propria
rivoluzione culturale, ovvero l’esito, fra l’altro, di un profondo
cambiamento degli atteggiamenti e degli orientamenti
etico-politici di un largo settore di opinione pubblica
socialista, che mirava a obiettivi di socializzazione del mercato
attraverso la programmazione economica, sostenendo nel contempo la
istituzionalizzazione delle forme di economia mista, diffuse ormai
in quasi tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale.
È in questo contesto che i partiti socialisti, diventati a tutti
gli effetti – compresi quelli della legittimazione e
dell’accettazione delle regole della democrazia politica ed
economica – partiti socialdemocratici, assunsero responsabilità di
governo, rompendo definitivamente i legami con le forze, per lo
più minoritarie, del s. (e comunismo) rivoluzionario. Sono
emblematici, in questo senso, alcuni episodi maturati durante gli
anni 1950: la rottura del patto fra Partito socialista italiano e
Partito comunista italiano dopo i fatti di Ungheria del 1956, la
svolta di Bad Godes;berg attuata nella Germania Federale dall’SPD
di W. Brandt, l’allontanamento dei socialisti francesi dall’orbita
di influenza del Partito comunista. Senza contare la collaudata
lealtà democratica del Partito laburista in Gran Bretagna e delle
socialdemocrazie scandinave e dell’Europa continentale, ormai da
tempo, a pieno titolo, forze della sinistra governativa nei
rispettivi paesi.
Naturalmente, sul piano delle idee e delle analisi teoriche, non
c’è pieno accordo sulle valutazioni del welfare state e sulla
stessa praticabilità storica del s. democratico e liberale. A
fronte di coloro che hanno sostenuto e in qualche modo teorizzato
questo modello, si contrappongono, da un lato, alcune posizioni di
sinistra rivoluzionaria, per cui le politiche di welfare non sono
che una razionalizzazione del sistema capitalistico in crisi e un
modo mascherato per consolidare il dominio della borghesia e,
dall’altro, quelle radicalmente liberiste, secondo le quali lo
Stato assistenziale corrode alle radici le strutture e i valori
della ‘società aperta’, perché esalta la tendenza alla
burocratizzazione e al collettivismo che sono i prodromi del
totalitarismo, vizio congenito e inestirpabile di qualsiasi
‘illusione’ socialista.
D’altra parte, quando, a partire dalla crisi mondiale
dell’economia negli anni 1970, si ruppe il nesso fra benessere e
sviluppo, fra accumulazione capitalistica ed equità sociale, che
era stato alla base del modello di welfare state; quando la
struttura della società impostata sulla tradizionale divisione in
classi cominciò a sgretolarsi; quando, alla fine degli anni 1980,
crollò anche l’ultimo baluardo di potenza socialista nell’Unione
Sovietica e negli Stati satelliti dell’Europa orientale, anche il
s. come programma politico e come progetto di società alternativa
iniziò a perdere credibilità e consenso fra le masse. Ma può pure
darsi, come sostiene M. Duverger, che il s., dopo aver provato a
entrarci, uscirà di nuovo dal seno del capitalismo attraverso un
processo storico lungo e faticoso per promuovere nuove imprese
rivoluzionarie. Come può darsi, secondo quanto afferma N. Bobbio,
che il suo destino sia ancora tutto da giocarsi nella prospettiva
di una meta, quella del contemperamento fra i principi di libertà
e di uguaglianza, tutt’altro che conseguita nella storia
dell’umanità.
7. Partiti socialisti italiani
La formazione di un partito socialista inteso quale espressione
politica del proletariato risale in Italia al 1892, con la
nascita, a Genova, del Partito dei lavoratori italiani.
Federazione di organizzazioni operaie, il nuovo partito adottò una
piattaforma programmatica di ispirazione marxista e teorizzò la
necessità della lotta politica per la conquista dei pubblici
poteri, distaccandosi definitivamente dalla dottrina sociale
mazziniana e dalle posizioni anarchiche e operaiste. Divenuto nel
1893 Partito socialista dei lavoratori italiani, nel 1895 assunse
il nome di Partito socialista italiano (PSI). In questi anni a
guidare il partito fu la maggioranza riformista, che aveva in F.
Turati il suo principale esponente; convinti della possibilità di
una instaurazione pacifica e graduale del s., nel quadro di un
generale progresso economico, i riformisti sostennero la svolta
liberale di G. Giolitti e privilegiarono l’attività parlamentare,
volta al conseguimento di una legislazione sociale più avanzata.
L’egemonia riformista fu contrastata dai sindacalisti
rivoluzionari, facenti capo ad A. Labriola ed E. Leone, che
esaltavano l’azione diretta del proletariato e respingevano ogni
forma di collaborazione con la borghesia. Impostisi al congresso
di Bologna del 1904, i sindacalisti rivoluzionari diressero, nello
stesso anno, il primo sciopero generale nazionale, ma negli anni
successivi subirono un progressivo declino, fino alla loro uscita
dal partito nel 1907. La maggioranza riformista entrò in crisi con
l’impresa libica (1911): alla linea di Turati, contrario alla
guerra, si oppose la componente di destra facente capo a I. Bonomi
e L. Bissolati, sostenitrice dell’intervento. Nel congresso di
Reggio nell’Emilia (1912), che vide la vittoria della sinistra
intransigente rivoluzionaria e l’ascesa di B. Mussolini, questo
gruppo fu espulso dal partito. Scoppiata la Prima guerra mondiale,
il PSI cercò di rimanere fedele alla propria tradizione pacifista
e internazionalista.
Le tensioni sociali del dopoguerra favorirono la crescita del PSI,
che nel 1919 triplicò la propria rappresentanza parlamentare;
nello stesso anno, al congresso di Bologna, si affermò una
maggioranza ‘massimalista’, guidata da G.M. Serrati, sostenitrice
della conquista rivoluzionaria del potere e dell’instaurazione
della dittatura del proletariato. Tale maggioranza entrò in crisi
in seguito ai contrasti emersi a proposito dell’occupazione delle
fabbriche (1920) e dei rapporti con la Terza Internazionale, cui
il PSI aveva aderito. Nel congresso di Livorno del gennaio 1921 il
gruppo dirigente respinse le condizioni poste da Mosca, rifiutando
di cambiare la denominazione del partito in comunista e di
allontanare i riformisti; in seguito a ciò, la corrente facente
capo ad A. Bordiga e il gruppo dell’Ordine nuovo di A. Gramsci
abbandonarono il PSI e fondarono il Partito comunista d’Italia.
L’anno successivo, la componente riformista, favorevole alla
collaborazione con i governi borghesi, diede vita al Partito
socialista unitario (PSU), guidato da G. Matteotti.
Il clima repressivo instaurato dal fascismo ridusse drasticamente
i margini di azione politica del PSI, che dopo aver partecipato
alla secessione aventiniana fu sciolto (1926). Trasferita la
propria organizzazione in Francia, il PSI nel 1930 si riunificò
con i riformisti del PSU (che dal 1926 aveva assunto il nome di
Partito socialista dei lavoratori italiani); nel 1934, infine, fu
siglato un patto d’unità d’azione con i comunisti volto a
combattere il fascismo. Ricostituito in Italia nel 1942 a opera di
O. Lizzadri e G. Romita, il PSI assunse l’anno successivo il nome
di Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), in
seguito alla confluenza in esso del Movimento di unità proletaria,
fondato nello stesso anno da L. Basso. Nel 1943 era sorto anche,
per iniziativa di M. Ruini e M. Cevolotto, il Partito democratico
del lavoro, di ispirazione riformista, che rimase in vita fino al
1947.
Caduto il fascismo, i socialisti fecero parte, con l’eccezione del
secondo governo Bonomi (1944-45), dei governi di unità nazionale
che avviarono la ricostruzione del paese. Negli anni successivi la
rottura del fronte internazionale antifascista e l’inizio della
guerra fredda suscitarono nuovi contrasti interni, in particolare
a proposito dei rapporti con il PCI. Alla componente di sinistra,
favorevole a una stretta unità d’azione con i comunisti e a una
accentuazione della connotazione classista del partito, si
contrappose l’ala guidata da G. Saragat, che nel 1947 diede vita
al Partito socialista dei lavoratori italiani. Nello stesso anno
il PSIUP riprese la denominazione di PSI e accolse al suo interno
la maggioranza del Partito d’azione; nel 1949 un altro gruppo uscì
dal PSI dando vita al Partito socialista unificato, che nel 1951
si fuse con il Partito socialista dei lavoratori italiani nel
Partito socialista democratico italiano (PSDI). Il PSI rimase
all’opposizione sino alla fine degli anni 1950.
La denuncia dello stalinismo operata dal XX congresso del PCUS e
l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) portarono alla rottura
del patto di unità d’azione fra PSI e PCI e a un riavvicinamento
delle diverse componenti del s. italiano. Nel 1963 i socialisti
entrarono a far parte del gabinetto presieduto da A. Moro,
inaugurando la stagione del centrosinistra. Dopo la scissione
della sinistra del PSI, che nel 1964 diede vita al Partito
socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), il processo di
avvicinamento tra PSI e PSDI culminò nel 1966 nella nascita del
Partito socialista unificato, che però ebbe vita breve, in quanto
nel 1969 si ricostituirono le due formazioni originarie. Il PSIUP,
dopo un iniziale successo elettorale, perse progressivamente
consensi e nel 1972 si sciolse.
Nella nuova situazione determinata dalla crescita della
conflittualità sociale e dalla progressiva crisi del
centrosinistra, la politica del PSI registrò un cauto spostamento
a sinistra e un riavvicinamento al PCI. Gli insoddisfacenti
risultati elettorali conseguiti nel 1972 e nel 1976, la crescente
polarizzazione del sistema politico italiano fra DC e PCI, la
linea del ‘compromesso storico’ perseguita da quest’ultimo,
favorirono l’emergere di una nuova leadership facente capo a B.
Craxi (segretario del PSI dal 1976). Negli anni successivi il PSI
avviò una politica volta a riequilibrare i rapporti di forza con
il PCI, ad affermare la propria autonomia (accentuando, anche sul
piano ideologico, il distacco dalla tradizione marxista) e ad
accrescere il proprio ruolo, esercitando un potere condizionante
sulla formazione delle maggioranze di governo. Nel 1983 Craxi
formò il primo esecutivo a presidenza socialista, mantenendo la
carica di primo ministro fino al 1987. Sul piano elettorale il PSI
vide un incremento dei consensi, mentre all’aumento del suo peso
politico si accompagnava un crescente coinvolgimento nei processi
degenerativi del sistema dei partiti che si sviluppavano in quegli
anni. Tale coinvolgimento contribuì in modo rilevante alla crisi
verificatasi nei primi anni 1990: l’implicazione del gruppo
dirigente socialista negli scandali di tangentopoli portò nel 1993
alle dimissioni di Craxi, mentre il PSI subiva un rapido declino.
Dopo la scissione di un gruppo facente capo a V. Spini, che fondò
la Federazione laburista, nel 1994 il congresso di Roma stabilì di
sciogliere il PSI. La diaspora dei suoi membri ha dato luogo negli
anni successivi a numerose formazioni.
Anche il PSDI, rimasto costantemente nell’area di governo, negli
anni 1990 fu coinvolto nella crisi legata a tangentopoli, subendo
un progressivo declino. Confluito (1998) nel partito dei
Socialisti democratici italiani, nel 2004 si è ricostituito come
PSDI, con G. Carta come segretario (al quale è succeduto nel 2007
M. Magistro). Nelle elezioni politiche del 2006 il PSDI si è
schierato con il centro-sinistra, mentre in quelle del 2008,
assieme all'UDC e alla Rosa per l'Italia, ha aderito alla
Costituente di centro.
S. della cattedra Espressione polemica, formulata dal liberista
tedesco H.B. Oppenheim nel libro Der Kathedersozialismus (1872),
rivolta a definire quel gruppo di professori e di studiosi, che,
fino all’inizio del 20° sec., svolsero in Germania una polemica
dottrinaria contro il liberalismo e le dure conseguenze
etico-sociali di esso, ponendo tra i doveri propri dello Stato
moderno l’attuazione di una politica sociale a favore dei ceti
meno abbienti. Nonostante il suo significato soprattutto teorico,
il s. della cattedra, attraverso il Verein für Sozialpolitik
(1872), contribuì allo sviluppo della legislazione sociale in
Germania. Fra i suoi rappresentanti più in vista G. von Schmoller,
A.H.G. Wagner, L.J. Brentano, K. Bücher, H. Herkner.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1998)
di Maurizio Degl'Innocenti
Socialismo
Sommario: 1. Il termine e il problema delle origini. 2. L'idea
societaria e il movimento operaio. 3. Il partito nazionale dei
lavoratori e l'integrazione politica. 4. L'affermazione della
socialdemocrazia nel secondo dopoguerra. Il 'socialismo nazionale'
nel Terzo Mondo. 5. Verso il XXI secolo. □ Bibliografia.
1. Il termine e il problema delle origini
Anche se sarebbe più corretto parlare di 'socialismi' (più che di
'socialismo') per la varietà e l'evoluzione, nel XIX e nel XX
secolo, delle dottrine e delle pratiche riassumibili sotto quel
concetto, in generale si può definire il socialismo come un
progetto e movimento di riforma della società nella libertà che,
finalizzato all'estensione dei diritti di uguaglianza politici e
sociali, pone al centro di una pratica solidaristica l'etica del
lavoro e della persona umana e privilegia finalità e comportamenti
collettivi contro l'esasperato utilitarismo individuale o di
gruppo proprio del mercato capitalistico.Le origini del socialismo
sono state cercate perfino nell'antichità classica, suggerendo che
l'idea della comunità fraterna sia stata elaborata sul modello dei
concetti di 'eunomia', o fruizione egualitaria dei beni, e
'isonomia', o uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla
legge. È stato pertanto rappresentato come protosocialista lo
stesso Platone, per le sue formulazioni di un generico comunismo
integrale all'indomani della guerra del Peloponneso. A maggior
ragione furono rintracciati prodromi di socialismo in talune
prospettive di rigenerazione collettiva presenti nel
confucianesimo, nel taoismo, nell'islamismo, e soprattutto nel
cristianesimo delle origini, prima che diventasse la religione
ufficiale del Sacro Romano Impero.
Anche se è controversa l'attribuzione al cristianesimo degli
aspetti egualitari del pensiero greco, è un fatto che l'immagine
del 'Gesù socialista' ebbe larga fortuna, in particolare tra
Ottocento e Novecento. E ancora, furono colte anticipazioni del
socialismo nell'invocazione dell'avvento del regno di Dio
attraverso la trasformazione dell'ordine sociale e soprattutto nei
movimenti millenaristici, per lo più a sfondo rurale, che con la
crisi del sistema feudale si formarono in Inghilterra, in Boemia e
in Westfalia, fino al movimento dei diggers e dei livellatori nel
XVII secolo. L'idea della città ideale, fondata su un comunismo di
ispirazione umanitaria ma ancor più religiosa, trovò espressione
nel XVI e nel XVII secolo nelle utopie di Tommaso Moro e di
Tommaso Campanella, e nel secolo successivo nelle teorie di
Gabriel Bonnot de Mably, di Morelly e dell'abate Jean Meslier.
Nella seconda metà del XVIII secolo l'idea di uguaglianza sociale
si secolarizzò con la proclamazione dei diritti dell'uomo in nome
della ragione, della quale il socialismo fu presentato come
l'evoluzione più logica sul piano sociale ed economico. Cosicché
la congiura degli Eguali di Babeuf del 1796 - descritta in un
saggio fortunato da Filippo Buonarroti nel 1828 - fu assunta come
inizio autentico del 'programma comunista' della soppressione
della proprietà privata e della comunione dei beni e del lavoro.
Babeuf impersonò la figura del cospiratore rivoluzionario capace
di guidare la massa con l'esempio e con la propaganda verso la
società nuova, inaugurando una concezione dell'élite
rivoluzionaria che avrebbe avuto seguaci in Blanqui, nell'ala più
radicale del cartismo inglese, in alcuni protagonisti della Comune
di Parigi e perfino in Lenin. D'altra parte, nelle istanze
libertarie ed egualitarie della Rivoluzione francese così come nel
tessuto associativo e sindacale inglese furono ricercate le basi
del socialismo democratico inteso come movimento di riforma nella
libertà, anche in riferimento ai valori della civiltà europea.
In termini cronologici, invece, le origini del socialismo vanno
collocate tra gli anni venti e trenta dell'Ottocento, vale a dire
quando le parole 'socialista' e 'socialismo' passarono dal
linguaggio teologico o giuridico, in relazione all'origine
contrattualistica o socialis dello Stato o alla socialitas umana,
al linguaggio politico e poi, dal decennio successivo, al
vocabolario comune per indicare una dottrina, un movimento, un
comune sentire rivolti alla costruzione di una nuova
organizzazione societaria o comunitaria del lavoro e, più in
generale, della vita collettiva, in contrapposizione al disordine
competitivo, all'individualismo egoistico, alla diseguaglianza
sociale e allo sfruttamento del lavoratore attribuiti al "vecchio
mondo immorale" (Owen) e/o al sistema capitalistico.
Contemporaneamente prendeva corpo l'auto- o etero-rappresentazione
del movimento, con la proiezione e l'interpretazione delle origini
dettate dai mutevoli indirizzi culturali e dalle circostanze
pratiche: l'esegesi dei 'profeti' e degli anticipatori va dunque
collocata solo in questo capitolo.
2. L'idea societaria e il movimento operaio
Il paese della prima rivoluzione industriale e della
liberalizzazione del mercato del lavoro fu anche quello di
incubazione del socialismo, termine con il quale vennero indicati
gli esperimenti pratici e le teorie di Robert Owen (1771-1858) -
un capitano d'industria di New Lanark in Scozia - e dei suoi
seguaci, per lo più in simbiosi con il concetto di associazione e
in alternativa a quello di individualismo. I presupposti si
ravvisano già, alla fine del Settecento, nelle denunce degli
effetti negativi dell'industrializzazione da parte di riformatori
agrari e sociali come William Ogilvie e Thomas Spence, e
soprattutto Thomas Paine; e non meno nelle istanze propugnate da
William Godwin a favore di un associazionismo fondato sui legami
di parentela e sul vicinato in opposizione all'autoritarismo dello
Stato. Owen, che derivò da Godwin (e soprattutto da Helvétius) la
teoria dell'influenza dell'ambiente sul carattere umano,
propagandò in A new view of society, or essays on the principle of
the formation of human character, 1813, e in New moral world,
1835-1844, un "sistema di cooperazione generale" o "nuovo mondo
morale" laico e solidale, fondato sul trinomio "verità, lavoro e
scienza". Teorizzò così la creazione di villaggi comunitari,
composti in media da 500-2000 persone, finanziati dalle parrocchie
e dalle contee con la tassa sui poveri, da capitalisti filantropi
o dalle stesse associazioni operaie; in tali villaggi il lavoro
sarebbe stato remunerato in base all'assunto, ricavato
dall'economia classica, che "l'unità di misura naturale del valore
è, in linea di principio, il lavoro umano". Dopo un primo
esperimento filantropico a New Lanark Owen ne promosse un altro
nel 1825 nell'Indiana, negli Stati Uniti, con la comunità di New
Harmony, che ebbe però risultati deludenti. Tornato in Inghilterra
nel 1829, si pose alla testa del movimento sindacale tentando
l'integrazione della società cooperativa di consumo con la trade
union, il cui sviluppo fu favorito dalle leggi del 1824-1825 sulle
associazioni operaie. Ma l'iniziativa più ambiziosa di Owen, la
Grand National Consolidated Trade Union, ebbe vita effimera e fu
disciolta nel 1834.
Negli anni venti e trenta l'owenismo ebbe comunque larga
diffusione anche a seguito di un'efficace propaganda (realizzata
con una media annua di due milioni e mezzo di opuscoli tra il 1839
e il 1841) e lasciò tracce così profonde da far individuare in
esso le origini delle attitudini pragmatiche e moderate del
movimento operaio inglese.Con Owen condivisero la teoria economica
classica del valore i cosiddetti 'socialisti ricardiani', che
ebbero un'influenza rilevante sullo stesso Marx. Tra essi Thomas
Hodgskin sostenne in Labour defended against the claims of capital
(1825) che in regime capitalistico la salvezza per i lavoratori
era nell'organizzazione autonoma di resistenza, la sola capace di
mettere in crisi la legge del 'prezzo naturale del lavoro' che lo
eguagliava alla pura sussistenza. Si accostarono al movimento
cooperativo e sindacale di ispirazione oweniana John Gray e
William Thompson, che fu il primo a usare il termine 'plusvalore'
(An inquiry into the principles of the distribution of wealth,
1824; Labour rewarded, 1827).La mancata concessione del voto ai
lavoratori nel 1832, il malcontento suscitato dalla legge sui
poveri del 1834 che negava il sussidio agli abili, e infine la
campagna per la riforma delle fabbriche promossa nei distretti
industriali furono all'origine, tra il 1836 e il 1848, del
cartismo, la più vasta agitazione di ceti operai e popolari che
abbia interessato l'Inghilterra (e l'Europa) nel XIX secolo.
Attraverso la petizione popolare esso si propose di ottenere una
'Carta del popolo', tra i cui punti più qualificanti era il
suffragio universale maschile. Il cartismo non manifestò caratteri
autenticamente socialisti anche se tra i promotori, per lo più
appartenenti allo strato superiore dei lavoratori qualificati e
autodidatti come i tipografi e i sarti, vi furono oweniani come
William Lovett e Henry Hetherington. Tuttavia esso favorì la presa
di coscienza di classe del movimento operaio inglese inaugurandone
le grandi agitazioni di massa, e diventò un punto di riferimento
essenziale nella tradizione democratica del socialismo europeo.
Fallita una prima agitazione nel 1838-1839, il movimento conobbe
una ripresa negli anni quaranta (il 'decennio della fame'), con un
rinnovato gruppo dirigente nel quale risultarono più influenti
socialisti e fautori della 'violenza fisica' (in alternativa alla
sola 'violenza morale') come James Bronterre O'Brien, Julian
Harney e l'irlandese Feargus O'Connor. Dopo il rigetto delle
petizioni del 1842 e del 1848 i gruppi cartisti residui assunsero
connotati più apertamente socialisti. O'Brien pubblicò la prima
parte di The rise, progress and phases of human slavery (1849), in
cui tracciò un parallelo tra la schiavitù antica di tipo
patrimoniale e quella moderna di tipo salariale, prospettando
nella rivoluzione, violenta o pacifica, il solo mezzo per ottenere
la libertà dell'uomo. Qualche rilievo ebbe la riorganizzata
National Charter Association, la cui direzione passò da O'Connor a
Ernest Jones e a Harney, con orientamento più marcatamente
internazionalista.
Nel 1850 Harney si adoperò perché i membri della Society of
Fraternal Democrats, creata nel 1846, si associassero al gruppo
dei blanquisti e di Karl Marx, di cui tradusse il Manifesto sul
"Red republican", per costituire la Lega universale dei comunisti
rivoluzionari, con le parole d'ordine "dittatura del
proletariato", "rivoluzione permanente", "comunismo" come "forma
finale di organizzazione della società umana". Negli anni
cinquanta però Jones ebbe maggiore forza all'interno del sindacato
e successivamente di un movimento di pressione che contribuì alla
riforma elettorale del 1867. Tra l'altro egli rilanciò la tesi
della nazionalizzazione della terra, già prospettata nel piano
agrario cartista dopo il 1842, per collocarvi la manodopera urbana
disoccupata ("colonie in patria").
In opposizione alle agitazioni per le 'le carte del popolo' del
1848, sorse il movimento del socialismo cristiano per iniziativa
di esponenti della Chiesa d'Inghilterra come Frederick Denison
Maurice e Charles Kingsley, e dell'avvocato John Malcolm Forbes
Ludlow, che aveva seguito in Francia le iniziative di Blanc e
Buchez. L'intento dei socialisti cristiani era quello di unire
fraternamente lavoratori e ceti abbienti mediante l'organizzazione
della produzione. Organo del movimento fu "Politics for the
people" (1848), poi "The Christian socialist" (1850-1851), e
infine "The journal of association" (1852). Mentre Ludlow fondò
piccole associazioni operaie di produzione, di ispirazione
cristiana, Thomas Hughes si dedicò al movimento sindacale e Edward
Vansittart Neale al movimento cooperativo laico, dirigendo a lungo
la segreteria della Cooperative Union, nell'obiettivo comune di
creare un movimento associativo di tipo nuovo che coinvolgesse,
attraverso il sindacato e la cooperazione, produttori e
consumatori.
La maggior parte delle cooperative locali e di produzione fallì, e
il cointeressamento del sindacato non fu soddisfacente, tanto che
il gruppo di Ludlow e Maurice rinunciò al cooperativismo per
dedicarsi alla politica sanitaria e alla istruzione operaia
fondando nel 1854 il Working men's college a Londra. Neale
continuò invece il suo impegno nella cooperazione di consumo,
nella quale era destinata al successo, a Manchester, la North of
England cooperative whole sale society, poi organismo commerciale
centrale per tutto il paese.Insieme all'Inghilterra fu la Francia
l'altro 'paese del socialismo', favorito dal precedente della
grande rivoluzione che aveva scosso il principio stesso di
proprietà e posto la democrazia politica come condizione di quella
sociale. Furono chiamati per primi 'socialisti' i seguaci di
Claude-Henri Saint-Simon (17601825), di origine nobile ma caduto
in rovina economicamente. A lui Émile Durkheim ha attribuito
addirittura la qualifica di 'padre del socialismo', nonché del
positivismo, ma già Mazzini aveva definito il saintsimonismo "la
più avanzata manifestazione dello spirito di novità che ha
soffiato nel nostro secolo" ed Engels gli aveva riconosciuto un
ruolo importante nella diffusione e nella sistemazione delle idee
del socialismo non strettamente economico.
In saggi come L'organisateur (1819-1820), Du système industriel
(1821-1822), Catéchisme des industriels (1823), Saint-Simon
sostenne che sarebbe stata la scienza, più che la politica, a
risolvere il problema sociale lasciato aperto dalla Rivoluzione
francese. E applicando al mondo morale il principio di attrazione
universale teorizzato da Newton nella fisica, attribuì
all'industrializzazione, se opportunamente coordinata, il
passaggio pacifico dall'età organica dei "secoli cristiani"
all'età "positiva". Al dominio degli oisifs, cioè dei ceti
parassitari (aristocratici, militari e redditieri), si sarebbe
così sostituito quello dei savants e degli industriels o
produttori, cioè dei possessori delle conoscenze scientifiche
nonché degli imprenditori e degli operai, impegnati insieme a
conseguire lo sviluppo nell'ordine e nell'unità armonica della
società, a beneficio fisico e morale della "classe la plus
nombreuse et la plus pauvre". Ne sarebbe conseguito un "nuovo
cristianesimo", non più basato sui dogmi teologici, bensì sulla
verità scientifica (Nouveau christianisme, 1825).
Tali principî furono ripresi, specialmente tra il 1830 e il 1832,
dagli eredi più diretti di Saint-Simon come Olinde Rodrigues,
Prosper Enfantin e Saint-Amand Bazard. Essi rappresentarono la
storia dell'umanità come l'evoluzione dall'antagonismo di forze
contrapposte e dallo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo
(schiavo-padrone nell'età antica, servo-signore nell'età
medievale, operaio-padrone nell'età borghese) all'associazione,
nella quale tale sfruttamento sarebbe stato eliminato. In
quest'ultima fase i mezzi di produzione sarebbero stati
socializzati con l'abolizione dell'eredità, mentre ai privati
sarebbe rimasta la proprietà dei beni di consumo. La
socializzazione dei mezzi di produzione non si sarebbe confusa con
la comunione dei beni, perché ciascuno avrebbe avuto secondo le
capacità e le opere (disuguaglianza nella ripartizione). Una
discussa evoluzione di tali teorie in senso tecnocratico e
misticheggiante si ebbe nel pensiero di Enfantin, mentre nei
discepoli della seconda generazione - come il tipografo
autodidatta e laico Pierre Leroux - si manifestò un più spiccato
interesse per le organizzazioni autonome di lavoratori. L'eredità
del sansimonismo correlò il socialismo in Francia (e in Belgio) al
positivismo, alleato della Scienza e del Progresso. Ma esso ebbe
rilevanza anche nella promozione di un ceto imprenditoriale nel
settore mobiliare e delle grandi infrastrutture negli anni del
Secondo Impero.
Per la sua fiducia nell'industrialismo Saint-Simon apparve come
l'anticipatore della teoria della società industriale e della
occupational community, elaborata poi da Durkheim, o, addirittura,
dell'economia pianificata.L'altro rappresentante della 'grande
utopia' socialista nel periodo della Restaurazione fu Charles
Fourier (1772-1837), proveniente da una famiglia di commercianti.
Nei saggi Théorie des quatre mouvements (1808), Traité de
l'association domestique et agricole (1822), Le nouveau monde
industriel et sociétaire (1829) e La fausse industrie (1835-1836),
Fourier teorizzò quattro stadi della storia umana (selvaggio,
patriarcale, barbarico e della civiltà); nella successione dalla
condizione razionale e 'passionale' (lavoro e amore) alla
civilisation ("il mondo alla rovescia") le istituzioni avrebbero
allontanato le passioni e il matrimonio soffocato l'amore, mentre
la coercizione sociale e l'organizzazione del lavoro avrebbero
reso quest'ultimo noioso, incerto e alienante e l'"anarchia
commerciale" avrebbe impedito al salariato di partecipare ai
benefici dello sviluppo. Alla civilisation Fourier contrappose la
società di Armonia, articolata in piccole comunità,
autosufficienti e pertanto sottratte alla competizione,
organizzate in falansteri, grandi edifici sociali costruiti per la
vita collettiva, dove il lavoro sarebbe stato svolto
alternativamente da gruppi divisi per età e genere, e retribuito
in relazione al rendimento, al talento e al capitale.
La nuova società pertanto sarebbe risultata dalla giustapposizione
di comunità autosufficienti e autonome, dedite prevalentemente
all'agricoltura, alla trasformazione dei prodotti della terra e
alla produzione dei beni di consumo. Per il suo rifiuto
dell'industrialismo fu attribuita a Fourier una visione arcaica,
ma la sua critica radicale del sistema capitalistico fu anche
valutata con favore. In tempi più recenti sono state riconsiderate
positivamente la sua denuncia degli aspetti repressivi della
civiltà, l'apertura alla vita istintuale - quasi un'anticipazione
della pedagogia moderna e perfino della cultura ecologica - nonché
la progettualità degli insediamenti, prefigurazione della moderna
urbanistica. La scuola societaria o fourieriana degli anni trenta
e quaranta ebbe solo in apparenza un'influenza minore di quella
sansimoniana. Vantò fortunati divulgatori come Victor Considérant
e conobbe un successo duraturo nella cooperazione, specialmente di
produzione, con Michel Derrion, Philippe Buchez e Jean-Baptiste
Godin.
Assai più eclettico fu il comunismo comunitario di Étienne Cabet
(1788-1856), nato da una famiglia di artigiani, pubblicista e
redattore del giornale "Le populaire", esule a Londra dopo il
1834. Nel noto saggio Voyage en Icarie (1842), ispirato all'Utopia
di Tommaso Moro adattata a un ambiente industriale, si pronunciò
per l'abolizione della proprietà privata e per il lavoro
obbligatorio in grandi aziende pubbliche meccanizzate, coniando lo
slogan fortunato: "Tutti hanno il dovere di lavorare lo stesso
numero di ore al giorno, secondo i propri mezzi, e il diritto di
ricevere una parte uguale di tutti i prodotti, secondo i propri
bisogni".
Negli anni quaranta in Francia (dove Cabet era tornato nel 1841)
'comunismo' era in qualche modo assimilato a cabetismo o a
icarianesimo, anche nell'ultima versione ispirata a una sorta di
cristianesimo primitivo (Mon crédo communiste, 1845; Le vrai
christianisme suivant Jésus-Christ, 1846).La questione della
centralità del 'diritto al lavoro' nella società moderna fu
sollevata soprattutto da Louis Blanc (1811-1882), autore di
L'organisation du travail (1839, 1848¹⁰). Critico nei confronti
delle ipotesi comunitarie, egli attribuì allo Stato, reso "amico
del popolo" con il suffragio universale, il coordinamento di un
sistema di aziende pubbliche: gli ateliers sociaux, autonomi nella
gestione, finanziati da un prestito statale gratuito, e resi più
competitivi delle imprese private, con il cointeressamento operaio
alla produzione. Nella rivoluzione del 1848 Blanc assunse una
posizione di rilievo, diventando presidente della Commissione del
Lussemburgo, ma gli ateliers nationaux, simili alle fabbriche di
carità, non ebbero fortuna. Il fallimento di tale indirizzo
determinò un sostanziale allontanamento dei lavoratori dall'idea
repubblicana; lo stesso Blanc fu esule in Inghilterra e quando
tornò in Francia assunse una posizione defilata, tanto da non
aderire alla Comune.
E tuttavia nella storia del socialismo (grazie anche all'influenza
cartista) egli, pur non essendo stato un dottrinario, fu
considerato come il primo teorico dell'interventismo statale e per
la sua visione graduale e pacifica della via al socialismo fu
ritenuto perfino l'anticipatore della socialdemocrazia.Agli
antipodi della corrente 'statalista' o 'governativa' rappresentata
da Blanc si trova l''anarchismo positivo' di Pierre-Joseph
Proudhon (1809-1865). Egli riteneva il mondo fondato su principî
universali di contraddizione o antagonismo, e di interazione o
reciprocità, la cui espressione più compiuta era da individuarsi
nella famiglia e, sul piano produttivo, nel libero scambio delle
merci regolato dai valori creati dal lavoro, secondo la
teorizzazione dei socialisti ricardiani e di Owen. In una serie di
saggi - dal celebre Qu'est-ce que la proprieté? (1840) dove definì
la proprietà un furto, a Système des contraddictions économiques,
ou philosophie de la misère (1846), De la justice dans la
révolution et dans l'Église (1858), De la capacité politique des
classes ouvrières (1865) - teorizzò un'organizzazione dal basso,
autogestita sul piano economico e amministrativo da individui,
gruppi e comuni organizzati su basi federative, ma con il sostegno
di una banca popolare, nella quale le retribuzioni fossero
proporzionali al successo personale o alla composizione della
famiglia. Rifiutando la proprietà pubblica dei mezzi di
produzione, compresa la terra, Proudhon delineò una società a
carattere artigiano e contadino (dal cui ambiente egli stesso
proveniva), basata sui piccoli produttori e sulla conservazione
della famiglia patriarcale, in cui la donna avesse un ruolo
subordinato.
E tuttavia egli e i suoi seguaci non solo ebbero largo successo in
Francia negli anni cinquanta e sessanta, ma rimasero i referenti
più accreditati di tutte quelle correnti del movimento socialista
che si richiamarono all'antiautoritarismo, al mutualismo e al
federalismo; in questo ambito Proudhon fu considerato uno dei
padri del movimento anarchico o anarco-sindacalista. La polemica
stessa in cui lo impegnarono Marx ed Engels contribuì a rafforzare
tale opinione.Al di fuori dell'Inghilterra e della Francia, cioè
dei paesi delle rivoluzioni borghesi (industriale e politica), gli
sviluppi del socialismo furono più tardivi e stentati. In
Germania, il socialismo si diffuse inizialmente solo in ambito
culturale e tra gli esuli politici. Così, dalla metà degli anni
quaranta prese corpo il movimento del 'vero' socialismo, o
socialismo tedesco, come corrente filosofica della sinistra
hegeliana, i cui esponenti più noti furono Karl Grun e Moses Hess,
mentre nel 1834 era stata fondata a Parigi una Lega dei proscritti
(Bund der Geatchen), di tendenza democratico-repubblicana,
trasformatasi nel 1836 in Lega dei giusti e infine, nel 1847 a
Londra, in quella Lega dei comunisti che commissionò a Marx nel
1847 la redazione del Manifesto, uscito nel febbraio dell'anno
successivo. Influenzati dalla sinistra hegeliana e dalla
frequentazione degli esuli, a contatto con la classe operaia
inglese ma in una prospettiva internazionalista, Karl Marx
(1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) enunciarono una
concezione materialistica della storia vista come il succedersi di
fasi segnate dall'antagonismo di due classi in base ai rapporti di
produzione. L'esasperazione delle antinomie, in ultimo tra
borghesia e proletariato, avrebbe infine prodotto una rivoluzione
dalla quale, per la prima volta nella storia dell'umanità, sarebbe
scaturita una società senza classi, in cui "il libero sviluppo di
ciascuno fosse la condizione per il libero sviluppo di tutti".
Pur prevedendo in tempi brevi la socializzazione dei mezzi di
produzione e di scambio, Marx si astenne dal fornire un quadro
esaustivo dello stadio finale, ammettendo tuttavia la necessità di
misure giuridiche ed economiche corrispondenti alla "costituzione
del proletariato in classe dominante", e si limitò a definire
"socialista" la fase di transizione al comunismo; nel 1852
introdusse la nozione di "dittatura del proletariato" poi
precisata dopo la Comune. Ai comunisti assegnò la funzione di
'avanguardia' dei partiti operai nella lotta contro la borghesia
dove questa fosse dominante, e in alleanza con essa, contro
l'aristocrazia, nei paesi meno sviluppati. Il Manifesto fu
nell'immediato privo di influenza pratica, ma la ebbe enorme in
seguito (fu definito "il vangelo del socialismo moderno"), come
parte qualificante di un corpus di scritti - fra cui il primo
volume del Kapital, tirato in mille copie nel 1867 esaurite solo
nel 1871 (il secondo e il terzo volume furono editi a cura di
Engels nel 1885 e nel 1894; il quarto a cura di Karl Kautsky nel
1895) - che era destinato a incidere profondamente sul movimento
socialista, a partire dagli anni ottanta e per oltre un secolo.
Marx definì "scientifico" il suo socialismo per differenziarlo da
quello, precedente al Manifesto, che chiamò "utopico" ritenendo
quest'ultimo indirizzato alla ricerca di rimedi sociali "al di
fuori del movimento operaio" e prescindendo dalla questione del
potere, nel presupposto che di volta in volta la scienza, l'atto
di volontà o addirittura il comportamento onesto e filantropico
potessero dar vita a nuovi sistemi sociali più o meno fantasiosi.
L'affermazione successiva del marxismo all'interno del movimento
operaio contribuì a consolidare questa immagine negativa del
socialismo precedente al Manifesto, fino a inglobarvi le posizioni
di Blanc e perfino di Proudhon. La periodizzazione e le categorie
interpretative di Marx divennero poi di uso comune. Né cambiò la
sostanza il fatto che in sede storiografica si tentasse una
correzione parziale di tale valenza negativa introducendo la
categoria di 'protosocialismo', che si voleva calato nella realtà
del proprio tempo, limitando invece la qualifica di 'utopismo'
alle teorie e alle pratiche cooperativistiche-associative che
tendevano alla progressiva giustapposizione di realizzazioni
molecolari, per riscrivere dal basso l'intera teoria delle
relazioni sociali; oppure ancora distinguendo tra gli utopisti per
eccellenza, o 'grandi utopisti', cioè i capiscuola come
Saint-Simon, Owen, Fourier, Cabet, e i discepoli, più solleciti
alle sperimentazioni. In realtà, i socialisti cosiddetti utopici
del XIX secolo dovrebbero essere piuttosto considerati dei
riformatori sociali che, al di là dei progetti ambiziosi e dei
tentativi falliti, non mancarono di lasciare tracce profonde nella
cultura e nella realtà politica, associativa, mutualistica,
sindacale e cooperativa del tempo, spesso con risultati duraturi.
Gli stessi Marx ed Engels non possono essere considerati fuori da
questo contesto.Nel trentennio successivo al 1848, col favore di
una fase economica propizia e, fino al 1873, del rialzo dei
prezzi, si registrò una forte spinta all'organizzazione sindacale
(la 'prassi operaia') mediante la quale furono erette le prime
difese contro lo sfruttamento generalizzato della manodopera e
conseguiti i primi elementi di una legislazione sociale nonché,
sia pure tra forti ostacoli, la garanzia del diritto di coalizione
(in Inghilterra fu rilevante al riguardo l'esito positivo dello
sciopero degli edili londinesi nel 1859). Il movimento dei
lavoratori diventò un nuovo soggetto, riconosciuto.
La testimonianza più significativa fu la costituzione della
Associazione Internazionale dei Lavoratori (o Prima
Internazionale) il 28 settembre 1864 alla St. Martin Hall di
Londra, dopo gli incontri promossi dai sindacati inglesi e dalle
società operaie francesi in occasione dell'Esposizione
internazionale di Londra nel 1862. Negli statuti e soprattutto nel
preambolo (Indirizzo alla classe operaia), a cui dette un
contributo decisivo Marx, si affermò che l'emancipazione della
classe operaia doveva essere opera della classe stessa, a
cominciare dalla liberazione dalla soggezione economica, fonte di
ogni servitù. Tuttavia, pur nel condiviso clima di solidarietà
internazionale, vi si palesarono subito prospettive assai diverse:
i sindacati inglesi ricercavano garanzie contro il crumiraggio,
mentre le società francesi mettevano in primo piano il mutualismo
e il sistema del credito gratuito, e quelle belghe il libero
pensiero. I primi congressi (Ginevra, 1866; Losanna, 1867) furono
dominati dalla delegazione francese, nella quale era forte
l'influenza dei proudhoniani contrari alla pratica dello sciopero.
La sconfitta del proudhonismo (congresso di Bruxelles, 1868)
coincise con la piena legittimazione della lotta di resistenza e
soprattutto con la svolta a favore della collettivizzazione, per
la quale risultò decisivo l'appoggio del belga César de Paepe
(1842-1890).
Al successivo congresso di Basilea (1869) fu riaffermato il
duplice obiettivo della collettivizzazione della terra e della
promozione delle 'società di resistenza nei vari corpi di
mestiere'. Intanto una nuova e più agguerrita opposizione al
marxismo veniva da parte dei seguaci dell'esule russo Michail
Bakunin (1814-1876), che negarono al Consiglio generale di Londra
la prerogativa di imporre disciplina e politica alle sezioni
nazionali e locali, per le quali reclamarono invece la piena
autonomia. Il contrasto tra Bakunin e Marx fu dirompente e aprì
tra socialisti (e poi comunisti) e anarchici una divaricazione che
non si sarebbe più ricomposta. Il primo predicò l'abolizione
dell'ereditarietà dei beni, laddove il secondo puntò sulla
soppressione della proprietà privata in quanto tale; l'uno concepì
i partiti operai come fattori di burocratizzazione e di
subordinazione allo Stato per il tramite della legislazione
sociale, l'altro li considerò essenziali nella via al socialismo.
Ma il dissenso fondamentale fu su due punti ulteriori: il primo
era rappresentato dal problema dello Stato, che i seguaci di
Bakunin volevano distruggere in tutte le sue forme (come del resto
la religione, per l'autoritarismo dogmatico), non escludendo
neppure il ricorso al terrorismo, laddove nella strategia marxista
la conquista del potere, per via rivoluzionaria o democratica,
rimase obiettivo centrale; il secondo punto riguardava
l'individuazione dei soggetti rivoluzionari, in quanto gli
anarchici coinvolgevano anche gli strati più emarginati della
società, come i contadini poveri, gli artigiani in rovina e gli
studenti, mentre i socialisti puntavano sugli operai, specialmente
di fabbrica, come classe generale.
La tradizione bakuniana o anarchica o libertaria trovò consensi
più diffusi in Spagna, in Italia, nella Svizzera francese, nel
Belgio vallone, ma non sarebbe corretto vedere in ciò l'aspetto
qualificante di un presunto socialismo mediterraneo.Il problema
dello Stato si pose in maniera tanto chiara quanto drammatica nel
marzo 1871 con la Comune di Parigi, una sollevazione popolare più
o meno spontanea, dettata anche da motivi patriottici - forse
l'ultima 'giornata' nella tradizione rivoluzionaria del 1789 -
alla quale parteciparono ceti operai, artigiani e
piccolo-borghesi. L'Internazionale vi fu estranea e manifestò la
sua solidarietà solo a eventi accaduti. Bakunin fu sollecito a
cogliervi "la negazione audace e netta dello Stato" e, per
l'"azione spontanea delle masse", "l'istinto socialista". Marx la
interpretò come il primo esperimento di "governo della classe
operaia", ma ne ricavò anche l'ammonimento a non spezzare l'unità
della nazione, "potente fattore della produzione sociale".
Nonostante la brevità dell'esperienza (settantadue giorni) e la
modestia delle realizzazioni socialiste, la Comune (con la
precedente sconfitta francese a Sedan) ebbe conseguenze notevoli
in Europa e in seno all'Internazionale stessa, anche se è
eccessivo affermare che rappresentò la discriminante tra 'il
socialismo di ieri' e quello 'di oggi'. Essa accelerò la spinta
tradeunionistica dei sindacati inglesi e contribuì a trasferire il
centro di gravità del movimento socialista dalla Francia alla
Germania. Nell'immediato, il fallimento della Comune esasperò i
contrasti tra i seguaci di Marx e di Bakunin, e se il primo riuscì
a far espellere il secondo al congresso dell'Aja del 1872, fu
tuttavia costretto a spostare la sede dell'Internazionale a New
York decretandone così la fine (1876). Pur nella brevità e nelle
vivaci polemiche che ne caratterizzarono la vita, l'Internazionale
fornì un'importante esperienza di impegno intorno a una concezione
di lotta più definita e omogenea, contribuendo a radicare
l'identità collettiva, tanto che tutte le successive analoghe
iniziative ne rivendicarono la continuità.
3. Il partito nazionale dei lavoratori e l'integrazione politica
A partire dalla fine del XIX secolo le vicende del socialismo
furono contrassegnate dall'affermazione e dalla vitalità di due
soggetti apparentemente distanti o addirittura antagonistici, ma
in realtà connessi: la classe operaia e la nazione. L'interesse
della Seconda Internazionale, costituita nel 1889 da partiti
nazionali per o della classe operaia, si volgeva a entrambi.La
costituzione del partito operaio e/o socialista, sollecitata
dall'allargamento del suffragio e dall'insorgente società di
massa, rifletteva innanzitutto la grande frattura sociale tra
manodopera e capitale, tra ceti subalterni e leaderships
tradizionali e/o borghesi, in una fase di rafforzamento dello
Stato-nazione, di integrazione del mercato e di un più marcato
ruolo dello Stato nell'economia e nella società. Per certi versi
essa si poneva come punto d'approdo dell'evoluzione del
proletariato dalla condizione di 'rango inferiore', di 'plebe', di
'gente comune' o di 'ceto lavoratore operaio' a quella di 'classe
lavoratrice', il che aveva posto in primo piano il rapporto tra
coscienza e organizzazione, quest'ultima intesa anche come
completamento della personalità del singolo. Il partito, insieme
al sindacato (generale e centrale), fu così la risposta al nuovo
tipo di conflittualità sociale determinatosi alla fine del secolo,
che reclamava da un lato modalità più complesse e 'aperte', e
comunque più organizzate - la pratica diffusa dello sciopero, il
richiamo alle otto ore lavorative reso ricco di suggestioni dalla
festa del primo maggio, il rivendicato controllo del collocamento,
la più generale definizione del contenzioso, a cominciare dal
contratto collettivo (in Inghilterra dal 1890) -, mentre
dall'altro richiedeva iniziative più decisamente orientate al
compromesso sociale (legislazione sociale, uffici del lavoro,
istruzione).
L'affermazione e l'articolazione concreta del partito, dunque,
dipesero dal congiunto rapporto con i centri propulsivi del
sistema capitalistico e con la democratizzazione di quello
politico. La perifericità rispetto ad essi facilitò l'affermazione
del partito-avanguardia presentatosi come tale per la classe, per
di più intesa come classe generale, guida all'istruzione e al
reclutamento, ma ancor più alla rivoluzione; in determinate
condizioni ciò sollecitò la subordinazione dello Stato al partito
e, successivamente, la sua trasformazione in regime. Viceversa, la
vicinanza determinò l'evoluzione del partito socialista in un
partito elettorale di massa, che si definì nella mobilitazione e
nell'inquadramento di vasti strati popolari ai margini o al di
fuori della cittadinanza politica tradizionale, assumendo da
allora un ruolo importante nell'evoluzione dei sistemi
democratico-rappresentativi e in ogni caso svolgendo un'accentuata
funzione di socializzazione politica nella propaganda di nuovi
fini collettivi. A tale scopo il partito si indirizzò all'interno
verso la creazione di un vasto apparato - in buona parte
finanziato dalle quote sociali e articolato in sezioni particolari
nonché in comitati o uffici a struttura gerarchico-piramidale - e
all'esterno verso l'interrelazione con istituzioni o associazioni
di sostegno e collaterali.
Nella tipologia del 'grande partito', classista ma aperto alla
confluenza di ceti piccolo- e medio-borghesi, che rimase la più
emblematica del socialismo europeo, alla proiezione elettorale si
sovrapposero l'attitudine educativa, che esaltava la funzione
importante della dottrina nel radicamento dell'obbligazione
politica, ma anche l'attività di sostegno a strutture di
solidarietà e a organismi vari di partecipazione. Come luogo
dell'aggregazione e della mediazione di nuovi interessi sociali, o
della canalizzazione delle tensioni e dunque
dell'istituzionalizzazione della 'nuova' conflittualità, esso finì
per ricoprire un ruolo essenziale ai fini della
stabilizzazione/destabilizzazione del sistema
politico-istituzionale, delineando nel complesso, ma non in modo
lineare e senza soluzioni di continuità, un'evoluzione da
'associazione' e 'movimento' a 'istituzione', da 'forma' esterna
ed extraparlamentare a funzione centrale del sistema politico
rappresentativo di massa, da istituto a fondamento classista a
partito dello sviluppo sociale. Infine, facendo riferimento
specifico alla fase di insediamento, decisiva per il codice
genetico di un partito, occorre sottolineare che il partito
'secondo internazionalista' rappresentò il superamento definitivo
del settarismo cospirativo e del corporativismo e del regionalismo
'primo internazionalista' assumendo, nella separazione dagli
anarchici e poi dai sindacalisti rivoluzionari, il metodo
democratico come mezzo per la piena espressione del movimento
operaio, e ne collocò la prospettiva in una dimensione politica
nazionale, portando con ciò la lotta a ridosso dello Stato per la
conquista e la gestione del potere. Inoltre, identificando nella
classe operaia la protagonista consapevole della propria
emancipazione, autonoma e distinta dalle altre forze politiche, il
partito socialista postulava anche un collegamento - e in taluni
casi una vera e propria divisione dei compiti - con il sindacato,
centro di organizzazione dei lavoratori intorno alla difesa di
interessi corporativi.
La Seconda Internazionale nacque appunto con questa duplice anima:
politica (e democratica) e corporativo-operaia. E tale duplice
registro fu adottato da tutti i partiti operai o socialdemocratici
che si costituirono nel giro di una quindicina d'anni, adattandosi
alle tradizioni e agli ambienti, con il criterio dell'adesione ora
collettiva, ora individuale. Nei partiti della Seconda
Internazionale fu rituale la professione di marxismo in vista
della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, ma
furono ugualmente importanti la pratica riformista e la
partecipazione alla lotta parlamentare e al governo delle
amministrazioni locali, tanto che i consensi elettorali furono
presi a misura del successo politico. Dopo la fine delle ipotesi
catastrofiche di fine secolo e i successi elettorali e sindacali
dovuti a una congiuntura favorevole, l'alba del nuovo secolo
sembrò quella dell''epoca socialdemocratica'. Sulla spinta
dell'industrializzazione e dei progressi scientifici,
dell'urbanesimo e della diffusione dell'istruzione, il vecchio
mondo aristocratico e individualista parve destinato a crollare di
fronte ai crescenti successi del socialismo il cui edificio, come
si teorizzò al congresso dell'Internazionale a Stoccarda nel 1907,
poggiava saldamente su tre pilastri: il partito, il sindacato e il
movimento associativo e cooperativo.Il primo partito nazionale fu
fondato in Germania, dove il mondo del lavoro si andò organizzando
intorno all'Arbeitsverein con obiettivi tradeunionistici e
culturali.
Proprio rivendicando l'autonomia dei lavoratori dalle formazioni
politiche borghesi, nel presupposto che a essi spettasse il
rinnovamento etico e sociale di uno Stato hegelianamente inteso
come pernio della vita pubblica, fu creato nel 1863 a Lipsia da
Ferdinand Lassalle (1825-1864) l'Allgemeiner Deutscher
Arbeiterverein (ADAV). Lassalle considerò la borghesia un'unica
massa reazionaria e, richiamandosi alla 'legge ferrea dei salari',
giudicò inutili gli scioperi per proporre piuttosto la creazione
di cooperative di produzione che competessero efficacemente sul
mercato con le imprese capitalistiche, così da assicurare in modo
pacifico e legale il passaggio a un nuovo ordine sociale conforme
a giustizia, con la garanzia di uno Stato conquistato
politicamente con il suffragio universale e diretto. Grande
comunicatore, egli diventò assai popolare tra i lavoratori
tedeschi, con forme di culto personale, finché non venne ucciso in
duello nel gennaio 1864. Gli succedette alla presidenza del
partito l'avvocato Johann Baptist von Schweitzer, direttore di
"Der Sozial-Demokrat", il quale pur nella confermata fedeltà allo
Stato prussiano fu più sensibile all'azione sindacale. In
contrapposizione ai lassalliani nel 1869 fu fondata a Eisenach la
Sozialdemokratische Arbeiter Partei (SDAP), che si richiamò
all'Internazionale affermando la simultaneità dell'azione politica
con quella sindacale. Ne furono promotori il tornitore autodidatta
August Bebel (1840-1913), futuro autore del celebre Die Frau und
der Sozialismus (1883), che ebbe una cinquantina di edizioni, e il
pubblicista emigrato Wilhelm Liebknecht (1826-1900), i quali dalle
iniziali posizioni antiprussiane per la creazione della 'grande'
Germania democratica in alleanza con le forze borghesi, si erano
gradualmente avvicinati a Marx, anche per la frequentazione delle
sezioni tedesche dell'Internazionale fondate da Philipp Becker.
Nel 1875 i due partiti si fusero al congresso di Gotha, con un
programma che fu criticato da Marx per le concessioni fatte ai
lassalliani sui concetti della 'fratellanza dei popoli', della
'legge ferrea' dei salari, della borghesia come unica massa
reazionaria, della cooperazione di produzione.
Le critiche di Marx non ebbero influenza pratica (l'ebbero semmai
nello sviluppo successivo del pensiero leninista).
L'organizzazione del partito, finalmente democratico e sociale, ne
uscì consolidata, tanto che nelle elezioni del 1877 conseguì il 9%
dei voti, mentre le iniziative a favore della cultura operaia e la
stessa unità sindacale risultarono fortemente stimolate. Dal 1878
il partito subì la legislazione antisocialista voluta da Bismarck,
che ne proibì giornali, sedi, congressi, ma ne ammise la
partecipazione alle elezioni, cosicché rimase in piedi una
struttura per fiduciari. In ogni caso restò più che mai attivo il
movimento sindacale: l'imponente sciopero dei minatori da esso
organizzato nel 1889 contribuì a far abrogare la legislazione di
emergenza (1890). Alle successive elezioni i socialdemocratici
ottennero un milione e quattrocentomila voti (oltre il 20%)
acquistando un'autorità indiscussa in tutto il movimento
socialista internazionale. Grande influenza ebbe anche la rivista
teorica "Neue Zeit" diretta dal 1883 al 1917 da Karl Kautsky
(1854-1938), al quale fu attribuito, con la paternità delle
categorie 'marxisti' e 'marxismo', un ruolo fondamentale
nell'assunzione del pensiero di Marx a 'dottrina ufficiale del
partito', anche e soprattutto ai fini della egemonia politica e
ideologica nelle lotte interne.
Il concetto stesso di 'socialdemocrazia', nato nel senso della
tradizione del 1848, acquisì definitivamente la duplice valenza
classista e 'democratico-sociale', cioè di 'completo dominio del
popolo', contro lo sfruttamento e contro il privilegio, per
l'eguaglianza e per la libertà. Il programma del partito approvato
al congresso di Erfurt del 1891, preparato da Kautsky con il
consenso di Engels, indicò gli obiettivi della socializzazione dei
mezzi di produzione e di scambio, dell'utilizzazione di ogni
strumento di lotta legale e in particolare di quella parlamentare
per l'emancipazione dei lavoratori, del sostegno alla lotta di
resistenza sindacale. Ne uscì delineato così un partito di classe
e di massa. Il programma di Erfurt diventò un punto di riferimento
essenziale per tutti i partiti della Seconda Internazionale, di
cui la socialdemocrazia tedesca fu l'asse portante: come disse
Engels, essa "appariva come la massa più numerosa, più compatta,
la forza d'urto decisiva dell'esercito proletario internazionale".
In effetti, nel 1912-1913 il sindacato, diretto da Karl Legien,
vantò due milioni e mezzo di iscritti; nelle elezioni del
Reichstag del 1912 la SPD ottenne oltre quattro milioni di voti
(34,8% del totale) e 110 seggi; i membri del partito, fondato
sulle sezioni territoriali e finanziato dalle quote individuali,
raggiunsero un milione.
Ma nel sistema politico-istituzionale imperiale tale forza restò
politicamente 'isolata' o 'separata', cosicché, al fine di
superare tale isolamento in connessione al tramonto delle ipotesi
catastrofiche, già a cavallo del secolo non mancarono posizioni
volte alla 'revisione' del programma, che mettevano in discussione
alcuni punti centrali del pensiero di Marx, in particolare sulla
proletarizzazione dei ceti medi e sulla concentrazione progressiva
delle ricchezze, sullo Stato come strumento operativo nelle mani
delle classi dirigenti e sulla dittatura del proletariato. Se ne
fecero interpreti Georg von Vollmar (1850-1922), favorevole al
'riformismo di Stato' e alla piccola proprietà contadina, e
soprattutto Eduard Bernstein (1850-1932), nutrito di filosofia
neokantiana e vicino alla scuola economica marginalista, che in
Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der
Sozialdemokratie (1899) propose di trasformare la SPD in un
"partito di riforme socialiste e democratiche" in quanto "erede
del liberalismo per il suo contenuto spirituale", confutando la
tesi della proletarizzazione dei ceti medi e della dittatura del
proletariato ("il movimento è tutto"). Difesero l'ortodossia
marxista Bebel e Kautsky, autore di Die Agrarfrage (1899),
Bernstein und sozialistische Programm (1899), Die soziale
Revolution (1902) e Der Weg zur Macht (1909).
Negli anni successivi, dopo la prima Rivoluzione russa del 1905 e
soprattutto dal 1910, emersero critiche alla 'ortodossia di
centro' anche da sinistra, in particolare da Herman Goster, Anton
Pannekoek, Alexander L. Helfand detto Parvus, e soprattutto da
Rosa Luxemburg (1870-1919) secondo la quale, nell'ipotesi di una
crisi rivoluzionaria determinata dalle presunte contraddizioni
dell'età dell'imperialismo, occorreva piuttosto educare la classe
operaia perché si rendesse spontaneamente protagonista della
rivoluzione di massa, evitando così anche il pericolo
dell'autoritarismo presente sia nel partito burocratico che nelle
leaderships professionali (come quelle, rivoluzionarie, teorizzate
da Lenin nel Che fare? del 1902). La SPD respinse ufficialmente il
revisionismo al congresso di Dresda del 1903, ma la prassi
sindacale e di tipo parlamentare portò ugualmente a una crescente
integrazione politica e sociale, sancita dal voto favorevole ai
crediti di guerra nell'agosto 1914. Per taluni però fu
un'integrazione 'in negativo' perché, al di là dei miglioramenti
materiali per i lavoratori, non fu tale da superare le condizioni
politiche discriminatorie messe in atto dalle forze conservatrici
dell'Impero, cosicché la socialdemocrazia avrebbe cercato e
coltivato la sopravvivenza come 'corpo separato' o 'Stato nello
Stato', nel culto dell'organizzazione e nella vigilanza
sull'ortodossia dottrinaria. In ogni caso nell'evoluzione da
partito 'della rivoluzione' a partito dello sviluppo e
'nazionale', la SPD riuscì a legarsi stabilmente alla classe
operaia e a radicare nella società l'immagine di una forza di
progresso.
Sul modello tedesco di partito socialdemocratico di massa si
riorganizzò la socialdemocrazia austriaca, al congresso di
Hainfeld del 1889, sotto la guida di Victor Adler (1852-1918).
Saldamente insediata nelle aree industriali, essa fu protagonista
di lotte democratiche di massa, come quella del 1905 per il
suffragio universale, ottenuto infine nel 1907, e assunse
posizioni di grande originalità sul problema nazionale, fin dal
congresso di Brünn del 1899, quando fu posto l'obiettivo della
trasformazione dell'Austria in "Stato democratico federale delle
nazionalità", con ampi riconoscimenti all'autonomia personale e
culturale, su cui scrissero Karl Renner (1870-1950) in Der Kampf
der oesterreichischen Nationen um der Staat (1902) e Otto Bauer
(1882-1938) in Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie
(1907).La questione nazionale e con essa quella della
democratizzazione dello Stato furono al centro anche della storia
del socialismo belga, diviso in fiammingo e vallone. Nel 1884 fu
fondato il Parti Ouvrier Belge (POB), in cui confluivano circoli,
sindacati e cooperative. L'obiettivo politico più rilevante fu la
conquista del suffragio universale, per il quale il partito
promosse grandi scioperi nel 1886 e nel 1892. Con l'allargamento
del suffragio il POB ottenne, nel 1894, 27 deputati, tra i quali
Édouard Anseele, in rappresentanza dell'area socialista fiamminga
che ruotava intorno al Vooruit di Gand (cooperativa di consumo),
ed Émile Vandervelde (1866-1938), prolifico divulgatore del
socialismo positivista.
In Francia il movimento socialista si riprese molto tardi dalla
sconfitta della Comune, senza più recuperare tuttavia il ruolo
propulsivo dei decenni precedenti. Comunque esso costituì pur
sempre un terreno di incubazione politica di notevole interesse,
sollecitato dal tradizionale rapporto con la Repubblica ad
affrontare la questione decisiva delle alleanze con le forze
politiche 'affini', nonché per l'attenzione da sempre rivolta al
fattore culturale ed educativo nei processi di trasformazione
della società di massa. Non ultimo, la Francia fu negli anni
ottanta, insieme al Belgio, l'area di diffusione dell''operaismo':
per la prima ne furono simboli la bourse du travail e il sindacato
di mestiere, per l'altro la maison du peuple e la cooperativa di
consumo. Nel 1883 fu costituito da Paul Lafargue (1842-1911) e da
Jules Guesde (1845-1922) il Parti ouvrier con un'organizzazione
centralizzata, largamente ispirata al marxismo. I 'possibilisti'
di Paul Brousse gli contrapposero un partito fondato su strutture
locali e con l'obiettivo della trasformazione graduale dello Stato
in senso decentrato, in alleanza con la borghesia liberale.
Proprio i due gruppi, in concorrenza, assunsero l'iniziativa della
costituzione della Seconda Internazionale a Parigi nel 1889. Ma la
'litigiosità' interna continuò a indebolire fortemente il
movimento politico nei confronti di quello sindacale, che
viceversa andò rafforzandosi fino alla fondazione della
Confédération Générale du Travail a Limoges nel 1895. Nel
movimento sindacale si affermò una corrente maggioritaria
favorevole all'action directe, influenzata da Fernand Pelloutier e
poi da Hubert Lagardelle e da Georges Sorel (1847-1922), autore di
L'avenir socialiste des syndicats (1898) e Réflexions sur la
violence (1908).
Il sindacalismo rivoluzionario e l'anarco-sindacalismo, che si
diffusero nei paesi dell'Europa meridionale, si contrapposero al
cosiddetto marxismo della Seconda Internazionale (partito di tipo
socialdemocratico e lotta politico-parlamentare; centralizzazione
dell'organizzazione sindacale e legislazione sociale),
privilegiando lo sciopero come strumento di educazione della
coscienza di classe e riservando allo sciopero generale la
funzione di emancipare la classe operaia fino all'atto decisivo
dell'espropriazione, così da consentire ai lavoratori (i
'produttori') di pervenire alla gestione delle imprese. La crisi
boulangista e l'affaire Dreyfus fecero precipitare i contrasti fra
i gruppi socialisti in tema di alleanze con i repubblicani e i
radicali. Quando, nel giugno 1899, il socialista Alexandre
Millerand entrò nel gabinetto borghese di Waldeck-Rousseau per
difendere le istituzioni repubblicane da un possibile colpo di
Stato della destra e per introdurre la scuola laica di Stato, si
creò una divaricazione tra i 'guesdisti', contrari a ogni
collaborazione con la borghesia, e gli 'indipendenti' di Jean
Jaurès (1859-1914), al riguardo più possibilisti, divaricazione
che rimase incolmabile fino al 1905, quando per i buoni uffici
dell'Internazionale le diverse componenti si unificarono nella
Section Française de l'Internationale Ouvrière (SFIO).Il problema
sollevato dal caso Millerand, relativo all'appoggio
(ministerialismo) o addirittura alla partecipazione
(ministeriabilismo) dei socialisti a governi a maggioranza
borghese, interessò tutti i partiti aderenti all'Internazionale,
con modalità diverse dettate nei vari paesi dalle effettive
prospettive di trasformazione delle società borghesi liberali in
società democratico-parlamentari. Proprio sul sostegno o meno alla
'svolta liberale' inaugurata da Giovanni Giolitti agli inizi del
secolo, si verificò in Italia la prima irriducibile frattura nel
Partito Socialista che, sotto la guida di Filippo Turati
(1857-1932), direttore della "Critica sociale" dal 1891, era stato
fondato a Genova nel 1892, con un programma ispirato a quello di
Erfurt.
Il contrasto, che si mantenne sotto diverse vesti fino all'avvento
del fascismo, si verificò tra la componente gradualista e
riformista di Turati, Claudio Treves, Leonida Bissolati e poi dei
dirigenti della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL),
costituita nel 1906, e quella intransigente e rivoluzionaria di
Arturo Labriola e di Enrico Ferri, dalla quale poi si scissero i
sindacalisti rivoluzionari di Alceste De Ambris. Rispetto al
socialismo delle aree industrializzate e a tradizione liberale e a
quello tipico delle aree rurali e a regime autocratico, il
socialismo italiano si collocò in una posizione mediana, con larga
approssimazione più vicino a quello francese dopo la Comune o a
quello spagnolo per il ruolo sociale della Chiesa e
l'anticlericalismo, la frequente difformità di indirizzo tra
sindacato e partito, il protagonismo delle campagne e gli
squilibri regionali, la permanenza di una vasta area sovversiva
(in Spagna gli anarchici ebbero basi di massa nonostante
l'opposizione del Partito Socialista Obrero Español, PSOE, fondato
nel 1888 da Pablo Iglesias).Nell'Europa centrorientale e
meridionale, dove i processi di integrazione politica furono
ancora più lenti, la penetrazione socialista divenne significativa
solo alla fine del XIX secolo, con un primo insediamento nei
centri urbani lungo i canali dell'emigrazione. Tipica figura di
profugo socialista fu il bulgaro Christian G. Rakovskij, che in
Svizzera fu in contatto con Plechanov e in Germania con
Liebknecht, e che al congresso dell'Internazionale di Amsterdam
del 1904 rappresentò la Serbia e in quello di Stoccarda del 1907
la Romania. In Bulgaria fu costituito nel 1891 un partito
nazionale, poi Partito socialdemocratico bulgaro del lavoro
(BRSPD), dal 1903 diviso tra i 'larghi', favorevoli alla
collaborazione con la borghesia, e gli 'stretti', ad essa
contrari. In Serbia il partito fu costituito nel 1903. In Polonia
il Polska Parti Socjalistyczna, fondato da Jósef Pilsudski nel
1892, tenne il primo congresso a Varsavia nel 1894: pur nella
professione di internazionalismo, perseguì la realizzazione di uno
Stato indipendente e democratico.
Le associazioni operaie di lingua jiddish si organizzarono invece
nel 1887 in un Bund come parte del movimento socialista
russo.Anche in Russia il socialismo restò a lungo diffuso nella
cerchia di una piccola intelligencija, una minoranza
rivoluzionaria ed elitaria che si opponeva all'aristocrazia e alla
Chiesa ortodossa. Dall'estero Aleksandr Herzen indicò una strada
al socialismo che, partendo dall' esperienza del mir, consentisse
di superare o di evitare lo stadio capitalistico. Pëtr Lavrov,
fondatore a Parigi di "Vpered", la rivista teorica del populismo,
predicò la necessità di 'andare al popolo', cioè alle masse
contadine, e assegnò un ruolo determinante all'intellettuale
rivoluzionario. Un tema che fu ripreso, in una prospettiva
insurrezionale e addirittura terroristica, da Bakunin, da Sergej
G. Nečaev, da Pëtr N. Tkǎcev, e poi, nella prospettiva bolscevica,
anche da Lenin. Erede del populismo fu il Partito socialista
rivoluzionario costituito nel 1901. La diffusione del marxismo in
Russia conobbe il filtro non solo del pensiero populista, ma anche
del Gruppo di liberazione del lavoro, fondato a Ginevra nel 1883
da Georgij Plechanov (1857-1918), Pavel Aksel'rod e Vera Zasulič,
che furono in contatto con Marx ed Engels e con gli esponenti
socialdemocratici tedeschi, anch'essi allora in esilio in
Svizzera. Dall'incontro tra gruppi di emigrati e settori della
classe operaia di Mosca e di San Pietroburgo, di Kiev e di Odessa,
nacque a Minsk nel 1898 il Partito operaio socialdemocratico
russo, con un programma che recuperò la tradizione populista
rivoluzionaria, respingendone però i metodi terroristici, e
attribuì al proletariato industriale il compito della rivoluzione.
Nel 1903 il partito si divise tra menscevichi (minoritari) e
bolscevichi (maggioritari).
I primi, con Plechanov e J. Cederbaum detto Martov (1873-1923), si
professarono marxisti 'occidentalisti', cioè convinti che allo
zarismo sarebbe dovuto succedere un regime democratico-borghese
prima di giungere al socialismo; i secondi, con Lenin, sostennero
la tesi del passaggio immediato dalla rivoluzione democratica alla
dittatura del proletariato e dettero vita a un partito di
rivoluzionari di professione.Nelle aree più sviluppate o prive
delle fratture sociali e politiche tipiche dell'Europa
centrorientale e meridionale, la penetrazione del marxismo fu
assai più stentata o praticamente assente. In Inghilterra, per
esempio, dopo il crollo del cartismo l'attività politico-partitica
rimase a lungo modesta, specialmente se confrontata con i vistosi
successi della cooperazione e del sindacato, che nel 1868 fondò il
Trades Union Congress (TUC) e, dopo lo sciopero del 1889,
ricevette ulteriore impulso dal 'nuovo unionismo', cioè
dall'organizzazione di nuove fasce di lavoratori dei trasporti,
del carbone e dell'industria, semispecializzati e manovali (un
milione e seicentomila iscritti nel 1892, che avrebbero raggiunto
i quattro milioni e mezzo nel 1914). Il movimento operaio inglese
cercò piuttosto l'alleanza con i radicali e soprattutto con i
liberali, per l'allargamento dei diritti politici e per una più
incisiva legislazione sociale e di tutela del lavoro, dando vita a
quella tattica lib-lab (liberal-labour) contro la quale con scarso
successo si opposero la Social Democratic Federation, fondata da
H. Mayers Hyndman nel 1881, e la Socialist League, promossa nel
1884 da William Morris (1834-1896), di ispirazione marxista.
Influenza notevole ebbe invece il gruppo di pressione, costituito
tra gli altri da Sidney Webb e Beatrice Potter, George Bernard
Shaw, George Wells, raccolto nella Fabian Society (1884), che
intese promuovere un socialismo pragmatico e gradualista, come
attestava la scelta della denominazione stessa con il riferimento
al generale romano Fabio Massimo il Temporeggiatore.
Il volume Fabian essays in socialism, del 1889, circolò in due
milioni di copie, preparando il terreno culturale per i partiti
non marxisti come l'Independent Labour Party di Keir Hardie
(1856-1915), fondato nel 1893, e poi, nel 1890, per il Labour
Representation Committee, da cui ebbe origine nel 1906 il Labour
Party, che già nelle prime elezioni ottenne 26 seggi parlamentari.
Esso costituì il modello del partito a struttura indiretta, basata
cioè sull'adesione di gruppo, poi modificata dal riconoscimento di
una quota politica individuale facoltativa per gli aderenti alle
Trade Unions (Trade Unions act, 1913) e in seguito, nel 1918,
dall'esplicita ammissione dell'iscrizione individuale.Nei Paesi
Scandinavi le origini del movimento socialista si legarono ai
rapporti che emigranti, studenti e pubblicisti, come August Palm o
Holtermann Knudsen, stabilirono con la socialdemocrazia tedesca.
Il movimento socialista ebbe una iniziale diffusione nei centri
urbani, innestandosi sulla tradizione corporativa artigiana, ma
ben presto allargò il consenso popolare agitando i grandi temi
politico-istituzionali: le riforme elettorali in Svezia, la
riforma costituzionale in Danimarca (1916), la questione
dell'indipendenza della Norvegia nel 1905. Nel complesso, però, il
movimento sindacale (e anche cooperativo) mantenne una posizione
predominante.
Ciò fu particolarmente evidente in Svezia dove il partito, fondato
nel 1889 da Hjalmar Brainting (1860-1925), condivise a lungo con
il sindacato le strutture di base, ma anche gli obiettivi politici
di fondo: furono le Lands Organizationen a indire lo sciopero
generale per il suffragio universale nel 1902, e fu il partito,
con i suoi 35 deputati nel 1905 e 73 nel 1914, a far approvare dal
Parlamento le assicurazioni contro la vecchiaia, le malattie e la
disoccupazione, facendo leva sulla recuperata capacità di
mobilitazione sindacale dopo il grave insuccesso dello sciopero
generale dell'estate 1909 indetto in risposta a una serrata
padronale. Il Partito socialdemocratico o laburista diventò il più
importante in Finlandia fin dal 1907, in Svezia dal 1914, in
Danimarca dal 1924 e in Norvegia dal 1927. In Inghilterra e in
quasi tutti i Paesi Scandinavi i laburisti e i socialisti si
fecero dunque sostenitori di un'evoluzione in senso sociale del
sistema liberaldemocratico, del resto assai più avanzato che
altrove, presupponendo che lo Stato, permeato con un'azione
graduale e dal basso, o sottoposto a un'efficace pressione da
parte delle organizzazioni dei lavoratori, potesse assumere un
ruolo 'amico' fondamentale. Nella gerarchia che si stabilì allora
in Europa tra sindacato e partito fu il primo a precedere il
secondo e a determinarne la natura organizzativa.Fuori dal Vecchio
Continente, con la parziale eccezione di alcuni dominions inglesi,
il socialismo stentò a penetrare, per lo più tramite l'emigrazione
europea, e ancor più a radicarsi, anche limitatamente ai centri
urbani e alle aree minerarie (come in Cile).
In Giappone, nella seconda parte dell'era Meiji, si costituirono
gruppi e partiti ('socialisti orientali', 'conducenti di ricsciò',
'amici del popolo', 'semplici', 'per lo studio del socialismo'),
dalla vita breve e stentata, anche per le continue persecuzioni,
dediti prevalentemente all'istruzione e alla propaganda attraverso
la stampa. Tuttavia la partecipazione del tipografo Sen Katayama
al congresso dell'Internazionale di Amsterdam del 1904 e ancor più
la condanna della guerra russo-giapponese da lui espressa insieme
al russo Plechanov, conferirono al movimento notorietà
internazionale. Dall'America Latina ebbero una rappresentanza nei
lavori dell'Internazionale solo l'Uruguay e l'Argentina, dove nel
1894 era stato costituito un Partito socialista da Alfredo
Palacios e da Juan Baudista Justo. Il caso più significativo era
comunque rappresentato dagli Stati Uniti, che si apprestavano a
diventare la massima potenza industriale e 'la terra promessa del
capitalismo', senza avere neppure i pesanti condizionamenti dei
vecchi regimi di cui soffriva la società europea, e dunque erano
apparentemente i destinatari dei più ambiziosi progetti sociali,
come del resto avevano inteso i primi profughi socialisti seguaci
di Fourier, Owen, Cabet e poi di Lassalle e Marx. Ma non si può
certo dire che i risultati fossero pari alle attese, nonostante
gli iniziali modesti successi conseguiti con la costituzione di un
Socialist Labor Party nel 1877, che negli anni novanta trovò nuovo
slancio sotto la guida di Daniel De Leon (1852-1914); poi di una
Social Democracy, nel 1897; e infine di un Socialist Party of
America nel 1901.
Né risultò decisivo ai fini dell'insediamento il fiancheggiamento
di organizzazioni sindacali come il Noble Order of Knights of
Labor negli anni settanta e ottanta, o le Trades and Labor negli
anni novanta - dopo il vano tentativo di penetrazione nella più
potente American Federation of Labor di Samuel Gompers - o gli
Industrial Workers of the World; e neppure lo straordinario
successo di opere come Progress and poverty (1879) del radicale
Henry George e di Looking backward (1888) di Edward Bellamy o
l'attrazione esercitata su scrittori come Jack London e Upton
Sinclair. Nel momento della massima espansione, il 1912-1913, il
Socialist Party of America vantava meno di 120.000 iscritti e il
suo candidato alle elezioni presidenziali, Eugene Debbs, ottenne
il 6% dei consensi. Il 'fallimento' del socialismo negli Stati
Uniti fu attribuito a molteplici fattori: il sistema politico
istituzionale presidenziale bipartitico imperniato sulle primarie
e sulla rilevanza della 'macchina elettorale'; l'influenza dei
democratici dopo l'elezione alla presidenza di Thomas Woodrow
Wilson (come più tardi negli anni trenta di Franklin Delano
Roosevelt); l'isolamento del movimento, chiuso nell'ambiente
dell'emigrazione; le caratteristiche della classe operaia
formatasi per stratificazioni successive e divisa per segmenti, e
dunque non omogenea; e soprattutto la grande mobilità della
società americana che avrebbe impedito la stratificazione delle
classi.
Tale insuccesso fu considerato la riprova della superiorità del
capitalismo sul socialismo e ancor più dei limiti del marxismo,
specialmente nelle società complesse e aperte. Per contro,
l'accento posto sulla vocazione imperialistica degli Stati Uniti
come valvola di sfogo della conflittualità interna, e, quindi,
come decisivo fattore di contenimento dell'area di diffusione del
socialismo, non sembrò avere uguale rilievo.Nell'età della Seconda
Internazionale il socialismo aveva acquisito le caratteristiche di
movimento di massa: nel 1912 i partiti aderenti vantavano 3,4
milioni di iscritti (contro i 7,3 milioni di soci delle
cooperative e i 10,8 milioni di sindacalizzati) e circa 12 milioni
di elettori, e disponevano di una rete di 200 grandi quotidiani.
Era tuttavia un movimento che sembrava presupporre uno sviluppo
lineare della società e la pace internazionale. La guerra mondiale
ne segnò il collasso, dimostrandone l'incongruità rispetto al
compito che esso si era dato di difendere la pace in nome della
solidarietà di classe, ma al tempo stesso ne accelerò
l'integrazione politica. Nel 1914, con pochi dissensi tra i quali
quello del Partito Socialista Italiano, i socialisti tedeschi,
austriaci e francesi votarono i crediti di guerra, con la
motivazione di dover difendere il principio di nazionalità e di
voler abbattere gli uni l'autocrazia zarista, gli altri
l'imperialismo e il militarismo tedesco.Tra le due guerre l'area
della democrazia e del socialismo arretrò di fronte all'espansione
del fascismo e delle politiche autoritarie in Italia, Germania,
Austria e Spagna, nonché in Portogallo, Ungheria e Romania.
In tali paesi socialismo e democrazia condivisero una identica
sorte, si compenetrarono ulteriormente, e tale identificazione
costituì un'eredità importante per le leaderships costrette
all'emigrazione e per le generazioni successive. Ma il socialismo
subì anche la sfida del comunismo, dopo la rivoluzione bolscevica
del 1917 e la creazione il 2 marzo 1919 della Terza
Internazionale, la quale nel giugno 1920 varò ventuno punti per
l'ammissione, tra i quali il più qualificante fu la creazione di
un partito accentrato e disciplinato che combattesse in via
prioritaria le vecchie leaderships socialiste per affermare la sua
superiore autorità. I comunisti diventarono così i nemici
implacabili dei regimi democratici e dei partiti socialisti, dando
vita a propri partiti (in Italia nel gennaio 1921), fino ad
accusare gli ex compagni di 'socialfascismo', cioè di essere la
componente più moderata e più 'opportunista' della
controrivoluzione. Queste polemiche, ancora persistenti negli anni
dell'ascesa al potere del nazismo, furono superate solo con la
politica dei fronti popolari dopo il 1935. Al Komintern si oppose
l'Internationale Ouvrière et Socialiste, ricostituita a Berna nel
1919 e poi ufficialmente ad Amburgo nel 1923 (IOS), sulla base
della conferma della via democratica e parlamentare al socialismo
nei paesi a sviluppo capitalistico, e dunque della denuncia del
totalitarismo bolscevico. Il tentativo dei socialdemocratici
austriaci di unificare socialisti e comunisti con l'Internazionale
due e mezzo fallì quasi subito e i più confluirono nell'IOS, di
cui ricoprì la carica di segretario fino al 1939 Friedrich Adler
(1879-1960).
Rimase comunque viva un'area centrista, che, pur respingendo il
metodo bolscevico per i paesi avanzati, ne ammise tuttavia la
possibilità in quelli sottosviluppati o autocratici, come era
stata la Russia zarista, o nell'ipotesi della difesa da attacchi
interni ed esterni. In seguito 'i centristi', come del resto non
pochi intellettuali di sinistra, furono pronti a concedere al
regime sovietico almeno il beneficio d'inventario per l'avvio di
una direzione pianificata dell'economia e per i progressi
conseguiti tanto nella politica di industrializzazione quanto
nello sviluppo dell'istruzione e dei servizi sociali (cfr. Sidney
e Beatrice Webb, Soviet communism: a new civilization?, London
1935).Nonostante l'arretramento, è stata collocata nel periodo tra
le due guerre la definitiva sedimentazione ('cristallizzazione')
socialdemocratica. Nel 1931 i partiti aderenti alla IOS vantavano
oltre 6 milioni di iscritti, 26 milioni di elettori, più di 1.300
deputati, e una rete di oltre 360 organi di stampa.
Anche nei paesi che sarebbero stati poi investiti dalla reazione
fascista o autoritaria, l'area del precedente consenso elettorale
socialista acquisito nel primo dopoguerra risultò in qualche modo
consolidata, destinata cioè a confermarsi nelle prime elezioni
'libere' dopo il 1945. Altra questione è quella dell'uso del
potenziale socialdemocratico. Per molti esso non fu pari
all'obiettivo di difendere la democrazia là dove era minacciata (o
per contro di indirizzare in senso sovietico le presunte
potenzialità rivoluzionarie dell'immediato dopoguerra), e
tantomeno di affrontare con una cultura economica di lungo periodo
la crisi del 1923-1924 e soprattutto del 1929, nel perdurante
pregiudizio che fosse impossibile riformare la società
capitalistica. In realtà non mancò allora la ricerca di strade
nuove: con i socialdemocratici Richard von Moellendorf, Rudolf
Wissel e Otto Neurath, questi ultimi anche in relazione al disegno
dello Stato 'organico' di Walther Rathenau, nonché con Georges
Douglas H. Cole e Rudolf Hilferding, si mirava alla parziale
socializzazione delle imprese, nell'ambito di un'economia
'governata' ma rispettosa di ampi spazi di autogestione; Louis De
Brouckère teorizzava la "democrazia industriale" e il "controllo
operaio" (Le contrôle ouvrier), mentre i guild socialists inglesi
affermavano la primogenitura dell'economia e della società sulla
politica nell'ambito di una concezione pluralistica dei rapporti
sociali. Albert Thomas rilanciò in Francia la tesi della 'presenza
nella nazione' in relazione allo sviluppo della produttività, e il
belga Henri de Man (1885-1953), che era stato critico severo del
marxismo in nome di un socialismo nazionale, etico-volontaristico
e socio-psicologico in Au-delà du marxisme, 1927, teorizzò in Le
socialisme constructif, 1933, un'economia mista sottoposta a un
"piano del lavoro" nazionale, che fece adottare al POB alla
vigilia della guerra. L'influenza del 'planismo' di de Man fu
grande in Olanda e in Svizzera, e in taluni ambienti del
socialismo inglese e francese favorevoli alla "économie dirigée" e
alla "évolution constructive" ("néosocialisme").
Al di là dei risultati immediati, per la verità modesti, la
pratica di economia mista o diretta maturata tra le due guerre era
destinata a incidere nel lungo periodo, entrando a far parte del
codice genetico del socialismo occidentale, di volta in volta come
risposta alle crisi cicliche o meno, come correttivo degli
'eccessi' della libera concorrenza, come volano rispetto agli
squilibri del mercato, addirittura come sinonimo di servizio
pubblico impiegato per combattere le ineguaglianze e per
consolidare la coesione nazionale.Il punto centrale fu che in
molti paesi i socialdemocratici andarono allora al governo, per lo
più di coalizione, e indipendentemente dai risultati conseguiti
perfezionarono il processo di integrazione politica e sociale
avviato alla fine del secolo precedente. In tale situazione quasi
tutti promossero la revisione dei programmi originari
(un'esperienza che invece mancò al socialismo italiano,
prematuramente disperso dal fascismo e costretto all'esilio). Dopo
la proclamazione della Repubblica in Germania, nel novembre 1918,
furono eletti presidente e cancelliere in un governo di coalizione
i leaders della SPD, Friedrich Ebert (1871-1925) e Philipp
Scheidemann (1865-1939), forti del 38% dei voti conseguiti nelle
elezioni dell'Assemblea costituente il 19 gennaio 1919, nonostante
l'opposizione mossa dai 'socialisti indipendenti', costituitisi
nel 1917, e dalla Lega spartachista, la cui rivolta fu repressa
nel sangue.
Esclusa dal governo del Reich dal 1923 al 1928, la SPD restò al
governo in coalizione nella Prussia, nel Baden, nell'Assia e in
Amburgo con buoni risultati in campo amministrativo, scolastico e
urbanistico (in particolare con Walter Gropius e il Bauhaus di
Weimar), e tornò al cancellierato nel 1928 con Hermann Müller (e
Hilferding, ministro delle Finanze) prima di essere spazzata via
dal nazismo.Anche in Austria i socialdemocratici risultarono il
partito più forte. Presidente della Repubblica, cancelliere e
ministro degli Esteri furono eletti rispettivamente Karl Seitz,
Karl Renner e Otto Bauer. Renner fu anche capo dello Stato nel
1945-1950. Se la SPD avviò la revisione del programma al congresso
di Görlitz (1921) delineando già allora 'il partito di tutto il
popolo', i socialdemocratici austriaci, fedeli custodi dell'unità
del partito, nel congresso di Linz del 1926 abbandonarono
definitivamente la teoria della dittatura del proletariato per
ammettere la violenza a solo scopo difensivo. Grande
autorevolezza, anche all'estero, acquistò il piccolo gruppo degli
'austromarxisti', già noto per le precedenti posizioni sulla
questione nazionale e ora impegnato, in particolare con Bauer (Der
Weg zum Sozialismus, 1919), a delineare una rivoluzione politica
per via democratica attraverso un processo lento di
socializzazione dei rapporti di produzione. La socialdemocrazia
austriaca ottenne risultati rilevanti con la legislazione sociale
promossa tra il 1918 e il 1920 dal ministro Ferdinand Hanusch, e
soprattutto nell'amministrazione della città di Vienna, una delle
esperienze di governo della città culturalmente e socialmente più
feconde in tutto il Novecento. Nel febbraio 1934, dopo una
repressione sanguinosa a Vienna, il governo reazionario di Dolfuss
distrusse la socialdemocrazia austriaca e con essa il regime
democratico. La lotta al fascismo fu alla base della politica dei
fronti popolari inaugurata dopo il 1935 in quei paesi dove la
presenza comunista era consistente, e in Spagna si realizzò nella
sfortunata difesa della Repubblica.
L'esperienza più significativa si ebbe in Francia quando, nel
1936, il Front populaire portò al governo una coalizione
presieduta dal socialista Léon Blum (1872-1950), il quale ebbe
però vita difficile tanto che si dimise già nel giugno 1937. La
politica del fronte popolare fu poi messa in crisi dal patto di
alleanza tra Hitler e Stalin nel 1939; fu ripresa solo nella
Resistenza e ancora negli anni 1945-1947 in Italia e in Francia,
ma costituì un precedente importante anche per i progetti di
democrazia popolare nell'Europa orientale (1945-1949).Nei paesi
dell'Europa del nord, i partiti socialisti portarono a compimento
l'integrazione politica e sociale assumendo responsabilità di
governo significative. In Inghilterra il Labour Party da terzo
partito divenne in pochi anni il primo, conquistando nel 1918 il
24% dei voti validi, e nel 1929 il 37%. Con l'aiuto dei liberali
riuscì a dar vita nel gennaio 1924 al primo governo presieduto da
un laburista, Ramsay Mac Donald (1866-1937), e a un secondo nel
1929. In entrambi i casi l'esperienza ebbe risultati molto
modesti, ma rivestì un grande valore simbolico anche in Europa. Il
programma del 1918 a favore della generalizzazione del minimo
vitale e della gestione democratica e decentrata delle industrie
nazionalizzate, finanziata con una forte leva fiscale, fu rivisto
nel 1928, dopo l'insuccesso dello sciopero generale per la
nazionalizzazione delle miniere (1926), con una diversa e più
intensa attenzione ai problemi di politica estera e di politica
sociale sotto il titolo significativo: The Labour and the Nation.
Dopo il fallimento dei governi Mac Donald il Labour rimase
all'opposizione per nove anni, ma nel 1940 fu chiamato da Winston
Churchill nel governo di unità nazionale. All'interno dei
dominions britannici, si sviluppò un sistema di Welfare State in
Nuova Zelanda, dove il Labour Party, diretto da Michael Savage
(1872-1940), giunse al governo nel 1935 con il 46% dei voti e vi
restò fino al 1949. Fin dal 1938 esso creò un servizio sanitario
nazionale gratuito con il Social security act. In Australia, dove
era presente un forte movimento sindacale (nel 1914 un iscritto
ogni nove abitanti), il Labour Party assunse la direzione del
governo federale nel 1910, ma fu travagliato da polemiche e
divisioni interne; dette poi vita a un nuovo governo presieduto da
J.H. Scullin (1876-1953), nel 1929, nel momento economico più
difficile. Nelle elezioni del 1931 subì una pesante sconfitta, da
cui però si riprese negli anni quaranta. I risultati più rilevanti
e più duraturi verso il Welfare State tuttavia furono conseguiti
in Svezia, dove il leader socialdemocratico Karl H. Branting prima
partecipò al governo nel 1917, poi fu eletto primo ministro nel
1920-1923 e nel 1924-1925.
Ma la vera svolta avvenne dopo la formazione di un governo in
alleanza con il partito dei contadini, presieduto da Per Albin
Hansson, il quale inaugurò la cosiddetta 'politica del focolare',
che prospettava una società priva di aspri antagonismi di classe,
volta a ricercare la piena occupazione con investimenti pubblici
finanziati da una severa politica fiscale. Nelle elezioni del 1936
i socialdemocratici ottennero il 46% dei voti. In Danimarca il
leader del Partito socialdemocratico, Thorvald Stauning, fu a capo
di un governo di coalizione nel 1924, poi nel 1929 e ancora nel
1933. In Norvegia i socialisti formarono governi di coalizione nel
1928 con Christopher Hornsrud, e nel 1935 con Johann Nygaardsvold.
L'esperienza scandinava parve addirittura definire una propria via
al socialismo la quale, all'interno dell'accettata società
capitalista e dunque intervenendo sui meccanismi di
redistribuzione del reddito piuttosto che su quelli della
produzione, in un clima di solidarietà sociale conciliasse,
empiricamente e gradualmente, libertà, giustizia, sicurezza e
stabilità.
4. L'affermazione della socialdemocrazia nel secondo dopoguerra
Il 'socialismo nazionale' nel Terzo Mondo. Durante la guerra
contro il fascismo quasi tutti i partiti socialisti dell'Europa
occidentale, in patria e in esilio, sostennero i governi di unità
nazionale, privilegiando la nazione e la democrazia rispetto alla
classe e all'anticapitalismo. Nei decenni successivi rinunciarono,
dopo che lo avevano già fatto nella pratica, all'idea stessa della
violenza e della rivoluzione per la conquista del potere, e
pervennero definitivamente a un concetto più maturo di socialismo,
inteso come un ideale sociale ed economico inseparabile dal metodo
democratico assunto come mezzo e come fine. I partiti socialisti
europei, inseriti compiutamente nel cosiddetto mondo libero,
perseguirono una opposizione assoluta al totalitarismo, che negli
anni della guerra fredda identificarono nel comunismo per la sua
aggressività ideologica e politica; ciò li portò ad accogliere la
protezione militare della NATO, sia pure in un'ottica difensiva e
non trascurando mai di incentivare le politiche di distensione e
di disarmo controllato. Fu esemplare a questo riguardo
l'assunzione della carica di segretario generale della NATO dal
1957 al 1961 da parte di Paul-Henri Spaak (1899-1972), leader dei
socialisti belgi, che aveva già ricoperto le cariche di presidente
del Consiglio nel 1938-1939, di ministro degli Esteri nel
1938-1949 (lo fu anche nel 1961-1969). I partiti socialisti si
trasformarono da partiti di classe, per la difesa degli interessi
dei lavoratori dipendenti, in partiti di popolo, per perseguire
una prospettiva di più generale benessere, e sostituirono all'idea
della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio come
primo presupposto del socialismo quella dell'espansione del
pubblico controllo delle imprese e della pianificazione
democratica al fine di garantire la crescita e la distribuzione
equa delle risorse, delineando con ciò un'economia mista fra
pubblico e privato.
Nel 1951 a Francoforte tali concetti furono posti a fondamento
della Dichiarazione dei principî del socialismo democratico della
ricostituita Internazionale socialista che, nel passaggio dalla
fase della propaganda a quella delle realizzazioni, prese atto che
in molti paesi il 'capitalismo non controllato', prevaricatore dei
diritti dell'uomo a favore di quelli della proprietà, lasciava il
campo a un regime economico nel quale l'intervento dello Stato o
il possesso collettivo dei mezzi di produzione conseguivano
progressi considerevoli nella creazione di "un nuovo ordine
sociale". L'Internazionale si rivolse ai popoli dei paesi
sottosviluppati proponendo il socialismo come arma di lotta per la
conquista dell'indipendenza nazionale e per il conseguimento di
uno standard di vita più elevato, contro le oligarchie indigene e
lo sfruttamento neocoloniale. Essa individuò nel comunismo non
solo un grave fattore di divisione e di arretramento del movimento
operaio, ma un avversario pericoloso che a torto si richiamava al
socialismo ('socialismo reale') perché rigidamente dogmatico e per
giunta "incompatibile con lo spirito critico del marxismo" e
indirizzato all'esasperazione dei contrasti di classe
nell'interesse della dittatura di un partito unico, strumento di
un "nuovo imperialismo". Il socialismo (democratico) si definì
dunque come "un movimento internazionale" che fondava i propri
convincimenti, fossero ispirati dal marxismo o da principî
religiosi o umanitari, sul comune obiettivo di costruire "un
sistema di giustizia sociale, di vita migliore, di libertà e di
pace".
Dalla constatazione che lo sviluppo delle scienze e della tecnica
aveva dato all'umanità la possibilità di distruggere se stessa, ma
anche di migliorare continuamente la propria condizione di vita,
esso ricavò la conferma che la produzione non potesse essere
lasciata al libero gioco delle forze economiche ma dovesse essere
'pianificata', sia pure nel rispetto dei diritti fondamentali
delle persone umane. Un aggiornamento di tali principî di fronte
alla mondializzazione economica fu fatto con la Dichiarazione di
Stoccolma al congresso dell'Internazionale del 19-22 giugno 1989,
con l'accentuazione delle motivazioni democratiche, la
valorizzazione del ruolo dell'uomo e della donna, e una maggiore
attenzione alla solidarietà tra il Nord e il Sud dei popoli della
terra ("una nuova società democratica mondiale").In Inghilterra,
nel 1945, il Labour Party, ottenuta la maggioranza in Parlamento,
avviò una vasta politica di Welfare State, largamente ispirata
alle idee di William Henry Beveridge e di John Maynard Keynes, al
fine di garantire la protezione generale, solidale e socialmente
equa contro la disoccupazione, la malattia, gli infortuni e la
vecchiaia, e promosse un impegnativo programma di
nazionalizzazioni nelle industrie di base (ferrovie e trasporti,
acciaio, carbone).
Ricacciato all'opposizione nel 1951, il Labour ebbe un'evoluzione
profonda dopo la sconfitta della sinistra interna di Aneurine
Bevan e poi di Michael Foot. Ne fece fede il saggio The future of
socialism, scritto da Anthony Crosland nel 1956, nel quale si
sosteneva che il fondamento del socialismo era sociale più che
economico, cioè volto a conseguire una più equa distribuzione
delle ricchezze e un più razionale sistema educativo per ridurre
le differenze di classe e la povertà, piuttosto che a interferire
sui diritti di proprietà dei mezzi di produzione o addirittura a
esasperare gli interessi di classe. A tali principî si ispirò la
nuova leadership laburista negli anni 1955-1963, sotto la guida di
Hugh Gaitskell (1906-1963), e poi, tra il 1963 e il 1976, di
Harold Wilson. Con una campagna a favore della politica dei
redditi e della 'rivoluzione tecnica e scientifica', in cui
riecheggiavano le tesi non solo di Keynes e di Schumpeter ma anche
di Burnham e di Galbraith, i laburisti tornarono al governo nel
1964-1970 e poi ancora nel 1974-1976 e, dopo le dimissioni di
Wilson, con James Callaghan nel 1976-1979. Fece seguito un lungo
periodo di opposizione, rotto infine dalla clamorosa vittoria
elettorale del 1° maggio 1997, che ha portato al potere Tony Blair
e ha attribuito al Labour 419 seggi su 659.In Svezia i
socialdemocratici detennero il potere ininterrottamente per mezzo
secolo (dal 1932) con Hansonn, Tage Erlander e Olof Palme
(1927-1986), e per molti decenni in Norvegia e in Danimarca per
poi alternarsi al potere con l'opposizione conservatrice. Il
socialismo scandinavo accentuò l'obiettivo della coesione
nazionale come proiezione del solidarismo dalla 'culla alla
tomba', e della funzionalità fondata sulla 'parità delle
occasioni' più che sull'uguaglianza.
In Germania l'evoluzione della SPD ebbe la sua consacrazione al
congresso di Bad Godesberg, nel 1959, con la rinuncia al marxismo.
Nel presupposto che una moderna società industriale non possa
essere governata da un principio uniforme, il congresso delineò i
tratti di un'economia mista e di una società fortemente
pluralistica. L'istanza originaria della collettivizzazione venne
tradotta nell'esigenza del controllo pubblico, e per la prima
volta ci si dichiarò per la protezione e la promozione della
proprietà privata e si accettò esplicitamente la logica della
libera competizione economica tra pubblico e privato con la parola
d'ordine "libertà finché possibile, pianificazione finché
necessaria". Furono poste così le condizioni perché la SPD
accedesse al governo nella grande coalizione con i democristiani
negli anni 1966-1969, e poi tra il 1969 e il 1974 assumendo il
cancellierato con Willy Brandt (1913-1992), già sindaco di Berlino
negli anni 1957-1964 e poi ministro degli Esteri. Brandt avviò il
processo di distensione con l'URSS e con la Repubblica Democratica
Tedesca (Ostpolitik), e quando venne sostituito dal compagno di
partito Helmut Schmidt, negli anni 1974-1982, si dedicò
all'Internazionale socialista dilatandone l'area di intervento e
rafforzandone il prestigio.In Austria il processo di
secolarizzazione del partito fu portato a compimento negli anni
cinquanta. Nel 1960 il presidente del partito, Bruno Pitterman,
ebbe a dichiarare che "la professione di fede nel marxismo per i
socialisti di oggi è una questione privata esattamente come la
professione di una religione". I socialdemocratici dettero vita a
una grande coalizione con i democristiani nel 1959-1966, sotto la
guida di Bruno Kreisky (1911-1990) che, dopo aver ricoperto la
carica di ministro degli Esteri nel 1959-1966, venne eletto
cancelliere nel 1970.Anche in Francia i socialisti alla fine della
guerra assunsero le massime cariche dello Stato con Vincent Auriol
(1884-1966), primo presidente della IV Repubblica dal 1947 al
1954, e con Paul Ramadier, primo ministro di un governo
tripartito, con la partecipazione dei comunisti, fino al maggio
1947.
Dal 1946 al 1968, sotto la guida di Guy Mollet (1905-1975) che
aveva sconfitto la corrente di destra di Blum, favorevole a una
più radicale revisione programmatica in nome di un umanesimo
socialista, la SFIO si collocò come la troisième force tra
comunisti e gaullisti. Essa tornò in primo piano solo nel
1956-1957 con il governo Mollet. Quest'ultimo però fu travolto
dalla crisi algerina e di Suez lasciando aperta la strada alla
soluzione della V Repubblica. Il socialismo francese piombò, come
in passato, in una fase critica di divisioni e di polemiche
interne da cui uscì solo con il congresso di Epinay del giugno
1971, sotto la guida di François Mitterrand (1916-1996). Con la
firma del programma comune delle sinistre nel giugno 1972,
Mitterrand pose le condizioni della scalata alla presidenza della
Repubblica, che infine ottenne nel 1981 e poi ancora nel 1988, nel
primo caso trascinando al successo elettorale i socialisti che
formarono un governo con la partecipazione dei comunisti, nel
secondo in coabitazione con il governo Chirac. Nel giugno 1997 le
elezioni anticipate hanno sancito una nuova vittoria socialista,
che ha portato alla formazione del governo presieduto da Lionel
Jospin.
In Italia la revisione programmatica dei socialisti fu più lenta e
si compì con la svolta autonomista e democratica del 1956 e
soprattutto con i governi di centro-sinistra degli anni sessanta.
La vicenda socialista fu qui dominata dai rapporti con il più
forte partito comunista del mondo occidentale, rapporti che
determinarono nel 1947 la scissione tra il Partito Socialista di
Pietro Nenni (1891-1980) e il Partito Socialista Democratico
Italiano di Giuseppe Saragat (1898-1988), e nel 1964 quella
dell'ala sinistra che dette vita al Partito Socialista Italiano di
Unità Proletaria (PSIUP); nonché con la Democrazia Cristiana,
grande partito di centro di ispirazione cattolica. Partito di
cerniera del sistema politico nonostante le dimensioni modeste
(10-14% dell'elettorato), e dunque con un forte potere di
coalizione, il PSI assunse un ruolo di primo piano negli anni
ottanta, sotto la dinamica segreteria di Bettino Craxi, che fu
presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987, e con la popolare
presidenza della Repubblica di Sandro Pertini (1896-1990) tra il
1978 e il 1985; anche per questo subì i contraccolpi più pesanti
nella crisi della cosiddetta 'prima Repubblica' negli anni
1992-1994, fino alla frantumazione in piccoli gruppi la cui
sopravvivenza è stata resa difficile dal passaggio dal sistema
elettorale proporzionale a quello maggioritario.Mentre negli anni
ottanta il 'consenso socialdemocratico' si indeboliva per la prima
volta nei paesi centroeuropei e scandinavi (dove l'elettorato era
stabilmente oltre il 35%), nei paesi dell'Europa meridionale esso
si andava affermando in maniera vistosa. Oltre alla Francia e
all'Italia, i casi più significativi furono quelli dei paesi
usciti da regimi autoritari: in Grecia il Panellino Sosialistiko
Kinima (PASOK) di Andréas Papandreu andò al governo nel 1981; in
Spagna il PSOE di Felipe Gonzales nel 1982; in Portogallo il
Partido socialista di Mario Soares nel 1983. Al governo per molti
anni (anche nel decennio successivo), questi partiti esercitarono
un ruolo importante di stabilizzazione sociale consolidando le
nuove istituzioni democratiche e portando a compimento
l'inserimento dei propri paesi nella Comunità Europea. Al tempo
stesso essi spostarono il baricentro dell'area di diffusione del
socialismo dai centri tradizionali dell'Europa centro-occidentale,
scandinava e britannica all'Europa meridionale, tanto che si è
parlato di un socialismo mediterraneo, caratterizzato da un più
accentuato pragmatismo e dalla tendenza al leaderismo. Oltre alla
compiuta integrazione politica e sociale dei partiti
socialdemocratici nell'Europa occidentale, e tralasciando
l'esperienza del socialismo reale nei paesi dell'Est
(riconducibile però alla storia del comunismo, ivi compreso quello
non allineato e autogestionario della Iugoslavia), l'altro fatto
nuovo del secondo dopoguerra fu lo sviluppo del socialismo nel
Terzo Mondo in condizioni molto diverse da quelle della 'culla
europea'.
Si affermò l'idea che nella seconda metà del XX secolo la
rivoluzione, o il grande mutamento, appartenesse alla campagna
piuttosto che alle fabbriche e alla città, e si collegasse ai
processi di decolonizzazione del Terzo Mondo e di formazione di
nuovi Stati indipendenti, che si affermavano per lo più dopo
lunghe e sanguinose guerre di liberazione contro le antiche
potenze coloniali. Il 'modello socialista' sembrò rappresentare
meglio le esigenze della modernizzazione e dello sviluppo rispetto
a quello del capitalismo industriale e finanziario, e parve in
grado di soddisfare la ricerca da parte delle élites dominanti,
spesso guidate da un leader carismatico, di un'identità sociale e
culturale che superasse in senso comunitario e al tempo stesso
nazionalistico le divisioni tribali, etniche e religiose. Esso di
solito si identificò nella prospettiva della nazionalizzazione
delle industrie di base e nella creazione di partiti-regime.Così,
in Egitto, Giamāl 'Abd an-Nāṣir (Nasser, 1918-1970), che salì al
potere nel 1952 con un colpo di Stato militare e assunse tutti i
poteri nel 1954 con il titolo di rais e poi come presidente della
Repubblica, dopo la crisi di Suez del 1956 intensificò la lotta
contro il capitale straniero avviando una politica di
nazionalizzazione di larghi settori dell'economia e promuovendo la
riforma agraria. Egli fece dell'Egitto una delle nazioni guida del
non allineamento, indicando al Terzo Mondo il socialismo nazionale
come la terza via allo sviluppo rispetto al socialismo reale dei
paesi dell'Est e al capitalismo occidentale. In Siria, nel 1953,
fu fondato il partito Ba'th come "movimento nazionale, populista e
rivoluzionario" impegnato nel conseguimento dell'unità araba,
della libertà e del socialismo. Il nazionalismo non era qui
circoscritto a uno Stato arabo in particolare, ma esteso al
'popolo arabo' nel suo complesso, di cui si rivendicava la
crescita spirituale e materiale, in una visione laica, non
religiosa né tribale. Il Ba'th andò al potere in Siria nel 1970,
con un colpo di Stato diretto da Hafiz Assad. Si è parlato poi di
'socialismo algerino' con Ahmed Ben Bella e con Houari
Boumedienne, e negli anni sessanta di 'socialismo tunisino' con
al-Habib Burghiba.
In Africa, tra le diverse ideologie della liberazione e del
potere, ebbe un ruolo significativo la concezione del 'socialismo
africano' e della 'negritudine' dello scrittore francofilo Léopold
Sédar Senghor, capo di Stato dell'ex Senegal francese dal 1960 al
1980. Ispirandosi al pensiero comunitario e umanistico premarxista
francese (ma anche di Léon Blum), Senghor parlò di una 'terza'
rivoluzione, dopo quella capitalista e comunista, destinata a
esaltare l'apporto dei popoli di colore alla nuova 'civiltà
planetaria'. Partendo da una valutazione negativa
dell'assimilazione coloniale egli riscoprì le tradizioni autoctone
e l'anima collettiva negra, non in contrapposizione ma a
completamento dei valori universali della civiltà europea. Fautore
di una concezione dirigistica e di 'una dittatura democratica' fu
invece Sekú Turé, presidente della Guinea dopo l'indipendenza
conseguita nel 1958. Convinto assertore di un 'socialismo
panafricano' (e non nazionale) fu infine il capo di Stato prima
del Tanganica (1962) e poi della Tanzania (1964) Julius Nyerere.
Cattolico, dopo avere compiuto gli studi in Inghilterra questi
delineò un progetto di socialismo fondato sull'espansione della
tradizionale famiglia allargata, allo scopo di pervenire a una
comunità in cui la proprietà privata venisse limitata e fosse
concessa la libertà di espressione, ma non l'organizzazione del
dissenso. Un'ulteriore applicazione di una democrazia dirigista
nazionalista, legata al non allineamento internazionale, è
riconducibile a Sukarno (1901-1970), primo presidente
dell'Indonesia nel 1945. Un esempio raro (a parte l'eccezione
giapponese) di una dinamica democratico-parlamentare per l'accesso
al governo fu dato in Cile nel 1970 dall'elezione alla presidenza
della Repubblica di Salvador Allende (1908-1973). Alla testa della
coalizione di Unidad Popular, composta da socialisti, comunisti,
radicali e cattolici di sinistra, egli governò per tre anni prima
di essere rovesciato da un colpo di Stato militare.
5. Verso il XXI secolo
Al suo XX congresso del 9 settembre 1996, a New York,
l'Internazionale socialista ha vantato l'adesione di oltre 140
partiti membri rispetto ai 110 nel 1992 (20 nel 1951 e 40 nel
1976). I partiti che si riconoscevano nell'Internazionale
socialista erano al governo in 13 paesi su 15 della Comunità
Europea. Nell'Europa orientale erano diventati complessivamente la
prima forza politica, dopo la conversione degli ex partiti
comunisti e l'efficace opposizione ai nuovi nazionalismi etnici.
Fuori dell'Europa erano al governo in Giappone, Pakistan, Nepal,
India, Cile, Giamaica, Costa Rica, Columbia e in moltissimi paesi
dell'Africa. Anche se l'Internazionale si configurava come un
luogo di incontro di partiti sulla base di criteri di adesione
abbastanza larghi (conformità agli ideali di democrazia, sviluppo,
pace; consistenza reale; gestione interna democratica), la sua
crescita attesta pur sempre che il socialismo era, più che mai
dopo il crollo del comunismo, una grande forza evocatrice in tutto
il mondo. L'espansione geografica del socialismo sembrava
finalmente concretizzarne l'aspirazione universalistica, presente
fin dalle origini, e l'ambizione di farsi interprete dei processi
di democratizzazione dei paesi già governati da regimi
dittatoriali o totalitari. L'esito di tale sfida, tuttora in
corso, coinciderà con le possibilità di affermazione nel Terzo
Mondo dei valori di tolleranza, di rispetto della persona, di
uguaglianza dei diritti politici e sociali propri della civiltà
occidentale, ma anche di efficaci politiche di sviluppo, in grado
tra l'altro di disinnescare la 'bomba' demografica.
Più difficile è prevedere quante delle esperienze del socialismo
nazionale nelle aree di sottosviluppo preludano a un'effettiva
nuova via che valorizzi le risorse indigene e con ciò arricchisca
anche il modello socialdemocratico originario nella
globalizzazione delle relazioni economiche e sociali.Eppure, nei
paesi europei e anglosassoni, cioè nell'area storicamente
propulsiva del socialismo, si sono fatte oggi più frequenti le
voci sulla vetustà o addirittura sul declino della
socialdemocrazia. La mondializzazione economica e la rivoluzione
tecnologico-informatica, l'esplosione demografica e la pressione
immigratoria, le politiche di risanamento dei bilanci pubblici
mettono in discussione il 'compromesso' socialdemocratico su cui
sono stati fondati il Welfare State e il keynesismo, e perfino la
tradizionale struttura a tre stadi imperniata sul rapporto
partito-sindacato-associazionismo collaterale. Più correttamente
si dovrebbe parlare di conclusione di un ciclo, fondato sul
binomio classe operaia-nazione, iniziato oltre un secolo fa,
nell'epoca dell'industrializzazione diffusa. Nel codice genetico
del socialismo (europeo) il futuro apparteneva al lavoro
dipendente, del quale il proletariato di fabbrica sarebbe stato il
nucleo aggregante e significativo, tanto più perché destinato a
diventare più omogeneo, più diffuso, più acculturato e più
consapevole.
Era un socialismo che faceva riferimento al lavoro manuale, e
quando si rivolgeva ad altri ceti (impiegati, quadri,
intellettuali, contadini) li coinvolgeva in quanto, nei
comportamenti e nelle attitudini, si rendevano 'popolo' o
'proletariato'. Nelle società postindustriali, il futuro
appartiene al terziario avanzato, sempre più informatizzato,
piuttosto che al settore secondario. E rispetto al lavoro, una
volta termine di partenza e di arrivo della vita, uno spazio
crescente viene assunto dal tempo di non lavoro o 'libero'.
D'altra parte l'affermazione preponderante dell''io' e del privato
sul pubblico parrebbe imporsi sulle pratiche di socializzazione e
classiste, e perfino comunitarie. La trasformazione del partito
socialdemocratico da partito di classe in partito catch-all
('pigliatutto') fa temere che ne vengano minate irrimediabilmente
le 'radici sociali' e vanificato il potere mobilitante
dell'ideologia.
Sono ridimensionati gli itinerari tipici di acculturazione della
massa dei lavoratori (quartieri, luoghi di ritrovo, linguaggio)
che rendevano omogenea la classe; e lo stesso processo produttivo
tende a 'individualizzarsi', con la flessibilità, il decentramento
e l'informatizzazione. Il frazionamento degli interessi facilita
la promozione di movimenti monotematici e di gruppi di pressione,
mentre diviene più incisiva la presenza di organismi
politico-economici e monetari sovranazionali: il partito nazionale
di grande apparato e di massa, in grado di intermediare la
domanda, per giunta inarticolata, registra una costante,
inarrestabile flessione. La percezione della chiusura di un ciclo
pare comunemente avvertita, cosicché per il socialismo sul finire
del XX secolo si parla sempre più di un passaggio dalle
nazionalizzazioni al mercato; dalla fiducia nel progresso lineare
alla prospettiva di uno sviluppo compatibile o sostenibile; dallo
statalismo alla valorizzazione delle associazioni non profit e
alla responsabilità dei cittadini; dalla lotta contro
l'ingiustizia sociale a quella contro l'esclusione e contro
presunte nuove ineguaglianze, quali quelle prodotte nelle città
dal degrado ambientale, dalla diffusione della droga, dalla
criminalità organizzata e dall'immigrazione. L'obiettivo è quello
di portare la cittadinanza al livello della quotidianità. Ai
socialisti è affidato il compito, davvero difficile e dall'esito
incerto, di adattare ai problemi attuali il modello ricevuto dai
padri in un secolo di lotte per l'uguaglianza dei diritti e per la
protezione sociale dell'individuo.
Dizionario di Filosofia (2009)
Socialismo
Il termine compare per la prima volta nel 18° sec., per designare
la corrente antihobbesiana del giusnaturalismo moderno,
ossia quei contrattualisti che ponevano all’origine della società
non la natura egoista e ferina dell’uomo, ma la sua tendenza alla
socialitas (da cui la definizione di «socialisti»). Questo
significato rimarrà tuttavia di uso assai ristretto e il termine
acquisirà il suo significato moderno, destinato a uno
straordinario successo, soltanto negli anni Trenta dell’Ottocento,
quando – a seguito dei problemi sociali sollevati in Inghilterra e
in Francia dallo sviluppo industriale – verrà usato per designare
le dottrine politiche (owenismo, sansimonismo, fourierismo) che
propugnavano la costruzione di un sistema sociale alternativo a
quello capitalistico, caratterizzato dalla scomparsa o dalla forte
limitazione della proprietà privata, dalla cooperazione collettiva
(in luogo della competizione individualistica), dall’eguaglianza
sociale ed economica (e non soltanto giuridica e politica).
Da allora in avanti l’idea socialista verrà declinata in modi
molto diversi, che possono essere classificati, con una qualche
semplificazione, attraverso il riferimento a due temi di cruciale
importanza: la natura del fine e la scelta dei mezzi per
raggiungerlo. Quanto alla natura del fine, le questioni dirimenti
sono l’atteggiamento verso la proprietà privata, il mercato e la
democrazia liberale. Per la tradizione socialista che si rifà, in
vario modo, alle teorie di Marx (e che sarà largamente
maggioritaria sino alla prima metà del Novecento), la proprietà
privata dovrà essere abolita e sostituita da un’integrale
socializzazione dei mezzi di produzione, con la conseguente
scomparsa del mercato e la radicale trasformazione dell’assetto
istituzionale (lo Stato liberal-democratico, che è soltanto lo
strumento del dominio borghese, verrà distrutto e sostituito da
uno Stato proletario che, dopo una fase transitoria di ‘dittatura
rivoluzionaria’, si estinguerà, lasciando il posto a una società
di liberi produttori che si autogovernano).
Per la tradizione che si rifà alle teorie di Proudhon (il s.
libertario o mutualistico, che rimarrà minoritario), la proprietà
di tipo capitalistico va abolita, ma non bisogna procedere alla
sua collettivizzazione, bensì alla sua diffusione tra i
lavoratori, dando vita a una società di piccoli produttori
organizzati in libere associazioni autogestite, ispirate ai
principi della cooperazione e legate tra loro da rapporti di tipo
federale (con conseguente abolizione dello Stato). Infine, per la
tradizione del s. democratico e riformista (il cui primo esponente
fu Bernstein), la proprietà privata e il mercato non vanno
aboliti, ma affiancati da una serie di interventi pubblici, più o
meno estesi, il cui scopo è correggere gli eccessi e le storture
del mercato e integrare i diritti civili e politici della
democrazia liberale con una serie di diritti e servizi sociali
(Stato sociale o Welfare State).
Quanto alla scelta dei mezzi, la grande alternativa è quella tra
rivoluzione e riforme: la scelta rivoluzionaria, tipica delle
forme di s. miranti a una radicale trasformazione dell’assetto
sociale, si accompagna a una teoria del soggetto rivoluzionario,
che per la tradizione marxista è la classe operaia (inquadrata nel
partito di massa, per il marxismo ortodosso; guidata dal
partito-avanguardia, per Lenin; incitata all’azione diretta e
all’auto-organizzazione nei consigli, per R. Luxemburg; guidata
dal sindacato rivoluzionario, per Sorel), mentre per la tradizione
anarchica è costituita dagli strati più emarginati (contadini,
studenti, intellettuali) delle società arretrate. La scelta
riformista, invece, implica una serie di cambiamenti graduali
dell’assetto sociale: al suo interno occorre tuttavia distinguere
nettamente tra il riformismo ‘tattico’ di ispirazione marxista (il
cui scopo era quello di servirsi degli strumenti della democrazia
‘borghese’ sino a quando non fossero maturate le condizioni per la
trasformazione rivoluzionaria) e il riformismo ‘strategico’ di
ispirazione democratico-liberale (che fa del gradualismo una
scelta di principio, accetta le istituzioni della società
liberal-democratica e sviluppa nel loro quadro un’azione volta a
tutelare e promuovere un certo grado di eguaglianza sociale).
Socialismo e comunismo. Tra i primi a usare il termine s. nel suo
significato moderno vi furono i seguaci di Saint-Simon (P. Leroux,
in un articolo apparso nel 1833 sulla Revue enciclopédique, ne
tentò una prima definizione, contrapponendo il s.
all’individualismo) e quelli di Owen (la cui rivista, The new
moral world, assunse nel 1836 la dizione di «organ of socialism»).
Lo stesso Owen, nel 1841, pubblicò un opuscolo intitolato Che
cos’è il socialismo?, mentre il termine – insieme a quello di
comunismo , ripreso dai seguaci di Cabet – si andava diffondendo
anche in Germania grazie all’opera di L. von Stein (Socialismo e
comunismo nella Francia d’oggi, 1842). Negli anni Quaranta tra s.
e comunismo non vi erano nette differenze: essi indicavano
varianti del medesimo movimento – in larga parte intellettuale –
che denunciava la condizione dei lavoratori nella società
capitalistica e proponeva il superamento di quest’ultima in
direzione di una società egualitaria.
Una prima netta differenziazione si ha nel 1848, quando Marx ed
Engels scelgono il termine comunista per titolare il Manifesto.
Tale scelta nasce da una netta opzione classista e rivoluzionaria:
nel 1847, spiegherà Engels nella prefazione all’edizione inglese
del Manifesto del 1888, tutti coloro che si definivano socialisti
(owenisti, sansimoniani, ecc.) erano «al di fuori del movimento
operaio» e miravano a ottenere «l’appoggio delle classi
‘istruite’»; viceversa, si definivano comunisti quei gruppi della
classe operaia che si erano convinti della «necessità di una
trasformazione generale della società» e quindi dell’insufficienza
di rivoluzioni soltanto politiche. La conclusione di Engels era
che nel 1847 «il s. era un movimento borghese, il comunismo un
movimento rivoluzionario».
Con la sconfitta dei movimenti rivoluzionari del ’48 la
distinzione tra s. e comunismo perse rilevanza, come dimostra
anche il fatto che i partiti ispirati alla dottrina di Marx, sorti
nell’ultimo quarto dell’Ottocento, presero il nome di
‘socialdemocratici’, ‘socialisti’, ‘operai’ o ‘laburisti’. In
questa fase, che si protrae sino alla Prima guerra mondiale, per
s. si intende sia la dottrina marxista nel suo complesso (il
cosiddetto s. scientifico), sia – sulla scorta di quanto aveva
scritto lo stesso Marx nella Critica al programma di Gotha (1875)
– la prima fase della società che nascerà dalla rivoluzione
proletaria (quella in cui a ciascuno verrà dato secondo il lavoro
svolto), distinta dalla fase finale, detta comunista (in cui a
ciascuno verrà dato secondo i suoi bisogni).
Sarà Lenin, leader della corrente bolscevica del partito
socialdemocratico russo, a riattualizzare la contrapposizione tra
comunismo e s.: il leader bolscevico restituirà infatti al suo
partito, nel 1918, l’antica denominazione di comunista, ancora una
volta per rimarcare la distanza che separava i ‘veri
rivoluzionari’ da quelli ‘falsi’ (ossia dai partiti socialisti
europei, che per Lenin si erano «imborghesiti»). Da allora in
avanti s. e comunismo rappresentarono due culture politiche
distinte e spesso in rapporti ostili, anche se tra i partiti
socialisti di ispirazione marxista e i partiti comunisti rimarrà
comune l’idea di un ordinamento sociale radicalmente alternativo
(sotto il profilo economico e politico) a quello della democrazia
liberale.
Le prime forme di socialismo. Le prime forme di s. si
caratterizzano per il richiamo alla scienza e alla sperimentazione
sociale, nella convinzione che il passaggio alla nuova società
debba realizzarsi grazie alla forza della convinzione e
dell’esempio. Saint-Simon era convinto che la soluzione del
problema sociale non sarebbe venuta dalla politica, ma
dall’alleanza tra scienza e industria. Nella società del futuro al
dominio dei ceti oziosi (aristocratici, militari e redditieri) si
sarebbe sostituito quello dei savants («scienziati») e degli
industriels (imprenditori e operai), i quali avrebbero garantito
uno sviluppo armonico a tutto vantaggio della classe più numerosa
e più povera. I sansimoniani (sansimonismo) collocheranno le
argomentazioni del maestro in uno schema fondato sul contrasto tra
proprietà privata e funzionamento ottimale del sistema
industriale, mostrando come l’organizzazione sociale di tipo
capitalistico concentri gli enormi vantaggi resi possibili
dall’industrializzazione nelle mani di pochi e conduca allo
«sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo» (di qui la proposta di
trasferire allo Stato, trasformato in associazione dei lavoratori,
la proprietà di terre e capitali).
Il s. di Owen e di Fourier si caratterizza invece per l’ideazione
di «comunità-modello». Fourier teorizza lo sviluppo di
comunità autosufficienti (dette falansteri), nelle quali gli
individui eseguono ogni lavoro in comune, avendo anche la
possibilità di cambiare periodicamente funzione. Owen , dal canto
suo, progetta dei «villaggi cooperativi», ossia delle comunità in
cui ai principi dell’individualismo competitivo, propri
dell’economia capitalistica, si sostituiscono i principi della
cooperazione: tali villaggi sono fondamentalmente agricoli, anche
se Owen non esclude determinate attività industriali; a differenza
dei falansteri, essi producono non solo per il consumo, ma anche
per lo scambio tra comuni. Anche se i villaggi realizzati da Owen
diedero risultati deludenti, i principi dell’owenismo lasciarono
tracce profonde nel s. anglosassone, che si caratterizzerà per
l’attitudine pragmatica e riformista. Quanto al sansimonismo, esso
lascerà in eredità alla cultura francese lo stretto legame tra s.,
scienza e progresso.
Socialismo di Stato e socialismo libertario e mutualistico. Tra le
prime formulazioni dell’idea socialista vi è anche quella del s.
di Stato o s. governativo, che da alcuni studiosi è considerato
una sorta di anticipazione del s. democratico, per la connessione
che istituisce tra s. e democrazia politica, nonché tra s. e
intervento dello Stato nella sfera economica. Tanto il francese L.
Blanc (che farà parte del governo provvisorio scaturito dalla
rivoluzione del 1848), quanto il tedesco F. Lassalle (una delle
più eminenti figure del s. tedesco, fondatore nel 1863
dell’Associazione nazionale degli operai tedeschi, che sarà il
primo embrione del partito socialdemocratico) sono convinti che lo
Stato, grazie alla conquista del suffragio universale, potrà
divenire uno strumento per l’emancipazione dei lavoratori,
stimolando l’istituzione di industrie autogestite da associazioni
operaie: Blanc teorizza gli ateliers sociaux, nella convizione che
essi, liberi dalla logica del profitto, garantiranno il diritto al
lavoro, porteranno a una tendenziale eguaglianza delle
retribuzioni e supereranno, sul piano della produttività, le
industrie private, sconfiggendo il principio capitalistico della
concorrenza con le sue stesse armi. Lassalle pensa a un sistema di
cooperative di produzione e di consumo, sempre sostenute dallo
Stato, che spezzi la «ferrea legge dei salari» (ossia il loro
attestarsi al livello minimo della sussistenza).
Agli antipodi del s. di Stato si colloca il s. libertario o
mutualistico di Proudhon , che si caratterizza per la carica
anti-autoritaria, per la ‘via economica’ (e non politica) al s. e
per la sua avversione al collettivismo comunistico. Per Proudhon
la proprietà privata è un «furto» soltanto nella sua versione
capitalistica, perché si concentra in poche mani, permettendo di
sfruttare il lavoro altrui; ma se la proprietà consiste nel
possesso, da parte dei lavoratori (singoli o associati), degli
strumenti di produzione, allora essa rappresenta la migliore
garanzia di libertà da ogni forma di potere.
Per riorganizzare la società occorre dunque agire sul piano
economico, non collettivizzando la proprietà (perché una comunità
proprietaria unica dei mezzi di produzione finirebbe per
schiacciare le libertà individuali), ma dando a tutti la
possibilità – attraverso un sistema gratuito del credito – di
diventare proprietari e di vendere i prodotti del proprio lavoro
al giusto prezzo. A questa riforma economica si dovrà affiancare
una riforma politica, consistente nel passaggio
dall’organizzazione politica della società (fondata sullo Stato e
quindi sull’autorità e sull’accentramento del potere)
all’organizzazione sociale (fondata sui principi della democrazia
economica e del federalismo sociale).
Enciclopedia del Novecento (1982)
di Iring Fetscher
Socialismo
Sommario: 1. Significato del termine. 2. Valori fondamentali del
socialismo democratico. 3. La critica socialista della società
industriale capitalistica. 4. Critica socialista al socialismo di
Stato (capitalismo di Stato, socialismo burocratico). 5.
Socialismo e paesi in via di sviluppo. 6. Forme della transizione
pacifica al socialismo. 7. Necessità di argomenti morali a favore
del socialismo. 8. Socialismo e pace mondiale. 9. Conclusione. □
Bibliografia.
1. Significato del termine
Con ‛socialismo' ci si riferisce oggi, in genere, a due fenomeni
diversi. In primo luogo, il termine caratterizza un ordinamento
sociale in cui i mezzi di produzione essenziali appartengano alla
comunità (allo Stato o alle cooperative dei produttori), e in cui
valga il principio ‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno
secondo il suo lavoro": un ordinamento sociale, cioè, in cui le
opportunità di consumo di ognuno siano proporzionate alle
prestazioni lavorative effettuate per la comunità. In secondo
luogo, s'intende con ‛socialismo' una tendenza politica mirante a
riforme di vasta portata, o anche a un mutamento rivoluzionario
della società capitalistica, nonché l'organizzazione a essa
corrispondente. Sotto questa seconda accezione è possibile, in
verità, raccogliere un numero straordinariamente grande di
organizzazioni e di movimenti, i quali tutti - più o meno a buon
diritto - pretendono per sé la qualifica di socialista.
La prima di queste due accezioni del termine risale alla critica
rivolta da Marx al programma di Gotha dei socialdemocratici
tedeschi, nella quale si legge: ‟Quella con cui abbiamo da far
qui, è una società comunista, non come si è sviluppata dalla
propria base, ma viceversa come emerge dalla società
capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto,
economico, morale, spirituale, le macchie della vecchia società
dal cui seno è uscita. Perciò il produttore singolo riceve - dopo
le detrazioni [per il fondo di riproduzione e per gli inabili al
lavoro, per scuole, ospedali, ecc.] - esattamente ciò che dà [...]
Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio
delle merci in quanto è scambio di cose di valore uguale.
Contenuto e forma sono mutati, perché, cambiate le circostanze,
nessuno può dare niente all'infuori del suo lavoro, e perché
d'altra parte niente può passare in proprietà del singolo
all'infuori dei mezzi di consumo individuali. [...] L'uguale
diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio, il
diritto borghese, benché principio e pratica non contrastino più.
[...] Nonostante questo progresso, questo ugual diritto reca ancor
sempre un limite borghese. Il diritto dei produttori è
proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l'uguaglianza
consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale,
il lavoro. Ma l'uno è fisicamente o moralmente superiore
all'altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure
può lavorare per un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come
misura, dev'essere determinato secondo la durata e l'intensità,
altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è un
diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna
distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti
gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine
individuale, e quindi la capacità di rendimento, come privilegi
naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della
disuguaglianza, come ogni diritto [...]" (v. Marx, 1891; tr. it.,
pp. 960-961).
Marx accenna anche alle disuguali condizioni di vita, le quali
rendono disuguale, di fatto, l'uguale retribuzione per l'uguale
lavoro (la situazione del padre di famiglia è diversa da quella,
per es., del celibe, ecc.), e conclude: ‟Ma questi inconvenienti
sono inevitabili nella prima fase della società comunista, qual è
uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società
capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della
configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa
condizionato, della società" (ibid.). Più oltre, questa ‟prima
fase della società comunista" viene designata comprensivamente
come ‟socialismo" e distinta dalla ‟seconda" o ‟più elevata fase",
definita ‟comunismo", quella in cui la ripartizione dei beni di
consumo e dei servizi può essere effettuata secondo il principio
‟a ognuno secondo i suoi bisogni", cosicché viene superata ogni
ingiustizia derivante dall'uguale trattamento di individui di
fatto disuguali. Circa questa ‟fase più elevata", Marx osserva che
in essa ‟la subordinazione asservitrice degli individui alla
divisione del lavoro" e quindi anche il ‟contrasto tra lavoro
intellettuale e manuale" sono destinati a scomparire, e che il
lavoro cesserà di essere ‟soltanto mezzo di vita" per diventare il
‟primo bisogno della vita".
Non possiamo proporci qui il compito di discutere la problematica
di questa ‟più elevata fase della società comunista". Ci limitiamo
a osservare che, se nelle società capitalistiche industrialmente
avanzate si compiono già oggi molteplici tentativi di eliminare
(attraverso assegni familiari, sussidi per la casa, gratuità
dell'istruzione, refezioni scolastiche, ecc.) quelle
disuguaglianze che Marx riteneva inevitabili ancora nel
‛socialismo', esse permangono tuttavia in larga misura; e
soprattutto esiste ancora in tutte le società capitalistiche una
parte (più o meno grande) della popolazione che non vive della
retribuzione del proprio lavoro, ma dei profitti, interessi o
rendite derivanti dalle sue proprietà private (siano esse sotto
forma di capitali, possessi fondiari, ecc.).
Al pari della prima, anche la seconda accezione del termine
‛socialismo' deriva i propri tratti distintivi dalla
contrapposizione al comunismo. Da quando il Partito operaio
socialdemocratico russo (bolscevico) abbandonò nel 1918 la sua
vecchia denominazione per assumere quella di ‛partito comunista',
in tutti i paesi frazioni dei partiti socialisti allora esistenti
seguirono il suo esempio e si rifondarono sotto la medesima
denominazione. I termini ‛socialismo', ‛socialista' e
‛socialdemocratico' acquistarono in tal modo, per così dire
automaticamente, un significato critico - e di delimitazione - nei
confronti del comunismo leninista. Questa delimitazione, che nei
partiti europei andò facendosi sempre più netta col passare del
tempo per raggiungere la massima asprezza durante l'era staliniana
e la guerra fredda, era voluta espressamente da entrambe le parti.
Al secondo congresso del Komintern (Pietrogrado-Mosca,
19/7-7/8/1920) Lenin formulò le ‛condizioni di ammissione' per
ogni partito che volesse aderire all'Internazionale, condizioni
che rendevano impossibile, di fatto, l'ingresso di partiti
socialdemocratici e laburisti.
Molte di queste richieste sono di tale natura che oggi (1975)
neppure tutti i partiti comunisti potrebbero soddisfarle
interamente. Menzioneremo i punti più importanti. Il primo
stabilisce che la propaganda del partito ‟deve avere un carattere
realmente comunista" e ‟tutti gli organi di stampa che si trovano
nelle mani del partito devono essere diretti da comunisti fidati".
Questa richiesta viene poi rafforzata dal punto 12, che esige la
‟completa subordinazione" di tutta la stampa periodica e non
periodica del partito al Comitato centrale. Il sesto punto esige
la rottura radicale con il ‟socialpatriottismo e socialpacifismo"
sia manifesti che occulti; il settimo un allontanamento di tutti i
‛riformisti' e ‛centristi'; l'ottavo una politica decisamente
anticoloniale (soprattutto negli Stati che ancora possiedono
colonie); l'undicesimo una ‛verifica' della ‟composizione dei
gruppi parlamentari"; il tredicesimo l'introduzione del principio
del ‛centralismo democratico' e una ‟disciplina ferrea, confinante
con la disciplina militare"; il quattordicesimo ‟epurazioni
periodiche degli iscritti alle organizzazioni del partito (nuova
registrazione)"; il quindicesimo ‟l'appoggio alla lotta
dell'Unione Sovietica contro le forze controrivoluzionarie"; il
sedicesimo la revisione dei programmi e il loro adattamento alle
deliberazioni dell'Internazionale; il diciassettesimo la
subordinazione dei partiti nazionali ‟alle deliberazioni dei
congressi dell'Internazionale comunista nonché a quelle del suo
Comitato esecutivo"; e infine il diciottesimo esige che ‟i partiti
mutino la propria denominazione in quella di Partito comunista
(del tale paese), Sezione della Terza Internazionale Comunista"
(v. Lenin, 1967, pp. 195-200).
Per i capi della maggioranza dei partiti socialisti tali richieste
erano semplicemente inaccettabili. In particolare, non era
possibile pensare a un'esclusione dei ‛riformisti' e dei
‛centristi', i quali costituivano la grande maggioranza dei gruppi
dirigenti della SPD e degli altri partiti socialisti nell'Europa
occidentale.
In seguito a questa spaccatura, il movimento socialista fuori
della Russia si sviluppò sotto il segno della distinzione, e
spesso del contrasto, nei confronti del partito russo
(ribattezzato ‛Partito comunista') e dei suoi partiti fratelli
nell'Europa occidentale e centrale. La completa vittoria del
riformismo all'interno dei partiti rimasti fuori del Komintern
(specialmente nella SPD e nella SF10) dipese tra l'altro dal fatto
che i marxisti rivoluzionari avevano in grandissima parte
abbandonato i partiti socialisti per aderire ai partiti comunisti
di nuova fondazione.
Numerosi tratti peculiari del movimento socialista risalgono a
questa rottura - causata dalla preminenza del leninismo
all'interno della neonata Terza Internazionale - con l'ala
rivoluzionaria del movimento operaio. E precisamente: 1) a
differenza dei partiti comunisti, da allora in poi i partiti
socialisti sottolineano il ‛carattere democratico' non solo del
futuro ordinamento sociale (ciò che avevano già fatto
espressamente Marx ed Engels), ma anche della ‛transizione' dalla
società capitalistica alla società socialista; 2) a differenza di
quelli comunisti, i partiti socialisti (almeno nella maggioranza
dei casi) ritenevano - e ritengono - possibile una ‛transizione
graduale' dal capitalismo al socialismo (riformismo). Per un certo
periodo accadde persino che taluni partiti socialisti
rinunciassero interamente all'obiettivo di una ‛società
socialista' (nel senso marxiano) e si limitassero a correzioni -
mediante riforme sociali - del capitalismo, il quale dal canto
suo, sulla scia della ‛rivoluzione keynesiana', andava facendosi
sempre più dipendente dagli interventi dello Stato in materia
finanziaria ed economica.
A rigor di termini, partiti come quello laburista inglese non
sono neppure ‛riformisti', in quanto - anche se un programma di
statizzazione generale è stato mantenuto a parole per decenni -
essi non sono affatto interessati a una completa trasformazione
della società in senso socialista; 3) a differenza di quelli
comunisti, i partiti socialisti sono in pratica sempre pronti a
formare coalizioni, mentre i comunisti sono disposti a entrare in
coalizioni di sinistra soltanto sotto la minaccia di un ‛pericolo
fascista', e spesso soltanto a condizioni inaccettabili dai loro
partners. (Il governo di fronte popolare in Francia sotto Léon
Blum rappresenta una rara eccezione, anche se al giorno d'oggi, in
verità, tanto il Partito comunista italiano che quello francese
sono disposti a formare coalizioni con partiti non comunisti).
I partiti socialisti hanno perciò sostenuto governi la cui
politica a stento mostrava ancora un qualche rapporto con le
rivendicazioni e gli ideali del socialismo (si pensi al national
government di MacDonald, alle varie coalizioni SPD-Centro nella
Repubblica di Weimar e alle coalizioni della SFIO in Francia dopo
la seconda guerra mondiale); 4) in continuazione della ‛svolta
nazionalistica' dell'estate 1914, la maggioranza dei partiti
socialisti - soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali -
si sono sempre più saldamente attestati su posizioni
nazionalistiche. A ciò ha contribuito anche il pervertimento
dell'internazionalismo proletario dovuto alla subordinazione della
Terza Internazionale agli interessi dell'Unione Sovietica.
Soltanto la seconda guerra mondiale e la coalizione antifascista
hanno nuovamente indebolito queste tendenze nazionalistiche. Ma
ricordiamo che ancora dopo il 1945 la SFIO, e persino la
ricostituita SPD, erano orientate in senso nazionalistico.
D'altro canto, dei termini ‛socialismo' e ‛socialista' abusarono
anche partiti che avevano completamente rotto con la tradizione
socialista delle riforme e della rivoluzione sociale. Il partito
fascista tedesco si qualificava come Partito tedesco
‛nazionalsocialista dei lavoratori' (Nationalsozialistische
deutsche Arbeiterpartei) e cercava in tal modo di sfruttare a
proprio vantaggio il valore propagandistico di tale etichetta. A
parte un paio di punti programmatici riguardanti le riforme
sociali e in seguito completamente dimenticati (come la
municipalizzazione dei grandi magazzini e la statalizzazione dei
trusts), l'ostentata natura ‛socialista' e ‛filooperaia' del
nazismo si limitò a parole d'ordine come ‟onore al lavoro",
‟bellezza del lavoro", ‟unità dei lavoratori del braccio e della
mente", e alla propaganda di un'armonia sociale sotto il segno
della ‛comunità popolare' e della ‛comunità aziendale'. Nel
‛Fronte dei lavoratori' - che aveva sostituito i disciolti
sindacati - erano raccolti insieme imprenditori e operai. Il
piccolo-borghese declassato Adolf Hitler amava presentarsi come
‛ex operaio'. Anche il valore simbolico della rivoluzionaria
bandiera rossa fu ripreso dai fascisti tedeschi (così come i
fascisti italiani avevano ripreso il nero dalle bandiere degli
anarchici).
Un analogo abuso del termine ‛socialismo' è rintracciabile in una
quantità di partiti che detengono il monopolio del potere statale
nei paesi ex coloniali. Anche qui la parola è destinata a
comunicare l'illusione della giustizia sociale e dell'armonia tra
le classi, ma solo per consolidare in tal modo la compattezza e la
forza combattiva della nazione.
2. Valori fondamentali del socialismo democratico
Per grande che continui a essere, per il socialismo del sec. XX,
l'importanza del marxismo, mi sembra ragionevole cominciare un
panorama dei problemi e dei compiti odierni del socialismo non con
una ricapitolazione (o ricostruzione) della teoria marxiana
dell'evoluzione della società capitalistica, ma con una rassegna
dei valori fondamentali del socialismo democratico, così come essi
si sono delineati anzitutto negli anni successivi alla seconda
guerra mondiale.
Al vertice di tali valori fondamentali del socialismo democratico
stanno, con pari dignità, la ‛libertà' e la ‛giustizia sociale'. I
socialisti non rifuggono dall'ammettere che le proprie finalità
politiche si riallacciano a valori morali (e anche a convinzioni
religiose). Il programma di Godesberg della SPD ha espressamente
riconosciuto una pluralità di ‛fondazioni' egualmente valide della
lotta per il socialismo. Del resto, non soltanto gli utopisti
premarxisti, ma anche lo stesso Marx - e così Engels - rivelavano
in ultima analisi una motivazione etica quando si schieravano a
favore dell'avvento di un nuovo ordinamento sociale. Se questa
circostanza è stata trascurata - anche all'interno della
socialdemocrazia tedesca avanti la prima guerra mondiale - ciò è
dovuto soltanto alla preponderanza che nel marxismo ha l'interesse
per l'economia e per la teoria della storia. M. Horkheimer ha
osservato una volta, con ragione, come la dimostrazione che un
determinato sviluppo è destinato a verificarsi con ‟la necessità
di una legge naturale" non sia ancora, per il singolo, un motivo
per accelerarne il corso con il proprio intervento. Solo in quanto
era convinto - sulla base delle contraddizioni della società
capitalistica - dell'inevitabile avvento di un'‟associazione dei
liberi produttori", nella quale ‟il libero sviluppo di ciascuno
sia la condizione del libero sviluppo di tutti", in Marx venivano
a coincidere la visione scientifica del corso necessario
dell'evoluzione e l'adesione eticamente motivata a esso. La
dimensione etica era per Marx ovvia, giacché era egli stesso un
tipico erede della borghesia liberale e delle sue migliori
tradizioni.
Il socialismo democratico si rifiuta di attribuire un predominio
esclusivo a uno solo dei due valori fondamentali: la libertà e la
giustizia sociale. Dipende soprattutto dalle concrete condizioni
di un paese quale dei due valori debba essere sostenuto con
maggiore energia (senza però che sia mai possibile perdere l'altro
interamente di vista).
Con ‛libertà' il socialismo intende anzitutto il libero
dispiegamento di ciascuno dei diversi talenti individuali, e in
secondo luogo un'organizzazione della società che consenta a
ciascuno dei suoi membri adulti di collaborare attivamente al
disbrigo degli affari comuni. Questa seconda specie di libertà -
la libertà democratica - può essere considerata come una forma
della prima; essa ha però, oltre a ciò, anche un'importante
‛funzione strumentale'. Da un lato favorisce il dispiegamento e
l'attivazione delle capacità individuali nel processo collettivo
di discussione e decisione politica, dall'altro serve a
controllare i governanti (i quali, nell'attuale ordinamento basato
sulla divisione del lavoro, sfruttano le loro importanti
funzioni), e a proteggere i singoli contro il loro potere.
La giustizia sociale è volta all'instaurazione graduale di una
completa ‛uguaglianza di opportunità' (diretta a consentire il
dispiegamento delle molteplici capacità individuali). È possibile
fare alcuni passi su questa strada anche nel quadro di una società
basata sulla proprietà privata; o, in ogni caso, è possibile
quando tale società abbia raggiunto un alto grado di
industrializzazione. Così, per esempio, la gratuità
dell'istruzione - anche per i giovani che vogliono proseguire gli
studi medi e universitari -, come pure la concessione di borse di
studio agli studenti capaci, sono obiettivi realizzabili anche
senza il superamento dell'ordinamento basato sulla proprietà
privata.
In verità, è facile immaginare che i giovani dei ceti abbienti,
privati in tal modo di una (piccola) parte dei propri privilegi,
cercheranno delle scappatoie per sfuggire all'‛effetto livellante'
di una uguaglianza di opportunità nel campo dell'istruzione. Ma,
anche se si raggiungesse l'obiettivo di un'uguaglianza di
opportunità formalmente completa in materia di accesso alla scuola
media e all'università, rimarrebbero tuttavia, per i giovani delle
famiglie operaie, evidenti situazioni di svantaggio: l'ambiente
linguistico familiare ostacola lo sviluppo delle doti naturali
legate al linguaggio, tanto che i figli di operai ottengono nei
test attitudinali (non matematici) risultati inferiori a quelli
che corrisponderebbero alle loro doti ‛innate'. La volontà di
procurarsi, attraverso l'apprendimento, i presupposti per
l'accesso a occupazioni professionali più interessanti è, nelle
famiglie operaie, assai meno diffusa che in quelle borghesi e
piccolo-borghesi.
L'ambiente sociale esercita istintivamente, nell'interesse del
mantenimento della solidarietà di classe, un'azione frenante nei
confronti degli individui che vogliono emergere. Solo se ci fosse
la garanzia che al successo professionale non si associasse
necessariamente il passaggio in un'altra classe - ovvero, se la
propria occupazione implicasse comunque un effettivo collegamento
con la classe d'origine -, questa influenza inibente potrebbe
essere interamente eliminata. In alcuni strati discriminati (come
i Negri nordamericani o gli Algerini in Francia, i Turchi o altri
lavoratori stranieri nella Germania Federale) si aggiunge inoltre
una - reale o presunta - mancanza di prospettive di raggiungere
una posizione professionale legata a un'istruzione superiore.
L'offuscamento dell'orizzonte futuro scoraggia gli sforzi e blocca
lo sviluppo intellettuale (e affettivo).
Se si porta la discussione su di un piano concreto, l'obiettivo
della giustizia sociale - nel senso di una realizzata uguaglianza
delle opportunità - appare straordinariamente difficile e come una
meta ancora assai lontana. Su questa strada, l'ordinamento basato
sulla proprietà privata non costituisce affatto l'unico ostacolo
(anche se è forse il più potente). Che la sua eliminazione non
comporti quindi, di per sé, l'instaurazione della giustizia
sociale e dell'uguaglianza delle opportunità, è cosa che risulta
chiaramente da indagini compiute in paesi a socialismo burocratico
sui desideri e sulle opportunità, in materia di scelta
professionale, dei giovani di famiglie operaie, i quali - in una
percentuale che si aggira spesso sull'80-90% - finiscono per fare
gli operai come i loro padri (da ricerche sociologiche condotte in
Ungheria). In questo caso, è ben possibile che svolga un ruolo
importante, nei confronti di quelli che vogliono emergere, il
motivo della solidarietà di classe e dell'influenza ambientale
(motivo caldeggiato dagli strati burocratici privilegiati).
Verosimilmente, una completa uguaglianza delle opportunità
sarebbe raggiungibile soltanto se scomparissero interamente le
forti differenze - nello stile di vita e nel reddito - tra gli
elementi altamente qualificati (tecnici, burocrati, funzionari,
artisti) da un lato e i semplici lavoratori manuali dall'altro.
Per il momento, di una siffatta evoluzione non c'è ancora traccia
nei paesi a socialismo burocratico (a differenza di quanto avviene
nella Cina Popolare).
Nei paesi industrialmente avanzati e orientati verso le riforme
sociali (come la Svezia) esiste invece una tendenza verso
l'instaurazione di livelli salariali compensativi. Ciò vuol dire
che i salari tendono a essere tanto più alti quanto minore è la
soddisfazione ricavabile da una data occupazione. A favore della
rigorosa attuazione di questo principio gioca anche un incentivo
economico addizionale, quello cioè di sostituire in misura sempre
maggiore le mansioni superpagate con processi automatici. È,
questa, una tendenza che in molti paesi industrialmente avanzati
viene frenata da un afflusso di manodopera priva di istruzione (e
più economica), la quale non richiede ancora livelli salariali
compensativi.
Nella rassegna dei valori fondamentali del socialismo democratico
il terzo posto è occupato dalla ‛pace'. Con ciò s'intende, in
primo luogo, l'istituzione di un regime di pace tra gli Stati
(ancora relativamente) sovrani; quasi sempre vi si associa, però,
l'inclinazione ad attribuire grande valore alla ‛pace sociale'. Si
constata ancora, è vero, l'esistenza di contrasti tra le classi,
ma si assume che: 1) possano essere risolti nella forma di una
composizione dei conflitti istituzionalmente regolata (contratti
collettivi, scioperi, procedure di arbitrato, ecc.); e che 2)
nell'interesse di un progresso pacifico si debba impedire il più
possibile lo ‛scoppio di lotte aperte'.
Le due specie di pace, però, non debbono essere necessariamente
associate l'una all'altra. Al contrario, conflitti di classe sul
piano interno possono anche diventare il presupposto di una pace
duratura, quando abbiano lo scopo di strappare il potere a uno
strato imperialistico e guerrafondaio della propria società e di
condurre lo Stato sotto un controllo realmente democratico.
L'orientamento dei partiti socialisti e laburisti europei verso
una politica di pace, anzi una politica pacifista, ha sortito dopo
il 1945 grossi successi, ai quali non sono mancati riconoscimenti
internazionali. Nel 1975 J. K. Galbraith ha definito i successi
delle coalizioni e dei governi socialisti in politica estera come
il vero titolo di merito del socialismo nella nostra epoca:
‟Nell'ultimo trentennio la sinistra democratica nei paesi
industriali si è dimostrata capace di liquidare l'impegno
oltremare (nelle sue forme coloniali e non coloniali). La sinistra
francese ha accelerato la ritirata militare dall'Indocina e dal
Nordafrica; in altri paesi le sinistre hanno in parte condotto a
termine ciò che avevano cominciato. I socialdemocratici tedeschi
hanno posto nella sua giusta prospettiva il problema dei territori
orientali.
La sinistra americana si è messa alla testa di un movimento che
ha condotto alla fine dell'intervento in Vietnam" (‟Le nouvel
observateur, spécial économie", luglio 1975, p. 70). A questo
titolo di merito corrisponde però, secondo Galbraith, un relativo
fallimento riguardo al compito di una trasformazione della società
capitalistica. Paradossalmente, i successi di uomini politici come
W. Brandt, B. Kreisky ecc., si sono avuti proprio nei settori
tradizionalmente considerati come tipici dei conservatori.
Galbraith fa risalire tale fallimento soprattutto alla mancanza di
specialisti abbastanza competenti da guidare un'economia moderna -
in conformità a un piano - in modo tale che risultino garantite al
contempo la stabilità della moneta e la piena occupazione. Ci si
deve chiedere però se - anche nel caso di un migliore sfruttamento
degli strumenti esistenti - una guida siffatta sia possibile
continuando a mantenere la libertà decisionale in materia di
investimenti, sia per le imprese autonome sia per il settore
controllato da trusts internazionali.
A questo proposito, i socialisti e i socialdemocratici (per es.
svedesi) si differenziano dai comunisti (marxisti-leninisti
dogmatici) soprattutto per un maggiore ‛pragmatismo'. Le
socializzazioni vengono bensì prese in considerazione in quanto
possibile strumento, ma non se ne fa uno scopo assoluto. Se, per
esempio, una crescita dell'economia in direzione della piena
occupazione, della creazione di centri produttivi non nocivi per
l'ambiente e della produzione di beni di consumo durevoli, non è
possibile in altro modo, si procede allora a una socializzazione,
cioè si sopprime la libertà decisionale dei proprietari o dei loro
rappresentanti - in materia di investimenti. E però immaginabile
che una tale operazione possa aver luogo anche nella forma di una
cogestione (Mitbestimmung), e quindi non sempre necessariamente in
quella di una regolare espropriazione.
3. La critica socialista della società industriale capitalistica
Le società capitalistiche contemporanee sono oggetto di critica da
parte non solo dei socialisti, ma anche dei conservatori e dei
comunisti. Ma, per quanto numerosi possano essere i punti di
concordanza, le differenze nelle finalità e nei valori comportano
anche differenze nelle critiche che alla società capitalistica
vengono rivolte. La critica socialista poggia sui valori della
libertà individuale e della giustizia sociale (uguaglianza);
valori che, pur essendo alla base anche dell'ideologia borghese (a
partire dalla Rivoluzione francese), sono però sempre stati
disattesi nella prassi degli Stati borghesi capitalistici. La
critica che i comunisti contemporanei di stampo sovietico
rivolgono al capitalismo prende invece le mosse, in prevalenza,
dal valore dell'aumento della produzione: essa insiste quindi
maggiormente sul fatto che il capitalismo è incapace di sviluppare
la produzione (e la produttività del lavoro) sino al punto da
consentire una piena e onnilaterale soddisfazione dei bisogni di
tutti i membri della società. Questa ristrettezza della
prospettiva critica si può spiegare, storicamente, considerando
l'arretratezza storica della Russia e la sua situazione verso la
fine della guerra civile.
Mentre la critica comunista rimprovera al punto di vista
socialista la sua affinità con la tradizione borghese, gli uomini
politici socialisti hanno a che fare, nella prassi delle società
industrialmente avanzate, con una borghesia che si è sempre più
allontanata, di fatto, dai valori fondamentali del proprio passato
umanistico, e anzi, spesso, li rinnega cinicamente. Questo
allontanamento dai valori delle proprie origini è ravvisabile
anche sul piano scientifico. Un esempio tipico è la teoria della
democrazia. Nella sua forma originaria, la democrazia era
l'autodeterminazione del popolo (o piuttosto della borghesia, che
si identificava con il popolo come totalità). Essa si
caratterizzava come ‛dominio del popolo', ovvero come ‛identità di
governanti e governati'.
Nella ‛teoria economica della democrazia', oggi largamente
diffusa, troviamo invece semplicemente un'intesa di élites
concorrenziali, le quali, in elezioni periodicamente organizzate,
combattono per il diritto all'esercizio del potere. L'esistenza di
élites al governo (e all'opposizione), e la possibilità ch'esse si
scambino i ruoli in seguito a consultazioni elettorali, è ritenuta
un presupposto pienamente bastevole per una democrazia efficiente.
L'atto del voto (come unica ‛attività' del cittadino) è
interpretato in analogia con l'‛atto di compera' proprio del
consumatore. La propaganda delle élites concorrenziali per
guadagnarsi la fiducia degli elettori è l'analogo della pubblicità
dei produttori di merci per procacciarsi i clienti.
L'esistenza di oligopoli, che in campo economico è spesso ancora
oggetto di critica, in campo politico da lungo tempo non appare
più come uno svantaggio. L'esistenza anche solo di due concorrenti
è giudicata sufficiente.
A questa concezione ristretta della democrazia viene contrapposta
dai critici di sinistra l'esigenza di una ‛democrazia
partecipativa', che consenta al singolo cittadino di partecipare
direttamente e indirettamente alla formazione delle decisioni
politiche in qualsiasi sede (comunale, regionale, provinciale,
statale). La teoria partecipativa muove dal principio che una
concorrenza di élites non significa libertà democratica,
soprattutto se si considera che di solito vi si associa una
crescente spoliticizzazione della coscienza dei cittadini,
declassati a ‛consumatori di politica'.
La critica socialista, inoltre, mette in chiaro che la democrazia
delle élites concorrenziali sembra essere un mezzo per mantenere
le masse elettorali dipendenti in una condizione di amorfa
passività, e per stabilizzare quindi lo status quo socioeconomico
(cioè l'esistenza di strati economicamente privilegiati). In una
situazione caratterizzata dalla concorrenza di élites partitiche è
assai difficile che si sviluppi la coscienza della necessità di
radicali riforme di struttura (o di un mutamento rivoluzionano); e
in particolare è difficile quando la preoccupazione dei due (o
più) concorrenti è necessariamente quella di soddisfare a breve
scadenza i desideri della maggioranza degli elettori, e nessun
partito ha, da solo, la possibilità di spuntarla contro il peso
immenso della pubblicità che il sistema economico mette
incessantemente in opera a proprio vantaggio.
Da questa visione delle cose consegue che i partiti socialisti,
nella loro attività d'informazione e di propaganda, non possono
limitarsi ai brevi periodi delle battaglie elettorali e debbono
invece preoccuparsi di innalzare continuamente la coscienza
politica della maggioranza della popolazione mettendola dinanzi
alla necessità di riforme radicali.
Gli apologeti dello status quo economico e politico argomentano
spesso, oggigiorno, che evidentemente la maggioranza della
popolazione è contenta del sistema sociale esistente (si sostiene
che noi ‛votiamo' quando, per es., compriamo al chiosco dei
giornali i prodotti demagogico-reazionari della stampa di massa).
Altrimenti si dice all'incirca - come si potrebbe spiegare il
flusso continuo (sino all'erezione del muro di Berlino) dei
profughi dalla Germania Orientale verso quella Occidentale, e la
contemporanea quasi completa mancanza di un movimento in senso
inverso? L'interpretazione di questo fatto richiede in verità
considerazioni più complesse di quelle fatte comunemente.
Bisogna anzitutto ricordare che nella Repubblica Democratica
Tedesca c'è un capitalismo di Stato amministrato dalla burocrazia
(con una produttività del lavoro inferiore a quella della Germania
Federale, e quindi salari reali inferiori); difficilmente perciò,
nonostante varie incontestabili conquiste nel campo della sanità e
dell'istruzione superiore, essa può presentare attrattive per
lavoratori o impiegati tedesco-occidentali. Ciò non vuol dire
affatto, però, che, in Occidente, alle condizioni esistenti si
accompagni una piena soddisfazione. Indizio di una insoddisfazione
diffusa, e spesso non apertamente ammessa, è ad esempio l'aumento
delle malattie mentali e la fuga - spesso convulsa - nel consumo
(incessantemente stimolato dalla pressione pubblicitaria). Le
forme della felicità - in ogni caso una felicità da soddisfare a
breve scadenza - che una società capitalistica industrialmente
avanzata può offrire ai suoi membri si riducono di nuovo e sempre
al consumo, al consumo di merci e di servizi sotto forma di merci
(per es., viaggi). Tale consumo, che viene pensato in teoria come
aumentabile all'infinito, soddisfa però, almeno in parte, solo per
la sua reale o presunta ‛esclusività'; una merce, cioè
(prescindendo dal suo materiale valore d'uso), procura una
soddisfazione tanto maggiore quanto minore è il numero di coloro
che partecipano al suo godimento. E poiché la via al godimento di
una merce passa per il pagamento della medesima, ciò significa in
pratica che le opportunità di felicità sono direttamente
proporzionali al reddito, e quindi che - in quanto la piramide dei
redditi termina in una punta sottile - la maggioranza della
popolazione deve essere di necessità scontenta e infelice.
È un'infelicità che, in tempi di congiuntura favorevole, trova una
certa compensazione nella speranza di un futuro accrescimento
delle opportunità di consumo. Ma, non appena le società
industrialmente avanzate entrano in uno stadio di crescita più
lenta (o addirittura di crescita zero), questo malessere, questa
frustrazione sono destinati ad aumentare sino a diventare
insopportabili.
Sorge allora il pericolo che le ideologie reazionarie offrano
all'‛aggressività' delle masse frustrate degli ‛oggetti' sui quali
poter rovesciare la propria insoddisfazione. In altre parole, il
passaggio a una ripartizione dei redditi (e delle risorse
patrimonali) che risulti almeno un poco meno ineguale diventa
tanto piu urgente quanto più s'avvicina il momento in cui - anche
soltanto a causa della rarefazione dell'energia e delle materie
prime, e della necessità di conservare la biosfera - bisognerà
rallentare il ritmo della crescita economica. In quel momento, se
non prima, lo sfondo ideologico delle società industrialmente
avanzate (training for consumership, status sociale determinato
dalle opportunità di consumo e anzi dal conspicuous consumption)
dovrà trasformarsi. I termini del conflitto saranno allora i
seguenti o si potrà ottenere, con argomenti razionali e con
l'instaurazione di una certa giustizia sociale (cioè di una
maggiore - anche se non completa - uguaglianza), l'accettazione
della crescita zero, oppure quest'ultima richiamerà alla ribalta,
come compensazione, ideologie reazionarie.
Per quanto riguarda i paesi industriali, la svolta più importante
della critica socialista contemporanea è il ripudio, e anzi
addirittura il ‛rovesciamento', del rimprovero mosso da Marx
all'economia capitalistica, di non essere cioè in grado di
realizzare un aumento della produzione tale da soddisfare
effettivamente i bisogni di tutta la popolazione. Rimane pur
sempre vero che, anche nelle società più ricche, esiste una
povertà di massa; essa non è però la conseguenza di capacità
produttive insufficienti, ma soltanto di un'ingiusta
distribuzione. Il modo di produzione capitalistico si è dimostrato
assai più dinamico e vitale di quanto non presumesse Marx nel
1867. In paesi come gli Stati Uniti e la Germania Federale il
problema di gran lunga più urgente per il modo di produzione
capitalistico è un altro: come cioè rallentare, ai fini della
conservazione dell'ecosfera, la dinamica in esso insita (e di
vitale importanza per la sua conservazione). Il vero problema non
è tanto una dinamica insufficiente (derivante dalla caduta
tendenziale del saggio di profitto, che ha trovato una
compensazione maggiore di quanto Marx presumesse e che si dimostra
pur sempre sopportabile per le grandi imprese), quanto il
mantenimento di tale dinamica ove rimanga al contempo ‛cieca' la
direzione in cui la produzione incessantemente crescente si muove.
In modo un po' sommario, la situazione si può descrivere nel modo
seguente.
Il capitale può conservarsi solo in quanto (e finché) cresce; e,
poiché continuamente riemerge il pericolo di una saturazione del
mercato, gli sforzi dei produttori capitalistici sono
necessariamente diretti a gettare sempre più rapidamente sul
mercato prodotti smerciabili e a far invecchiare attraverso il
rapido mutamento delle mode prodotti che sarebbero in sé ancora
utilizzabili. L'accorciamento del tempo lavorativo necessario alla
fabbricazione di un prodotto non serve quindi (o in ogni caso non
in primo luogo) ad abbassare il prezzo del prodotto né a investire
per rendere più piacevoli i luoghi di lavoro o potenziare e
migliorare servizi di vitale importanza (assistenza sanitaria,
trasporti pubblici, scuole, giardini, luoghi di ricreazione,
ecc.), ma ad aumentare le vendite dei prodotti (merci).
Alla base di una tale direzione dello sviluppo sta anzitutto il
principio che soltanto la vendita di merci può procurare un
profitto, e in secondo luogo che, nonostante il notevole prelievo
operato dal fisco, un'alta quota dei profitti dev'essere impiegata
per l'ampliamento delle capacità produttive (e per la pubblicità
necessaria alla vendita delle merci così prodotte). Sempre
maggiore, perciò, diventa la discrepanza tra ciò che da lungo
tempo è tecnologicamente possibile e ciò che di fatto avviene:
l'accorciamento del tempo di lavoro rimane fortemente indietro
rispetto all'aumento della produttività; l'automazione (cioè
l'eliminazione dei lavori ripetitivi e faticosi) viene promossa in
misura minore di quanto sarebbe possibile (è specialmente degno di
nota che il meccanismo concorrenziale sembra in questo caso
indebolito, e che l'interesse per la sopravvivenza non costringe
affatto le grandi corporations a operare innovazioni
tecnologiche); gli investimenti nel settore pubblico (che non dà
profitti) rimangono indietro rispetto al bisogno reale. In altre
parole, la cosa veramente nefasta non è la carente dinamica del
modo di produzione capitalistico, ma la direzione ‛cieca' - cioè
obbediente agli impulsi immanenti al sistema - della dinamica in
atto.
Già nel 1951 Th. W. Adorno ha anticipato nei Minima moralia questo
mutamento di prospettiva e criticato, nei marxisti, la riduzione
dell'immagine del futuro a quella di un aumento indefinito della
produzione: ‟L'univocità ingenuamente presupposta della tendenza
all'aumento della produzione fa già parte di quello spirito
borghese che ammette lo sviluppo in una sola direzione, perché,
concluso in sé come totalità, e dominato dalla quantificazione, è
ostile alla differenza qualitativa. Se si concepisce la società
emancipata proprio come emancipazione da questa totalità, ecco che
appaiono linee di fuga che hanno poco in comune con l'aumento
della produzione [...]; la società liberata dalle catene potrebbe
comprendere che anche le forze produttive non costituiscono
l'ultimo substrato dell'uomo, ma una figura particolare dell'uomo,
storicamente adeguata alla produzione di merci. Forse la vera
società proverà disgusto dell'espansione e lascerà liberamente
inutilizzate certe possibilità, invece di precipitarsi, sotto un
folle assillo, alla conquista delle stelle [...]. Tra i concetti
astratti, nessuno si avvicina all'utopia realizzata più di quello
della pace eterna" (v. Adorno, 1951; tr. it., p. 154).
Nella sua critica Adorno va anche al di là di quanto sopra
accennavo. Non soltanto il ‟folle assillo" all'incessante aumento
della produzione dei beni di consumo, ma anche la feticizzazione
della produzione e della produttività in quanto tali appaiono ai
suoi occhi come un eredità - che deve essere superata - della
mentalità borghese. La pace in quanto concetto includente il
compimento, l'essere - e non più l'agire e il divenire - sono per
lui il simbolo più adeguato dell'utopia realizzata. Negli anni
trascorsi dalla sua formulazione, tale principio non ha fatto
altro che guadagnare in attualità e importanza.
Al problema di come sia possibile, nelle società industriali
moderne, tutelare (o meglio salvare e reinstaurare) la libertà
individuale, i critici socialisti danno una risposta radicalmente
diversa da quella dei conservatori e dei liberali. Per costoro, la
proprietà privata dei mezzi di produzione e l'autoresponsabilità
economica dell'individuo (anche se da lungo tempo non più
pienamente realizzabili) rimangono però sempre un punto di
riferimento. Su tale base, a un ulteriore potenziamento dello
Stato sociale assistenziale essi contrappongono la promozione
della piccola proprietà.
I socialisti partono invece dal riconoscimento che la diffusione
della proprietà, e la sua acquisizione, non reca più con sé la
possibilità di una reale indipendenza. Il possessore di azioni non
può, di regola, neppure utilizzarle per i casi di emergenza: in
caso di depressione congiunturale, infatti, il suo risparmio si
svaluterà, col risultato che egli può essere addirittura
danneggiato da questa forma d'investimento (scarsamente adatta al
suo caso), in quanto deve vendere proprio quando l'abile
speculatore rastrella azioni a buon mercato. Ma, anche lasciando
da parte tutto questo, la somma risparmiata non è mai sufficiente
a emancipare dalla necessità del lavoro salariato, al quale -
mantenendo intatta la struttura delle imprese è associato un alto
grado di illibertà.
Su tale base, i socialisti aspirano a un ampliamento (o a una
reinstaurazione) della libertà individuale per la grande
maggioranza (salariata) della popolazione, e ciò anzitutto in due
modi: 1) attraverso una sufficiente sicurezza in materia di
disoccupazione, invalidità e vecchiaia (pensione sociale di tipo
svedese); 2) attraverso diritti di cogestione esercitati da operai
e impiegati nella propria azienda (sul luogo di lavoro,
nell'azienda, come anche in sede sovraziendale).
Le assicurazioni sociali diminuiscono la dipendenza dall'azienda
(insieme con il diritto a cambiare posto di lavoro, diritto che,
in piccole città o in comuni rurali, può naturalmente diventare
relativamente irrilevante); il diritto alla cogestione diminuisce
la dipendenza nell'azienda e - in condizioni ottimali - fa del
dipendente salariato un soggetto che concorre attivamente
all'organizzazione dei propri rapporti di lavoro (e della
produzione in generale).
Gli avversari del socialismo obiettano a queste due vie: 1) che il
potenziamento dello Stato sociale e assistenziale rende il singolo
sempre più dipendente dalla burocrazia statale, e che la pretesa a
essere assistito paralizza la coscienza della responsabilità
personale; 2) che la cogestione da un lato conduce a scalzare la
libertà imprenditoriale, indispensabile per l'efficienza
dell'economia, e dall'altro mette di fatto il singolo lavoratore
sotto la tutela dei sindacalisti, i quali parlano in suo nome: si
dovrebbe perciò, almeno, escludere la presenza di sindacalisti
estranei all'azienda.
La prima obiezione contiene un elemento di verità, ma lascia in
ombra l'altra faccia della medaglia. Con la garanzia di una
pretesa giuridica alla protezione - una protezione che non può più
essere vista come una ‛grazia' o un'‛elemosina' - è la dignità del
dipendente salariato che viene garantita in caso di
disoccupazione, invalidità ecc. Scompare (o almeno diminuisce) la
paura della disoccupazione e della malattia, e si attenua la
dipendenza dagli accidenti della congiuntura e/o della propria
salute. Si attua così per lui e per la sua famiglia - e in un modo
molto reale - la libertà dal bisogno. La dipendenza dalla
burocrazia statale, d'altra parte, può al contempo essere
alleviata e resa sopportabile se il suo lavoro si svolge in piena
luce ed è sottoposto al controllo, per es., dei sindacati.
Nel peggiore dei casi, comunque, il beneficiano dei servizi
sociali scambia la dipendenza dalle imprese o dalle elemosine
private ed ecclesiastiche con la dipendenza da una burocrazia
statale (assai più efficiente e destinata per legge
all'assistenza), che è soggetta a un continuo controllo.
Per quanto riguarda la cogestione, l'affermazione ch'essa comporta
una limitazione della libertà imprenditoriale è giustificata solo
in quanto il consiglio di amministrazione è effettivamente tenuto
a render conto del proprio operato al consiglio di sorveglianza
(Aufsichtsrat, composto per il 50% da rappresentanti dei
lavoratori). Ma in quanto le sue decisioni siano sollecitate da
necessità economiche evidenti, anche i rappresentanti dei
lavoratori non faranno opposizione e anzi tanto meno si opporranno
se saranno forniti di adeguate conoscenze in materia di economia
aziendale (conoscenze che, di nuovo, potranno essere mediate dai
rappresentanti sindacali). Con ciò si viene anche a dire che
un'efficace cogestione a livello aziendale (al di là della
cogestione sul luogo di lavoro) non è realizzabile senza l'aiuto
dei rappresentanti degli interessi dei lavoratori: i sindacati.
La critica al collettivismo dello Stato assistenziale e
all'onnipotenza dello Stato dei sindacati è un espediente
difensivo mediante il quale si vuole stornare l'attenzione dai
veri pericoli e dai veri privilegi. Essa muove dall'immagine
idealizzata di una società liberale costituita da imprenditori che
partecipano al mercato in condizioni di relativa uguaglianza e
autonomia: immagine che non ha mai corrisposto alla realtà storica
e che tanto meno corrisponde all'odierno capitalismo delle
corporations.
Sinora abbiamo parlato della critica che i socialisti rivolgono a
una democrazia spogliata del suo contenuto concreto (e alla teoria
della democrazia che tale realtà rispecchia), al dinamismo cieco
dell'economia capitalistica industrialmente avanzata e alla
funzione difensiva degli argomenti - di vecchio stampo liberale -
usati contro lo Stato assistenziale. Ma il socialismo
riformistico, oltre a ciò, ha anche contribuito alla scoperta di
forme occulte di disuguaglianza, di cui sinora non si era fatta
parola e che - in forma mutata - sono nuovamente riemerse nelle
società e negli Stati a socialismo burocratico.
Se si muove dal presupposto che in una società si può parlare di
uguaglianza solo in termini di uguali opportunità - per tutti,
senza riguardo per l'origine, il sesso, ecc. - di sviluppare le
proprie capacità innate e, attraverso tale sviluppo, di condurre
una vita soddisfacente, allora tutte le società sono oggi assai
lontane da quest'obiettivo.
Difficilmente si potrebbe contestare la manifesta disuguaglianza
delle condizioni di vita degli uomini. Nei paesi che ignorano la
povertà di massa, tale disuguaglianza viene accettata da una parte
considerevole della popolazione, o almeno vista come non
insopportabile. La sua legittimazione, per lo più inconscia e
sottintesa, si fonda sulla diversità delle prestazioni. Ora, un
tale assunto - almeno per quanto riguarda la distribuzione della
proprietà - non regge a una verifica. Continua cioè a sussistere
il fatto che una piccola minoranza della popolazione percepisce
notevoli rendite fondiarie e una parte considerevole dei profitti
di capitale. Nella piramide dei redditi ‛al disotto' della fascia
più alta (che rappresenta meno dell'1% della popolazione) si
sottintende invece come valida un'approssimativa equazione tra
prestazione e reddito. Abilità rare - argomenterà l'economista -
avranno un prezzo corrispondentemente alto, e un direttore
generale o una cantante d'opera di fama mondiale non riceveranno
lo stesso ‛salario' di un fattorino d'autobus.
Anche questo argomento difficilmente regge a un esame più
accurato, o almeno abbisogna di specificazioni. I redditi
altissimi di beniamini del pubblico - come calciatori, pugili,
cantanti, ecc. - svolgono in misura considerevole una funzione di
alibi. Il pubblico concede loro alti redditi (che del resto sono
inferiori a quelli dei membri, per es., del consiglio di
amministrazione di un grande magazzino, ecc.) perché da loro ha
ricevuto svago, distrazione, piacere. In questo modo, però, viene
al contempo legittimato, come compenso per la prestazione di
particolari servizi, anche il reddito, per es., di un direttore
generale, i cui emolumenti consistono spesso soltanto in misura
minore di compensi monetari diretti, e in misura maggiore di
prestazioni e di servizi gratuiti forniti dall'azienda (come la
casa, l'aeroplano, l'autista, il giardiniere, ecc.). Tutto ciò
rappresenta il compenso per la prestazione di servizi e, al
contempo, una sorta di ‛subornazione' mirante a garantire
un'identità di interessi con i proprietari (o il proprietario).
Nella misura in cui (in seguito alla loro dispersione e
disinformazione) diventa più difficile il controllo da parte dei
rappresentanti della proprietà, cresce il potere dell'oligarchia
di coloro che occupano i posti chiave nelle grandi banche e nelle
società per azioni e che si cooptano a vicenda. La capacità di
rappresentare con successo gli interessi del capitale è
considerata, in questi circoli, come il decisivo criterio di
qualificazione; ciò che è in giuoco, in realtà, è quindi il
possesso di certe capacità, cui corrisponde quella che si potrebbe
chiamare un'élite di prestazioni. Si potrebbe forse dire che il
capitalismo delle corporations destina al successo qualità e
disposizioni d'una natura affatto peculiare, le quali hanno ormai
relativamente poco a che fare con le qualità imprenditoriali
dell'industriale o del grande commerciante classico, ma piuttosto
con quelle dell'organizzatore e del propagandista. In una società
strutturata in modo diverso altre sarebbero presumibilmente le
qualità capaci di condurre chi le possiede a posizioni
dirigenziali.
Ma anche lasciando da parte la problematica della speciale
ricompensa accordata a qualità che servono unicamente alla
conservazione dell'ordine sociale esistente, rimangono tuttavia
ancora numerose competenze e capacità, delle quali anche in una
società postcapitalistica ci sarà un acuto bisogno e che (almeno
per un certo tempo) continueranno a possedere un relativo ‛valore
di rarità'; si pensi, per es., a medici, ingegneri, tecnici,
artisti, scrittori, professori: tutti costoro - nella nostra
società scolarizzata - debbono la propria posizione a una lunga e
(socialmente) costosa formazione. Se lasciamo da parte la
circostanza che (secondo la stessa definizione marxiana) anche in
una società socialista domina - come per l'innanzi - la
disuguaglianza sotto la forma di ‛salario disuguale per lavoro
disuguale', allora l'unica rivendicazione realizzabile di
giustizia sociale viene a essere che almeno ogni bambino riceva
proprio quella formazione che, corrispondendo alle sue
disposizioni innate, gli consenta il pieno sviluppo di se stesso.
La giustizia sociale, così, coinciderebbe con la prima
realizzazione generale del ‛principio della prestazione'. Ognuno
sarebbe debitore della sua posizione nella società esclusivamente
a se stesso (e alle sue qualità, portate al pieno sviluppo con
l'aiuto della società). Naturalmente, oggi nessuno richiederà che
questo principio della prestazione sia applicato in tutto il suo
rigore, giacché le leggi esistenti provvedono, già nel quadro
delle società capitalistiche avanzate, a diminuire la
disuguaglianza delle condizioni di vita che si accompagna alla
disuguaglianza delle prestazioni: la progressività delle imposte
provvede ad alleggerire i percettori di redditi bassi o
bassissimi, mentre assegni familiari di vario genere (Francia e
Germania) e analoghe sovvenzioni a carico dell'erario compensano
la disuguaglianza effettiva del carico finanziario delle famiglie
senza riguardo alle prestazioni lavorative dei loro membri (o
meglio, in misura inversamente proporzionale ai redditi
percepiti). La compensazione rimane però di gran lunga
insufficiente, mentre d'altra parte il bisogno di tali meccanismi
diventerà tanto più incalzante proprio se ai riformatori sociali
riuscirà di realizzare sul serio l'uguaglianza di opportunità. In
una società nella quale ciascuno dovrà dire a se stesso di dovere
la propria posizione (e quindi il suo reddito) esclusivamente alle
proprie prestazioni, l'accettazione di una posizione ‛inferiore'
diventerà psicologicamente ancor più insopportabile.
Per il momento, i membri della società possono, in maggioranza,
ancora appellarsi alla circostanza di non avere avuto
l'opportunità di sviluppare le proprie forse latenti -
disposizioni in quanto la casa paterna, l'istruzione insufficiente
e la precoce necessità di guadagnare hanno loro impedito una più
adeguata formazione. In una società nella quale siffatti ostacoli
siano invece stati smantellati e/o ne sia stato corretto
l'influsso, questa motivazione perderà la capacità di alleviare,
psicologicamente, il peso delle situazioni singole. Per questa
ragione, la perfetta attuazione della società della prestazione
(‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo
lavoro", come suona la vecchia formula socialista) riuscirà
sopportabile per la popolazione soltanto se sarà accompagnata
dall'eliminazione delle maggiori differenze di reddito (cioè da un
‛livellamento' delle fasce salariali e retributive in genere), e
da una concomitante intensificazione dell'autogestione e della
cogestione da parte di tutti i lavoratori.
Soltanto nella misura in cui siano realizzate tali misure
correttive, l'attuazione - implicita nel socialismo - del
principio della prestazione può risultare sopportabile per i
singoli. Per le società industrialmente avanzate dei nostri
giorni, la transizione a un socialismo ‛non corretto' non è più
possibile. Lo stadio socialista deve, sin dall'inizio, già recare
con sé caratteristiche del comunismo, deve cioè avvicinarsi -
anche se agli inizi possa essere ancora necessario mantenere, in
limitata misura, differenze di reddito basate su differenze di
prestazione - al principio ‟da ognuno secondo le sue capacità, a
ognuno secondo i suoi bisogni".
Nel frattempo, però, noi siamo ancora piuttosto lontani anche
dalla realizzazione dell'uguaglianza delle opportunità di
partenza. La tendenza generale all'accettazione di valori
democratico-egualitari ha comunque avuto l'effetto che soltanto
pochi (e piccoli) partiti ripudiano apertamente questa
rivendicazione. Tutt'al più si afferma che non può essere
realizzata interamente. Ciò che nella pratica si verifica,
naturalmente, è un inasprimento della lotta per l'introduzione e
l'applicazione di misure capaci di tradurre tale esigenza nella
realtà.
Su questa strada, il primo passo era la gratuità dell'istruzione,
che in teoria doveva aprire a tutti gli strati della popolazione
l'accesso anche alle scuole superiori (ginnasi, licei, istituti
tecnici). Divenne presto evidente, però, come tale misura non
bastasse ad aprire effettivamente ai giovani delle famiglie
operaie l'accesso alle università. La prospettiva di entrare nella
vita lavorativa, e quindi formare una famiglia, con cinque o più
anni di ritardo trattiene molti giovani della classe lavoratrice
dall'intraprendere la lunga strada degli studi superiori e
universitari. A ciò si aggiunga che l'ambiente d'origine:
genitori, amici e conoscenti, vede istintivamente, nell'‛ascesa
individuale', un tradimento della solidarietà con la classe
d'origine e quindi, anche se il giudizio rimane inespresso, ne fa
oggetto di condanna morale. Timori siffatti possono essere
eliminati con successo (e in modo non illusorio) solo se la scuola
si trasforma da istituzione della società divisa in classi in
scuola per tutto il popolo: in altre parole, se la vecchia scuola
superiore cede il posto a una scuola globale, come, per es.,
accade da lungo tempo in Svezia. Ciò vuol dire che la totalità dei
giovani frequenta per nove (o dieci anni) la stessa scuola, nella
quale - senza riguardo per l'origine sociale - vengono stimolate
nel modo migliore tutte le doti individuali. In tal modo si
sottrae ai genitori dei ragazzi di dieci anni la decisione: scuola
superiore o prosecuzione della scuola elementare? Quando poi
avranno quindici anni - si suppone - i ragazzi saranno in grado,
con l'aiuto dei consigli del proprio insegnante, di decidere da
soli.
Ma queste misure non sono sufficienti a superare le forme di
disuguaglianza che impediscono a molti ragazzi di sviluppare le
proprie disposizioni. Le misurazioni del quoziente d'intelligenza
(in base a test sia verbali che non verbali) hanno mostrato che,
nei bambini di famiglie operaie, il Q.I. verbale rimane
notevolmente indietro rispetto a quello non verbale, mentre negli
altri bambini i due valori vanno all'incirca di pari passo. Ciò ha
fatto riconoscere che, nelle case proletarie, la socializzazione
pregiudica lo sviluppo e la differenziazione delle capacità
linguistiche, il che danneggerà in seguito i bambini. Si rende
perciò necessario, onde controbilanciare questo svantaggio di
partenza, un insegnamento linguistico compensativo per i bambini
delle classi inferiori. Sennonché numerosi pedagogisti
progressisti hanno rifiutato l'adozione di provvedimenti del
genere in quanto essi discriminerebbero i bambini provenienti da
un ambiente linguistico proletario e conferirebbero una validità
generale alla norma linguistica ‛borghese'. Bisognerebbe piuttosto
riorientare la scuola, nel senso di indurla ad ammettere con pari
diritti, accanto alla lingua letteraria, la lingua colloquiale
usata dagli strati proletari (con le sue abbreviazioni e
semplificazioni, e con tutta la sua rozzezza e carenza di
differenziazione). Per comprensibile che sia il movente d'una
simile rivendicazione, nella pratica essa si risolverebbe in una
stabilizzazione della disuguaglianza, giacché sarà assai più
facile per i bambini di estrazione borghese e piccolo-borghese
l'‛apprendimento addizionale' del codice ridotto (Basil Bernstein)
che non l'inverso (e d'altra parte ogni sforzo diretto a
compensare questo deficit viene energicamente riprovato).
Siamo dunque dinanzi al dilemma: o la lingua colloquiale delle
famiglie proletarie viene discriminata attraverso l'insegnamento
linguistico compensativo, e il bambino viene allora potenzialmente
estraniato dal suo ambiente d'origine; 0vvero si tralascia
l'insegnamento compensativo, ma allora al bambino rimangono
precluse certe possibilità di differenziare e articolare i suoi
sentimenti, di sviluppare la propria individualità o di
raggiungere un'adeguata comprensione della letteratura. Anche se
Adorno aveva qualche ragione a beffarsi di un certo primitivismo
osservabile nell'‛appropriazione dei beni culturali' da parte dei
socialdemocratici (avanti la prima guerra mondiale), è pur vero
che non si può negare l'importanza, ai fini di un pieno
dispiegamento della propria sensibilità spirituale, di un aiuto
che favorisca l'acquisizione di capacità linguistiche
adeguatamente differenziate. In definitiva, la padronanza della
lingua letteraria, con le sue molteplici possibilità espressive,
significa anche ‛potere', capacità di convincere, capacità di
operare al di là della cerchia, geograficamente - e, nella maggior
parte dei casi, linguisticamente - condizionata del proprio
ambiente di classe. Ciò che sinora è riuscito, mercé sforzi
appositi e contro notevoli resistenze esterne, solo a singoli
membri delle classi inferiori, deve essere reso possibile alle
cerchie più vaste.
L'ottimizzazione del sistema scolastico in quanto premessa dello
sviluppo delle - diverse - capacità individuali costituisce poi la
premessa di analoghi effetti positivi anche all'interno del
processo produttivo basato sulla divisione del lavoro. Idealmente
il suo risultato sarebbe questo, che ognuno finirebbe con
l'occupare il posto nel quale può meglio realizzare se stesso e,
quindi, meglio riuscire utile alla società. Sennonchè, nessuno
vorrà dare per scontato che esistano sempre ed esattamente tante
disposizioni naturali quante sono le funzioni che possono essere
assegnate. Non è possibile supporre una siffatta armonia
prestabilita.
Bisogna piuttosto ammettere che esiste un numero di talenti
naturali considerevolmente maggiore di quanti ne vengano adoperati
- nel quadro di una società basata sulla divisione del lavoro -
per l'espletamento di funzioni di alto livello. Ora, nel caso che
questi talenti siano tutti sviluppati, sorge il problema seguente:
chi, fra tutte le persone (egualmente) fornite di una data
capacità, assumerà le relative funzioni (professioni)? A questo
riguardo la società socialista, com'è realizzabile oggi
nell'ambito dei paesi industrialmente avanzati, si spinge
nuovamente oltre i propri confini tradizionalmente concepiti: la
sovrapproduzione di elementi qualificati non conduce a
un'ulteriore frustrazione soltanto se viene completata dal
superamento dell'asservimento dei singoli, vita natural durante,
alla divisione del lavoro.
La maggior parte dei vecchi marxisti ha sottolineato questo punto
soprattutto per quanto riguarda la sfera politica: una
sovrapproduzione, per es., di amministratori competenti
spezzerebbe il monopolio della burocrazia, e una rotazione dei
funzionari potrebbe avere l'effetto di impedire che i detentori di
cariche si isolino dai concreti interessi della popolazione,
consolidando e perpetuando il proprio potere. Ma qualcosa di
simile si potrebbe sostenere riguardo a tutti gli altri campi. Con
l'eccezione di poche funzioni, che a coloro stessi che le
esercitano e alla società sembrano ‛non trasferibili' (arte?
scienza?), tutte le altre attività dovrebbero essere
intercambiabili. Che poi ci si debba rappresentare tale
avvicendamento al modo dell'utopia di Fourier (cioè, come un
avvicendamento continuo nell'ambito stesso della giornata
lavorativa), ovvero, più realisticamente, che uno muti la sua
attività principale una o due volte nella vita, non ha grande
importanza. L'essenziale è che gli elementi altamente qualificati
non rimangano sterilmente inattivi, e non sorgano quindi nuove
frustrazioni.
Accanto alla rotazione delle attività (superamento
dell'asservimento alla divisione del lavoro, il che però non
esclude la sopravvivenza di funzioni diverse) la possibilità di
una compartecipazione al processo decisionale nello Stato e nella
società (nell'azienda, ecc.) permetterebbe poi la pratica
applicazione di una parte delle capacità che si saranno così
sviluppate. Bisognerebbe, infine, anche provvedere che il
cosiddetto tempo libero possa essere adoperato come tempo dedicato
all'esercizio delle facoltà acquisite: esso dovrebbe quindi,
rispetto a oggi, mutare radicalmente la propria natura. Il tempo
libero cesserebbe allora di essere semplicemente il tempo della
riproduzione della capacità lavorativa e di essere dissipato nel
consumo passivo di merci e servizi, per diventare il tempo della
libera spontaneità e realizzazione di sé, che ha in se stesso il
proprio fine.
Anche il problema di procurare ai membri della società capacità e
possibilità che consentano loro un uso produttivo (per se
medesimi) del tempo libero è stato preso in considerazione da
alcuni governi socialisti (specialmente in Danimarca e Svezia). La
sua importanza è destinata a crescere ulteriormente con
l'accorciamento del tempo di lavoro.
4. Critica socialista al socialismo di Stato (capitalismo di
Stato, socialismo burocratico)
Come abbiamo visto, il fatto di prendere le distanze dal comunismo
sovietico (e la sua critica) ha contribuito in modo essenziale
alla separazione del movimento operaio socialista dalla sua ala
estremista, comunista. Una tale separazione, naturalmente, è stata
sempre ignorata da coloro che avversano le riforme sociali e la
rivoluzione in tutte le loro forme. I fascisti, quando parlavano
di ‛bolscevismo', intendevano riferirsi sempre anche ai socialisti
e ai socialdemocratici, e i clerico-autoritari austriaci
combattevano con la violenza delle armi sia gli uni che gli altri.
Talvolta, socialisti e comunisti sono anche arrivati - soprattutto
nei periodi di persecuzione - a concordare azioni comuni. Il
ristagno della vita politica dovuto alla sistematica esclusione
dei partiti comunisti, che in certi casi hanno saputo guadagnarsi
sino a un terzo dell'elettorato, ha condotto in Francia a
un'alleanza dei socialisti con i comunisti. Ma perché queste
alleanze possano risultare davvero solide, i socialisti devono
riuscire a impegnare il partner all'osservanza delle norme di una
costituzione democratica, la quale preveda la protezione delle
minoranze, il pluralismo dei partiti, l'indipendenza
dell'amministrazione della giustizia e la libertà di stampa.
È in generale vero - almeno fintantoché il socialismo non sia
semplicemente un richiamo da sfruttare per un'estrema linea di
difesa contro una rivoluzione più radicale - che i socialisti
criticano il comunismo non già perché vuol mutare l'assetto
capitalistico della proprietà, ma perché, di fatto, esso ha
condotto a porre l'intera popolazione (compresa la classe operaia)
sotto la tutela di una casta privilegiata di burocrati, la quale
presume, né più né meno, di realizzare la volontà di tutti quanti
i lavoratori. Non si può in verità negare che questa critica
socialista al comunismo è spesso tornata assai comoda ai
conservatori, che potevano così stornare l'attenzione dai propri
motivi di opposizione. Essi hanno sfruttato persino le critiche di
un Kautsky o di una Rosa Luxemburg, traendone immediatamente
pretesto per denunciare anche i socialisti democratici come illusi
lontani dal mondo, dimentichi del fatto che il socialismo deve di
necessità condurre a un burocraticismo di tipo sovietico. Accade
così che sia i reazionari sia gli apologeti dell'Unione Sovietica
concordino nella stessa tesi: tale è necessariamente il volto del
socialismo! La critica dei socialisti al socialismo di Stato,
perciò, ha sempre due aspetti: se da un lato combatte
l'autoritarismo burocratico di una élite di partito, dall'altro
vuol distinguere tra il socialismo e la sua caricatura.
In una forma un po' diversa i socialisti democratici potrebbero
ben riprendere le parole di K. Kraus, il quale, rispondendo
polemicamente alla lettera di un'anonima dama della nobiltà
ungherese, nel 1920 così si esprimeva: ‟Il comunismo in quanto
realtà non è se non il contraltare della sua [cioè delle classi
dominanti] ideologia che insulta la vita - facendo però grazia al
comunismo di una più pura origine ideale. [...] Il diavolo si
porti la sua prassi, ma Iddio ce lo conservi come una costante
minaccia sulla testa. di coloro che posseggono terre e che, con la
consolazione che la proprietà non è il valore supremo, vorrebbero
cacciare tutti gli altri verso il fronte della fame e dell'onore
della patria. Iddio ce lo conservi, affinché questi gaglioffi, la
cui insolenza già ora non sa più dove rivolgersi, non diventino
ancora più insolenti; affinché la società degli aventi l'esclusiva
del piacere, la quale ritiene che l'umanità a essa sottomessa
riceva abbastanza amore quando si prende da loro la sifilide, vada
almeno a letto con un incubo; affinché, almeno, le passi la voglia
di fare la morale alle proprie vittime, e il buon umore per
scherzarci sopra!" (v. Kraus, 1962, pp. 33-34).
Un tale grido d'indignazione morale, come anche il saluto rivolto
da Kraus al comunismo in quanto costante minaccia sospesa sul capo
degli oppressori e degli sfruttatori possono suonare troppo
retorici, anche se in verità sentimenti analoghi agitavano
probabilmente parecchi socialisti. In effetti, i successi che i
partiti socialisti hanno potuto conseguire in Occidente in materia
di riforme sociali e di miglioramento delle condizioni di vita
della classe operaia possono in parte essere messi sul conto della
paura che le classi dominanti hanno avuto del comunismo; o
comunque è accaduto che, là dove la situazione economica generale
lo permetteva senza mettere in pericolo la base della propria
esistenza, la classe dominante si è mostrata condiscendente.
Quando, invece, il margine per soluzioni di compromesso si era
fatto troppo angusto (come negli anni 1932-1933 in Germania), la
classe dominante ha naturalmente fatto ricorso senza scrupoli ai
movimenti reazionari di massa e al terrore fisico (nonché alla
liquidazione delle istituzioni democratico-liberali e dello Stato
di diritto).
La critica socialista al capitalismo di Stato sovietico si
distingue dalla critica liberale per il suo proposito di
dimostrare che - se non prima, con la proibizione di una pluralità
di piattaforme all'interno del partito unico - ciò che è andato
perduto nell'Unione Sovietica non è soltanto la libertà degli
individui, ma anche la garanzia del rispetto degli interessi dei
lavoratori. Il partito monolitico guidato con mano di ferro da
Lenin (partito che, di fatto, nel 1917 non era da lungo tempo così
unitario come la teoria avrebbe richiesto), se poteva rendere
buoni servigi nella lotta politica per il potere, una volta
diventato la spina dorsale di una società e della sua
amministrazione - e dopo la proibizione di tutti gli altri partiti
operai e contadini - non poteva che degenerare necessariamente ad
apparato burocratico-dittatoriale. Se, almeno agli inizi, il
dualismo di apparato di partito e apparato statale garantiva al
cittadino sovietico (e al lavoratore) un certo margine di libertà
e una certa protezione dall'oppressione, con la totale fusione
degli apparati anche questi margini dovevano purtroppo scomparire
del tutto.
Il potere statale, che di necessità cresceva enormemente con la
statizzazione dei più importanti mezzi di produzione, avrebbe
richiesto, come contrappeso, un'intensificazione del controllo dal
basso. Avvenne invece il contrario: la libertà di stampa, la
libertà di associazione e di riunione furono di fatto abolite.
Anche la Costituzione sovietica del 1936 riserva questi diritti
esclusivamente alle organizzazioni controllate dal partito unico.
Solo tali organizzazioni possono disporre di carta, locali,
macchine tipografiche. L'opposizione e il dissenso sono costretti
a ricorrere, per la diffusione di libri e riviste, a metodi di
riproduzione proibiti (samizdat).
La giustificazione dell'operato dei comunisti viene ravvisata
nella necessità di un'accelerata edificazione del socialismo e di
una rapida industrializzazione del paese. In verità, un tale
duplice compito non era stato quasi preso in considerazione da
Marx e da Engels (e, prima del 1918, neppure da Lenin); ma, dopo
la conquista del potere politico, la leadership sovietica non
credette di potersi fermare a uno sviluppo semicapitalistico
controllato. Prevalse dunque la ‛rivoluzione permanente'
(preconizzata da Trotzki), che oltrepassava senza indugio la fase
dello Stato borghese democratico e dell'economia capitalistica
(sia pure controllata e corretta in senso sociale). Ma, se ai
primi passi in questa direzione aderirono spontaneamente anche gli
operai delle grandi fabbriche, la continuazione di un tale
programma a opera dell'apparato burocratico condusse - dopo la
fine della NFP - a una ‛rivoluzione dall'alto' (Stalin), che dalla
Germania bismarckiana mutuava non soltanto il nome, ma anche le
caratteristiche, emerse sempre più chiaramente dopo il 1934, di
una gerarchia di livelli e di poteri dotata di tutti quei simboli
tradizionali (uniformi, insegne di rango, onorificenze, ecc.) che
il movimento operaio aveva un tempo così risolutamente criticato e
combattuto. Nasceva così una società stratificata con rilevanti
forme di privilegio, la quale, se in verità non può essere
definita, in termini marxiani, come una società di classi, ben
costituiva però una nuova gerarchia di caste. La mobilità
verticale è limitata, se prescindiamo dall'ascesa folgorante di
certi funzionari, ascesa resa possibile da Stalin attraverso la
liquidazione quasi completa del gruppo dei vecchi comunisti e le
periodiche purghe del partito.
La critica socialista a uno sviluppo siffatto si appunta anzitutto
contro la forma autodistruttiva assunta dalla collettivizzazione
dell'agricoltura (dalla quale, a causa della resistenza dei
contadini, derivarono la carestia e il ristagno della produzione
agricola): distorsione che fu di fatto agevolata dall'eliminazione
di tutti i meccanismi che potevano consentire al regime
un'efficace autocorrezione. Ma, oltre a ciò, la critica socialista
vuol anche mostrare come lo smantellamento di tutti i meccanismi
democratici di controllo, e la loro sostituzione con ‛procedure di
acclamazione' controllate dall'alto, fosse non soltanto illiberale
ma anche antisocialista, e risultasse nocivo persino dal punto di
vista della mera redditività dell'economia nel suo complesso. Il
fatto che, più di sessant'anni dopo la Rivoluzione d'ottobre e più
di trenta dopo la seconda guerra mondiale, l'Unione Sovietica
rimanga fortemente indietro, in materia di produttività sia
industriale che agricola, rispetto alla Germania Federale e agli
Stati Uniti è un eloquente argomento contro la forma
dell'ordinamento economico adottato. Una minore produttività del
lavoro significa in pratica che nell'Unione Sovietica i contadini
dei kolchoz e gli operai debbono lavorare di più (e più a lungo)
dei loro colleghi americani e tedeschi per ottenere lo stesso
prodotto. E difficilmente questi svantaggi potranno essere
controbilanciati dai servizi sociali forniti dallo Stato (nel
campo della sanità, dell'istruzione, dei trasporti, della
cultura).
Ancor più pesante si è rivelato il fatto che gli eccidi in massa e
i processi farsa dell'epoca staliniana (ufficialmente ammessi,
dopo il 1956, anche nell'Unione Sovietica) hanno arrecato al
socialismo un discredito vastissimo. Per quella via, Stalin diede
indirettamente, e proprio negli anni della grande crisi economica
mondiale, un contributo difficilmente valutabile alla
stabilizzazione dell'ordinamento economico capitalistico.
L'esistenza dell'‛Arcipelago Gulag' ha, verosimilmente, dato alla
stabilizzazione dello status quo un contributo maggiore di tutti
gli sforzi riuniti dei partiti conservatori. R. Aron ha potuto,
con argomenti persuasivi, paragonare questo gigantesco esercito di
lavoratori coatti all'‛esercito industriale di riserva' del
capitalismo e alla miseria di massa all'epoca dell'accumulazione
primitiva capitalistica. L'alternativa alla forma
privato-capitalistica dell'industrializzazione, qual è offerta
dall'Unione Sovietica, è apparsa scarsamente convincente ai bene
informati operai dell'Europa occidentale. Soltanto la rottura con
lo stalinismo (1956) e la - assai timida invero - liberalizzazione
dei rapporti nei paesi del Patto di Varsavia (e del Comecon) hanno
potuto in qualche misura mutare il loro atteggiamento.
Ora, se è vero che - almeno in parte - è possibile spiegare
l'evoluzione dell'Unione Sovietica come inevitabile conseguenza
delle specifiche condizioni di vita del nuovo Stato (sottosviluppo
industriale, distruzioni dovute alla guerra civile, accerchiamento
capitalistico), ciò che tuttavia non si può giustificare (né
presentare come necessario) è la subordinazione del movimento
mondiale del marxismo rivoluzionario (comunismo) ai modelli
sviluppatisi nell'Unione Sovietica. È proprio a causa del pericolo
di un tale adattamento e di una tale ‛imitazione' che i seguaci di
Rosa Luxemburg già nel 1919 criticarono lo stabilirsi del Comitato
esecutivo del Komintern nell'Unione Sovietica. Accadde così - e
non solo per quanto riguarda l'Unione Sovietica dell'epoca
staliniana, ma per tutto il movimento mondiale - che
caratteristiche russe, come la specifica situazione d'emergenza
degli anni dell'edificazione e l'arretratezza, diventarono ‛virtù'
generali. A uno svolgimento siffatto portò un decisivo contributo
la cristallizzazione dogmatica del materialismo dialettico e
storico e la sua trasformazione in un'ideologia
giustificazionistica amministrata dalla burocrazia di partito.
Questo irrigidimento dogmatico ha poi sortito anche il risultato
che le forme specifiche dell'edificazione sociale nella Cina
Popolare furono dai marxisti sovietici fraintese e sottomesse a
una gretta critica. Ancora e sempre i partiti dell'Europa
occidentale debbono lottare contro il partito fratello dell'Unione
Sovietica per il riconoscimento di una ‛via propria', giacché la
dogmatica (e astratta) identificazione delle esperienze sovietiche
con la ‛dottrina generale' storna lo sguardo dalla concretezza e
varietà delle situazioni storiche. La dogmatica immobilità, che
abbiamo appena caratterizzata, ha condotto i partiti comunisti a
numerose sconfitte (per es. negli anni trenta in Cina, Spagna,
ecc.).
Col 1968, come già nel 1956, un altro capo d'accusa è stato
formulato contro l'Unione Sovietica e l'orientamento da essa
rappresentato. Il 21 agosto di quell'anno l'Unione Sovietica e i
suoi alleati (con l'eccezione della Romania) occuparono con un
colpo di mano la Cecoslovacchia e, con l'uso della forza,
costrinsero il partito che governava quel paese ad accettare
l'occupazione illimitata - da parte delle truppe sovietiche - e la
modificazione della sua politica interna. In quell'occasione, la
critica si appuntò soprattutto contro la concessione della libertà
di stampa e della libertà di costituire partiti (meno invece
contro la riforma dell'economia, che non si distingueva granché
dal modello ungherese). La giustificazione dell'intervento fu
ravvisata, da parte sovietica, nella minaccia incombente di un
Putsch reazionario o di un ingresso nel paese di truppe
tedesco-occidentali, e nella mancata adozione, da parte del
governo, di adeguate contromisure. L'imperativo della solidarietà
socialista (comunista) avrebbe dunque obbligato gli Stati del
Patto di Varsavia a intervenire. A siffatti argomenti tutti i
critici occidentali (come anche quelli all'interno del campo
socialista) contrapposero il principio, basato sul diritto
internazionale, della non ingerenza nelle faccende interne di uno
Stato sovrano. Anche il partito e il governo della Cina Popolare
aderirono a questo punto di vista (a differenza di quanto accadde
in occasione dei fatti ungheresi del 1956, quando Mao Tse-tung
approvò esplicitamente l'intervento).
Mentre i commentatori conservatori (e liberali) spiegarono
l'intervento dell'Unione Sovietica e dei suoi alleati come una
logica conseguenza del comunismo, e - indirettamente - mostrarono
un certo sollievo per la fine violenta dell'esperimento
cecoslovacco di un comunismo dal ‛volto umano', la critica dei
socialisti era resa ancor più aspra dal fatto che in
quell'occasione erano stati soffocati sul nascere promettenti
accenni di una democratizzazione. Si prese a pretesto per
l'intervento la minaccia di un Putsch reazionario proprio quando,
per la prima volta dopo molti anni, si andava costituendo un'ampia
solidarietà tra governo e popolo: per questa ragione non è
assolutamente possibile paragonare quest'ingerenza con le armi con
l'ingerenza a favore di un governo democratico minacciato dal
fascismo.
Il caso della Cecoslovacchia può essere interpretato come un
indizio della paura che la leadership sovietica (o polacca, o
tedesco-orientale, ecc.) nutre nei confronti di un socialismo
veramente democratico, il quale avrebbe una straordinaria forza
d'irradiazione in tutti questi paesi. Ma, anche qualora sussista
il pericolo (come parecchi socialisti privatamente ammettono) che
un movimento mirante a un socialismo democratico oltrepassi il
segno e conduca alla restaurazione del capitalismo, ciò
costituirebbe un argomento eloquente contro il sistema esistente
del socialismo burocratico di Stato (o capitalismo di Stato)
piuttosto che contro il socialismo democratico. L'esistenza di un
pericolo siffatto significherebbe che l'operato del regime
sovietico (in più di sessant'anni) e quello delle repubbliche
popolari (in più di trenta) non hanno ancora definitivamente
conquistato al socialismo la maggioranza della popolazione: è un
certificato di inettitudine che difficilmente potrebbe essere
presentato in pubblico.
Da quanto abbiamo detto, si può dedurre come non sia possibile
escludere la possibilità di una restaurazione del capitalismo nei
paesi governati da un socialismo burocratico di Stato. Il
socialismo democratico, al contrario, fornirebbe una garanzia
abbastanza certa contro la ricaduta nel sistema capitalistico, in
quanto l'economia pianificata sarebbe necessariamente posta al
servizio dei bisogni concreti della popolazione, e la popolazione
stessa potrebbe, non solo formalmente ma anche materialmente,
partecipare con pienezza alle decisioni di interesse collettivo.
Mai il pericolo di una restaurazione del capitalismo fu minore che
nel momento in cui, alla testa della Repubblica cecoslovacca, si
trovò un governo che era sostenuto dalla maggioranza della
popolazione e che riconosceva il diritto a una critica aperta. I
governi dei paesi organizzati burocraticamente possono certo, in
base ai rapporti delle spie della polizia sugli umori della gente,
farsi un quadro dell'opinione della popolazione, ma tale quadro
può essere ingannevole. I governi democratici hanno invece a
disposizione il termometro dei risultati elettorali, delle
dimostrazioni, della critica aperta in discorsi, libri, riviste
ecc. Per questa ragione essi non possono mai - per quanto
l'opinione pubblica possa venir deformata - allontanarsi dai
desideri della popolazione nella stessa misura dei governi dei
paesi burocratici. L'identità democratica di governanti e
governati non è attuata oggi in nessun luogo, ma gli Stati
burocratici sono da essa più lontani che non gli Stati
democratico-capitalistici (anche se forse meno lontani dei paesi
capitalistici governati da un regime di polizia).
5. Socialismo e paesi in via di sviluppo
Sinora abbiamo parlato esclusivamente dei problemi dei paesi
capitalistici industrialmente avanzati. Ma la maggiore miseria e
le maggiori (o comunque più oppressive) disuguaglianze sociali
sono oggi osservabili nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Si
tratta di paesi e di territori che l'ampliamento del mercato
mondiale capitalistico ha strappato al loro tradizionale
ordinamento economico e sociale e ridotto alla condizione di aree
periferiche del capitalismo mondiale. A rigore, il loro
sottosviluppo è uno sviluppo più o meno fortemente deviato, uno
sviluppo che è stato determinato esclusivamente dagli interessi
delle imprese capitalistiche nelle metropoli (e dagli interessi
statali delle potenze coloniali), e non dai bisogni stessi dei
territori colonizzati.
Nella loro critica al sistema coloniale i socialisti europei
possono rifarsi a una lunga tradizione. L'oppressione dei popoli
coloniali fu già per tempo sottoposta a critica. Ci furono però -
purtroppo - anche coloro che parlarono di una sorta di missione
civilizzatrice dell'Europa, giustificando il colonialismo come una
forma di europeizzazione e di ‛progresso'. In Germania si distinse
in modo particolare, per il ricorso a siffatti argomenti, il
socialdemocratico M. Schippel. Egli pensava che, anche se avevano
bisogno delle materie prime dei paesi oltremare, gli operai
tedeschi non si sarebbero fatti ricattare da barbari incivili,
tanto più che non si facevano sfruttare ‛neppure' (!) dai
capitalisti di casa loro. Una volta che si avesse bisogno delle
materie prime d'oltremare, era dunque meglio averne ‛il controllo
diretto'. Si dovevano così custodire i possessi coloniali dello
Stato capitalista, affinché lo Stato socialista potesse poi
ereditarli.
Ma anche lasciando da parte questi eccessi nazionalistici, il
rapporto del socialismo con il colonialismo non era privo di
ombre. Lo stesso Marx mostra talvolta un atteggiamento
ambivalente, quando ad esempio da un lato critica gli orrori del
colonialismo inglese in India e in Cina (guerra dell'oppio), ma
dall'altro saluta, come inizio del cammino verso
l'industrializzazione e il socialismo, la dissoluzione del modo di
produzione asiatico e il superamento del suo secolare ristagno in
seguito alla penetrazione del capitalismo europeo. Il colonialismo
(come anche il capitalismo in genere) è suo malgrado un veicolo
del progresso, di un progresso che, anche quando costa alle masse
sangue e miseria, non per questo cessa di essere tale. È vero che
nella speranza di Marx, la rivoluzione proletario-socialista
mondiale avrebbe, in un tempo relativamente breve, provocato la
fine del colonialismo, ma questo aspetto del problema aveva per
lui un interesse assai marginale. Per Marx, il centro
dell'evoluzione della storia universale stava chiaramente in
Europa e nel Nordamerica. Soltanto quando una rivoluzione
socialista avesse vinto in queste aree industrializzate, si
sarebbe potuto risolvere anche il problema dello sviluppo (rapido
e senza intoppi) degli altri paesi del globo.
Le cose sono andate diversamente da come supponevano Marx ed
Engels, Kautsky e Rosa Luxemburg. I centri industrializzati del
mercato mondiale - con l'eccezione di alcuni Stati che hanno
aderito in un secondo tempo al Comecon - sono ancora e sempre
capitalisti, mentre nei paesi del Terzo Mondo, dopo la
decolonizzazione politica, si è rafforzata la tendenza in
direzione di movimenti socialisti. È vero che in molti Stati la
decorativa etichetta di ‛socialismo' serve ad abbellire un
capitalismo burocratico (e nazionale) di Stato, ma comunque la
diffusione della ‛parola' denuncia l'influsso della cosa.
I problemi economici e i conflitti sociali, che occorre superare
in questi paesi, sono notevolmente diversi da quelli che aveva in
mente Marx e da quelli che stanno dinanzi ai paesi industrialmente
avanzati. Anzitutto, manca in tutti una classe operaia idonea a
svolgere il ruolo di soggetto della trasformazione socialista
della società. In alcuni Stati latinoamericani la classe operaia,
esigua e costituita in notevole misura da lavoratori qualificati
dell'industria, rappresenta uno strato privilegiato piuttosto che
un elemento rivoluzionario. La stragrande maggioranza della
popolazione povera (sottoccupata, affamata) consiste di contadini
e braccianti e delle loro numerose famiglie. La meccanizzazione
dell'agricoltura con l'aiuto di macchinari importati libera una
quantità sempre maggiore di manodopera e, con l'inasprirsi della
concorrenza, manda a picco le piccole aziende, quando non accade
che i contadini stabilitisi come affittuari vengano senz'altro
cacciati dai proprietari. Le società cooperative di grandi
dimensioni sono quasi sconosciute e la loro costituzione è
ostacolata dai governi, controllati dalle oligarchie
agrario-commerciali. Anche là dove - come in Messico - sono state
attuate riforme agrarie (distribuzione della terra dei
latifondisti), si verifica una nuova incessante concentrazione dei
possessi fondiari, che ricaccia nella miseria le famiglie senza
terra. In questa situazione, le città cresciute oltre misura
funzionano come centro d'attrazione per la popolazione eccedente
delle campagne, e sono circondate da una cintura di miserabili
sobborghi. La popolazione di questi quartieri è in maggioranza
così apatica che difficilmente può essere presa in considerazione
come fattore attivo di un movimento rivoluzionario, sicché, per il
momento, le riforme possono essere avviate soltanto dall'alto. E
portatori di tali riforme (può trattarsi anche di riforme di
struttura, come quelle promosse da Allende in Cile) possono
essere, nelle condizioni date, soltanto élites di intellettuali
(ivi compresi ecclesiastici di tendenze radicali), le quali si
valgono dell'appoggio passivo delle masse povere e della loro
possibilità di mobilitazione. Un marxismo recepito in modo
dogmatico non può, in una situazione del genere, offrire alcuna
guida all'azione. Movimenti come quello di P. Freire in Brasile,
che negli abitanti degli slums cercano anzitutto di svegliare la
coscienza della dignità umana e della loro situazione - e della
possibilità di una sua trasformazione -, acquistano invece grande
importanza. In particolari circostanze, anche i militari
(capitani, cadetti di scuole militari) possono diventare il motore
di un movimento politico, in quanto hanno ricevuto un'istruzione
sufficiente e d'altra parte, per i loro continui contatti
reciproci, possono facilmente associarsi in vista dell'attuazione
di obiettivi politici.
In certi paesi accade anche che si formi un'alleanza di contadini,
piccolo-borghesi, intellettuali e settori della borghesia
nazionale, i quali tutti si sentono oppressi dallo strapotere
delle imprese straniere. Ma in generale tali alleanze hanno vita
assai breve. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo
scavalcano la fase capitalistico borghese. Nella misura in cui
ancora predominano sistemi economici capitalistici (come nella
maggioranza dei paesi del Terzo Mondo), essi dipendono in
considerevole misura dagli Stati industrialmente avanzati e dalla
loro economia; le borghesie locali sono di solito strettamente
associate all'apparato statale (per lo più facilmente
controllabile) dei vari paesi.
L'atteggiamento dei socialisti negli Stati industriali è (o
dovrebbe essere) determinato da quel principio della ‛solidarietà
internazionale' che vale anche tra i movimenti operai di quegli
stessi Stati. Ciò vuol dire che, nella misura in cui i socialisti
possono esercitare un influsso sui loro governi, o hanno essi
stessi responsabilità di governo, dovrebbero adoperarsi per: 1)
mutare i terms of trade a favore dei paesi del Terzo Mondo
produttori di materie prime; 2) indurre i governi dei paesi
industrializzati a fornire, con aiuti tecnici, con la concessione
di know how e con l'assistenza per lo sviluppo di
un'infrastruttura e di una tecnologia realmente corrispondenti ai
bisogni dei paesi in via di sviluppo, un contributo al
risarcimento delle ingiustizie subite da questi paesi e dalle loro
popolazioni.
Quello che abbiamo qui caratterizzato come un ‛dovere morale'
corrisponde però, sino a un certo punto, anche agli interessi - se
intesi con lungimiranza - dei paesi industrializzati. L'abisso
crescente - constatato anche da papa Paolo VI nell'enciclica
Populorum progressio (26/3/1 967) - tra il tenore di vita della
popolazione del Terzo Mondo e quello degli Stati industrializzati
non è soltanto un problema morale dei ‛sazi', ma anche un problema
politico. Per questa ragione un partito realmente socialista in
uno Stato industrializzato capitalistico non potrà esimersi dal
prestare ai movimenti antimperialisti del Terzo Mondo la sua
simpatia (anche se non un sostegno attivo). Delle socialdemocrazie
europee al governo soltanto il partito svedese si è mosso con
chiarezza (pur se con cautela) su questa strada. Dopo essersi
lasciati dietro le spalle oscuri trascorsi nella guerra
d'indocina, anche i socialisti francesi hanno dato espressione
alla loro simpatia per questi movimenti.
Senonché, tanto è indiscutibile il dovere morale di una tale
opzione, quanto è problematica la sua concretizzazione nei casi
singoli. L'Internazionale socialista, alla quale appartengono sia
il partito di governo d'Israele sia parecchi partiti del Terzo
Mondo (che condannano Israele), non può neppure garantire la pace
tra i suoi membri. E accade che anche Stati industrializzati
socialisti (e comunisti) concludano accordi con Stati produttori
di petrolio - che hanno represso nel sangue i propri partiti
socialisti (e comunisti) - e si astengano da ogni polemica contro
quei regimi autoritari. La dipendenza dei paesi industrializzati
dalle importazioni di petrolio si dimostra più importante della
solidarietà con i socialisti (o i comunisti) perseguitati.
Per quanto riguarda la ‛forma dello sviluppo' dei paesi del Terzo
Mondo verso l'industrializzazione, il ‛modello di sviluppo cinese'
è stato il primo a mostrare quanto possa essere sbagliato
l'accoglimento immediato della tecnologia degli Stati
industrializzati. Ad esempio, l'importazione di trattori provoca
in Brasile un accrescimento, e non già una diminuzione, della
miseria contadina. All'aumentata produttività per addetto
all'agricoltura corrisponde un accresciuto dispendio tecnologico
(e quindi di capitale). Ora, poiché le importazioni debbono essere
pagate con le esportazioni (a prezzi in parte calanti) la cosa si
risolve di fatto in una perdita: una perdita che si scarica, in
primo luogo, direttamente sulla popolazione contadina. È perciò
molto più ragionevole promuovere lo sviluppo di tecnologie
produttive meno dispendiose e a più alta intensità occupazionale,
le quali aumentino la produttività senza accrescere parallelamente
il dispendio di capitale e quindi senza appesantire la bilancia
commerciale. Tecnologie del genere, inoltre, possono almeno in
parte essere sviluppate direttamente sul posto. La concessione di
know how tecnico deve adattarsi ai bisogni immediati delle regioni
e dei paesi interessati (e delle loro masse lavoratrici). Questo
non significa che si debba abbandonare l'edificazione di una
propria industria pesante, si tratta piuttosto di trovare le
proporzioni ‛ottimali' dell'economia, come anche una forma di
sviluppo che eviti quel tipo di controllo sociale mediante la
miseria di massa che fu caratteristico dell'Europa. Ciò vuol dire
che lo sviluppo deve cominciare dalla produzione agricola e
dall'industria leggera, e che bisogna accontentarsi di tecnologie
più semplici prima di poter compiere i primi passi verso
l'industria pesante e verso l'industrializzazione
dell'agricoltura. In un processo del genere, sussiste la
possibilità che almeno alcuni dei paesi in via di sviluppo
dedichino sin dall'inizio ai problemi ecologici un'attenzione
maggiore di quanto non sia accaduto nei primi paesi
industrializzati.
Mentre nelle società industrialmente avanzate i socialisti hanno
in mente una transizione democratica e graduale al socialismo e
ripudiano le forme di transizione violente, una via analoga non è
certamente possibile in tutti i paesi in via di sviluppo. Sinora i
partiti socialisti non hanno elaborato una posizione unitaria
verso i movimenti di guerriglia e tutte le altre forme di
resistenza armata contro il neocolonialismo e contro quei governi
che di fatto rappresentano gli interessi dei trusts e delle grandi
potenze capitalistiche. Il loro atteggiamento ha oscillato tra la
decisa presa di posizione adottata dai socialdemocratici svedesi
durante il conflitto vietnamita a favore del movimento di
liberazione e la subordinazione della lotta antimperialista nel
Terzo Mondo alle esigenze del conflitto Est-Ovest, come ha fatto
la leadership centrista del Labour Party (ma non la sua sinistra).
Un socialista che voglia giudicare in base alla concretezza
storica dovrebbe guardarsi dal trasporre frettolosamente le
condizioni a lui familiari a paesi strutturati in modo affatto
diverso. Tanto poco appare oggi necessaria negli Stati
industrializzati - in presenza della democrazia e dello Stato di
diritto - la violenza rivoluzionaria, quanto invece può diventare
indispensabile in un paese come il Cile odierno, sottoposto a una
dittatura militare. D'altra parte, la condanna in blocco di ogni
violenza si addice assai poco ai governi e agli ideologi borghesi,
in quanto essi stessi non sono altro che i diretti o indiretti
beneficiari, o gli eredi, di rivoluzioni violente. Gli studenti
contestatori americani, che hanno nuovamente portato alla luce
questa verità storica e che distribuivano volantini con la
Dichiarazione d'indipendenza americana, furono tacciati e
perseguitati dai conservatori come ‛comunisti': a tanto può
arrivare l'oblio (o la rimozione) della storia! (V. anche
sottosviluppo e terzo mondo).
6. Forme della transizione pacifica al socialismo
Come abbiamo già sottolineato nell'introduzione, il socialismo
contemporaneo muove dalla premessa che - almeno nelle società
industrialmente sviluppate - è possibile una transizione pacifica
e democratica al socialismo. In verità, sinora non è mai accaduto
che un governo socialista abbia, sulla base della propria
maggioranza parlamentare, realizzato un ordinamento socialista
della società, ma c'è la convinzione (per es., nei
socialdemocratici svedesi) che su questa via sia possibile una
transizione lenta, graduale (‟a passo di lumaca", dice G. Grass)
verso altre forme di società. P. Vinde - un eminente economista
socialista svedese che è stato anche sottosegretario del Ministero
dell'economia - ravvisa nello sviluppo della Svezia dopo il 1932
(anno in cui i socialdemocratici arrivarono per la prima volta al
governo) una continua ma non conclusa marcia di avvicinamento
all'obiettivo socialista. La via democratica e riformista verso il
socialismo consiste secondo lui in ciò, ‟che il potere dei
cittadini viene esteso sempre di più, mentre quello del capitale è
sempre di più ricacciato indietro". Lo svantaggio di questo metodo
è la sua lentezza, nonché il pericolo di scendere a troppi
compromessi, così da rischiare di smarrire l'obiettivo lungo il
cammino. Il suo vantaggio consiste invece nell'appoggiarsi sulla
volontà politica della maggioranza, il che dà alle riforme una
solida base. L'obiettivo rimane fermamente delineato come segue:
‟[...] una società nella quale il popolo intero decida sulla
produzione e distribuzione dei beni; una società basata sulla
libertà, l'uguaglianza, la democrazia e la solidarietà" (‟Le
nouvel observateur, spécial économie", luglio 1975, p. 58).
Le riforme che Vinde ha in mente sono la pensione sociale per
tutti, l'istruzione generalizzata e gratuita (e obbligatoria per
nove anni), l'assistenza sanitaria gratuita, la sicurezza dalla
disoccupazione (la garanzia del ‛diritto al lavoro'), ecc. In
vista di ciò, la statizzazione non è considerata uno scopo in sé,
ma uno strumento cui far ricorso soltanto quando (e nei casi in
cui) ogni altra misura sia fallita. Così, ad esempio, il programma
della Svezia di statizzazione dell'industria farmaceutica, serve a
mettere interamente sotto controllo i prezzi delle medicine (le
farmacie sono statizzate già da lungo tempo). Anche la
speculazione sulle aree è stata resa impossibile (o almeno
limitata) da leggi apposite, e una gran parte delle abitazioni è
diventata di proprietà dei comuni.
Mentre la statizzazione si ritira un po' nello sfondo, il
potenziamento della democrazia e la democratizzazione
dell'economia hanno svolto in Svezia (come anche nel programma
della coalizione di sinistra in Francia) un ruolo importante. La
pianificazione statale fu avviata già nel 1932 con l'obiettivo del
superamento della disoccupazione, che appariva come ‛la prima
delle disuguaglianze'. Negli ultimi anni lo Stato si è sentito
impegnato a procurare a ogni cittadino - uomo o donna - un lavoro
conforme alla sua dignità. ‟Nell'odierna recessione mondiale -
prosegue Vinde - noi abbiamo deciso di compensare la contrazione
dei mercati mondiali con l'espansione interna e di non rassegnarci
ad accettare la disoccupazione. La nostra bilancia commerciale è
peggiorata, ma il saggio di occupazione è cresciuto e non abbiamo
che una disoccupazione assai modesta" (ibid., p. 59). Altri
compiti della pianificazione statale riguardano lo sviluppo
regionale e l'aiuto in caso di cambiamento del posto di lavoro (e
per l'ulteriore qualificazione dei lavoratori). La pianificazione
ha quindi, secondo Vinde, due obiettivi principali: 1) la
sicurezza della piena occupazione; 2) ‟lo sfruttamento razionale
del suolo, delle risorse idriche e delle materie prime".
Ciò significa che la pianificazione deve controllare lo sviluppo
tecnologico e garantire la protezione dell'ambiente. Ma in questo
modo si rafforza anche e in primo luogo la posizione del
consumatore. In sempre maggior misura lo Stato (cioè la comunità)
si assume la protezione dei consumatori dai prodotti nocivi o
senza valore o troppo cari, e costringe i fabbricanti a rispettare
norme prefissate. Inoltre, lo Stato provvede direttamente a
mettere a disposizione di tutti certi servizi essenziali che non
sono forniti - o almeno non nella quantità sufficiente e a prezzi
accessibili - dagli imprenditori privati, e cioè l'assistenza
sanitaria, i servizi sociali, la cultura, l'istruzione. In tal
modo la quota del consumo sociale (cioè del consumo dei servizi
summenzionati) è salita in Svezia, negli anni 1964-1975, dal 14 al
240. Ciò vuol dire che quasi un quarto dei consumi dello svedese
medio è assicurato dallo Stato (qualunque sia la prestazione
lavorativa dei singoli beneficiari).
La cogestione nell'azienda, in Svezia, è regolata dal 1974 in modo
che ogni azienda con più di 100 dipendenti deve avere nel
consiglio di amministrazione due rappresentanti dei sindacati.
Questi rappresentanti sono stati preparati dai sindacati - con
l'aiuto dello Stato - allo svolgimento delle loro mansioni, e
dispongono di adeguate conoscenze specifiche che consentono loro
un controllo effettivo sulla direzione dell'azienda nell'interesse
dei lavoratori. ‟A partire dal 1975, una nuova legge per la
garanzia della sicurezza sul posto di lavoro ha ulteriormente
rafforzato la posizione dei rappresentanti sindacali nell'azienda.
In certi casi, essi possono ora anche bloccare la produzione,
quando si siano formati la convinzione che essa comporti seri
pericoli per la salute dei lavoratori" (ibid.). Le modalità
dell'assunzione e del licenziamento della manodopera, come anche
la sua distribuzione nell'azienda ecc., saranno in futuro oggetto
dei contratti collettivi stipulati tra imprenditori e sindacati.
‟Senza la preventiva approvazione del sindacato, l'imprenditore
non potrà più introdurre nell'azienda alcun mutamento essenziale"
(ibid.).
Senza mutare in linea di principio l'assetto della proprietà, in
questo modo ‟si muta radicalmente il ‛rapporto di forza' tra
imprenditori e lavoratori", un mutamento che riguarda anche il
settore pubblico, nel quale i sindacati hanno una posizione
egualmente forte. Vinde richiama esplicitamente l'attenzione sui
problemi che in una simile situazione nascono da un conflitto tra
la democrazia politica (che controlla e insedia i capi delle
aziende statali) e il controllo diretto dal basso, esercitato dai
sindacati. Nei paesi a socialismo di Stato conflitti di questo
genere sono negati a parole, mentre sono di fatto repressi,
giacché i capi sindacali sono inseriti nella gerarchia dello Stato
e del partito, e in genere ignorano (o almeno non mettono al primo
posto) gli interessi diretti dei lavoratori.
Sembra però, infine, che si stia procedendo a una lenta
socializzazione delle grandi imprese (delle società per azioni).
Questa transizione segue una strada alla quale accennò
incidentalmente anche Marx (riguardo all'Inghilterra): la strada
cioè dell'‛accaparramento'. ‟Il fondo statale per le pensioni (che
dispone di enormi mezzi finanziari) ha cominciato nel 1974 a fare
incetta di azioni di grandi società. Il diritto di voto derivante
da queste partecipazioni viene esercitato dai relativi sindacati
aziendali" (ibid.). Nel 1974 fu bloccato circa un terzo degli
utili (detratte le tasse) delle grandi aziende svedesi. Questi
mezzi finanziari possono essere sbloccati, con il benestare dei
sindacati, solo per promuovere miglioramenti delle condizioni dei
lavoratori. ‟Attualmente, i sindacati stanno studiando le modalità
di un'operazione che consentirebbe loro di partecipare alla
crescita economica delle società e di acquisire quote crescenti
della proprietà" (ibid.). Alla fine di un simile processo si
avrebbe una società socialista, la quale godrebbe di tutte le
conquiste utili del capitalismo e si sarebbe risparmiata i pesanti
intralci e la perdita di produttività che una rivoluzione reca
necessariamente con sé.
Quello svedese può essere considerato come il modello meglio
riuscito di uno sviluppo riformistico (ormai progredito) verso il
socialismo democratico. I presupposti perché questa via abbia
successo sono: 1) una democrazia sufficientemente consolidata (e
garantita da complotti di forze reazionarie); 2) un movimento
operai o politicamente attivo, con una leadership non corrotta e
non integrata.
In particolare il primo dei due presupposti non potrebbe esser
dato per scontato in tutte le società industrializzate
dell'Occidente, come ha dimostrato l'esempio del Putsch militare
cileno e la sua esaltazione, nella Germania Federale e altrove, a
opera di riviste e uomini politici ‛liberali'. Quando si tratta di
salvare la proprietà privata, numerosi uomini politici
conservatori sono ancor oggi evidentemente pronti a sacrificare la
democrazia e ad abbassare gli standard della morale politica. Le
azioni che si sono incessantemente rimproverate a Fidel Castro
come un crimine, il generale Pinochet le può compiere senza
biasimo alcuno (almeno finché egli non ‛esagera' e, soprattutto,
finché ‛ha successo').
Ma anche quando siano adempiuti entrambi i presupposti, non sarà
facile, per un partito socialista fautore di riforme radicali,
ottenere nelle elezioni una maggioranza sufficiente. La difficoltà
è strettamente connessa con il mutamento della struttura sociale
nei paesi industrialmente avanzati e con il grande influsso dei
mass media, per lo più dominati da circoli filocapitalistici e
conservatori. Se è vero che negli Stati industrializzati lo strato
dei percettori di salari e stipendi costituisce la grande
maggioranza della popolazione (l'80% e più), all'interno di esso,
però, i lavoratori dell'industria raggiungono a stento la metà,
mentre l'altra metà è costituita da impiegati che lavorano negli
uffici e nei servizi (amministrazioni, assicurazioni, agenzie di
viaggi, banche, ecc.). Ora, attraverso questo spostamento del
baricentro sociale verso gli impiegati - i white-collar workers,
il nuovo ceto medio - la disponibilità a organizzarsi e la
mentalità dei percettori di salari e stipendi hanno subito un
mutamento considerevole. Da un lato, si sono formate
organizzazioni separate per gli impiegati e i funzionari (per es.,
nella Germania Federale), e dall'altro il grado di organizzazione
è in questo strato assai minore che nei lavoratori industriali
delle grandi fabbriche. Ma è soprattutto la loro mentalità - con
il suo orientamento verso i valori borghesi: concorrenza delle
prestazioni, interesse alla carriera, attenzione ai problemi di
status - che distingue nettamente i white-collar workers dai
blue-collar workers, cioè dai lavoratori impegnati nella
produzione materiale.
Negli anni successivi alla prima guerra mondiale lo strato
impiegatizio in rapida crescita - fu un importante campo di
reclutamento per il fascismo. Dai suoi ranghi sono poi usciti,
sinora, di preferenza democratici cristiani, ma anche aderenti
alla socialdemocrazia (moderata), i quali hanno esercitato un ben
determinato influsso sull'orientamento di questo partito. Non di
rado i rappresentanti dell'ala destra all'interno dei partiti
socialisti sono ex piccoli impiegati od operai che hanno
progredito nella scala sociale, mentre i capi dell'ala sinistra
provengono spesso dall'intellettualità e dalla borghesia. E come
base di massa dell'ala destra troviamo proprio lo strato dei
white-collar workers (inteso in senso ampio, sino ai funzionari).
Non è facile, in genere, convincere questo strato della necessità
di promuovere un programma di riforme radicali, di struttura. Esso
è convinto che i partiti socialdemocratici siano necessari
unicamente in quanto strumento utile per la correzione di taluni
aspetti unilaterali (solo temporanei) del capitalismo, nonché come
mezzo di difesa preventiva contro il temuto comunismo. Questo
strato tende comunque in massima parte - almeno in tempi di
congiuntura favorevole - a mantenersi apolitico, o almeno non è
disposto a impegnarsi attivamente nel lavoro politico.
Gli interessi oggettivi dei membri di questo strato - che
rientrano nella classe dei percettori di salari e stipendi -
coinciderebbero interamente, sulla lunga distanza, con quelli
degli altri percettori di salari, ma i loro interessi soggettivi,
e i loro interessi immediati (a breve scadenza), si discostano in
misura non indifferente da quelli dei lavoratori della produzione.
Dinanzi all'ascesa materiale della manodopera industriale, questo
strato si sente minacciato nella sua posizione speciale più di
quanto non si senta incline a salutarla con soddisfazione. Il
graduale eguagliamento dei diritti degli operai a quelli degli
impiegati (in materia di ferie, assicurazioni, opportunità di
consumo nel tempo libero) e il superamento, in parte già
osservabile, degli stipendi dei semplici impiegati da parte dei
salari più alti ha un effetto nocivo sulla solidarietà. A causa
dell'indeterminatezza che caratterizza la categoria degli
impiegati, il semplice fattorino e il commesso di un grande
magazzino possono collocarsi nella stessa classe del direttore
generale o dei membri del consiglio di amministrazione, e quindi,
nella loro immaginazione, scavare un abisso tra sé e i lavoratori
della produzione. Si aggiunga che - ancor più che nel settore
della produzione - i posti malpagati nei gradi inferiori della
gerarchia impiegatizia sono occupati da donne. Ora, le donne
considerano spesso il proprio lavoro come un'occupazione
temporanea, e definiscono la propria collocazione sociale in base
alla professione del futuro marito piuttosto che in base alla loro
attività del momento. Per questa ragione il grado di
sindacalizzazione degli impiegati donne è in genere
particolarmente basso. Al contempo, l'esistenza di impiegati
subalterni di sesso femminile (dattilografe, stenotipiste,
perforatrici) procura agli impiegati maschi la sensazione di
godere di una posizione più elevata, in quanto essi hanno spesso
(o si attribuiscono) nei confronti delle loro colleghe una certa
limitata facoltà di impartire ordini. In tal modo, le donne
svolgono spesso negli uffici un ruolo analogo a quello svolto
nelle fabbriche dai lavoratori stranieri: indeboliscono la
solidarietà dei salariati nel loro complesso, giacché i loro
interessi (in quanto lavoratrici temporanee) non coincidono
pienamente con quelli dei lavoratori permanenti; e d'altra parte
la loro posizione subordinata all'interno della gerarchia (a onta
dell'obbligo formale dell'eguaglianza - uguale salario per uguale
lavoro - obbligo che però nella pratica non è pienamente
realizzato in nessun luogo) suscita negli impiegati - e operai -
maschi la sensazione (ingannevole) di godere di una posizione
migliore, sensazione che contribuisce a tenerli nei ranghi.
Negli anni passati questa mentalità impiegatizia è stata già
infranta in alcune imprese. Si è arrivati a scioperi comuni di
operai e impiegati, e frequenti sono stati i casi di impiegati che
hanno aderito al sindacato generale, anziché al proprio sindacato
di categoria. Nelle rivendicazioni degli scioperi è stata
esplicitamente accordata anche da impiegati (per es., tecnici di
fabbrica) la precedenza agli interessi degli operai peggio pagati
e, circa gli aumenti salariali, è stata adottata la richiesta di
aumenti eguali (scartando quindi gli aumenti percentuali, che
lasciano invariata la gerarchia salariale). Ma la solidarietà si è
formata soprattutto nella rivendicazione della cogestione in
materia di mutamenti da apportare al processo lavorativo (velocità
della catena, pause, norme riguardanti l'intensità del lavoro,
ecc.). Su questi punti i tecnici hanno riconosciuto la comunanza
d'interessi con gli operai. Nella misura in cui le rivendicazioni
operaie oltrepassano i problemi meramente salariali e investono i
problemi della struttura e della direzione dell'azienda, è più
facile che si formino posizioni comuni di operai e impiegati.
Nelle generazioni più giovani, anche la preoccupazione per i
problemi di status sembra in declino.
A onta di questi accenni promettenti in direzione di una maggiore
solidarietà di classe, non si può parlare, nei paesi
industrialmente avanzati, di una classe lavoratrice unitaria e
quindi di un movimento operaio che ne esprima gli interessi. In
parte, le differenze di salario, di stipendio e di status vengono
esplicitamente accentuate e potenziate dai vertici aziendali, onde
frenare per questa via l'estendersi della solidarietà. La
concessione di premi speciali, che rappresentano una gran parte
delle entrate, oltre che da sprone all'intensificazione dei ritmi
di lavoro serve anche a ricompensare la docilità e la passività.
Per questa ragione, acquista un'importanza crescente il diritto
d'intervento dei membri dei consigli di fabbrica (rappresentanti
sindacali) i quali possono ostacolare una tale strumentalizzazione
delle varie gratifiche aggiunte a salari e stipendi. Tuttavia,
difficilmente la totalità dei percettori di salari e stipendi -
almeno a scadenza non troppo lontana - potrà costituirsi in unità
(cioè come una ‛classe unitaria e cosciente di sé'). Nel migliore
dei casi può accadere che un partito operaio riformista (e
nazionale) raccolga la maggioranza dei voti di questi settori
dell'elettorato (ma, verosimilmente, neppure la metà dei voti
degli impiegati). Poiché, d'altra parte, diminuisce al contempo la
quota relativa degli operai impegnati nella produzione, la
dinamica dello sviluppo industriale non è più destinata
necessariamente (e spontaneamente) a procacciare ai partiti
socialisti e operai, nei paesi industrializzati, nuovi
(potenziali) elettori. Proprio per questo il ruolo della
propaganda elettorale e dell'informazione diventa sempre più
importante.
D'altro canto, per quanto riguarda il problema dell'interesse che
obiettivi socialisti possono rivestire per i percettori di salari
e stipendi, l'interrogativo se si tratti di lavoratori produttori
di plusvalore ovvero di lavoratori pagati con reddito non ha un
peso decisivo. Il confine tra i due gruppi è controverso e,
spesso, è difficile determinarlo con precisione. A rigore, sono
produttori di plusvalore soltanto gli operai e impiegati
(ingegneri, ecc.) che costituiscono una parte del ‛lavoratore
complessivo'.
Al lavoratore complessivo appartengono tutti coloro - dal
progettista al manovale - che partecipano alla produzione del
plusprodotto; già i commercianti, i banchieri, i pubblicitari, gli
esperti di marketing non sono più annoverabili nel lavoratore
complessivo, e i loro salari e stipendi sono detratti dal reddito
del capitale. Bisognerebbe quindi supporre che - nell'interesse
dell'accrescimento del reddito del capitale - anche le loro
remunerazioni siano mantenute basse. Ma, poiché le loro
prestazioni sono (in un sistema capitalistico) assolutamente
indispensabili per l'avvio della produzione, e d'altra parte la
loro esistenza, oltre a ciò, può contribuire a rafforzare la
stabilità politica, i loro servigi sono di norma ben ricompensati.
In quanto però essi offrono le proprie prestazioni sul medesimo
mercato del lavoro dal quale provengono anche i lavoratori
produttivi (cioè i lavoratori che, appartenendo al lavoratore
complessivo, producono plusvalore), si può supporre che pure i
loro salari oscillino intorno al valore della merce forza-lavoro.
Ora, se è vero che la loro esistenza, in quanto parte del carico
generale costituito dai costi addizionali della valorizzazione del
capitale, grava sulla base costituita dal lavoro produttivo nel
suo complesso, per ciò che riguarda la loro posizione sociale essi
sono invece dei venditori della propria forza-lavoro esattamente
come i lavoratori produttivi. Economicamente, essi si trovano
nella stessa situazione di quei percettori di salari, i quali come
già in passato anziché produrre plusvalore siano al servizio
diretto di persone benestanti e badino al loro comfort privato (in
qualità di cuochi, autisti, giardinieri, ecc.). Il fatto che, in
forza del sistema economico, essi siano pagati con reddito non è
comunque attribuibile a una loro ‛colpa' personale. E se la
prestazione di servizi personali a uno strato di privilegiati
comporta spesso un adattamento mentale ai suoi valori (si pensi al
servitore aristocratico, il butier inglese), difficilmente
potrebbe dirsi lo stesso delle masse di impiegati che lavorano
nelle agenzie pubblicitarie, nelle banche, nelle società di
assicurazioni, ecc. Non si vede perciò per quale ragione essi non
debbano solidarizzare con i lavoratori produttivi.
D'altra parte, il confine è spesso problematico. Prendiamo il
caso degli impiegati di un'agenzia pubblicitaria. In quanto questa
vende a un'altra ditta la pubblicità (come merce o come servizio),
si tratta certo di lavoro produttivo: il proprietario della ditta
(il possessore del capitale) sfrutta la forza-lavoro (dei suoi
disegnatori, autori di testi, ecc.) per ricavare un profitto
(plusvalore) dalla vendita della merce così prodotta. Se invece si
considerano gli impiegati nel reparto pubblicità di una società,
possiamo almeno supporre che si tratti di lavoratori improduttivi,
il cui salario viene pagato con reddito, viene cioè detratto dai
profitti del capitale. Maggiore è il plusvalore che l'imprenditore
spreme dai propri lavoratori (produttivi), e maggiore sarà la
somma che potrà stornare per il proprio reparto pubblicità. In
questo caso, si potrebbe quindi supporre che gl'interessi dei
lavoratori di un'azienda e quelli dei pubblicitari impiegati nella
stessa azienda siano in contrapposizione, mentre nel primo esempio
erano in contrapposizione soltanto gl'interessi della ditta che
forniva e quelli della ditta che comprava la pubblicità, com'è il
caso di ogni rapporto di compravendita. In definitiva, si potrebbe
quindi supporre che sia più facile sensibilizzare a obiettivi
socialisti gl'impiegati di un'agenzia pubblicitaria indipendente
che non gl'impiegati del reparto pubblicità di una società. Ma
anche questa conclusione appare dubbia. Può ben darsi, infatti,
che agli impiegati del reparto pubblicità il nesso tra aumento dei
profitti del capitale e risparmio sui loro salari appaia molto più
immediatamente chiaro che non agli impiegati di un'agenzia
pubblicitaria indipendente.
Nel complesso, a me sembra che il processo di informazione e di
presa di coscienza - il quale prende le mosse dalla circostanza
che, in una società capitalistica, chiunque non disponga di mezzi
di produzione propri è costretto a vendere la propria forza-lavoro
a un proprietario di mezzi di produzione - sia perfettamente in
grado non solo di far emergere l'affinità di situazione di tutti i
percettori di salari e stipendi (sia che forniscano un lavoro
produttivo per il capitale sia che forniscano servizi - pagati con
reddito - necessari per la sua valorizzazione), ma anche di
persuadere della necessità di un controllo collettivo sui mezzi di
produzione (aziende) e sull'economia.
Gli impiegati e i funzionari che, nei paesi capitalistici
organizzati secondo il modello dello stato assistenziale, svolgono
già oggi mansioni di pubblico interesse (insegnanti, medici,
operatori sociali, ecc.) potrebbero sin d'ora sentirsi ‛parte' di
una società socialista (da espandere ulteriormente in futuro) e
trovare in ciò motivazioni per il proprio impegno. Una società
socialista non muterebbe se non in misura minima la loro
situazione.
Una volta Gramsci ebbe occasione di affermare che una rivoluzione
socialista è più facile che avvenga in un paese sottosviluppato
(come la Russia) anziché in un paese industrialmente avanzato, ma
che l'edificazione di una Società socialista è invece, in un paese
sottosviluppato, assai più difficile. Circa i paesi dell'Europa
occidentale e del Nordamerica, è quindi sempre vero che in essi è
difficile trovare solide maggioranze per una rivoluzione
socialista o per radicali riforme di struttura; ma, una volta
ottenute tali maggioranze, l'edificazione della nuova società
sarebbe relativamente più agevole. La causa maggiore di questa
difficoltà - oltre ai già menzionati mutamenti sociali strutturali
degli ultimi decenni - sta nel potere dei mass media e
nell'influsso ideologico che la mentalità capitalistica
(economica) esercita sulla generalità della popolazione. Di tale
influsso abbiamo già parlato in relazione al pericolo
rappresentato dalla concentrazione della stampa e dal predominio
delle opinioni conservatrici nei mass media.
Devo qui tornare nuovamente su questi problemi in relazione alla
questione della possibilità di una transizione pacifica. Il
predominante influsso di una ‛mentalità capitalistica', o comunque
di un atteggiamento di fondo che per principio si rifiuta di
mettere in questione il capitalismo, non può essere spiegato
soltanto in base a iniziative dirette e consapevoli dei
manipolatori di opinioni. Esso risale a una formazione ideologica
che deriva direttamente dalle condizioni di vita. L. Althusser ha
dunque certamente ragione quando parla dell'inevitabilità
dell'ideologia (nozione che peraltro, egli estende a torto alla
società socialista del futuro, liquidando con ciò il carattere
critico della teoria marxiana dell'ideologia). Ogni acquisto in un
grande magazzino, ogni uso di una merce oltre a soddisfare certi
bisogni, indotti dalla pubblicità implica anche una tacita
complicità con il sistema economico. Nell'acquisto di merci, il
bisogno delle quali sia stato indotto dalla pubblicità, emerge una
(anche se temporanea) soddisfazione che, esperita come temporanea
felicità, convoglia le speranze verso una futura maggiore felicità
legata alla sfera di un futuro maggiore consumo. Dominato dalle
categorie del consumo, il lavoratore per l'innanzi ancora stretto
da vincoli di solidarietà con i suoi compagni di lavoro si
trasforma in un individualista mosso dall'egoismo. Attraverso un
maggior consumo, fonte di prestigio, egli cerca di differenziarsi
dai suoi vicini.
La lotta concorrenziale, che va sempre più scomparendo dalla
sfera della produzione, dove è sostituita da accordi di cartello e
da trusts in grado di dominare il mercato, ribolle tanto più
violenta tra i consumatori, isolati dal proprio egoismo e
passivizzati dalla propria spinta al consumo. Ogniqualvolta viene
pubblicizzato un qualche prodotto viene al contempo pubblicizzato
il sistema, che fornisce tali prodotti e con essi la felicità, la
gioia di vivere, ecc. Persino l'aggressività contro il ‛capo',
sempre latente nelle aziende, viene posta dalle agenzie
pubblicitarie al servizio dell'aumento dei consumi: vidi una volta
a New York la réclame di una compagnia aerea, che consisteva in un
impressionante manifesto in stile pop, recante la scritta: ‟Come
diventa piccolo il tuo capo, quando lo vedi dal finestrino di uno
dei nostri Boeing jumbo jets!". La moderna psicologia della
pubblicità adatta perfettamente gli annunci alla situazione
psicologica dei potenziali condumatori. Persino l'impulso alla
ribellione viene integrato nel sistema costituito dalla
soddisfazione dei bisogni attraverso le merci. Da lungo tempo i
pubblicitari abili hanno saputo porsi sul terreno della subcultura
della ribellione giovanile, trasformando la protesta contro il
mondo del consumo in nuovi articoli di consumo: si vendono a caro
prezzo jeans che sembrano già frusti, e si confezionano con toppe
‛vestiti eleganti', che soltanto chi abbia almeno un reddito medio
si può permettere!
Il ‛velo' dei salari, che così a lungo è servito come mezzo per
celare la situazione di sfruttamento presente nel rapporto di
lavoro, conserva ancora la sua efficacia. Quanto più i sindacati
riescono ad avvicinare effettivamente i salari al valore della
merce forza-lavoro, tanto più il salario appare plausibilmente
come la ricompensa adeguata alla prestazione fornita. E quanto
meno trasparente diventa per i singoli la prestazione complessa
del lavoratore complessivo e il suo rapporto con i lavoratori
parziali, tanto meno la teoria del plusvalore si accorda con la
loro esperienza immediata. Soltanto nelle aziende minori lo
sfruttamento è ancora a portata di mano, ma qui spesso il rapporto
personale con l'imprenditore maschera di nuovo i rapporti
economici.
Il mutamento graduale dei rapporti di forza tra lavoratori e
magnati del capitale ha procurato ai lavoratori - come mostra
l'esempio svedese - condizioni di vita e di lavoro notevolmente
migliori; esso reca però con sé necessariamente il pericolo che il
fervore riformista s'illanguidisca prima di raggiungere il suo
obiettivo: ‟Se le cose ci vanno tanto bene sotto il capitalismo,
perché mai dovremmo aspirare al socialismo?". In ogni caso, è ben
certo che il socialismo burocratico di Stato di tipo sovietico non
appare più desiderabile.
7. Necessità di argomenti morali a favore del socialismo
Da qualunque lato si cominci l'analisi, si arriva sempre alla
conclusione che oggi la società democratica e socialista non
rappresenta più, per la maggioranza della popolazione, l'unico e
necessario strumento per la realizzazione dei suoi interessi
materiali. Se può ancor oggi sussistere, anche obiettivamente, una
convergenza tra interessi dei percettori di salari e stipendi e
una futura società socialista, difficilmente sarà possibile
realizzare la solidarietà dei lavoratori (al di là dei confini
nazionali, ma anche all'interno delle singole nazioni) ricorrendo
esclusivamente ad argomenti poggianti sull'interesse. Mentre al
tempo di Marx e di Engels l'illustrazione degli interessi dei
lavoratori bastava a convincerli della necessità del socialismo e
dell'internazionalismo, oggi questo non è più pensabile. E se
allora gli argomenti morali avevano un carattere utopico - quando
non erano al servizio della perpetuazione del sistema sociale
costituito -, oggi gli argomenti morali sono diventati pressoché
indispensabili per la fondazione del socialismo. Per questa
ragione anche il ruolo, all'interno del movimento operaio, dei
cristiani impegnati nella rivoluzione sociale, è destinato in
futuro a crescere. Per costoro, l'esigenza di una solidarietà
fraterna non rappresenta semplicemente un modo di dare espressione
a interessi oggettivi ma anche, al contempo, un imperativo
cristiano.
D'altra parte se oggi, a poco a poco ma sempre più chiaramente,
emerge il ruolo degli argomenti e dei moventi di ordine morale,
ciò non significa necessariamente una rottura con la tradizione.
Da lungo tempo, anche se inconsci e nascosti dall'ideologia
materialistica del tempo, impulsi morali erano all'opera nel
movimento operaio. Numerosi intellettuali di famiglie borghesi
hanno aderito al movimento operaio per ragioni di questa specie,
anche se ritenevano sconveniente riflettere sulle proprie
motivazioni. Marx, Engels, O. Bauer, Lenin provenivano tutti dalla
borghesia e avrebbero senz'alcun dubbio potuto costruirsi una
carriera anche all'interno della propria classe. Essi optarono per
il movimento operaio perché avvertivano la necessità di un
mutamento sociale; e avvertivano tale necessità perché li muoveva
a sdegno la miseria di massa nel capitalismo industriale. Questo,
almeno, era il punto di partenza del loro impegno; in seguito, le
loro riflessioni teoretiche non conservavano più alcun legame
diretto con queste motivazioni. Marx condannava il socialismo
moralistico non perché fosse morale, ma perché non produceva altro
che una fraseologia sentimentale destinata, in quanto tale, a
rimanere senza conseguenza alcuna.
La necessità obiettiva della transizione al socialismo è oggi
ravvisabile - come abbiamo già accennato - nel fatto che la
dinamica cieca dell'anarchica produzione capitalistica conduce
negli Stati industrializzati alla distruzione della biosfera e nei
paesi in via di sviluppo alla miseria di massa. Obiettivamente, è
oggi interessato a questa transizione un numero d'uomini maggiore
di quanto sia mai accaduto in passato, ma la motivazione
soggettiva non è più suscitabile sollecitando in particolare una
presa di coscienza degli interessi di classe del proletariato
industriale. Per importante che sia tuttora la riflessione sul
carattere di merce della propria forza-lavoro, maggior rilievo
sembra avere la solidarietà, moralmente fondata, di tutti i
lavoratori e la preoccupazione per le generazioni future.
Già nel periodo classico del capitalismo, per il singolo
lavoratore che aderiva alle organizzazioni del movimento operaio
le motivazioni morali erano importanti. Proprio i futuri capi
provenienti dalla classe operaia avrebbero potuto altrettanto bene
far carriera - individualmente - nel quadro dell'ordinamento
sociale costituito anziché mettersi a lavorare in
un'organizzazione destinata a rimanere per lungo tempo
discriminata e sottopagata. Evidentemente, essi hanno anteposto
alla propria ascesa isolata e personale la solidarietà con la
classe e con la sua emancipazione futura. Naturalmente questo
esempio è un po' artificioso, e può anche darsi che la possibilità
obiettiva di un'ascesa individuale mancasse del tutto; rimane in
ogni caso il fatto che tali scelte erano reali.
Oggi comunque, quando le differenziazioni all'interno della
classe operaia e del ceto impiegatizio si sono fatte assai più
articolate, e l'illusione di avere opportunità di carriera si
nutre di possibilità effettive, è necessaria una motivazione
morale molto più forte per aderire a un movimento operaio che
promuova riforme radicali (o la rivoluzione). In paesi come gli
Stati Uniti, l'interesse economico privato sembra essere così
predominante - anche tra i sindacalisti - che difficilmente
motivazioni del genere potranno avere importanza. Ma in paesi come
l'Italia, nei quali la crescita dell'economia capitalistica
presenta difficoltà strutturali, le condizioni sono certamente
diverse. In questi paesi, affluiscono ai partiti rivoluzionari
persino elementi di origine piccolo-borghese e piccolocontadina.
Negli Stati industrialmente avanzati e relativamente prosperi,
come gli Stati Uniti e la Germania Federale, la mentalità centrata
sull'interesse economico privato è invece penetrata così
profondamente nello stesso movimento operaio che solo forti
contromotivazioni morali possono ricacciarla indietro. Non è
quindi un caso se un militante come E. Eppler, che trae la sua
ispirazione dal cristianesimo evangelico, si colloca all'ala
sinistra della socialdemocrazia tedesca.
Gli argomenti morali sono quelli che nel modo più diretto e
lampante conducono dalla prospettiva egoistica dell'uomo privato
(e del consumatore) verso la solidarietà con la società nel suo
insieme (e in particolare con i suoi membri più svantaggiati:
lavoratori stranieri, minorenni, malati di mente, pensionati,
ecc.). Poiché questi settori della popolazione sono quelli che
nello Stato assistenziale burocratico-capitalistico sopportano
sempre i pesi maggiori, e d'altra parte è loro negata la
possibilità di realizzare i propri interessi particolari, la
soluzione può venire soltanto da uno spirito di solidarietà, che
si ponga in consapevole conflitto con la dominante mentalità
capitalistica, egoisticamente rivolta all'interesse privato.
Ma gli argomenti morali - come abbiamo visto - giocano un ruolo
considerevole anche nel problema della politica dello sviluppo. In
una Terra che diventa sempre più piccola, anche gli abitanti dei
paesi più lontani sono diventati nostri vicini, in particolare se
consideriamo che il loro benessere e il loro disagio sono
determinati in misura non indifferente dal nostro sistema
economico. Sono stati i paesi industrializzati a imporre loro uno
sviluppo unilaterale, ed è perciò solo questione di giustizia
aiutarli oggi a superare questa unilateralità e a edificare un
ordinamento economico che risponda ai loro propri bisogni.
Quanto siano insufficienti, in questo campo, le considerazioni
centrate unicamente sulla politica e sui sistemi sociali, si può
forse dedurre dal modello dei rapporti esistenti tra gli Stati che
si definiscono socialisti. Anche se in questi Stati si continua a
parlare pubblicamente di aiuti reciproci disinteressati, ciò che
di fatto prevale è sempre l'interesse nazionale dei singoli Stati,
e specialmente quello del partner di volta in volta più forte. Di
fronte ai desiderata cinesi gli esperti sovietici argomentarono
nel modo seguente: ‟L'odierno tenore di vita della popolazione
sovietica è il frutto dell'accumulazione primitiva socialista, che
ai nostri popoli è costata molti sforzi, fatica e disagi. Perciò
non vediamo assolutamente perché dovremmo sentirci obbligati -
senza una contropartita adeguata - a innalzarvi al livello di
sviluppo da noi raggiunto". Ad argomenti analoghi potrebbero
naturalmente ricorrere anche gli Stati capitalistici. Pure la
Russia zarista, la cui eredità territoriale è stata raccolta quasi
interamente dall'Unione Sovietica, era un paese capitalistico, e
dallo sfruttamento coloniale dei suoi territori asiatici (e della
Cina) traeva sovraprofitti considerevoli. Sebbene questa
situazione vantaggiosa sia andata in parte perduta con la guerra
mondiale e la guerra civile, storicamente incontriamo qui una
‛colpa' analoga a quella della Germania, che è stata anch'essa
esclusa, dopo il 1918, dal novero delle potenze coloniali. Ora
l'Unione Sovietica non ha affatto rinunciato ai suoi territori
coloniali (che, nella valutazione di Lenin, costituivano ancora il
secondo complesso di territori coloniali dopo quello britannico).
La costruzione della federazione delle repubbliche sovietiche (con
il diritto teorico alla separazione) è servita a metterle tutte
saldamente sotto l'egemonia russa, senza che per questo si dovesse
rinunciare al preteso internazionalismo e alla pretesa distruzione
dell'impero zarista, prigione dei popoli.
Ma le motivazioni morali mi sembrano necessarie soprattutto perché
- almeno negli Stati industrializzati - occupano la scena, in
quanto soggetti attivi della formazione di movimenti socialisti
promotori di riforme radicali, piuttosto elementi provenienti
dall'intellettualità, dalla piccola borghesia e dalla manodopera
qualificata che non elementi provenienti da quei gruppi marginali
che oggi sopportano i pesi maggiori del sistema economico. Nè le
donne sottopagate nelle aziende nè i lavoratori stranieri nè gli
invalidi o i sofferenti di disturbi psichici possono - senza aiuto
e senza una guida - organizzare efficacemente la propria difesa
contro il sistema economico. Essi possono essere bensi alleati, ma
non soggetti del movimento politico.
Qualcosa del genere potrebbe dirsi del Terzo Mondo nei suoi
rapporti con le metropoli industrializzate. L'analogia tra il
rapporto Terzo Mondo-Stati industrializzati e quello classe
operaia-capitalisti nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico
non regge a una verifica. Con l'eccezione di poche materie prime,
che in effetti si trovano prevalentemente nel Terzo Mondo
(petrolio greggio - almeno sinora - e qualche altra), non si può
assolutamente parlare di una totale dipendenza delle nazioni
industrializzate dalle esportazioni del Terzo Mondo. Un embargo
sulle esportazioni, pertanto, non potrebbe avere le stesse
conseguenze di uno sciopero generale della classe operaia. Paesi
industrialmente avanzati e ricchi (come gli Stati Uniti, il
Canada, la Nuova Zelanda, l'Australia, ma anche la Francia)
possono per esempio esportare grandi quantità di generi alimentari
e di foraggio. Oltre a ciò, alcuni di essi dispongono di petrolio
greggio (Stati Uniti, Canada, Australia), oro, diamanti, cobalto,
cotone, ecc. I più moderni metodi di estrazione consentono loro di
diventare concorrenti temibili dei paesi in via di sviluppo. Per
questa ragione non è possibile, in molti settori della produzione
di materie prime, la costituzione di un fronte unitario.
È vero che il superamento della dipendenza del Terzo Mondo dalle
metropoli capitalistiche è in qualche modo facilitato dalla
concorrenza che oppone queste ultime agli Stati comunisti ma,
dinanzi alla supremazia tecnologica degli Stati Uniti, del
Giappone e dell'Europa, ciò non è sufficiente. La via più sicura
sembra essere quella degli sforzi per superare la fase della
‛monocultura', la quale ha come effetto la totale dipendenza dalle
oscillazioni sul mercato mondiale dei prezzi di un solo prodotto
(o di pochi), e lo sviluppo di una produzione che riesca a coprire
il fabbisogno il più possibile con le forze interne. Su questa
strada, gli aiuti economici disinteressati, cosi come li ho
caratterizzati sopra, posso no arrecare un aiuto considerevole e
accelerare lo sviluppo. Ora, la concessione di tali aiuti
difficilmente potrà essere ottenuta unicamente dagli sforzi di
questi paesi, mentre pressioni adeguate potranno rendere
l'opinione pubblica consapevole della loro urgenza e daranno forza
alla voce degli uomini politici delle metropoli che si battono per
quest'obiettivo. Ma la motivazione di questi ultimi e dei loro
seguaci potrà essere data soltanto dall'imperativo morale della
solidarietà internazionale: dall'aspirazione cioè a una condizione
di benessere internazionale che vada al di là della semplice
assenza di guerra.
8. Socialismo e pace mondiale
Già Kant faceva risalire la guerra al conflitto di interessi
particolari. In verità, egli aveva in mente unicamente i signori
feudali e assolutisti, e credeva che con l'introduzione della
democrazia in tutto il mondo si sarebbe potuta instaurare la ‛pace
perpetua'. Va però detto che Kant riteneva estremamente lunga e
per nulla certa una siffatta evoluzione verso la pace perpetua. La
storia ha poi dimostrato come anche le democrazie siano
perfettamente capaci di condurre guerre sanguinose: è infatti
possibile, eccitandone i sentimenti, fornire motivazioni adeguate
agli eserciti popolari e, d'altra parte, non sempre il popolo
giudica in modo razionale e illuminato dei suoi interessi reali.
Il nazionalismo ha reso possibile il collegamento tra democrazia e
guerra, riuscendo con successo a mascherare gli interessi
effettivi - di minoranze - che stanno dietro alle guerre
offensive. Da ciò si è frettolosamente concluso che le democrazie
sono di necessità bellicose e, dal fatto che le guerre degli
eserciti nazionali moderni (dalla levée en masse di Napoleone)
sono di solito notevolmente più sanguinose delle guerre dinastiche
condotte dai principi assolutistici, si è tratto un ulteriore
argomento contro la democrazia. In realtà, la pace è naufragata
sullo scoglio non già della democrazia, ma di una democrazia
imperfetta e disinformata. Se si fosse avuta un'effettiva
informazione dell'opinione pubblica e una concreta discussione
degli interessi della maggioranza della popolazione, difficilmente
governi sottoposti al consenso popolare sarebbero stati in grado
di scatenare guerre.
La critica socialista alla democrazia non mira alla sua
abolizione, ma alla sua attuazione concreta. Essa si sforza cioè
di demolire gli influssi diretti e indiretti che rappresentanti di
interessi particolari (specialmente la lobby degli armamenti ed
eventualmente delle alte sfere militari) esercitano sul governo e
sul parlamento o, almeno, di assoggettare tali influssi a
controllo. È legittimo chiedersi se ciò sia in genere possibile
senza una socializzazione della produzione degli armamenti. Oltre
a ciò, i socialisti (sin dal piano di Jean Jaurès per una armée
nouvelle) hanno sempre propugnato la costituzione di una milizia
popolare, cioè di un esercito che sia costituito dalla totalità
dei cittadini abili alle armi e che, già per questa ragione, non
tolleri di essere adoperato per scopi di repressione politica
all'interno. D'altra parte, una milizia siffatta costituirebbe
anche per gli Stati vicini una certa garanzia che non si
intraprenderebbero guerre offensive. In tempi recentissimi,
teorici che s'ispirano alle dottrine del Mahatma Gandhi e di altri
difensori della civil disobedience o della passive resistance
hanno ulteriormente elaborato l'idea di una milizia popolare
socialista. Per garantirsi da un attacco di sorpresa dall'esterno
basterebbe addestrare il popolo ai metodi della difesa civile; si
otterrebbe per questa via il risultato di eliminare completamente
la minaccia dei vicini e di svolgere così una notevole funzione
protettiva, in quanto ogni potenziale aggressore sa in anticipo
che dovrebbe fare i conti con una resistenza sotto forma di
guerriglia partigiana.
Di importanza decisiva è il fatto che, con la liquidazione degli
interessi particolari (di singoli settori dell'industria, come
l'industria degli armamenti, ma anche, in certe circostanze, di
settori interessati a certi territori oltremare o desiderosi di
garantire i propri investimenti oltremare), i possibili motivi di
una guerra offensiva vengono a cadere. Con l'estensione del
socialismo nel mondo le guerre tra Stati scomparirebbero
automaticamente. I conflitti d'interesse tra i popoli, infatti, si
verificano solo finché è possibile che all'interno dei singoli
Stati risultino preponderanti gli interessi di minoranze: già nel
Manifesto comunista del 1848 si diceva: ‟Con l'antagonismo delle
classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di
reciproca ostilità fra le nazioni" (v. Marx-Engels, 1848). È vero
che anche questa prognosi sembra ormai essere stata confutata
dalla storia, al pari di quella di Kant, che fu ripresa da W.
Wilson nel 1917 e rinnovata da F. D. Roosevelt nel 1944. Neppure
il socialismo ha portato la pace mondiale, e neppure la ‛patria
del socialismo', come l'Unione Sovietica orgogliosamente si
chiamava, ha rinunciato alle guerre offensive: la guerra
finno-sovietica ha rappresentato la prima deviazione dalla regola,
e in seguito gli interventi in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia
(1968), come anche i numerosi e sanguinosi incidenti di frontiera
sull'Ussuri hanno mostrato - anche ammettendo che i vari casi
richiedano analisi diverse - che l'Unione Sovietica è
perfettamente capace di azioni militari aggressive.
Ma la realtà delle guerre condotte dagli Stati democratici può
tanto poco confutare l'importanza della democrazia per garantire
la pace, quanto scarsa è la forza probatoria degli esempi
summenzionati. È vero che nell'Unione Sovietica non esistono
interessi commerciali legati agli armamenti; esiste però
un'oligarchia dominante, la quale s'identifica con l'influsso
militare e politico dell'Unione Sovietica su scala mondiale, e
sente inoltre se stessa - come da sempre ogni governo di una
grande potenza - quale garante della pace mondiale. Ma un simile
sentimento non può essere altro che una sincera autoillusione
ideologica o una maschera cinica. Se abbiamo poc'anzi criticato la
democrazia bellicosa e nazionalistica per la sua ingiustizia
sociale e per l'influsso che interessi particolari esercitano
sulla formazione della volontà politica, dobbiamo ora rivolgere la
nostra censura al socialismo burocratico per l'insufficiente
democraticità delle sue fondamenta.
Il socialismo potrebbe essere bensì la base e il garante di
un ordinamento mondiale pacifico, ma soltanto se fosse strutturato
democraticamente. Una società nella quale non vi fossero più
conflitti di classe e interessi privilegiati di minoranze, e vi
fosse invece un'efficiente democrazia con libere elezioni e libero
accesso alle candidature, con libere discussioni di orientamenti e
progetti politici diversi, con una libera stampa e un'informazione
radiotelevisiva ampia e obiettiva: una società siffatta sarebbe
certamente la custode della pace e dell'amicizia tra i popoli. A
essa basterebbe - sino a quando continuassero a sussistere Stati
potenzialmente aggressori - una milizia popolare dotata di
armamenti sufficienti per infliggere a qualsiasi nemico, in caso
di attacco di sorpresa, perdite tali da fargli ritenere saggio
rinunciare all'intervento. E questa società non avrebbe bisogno di
armi offensive (so bene che questa distinzione è diventata oggi
tecnologicamente obsoleta, ma una milizia popolare farebbe
comunque a meno di ogni specie di armi pesanti; prescindo qui
dalla possibilità di una distruzione reciproca in seguito all'uso
delle armi nucleari, le quali accrescono ulteriormente
l'irrazionalità della corsa agli armamenti e si prestano
eccellentemente a legittimare gli immensi sforzi compiuti per
mantenere o - il più delle volte - per restaurare un ‛equilibrio'
che si presuma alterato): l'irradiazione, su scala mondiale,
dell'influsso che eserciterebbe un simile paese (certamente
contrassegnato da un grado altissimo di prosperità) costituirebbe
il suo più efficace strumento politico.
9. Conclusione
Non sempre le prospettive ultime implicite in una politica
socialista sono presenti a tutti gli uomini politici socialisti (e
socialdemocratici), né tutti le hanno ben chiare in mente. È da
esse soltanto, tuttavia, che le fatiche dei riformisti come le
aspirazioni dei rivoluzionari possono trarre il proprio
significato, che è quello di fare della Terra un luogo in cui i
cittadini degli Stati - e gli Stati stessi - possano vivere in
pace, in cui non ci sia né sfruttamento né dominio, e in cui,
infine, ciascuno possa - con l'aiuto di tutti gli altri -
sviluppare onnilateralmente le proprie disposizioni naturali e
ricavar piacere dalle proprie occupazioni. L'immagine di questa
società futura e degli uomini che in essa vivranno emancipati è
come un mosaico composto di un'infinità di tessere. I socialisti
non credono ch'essa possa essere tradotta in realtà ‛d'un colpo' e
le deformazioni degli Stati a socialismo burocratico li hanno
confermati in questa convinzione. Là dove urge la miseria, bisogna
dapprima fare rotta verso mete meno auguste. Sempre - però - si
dovrà aver cura di mantenere aperta la strada verso ulteriori
riforme, di impedire la formazione di una nuova oligarchia (sia
essa reclutata su basi economiche o su basi politiche e
ideologiche) e, infine, di preservare la possibilità di ritornare
sugli errori compiuti per correggerli.
Contro la pretesa all'infallibilità, che caratterizza parecchie
élites comuniste, bisogna sempre ricordare le profetiche parole
che Marx scriveva nel 1852: ‟Le rivoluzioni borghesi, come quelle
del secolo decimottavo, passano tempestosamente di successo in
successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro
[...]. Ma hanno vita effimera, presto raggiungono il punto
culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della
società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei
risultati del suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni
proletarie, invece, quelle del secolo decimonono, criticano
continuamente se stesse; interrompono a ogni istante il loro
proprio corso; ritornano su ciò che sembrava già cosa compiuta per
ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza
riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei
loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo
perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo
più formidabile di fronte a esse; si ritraggono continuamente,
spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a
che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno
indietro e le circostanze stesse gridano Hic Rhodus, hic salta!
Qui è la rosa, qui devi ballare!" (v. Marx, 1852; tr. it., pp.
491-492).
Il socialismo riformista può essere una strada verso quella
difficile, lunga e complicata rivoluzione che Marx aveva in mente.
Non è di certo, comunque, un vicolo cieco nel quale il processo di
emancipazione sia condannato ad arrestarsi